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Nel nome di Allah, il compassionevole, il Misericordioso

Questo testo propone un metodo semplice e progressivo di


avvicinarsi alla conoscenza all’Islâm in maniera equilibrata,
evidenziando i suoi elementi essenziali. Oltre alla definizione
dello stesso termine “Islâm”, alla riflessione sul rapporto con
il Creatore e alla concezione dell’uomo, vengono tratteggiate
due nozioni fondamentali dell’universo musulmano: il sapere e
l’amore.

SOMMARIO

Introduzione
I concetti chiave dell’islam
1. Sottomissione e pace
2. Che dire di Dio?
La concezione dell’uomo nell’islam
1. Soffio originale e luce
2. Dall’innocenza alla responsabilità
3. Cuore e ragione
Il senso della vita
1. La scelta tra l’oblio ed il ricordo
2. Il sacro ed il profano
3. Lo sforzo su sé stessi
L’Universo come libro
1. La via
2. Le diverse dimensioni dell’adorazione
Conclusioni
1. L’amore e l’obbedienza nell’amore
2. Il sapere del cuore e il sapere dello spirito

Introduzione
Per potersi avvicinare all’Islâm e giungere ad una corretta
comprensione esso, è necessario seguire un percorso che
metta in evidenza i suoi elementi essenziali. Elementi che
poggiano su di un messaggio determinato, in relazione col
divino e fondato su un concetto specifico di uomo.
In questo testo, dopo una breve introduzione, vengono date le
definizioni e le spiegazioni di diversi concetti, la prima delle
quali riguarda la parola Islâm. Ciò consente di individuare,
attraverso una riflessione sul Creatore, molti elementi
appartenenti al concetto di uomo nell’Islâm. Risulta così chiaro
che i due concetti sono intrinsecamente legati.
Alcune definizioni si impongono nell’uso comune al punto che ci
si dimentica che le parole usate non hanno per forza il senso a
loro attribuito. Le definizioni di un unico concetto possono
essere molteplici e diverse tra loro, addirittura apposte; per
questo è necessario essere molto chiari ed esigenti sulle
espressioni e sulla termologia da usare, curando anche le
sfumature. La domanda sull’uomo viene sfrontata molto spesso
e merita una definizione chiara, perché la maniera di vedere
l’uomo varia in relazione alla propria sensibilità, alle proprie
tradizioni, alla propria cultura. Anche in tradizioni religiose
vicine, fondate sul monoteismo, come quella musulmana,
cristiana ed ebraica, la conoscenza dell’uomo si articola, si
comprende, si approfondisce, si medita in modo diverso. Per il
proseguimento del dialogo bisogno dunque riscoprire anche il
senso delle piccole sfumature, e scandagliare la complessità di
tutti i concetti, anche di quelli il cui significato di dà per
scontato.
Questo testo affronterà anche un altro tema molto
importante nella tradizione musulmana: quello del progresso.
Nella conclusione saranno spiegate due nozioni fondamentali
della realtà islamica: il sapere e l’amore. Il sapere che non ha
confini e l’amore che ha un ruolo centrale nella fede, anche se
si tende a ricordarlo troppo poco, al punto da dare
l’impressione che esso sia secondario, ma è nell’amore che si
può accedere alla dimensione e alla presenza del divino.

I concetti di base
Spesso, come abbiamo detto, si utilizzano alcuni termini
come se avessero un significato unico, ben definito.
Invece termini “Islâm”, “Allah”, “Nomi divini” hanno talvolta
un senso molto ampio, sono persino polisemie.
1. Islâm: sottomissione e pace
2. Cosa dire di Dio?

Islâm: sottomissione e pace


Il termine Islâm viene dalla radice araba salama che ha due
sfumature importanti.
La prima è un atto di sottomissione, ovvero, il riconoscimento,
attraverso lo coscienza dell’uomo, di un Essere al di là di tutti
gli esseri, di un Creatore, Uno ed Unico, al quale essa
riconosce la per-esistenza su tutte le cose. Egli è Uno, non c’è
nessun dio all’infuori di Lui. Egli è al di là di tutto ciò che si
può immaginare.
La seconda sfumatura di questo termine, sulla quale, di solito,
non si insiste in maniera sufficiente, è legata al senso di
accedere alla pace, che è evidente nella parola salama, salima.
Nella tradizione musulmana, si ha l’idea di doversi cautelare,
proteggere, di dover mettere un limite a tutto ciò che
potrebbe turbare l’accesso allo stato di pace interiore.
Queste due sfumature sono legate intimamente e definiscono
nel giusto modo e in pianezza il termine Islâm. L’uno
accompagna l’altra, si completano, edificando l’uomo nella sua
dimensione essenziale, cioè come essere di cuore,
d’interiorità. Il riconoscimento di Dio procura all’uomo la pace
interiore. La consapevolezza della relazione alla trascendenza
riavvicina l’uomo alla vita interiore e gli procura la pace
immediata.
Una tradizione islamica dichiara che Dio ha novantanove nomi,
anche se, di fato, sono ben più numerosi. Tra di essi si trova
As-Salam, la Pace. Dio è la Pace e attraverso questo attributo
in forma completa, totale e perfetta, ci invita a camminare
verso lo stato di pace interiore. L’uomo arriva a questa pace
solo quando è in grado di ascoltare l’essenza della sua anima,
quando è in sintonia totale col suo essere originario,
attraverso il riconoscimento del divino.

Cosa dire di Dio?


È necessario definire chiaramente la concezione di religione
nell’Islâm, che è leggermente diversa rispetto alla concezione
cristiana: la religione o la religiosità non si identifica né con un
profeta, né con una regola. L’Islâm si presenta come un atto di
fede: è riconoscimento di una sottomissione cosciente
all’Essere Supremo. Sottomissione alla dimensione del
Trascendente significa liberarsi da tutte le manifestazioni
contingenti. Ancora… l’idea del riconoscimento dell’Unico come
liberazione da tutto ciò che è fortuito nella vita; riconoscere
che Egli è, vuol dire liberarsi da ogni sottomissione rispetto a
ciò che Egli ha creato: l’influenza degli esseri umani, i modelli,
i conflitti personali, emozionali o materiali. L’Islâm, dunque, si
definisce attraverso “uno stato di riconoscimento”.
“I 99 nomi di Dio sono gli attributi che si applicano a Dio,
che il Corano indica come i nomi più belli”.
Nel XVIII secolo, quando alcuni pensatori come
Montesquieu[1] o Voltaire[2] cominciarono ad interessarsi alla
questione dell’Islâm, iniziarono a parlare di “maomettani”.
Questo termine è di per sé un grave errore, perché fa
riferimento, per analogia, al rapporto tra cristianesimo e
Cristo. Nella tradizione musulmana, invece, si da appello ad un
atto di riconoscimento del Creatore di tutti gli uomini e non ad
un essere umano, anche se costui è il nostro esempio, anche se
è colui che permette di avvicinarci a Dio.
È un aspetto fondamentale, perché in questo punto il rapporto
del Creatore nei confronti della Sua creazione si differenzia
rispetto alla concezione cristiana.
Forse questi aspetti possono sembrare secondari, ma bisogno
saperne parlare con chiarezza, soprattutto in Occidente, in un
contesto dove sono radicate, nell’inconscio collettivo, delle
rappresentazione falsate dell’Islâm, che risalgono ai tempi del
Medio Evo.
Ci sarebbe, infatti, un gran numero di esempi che mettono in
evidenza le incomprensioni e gli stereotipi da sempre
imperanti, ne citeremo solo qualcuno, senza farne una
trattazione esaustiva. Per esempio, un brillante pensatore
come Chateaubriand[3] ha potuto scrivere che il Dio degli
arabi era Allah, come se fosse specificatamente il Dio dei
musulmani o degli arabi. Allah è la traduzione in arabo di
“Iddio”. In italiano, dunque, si dirà Dio e non Allah – anche se
ci sono delle persone che preferiscono dire Allah anche
quando parlano in italiano o in francese, per mettere in
evidenza la specificità del nome a partire dalla lingua araba. I
cristiani copti in Egitto dicono Allah per parlare di Dio, perché
si tratta di una parola usata nella loro lingua; una persona di
lingua inglese dirà God.
“Iddio, God, Dieu, Allah” La denominazione varia a
secondo della lingua che si usa.
Così si tratta solo di una questione di traduzione e non di una
pluralità di dei specifici per ogni civiltà o per ogni popolo. Egli
è un Dio Unico e il Suo nome varia a seconda della lingua usata.
“Egli è un Dio Unico, lo stesso per ogni tempo e per tutti i
popoli”.
Perché questa sfumatura è molto importante? Perché
sfuggendo a questa regola linguistica, si evitano le divisioni
della diversità. Si dice che i musulmani dicono Allah come se
fosse il Dio loro, mentre la tradizione musulmana spiega che
Egli è Uno e che Egli è lo Stesso per ogni tempo e per ogni
popolo: Egli è Colui che ha parlato a Mosé e ha creato Gesù,
così come ha creato Adamo, e ha stabilito il ciclo dei Profeti.
Questo Dio è Unico e non ha nessun associato: questo è il
senso del Tawhid che fonda l’esigente monoteismo islamico.
Ciò segna una differenza che bisogna sottolineare, in rapporto
alla tradizione cristiana che riconosce a Dio tre ipostasi[4]
che fondano il mistero della Trinità[5].
Se si vuol fare lo sforzo del dialogo e della riconciliazione
interreligiosa è meglio che esso venga fondata in modo
rigoroso e nel riconoscimento delle differenze. La Trinità è un
dogma che cela dei misteri e non si può cogliere con un puro
approccio razionale; dire ciò non vuol essere un desto di
denigrazione, ma il riconoscimento di una differenza, e
rispetto verso il credo cristiano. Nella tradizione islamica il
concetto di Trinità è assolutamente assente. La specificità di
Dio sta nel fatto che nulla Gli assomiglia. Nulla, a partire dalla
nostra intelligenza, dalla nostra immaginazione, neanche nel
sogno, potremmo essere capaci di rappresentarLo. Egli è Il
Sapiente, Colui Che comprende tutto ciò che può essere
capito, nella sua totalità, al di là del nostro intelletto.
Troviamo così l’affermazione della perfezione di Dio, e inoltre
dell’irriducibilità di questo Essere all’intelligenza umana. Dio è
perfetto ed illimitato nella Sua perfezione, e ciò Lo rende
inaccessibile alla nostra intelligenza che è limitata.
È naturale chiedersi come poter parlare di Lui, essendo Egli
così inaccessibile al nostro intelletto; la tradizione islamica è
molto esigente su questo: non si può dire di Dio se non ciò che
Egli ci ha detto di Se Stesso. Nella tradizione biblica ciò è
rappresentato dalla domanda di Mosé: “Chi sei?” Dio rispose:
“Io sono Colui Che è”.
L’Essere nella dimensione assoluta, non può essere compreso
totalmente dall’intelligenza umana e ciò induce subito il cuore
e la mente ad un atteggiamento d’umiltà in rapporto al
Creatore.
L’uomo non può avvicinarsi al Signore, se non per quello che
Egli ha detto di Se Stesso, e non potrà mai coglierLo, né
definirLo, nel Suo assoluto.
Dopo Allah la seconda parola messa in evidenza nel Corano è
Ar-Rahman, che possiamo tradurre con “Misericordioso”, Dio,
dunque, ci dona un nome, una qualifica, che permette alla
nostra intelligenza di guidarci verso la Sua comprensione,
senza, tuttavia, che noi possiamo coglierne pienamente
l’essenza. Si conosce il concetto di generosità nella dimensione
umana; un uomo può essere generoso, e lo si può definire tale
se possiede questa qualità, ma se parliamo di Dio, che è Il
Generoso, oltre ogni tipo di generosità immaginabile, il
concetto sarà ben diverso.
La nostra intelligenza ci accompagna un cammino, che non
potrà mai arrivare a definire perfettamente l’Essere, Il Quale
è al di sopra di ogni perfezione concepibile, essa solo, ci
orienta nel cammino verso ciò che Egli è. La nostra fede,
invece, ci avvicina alla comprensione attraverso un lavoro di
meditazione interiore e di iniziazione. Nella tradizione mistica,
nota come il Sufismo (tasawwuf)[6] esiste un esercizio, che
consiste nel ripetere i nomi di Dio al fine di assorbire
l’importanza del Suo nome, come dicono certi sufi, per poi
liberarsi spiritualmente nella Sua realtà, senza mai però
riuscire a circoscriverla intellettualmente.
Possiamo citare anche altri nomi di Dio ripetuti più spesso
nella recitazione cranica.
Ar-Rahman, Ar-Rahim. I due nomi hanno la stessa radice, una
piccola sfumatura nei termini del dono della misericordia: Egli
è Il Misericordioso, riferendosi alla totalità della misericordia
contenuta nel Suo essere (Ar-Raman), ed è Colui che
distribuisce questa misericordia al di là di ogni generosità
immaginabile (Ar-Rahim).
Dio si presenta all’uomo attraverso i Suoi nomi per
permettergli di avvicinarsi a Lui, senza che però abbia la
possibilità di raggiungerLo, né l’orgoglio di definirLo o
sfidarLo. In questa operazione razionale, il concetto di
umanità sembra fondamentale. Egli è Il Creatore (Al-Khaliq),
Colui che dà forma a tutte le cose (Al-Musawwir),
L’Onnisciente (Al-Alim), L’Assoluto (As-Samad), L’Eterno (Al-
Baqi). Edite una serie di nomi che ricordano spiritualmente il
Suo potere e la Sua perfezione, ma Egli ha anche dei nomi che
rimandano alla Sua misericordia, alla Sua saggezza (Al-Hakim),
alla Sua bontà (Al-Latif), al Suo amore (Al-Wadud).
Queste qualità orientano il nostro cuore e superano il nostro
intelletto. Non abbiano, nella nostra costituzione intellettuale
ed emotiva, la possibilità di conoscere la perfezione;
conosciamo solo la perfettibilità, ovvero la possibilità di
camminare verso la perfezione, senza mai raggiungerla
pienamente.

[1] Montesquieu: (1689-1755) Scrittore francese, autore di


Lettere persiane (1721), Considerazioni sulle cause della
grandezza dei Romani e della loro decadenza (1734) e di Lo
spirito delle leggi (1748).
[2] Voltaire: (1694-1778) Scrittore francese, autore celebre
per Lettere filosofiche (1734), Zadig (1747), Candido (1759),
Il secolo di Luigi XVI (1734) e del Dizionario filosofico (1764).
[3] Chateaubriand François René: (1768-1848) Scrittore
francese noto per Il Genio del cristianesimo (1802), con cui
intendeva contribuire alla restaurazione dell’ordine morale;
René (1805), dove René incarna il “mal du siècle”; Memorie
d’oltretomba (1848-1850), libri per la cui redazione ha
lavorato trent’anni e che sono una meditazione sulla storia, il
tempo e la morte.
[4] Ipostasi: dal greco hypostasis, “ciò che è messo sotto”.
Nella teologia cristiana indica ognuno delle tre persone divine
considerate come distinte.
[5] Trinità: dal latino trinum “triplo”. Per la teologia cristiana
l’unione delle tre persone divine, Padre, Figlio e Spirito Santo,
distinte e consustanziali (di una sola e stessa sostanza), in una
sola e indivisibile natura.
[6] At tasawwuf: (Il sufusmo) Si tratta di una scienza, la
scienza della mistica, che ha un quadro, delle regole ed un
vocabolario tecnico specializzato. Necessita di un’iniziazione.
Sinteticamente, comprende i diversi studi dei sapienti o delle
scuole relative alle tappe o agli stati che permettono il
cammino interiore verso Dio. È la dimensione di al-haqiqa, della
verità, della realtà spirituale interiore che porta al
riavvicinamento.

La concezione dell’uomo nell’islam


Se si vuole capire in modo approfondito il rapporto tra
Creatore e creato si deve, innanzitutto, approfondire la
concezione dell’uomo nella tradizione islamica. La nostra
comprensione del Creatore ci indicherà i termini ed i punti di
riferimento del nostro cammino, il senso stesso della vita. È
nel risveglio della coscienza e nella conoscenza di Dio che
potremo cogliere la definizione dell’uomo nell’Islâm. Dio ha
creato l’essere umano, gli ha insufflato il riconoscimento
innato ed innocente del divino, un anelito, un’aspirazione
naturale.
Per evitare approssimazioni e discorsi superficiali, bisogno
essere molto chiari sulla terminologia da usare e sulle
definizioni da dare, soprattutto quando si tratta di
presentare la nostra religione, o di avviare una discussione.
Nella società in cui viviamo ci sono diverse tradizioni che si
incontrano, che convivono, e per mantenerle nel tempo,
bisogno essere molto esigenti nel dialogo. Possiamo accettare
le differenze, persino le opposizioni, ma bisogna dare agli altri
la possibilità di capirci, di conoscerci, per poter scoprire le
cose che ci accomunano e determinare quelle che ci
distinguono gli uni dagli altri. Lo sforzo generale in questo
senso è ancora ai livelli minimi.
1. Soffio originale e luce
2. Dall’innocenza alla responsabilità
3. Cuore e ragione

Soffio originale e luce


La tradizione islamica si distingue da quella ebraica e
cristiana per la definizione che dà dell’uomo, in quanto lo
colloca in una dimensione diversa. In un versetto della sura
VII del Corano (Al Araf, Il limbo), la rivelazione mette in
evidenza un concetto primario ed essenziale che raccoglie il
consenso di tutte le scuole di pensiero islamiche. La tradizione
islamica, proprio come quella ebraica e quella cristiana, dà un
senso religioso all’atto della creazione: è Dio che ha creato
Adamo ed Eva, il primo uomo e la prima donna, dai quali
discende tutte l’umanità. La teoria di Darwin[1] viene spesso
messa in contrasto con l’atto della creazione, così come
concepito nella tradizione cristiana[2]. Quella islamica non la
rifiuta totalmente, perché in molti testi si ritrova l’idea
dell’evoluzione della specie, è una teoria ammissibile, senza
però mettere in discussione una creazione specifica
dell’essere umano. Non esistono ancora delle risposte
definitive sull’origine dell’uomo, nemmeno tra gli stessi biologi,
e tutte le ipotesi si possono discutere.
Nella narrazione islamica della creazione dell’uomo, si dice
che, quando Iddio l’ha creato, ha riunito tutta la sua progenie
e l’ha fatta testimoniare:
“E quando il Signore trasse, dai lombi dei figli di Adamo,
tutti i loro discendenti e li fece testimoniare contro loro
stessi [disse]: «Non sono il vostro Signore?» Risposero:
«Sì, lo attestiamo»” (Corano VII, 172).
Ogni essere umano, nell’interiorità del suo essere e del suo
cuore, possiede un soffio originario, che lo lega alla
Trascendenza ed alla ricerca di spiritualità. Nella sua raccolta
di testi Mircea Elide[3] evoca in modo continuo l’aspetto del
religioso o dello spirituale che “partecipa alla struttura della
coscienza umana”. Secondo la tradizione musulmana un soffio
anima il cuore di ogni essere, e lo spinge a cercare in modo
naturale e spontaneo qualcosa che è “al di là”, un’espressione
di spiritualità. Questo impulso naturale si chiama, in arabo,
fitra[4], ovvero quel soffio, quell’aspirazione innata di cui Dio
ha dotato l’essere umano. In fondo al nostro cuore, nell’intimo
del nostro essere, fino al microcosmo che vive in noi, c’è una
anelito che ci incita a ricercare la Trascendenza, la
spiritualità. È un impulso che sentiamo in noi, prima ancora che
la nostra stessa coscienza che ne parli. Questa dimensione
viene espressa nella tradizione musulmana con la luce, an-nur,
un soffio essenziale che anima gli esseri umani nel tempo e
che trova conferma dalla storia santa o consacrata: questa
luce è di fatto una rivelazione prima ancora delle Rivelazioni.
“Allah è la luce dei cieli e della terra. La Sua luce è come
quella di una nicchia in cui si trova una lampada, la
lampada è in un cristallo, il cristallo è come un astro
brillante; il suo combustibile viene da un albero benedetto,
un olivo né orientale né occidentale, il cui olio sembra
illuminare senza neppure essere toccato dal fuoco. Luce su
luce. Allah guida verso la Sua luce chi vuole Lui e propone
agli uomini metafore. Allah è onnisciente”. (Corano XXIV,
35).
Questa rivelazione vive in ciascuno di noi e si sviluppa man
mano che se ne prende progressivamente coscienza. Dio,
attraverso i Suoi Angeli, invia una Rivelazione che incontra e
rinforza questo soffio interiore. Così si incontrano due luci,
quella del Messaggio rivelato che incontra e risveglia questo
soffio intimo. Il famoso scrittore Abu Hamid Al Ghazali[5],
chiamato anche “la prova dell’Islâm” (Hujjat al islâm), tanto è
stato ricco il suo contributo scientifico, intellettuale e
spirituale, ha avviato una profonda riflessione intorno ad un
versetto cranico che evoca questo aspetto delle due luci
complementari: “Nurun ala nur”, “Luce su luce” (XXIV, 35).
La luce della profondità originaria incontra quella della
coscienza, del cuore. Secondo la tradizione islamica ogni uomo
possiede questa dimensione originale; ognuno dovrebbe
cercare di coltivare questo seme e lasciarlo poi sbocciare,
perché sia “testimone” della presenza del divino. Questa
visione dell’uomo entra in contrasto, ad esempio, con quella di
Camus[6], ad esempio, che afferma che la fede è ciò che si
raggiunge quando la ragione si ferma. Nella visione musulmana
la ragione conferma e continua ciò che la fede afferma; il
processo è dunque visto al contrario: la fede è innata e la
ragione l’arricchisce. Se, per stabilire una trasposizione,
citassimo la famosa formula di Pascal[7]: “il cuore ha le sue
ragioni che la ragione ignora”, dovremmo, dal punto di vista
dell’ordine spirituale islamico, invertire tale formula dicendo:
“il cuore ha le sue ragioni che la ragione riconoscerà”.
Il soffio precede la ragione e quest’ultima riconosce ciò che
esiste nel cuore attraverso un lavoro di presa di coscienza con
i mezzi che Dio ci ha dato per giungere alla Sua conoscenza.
[1] Charles Darwin (1809-1882) Naturalista inglese. Durante
un viaggio intorno al mondo sul Bearle (1831-1836) raccolse
numerose osservazioni sulla varietà delle specie, ed elaborò la
dottrina dell’evoluzione, famosa come darwinismo. Sull’origine
delle specie per mezzo della selezione naturale (1859).
[2] Nella teologia cristiana contemporanea sussistono carie
posizioni riguardo all’evoluzionismo, grazie ad
un’interpretazione simbolica (genere letterario mitico) dei
racconti della creazione (Gn).
[3] Mircea Elide (1907-1986). Storico delle religioni e
scrittore rumeno. La sua opera riguarda principalmente la
storia comparata delle religioni e i miti.
[4] Fitra (letteralmente “natura primordiale”). Significa la
regola primordiale: lo stato dell’armonia tra l’uomo, la
Creazione e Dio, come esisteva tra Dio e Adamo nel Giardino.
Essa rappresenta l’aspirazione naturale degli esseri verso la
Trascendenza, verso la pace.
[5] Al Ghazali: Abu hamid ibn Muhammad At Tusi (1056-1111).
Nato e morto a Tus, in Persia. Filosofo, teologo, giurista e
mistico. Uno dei più grandi pensatori dell’Islâm medievale.
Celebre per La rivivificazione delle scienze religiose, La
liberazione dell’errore, Il tabernacolo delle Luci, ha lasciato
una considerevole opera di oltre 400 titoli.
[6] Camus Albert (1913 1960). Scrittore francese. Nel suo
saggio Il mito di Sisifo (1942), nei suoi romanzi Lo straniero
(1942), La peste (1947), La caduta (1956), e nelle opere
teatrali Caligula (1945), I giusti (1949), tradusse il sentimento
dell’assurdità del destino umano nato dallo choc della seconda
guerra mondiale. Ebbe il premio Nobel nel 1957.
[7] Pascal Blaise (1623 1662) Sapiente, filosofo e scrittore
francese. I Pensieri è il titolo del libro sul quale vennero
pubblicate, nel 1670, dopo la sua morte, le note che aveva
redatto per scrivere una “Apologia della religione cristiana”.
L’obiettivo del filosofo era di riavvicinare chi non credeva, alla
religione cristiana. Egli insisteva sulla miseria della natura
umana per convincere i suoi lettori a “scommettere”
sull’esistenza di Dio e ad entrare in seno alla Chiesa.

Dall’innocenza alla responsabilità


Prima del concetto di conoscenza, c’è quello del
riconoscimento, ovvero una consapevolezza che siamo Suoi,
prima ancora di rendercene conto. Attraverso questa visione
si evidenzia quanto possa essere profondo il concetto del
mondo e di ordine naturale stabilito, nella mistica musulmana.
Il dibattito che ruota oggi intorno all’Islâm appare molto
superficiale rispetto a questi concetti. Nell’Islâm la visione
dell’essere originario è estremamente positiva ed ottimista,
tanto più che il concetto di peccato originale non esiste. Prima
di sviluppare il senso di responsabilità tutto si vive
nell’innocenza. Da questo punto di vista ogni bambino è
musulmano, nel senso di muslim, che viene da Islâm
(sottomesso), perché porta nel suo essere, in modo naturale, il
riconoscimento di Dio, così come sono musulmane tutte le
altre creature. Nella tradizione musulmana un uccellino che
vola e batte le ali è musulmano perché è sottomesso all’ordine
naturale, al quale egli stesso partecipa. L’albero che cresce, il
seme che si spezza e dal quale sboccia la vegetazione, sono
musulmani, perché manifestano l’ordine della creazione di Dio,
al quale sono sottomessi. Contrariamente a tutto il resto del
creato, l’uomo deve fare uno sforzo che lo rende unico, quello
di camminare, cioè, dall’innocenza verso la responsabilità. In
questo percorso l’uomo si distingue dalle altre creature per la
sua libertà.
L’accettazione della presenza di Dio da parte della coscienza
dell’uomo è come il volare per gli uccelli, ma l’uomo dovrà
sviloppare questa ispirazione attraverso un cammino che lo
porterà dall’innocenza alla coscienza.
C’è un episodio, nella tradizione profetica, in cui è riferito
che il Profeta Muhammad (*) ebbe una visione. In quel periodo
nella città di Mecca i primi musulmani venivano perseguitati,
spesso anche uccisi. Il Profeta (*) fece un sogno nel quale vide
in Paradiso i figli dei suoi persecutori. Quando i suoi compagni
lo interrogarono sul significato di tale sogno, egli rispose che
i bambini sono innocenti e non pagano per gli errori commessi
dai loro genitori. Questa tradizione offre diversi punti su cui
riflettere: fino all’età della responsabilità nessuno può essere
definito peccatore; il concetto di peccato originale presente
nella tradizione cristiana, che si percepisce bene nelle
Confessioni di Sant’Agostino[1], è assente in quella islamica;
nell’Islâm nessuno paga per ciò che non ha commesso, e
nessuno deve sopportare il peso degli errori altrui.
Nel racconto coranico del peccato di Adamo ed Eva (ad
esempio nella sura II, Al Baqara, La giovenca 35-38) ci sono
due aspetti che bisogna sottolineare: il primo è che una serie
di elementi che indicano che fu Adamo a commettere per
primo il peccato e non Eva (o i due insieme), e ciò assolve Eva
dalla colpevolezza del peccato originale, soprattutto se si
tiene conto che entrambi furono perdonati per il loro errore.
Ognuno è il responsabile unico e diretto delle sue azioni e non
deve rispondere per l’altro. Il secondo aspetto è che i figli di
Adamo ed Eva non portano il peccato dei loro genitori. Da
questa tradizione deriva una visione dell’uomo profondamente
ottimista perché si basa sul principio dell’innocenza originale.
L’uomo passa, da una fase d’innocenza che fa di lui un
musulmano per natura, ad una fase di responsabilità che lo
rende musulmano per coscienza, in base al senso della
testimonianza di fede: “Non c’è divinità se non Allah e
Muhammad è inviato di Allah” (shahada).
[1] Sant’Agostino (354-430). Romano d’Africa. Teologo,
padre della Chiesa latina, vescovo di Ippona (l’attuale Annata,
in Algeria), filosofo, moralista, ha esercitato un’influenza
capitale sulla teologia occidentale. Le sue opere principali
sono: La città di Dio e Le Confessioni.

Cuore e ragione
L’uomo testimonia in piena coscienza, con la libertà di scelta
che lo caratterizza. Dunque è attraverso questo cammino che
si passa dall’ordine originario del cuore che ci spinge verso il
divino, all’ordine della coscienza, confermata dalla ragione.
Con l‘espressione della shahada[1] il musulmano assume la
testimonianza che Dio è Uno e che non vi è alcun dio al di fuori
di Lui. E’ il passaggio dall’innocenza alla responsabilità, ovvero
il passaggio dall’impulso del cuore alla conferma della ragione;
la fede può essere completa solo se confermata dal ragione
attiva e ragionante.
Questo principio è centrale per una comprensione profonda
dell’uomo nella tradizione musulmana. Entrambe queste
dimensioni della vita sono necessarie: la fede come soffio e la
ragione come radicamento, l’uomo ha bisogno di entrambe le
dimensioni per trovare l’equilibrio del suo essere. Nell’Islâm
non c’è opposizione tra cuore e ragione, tra rivelazione e
intelligenza. Questa teoria entra in contraddizione con quella
di Camus, ma anche con quella di Kant[2], figura emblematica
della tradizione filosofica occidentale che affermò: “ho
dovuto lasciare il sapere per la fede”. Il suo pensiero
s’inserisce in una concezione dell’uomo dove il sapere ha un
limite e la fede si pone al di là di questo limite e lo supera.
Quando la ragione non è capace di dare delle risposte, il credo
e la fede prendono le redini. Questo concetto può essere
riassunto in una frase: “credo quando non so più”.
“Nell’Islâm non vi è contraddizione tra cuore e ragione,
tra rivelazione e intelligenza”
La tradizione musulmana evoca la fede come un soffio che
precede una ragione che rinforza, aumenta e conferma la
certezza intima che arde nel profondo del cuore dell’uomo. I
concetti sono diversi e per questo bisogna elaborare una
riflessione fondamentale sul concetto di uomo nella nostra
cultura pluralista, per evitare il rischio di sbagliarsi, o di far
sembrare che si vive superficialmente e non nella profondità
delle nostre convinzioni.
Esiste una formula coranica che ritorna in modo sistematico
sul tema della responsabilità dell’uomo tra l’innocenza che
diventa responsabilità e la ragione che conferma l’ispirazione
fondamentale:
“e nessuno porterà il peso di un altro”. (Corano XVII, 15)
Se si afferma che ogni essere umano risponde solo delle sue
azioni, ci si può interrogare sulla reale autonomia dell’individuo
presso le collettività dei musulmani, tenendo presente il
grande e radicato peso del concetto di comunità. Se è vero
che l’Islâm dà un senso al concetto di comunità, di umma[3] ne
deduciamo che i musulmani debbano vivono in una dimensione
collettiva, ma con una coscienza individuale ben sviluppata. La
comunità permette di alleggerire il peso dell’individualità in
modo costante; è uno spazio propizio per la dignità degli
individui, ma mai dell’individualismo. Tale visione permette lo
sbocciare della propria individualità, senza mai cadere negli
eccessi dell’essere, o del diventare, “ego-centrato”,
egocentrico.

[1] Shahada L’attestazione di fede e la sua testimonianza


attraverso la formula: “Testimonio che non vi è divinità se non
Allah e che Muhammad è inviato di Allah”.
[2] Kant Emmanuel (1724-1804). Filosofo tedesco. La sua
opera Critica della ragion pura (1781) enuncia a priori le
condizioni di tutta la conoscenza e definisce i limiti all’interno
dei quali la ragione può conoscere. I suoi testi La metafisica
dei costumi (1785) e Critica della ragion pratica (1788)
presentano una teoria profonda sulla morale del dovere.
[3] Umma La comunità di fedeli che trascende le divisioni e le
definizioni etiche, culturali, e politiche. Comunità di fede,
comunità spirituali, che unisce tutti i musulmani e le
musulmane del mondo nel loro legame all’Islâm.

Il senso della vita


Dopo aver affrontato il discorso sulla concezione dell’uomo
nell’Islâm, bisogna ora porsi la domanda di dove si collochi la
sfida della vita per l’essere umano, e cercare di scoprire
quale sia il senso della sua prova.
Un versetto coranico dice: “...ha creato la morte e la vita
per mettere alla prova chi di voi meglio opera”. (Corano
LXVII, 2)
Nel cuore di ogni essere umano coesistono sia il soffio
originale, che l’amore per il bene, ma bisogna capire come si
manifestano. Il versetto 7 della sura XLIX (Al Hujurat, Le
stanze intime) dice: “(...) ma Allah vi ha fatto amare la
fede e l’ha resa bella ai vostri cuori (...)”
Tutti gli esseri, nella dimensione della fede, nella pace della
loro interiorità col Creatore, sentono questo soffio nel quale
trovano il benessere spirituale. In ogni essere umano, quando
dice la verità, è sincero, si stabilisce uno stato di pace
interiore che egli avverte come una profonda serenità. Dio ha
fatto sì che gli esseri umani amino questo stato emotivo,
questo sentimento di armonia con se stessi che scaturisce
quando si vive nella trasparenza del cuore, dell’anima, delle
azioni. Dio ha infuso nell’uomo l’attrattiva, l’amore e la ricerca
di questo stato, come spiegano gli esegeti[1] musulmani.
Il peccato viene definito come un turbamento, un ostacolo a
questa pace. In una tradizione profetica si narra di un uomo
che andò dal Profeta (*) per interrogarlo sul peccato; il
Profeta disse: “È ciò che sta nel tuo cuore, che lo agita, e
che tu non vorresti che gli altri conoscessero”. (Riportato
da Muslim)
Ogni persona porta nel suo essere segreti più o meno
confessabili , cose di cui non è fiero e che vorrebbe
nascondere, cose che lo agitano e lo mettano in disagio, anche
con se stesso, perché sa, consciamente o inconsciamente, che
ciò che ha fatto non è in armonia con la profondità del suo
essere e che, così facendo, è entrato in contraddizione con la
sua fitra, la sua natura umana originaria.
“Il cuore dell’uomo contiene il seme delle doti migliori e
nello stesso tempo i loro opposti difetti”.
L’uomo prende forma in questa ricerca innata dell’amore e
della pace, ma allo stesso tempo vive dei conflitti, subisce
inclinazioni o tentazioni negative. Questo non vuol dire che
l’uomo sia peccatore per natura, ma che deve intraprendere
una lotta, fare uno sforzo su sé stesso, per non farsi tentare
dal peccato. Nell’Islâm l’essere umano non viene considerato
né totalmente buono, né completamente cattivo; può compiere
il bene, ma anche il male. Nel suo cuore convivono il seme delle
qualità migliori contemporaneamente ai difetti loro opposti.
Ogni individuo dovrebbe gestire la sua interiorità e cercare di
trovare il proprio equilibrio personale. Nel Corano Dio dona un
importante esempio di ciò, in un versetto che parla della
gestione del denaro, dicendo:
“Non portare la mano al collo e non distenderla neppure
con troppa larghezza, ché ti ritroveresti biasimato e
immiserito”. (Corano XVII, 29)
Bisogna, quindi, saper trovare il giusto equilibrio nella
gestione delle doti che Dio ha profuso in noi badando a non
trascurarci, restando generosi e sapendo far godere anche
agli altri le nostre ricchezze.
1. La scelta tra l’oblio ed il ricordo
2. Il sacro ed il profano
3. Lo sforzo su sé stessi

[1] Esegeta, dal greco “exegesis”. Chi si dedica all’esegesi, allo


studio e all’interpretazione critica dei testi.

La scelta tra l’oblio ed il ricordo


In modo Simile avviene con la realtà dell’“ego”. Spesso ci
capita di sentirci al centro del mondo ed abbiamo tendenze
egoistiche. L’ego l’“io” può occupare una posizione esclusiva.
Quando questo ego si manifesta troppo, si traduce in orgoglio,
nella vanità espressa dalla cupidigia, dall’amore del possesso,
ma anche dalla violenza. Non siamo non-violenti per natura, ed
ogni persona che sta a contatto coi bambini lo sa. Intorno al
tema della non-violenza oggi ci sono molte riflessioni, che
spesso ci portano a guardare ai bambini come se fossero
anormali. Nella normalità dell’essere, invece, c’è una certa
violenza innata, ed è il lavoro della coscienza controllarla e
giungere al suo superamento.
La prova dell’uomo è quindi in questa battaglia, in questo
conflitto tra l’amore per la trasparenza e l’attrazione verso le
tentazioni negative come la violenza, la cupidigia, e l’amore del
proprio Io. L’Io, se non viene controllato, può occupare tutto
lo spazio e dimenticare cosa significhi umiltà.
La vanità e l’orgoglio negano Dio e si allontanano dal Creatore
per lasciare posto esclusivamente all’ego. L’essere umano deve
bilanciare continuamente i due stati del suo essere, come ha
espresso in una formula Baudelaire: “Restare in armonia con
se stessi nel rispetto della Creazione o rispondere alle
tentazioni che sconvolgono l’equilibrio del nostro essere”. Tra
questi due stati , il conflitto da un lato e l’ideale dall’altro
dobbiamo fare una scelta. Questa scelta conferisce dignità e
diventa la prova del senso della nostra umanità.
Nella tradizione islamica, quando il Creatore ordinò agli
angeli di prosternarsi davanti all’uomo per dimostrare il
proprio rispetto davanti al sapere ed alla libertà che lo
rendevano unico, tutti obbedirono tranne un démone, Iblis[1],
che si ribellò affermando: “Io sono migliore rispetto a lui”.
Se Dio ha chiesto agli angeli di prosternarsi, è stato per
mettere in evidenza che l’uomo ha la dignità di poter accedere
alla conoscenza e che possiede la capacità di compiere delle
scelte , mentre gli angeli sono creati con lo scopo
dell’obbedienza assoluta.
La dimensione della scelta è fondamentale nell’Islâm, essa
permette all’uomo di elevarsi o viceversa degradarsi fino a
sprofondare sotto allo stato animale. L’uomo si trova tra
queste due strade, come ci ricordano molti versetti del
Corano. Il Corano paragona coloro che mangiano in modo
esagerato a degli esseri peggiori delle bestie: essi hanno
dimenticato il significato del nutrirsi, tanto che non si nutrono
, ma “si ingozzano”, ignorando che il loro potrebbe essere un
gesto di adorazione se fosse fatto nel rispetto e nel buon
senso.
Gli uomini devono impegnarsi per trovare un equilibrio, e per
questo bisogna conoscre quale sia il concetto fondamentale
che ci fa passare da uno stato all’altro. Nell’Islâm si
affermare che dimenticare Dio è come dimenticare sé stessi.
Il Corano dice in modo esplicito:
“Non siate come coloro che dimenticano Allah e cui Allah
fece dimenticare se stessi”. (Corano LIX, 19)
Quando ci si dimentica di Dio, si finisce per vivere solo per se
stessi, nella manifestazione eclatante della prigione del
proprio ego. L’essere umano è sempre in bilico tra l’oblio ed il
ricordo. L’uomo ha una propensione naturale a dimenticarsi di
Dio.
Il senso della nostra esistenza sta nel compiere uno sforzo
continuo su noi stessi per passare da uno stato probabile di
negligenza (an nisyan) ad uno stato di dignità del ricordo (adh
dhikr)[2]. Nell’Islâm il ricordo ha una grande importanza: il
ricordo di Dio esige costanza e necessita un lavoro intenso di
mediazione interiore, di educazione spirituale del proprio
essere. Ciò vuol dire, per riprendere l’esempio che abbiamo
citato prima, che invece di mangiare nell’oblio, il musulmano si
ricorderà di Dio cominciando a mangiare con l’invocazione del
Suo nome, e Lo ringrazierà dopo il pasto. Ogni azione
dovrebbe cominciare con: “bismillah Ar Rahman Ar Rahim” (nel
nome di Dio il Compassionevole, il Misericordioso), ricordando
sempre che le azioni si svolgono alla luce e sotto la protezione
della Trascendenza.

[1] Iblis ,démone Per la tradizione islamica Satana non è


considerato un “angelo decaduto”, come per la tradizione
cristiana. Egli è un démone, un “jinn” , un essere creato dal
fuoco, mentre gli angeli son creati dalla luce. E’ per questo
motivo che manifestò il suo orgoglio, affermando di essere
migliore dell’uomo che era fatto di terra.
[2] Dhikr “invocazione”. Dhirk Allah “invocazione di Allah”
“ricordarsi di Dio”, è il ricordo, la evocazione di Dio; consiste
nell’invocazione dei nomi di Dio o di altre formule tradizionali
o nella recitazione del Corano.
Il sacro ed il profano
Al di là del gesto ed della parola viene, nell’Islâm, messa in
discussione la complessiva categorizzazione di sacro[1] e di
profano[2]. La definizione islamica di questi due concetti non
corrisponde a quella comune della tradizione occidentale, che
si trova nel pieno del processo di laicizzazione[3]. Per l’Islâm,
ogni gesto fatto nel ricordo di Dio viene considerato sacro.
Ogni atto compiuto nel Suo ricordo diventa sacro, e si colloca
in una dimensione spirituale, anche l’atto sessuale. In molte
circostanze il Profeta diceva ai suoi compagni:
“Quando saluti fai una sadaqa (un’elemosina che avvicina al
Creatore). Quando compi una donazione, fai una sadaqa.
Quando sorridi a tuo fratello, fai una sadaqa. Quando hai
un rapporto con tua moglie (se questo è nel ricordo di Dio),
fai ugualmente una sadaqa.”
Quest’ultima affermazione stupì i compagni del Profeta (*),
che Gli chiesero come fosse possibile essere ricompensati per
aver appagato un desiderio; allora Egli rispose:
“Se si appagasse un desiderio in modo illecito, non si
commetterebbe forse un peccato? Dunque quando lo si
appaga in maniera lecita, si merita una ricompensa.”
(Hadith riportato da Muslim).
Nell’Islâm non si parla in modo negativo del sesso, però
quando la sessualità si isola in una dimensione esclusiva fisica,
potrebbe diventare un peccato. La negatività, dunque, non sta
nell’atto stesso, ma come si compie. Se si fa nella luce della
fede, l’atto prende una dimensione sacra.
Dio ha voluto che noi fossimo degli esseri con dei bisogni, che
non ci ha impedito di soddisfare; ci viene solo chiesto di viverli
ed esprimerli con dignità, mai nel Suo oblio. L’uomo è in preda
ad una continua tensione tra l’oblio ed il ricordo; è una lotta
che dura per tutta la vita, una lotta che consiste nel scegliere
i mezzi giusti coi quali ricordare, quando tutto intorno invita a
dimenticare.
Un giorno il Profeta (*), riferendosi alla lotta che bisogna
condurre contro la violenza che si ha dentro, disse:
“Chi è il più forte tra di voi?” Un uomo gli rispose: “Colui
che sconfigge il suo nemico.” Il Profeta lo corresse
dicendo: “No, l’uomo più forte tra di voi è colui che sa
controllare la sua collera.” (Riportato da Al Bukhari)
Per dominare la collera bisogna condurre un lavoro su se
stessi, partendo dal proprio cuore. L’armonia e la pace
interiore si conquistano solo dopo un lavoro individuale intenso.
Le qualità spirituali non sono radicate stabilmente in noi; se ne
abbiamo i germogli, dobbiamo conservarli, lavorarli, custodirli,
fare in modo che siano protetti, perché, sottoposto a
determinate situazioni, un pregio potrebbe diventare un
difetto.
L’idea di una non-violenza totale e definitiva non esiste
nell’Islâm. Si mette spesso in evidenza che la non-violenza è
uno stato di superamento e controllo della violenza. In
generale potrebbe essere vero, ma accade che in certe
situazioni, paradossalmente la non-violenza diventi un atto
violento: alcuni rifiutando il conflitto in nome della non-
violenza, hanno lasciato che si instaurassero dittature e
tirannie. Il rifiuto del conflitto è fondamentale, ma da
esercitare nei limiti del possibile, perché questa non-violenza
potrebbe in certe situazioni, diventare arrendevolezza, e la
resistenza invece il simbolo della dignità. In nome della non-
violenza si possono fare le cose più nobili, ma anche quelle più
vili.

[1] Sacro Che appartiene alla divinità, che partecipa alla


potenza divina e trascende l’umano. Nella tradizione
musulmana tutto ciò che viene fatto nel ricordo di Dio.
[2] Profano Che non fa parte delle cose religiose, che non è
orientato alla vita religiosa. Nella tradizione musulmana ogni
atto in cui sia assente l’invocazione di Dio.
[3] Laicizzazione processo tramite il quale si distinguono,
storicamente, la sfera religiosa e quella dello spazio pubblico,
più noto come la separazione tra Stato e Chiesa.

Lo sforzo su sé stessi
Sapere trovare un equilibrio tra ciò che è la situazione, quello
che dovrebbe essere e ciò che noi siamo è certamente la
battaglia più difficile e lodevole dell’essere umano: è questo
che nella tradizione musulmana viene chiamato jihad.
L’uso dei termini giusti, e la conoscenza del loro significato, è
molto importante; riporto qui, come esempio concreto, un
episodio che mi è accaduto durante una conferenza: mentre
facevo riferimento alla parola jihad, entrarono nella sala
alcune persone che erano in ritardo; avevo già spiegato il vero
significato della parola nella tradizione musulmana, prima del
loro arrivo. Quando venne chiesta un’opinione ad una della
persone arrivate in ritardo, disse che fin quando i musulmani
avessero parlato di jihad, di “guerra santa”, i non musulmani
non avrebbero potuto che essere in conflitto con loro. Quella
persona non aveva sentito tutta la spiegazione del termine,
che era stata fatta in sua assenza, ovvero di jihad inteso
come sforzo. Ciò dimostra che non si può pretendere di aver
capito un termine, se non si approfondiscono tutte le sue
definizioni, le sue sfumature, ed anche la sua stessa storia.
“Il jihad è anzitutto lo sforzo spirituale che ci eleva a una
maggiore umanità davanti a Dio.”
In lingua araba jihad an-nafs significa lo sforzo che ogni
uomo deve compiere su se stesso per essere degno della sua
umanità, lottando contro la propria violenza, la collera, la
cupidigia, e l’egoismo e l’egoismo. È importante sottolineare la
grande distanza di ciò dalla traduzione comune di “guerra
santa”. È sbagliato prendere un concetto così come un
determinato momento della storia ce l’ha consegnato,
ignorando l’epoca ed il contesto. Le Crociate erano
considerate guerre sante, da una parte e dall’altra. I
musulmani, che erano stati aggrediti, usavano allora il termine
jihad, che significava sforzarsi a resistere di fronte a tali
aggressioni e assedi. Così si è finiti per tradurre, in modo
precipitoso e superficiale, la parola jihad con “guerra santa”,
facendo una trasposizione del senso delle crociate
nell’orizzonte cristiano. Se la parola jihad può voler dire
“guerra” (nel senso di guerra di resistenza), essa ha però un
significato molto più importante, più ampio e pregnante:
rappresenta verbalmente il combattimento che si attua nel
nostro essere, tra il soffio che ci richiama a Dio e tutto ciò
che vorrebbe farci dimenticare il Creatore. E’ questo sforzo
spirituale che ci fa accedere ad un livello di umanità superiore
davanti a Dio.
Da questo concetto di sforzo si sviluppano due punti
importanti: il primo è che non si può ignorare il concetto di
rigore che c’è presso i musulmani. Il rigore del cuore e quello
della coscienza sono le due dimensioni fondamentali della vita
quotidiana dei musulmani in generale. Questo richiamo al
rigore si traduce in un senso profondo di responsabilità e in un
impegno costante. Bisogna saper vivere nel mondo, nella
società, come attori, e non come spettatori. Il musulmano è
responsabile di un’etica da rispettare, di un messaggio da
trasmettere, egli ha un dovere, una missione, un impegno
attivo nella società in cui vive, deve sapere farsi carico delle
esigenze della sua comunità religiosa, e più in generale, della
comunità di tutti gli esseri umani.
Il secondo punto esige un cammino inverso, perché si tratta
di consacrare il proprio essere alla vita interiore ed
all’autodisciplina. L’Islâm, contrariamente ad alcune culture
che non accettano un simile prospettiva, lo rivendica, come
nella tradizione induista o buddista, o quella dello yoga, e in
tutte le spiritualità in cui il lavoro sul proprio essere e sul
proprio cuore sono alla base di ogni riforma.
Nell’Islâm questa disciplina si attua in una pratica, che è
quella del ricordo e da un rigore, disciplina fatta di preghiera,
cinque volte al giorno e di digiuno, di elemosina obbligatoria
(zakat) e del pellegrinaggio.
Ognuno di questi pilastri[1] esige un’attenzione, un controllo
del proprio corpo, del proprio denaro, del proprio tempo, e
prima ancora del proprio essere. Ciò che l’uomo fa del suo
essere, rivela il suo modo di essere davanti a Dio.

[1]
I cinque pilastri dell’islam.
La shahada: testimonianza di fede: “ashhadu an la ilaha illa
Allah ,wa ashhadu anna Muhammadan rasulul Llah” ( testimonio
che non c’è alcun Dio all’infuori di Allah e che Muhammad è
Suo inviato). Quando vi si aderisce con sincerità ne deriva la
sottomissione (Islâm) a Dio. È il fondamento, l’asse e la
determinazione dell’ “essere musulmano”. È il primo pilastro
dell’Islâm.
La salat, la preghiera, cinque volte al giorno: all’alba, (salat al
subh), prima dell’apparizione del sole; a mezzogiorno, dopo lo
zenith (salat adh dhor); a metà pomeriggio (salat al asr); al
tramonto del sole (salat al magrib) dopo la scomparsa del sole
all’orizzonte; e durante la prima parte della notte (salat al
isha). È il secondo pilastro.
La zakat, l’imposta sociale purificatrice, è un prelievo
annuale sui beni che il credente possiede (oro, argento,
bestiame, prodotti agricoli, merce commerciale) a partire da
un minimo stabilito. Viene distribuita ad otto categorie di
persone specificate nel Corano, nella Sura IX,60. È il terzo
pilastro.
Il sawm, digiuno, consiste nell’astensione dal bere, dal
mangiare e dall’avere rapporti sessuali durante il giorno,
dall’alba al tramonto. Si svolge durante il mese di Ramadan,
nono mese del calendario lunare islamico. E’ il quarto pilastro.
Il hajj, il pellegrinaggio maggiore, si compie alla Mecca (oggi
in Arabia Saudita) almeno una volta nella vita, in un periodo
preciso dell’anno, se si hanno le condizioni fisiche ed
economiche per farlo. È il quinto pilastro.

L’Universo come libro


Il rigore e la disciplina costituiscono dimensioni essenziali del
cammino, perché lo sforzo intrapreso per il Suo ricordo ci
custodisce nella Via. Termine quest’ultimo, difficilmente
definibile nella tradizione musulmana che si traduce in arabo
con la parola sharia[1]. L’uso mediatico di questo termine ne ha
velato il significato più essenziale, esso ha un posto molto
importante per l’Islâm, come quello dello sforzo spirituale e di
resistenza (jihad). I media, e anche alcuni intellettuali
musulmani e non presentano questi termini nel loro uso più
radicale, distorto, malevolo, facendo il gioco di coloro che
promuovono una visione riduttrice ed aggressiva dell’Islâm.
1. La via
2. Le diverse dimensioni dell’adorazione

[1]
Sharia Non esiste una sola definizione del concetto di
sharia. I sapienti hanno circoscritto il suo senso generale
attraverso le loro competenze nelle specializzazioni negli studi
islamici, e partendo dall’accettazione più ampia a quella più
riduttiva, possiamo dare le seguenti definizioni:
Ash sharia, sulla base della radice della parola significa
“la via, il cammino che porta all’origine” ed esprime i contorni
di una concezione globale della creazione, dell’esistenza, della
morte, del modo di vivere che ne deriva, nato dalla lettura e
dalla comprensione delle norme espresse nelle scritture.
Stabilisce “come essere musulmani”.
Ash sharia, per gli usuliyyn (sapienti che si dedicano
alla conoscenza dei fondamenti della legge islamica) ed i
giuristi, è il corpus dei principi generali della legge islamica
estratta dalle due fonti fondamentali, il Corano e la Sunna,
con l’utilizzo di altre fonti principali “al ijma e al qiyas” e
secondarie “al istihsan istislah, istishad, ‘urf” (ijma: consenso
unanime o maggioritario d’opinione; qiyas: ragionamento
giuridico per analogia; istihsan: giudicare una cosa buona, è
l’applicazione della “preferenza giuridica”; istislah:
considerazione legata all’interesse pubblico; istishab;
presunzione di continuità di ciò che fu anteriormente
prescritto; ‘urf: costume).

La via
La sharia, letteralmente, si traduce come “il cammino che
porta alla fonte”, ma viene invece intesa da molti, come
l’applicazione di una sistema di legge, che inizia col tagliare le
mani ai ladri o lapidare gli adulteri. È una traduzione che viene
utilizzata persino da alcuni musulmani, il quali sono conventi
che una società non diventi islamica se non quando inizi una
repressione brutale delle colpe. Questa accettazione è
lontana da ciò che pensa e comprende la maggioranza dei
musulmani. Secondo la tradizione islamica Dio mette a nostra
disposizione molti “strumenti”. Il primo strumento che ha
messo a disposizione della coscienza umana consiste in una
Rivelazione che si realizza in due modalità. Leggendo
Montaigne[1], Rabelais[2], o la letteratura del
Rinascimento[3], incontriamo un nuovo modo di dire, e cioè “il
libro del mondo”.
Questa formula deriva dall’incontro storico tra la tradizione
occidentale, partendo dalle università italiane e spagnole, con
l’università islamica e la sua concezione del rapporto con la
Rivelazione. Questa espressione è in realtà molto più antica, in
quanto già nel IX secolo dell’Islâm si parlava del “Libro
spiegato”, “al Kitab al Manshur”. Quando Dio enumera nella
Rivelazione coranica gli elementi della natura, usa il termine
“segno”, e ovunque ci sono segni della Sua presenza:
“I sette cieli e la terra e tutto ciò che in essi si trova Lo
glorificano, non c’è nulla che non Lo glorifichi lodandoLo…”
(Corano XVII, 44)
Per esemplificare questa visione immaginiamo un albero. Chi
lo guarda non potrà che vedere un semplice albero. Ma l’uomo
si è avvicinato alla luce della Rivelazione divina, vedrà in
questo albero la manifestazione e la presenza del Creatore; ci
coglierà un segno, così come in tutti gli altri elementi della
creato, se guardati dalla profondità della fede.
L’essenziale non consiste nella diversità della pratica dei riti,
ma si trova nel soffio divino e nel senso della fede.
Una notte il Profeta Muhammad (*) passò tutto il tempo a
piangere, e quando Bilal[4], il muezzin[5], incontrandolo al
mattino all’ora della preghiera, gli chiese la ragione del suo
stato, il Profeta rispose:
“Come potrei non piangere avendo ricevuto dall’alto dei
sette cieli: “In verità nella creazione dei Cieli e della
Terra, nell’alternarsi della notte e del giorno, ci sono dei
segni per coloro che hanno intelletto”. (Corano III 180)
Tutta la natura parla di Lui, tutto ci dimostra la Sua
presenza. La parola araba aya[6] indica sia il “versetto
coranico” che il “segno”. Lo stesso termine per due definizioni
diverse, come se Dio avesse voluto dire che se la Rivelazione
coranica è un segno, i segni della natura sono una rivelazione,
un libro aperto allo sguardo ed alla coscienza dell’uomo.
Esistono, dunque, due rivelazioni, quella della creazione e
quella della profezia. Il ciclo della profezia nell’Islâm
comprende tutti i profeti, da Adamo a Muhammad, passando
per Noè , Abramo, Mosé e Gesù, e tutti gli altri che sono stati
inviati da Dio per trasmettere un messaggio e compiere una
missione. Nella tradizione islamica tutti i profeti, nonostante
la loro particolarità di essere inviati di Dio, non hanno perso la
loro dimensione umana. La loro esemplarità è legata al fatto
che siano umani, e ciò implica che la grandezza di questi esseri
non si è sviluppata solo attraverso il loro carattere di
messaggeri, ma anche e sopratutto, attraverso il giungere ad
una padronanza, ad un rigore, ad una disciplina del loro essere.
“Nell’Islâm i profeti formano una catena unica e tutti i
loro messaggi fanno parte della Rivelazione divina,
proclamata nella sua forma più completa da Muhammad
(*)”.
“E in precedenza guidammo Noè; tra i suoi discendenti
[guidammo]: Davide, Salomone, Giobbe, Giuseppe, Mosè e
Aronne. Così Noi ricompensiamo quelli che fanno il bene. E
[guidammo] Zaccaria, Giovanni, Gesù ed Elia. Era tutta
gente del bene. E [guidammo] Ismaele, Eliseo, Giona e Lot.
Concedemmo a tutti loro eccellenza sugli uomini”. (Corano
VI, 84-86)
Il profeta è, tra l’altro, anche il modello di chi è riuscito ad
elevarsi e a trasformare i suoi difetti in pregi, gestendo la sua
natura umana, ciò che lo rende accessibile agli altri uomini. I
profeti sono stati inviati per insegnare il senso del cammino, il
modo di trovare l’equilibrio e la pace interiore: tra il corpo e il
cuore, saper nutrire senza dimenticare l’altro, saper
ricordarsi di Dio senza tralasciare gli impegni quotidiani.
Questo è stato anche l’insegnamento del Profeta Muhammad
(*) che ha insistito sull’importanza della fede e del cuore,
mettendo in evidenza che si può essere al contempo pii e
nutrirsi, sposarsi e svagarsi, vivere pienamente la propria vita
di esseri umani insomma. Accettare l’umiltà della propria
condizione umana, rinforza l’idea di un rispetto e di una
sottomissione riconoscente al Creatore.

[1] Montaigne Michel Eyquem (1533-1592) Scrittore


francese. Nei suoi Essais (1595) scopre l’incapacità dell’uomo.
[2] Rabelais Francois (1494 1553). Scrittore francese autore
di Orribili e spaventevoli fatti e prodezze del molto rinomato
Pantagruel (1532) e di La vita inestimabile del grande
Gargantua (1534). È uno degli umanisti del Rinascimento.
[3] Rinascimento Rinnovamento culturale che avvenne in
Europa tra il XV ed il XVI secolo, da un lato nel campo
letterario, artistico e scientifico, e dall’altro nel campo
economico e sociale, con grandi scoperte, e la nascita del
capitalismo moderno. Si elabora una morale umanistica,
derivata da un lato dall’entusiasmo di Rabelais, dall’altro dallo
scetticismo di Montaigne.
[4] Bilal (morto nel 641).Compagno del Profeta (*) era una
delle persone a Lui più vicine. Di origine etiopica, convertito
all’Islâm, liberato da Abu Bakr (anch’egli compagno del
Profeta), Bilal entrò al servizio di Muhammad. Dopo aver preso
parte all’egira (migrazione di Muhammad nel settembre 622
dalla Mecca verso la Medina) divenne il muezzin ufficiale
quando “l’adan” (richiamo alla preghiera) fu istituito a Medina,
nello stesso periodo in cui divenne il servitore personale di
Muhammad ed il suo intendente.
[5] Muezzin in arabo “mu’addhin”. Colui che fa il richiamo per
la preghiera “adhan”, dall’alto del minareto o sulla soglia di una
moschea.
[6] Aya (plur. ayat) Segno, indicazione, ma anche versetto.
Versetto è tuttavia una traduzione impropria, stabilita per
analogia con i versetti biblici.

Le diverse dimensioni dell’adorazione


L’uomo che ha capito il senso di questo equilibrio può
percorrere, in modo individuale, il cammino della sua vita con
serenità, applicando tutti gli insegnamenti e le regole dettate
da Dio, senza mai dimenticare però di essere parte di una
comunità, anche quando compie gli atti dell’adorazione. Ognuno
dei cinque pilastri essenziali dell’Islâm, favorisce un cammino
spirituale che è in rapporto con la comunità di fedeli.
Molteplici sono le dimensioni nell’adorazione: prima di tutto
la purificazione dell’essere attraverso la preghiera (salat),
essere con Dio, da soli, cinque volte al giorno, lasciando fuori il
mondo per non percepire altro che la Sua Realtà attraverso
un’elevazione spirituale. Preghiera che si può fare da soli,
perché essa è espressione dell’intimità del cuore che si rivolge
al Creatore, ma che è più meritorio fare in gruppo. Ci viene
insegnato che una preghiera con altre persone vale ventisette
volte una preghiera fatta individualmente. Essere nella
solitudine della propria interiorità, ma allo stesso tempo con la
comunità rinforzi l’uomo così come l’uomo arricchisce la
comunità. Il musulmano è dunque solo nella propria preghiera,
ma ha bisogno degli altri per vivere questa solitudine, nel
cuore di un’armonia collettiva.
Il digiuno (sawm) evidenza lo stesso principio, cioè una
dimensione che è insieme purificazione del cuore nell’ambito
spirituale, ma anche purificazione del corpo, che dura per un
mese all’anno, o più (per coloro che aggiungono dei giorni di
digiuno volontario o sostitutivo). Questa purificazione si fa da
soli, perché ogni persona soffre la fame personalmente, ma
anche collettivamente perché tutte le persone digiunano nello
stesso periodo. Lo stesso discorso vale per il pellegrinaggio
(hajj), ogni persona sopporta da sola lo sforzo di andare verso
la casa di Dio, ma contemporaneamente altre centinaia di
migliaia di persone si dirigono verso lo stesso luogo.
La zakat, imposta sociale purificatrice, consiste nel prelevare
dal denaro di ogni persona una certa somma (circa il 2,5% del
suo capitale) che servirà sia come purificazione individuale,
che come un gesto di solidarietà sociale nei confronti dei
bisognosi.
La realtà della purificazione del patrimonio attraverso la
zakat, del cuore attraverso la preghiera, del corpo attraverso
il digiuno, si riflette in tutti gli atti dell’adorazione, affinché
l’uomo possa avvicinarsi sempre di più alla sua natura originaria
di adoratore dell’Unico.
Questa sistematica purificazione facilita il cammino dell’uomo
verso la libertà, nel modo in cui Dio ha stabilito e nel modo in
cui il Suo messaggero ci ha indicato.

Conclusioni
In queste poche pagine, non tutto è stato detto e ci è stato
possibile solo affrontare qualche questione prioritaria, senza
che quelle trascurate siano effettivamente secondarie, anzi!
In questa conclusione affronteremo ancora il tema dell’amore
e del sapere che ci spronano a vivere senza mai chiuderci in
noi stessi. È la sola conclusione possibile, perché tutti i
concetti studiati, con la comprensione che richiedono, hanno
una finalità esplicita: mettersi in strada, dirigerci nelle
prossimità dell’Unico. Amare e sapere, per adorarLo e per
servire gli esseri umani.
1. L’amore e l’obbedienza nell’amore
2. Il sapere del cuore e il sapere dello spirito

L’amore e l’obbedienza nell’amore


L’amore è un concetto centrale per l’Islâm, ed è indissociabile
dalla tradizione musulmana, anche se alcuni fedeli tendono a
trascurarlo:
“Di': «Se avete sempre amato Allah, seguitemi. Allah vi
amerà e perdonerà i vostri peccati. Allah è perdonatore,
misericordioso”. (Corano III, 31)
L’essenza stessa dell’Islâm si sviluppa nell’amore. Tutto, nella
tradizione islamica, ruota intorno all’esperienza del cuore in
rapporto al Signore. Il Paradiso e l’Inferno vengono evocati
per esprimere una sorta di transazione conclusa tra Dio e le
Sue creature. Alcuni filosofi e mistici musulmani hanno messo
in evidenza una dimensione superiore a questa visione. L’imam
An Nawawi (1233-1277), scrittore del XII secolo, afferma
che esistono due tappe nella fede: la “fede del commerciante”
che si dona a Dio in cambio del Paradiso e, la “fede
dell’avvicinato” che si consacra a Dio con un atto di puro
amore. Il concetto di scambio sparisce per far posto ad un
amore totale, intero, gratuito.
Questo amore si sviluppa durante un cammino connotato da
disciplina e rigore interiore. Questa è l’interpretazione e la
visione dell’essere di fede, e del rabbani (l’essere pervaso
dalla coscienza di Dio) che hanno una spiritualità più alta del
comune, perché la sviluppano in modo più intenso, con
un’attenzione ad ogni istanti, per liberarsi attraverso Lui, e in
Lui. Cercano con questo sforzo assiduo di pervenire ad una
sorta di intimità, qualche volta di fusione, con l’Altissimo.
Questa dimensione è importante perché traduce ciò che è la
speranza ultima del musulmano: non solo il Paradiso, ma la
visione di Dio, il desiderio di essere con Lui, in Sua presenza,
in una pienezza d’amore.
Come possiamo allora definire la prova rappresentata dalla
purificazione? L’imam Al Ghazali (1058-1111) sviluppa nel suo
libro “La revivificazione delle scienze religiose” un’idea
interessante. In sostanza egli dice: “Il nostro cuore è sempre
pieno di qualcosa, non lo si può svuotare completamente.
L’uomo può scegliere se riempirlo con futilità, o riempirlo di
essenziale, di profondità, di presenza divina. Questo lavoro
richiede di allontanarsi dal futile e riempirsi di essenziale. Il
senso della nostra vita sta in questo, in questa coscienza
dell’essenziale”.
Anche una tradizione profetica ci ricorda questa dimensione,
cioè di essere con Dio come se Lo vedessimo, perché, anche se
noi non Lo vediamo, Lui ci vede. Bisogna capire bene il
significato dello sguardo divino: non si tratta di una presenza
che deve automaticamente ispirare un senso di colpa, ma di
una presenza pervasa da ciò che in arabo si chiama khushu’. In
alcune traduzioni coraniche il khushu’ si definisce “timore di
Dio”, ma questo termine non è completamente esatta, perché
si avvicino troppo al significato di paura.
Il timore può tradurre due modi: quello che sorge davanti a
ciò che non conosciamo, per esempio il futuro; o il timore
provato da colui che è abitato da un sentimento di colpa
sapendo che Dio lo sorveglia e che Egli conosce i suoi errori e
le sue mancanze.
Un approccio più completo invece deve mettere l’accento su
un timore che si definisce a partire dalla vicinanza affettiva,
un timore che viene da un amore totale, esclusivo, timore di
ingannare l’Essere amato. Si ritrova questo timore nella
relazione tra un uomo e una donna che provano sentimenti
d’amore, o nei bambini che amano i propri genitori al punto di
temere di deluderli. È il timore di non rispondere
all’aspettativa dell’amore dichiarato. Per restare fedeli al
senso della tradizione musulmana, bisogna prendere in
considerazione quest’ultima definizione.
Il concetto d’amore e di obbedienza nell’amore è
fondamentale nella spiritualità musulmana, così come per tutte
le spiritualità che affermano che bisogna imparare ad amare
per poter servire ed entrare nella pace della fede.

Il sapere del cuore e il sapere dello spirito


Per essere capaci di amare bisogna affrontare due tappe
supplementari che sono quella del sapere interiore e quella del
sapere dello spirito. Sapere col cuore, sapere con l’intelligenza
richiede uno sforzo, un lavoro mentale e spirituale profondo
ed esigente. Sono le due componenti della coscienza del
fedele. La seguente formula coranica traduce bene questa
realtà:
“Tra i servi di Allah solo i sapienti Lo temono” (Corano
XXXV, 28)
I commentatori hanno messo in evidenza che si tratti sia dei
sapienti del cuore che dei sapienti dello spirito; l’importante è
che questa coscienza sia abitata dalla luce, e che ci aiuti a
conseguire il fahm, cioè la comprensione del senso nella
presenza divina, allo stesso tempo cosciente e nella coscienza.
Presenza che dà senso alla vita, il fahm si capisce nelle
profondità dell’essere coscienti di ciò che siamo, di sapere
perché siamo, e del cammino che vogliamo intraprendere per
protenderci verso l’Essere. Dio accompagna l’essere di fede in
questo sentiero, in nome dello sforzo che fa per Lui, per
adorazione e con amore (al-hubb).
Questo è il senso profondo di una della invocazioni più belle
che il Profeta dell’Islâm (*) ci ha insegnato:
“O Signore, Ti chiediamo il Tuo amore, l’amore di coloro
che Ti amano, e di agire in modo da accedere al Tuo
amore”.
Siamo qui nel cuore del messaggio dell’Islâm, dove si sposano
la luce ed il calore della Sua vicinanza ... Tutti i matrimoni
testimoniano questa bellezza, e chiamano a nutrirsi del senso
profondo dell’esigenza del cuore e dello spirito.

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