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Phantomatìk
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Phantomatìk

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About this ebook

La criminalità organizzata si sta rafforzando e i Servizi Segreti faticano a seguirne le tracce. Un misterioso giustiziere mascherato dalla forza sovrumana, nel frattempo, combatte una battaglia personale contro la malavita. Eroe o fuorilegge? È il dilemma che presto dovrà affrontare Miriam Piccoli, agente operativo dell'Intelligence il cui destino si intreccerà con quello del superuomo dall’identità sconosciuta. Intanto, la temuta banda criminale della Signora si prepara a colpire...
LanguageItaliano
Publishereditrice GDS
Release dateNov 24, 2018
ISBN9788867829026
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    Phantomatìk - Gianluca Agomeri

    Gianluca Agomeri

    Phantomatìk

    Gianluca Agomeri

    Phantomatìk

    Editrice GDS

    Via Pozzo 34

    20069 Vaprio d’Adda-Mi

    www.gdsedizioni.it

    TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI

    Ogni riferimento descritto nella seguente opera a cose, luoghi o persone è da ritenersi del tutto casuale.

    PROLOGO

    Pazzia, delirio. Uno spettro nella notte. Due spettri nella notte.

    Corro lontano, fuggo via. Urlo forte, ma dalla mia bocca non esce alcun suono. La gola mi brucia.

    I fantasmi della febbre mi inseguono. Io fuggo, ma non si può scappare dalla propria ombra.

    Pazzia. Il mio corpo trema, in preda alle convulsioni. Non lo controllo più. Ansimo.

    Corro, ma i miei piedi sono di piombo.

    Esplode una luce immensa e purissima, che mi avvolge nella sua tenebrosa oscurità. È giorno, è notte.

    No, no! grida una voce lontana, la sento appena. Sono io.

    Pazzia. Non c’è cura per la pazzia. La pazzia è la medicina che diventa malattia, è il male che diventa la cura.

    Corro, ma la Bestia è più veloce di me.

    Fuoco gelido. Mi divora, arde dentro di me. Ghiaccio che brucia il mio cuore. Sento freddo, le fiamme divampano nei miei polmoni, sto congelando.

    La mia anima rimpicciolisce, atomo primordiale da cui sgorga l’universo. Io sono il big bang, sono la Creazione. Io sono la vita, sono la morte. Muoio nascendo, nasco morendo.

    Io sono l’alba della sera, il tramonto del mattino.

    Mi sento debole, le forze mi abbandonano, la mia aurea fluisce via. La mia debolezza mi rende invincibile! Non esisto più. Io sono. Non sono. Sono.

    Follia.

    Urlo il mio nome, urlo senza voce. Non conosco il mio nome.

    Sparisco, il mio corpo è un gigante di pietra, un pulcino in fin di vita.

    Corro, ma la Bestia ringhia nelle mie orecchie.

    Resisto, resisto, resisto. Cedo.

    La Bestia è sopra di me. Mi squarcia il petto con le sue zanne affilate e immerge il suo muso da lupo nelle mie viscere, brandelli del mio corpo spariscono nelle sue fauci insanguinate.

    Mio Dio, salvami!

    Io sono la Bestia. Mi cibo avidamente del mio cadavere, ingurgito le sue carni ancora calde. Mi nutro della mia morte, sono la Bestia!

    Il mio ruggito si sparge nel cielo. La vita scorre in me, sono la Bestia!

    I

    Anche stavolta abbiamo fatto il pieno di letame, capo! disse con non celato disprezzo l’agente De Carli mentre l’ultima delle auto della polizia partiva a sirene spente e lampeggianti accesi con un rumoroso, quanto inutile, stridio di pneumatici. Il mento infossato nel bavero del cappotto e un cappello di lana che copriva gran parte dei suoi riccioli castani, se ne stava ingobbito per trattenere un po’ di calore.

    L’alba era ancora lontana e, dopo un’intensa nottata di lavoro concitato, finalmente calò una quiete benedetta dai pochi che erano ancora sul posto.

    Già, altri sette. Di cui uno ridotto piuttosto male, direi. rispose Marcello Vanni. Alto funzionario dei Servizi Segreti, da anni lavorava dirigendo i suoi uomini da dietro una scrivania e mai avrebbe pensato di ritrovarsi sul campo alla veneranda età di sessantuno anni. Prese un fazzoletto di carta da un pacchetto semivuoto e si soffiò il naso con fragore, maledicendo l’umidità e il freddo di quella notte di novembre in cui, dopo essere stato sbattuto giù dal letto, si era ritrovato in un parcheggio vuoto di un supermercato in un quartiere popolare di Roma. Il tutto semplicemente per costatare la presenza di sei uomini legati come salami, ai quali si accompagnava un cadavere col collo torto in maniera innaturale, ma senza alcuna traccia del colpevole, neanche a cercarla col microscopio. Da quando episodi come questo si erano moltiplicati e i Servizi continuavano a brancolare nel buio, aveva dovuto, suo malgrado, abbandonare il comodo tepore del suo ufficio per mettere la sua esperienza al servizio dei suoi collaboratori più giovani. Senza grandi risultati, in verità.

    Ti riferisci a quell’orso di un metro e novanta col collo spezzato? Giuro che se non è stato Ercole in persona, io... riprese Mimmo De Carli.

    Lascia stare i giuramenti, non è stato Ercole. Certo che per immobilizzare quell’energumeno, mettergli un braccio intorno alla gola e piegare quel collo che sembrava un tronco di quercia, dovevano essere almeno in quattro. Pure grossi, direi.

    Invece era uno solo e pure piccolo, stando alla testimonianza degli altri sei sopravvissuti, che per essere vivi sono vivi, ma ci vorrà abbondante gesso per rimetterli in piedi. Da solo li ha stesi tutti e sette, è saltato addosso a quel disgraziato, reo di aver impugnato una pistola, gli ha preso la testa con le due mani e... crac!

    Hai ragione, è difficile da credere. commentò dubbioso Vanni. Corrisponde esattamente, però, a quanto hanno riportato le vittime (chiamiamole così) dei precedenti episodi. Un individuo di media statura, corporatura esile, vestito di nero dalla testa ai piedi, il volto mascherato. Nessun dettaglio in più, troppo fulminei i suoi attacchi per dare il tempo di osservarlo meglio. Dotato inoltre di una forza mostruosa. Da dove accidenti salta fuori?

    Demone dell’Inferno o angelo del Paradiso? Una delle due. rispose De Carli mentre si passava un dito sui baffi per togliere l’umidità accumulatasi.

    Faccio francamente fatica ad associarlo a un angelo.

    Devi però ammettere che ci sta risolvendo non poche grane.

    Per te forse. obiettò Vanni. A me sta venendo un’ulcera. E... E... S’interruppe restando appeso per qualche istante, prima di esplodere uno starnuto. Accidenti a lui!

    Due ore e mezzo passate nell’umidità notturna stavano facendo effetto.

    Cinquantadue criminali appartenenti a una delle più pericolose bande d’Italia consegnati su un piatto d’argento, legati, imbavagliati e pronti alla cella: mi sembra un buon servigio, non credi? osservò De Carli.

    Pronti alla cella, ma non prima di un passaggio obbligato all’ospedale. Tra quei cinquantadue, poi, ce ne sono cinque che mi sembravano più pronti per l’obitorio, per dirla tutta.

    Dettagli.

    A casa mia si chiama omicidio. Di criminali, feccia della società, ma pur sempre omicidio. sbottò Vanni rimproverando il collega.

    Troppi anni dietro una scrivania, sei diventato tenero.

    Io non... cercò di replicare Vanni, ma fu interrotto dalla suoneria del suo telefono cellulare. Non poté trattenere un gesto di sconforto quando vide apparire il nome di Cesare Ruggerio, il capo dei capi dell’Intelligence italiana. Buonase... No, nessuna novità... Sì, stessa dinamica, semp... Purtroppo nessun indizio, noi... Ci stiamo attivando per... Sì certo, ti terrò infor... Faremo del nostro meglio... No... Sì certo, finora non siamo stati all’altezza ma... Capisco... Ti prometto...

    Sembrava arrabbiato, sbaglio? commentò divertito De Carli quando l’altro ebbe riattaccato.

    Fammi mettere le mani in torno al collo di quel pupazzo mascherato e poi vedi che fine gli faccio fare io! sbottò Vanni, ingoiando una pasticca da una boccetta marrone. Mi farà venire l’ulcera, maledetto lui!

    Si diressero insieme alla macchina di De Carli, parcheggiata poco più in là, lasciando sul posto solo due tecnici in camice bianco incaricati di nascondere i segni di sangue prima che arrivasse gente e di trovare qualche traccia utile sull’asfalto illuminato dai lampioni, anche se era chiaro a tutti che non ne avrebbero trovate. Vanni si girò un’ultima volta, pensieroso, a osservare l’asfalto dove fino a poche ore prima giacevano sette criminali messi fuori combattimento; poi, tenendosi il cappello che copriva una testa su cui non restavano che pochi ciuffi di capelli grigi sui lati, aprì la portiera e si accomodò.

    Ricominciamo un’altra volta.

    L’agente Diego Foletti era una statua di gesso imperturbabile di fronte all’uomo che stava interrogando in una spoglia stanza dalle pareti bianche e senza finestre, nella quale non c’era nient’altro che un tavolo e due sedie. Una delle tre luci al neon si accendeva e si spegneva a intermittenza con un fastidioso ronzio, mettendo a dura prova i nervi.

    Di nuovo! Ho già risposto tre volte alle tue domande! protestò in italiano stentato l’individuo di fronte a lui, uno slavo dalla faccia scavata, con un occhio pesto e una mano ingessata.

    Voglio sentire le tue risposte un’altra volta. replicò con calma Foletti, con un sorriso beffardo sotto la barba lunga di quattro giorni. Capelli lunghi e mal pettinati, non aveva evidentemente molta cura di sé a eccezione degli abiti firmati, seppur mal stirati. Volto severo e occhi inquisitori, dava la perenne impressione di un cane da caccia pronto ad azzannare la preda. Dove avete nascosto le armi provenienti dalla Colombia?

    Alle sue spalle una piccola telecamera nera fissata al muro era pronta a registrare ogni singola parola ed espressione dell’uomo interrogato.

    Non ho idea di quali armi tu stia parlando, lo vuoi capire o no? rispose rabbiosamente lo slavo, facendo tintinnare le manette che gli tenevano bloccati piedi e mani.

    Dove avete trovato i fucili d’assalto che avevate ieri sera, allora?

    Li abbiamo comprati dal giocattolaio!

    L’interrogatorio proseguì tra domande apparentemente annoiate e risposte beffarde ed esasperate, ma ancora una volta Foletti non riuscì a ottenere nessuna informazione rilevante.

    Bene. Ricominciamo un’altra volta.

    Questa volta la monotonia dell’interrogatorio fu però rotta da una chiamata all’interfono.

    Sono Nadia, ho i risultati dei tracciamenti. disse la voce femminile dall’altra parte.

    Ok, portameli.

    Dalla porta alle spalle del detenuto entrò una donna sulla trentina con un fascicolo in mano. Passò a fianco dell’uomo incatenato mani e piedi che la squadrò con bramosia, con gli occhi che in un attimo passarono dai lineamenti delicati del profilo del volto e, seguendo la direzione dei capelli lunghi fino alle spalle, si soffermarono sulla linea del seno e dei fianchi snelli. Quando però la donna giunse dal suo collega e si voltò mostrandogli il viso completo, fece un sussulto.

    Ehi, bellezza, sei proprio uno schianto, te l’hanno mai detto? fece quello, prendendosi gioco di lei.

    Il volto della donna era paradossalmente diviso in due: la metà sinistra mostrava i tratti di una ragazza che un tempo aveva dovuto essere bella, l’altra metà era orribilmente deturpata, dando l’impressione di una statua di cera che si stesse sciogliendo al sole. La linea rotonda del seno sinistro non aveva un equivalente a destra e la mano dallo stesso lato destro sembrava quella di un alieno in un film di fantascienza, di quelli che si vedono in televisione.

    Sei vera o sei solo travestita per Halloween? continuò il detenuto.

    Nadia Franchini non si curò di lui; quel genere di offese aveva smesso di ferirla da qualche tempo. Anni prima anche lei era stata un agente sul campo, uno dei migliori, enfant prodige entrata nell’Intelligence poco più che maggiorenne e già caposquadra a venticinque anni, ma troppo ostinata nel voler fare di testa sua, cosa che aveva pagato a caro prezzo quando si era avvicinata troppo a una banda di narcotrafficanti decidendo di agire da sola senza attendere i rinforzi. Era stata catturata, violentata, torturata e infine i suoi aguzzini avevano deciso di farla finita con lei cospargendola di soda caustica, di quelle che si usano per sturare i lavandini intasati. Solo allora erano intervenuti i suoi colleghi dei Servizi Segreti ma, purtroppo, metà del suo corpo era ormai stata bruciata dall’acido. A detta dei medici che l’avevano curata, era stato un miracolo che non avesse perso l’uso dell’occhio e della mano destra, sebbene ormai questi organi non avessero più sembianze umane. Erano passati tre anni da allora e, dopo una lunghissima riabilitazione, era riuscita a rientrare nei Servizi, ma senza poter più operare sul campo. Occhiatine e battutacce erano diventate il suo pane quotidiano, aveva imparato a non farci più caso.

    Abbiamo ricostruito buona parte degli spostamenti compiuti dal carico di armi. disse noncurante a Foletti. Colombia, Brasile, Costa d’Avorio, Tunisia. Da lì sono entrate in Italia e hanno viaggiato via terra.

    Forse sbagli dopobarba, non te l’hanno mai detto? continuò beffardo il detenuto.

    Smettila. intimò senza troppa convinzione Foletti. Poi si rivolse alla collega. Come sono entrate in Italia?

    Questo ancora non l’abbiamo capito; c’è certamente qualcuno che ha dato un appoggio da qualche parte ma ancora non siamo riusciti a tracciare gli spostamenti all’interno dei confini. Sappiamo solo che il trenta ottobre è arrivato un camion carico in un deposito nelle campagne di Bracciano ma, quando noi siamo giunti, era già stato fatto sparire tutto. Stessa dinamica il sei novembre vicino a Orte. Da allora non abbiamo più nulla. Magari il signore qui presente ne sa qualcosa, giacché era proprio lui che si occupava del trasporto della merce.

    Se sa qualcosa ce lo dirà, vero? fece Foletti rivolto all’altro uomo, che sorrise di tutta risposta. Sono appena le dodici, la giornata è ancora lunga e il signore ha tanta voglia di raccontarci tutto. Ricominciamo da capo.

    Nadia porse un tramezzino al collega e cominciò ad addentarne un altro lei stessa, davanti allo sguardo e alle narici dell’affamato slavo.

    Dove avete nascosto le armi provenienti dalla Colombia? riprese Diego Foletti.

    Due uomini armati all’ingresso del capannone, uno sul retro. A occhio nudo si potevano scorgere con difficoltà solo i puntini rossi delle sigarette accese nel buio della notte, ma Miriam Piccoli poteva chiaramente vedere le sagome gialle e rosse dei tre individui grazie al suo visore termico. Nascosta dietro un cespuglio di fittoni alla base di un vecchio ulivo, a duecento metri dal deposito di armi, osservava con attenzione ogni singolo spostamento, ma purtroppo le lamiere metalliche del capannone non consentivano al visore di mostrare se ci fosse attività dentro.

    In posizione. sussurrò all’auricolare la voce dell’agente Magni.

    In posizione. fecero eco gli altri due agenti.

    Due persone armate davanti, una sul retro. Impossibile dire quanti siano all’interno. Restiamo in attesa. ordinò Miriam. Erano disposti a ventaglio su un arco di cinquanta metri, ciascuno dietro il proprio nascondiglio.

    Era notte fonda, l’umidità si tagliava con un coltello e tirava un fastidiosissimo vento ghiacciato: l’ideale per appostarsi tra la vegetazione bagnata di una campagna in mezzo al nulla. Miriam poteva vedere la nuvoletta bianca del suo alito che si condensava ricadendole sul naso. I guanti le lasciavano scoperte le estremità delle dita e non impedivano che le mani s’intorpidissero. C’era silenzio tutto intorno a loro, le voci degli uomini vicini al capannone non arrivavano fin laggiù e non si sentiva nient’altro che il fruscio dei rami smossi dal ponentino.

    Qui campo base, descrivici la situazione. chiese una voce maschile al suo auricolare.

    Tre uomini armati in vista, probabili altri uomini all’interno. L’incursione è rischiosa, attendiamo rinforzi. rispose lei a bassissimo volume con sorprendente calma.

    Vostra posizione?

    Duecento metri a nord-ovest. Spaziati di dieci-quindici metri circa l’uno dall’altro.

    Dacci un riferimento preciso. ripeté la voce.

    Che cosa accidenti te ne fai di un dannato riferimento? sbraitò tra i denti Miriam. Manda dieci uomini di rinforzo e facciamo irruzione!

    Abbiamo bisogno di un riferimento preciso. insistette ostinatamente la voce, in maniera quasi meccanica.

    Io sono dietro l’ulivo più alto, un uomo è alla mia sinistra e due sono alla mia destra. rispose con un sospiro di rassegnazione.

    Ricevuto. Mantenete la posizione.

    Mandaci i rinforzi.

    Mantenete la posizione.

    Miriam detestava le persone inconcludenti. Nelle azioni rischiose bisognava essere pratici: poche parole, niente fiato sprecato. Un’informazione, una decisione, un’azione. Invece c’era chi, dal comodo di una postazione protetta e lontana dai rischi, amava intavolare lunghe conversazioni da salotto. Continuò a tenere sotto controllo il capannone; gli uomini davanti all’ingresso si muovevano poco, ogni tanto uno si avvicinava all’altro, probabilmente per scambiare due parole, ma non avveniva niente di rilevante. Passarono i minuti.

    Miriam, che cosa stiamo aspettando? chiese sussurrando uno dei compagni all’auricolare. Il passare dei minuti faceva salire la tensione.

    Mantenete la posizione. rispose, ma l’inquietudine cominciava a montare. Di questo passo avrebbero passato tutta la notte ad attendere; mancavano più di due ore all’alba, quindi avevano ancora tutto il tempo di eseguire un’azione che non avrebbe dovuto durare più di dieci minuti, ma queste lunghissime pause erano snervanti. L’erba era umida per la pioggia del giorno prima e lei si sentiva bagnata e infreddolita fino al midollo; aveva l’impressione che le gambe si stessero congelando dentro ai calzoni infradiciati.

    Campo base, attendiamo istruzioni chiese alla radio. Non ci fu risposta. Campo base, mi sentite? ma l’auricolare restò muta. Che accidenti stanno combinando? mugugnò tra sé e sé.

    Altri minuti trascorsero senza notizie e lei tentò ancora di prendere contatto col supporto logistico, ma invano. Qualcosa stava andando storto.

    D’improvviso i fari di tre fuoristrada parcheggiati a metà distanza tra loro e il capannone fecero luce su di essi, rivelando la loro posizione. Contemporaneamente, una ventina di uomini armati di fucili militari uscì di corsa dal deposito e si diresse verso di loro. Miriam Piccoli si sentì in trappola.

    Ritirata! Ritiriamoci! urlò ai suoi compagni rinunciando a ogni discrezione. Via di qui!

    Scattò in piedi e si lanciò di corsa in direzione opposta alla minaccia, mentre i colpi di fucile esplodevano tutto intorno a lei. Un uomo emise un urlo straziante alla sua sinistra. Il panico e la frustrazione la fecero imprecare, era un’imboscata! Riuscì a percorrere appena qualche decina di metri quando un dolore acuto le trafisse una coscia; il proiettile le fece perdere l’equilibrio e cadde a faccia in avanti, battendo la testa su un sasso. Fu subito il buio.

    Fu un ceffone a farla risvegliare. Aveva la testa che le pulsava e il sangue incrostato le impediva di aprire completamente un occhio; provò ad alzare una mano per massaggiarsi il volto ma le braccia erano bloccate. Era in uno stato d’intontimento che le impediva di ragionare, aveva la bocca arida, le orecchie che fischiavano e la luce intensa le impediva di mettere a fuoco le immagini che apparivano ai suoi occhi. La gamba colpita le faceva tremendamente male e si sentiva infreddolita e debole, quasi svuotata di energie. Arrivò un altro schiaffo, che la fece finalmente svegliare di colpo. Aprì gli occhi di scatto e alcune ciglia incrostate nel sangue si strapparono, facendola urlare di dolore. Era seduta per terra, schiena alla parete metallica interna del capannone, con le braccia incatenate a una sbarra; intorno a lei c’erano alcuni uomini che ridevano di gusto, uno di loro macabramente seduto su tre cadaveri impilati uno sull’altro, quelli dei suoi compagni di azione. Era stato tutto un disastro ma ebbe immediatamente la consapevolezza che il peggio per lei dovesse ancora venire.

    Ben svegliata, principessa; vuoi un caffè? la schernì, tra le risate dei suoi compari, l’uomo che l’aveva schiaffeggiata, un grosso individuo con una cicatrice sulla guancia e un naso a forma di patata.

    Lei non rispose ma il terrore le faceva scoppiare il cuore nel petto.

    Come sei silenziosa! Rilassati, è una lunga giornata e tu hai tante cose da raccontarci su quei tuoi amichetti dei Servizi Segreti. Da che cosa vogliamo cominciare?

    Di nuovo restò in silenzio; aveva voglia di gridare per la frustrazione ma cercò con tutte le forze di trattenersi e di mostrarsi imperturbabile.

    Che c’è, per caso hai ingoiato la lingua? rincarò minaccioso l’uomo. Frank, fammi vedere se la signorina l’ha ancora.

    Uno dei compari si fece avanti e con le due mani la costrinse ad aprire la bocca nonostante le sue vane resistenze. L’uomo con la cicatrice le prese la lingua con due dita e la strattonò con forza fuori, facendo gemere la prigioniera.

    Se non hai voglia di chiacchierare, significa che questa non ti serve. le disse, facendole volteggiare un coltello davanti agli occhi sgranati dal terrore.

    Miriam tentò di dimenarsi ma era immobilizzata. Con un cenno della testa l’uomo con la cicatrice fece allontanare l’altro e le lasciò la lingua. Miriam si schiacciò quanto poté alla parete ma l’uomo la prese per i capelli e le mise la punta del coltello a pochi millimetri dall’occhio.

    Ora o parli, o ti faccio a fette; molto lentamente, però, molto molto lentamente. fu la minaccia, tra gli spasimi di terrore della donna. Dicci…

    Successe tutto in pochi attimi: il tonfo di una parete di lamiera abbattuta, qualche imprecazione di stupore, urla di concitazione. Il coltello puntato sull’occhio di Miriam sparì d’improvviso, per ritrovarsi nella gola di chi fino a pochi istanti prima lo stava brandendo. Partirono alcuni colpi di arma da fuoco, ci furono delle urla e tanto fracasso. Miriam Piccoli vedeva davanti a sé uomini che correvano e saltavano da una parte all’altra e, tra di loro, veloce e agile come un felino, qualcuno o qualcosa... una sagoma nera che seminava morte.

    Tutto terminò in un minuto. C’era una dozzina di uomini senza vita sparpagliati nel deposito, alcuni ancora con le armi in pugno, e in piedi tra di essi si trovava il loro carnefice. In quel momento le voltava le spalle; era completamente vestito di nero, con stivali, calzoni di cuoio e una specie di giacca imbottita da motociclista che terminava in un copricapo. Anche le mani erano guantate di nero. Alzava e abbassava ritmicamente le spalle come se fosse rimasto a corto di fiato, mentre osservava con calma l’ambiente intorno a sé. Non era alto, né sembrava particolarmente robusto, eppure aveva appena liquidato da solo un’intera banda di uomini armati. Si voltò finalmente verso di lei: la faccia era interamente nascosta da una visiera lucida su cui si riflettevano le immagini e le luci; non un solo millimetro del suo corpo era visibile.

    Si avvicinò a lei senza dire una parola; il vento ora penetrava dallo spazio lasciato vuoto dalla lamiera divelta e le faceva incollare i calzoni bagnati addosso, mentre la catena che sorreggeva una lampadina ondeggiava emettendo un ritmico cigolio. Miriam Piccoli tremava per la paura e, quando l’uomo in nero si chinò davanti a lei mettendo un ginocchio a terra, sentì l’impulso di fuggire. In un irrazionale moto di terrore, provo a scattare in piedi, ma fu subito respinta al suolo dalle catene che la legavano alle braccia e dal dolore alla coscia; non avendo altro modo di difendersi, cominciò a scalciare verso di lui emettendo un mugolio di disperazione ma l’uomo non sembrò turbato. Attese che la sfuriata della donna si placasse e con una mano le prese delicatamente il mento facendole voltare la testa, mentre si avvicinava per osservare meglio la sua ferita alla tempia. Miriam vedeva la propria immagine riflessa nella visiera che era ormai a pochi centimetri dai suoi occhi e quasi non riconobbe il suo stesso volto coperto di sangue e stravolto dal terrore, lei che sempre si vantava di non essersi mai lasciata sopraffare dal panico. Ormai aveva smesso di dimenarsi e attendeva gli eventi; l’uomo passò a esaminare la ferita alla gamba, che continuava a sanguinare. Aveva perso parecchio sangue e i suoi calzoni ne erano intrisi. Lui si alzò e si diresse verso uno degli uomini uccisi, strappandogli un brandello di camicia che utilizzò per fasciarle la coscia. In maniera un po’ maldestra, serrò troppo forte la benda sulla ferita e lei urlò; la visiera lucida si sollevò per un momento a guardarla e poi lui allentò la fasciatura.

    Miriam prese coraggio, sentendosi meno in pericolo. Chi sei? gli chiese esitante.

    Lui non rispose e continuò la sua opera come se nessuno avesse parlato.

    Perché mi stai aiutando? chiese ancora.

    Questa volta lui la guardò ma rimase di nuovo in silenzio. Si rivolse poi alle catene, quelle che la tenevano legata a un tubo ricurvo di un pesante cassone di metallo, la cui vernice bianca si era scrostata in più punti, e infilò le dita in due anelli contigui. Fece forza e il suo corpo vibrò qualche secondo per lo sforzo, fin quando un anello cedette e si aprì deformandosi, facendo spezzare la catena.

    Come hai fatto? gli chiese stupefatta Miriam, con un filo di voce. Le forze la stavano abbandonando.

    Lui non rispose e, una volta liberati i suoi polsi, la prese in braccio senza sforzo, nonostante lei non fosse propriamente leggera come una farfalla. Miriam Piccoli si sentì cullata e protetta da quello sconosciuto e si abbandonò con tutto il proprio peso tra le sue braccia. Con una mano tastò il suo avambraccio e si accorse che il giubbotto nero era più rigido di un tessuto normale, probabilmente aveva un sottile strato metallico interno. Mentre lui la portava all’esterno del capannone, con l’alba che stava facendo capolino a est, fu sopraffatta dalla voglia di addormentarsi. Ebbe appena la forza di sollevare una mano e toccare con i suoi polpastrelli la visiera liscia e fredda, prima di chiudere gli occhi.

    Quando li riaprì, era intontita e dolorante; sentiva la testa esploderle, ma almeno la sensazione di freddo e bagnato era sparita. Dopo qualche secondo di ambientamento, riuscì a fare mente locale: era in un caldo letto, sotto le coperte, e tutto intorno a lei era bianco e verde. Aveva una flebo al braccio.

    Ah, ti sei svegliata finalmente! disse una voce che non riconobbe immediatamente.

    Il volto di Diego Foletti si parò davanti a lei. Provò a rispondergli ma il primo tentativo di proferire parola non andò a buon fine, riuscendo soltanto a emettere un rantolo. Si sforzò di nuovo e questa volta riuscì.

    Che cosa ci faccio qui? Dove mi trovo? Che cosa ci fai tu qui? chiese con un alito di voce.

    Veramente vorrei essere io a farti le stesse domande. rispose lui. Comunque, sei in ospedale. Il motivo è semplice: eri ridotta maluccio.

    Chi mi ha portato qui?

    Io, ovviamente! esclamò Foletti.

    Tu? E che c’entri tu? domandò stupita.

    Che c’entro io? Vorrei proprio saperlo, giacché oggi in teoria era il mio giorno libero che, grazie a te, sono costretto a passare in ospedale, dal momento che sei apparsa dal nulla davanti alla mia porta.

    Che cosa stai farneticando? chiese lei cercando con fatica di cambiare posizione nel letto.

    C’era una finestra alla sua sinistra dalla quale poteva vedere che era sera; riusciva a scorgere edifici squadrati con schiere di finestre allineate e da qualcuna di esse le era possibile intravedere i letti e i pazienti all’interno delle stanze.

    Stamane alle nove e trenta circa ho sentito squillare il campanello e ho aperto. Tu eri là per terra, sullo zerbino di casa mia, pesta come se ti avesse investito un caterpillar. Io stavo ronfando alla grande quando ho sentito suonare e, francamente, ho avuto la tentazione di lasciarti lì dov’eri e rimettermi a dormire, ma mi avresti macchiato tutto il pianerottolo e perciò sono stato costretto a trasportarti in ospedale. Altrimenti mi sarei dovuto sorbire le lamentele di quella vecchia oca starnazzante che abita nell’appartamento a fianco! rispose lui sogghignando.

    Molto gentile da parte tua.

    Oh, non c’è di che. Spero che quando ti sarai rimessa saprai essere adeguatamente riconoscente il giorno in cui ti inviterò a casa mia per mostrarti la mia collezione di farfalle. buttò lì maliziosamente.

    Scordatelo. Che ore sono? tagliò corto Miriam.

    È ora di cena e io adesso vado a mangiarmi uno stupendo panino, l’ideale per iniziare il turno serale. Che accidenti è successo la scorsa notte?

    Miriam aveva quasi dimenticato che c’era stata un’azione finita in tragedia.

    Ci hanno teso un’imboscata e... temo che qualcuno ci abbia tradito. rispose ricordando il suo breve dialogo con il campo base e lo strano comportamento dell’operatore. Sapevano che eravamo lì. aggiunse.

    Traditi? Sei sicura di quello che dici? chiese Diego, trasalendo.

    Te l’ho detto, sapevano che eravamo lì e...

    Poi, d’improvviso, rivide davanti ai suoi occhi le immagini dei cadaveri ammassati dei suoi tre compagni. Adesso vattene per piacere, lasciami sola. terminò seccamente.

    Diego alzò le sopracciglia un po’ sorpreso ma non fece obiezioni. La salutò e uscì dalla stanza, lasciandola sola e libera di

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