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Nonostante il destino
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Nonostante il destino

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Dall'autrice del bestseller Gli effetti speciali dell'amore

Gillian Chetwode-Talbot è una ragazza semplice con un grande sogno nel cassetto: aprire un suo negozio di cappelli artigianali. In visita dalla nonna paterna, a Fall River, Gil trova il locale ideale per realizzare finalmente il suo sogno. Il posto va ristrutturato, ma lei non si scoraggia e inizia i lavori, finché non scopre che non tutti gli inquilini del palazzo sono favorevoli alla rumorosa attività di ristrutturazione. Jared, il ragazzo misterioso che abita al piano di sopra, sembra piuttosto restio a tollerare il frastuono e fa di tutto per sabotarla. L’astio che nasce tra i due, però, si trasforma ben presto in qualcosa di diverso. Gil inizia a scoprirsi particolarmente incuriosita dall’uomo che abita al piano di sopra e che sembra condurre una vita piuttosto ritirata. Cosa nasconde Jared? Scoprirlo potrebbe rivelarsi più sorprendente di quanto Gil sia disposta ad accettare
Angela Iezzi
Nata nel 1987 a Lanciano, si è laureata in Organizzazione e Relazioni Sociali all’Università di Chieti. Lavora insieme alla sorella in un centro ricreativo di cui è la titolare. Lettrice da sempre, d’animo romantico, ha iniziato ad appassionarsi alla scrittura durante il periodo universitario, tra un esame e l’altro.
LanguageItaliano
Release dateJul 5, 2017
ISBN9788822712530
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    Nonostante il destino - Angela Iezzi

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    1738

    Prima edizione ebook: agosto 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1253-0

    Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    www.newtoncompton.com

    Angela Iezzi

    Nonostante il destino

    Newton Compton editori

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Ringraziamenti

    Quel che si intende un giorno, vedi,

    si può non intenderlo più il giorno successivo.

    Le circostanze mutano, le opinioni si cambiano.

    Jane Austen, L’abbazia di Northanger

    Capitolo 1

    La pioggia torrenziale batte insistente contro il tessuto impermeabile del mio ombrello. Avrei dovuto prendere quello grande di nonna Natalie quando ha insistito questa mattina, ma speravo ardentemente che il tempo non peggiorasse. Solito inguaribile ottimismo.

    Mi affianco al lato del marciapiede, a ridosso del muro, nella speranza che qualche pensilina sopra la mia testa possa proteggermi un po’. Non ho ancora voglia di tornare a casa. Ero partita con un intento e non sono ancora riuscita a portarlo a termine. Odio dovermi arrendere. Tra due giorni la mia finta vacanza sarà finita e non ho trovato il modo per aprire il mio piccolo negozio di cappelli artigianali. La complicità di nonna avrebbe dovuto aiutarmi a prolungare di più questo soggiorno da lei e invece mio padre non ne ha voluto sapere. Mai che a Wendell Chetwode-Talbot sfugga una virgola. Credo abbia subodorato qualcosa quando ieri sera nonna Natalie gli ha chiesto qualche giorno in più con sua nipote. Non che sia strano di per sé, lo diventa soltanto nel momento in cui si avvicina il compleanno di mamma. Almeno il regalo per lei l’ho già trovato: uno splendido maglioncino di lana del suo colore preferito, azzurro cielo. Sono sicura che le piacerà.

    Ignoro il viavai di persone che sfrecciano sotto i loro ombrelli molto più grandi del mio e mi guardo attorno. Non sono mai venuta in questa parte di South Main Street, per lo meno non negli ultimi anni. Nonna Natalie abita un po’ fuori Fall River, quindi di rado ci è toccato un giro in città quando siamo venuti a trovarla, siamo tutti più tipi da campagna, aria aperta ed erbetta sotto i piedi, ma ora sono da sola, ho uno scopo da raggiungere e solo altri due giorni, quindi perché non scoprire cosa questa zona della città ha da offrire? Senza pensarci, svolto su Spring Street e ne percorro qualche metro, stando attenta a non farmi inondare dagli schizzi delle auto che percorrono la strada in senso opposto al mio, quando vengo folgorata da una vetrina. Una macchina da cucire Improved Dolly Varden tirata a lucido attira tutta la mia attenzione. Ha la base di legno lucido, foderato da un rinforzo di metallo grigio, per il resto è quasi completamente nera, con eleganti decorazioni in oro che la rendono ancora più bella. C’è persino il rocchetto del filo infilato, è magnifica. Per un istante vedo il sogno di una vita divenire realtà: uno splendido negozietto con almeno un paio di belle vetrine che danno su una strada affollata. File e file di cappelli eleganti, colorati e assortiti, per tutte le età, di ogni grandezza, per uomini ma soprattutto per donne, lo sfavillio di qualche applicazione di metallo o pietre preziose, la leggerezza di piume colorate o raso, la consistenza di pelle o cuoio. Tutto creato in pezzi unici da me, la proprietaria, con la sua Improved Dolly Varden, fedele compagna di lavoro e fonte di mille soddisfazioni!

    Sollevo lo sguardo verso l’insegna sulla quale campeggia più una promessa che un nome: Same As It Never Was Antiques. Bene, perché non ho molti soldi da parte. Non potrei chiedere di meglio. Chiudo in fretta l’ombrellino ed entro decisa, godendomi il lieve tepore che si avverte all’interno. Il locale non è molto grande, ma la miriade di oggetti che popola questo posto lo fa sembrare ancora più piccolo. C’è di tutto, da mobili intarsiati a sgabelli imbottiti, da gioielli e collane a penne stilografiche, da abiti perfetti per un set cinematografico a valigie di pelle che risaliranno almeno al secolo scorso. Ci sarebbe da rimanere incantati, se non fosse per il disordine che domina come un castello medievale sulla valle sottostante. Non ho mai visto un negozio più caotico. Cerco di trovare una via qualunque per raggiungere quello che dovrebbe essere il bancone del commesso di legno scuro, irriconoscibile, coperto com’è di cianfrusaglie. Ho solo una cosa in mente: la Dolly Varden!

    «C’è nessuno?», provo a dire, cercando una qualche forma di vita con lo sguardo.

    Lo strascichio di una sedia mi costringe a voltarmi verso una porta che non avevo notato prima, nascosta da metri di tessuto stipato alla rinfusa su appendiabiti e ripiani di mobili. L’attimo dopo ne esce un uomo, sulla quarantina, alto, con i capelli scuri, barba e baffi perfettamente curati e uno sguardo penetrante che gli occhiali da vista, un po’ calati sul naso, non riescono minimamente a scalfire. Indossa un dolcevita color panna e un paio di pantaloni scuri.

    «Buongiorno, signorina. In cosa posso esserle utile?», mi accoglie con un sorriso cordiale.

    «Buongiorno. Be’, ecco, ho notato quella Dolly Varden in vetrina e mi stavo chiedendo se fosse possibile acquistarla». Vado dritta al punto, sono fatta così.

    «Quella non è in vendita, mi dispiace. Si tratta di una macchina da cucire del 1874, un pezzo d’epoca al quale sono particolarmente affezionato, e in ogni caso sono del tutto certo che lei non potrebbe permettersela», mi fa presente con un tono talmente educato da lasciarmi interdetta. Non so se prendermela per il fatto che mi abbia dato della poveraccia o se far finta di nulla dati i suoi modi impeccabili. «Ma se desidera una macchina da cucire elettrica, ne ho di diversi tipi, molto più funzionali. A quale scopo le occorre?». Opto decisamente per la seconda scelta. Troppo educato per serbargli rancore.

    «A dir la verità, vorrei aprire un laboratorio, un piccolo negozio insomma, dove poter realizzare e vendere cappelli artigianali. Sto cercando un locale adatto qui a Fall River e nell’attesa di trovarlo ho pensato di cominciare con una macchina da cucire».

    «Bene, se è così, credo poterle offrire non solo la macchina da cucire, ma anche una serie di utensili e diverse forme che non possono mancare a un’artigiana di cappelli di qualità», si propone ancora affabile, scomparendo per un attimo nell’antro dal quale era sbucato solo qualche minuto fa. Ne riemerge solerte con in mano un paio di splendide forme in legno per poter costruire dei cappelli rigidi da sogno.

    «Queste sono ottime, in legno di betulla. Ne ho diverse qui in negozio, da qualche parte».

    «Wow, sono perfette!», non riesco a frenare l’entusiasmo. «Quante ne ha?»

    «Credo una ventina, più o meno. Non sono articoli facilmente vendibili, conosco pochi clienti interessati a questo genere di acquisti e nessuno di loro li prenderebbe tutti insieme, ma si tratta di una serie completa e mi dispiacerebbe smembrarla», mi spiega posando queste meraviglie sul bancone, alla portata della mia mano. Non posso fare a meno di sfiorarle, una a spirale larga, alta e ricercata, ottima per cappelli invernali da impreziosire con qualche nastro di seta o velluto e uno o due punti luce, l’altra invece a tesa larga, perfetta per costruire cappelli di paglia più primaverili o anche estivi, perché no, da personalizzare con piume colorate o fiocchi. Probabilmente dovrei smettere di fissarle, ma sono così ipnotiche che non ci riesco finché l’uomo che ho di fronte non mi richiama con la sua voce profonda.

    «Signorina, allora? Che ne dice? È interessata?»

    «Interessata? Assolutamente sì! Quanto verrebbero tutte insieme?», lo so, conosco già la risposta: troppo. Ma sarebbe un delitto lasciarsele scappare, abbandonate chissà dove in questo totale disordine. Sono anche abbastanza sicura che nessuno qui riesca a riservare loro le cure di cui necessitano.

    «Dunque, non posso farle un conto accurato subito, ma direi circa duemilaseicentocinquanta dollari, centesimo più centesimo meno».

    Ecco, lo sapevo, un patrimonio. Lo guardo pensierosa per un momento, non riesco proprio ad abbandonare l’idea di poter avere questo set completo. Ci deve essere un modo. Mi guardo intorno alla ricerca della risposta alla mia domanda e una lampadina mi si accende istantanea nella mente, come per incanto.

    «Ok, non ho tutti quei soldi, ma potremmo fare un accordo io e lei», propongo con un sorriso che spero lo conquisti. Lui invece mi guarda come se non avessi detto neppure una parola, la sua espressione è neutrale, quasi disinteressata. Sarà un osso duro. «Che ne dice se, per ripagarla di questa spesa, la aiutassi qui al negozio? Potrei sistemarle gli articoli, registrare la merce… mettere un po’ in ordine». Mi pare così evidente che qui ci sia bisogno di una rassettata, di quelle serie, altro che pulizie di primavera.

    «Mettere un po’ in ordine?», chiede con un’aria di sufficienza che su di lui risulta comunque educata. Come diamine faccia rimane un mistero per me.

    «Sì, tutto completamente gratis!», mi mostro entusiasta. Dovrò pure riuscire a smuoverlo in qualche modo.

    «Non saprei», riflette guardandosi intorno, quasi combattuto. «Essere ordinati è così…», si ferma a riflettere per un istante, «ordinario. Io non sono mai stato un uomo ordinario».

    Oh… ok, direi proprio di no. L’aggettivo che mi viene in mente in questo momento è eccentrico, altro che ordinario. Sono piuttosto spiazzata, lo ammetto. Non so cosa ribattere a un’affermazione del genere.

    «La vedo affranta, ci tiene molto ad aprire questo negozio», constata tranquillo come se ci conoscessimo da una vita. Ho la sensazione che non ci volesse un acuto osservatore per accorgersene: chi mai rimarrebbe a fissare delle forme di legno piuttosto bizzarre come se fossero fatte d’oro e si proporrebbe, per giunta, di riordinare un posto che sembra l’origine del caos nel mondo, se non ci tenesse mortalmente?

    «È il mio sogno nel cassetto e tra un po’ ci crescerà la muffa, se non trovo un modo per realizzarlo», gli spiego tornando a fissarlo nei suoi occhi profondi.

    «Capisco. È un bel sogno nel cassetto. I cappelli sono un elegante passatempo. Sì, dovrebbe aprirla questa bottega, signorina…?», si informa interessato.

    «Gillian, signore, Gillian Chetwode-Talbot», mi affretto a rispondere. Mi sembra di vedere una luce in fondo al tunnel e non sono disposta ad arrendermi finché non l’avrò raggiunta. «Allora ha intenzione di accettare la mia proposta?»

    «Oh, mia cara signorina Chetwode-Talbot, sarei un folle ad accettare la sua proposta, ma in fondo pare che siano proprio le follie a non portare mai rimpianti», afferma noncurante, prendendo un blocco di post-it da sotto il bancone e iniziando a scrivere qualcosa con una calligrafia impeccabile. «Cominci tra una settimana Gillian, due ore al giorno, dall’una alle tre, quando non ci sono clienti», mi porge il biglietto sul quale ha appena scritto un indirizzo.

    «E questo cos’è?»

    «Il posto dove aprirai il tuo negozio di cappelli artigianali. Citofona al secondo piano, quarto campanello dal basso, signora Jane Marlowe», mi spiega professionale.

    «Ma veramente io non posso permettermi un affitto al momento», cerco di ricordargli. Se non posso pagare quel set di forme di legno, come potrei permettermi un affitto? In una città come Fall River, tra l’altro.

    «Non essere pessimista, Gillian, parla con la signora Jane prima di dire che non puoi permetterti un affitto».

    «Io pessimista?», avrei detto più realista a essere sincera.

    «Come altro definiresti qualcuno che persevera nel trovare inutili scuse mentre una splendida opportunità sta bussando alla sua porta?», domanda enigmatico prima di sparire di nuovo nel suo antro oscuro. Dovrò cominciare a chiamarlo retrobottega se non voglio fare gaffe nei prossimi giorni.

    Riprendo il mio ombrello e affronto di nuovo la pioggia scrosciante. Guardo il foglietto che stringo tra le dita: Pleasant Street, civico 1577. Non è molto lontano da qui, ma dovrò prendere un autobus per arrivare a destinazione. Mi fermo alla prima pensilina disponibile e attendo con trepidazione il mezzo. Non avrei mai sospettato di incappare in una simile fortuna, mi sembra di vivere in una favola, un sogno a occhi aperti dal quale ho il timore di svegliarmi. Una volta sull’autobus, fisso ostinata il finestrino accanto al quale mi sono seduta, cercando di scorgere i numeri civici. Devo scendere alla fermata più vicina al numero 1577. Non appena intravedo il 1501, mi alzo dal mio posto, pigio il pulsante di prenotazione della fermata successiva e, come una folata di vento, raggiungo l’autista, in attesa e su di giri. Fuori continua a piovere, ma sembra che sia in procinto di smettere e questo mi fa sentire ancora più euforica. Una volta in strada, mi affretto, senza neppure aprire l’ombrello, verso il portone più vicino, guardo il numero e decido la direzione da prendere. Una manciata di metri e mi ritrovo a costeggiare un edificio di mattoncini rossi, estremamente elegante, con finte colonnine bianche a base esagonale incastonate tra una vetrina e l’altra del pianoterra. L’ingresso si trova proprio sull’angolo smusso dell’edificio, all’incrocio con Everett Street, e il pianoterra risalta su tutto il resto del palazzo per l’intonaco bianco che ne riveste i muri, in netto contrasto con la base di mattoncini rossi a vista che ricoprono anche tutti gli altri piani. Su ogni colonnina c’è un lampioncino nero a muro che ricorda molto quelli londinesi di fine Ottocento e le vetrine terminano con archi a tutto sesto che le fanno somigliare più che altro a delle vetrate, regalando un’aria elegante all’intero palazzo. Di un marrone solo lievemente più scuro del rosso dei mattoncini è il marcapiano sporgente merlato che si frappone tra il pianoterra e tutti gli altri. È stupendo.

    Sollevo lo sguardo sull’ingresso e mi fermo un attimo a osservare il numero civico, incorniciato da un ovale di terracotta lucida che lo fa risaltare sul lato interno di una delle colonnine accanto il portone. Il citofono è appena sotto. Scruto con attenzione i nomi riportati sulle targhette. Le due in basso sono vuote, le altre riportano quattro nomi scritti con una calligrafia elegante che mi fa quasi dubitare che siano stati stampati e che ricorda un po’ troppo quella del signore che ha scritto il biglietto che ho in mano. Dall’alto c’è Samvise Drake, seguito da Margherita Valery, Jane Marlowe ed Ernest Clancy. La terza è quella che cerco, o meglio, la quarta a partire dal basso. Prendo un bel respiro e pigio il pulsante. Dall’esterno non proviene alcun suono, sento solo il battito del mio cuore che accelera. Sono così emozionata che non mi sono neppure fermata un attimo a riflettere, non che lo faccia spesso, ma forse un’impresa del genere avrebbe meritato un momento di riflessione in più… da parte di un’altra persona che non sia io. Rimango piantata davanti al portone, in trepidante attesa, finché una voce arzilla non risponde al citofono.

    «Chi è?»

    «Buongiorno signora Marlowe, mi scusi per il disturbo, mi chiamo Gillian Chetwode-Talbot, vorrei parlare con lei, mi ha mandato…». Un attimo… come si chiama il signore che mi ha mandato qui? Avrei almeno potuto chiedergli il nome. Accidenti! «Mi ha mandato il signore che lavora al Same As It Never Was Antiques», cerco di salvarmi in corner, sperando che la signora capisca di chi sto parlando.

    «Oh, Ernest. Certo cara, scendo subito», risponde lei per nulla sorpresa dalla cosa. Wow, sono impressionata. Oltre a scrivere divinamente, abita anche qui, avrei dovuto sospettarlo: troppe coincidenze. Bene, lo prenderò come un segno del destino, un ottimo segno del destino.

    Aspetto cercando di sistemarmi meglio la giacca beige che si è un po’ bagnata a causa dell’acquazzone di poco fa. Vorrei fare una buona impressione e non ho assolutamente idea di come siano conciati i miei capelli in questo momento. Sono quasi certa che la coda di cavallo con la quale li avevo legati quando sono uscita da casa di nonna Natalie non abbia retto. Probabilmente ora ho un ammasso floscio e disordinato di capelli scuri. Pazienza, posso solo sperare che alla signora Marlowe non importi molto dell’apparenza e mi dia fiducia nonostante il mio aspetto, che immagino debba risultare un po’ trasandato per essere quello di una donna seria e affidabile.

    Una manciata di secondi dopo, il portone si apre e ne emerge una signora rotondetta, dall’aspetto bonario e simpatico. Indossa un vestito di lana nero, con un foulard color argento sulle spalle che sembra quasi ricalcare il colore dei suoi capelli. Gli occhi acquosi sono di un celeste talmente chiaro che farebbero impressione se non fosse per quella scintilla di intelligenza che li illumina. Non appena mi vede, le sue labbra sottili si tendono in un sorriso che fa comparire miriadi di piccole rughe sul suo volto paffuto.

    «Entra cara, non rimanere lì al freddo», mi esorta gentile, cedendomi il passo per permettermi di varcare l’ingresso.

    «La ringrazio. Mi scusi tanto per l’improvvisata, spero di non averla disturbata. In realtà questa giornata ha preso una piega talmente inaspettata che non mi sono fermata a pensare a quanto potesse essere inopportuna la mia visita».

    «Ma quale inopportuna, non dire sciocchezze. Ti ha mandato Ernest da me e chiunque mi mandi lui non può mai essere inopportuno. Allora, dimmi in cosa posso esserti utile, Gillian, giusto?»

    «Giusto!», le sorrido già felice che si sia ricordata il mio nome. «Vede, questa mattina mi sono imbattuta per caso nel negozio del signor Ernest e lui mi ha indirizzato qui», vai poi a capire il perché, ma è meglio tenerlo per me. «Gli ho spiegato che vorrei tanto aprire un negozietto di cappelli artigianali fatti a mano e lui ha insistito perché venissi a chiedere a lei», le spiego mostrandole il post-it con la calligrafia inconfondibile dell’autore.

    «Capisco, cara, io adoro i cappelli e come al solito Ernest ha fatto la cosa giusta. Credo proprio di avere il locale che fa per te. Seguimi», mi esorta, voltandosi e dirigendosi verso le porte a vetri alla mia sinistra. Fruga nelle tasche del suo abito e ne tira fuori un mazzo di chiavi, le guarda rigirandosele tra le dita grassocce e alla fine ne sceglie una che infila nella serratura.

    «Lo so, è un po’ impolverato qui, ci saranno dei lavori da fare, ma sono certa che sia il posto ideale per un negozio di cappelli», mi spiega, entrando e tastando il muro alla sua destra alla ricerca dell’interruttore della luce. Non appena lo trova, la stanza si illumina di una tonalità giallastra e sbiadita, mostrando un ambiente rettangolare, spazioso ma terribilmente trascurato. Le pareti sono scrostate in più punti, l’intonaco è scolorito, le vetrine talmente sporche da non lasciare entrare la luce da fuori, le piastrelle del pavimento ricoperte da una patina non meglio specificata e non c’è neppure l’ombra di un mobile. Riesco solo a vedere un ingresso che dà direttamente sulla strada oscurato da una serranda, su uno dei lati lunghi della stanza, quello occupato dalle vetrine, e due porte, una accanto all’altra, sull’altro.

    «Oh, quello sulla sinistra è il bagno, l’altro è uno sgabuzzino, ti potrebbe tornare utile per riporre le cose che non ti servono», mi spiega notando la direzione del mio sguardo. Le sorrido in segno di ringraziamento e riprendo a guardarmi intorno. Tutto sommato non sembra che ci siano riparazioni troppo impegnative da fare. Dovrei riuscire a cavarmela anche da sola e questa è un’ottima notizia.

    «Ecco, questo è tutto cara. Lo so, va risistemato un po’, ma è passato molto tempo dall’ultima volta che ci ha messo piede qualcuno», mi dice un po’ nostalgica la proprietaria, indicando il locale con un ampio gesto del braccio.

    «Non si preoccupi, signora Marlowe», la rincuoro subito. «Cosa c’era qui prima?», chiedo curiosa con lo sguardo perso in ogni direzione, alla ricerca di indizi rivelatori.

    «Oh, fino a trent’anni fa c’era una splendida sala da tè, la gestiva mia madre ed era il mio posto preferito da ragazza. Poi lei se n’è andata e negli anni a seguire il locale è diventato un po’ di tutto: un bar, poi un negozio di alimentari, una boutique di intimo e persino uno studio medico. Alla fine è rimasto abbandonato, ma ora che sei arrivata tu, sono sicura che tornerà a splendere come una volta», sentenzia sorridendo in quel suo modo strano che sembra farla invecchiare all’istante di cent’anni.

    «Sarebbe meraviglioso!», non riesco a nascondere il mio entusiasmo, perché sì, è vero, il locale è da sistemare, ma più lo guardo più mi sembra il posto giusto, e in fondo non mi ha mai spaventato il lavoro duro, anzi, è sempre stato un ottimo scacciapensieri.

    «Ti vedo motivata», mi fa notare la signora Marlowe scrutandomi con quel suo sguardo deciso e un’espressione curiosa sul viso ricoperto di piccole rughe.

    «Lo sono».

    «Mi fa piacere, cara. Sappi comunque che io sono al secondo piano, non posso fare molto, ma per qualsiasi cosa conta pure su di me», si propone strizzando un occhio. Davvero strana la signora Marlowe, strana ma simpatica, con lei mi sembra quasi di parlare con mia nonna, è amichevole e comprensiva e soprattutto molto disponibile.

    «La ringrazio di cuore, signora».

    «Chiamami Jane, non sono mica così vecchia», mi rimprovera bonaria. Io sorrido perché sarà anche vero che anagraficamente non è tanto vecchia, ma l’aspetto racconta tutta un’altra storia, senza offesa. Si mantiene bene, i capelli sono grigi ma curati, corti e freschi di permanente, l’abbigliamento rimane un po’ anni Sessanta, ma è fine ed elegante tanto che il foulard che porta sulle spalle sembra proprio di seta. È il colore della pelle, così diafana da far comparire il viola e il blu delle vene sulle mani grinzose, unito a quell’infinità di rughe, accentuate a ogni suo sorriso, che la fa sembrare vecchia. Nulla però riesce a privarla di quell’aspetto bonario e rilassante che, sto scoprendo, mi piace così tanto.

    «Ma, Jane, come intende regolarsi per l’affitto?», mi preme chiederle a questo punto. Prima di stappare l’immaginario champagne che attende nella mia testa, devo essere assolutamente sicura di avere qualcosa da festeggiare.

    «Affitto?». La sua espressione interrogativa lascia perplessa anche me.

    «Sì, l’affitto», confermo io. In fondo è una domanda più che legittima.

    «Ma io non ho intenzione di farmi pagare per questo locale, cara. Mi è più che sufficiente che tu lo faccia riemergere dalle sue macerie», mi fa presente fissandomi con i suoi occhi troppo chiari per essere veri.

    «Non posso accettare una cosa del genere, Jane. Devo poterla ripagare per l’utilizzo del locale», insisto. Sarò anche arrogante, ma non mi sentirei a mio agio. Lei continua a guardarmi come se attendesse di vedere chi delle due distoglie prima lo sguardo, poi prende un bel respiro e abbassa gli occhi.

    «Va bene, Gillian, faremo così: per tutto il periodo che impiegherai a rimettere in sesto questo posto, non dovrai pagare nulla, sarebbero lavori che avrei dovuto fare io prima o poi e sostenerne le spese, quindi sono più che lieta che te ne occupi tu. Quando aprirai ne ridiscuteremo. Può andare così?». Ci rifletto un momento: in effetti, messo in questi termini, non sembra poi un accordo tanto strano.

    «Mi

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