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Kharanne
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Kharanne

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About this ebook

Durante un ricevimento presso la villa di Alexander e Alexis Mircea, fratello e sorella dal fascino particolare e dallo sguardo tanto magnetico quanto spaventoso, Aryn – il protagonista – e il suo amico Diomede, si trovano intrappolati dall’inquietante segreto che i padroni di casa nascondono. Il gioco di seduzione che la bella Alexis intraprende con Aryn, assieme al malessere che d’improvviso coglie Diomede, non sono un tipico e comune scenario da festa, bensì la genesi dell’incubo. La decisione di lasciare l’amico privo di sensi a riposare nelle stanze di villa Mircea si rivolta contro Aryn nel momento in cui Alexis, vittima di un’ansia apparente, gli comunica che non c’è più traccia di Diomede, aggiungendo che tutti gli indizi conducono a una sparizione misteriosa e irrazionale. In un primo momento pensano che, risvegliatosi in un ambiente sconosciuto, Diomede si sia avventurato all’esterno in cerca qualche dell’amico, ma di lui non c’è traccia. Aryn e Alexis iniziano le ricerche nei pericolosi boschi alle pendici delle montagne di Satu Mare, in Romania. Le circostanze portano Aryn a passare la notte con Alexis, ma nell’esplorare la casa addormentata, uno spettacolo raccapricciante si presenterà davanti ai suoi occhi: Diomede crocifisso nello scantinato dei Mircea. Liberatolo, riesce a portarlo all’ospedale, dove il dottor Bekshiu gli racconta l’avvincente storia di quella famiglia e dei Morovis: esseri umani di una categoria superiore, una categoria molto speciale, mangiatori di ipofisi, dalla cui reale esistenza le primitive popolazioni del luogo hanno creato la leggenda dei vampiri. All’inizio Aryn rimarrà fermo nel suo scetticismo, perfino l’idea di essere in pericolo ovunque si fosse diretto gli appare come una farneticazione delirante. Nonostante la preoccupazione per l’amico, l’indecisione in merito alle parole del dottor Bekshiu e il pensiero di Alexis fisso nello stomaco, Aryn resta affascinato dall’umanità e dall’amore emanati da Kharanne, l’infermiera che li assiste durante la convalescenza di Diomede in ospedale.
Tuttavia un episodio lo fa ricredere: un’aggressione da parte di Alexis nel cuore della notte. Il racconto di Bekshiu assume le sembianze della realtà e l’incubo prende vita.
Aryn e Diomede decidono di partire, di fuggire da quella terra popolata da creature ostili, e Kharanne decide di accompagnarli verso la loro destinazione: la Grecia, dove abita la madre di Diomede. Inizia un viaggio attraverso i Paesi dell’Est scandito dalla persecuzione sia fisica sia mentale che Alexis esercita su Aryn, ma il dramma raggiunge i vertici quando, durante una sosta in una stazione di servizio, il protagonista viene aggredito e contagiato da Alexander. Aryn si ritrova catapultato in un universo popolato da sete di sangue, capacità sensoriali ipersviluppate, paura di far del male alle persone che ama ma, quando gli sembra di aver acquisito un controllo sufficiente sulla sua nuova identità, un evento inaspettato dà un ulteriore scossone alla sua esistenza, facendogli oltrepassare il confine che demarca la felicità, l’accettazione di sé stessi e la disperazione, fino a un finale davvero imprevedibile.

LanguageItaliano
Release dateMar 4, 2011
ISBN9788897268079
Kharanne
Author

Arcangelo Tangorra

Arcangelo Tangorra è nato a Torino nel 1969 e tutt’oggi vive e lavora nel capoluogo piemontese. Nel 2008 ha pubblicato un suo racconto nella raccolta Nero a Tre Carati in formato ebook. Nel 2009 ha pubblicato un suo racconto nella raccolta Tre Passi nel Buio, Cinquemarzo Editore. Con Kharanne è al suo primo romanzo.

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    Kharanne - Arcangelo Tangorra

    Arcangelo Tangorra

    Arcangelo Tangorra è nato a Torino nel 1969 e tutt’oggi vive e lavora nel capoluogo piemontese. Nel 2008 ha pubblicato un suo racconto nella raccolta Nero a Tre Carati in formato ebook. Nel 2009 ha pubblicato un suo racconto nella raccolta Tre Passi nel Buio, Cinquemarzo Editore. Con Kharanne è al suo primo romanzo.

    arktangorra@gmail.com

    http://www.arcangelotangorra.com/

    Seguilo su:

    Se vuoi davvero qualcosa, troverai una strada;

    se non la vuoi davvero, troverai una scusa

    Prefazione

    Imparare a leggere, per me, è stato un po’ come nascere una seconda volta.

    La realtà, bella o brutta che fosse, era un qualcosa di indipendente da me, mentre coi libri potevo scegliere: decidere che avventura vivere, quale paese visitare, perfino chi essere.

    Negli anni mi è capitato di leggere davvero di tutto e di più, ma quando mi è capitato fra le mani il Kharanne l’ho divorato. Non riuscivo a schiodare gli occhi dalla pagina e, in una notte, era già finito.

    Innanzitutto sono rimasta molto colpita dalla fantasia e dai dettagli tecnici. Nulla di scontato, un incredibile susseguirsi di colpi di scena senza mai uno scivolone nella banalità tipica di molti romanzi horror. Ogni cosa ha una spiegazione più che logica, nessuna possibilità di contestazione da quanto, nel mito, è verosimile.

    Non riesce ad annoiare nemmeno con le descrizioni tecniche riguardanti la medicina e l’anatomia.

    La caratterizzazione psicologica dei personaggi è un capolavoro: ti catapulta nelle loro menti e ti ritrovi nella storia, faccia a faccia con l’orrore e la mitologia.

    Insomma, non c’è che dire: sono persone, non personaggi.

    Lo stile è una piccola perla di equilibrio narrativo: non troppo discorsivo ma neanche troppo incisivo, una tortura lenta e dolorosa. Ti incolla alla pagina parola dopo parola.

    Nonostante le mie letture spazino dal thriller più cruento alla più smielata storia d’amore, dal noto scrittore americano alla scrittrice esordiente dello Sri Lanka, è la prima volta che mi ritrovo di fronte a qualcosa del genere.

    Ormai l’originalità, sia creativa che stilistica, è un animale in via d’estinzione, eppure capita ancora di scovare specie sconosciute: questo è il Kharanne!

    Davvero d’impatto la resa della persecuzione, ma non aggiungo altro, non sarebbe carino rovinare la sorpresa. Spero solo che il giorno della pubblicazione giunga presto, sarò felice di avere fra le mani una copia cartacea!

    Emily Guastini e Vera Marte

    Responsabili Ufficio Stampa Darking Brain

    Introduzione

    Sono quasi le quattro del mattino mentre comincio a scriverti queste poche righe per presentarti il libro che hai tra le mani. La prima cosa che devo dirti è che si tratta di un piccolo miracolo, come del resto si può dire lo stesso di ogni libro, senza discriminazione alcuna di generi, autore, trama.

    Il Kharanne, nel suo svolgimento, segue diversi percorsi senza distaccarsi mai dalla sua natura. È una storia cruda, toccante, d’amore, di sangue e di morte. Ma è anche una storia di vita oltre la morte. Oltre e non dopo. Lo scopo è quello di pizzicarti dentro, di coinvolgerti, di prenderti per mano, se possibile, e farti viaggiare in automobile con le braccia tese sul volante, le dita che lo stringono, il cuore che accelera e il respiro che si accorcia.

    Non ti parlerò di vampiri, eppure te ne parlerò. Non ti racconterò di quello strano soffio che ogni tanto ti sembra sibilare sotto il tuo letto, eppure te ne accennerò. Non verrò a cercare le tue paure per usarle contro di te.

    No.

    Verrò a cercare te.

    E ti verrò a cercare per raccontarti questa storia così come è nata, senza la pretesa di toglierti il sonno né quella di conciliartelo. Perché il Kharanne, in fondo, è solo una panoramica su quella che è la natura umana e su quella che è la natura selvaggia, indomabile, ignota.

    Però, per questo motivo, se soffri di vertigini non sporgerti, se sei claustrofobico evita i luoghi chiusi, se hai paura dei fantasmi dormi con la luce accesa (nel buio, si sa, qualcosa c’è sempre).

    E se hai paura di me, di quello che ho scritto, di quello che potresti leggere... In questo caso affrontala, perché potresti sbagliarti.

    Potrebbe non esserci nulla di cui avere paura.

    Ho detto potrebbe.

    Puoi in ogni caso concedermi una possibilità. Quella possibilità che ci sia anche altro, oltre la paura. Quella possibilità che questo libro non sia simile ad altri che hai letto. Quella possibilità che possa trattarsi davvero di qualcosa che riesca a entrarti un po’ nel cuore.

    Il che, in fondo, è tutto quello che desidero. Per cui, se sei disposto a condividere con me qualche minuto del tuo tempo, qualche secondo delle tue sensazioni, qualche frammento delle tue emozioni, gira la pagina e vieni con me... devo presentarti un po’ di amici.

    Arcangelo Tangorra

    Qualunque scelta farai nella vita,

    sarò costantemente orgoglioso del tuo buon cuore

    e della tua intelligenza.

    Non permettere MAI che il primo si inaridisca

    né che la seconda si assopisca,

    e sarai meravigliosa sempre,

    così come lo sei oggi,

    in una forma di eterna innocenza.

    Papà.

    Premessa

    Questa sera ho freddo, e non ci sono abituato.

    Non ho mai patito il freddo, anzi, a dirti la verità, non l’ho mai conosciuto, prima d’ora. Non è una sensazione piacevole eppure, questo brivido leggero che sento scorrere dentro, mi fa sentire vivo.

    Per la prima volta.

    Non ho mangiato, non ne avevo voglia. Volevo stare un po’ solo con te, a parlare e null’altro.

    Come vedi, mi sono preso il tempo necessario.

    La sera è appena cominciata, e la notte davanti a noi è lunga.

    E intensa.

    Non ricordo con precisione quando tutto ebbe inizio, sono passati tanti anni, ma i momenti in cui cominciai a capire cosa ero diventato in realtà segnarono l’inizio di cambiamenti così radicali che nulla, nella mia vita e in quella delle persone che avevo intorno, avrebbe mai più potuto essere come prima.

    Ma ora è tempo che tu conosca gli avvenimenti con esattezza; è un debito che ho anche con me stesso.

    I

    Era una piacevole sera di fine agosto, l’aria si era fatta più fresca e i vestiti restavano addosso senza incollarsi sulla pelle. C’erano tante persone nel giardino della villa, e tutti sembravano essere molto allegri, nonostante l’estate stesse volgendo al termine e presto l’autunno avrebbe portato i primi freddi nei suoi malinconici ma meravigliosi colori.

    Immagino di non averti mai detto che l’autunno è la mia stagione preferita; adoro guardare la vita addormentarsi in quello che mi circonda, perché il sonno che segue è vera pace e tutto non è morto, ma è in attesa della primavera.

    E fu quella sera, appunto, che iniziai a guardare il mondo con occhi diversi. Spiegartelo adesso, a distanza di tanto tempo, tante esperienze e tanti chilometri, non può rendere giustizia alle cose per come sono accadute, ma può darti almeno una vaga idea di quanto la natura possa essere sia benevola che ostile o, perlomeno, di quanto sia dotata di un seppur macabro senso dello humor.

    Non ho mai capito se si trattasse di una festa a invito, o se l’accesso fosse libero a tutti; io venni invitato da un ragazzo conosciuto poche ore prima al lobby bar dell’hotel, a Satu Mare.

    Si trattava di un italiano che mi disse di non essere in ferie in quella regione, ma di passaggio, e che la sua meta finale era la Grecia, dove viveva sua madre. Nei pochi giorni che si era fermato in quella zona, aveva conosciuto alcune persone del luogo che lo avevano invitato nella loro tenuta di campagna e gli avevano detto che avrebbe potuto portare chi desiderava a quella che, per loro, era la festa di fine estate.

    A proposito di tali persone, non seppe o non volle essere più preciso. Oggi potrei dirti che non volle. Ma ancora adesso qualsiasi certezza sfuma.

    Se ora dovessi ripensarci con cuore puro, potrei dirti che forse mi invitò perché aveva un po’ di timore a presentarsi da solo; forse cercava un complice per la serata e non un amico con cui condividere qualcosa.

    Mi piace poter credere di essere ancora puro. Di poter avere ancora pensieri innocenti. Quindi cercherò di parlarti con quella purezza che mi è stata stuprata, ma alla quale non riesco a rinunciare.

    Posso dirti che sembrò sollevato quando gli confermai la mia presenza. Io ero tranquillo, a mio agio, sebbene dovessi entrare in una casa di perfetti sconosciuti, per giunta in compagnia di una persona che avevo incontrato solo qualche ora prima.

    (Anche le orchidee marciscono, amore mio!)

    Quella sera, dal momento in cui varcammo l’alto cancello in ferro battuto, non passarono che dieci minuti e Dio scomparve dalla mia vista.

    In realtà si chiamava Diomede. Un nome scomodo da portare, ma sua madre era appassionata di mitologia greca.

    Dio era il diminutivo che aveva da sempre.

    Era alto, di corporatura sportiva, biondo e con occhi più azzurri del punto in cui cielo e mare si confondono.

    Lo spazio messo a disposizione degli ospiti era un cortile ben illuminato da torce alte circa un metro.

    Un ricco buffet padroneggiava la scena.

    Dietro al buffet c’era un piccolo palco sul quale un’orchestrina di cinque elementi suonava piacevoli melodie. Tutto l’ambiente era delimitato da aiuole curate nei minimi dettagli, e senza punti bui, tranne una minuscola collinetta, alta non più di tre metri, sulla quale c’era una panchina di legno che guardava verso le montagne, seminascosta nel morbido abbraccio di un salice piangente.

    Sulle prime pensai che Dio avesse avuto necessità di andare in bagno, e feci l’errore di non preoccuparmi per la sua assenza.

    Non mi allarmai nemmeno quando fu trascorsa una buona mezz’ora. In fondo non lo conoscevo: poteva benissimo aver abbandonato la festa senza prendersi cura di avvertirmi. Magari in compagnia di una bella ragazza.

    Quando mi accorsi che le cose non erano semplici come pensavo, era già troppo tardi.

    Notai che, negli occhi di alcuni presenti, brillava una luce molto particolare; intensa, per l’esattezza. Poteva essere un effetto ottico dovuto alla posizione del mio punto di osservazione, alimentato dal riflesso delle torce. Era solo una scintilla, molto curiosa se vuoi, non gli avrei dato importanza se non fosse stato per la singolare coincidenza che quelle stelline pungenti si affacciavano ingorde dallo sguardo di diverse persone.

    Subito dopo notai che quelli che avevano la notte sfavillante negli occhi non parlavano tra di loro; ognuno aveva attorno a sé un piccolo gruppo con il quale conversava in una maniera che potrei definire seducente. E questo gioco di ammaliamento esercitava lo stesso fascino ipnotico sia sugli uomini che sulle donne, fra coloro che invece non avevano questa caratteristica.

    Ero un po’ in disparte, ma il brusio che mi giungeva, nonostante la musica dell’orchestrina, mi svelava la presenza di diverse lingue. Di certo sentii parlare inglese da un uomo dalla risata fastidiosa, tedesco da una donna avanti con gli anni, e credo francese da una ragazza che, di elegante e piacevole, aveva solo l’accento.

    Mi avvicinai al buffet con la scusa di servirmi della slivovitza per osservare meglio l’ambiente.

    Giunto al tavolo imbandito, presi un bicchierino pulito, e me ne versai tre dita. Mi voltai mentre portavo alla bocca il bicchiere.

    Fu allora che la notai.

    Sarà stato il riflesso del fuoco delle torce, che giocava sulla sua pelle bianca, o il suo modo danzante di avanzare, che mi richiamò alla mente, forse per una forma distorta di associazione di idee, la morte del cigno di Chajkovskij.

    Penso che fu quel suo sguardo che mi trapassava l’anima a farmi sentire subito ebbro di desiderio.

    Avrei ucciso, per lei. O l’avrei uccisa per farla mia.

    Fu il pensiero di un secondo. Anzi, fu meno di un pensiero

    - Tu devi essere l’amico di Dio! - cantò verso di me quella sirena di terra, con un inconfondibile accento dell’est, ma in un inglese fluido e piacevole, in perfetta armonia con la sua figura.

    - Già. - risposi, imbarazzato.

    - Beh, - aggiunse ridacchiando - essere amici di Dio ha sicuramente dei vantaggi!

    - Come scusi? - balbettai, non cogliendo l’ironia.

    - Sì, dei vantaggi come, per esempio, l’assoluzione immediata dai peccati, senza dover passare attraverso un prete. A questo punto, era chiaro che si stava prendendo gioco di me, come solo una donna sa fare.

    - Perdonami, stavo solo giocando un po’. Ti ho visto in disparte e sono venuta a controllare che non ti stessi annoiando. Io sono Alexis Mircea, la padrona di casa, oltre che di queste terre.

    - Allora non è solo un piacere, ma un onore conoscerla. Mi chiamo Aryn. Arbold Aryn of Grubal, amico di Dio, postilla che dovrò aggiungere al mio biglietto da visita.

    - Un nome importante - nicchiò, con la consueta ombra mista tra seduzione e giocosa ironia.

    - Di importante è rimasto solo il nome. Discendo da una famiglia di nobili, il cui titolo si è perso nelle polveri del tempo. Quello che resta della mia famiglia di origine, è una più che decorosa tenuta in Scozia, a Montrose, e un vecchio stemma posto sul camino nel salone.

    - Ti sono rimasti anche i modi e l’aspetto. Ma dammi del tu, odio queste stupide formalità.

    La guardai annuendo, lasciandomi trafiggere dalla luce dei due carboni ardenti che aveva nello sguardo, identici nel bagliore e nel calore a quelli che riscaldavano le notti dei freddi e cristallini inverni nella mia abitazione.

    Non era bella: era incantevole.

    I capelli, neri e ondulati, arrivavano ad accarezzarle la parte finale della schiena, in netto contrasto con la pelle bianca e liscia come la superficie di un ghiacciaio eterno. Era come se avessi, davanti a me, i boschi infiniti e innevati dei Carpazi, quando nel cielo brilla, accecante, la luna piena.

    Lei, di lune, ne aveva due, e tanto abbaglianti da non poter definire con esattezza il colore reale dei suoi occhi, che, di tanto in tanto, socchiudeva.

    Fu solo quando si congedò che mi accorsi di essermi dimenticato di Dio, ma anche allora non diedi peso alla cosa.

    Ero concentrato su Alexis.

    L’unico pensiero tangibile fu che avevo incontrato il mio recente amico al lobby bar dell’hotel, e che lì, di certo, ci saremmo rivisti il giorno seguente.

    Sollevai di nuovo il bicchiere e, insieme a esso, lo sguardo. Diressi la mia attenzione verso il salice piangente, sotto il quale intuivo la presenza di Alexis. Fu allora che intravidi qualcosa ai piedi della panchina. Era qualcosa che mi appariva informe e dai movimenti così lenti da essere quasi impercettibili. Sentii un lamento provenire da quella sagoma, miscelato al sottofondo musicale. Incuriosito, ma anche un po’ allarmato, mi affrettai a vedere di cosa si trattasse.

    Dio giaceva prono, la gamba destra piegata di lato, la sinistra dritta, le braccia allargate all’altezza delle spalle, le mani strette in due pugni d’erba, la fronte appoggiata sul ferro del piede della panchina, la bocca che masticava la terra.

    Accanto a lui c’era una pozza giallognola di materiale gastrico.

    - Dio è ubriaco. Pessimo esempio per i credenti! - pensai, senza rendermi conto di non averlo mai visto nei pressi del buffet.

    Lo girai su se stesso, e ne cercai il respiro, pronto a procedere, se necessario, con la respirazione artificiale.

    Respirava. Il respiro era un po’ debole, forse, ma c’era. Ed era sì fetido, ma non c’era sentore di alcool. Il battito, che rilevai con indice e medio sul collo, era regolare.

    Dio era vivo.

    Le mie scarse conoscenze di primo intervento mi bastarono per rassicurarmi sulle sue condizioni di salute. Per me quella era una sbronza, nonostante l’assenza dell’odore caratteristico, quindi mi convinsi che l’unica cura necessaria fosse una bella dormita. Dopo averlo posizionato su un lato, gli aprii la bocca con il pollice e il medio della mano sinistra, e ne cavai fuori con l’indice della destra tutta la terra che potei, facendo attenzione a non causargli dei nuovi conati di vomito.

    Quello che ne fuoriuscì fu un impasto giallo e marrone, viscido e per nulla gradevole al tatto.

    Gli slacciai le scarpe, la cintura, i pantaloni; gli aprii la camicia e vidi il suo petto alzarsi in un profondo respiro.

    L’aria frizzante lo sferzò, sollevandogli la pelle e irrigidendogli i capezzoli. Fu a quel punto che riprese conoscenza con un paio di colpi di tosse.

    - Dove sono? - biascicò.

    - Nel giardino della tenuta di Alexis Mircea. Cerca di metterti seduto. Ti aiuto io.

    - Sì. E tu chi sei?

    Si era dimenticato di me.

    Dio si era dimenticato di me!

    - Non mi riconosci? Sono Aryn, siamo venuti qui insieme.

    - Non ricordo… Ma mi fa male la testa. E il petto.

    - Va bene. Proviamo a metterci sulla panchina.

    Mi inginocchiai e gli passai un braccio intorno alla vita, per aiutarlo a spostarsi.

    I pantaloni, sbottonati e liberati da prima dalla presa della cintura, scivolarono verso il basso, quel tanto che bastava per doverglieli prendere e risistemare. Fu così che mi accorsi che non portava mutande, e che il prepuzio era bagnato. Anche a questo non diedi peso; l’umidità della notte e l’eccesso d’alcool potevano avergli giocato uno scherzo di cattivo gusto.

    Si abbandonò sulla panchina mentre sopraggiungeva Alexis.

    - Aryn! Che è successo? Dio sta male?

    - Suppongo abbia bevuto troppo e questo è il risultato.

    - Dio? Riesci a sentirmi? - sussurrò Alexis, curvandosi come un fusto di bambù in direzione del suo viso.

    Dio annuì senza emettere un suono, con lo sguardo rivolto verso il basso, le spalle in avanti, i gomiti sulle ginocchia, le mani a reggersi la fronte.

    - Come stai? Vuoi andare a casa o preferisci fermarti da me per questa notte?

    - Io… Non ricordo dov’è casa.

    - È in stato confusionale - intervenni - forse sarebbe meglio telefonare a un dottore, se ne conosci, o chiamare un’ambulanza.

    - Non credo sia il caso! - proruppe Alexis - Stanotte dormirà qui e, se domani non sarà migliorato, lo accompagnerò io stessa al

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