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Discussioni

Croce aspirante consigliere di Mussolini?


di Gennaro Sasso

A questa domanda, ardimentosamente formulata in un libro recente1, stata data, da colei, Rossella Martina, che lo ha scritto, positiva risposta. A suo giudizio, scrivendo nella prima met del 1924 la Politica in nuce, sorretto comera dalla convinzione che nella storia non concepibile regresso reale, Croce sembr quasi riconoscersi in un Machiavelli del XX secolo dove Mussolini sarebbe niente meno che il Valentino affidatogli dalla storia (p. 3). Il paragone proposto non senza una qualche disinvoltura, non fosse che per la circostanza che, quando componeva il Principe, Cesare Borgia era morto da circa sei anni, s che era al suo passato, non al suo presente, che, scrivendo di lui nel settimo capitolo, Machiavelli si rivolgeva; laddove, quando progettava e delineava il suo saggio, Croce aveva dinanzi agli occhi un personaggio vivo, al quale guardava con interesse e con altrettanta preoccupazione. Non giova, tuttavia, essere pedanti. E vada, dunque, per Machiavelli, vada per il duca Valentino, sui quali non sarebbe stato male se, comunque, la Martina si fosse un po meglio informata: per la migliore consapevolezza che avrebbe acquisita della differenza che, nellimpianto delluna e dellaltra, sussiste fra opere come il Principe, da una parte, la Politica in nuce, da unaltra; fra un testo che descriveva e prescriveva un comportamento politico infallibilmente virtuoso, e lo poneva a confronto, a drammatico confronto, con le variazioni e i venti della fortuna, e uno che non descriveva e non prescriveva, perch piuttosto era volto a cogliere, in primo luogo, lessenza categoriale della politica. E a darne perci la filosofia nel quadro di un sistema complesso, che non lecito conoscere di seconda, terza,

1 R. Martina, Croce giornalista. Dal biennio rosso allantifascismo, pref. di E. Giammattei, Editoriale scientifica, Napoli 2005. Avverto che di questo libro esaminer solo la parte concernente gli Elementi di politica e la differenza che, secondo lautrice, sussisterebbe fra la prima redazione (1924) e la seconda (1931). Su altri aspetti non mi soffermo se non incidentalmente, o solo in quanto riconducano al primo.

LA CULTURA / a. XLIV, n. 2, agosto 2006

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quarta mano e per sentito dire. A darne la filosofia, distinguendola sia dalla politica nel suo farsi, sia dalla scienza empirica di essa. A queste differenze, poich non le stanno chiare nella mente, la gentile autrice non ha badato; e cos, anche la confusione ha il suo fascino, si lasciata sedurre dallidea che Croce avesse dato mano agli Elementi di politica, e, sopra tutto, alla Politica in nuce che ne costituisce il nucleo teoretico, per inserirsi nella breccia tenuta aperta nel partito fascista da Giuseppe Bottai e dalla corrente dei normalizzatori e di diventare cos il maestro di pensiero politico di un movimento che sarebbe dovuto tornare ai principi del liberalismo pur senza tradirne altri, che invece appartenevano pi specificamente al fascismo, ma che tuttavia non erano affatto lontani dal modo in cui Croce concepiva lo Stato (p. 4). Lidea, dalla quale la Martina si lasciata sedurre, certamente singolare; e, sebbene nel corso dei decenni di Croce si sia detto e scritto di tutto, si pu ben definirla inaudita prius. A questa idea, gi qui, in questo punto del discorso, pi di un rilievo potrebbe essere mosso. Potrebbe chiedersi, infatti, che razza di maestro Croce si proponesse mai di essere se, da una parte, senza pretendere che al fascismo si togliesse quel che, pi specificamente, gli apparteneva, il suo intento era di farlo tornare (tornare?) ai princpi del liberalismo. I quali non erano, daltra parte, i suoi princpi, non erano i princpi di Croce, se, nella questione dello Stato, il suo pensiero non era, a giudizio della Martina, difforme da quello che Mussolini e il suo movimento avevano fatto proprio, dimostrando che, per questa parte, non avevano bisogno di imparare da altri quel che gi possedevano per averlo appreso da altre fonti. Ma queste potrebbero essere giudicate sottigliezze. Potrebbero, addirittura, esser prese per sofismi. E allora si prosegua, dicendo quale sia la tesi della Martina e come ne sia stata ragionata. A suo parere, scritta nella prima parte del 1924, e pubblicata nel fascicolo di maggio di quellanno, nella Critica, la Politica in nuce nascondeva, dietro il velo della teoria, la finalit pratica per la quale era venuta al mondo. Ma, gi nel giugno di quellanno, lassassinio di Giacomo Matteotti mand allaria, o mise fortemente in crisi, lambizione magistrale del filosofo che, quando ristamp il suo scritto nel 1931, si trov nella necessit di rivederlo, di mutarlo in alcune sue parti per renderlo in tal modo conforme alla sua nuova condizione di leader, sotto il fascismo ormai consolidatosi al potere, dellopposizione liberale e culturale. Nella nostra ingenuit, e inesperienza del lavoro storiografico, avevamo ritenuto che la Politica in nuce del 1924 fosse la stessa che, nel 1931, Croce aveva inserita, subito dopo i Frammenti di etica, nella seconda parte di Etica e politica. Grave errore, in cui, come i countrymen invocati dallo shakespeariano Marco Antonio, tutti cademmo, e what a fall was there! Gli Elementi di politica del
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1931 non sono gli stessi che si erano letti in due fascicoli della Critica del 1924. Furono modificati, aggiustati, adattati alle nuove circostanze; al pari, del resto, di non poche altre scritture politiche di Croce che, nel ripresentarle, talvolta a distanza di anni, in volume, con la sua sottile arte letteraria le sottopose a un abile lavoro di restauro, in modo tale che, fatta salva la sua personale onest, giunse in pi di un caso a mutarne, se non il senso, almeno il tono. Morale della favola. I testi vanno ricercati, e letti, l dove per la prima volta comparvero; solo cos, nel rileggerli in altre sedi, li si potr sul serio storicizzare. Verissimo. E si accetti la lezione con la dovuta umilt, come si conviene a studiosi che siano innanzi tutto dei gentiluomini e che perci non rifiuterebbero mai di prestare ascolto a chi insegnasse loro cose che gi avessero apprese da altri maestri. Ma si chieda anche (perch anche questo fa parte del mestiere): proprio cos? proprio vero che gli Elementi del 1931, e, in particolar modo, Politica in nuce, del 1931, differiscono nella sostanza, e al di qua, quindi, del lavoro stilistico sempre esercitato da Croce sui suoi testi2, da quelli del fatale 1924? A questa domanda si risponder pi in l nellunico modo possibile; esaminando le varianti e cercando di stabilire il loro significato. Ma, intanto, si chieda; che cosa sono gli Elementi di politica? Il che significa, in primo luogo: com congegnata la teoria che vi esposta? Croce concep lidea di scriverli tra la fine del dicembre 1923 e gli inizi dellanno successivo3, quando, appunto, cominci a meditare
2 Martina, op. cit., p. 5, definisce questa cifra stilistica lavoro di detersione, e, proprio in riferimento agli Elementi di politica, ne attribuisce la paternit a Luigi Russo, senza, per altro, indicare la fonte. Ripercorrendo gli scritti che Russo ha dedicati a Croce, questa formula io non lho trovata. 3 Il primo accenno a un libretto da scrivere di Elementi di politica si trova nei Taccuini di lavoro, II, Napoli 1987 [ma 1992], p. 353, alla data del 19 gennaio 1924; ma il 27 dicembre 1923, Croce accennava a una riunione per la costituzione in Napoli di un Circolo di studi politici (p. 349), che quello, poi denominata Societ, per il quale egli pronunzi nel maggio 1924, il discorso che pu ora leggersi in Etica e politica, Bari 1931, pp. 353-359, e i cui concetti sono, in sintesi, quelli della Politica in nuce (ossia della, parte teorica degli Elementi). Il 3 gennaio 1924 Croce impegnato nella lettura dellimpossibile libro del Pareto (p. 351: si tratta della seconda edizione del Trattato di sociologia), al quale accenner negli Elementi (Etica e politica, p. 245). Dai Taccuini risulta che Croce non riprese il lavoro se non il 13 marzo quando scriveva di averne abbozzati altri. Il che lascerebbe intendere che ne avesse avviati gi in precedenza, e che il diario non ne avesse data notizia; oppure, poich i capitoli della Politica in nuce sono soltanto quattro, che il disegno o abbozzo a cui qui Croce alludeva riguardasse i capitoli della parte storica. Ma unipotesi che sembra contraddetta dallannotazione del 3 aprile, nella quale Croce scriveva di avere composto il 4 paragrafo (p. 363), che devessere, senza ombra di dubbio, lultimo della Politica in nuce se, il giorno dopo, avvertiva di aver riveduti appunti per un paragrafo storico e di aver poi rinunziato a includerlo nel primo saggio, proponendosi di avvalersene altrimenti. La Politica in nuce giunse comunque al suo compimento il 5 aprile, quando Croce ne inizi la revisione che ebbe termine il giorno dopo, che fu anche quello in cui larticolo fu inviato in tipografia per la Critica di maggio. Fra il 14 e il 15 dello stesso mese Croce attese alla correzione delle bozze; e, per allora, il saggio ricevette il suo ne varietur.

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su un libretto al quale avrebbe poi assegnato quel titolo. Perch questa idea prendesse forma nella sua mente, non difficile comprendere, se si pensa alle questioni che gli stavano di fronte e che non poco lo preoccupavano; e sempre che, beninteso, invece di coltivare la storiografia dei camerieri di hegeliana memoria, invece di cedere alle lusinghe dellinaspettato e dello stupefacente, si cerchi di dar corso allaltra, che si rivolge alle passioni e ai pensieri, e si sforza di comprenderli per ci che sono senza, daltra parte, ridurli alla misura della vaga e media e immediata quotidianit. Quellidea prese forma nella sua mente perch, come poi ebbe a scrivere nella Storia dItalia, il moto di pensiero che, agli inizi del secolo ventesimo, egli aveva contribuito ad avviare, aveva riguardato fin l piuttosto le questioni della estetica e della logica che non quelle specifiche della politica e della storia4. Sebbene, tra la fine del secolo decimonono e gli inizi del nuovo, si fosse cimentato nello studio di Marx, avesse affrontata la questione del diritto per riprenderla e approfondirla nella Filosofia della pratica, e alle questioni della storia e della storiografia, gi trattate nella Logica, avesse dedicato un apposito volume, con il quale la filosofia dello spirito tocc il traguardo, pure un fatto che la politica aveva ricevuta fin l unattenzione soltanto indiretta; mentre di por mano alla scrittura di storie che fossero conformi alla pi matura idea che ne aveva elaborata in sede teorica, non aveva ancora avuta loccasione. A fargli insorgere lidea di una specifica trattazione della politica erano stati dunque i tempi che avevano immediatamente preceduta e poi seguta la prima guerra mondiale. Era stata la convinzione, sua e non soltanto sua, che quellevento aveva come spezzato in due il corso della storia, e che niente sarebbe stato pi quale prima era stato, nuove questioni sarebbero sorte ad affrontare le quali gli uomini di ieri non erano stati in nessun modo preparati. Croce non era uomo che, daltra parte, potesse consegnare s stesso alla sterile e, insieme, narcisistica, dimensione dellapocalisse. Detestava i profeti di sciagure. A Spengler, quando nel 1919 ebbe fra le mani il primo volume di Der Untergang des Abendlandes, aveva opposto un fermo rifiuto5. In quegli anni angosciosi, aveva seguitato la sua vita di sempre consacrata agli studi e alla costante attuazione di quanto si fosse via via proposto di realizzare. Alla crisi che, come allora accadde ai tanti che sentivano e soffrivano come lui, occupava una parte non piccola dei suoi pensieri, cominci a dare le risposte

4 Storia dItalia dal 1871 al 1915, Bari 1928, pp. 259-261 (su questo punto richiamai lattenzione molti anni fa in La Storia dItalia di Benedetto Croce. Cinquantanni dopo, Napoli 1979, pp. 65-66). 5 La recensione che ne fece pu ora leggersi in LItalia dal 1914 al 1918, Bari 19503, pp. 312-317.

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che pi gli sembrava convenissero a quella. E non solo, meglio e pi sistematicamente che prima non fosse accaduto, si pose la questione della politica, considerata, come si detto, nella sua dimensione categoriale e nellaltra, inoltre, ascrivibile alla scienza empirica che se ne fosse costruita. Ma, in stretta connessione con quella, e al modo in cui la si dovesse considerare, prese a scrivere di storia in modo diverso da quello che aveva tenuto nella sua fase giovanile. Nel 1923, mentre gi urgeva la riconsiderazione della politica e dei suoi significati, cominciarono ad apparire nella Critica i capitoli che avrebbero formata la prima delle sue maggiori opere di storia: la Storia del regno di Napoli, libro certamente mirabile e da molti considerato, in questo campo, come il suo capolavoro. Accanto a questa linea di pi netto rilievo, che il suo pensiero allora tracciava allo scopo di pervenire, attraverso la comprensione del difficile presente e delle sue novit, alla migliore consapevolezza di s stesso e dei suoi (chiamiamoli cos) fondamenti, ne correva unaltra, pi tenue, pi legata alle cose contingenti; una linea segnata dalla necessit di afferrare quel che, nella sua, direi quasi, quotidianit, quel medesimo presente gli poneva davanti. Delle pi immediate e contingenti riflessioni che la formavano, lo scopo era quello, ovvio, di dare alla crisi la risposta pi accorta e prudente, quella che meglio si adattasse alle novit, come prima le si definite, che la guerra aveva immesse nella politica italiana. A occupare la scena, che ne riusciva perci non poco mutata rispetto a quella di innanzi la guerra, era stata infatti una forza nata, come allora si disse, dalle trincee e ignota perci alle vecchie classi dirigenti. Era stato il fascismo con i variopinti, e spesso contraddittorii, elementi che lo costituivano: con il suo capo, assai discusso e che, non di meno, con la sua personalit, si era imposto allattenzione anche di coloro che ne diffidavano, o, addirittura, lo avversavano e combattevano6; con il suo seguito, costituito non solo dagli estremisti e dai moderati, ma altres dalle squadre dazione che, con la violenza, si rendevano persuasive nei confronti di chi pensasse altrimenti dal loro capo. Si tocca qui il punto, e si delinea la questione, concer-

6 Che in Italia, gi a partire dal 1915, si fosse formato, o si stesse formando, una sorta di mito di Mussolini, stato pi volte notato: cfr. per tutti E. Gentile, Il fascismo. Storia e interpretazioni, Bari 2002, pp. 113-146. Che anche Croce fosse stato colpito dalla personalit di Mussolini, possibile (si veda, per es., la sua lettera del 30 aprile 1923, in Epistolario, I, Scelta di lettere curata dallautore, 1914-1915, Napoli 1967, p. 99, ma, sopra tutto, Storia dItalia, pp. 275-276; senza dimenticare quel che su Mussolini interventista, scrisse a Prezzolini, il 7 dicembre 1914 (B. Croce e G. Prezzolini, Carteggio, II, 1911-1945, a cura di E. Giammattei, Roma 1990, p. 447) l dove osserv che, nel difenderlo contro coloro che lo stimano persona abietta e venduta, non poteva tuttavia difendere il suo cervello): anche se in lui forse fin dallinizio vide lIdealtypus del puro politico, ossia di un carattere che, per un verso lo attraeva, e per un altro lo respingeva, in ragione, si direbbe, della sua astrattezza, del suo starsene come separato, e non distinto, dalla vita morale.

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nente il modo in cui, fra il 1922 e il 1924, Croce visse la vicenda del fascismo; e quindi la relazione che, comera inevitabile, egli pose fra quel che era accaduto nel cos detto bienno rosso e la crisi che in forme sempre pi esplicite aveva colpito, e colpiva, le strutture dello Stato liberale, uscite indebolite dalla guerra e incapaci di fronteggiare il nuovo. Che di questa incapacit Croce si fosse via via reso consapevole, e con pi nettezza forse di quanta, per questa parte, possa cogliersi nei pensieri di altri che, al pari di lui, allidea liberale erano naturaliter fedeli, ben noto. Ma devessere ribadito. Se i liberali, aveva detto in unintervista rilasciata il 27 ottobre 1923, al Giornale dItalia, non hanno avuto la forza e la virt di salvare lItalia dallanarchia in cui si dibatteva, debbono dolersi di s medesimi, recitare il mea culpa, e intanto accettare e riconoscere il bene da qualunque parte sia sorto, e prepararsi per lavvenire7. Parole forti, come si vede, e nette; nel pronunziare le quali, non pu dirsi che non avesse ragione. La crisi dello Stato liberale gli appariva in effetti segnata da caratteri di tale gravit da fargli ritenere impossibile che ad affrontarla e a risolverla fossero le forze stesse che lavevano fatta insorgere. La crisi non poteva essere vinta dalla crisi: donde linevitabilit, a suo giudizio, che alla sua risoluzione contribuissero energie che, estranee alla cultura e ai metodi della vecchia classe dirigente, esse sole avrebbero potuto introdurvi lelemento vitale indispensabile a rigenerare lindebolito organismo dello Stato. E qui, per altro, con la sua acutezza nella diagnosi, la sua tesi rivelava il suo limite nella prognosi. Penetrante, per un verso, nel rilevamento della irreversibilit della crisi che aveva colpito quel determinato organismo politico, la tesi non lo era altrettanto, e, anzi, peccava di ingenuit sul piano politico, che era poi lunico sul quale dovesse far prova di s. Peccava di ingenuit perch, come si poteva pretendere che fosse il fascismo, e cio un movimento eversivo, ostile al pensiero e al metodo liberale non meno che a quelli socialisti (e comunisti), a restituire energie a ci proprio che intendeva distruggere? Una forza politica tende sempre, quale che sia e comunque riesca a rendere chiare a s stessa le ragioni che la muovono, a affermare le idee che lhanno fatta nascere e progredire; e per quanto quelle del fascismo fossero fin dallinizio confuse, contraddittorie e,
7 Pagine sparse, II, Bari 1960, p. 478. E cfr. una sua lettera, in realt una responsiva, a S. Timpanaro, 5 giugno 1923, Epistolario, I, 100-101: per me il fascismo il contrario del liberalismo. Ma quando il liberalismo degenera com degenerato in Italia negli anni tra il 1919 e il 1921 e resta poco pi di una vuota e ripugnante maschera, pu essere benefico un periodo di sospensione della libert: benefico a patto che restauri un pi severo e consapevole regime liberale. Era, come dico nel testo, una tesi ingenua? Certo che lo era, come quella che prevedeva che il distruttore della libert fosse altres colui che meglio ne modellava la statua. Ma Croce non vedeva che il fascismo fosse in grado di dar vita una forma statuale nuova e originale; e riteneva ineluttabile il ritorno al regime liberale (cfr. la sua intervista del luglio 1924 al Giornale dItalia nelle Pagine sparse, II, 485).

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fra destra e sinistra, presentassero un vario caleidoscopio di mutevoli colori, pur vero che ferma era in tutti la convinzione che le libert liberali, e lo Stato che le incarnava, non meritassero lavvenire e dovessero essere abbatute con la forza. Se ci si chiede come mai, non Croce soltanto (perch idee come le sue furono in quegli anni di molti altri), ma, insomma, anche lui, si dividesse in modo cos evidente fra acutezza e ingenuit, fra il realismo della diagnosi, se si vuole dire cos, e lirrealismo della prognosi, la risposta non potr essere univoca. Ma, tenendo conto della grande confusione che allora regnava nellintero schieramento politico, le cui forze tendevano alla reciproca paralisi, anche si dovr tener conto di quel che egli stesso pi volte ebbe a dire in seguito: e cio che a lui riusciva impossibile di credere che lItalia si sarebbe mai fatta spogliare della libert8, e che, per conseguenza, la crisi che la travagliava non poteva alla fine non essere risolta nel suo segno. Con il che, naturalmente, lingenuit era ribadita e anche, per la verit, riconosciuta; e forse mai con altrettanta lucidit come in una pagina del 1929, nella quale, con trasparente allusione a s stesso e alla sua sorte di liberale per allora sconfitto, parl delle generazioni che non avevano conosciuto guerre, sconfitte, riscosse, vittorie, catastrofi economiche, rivoluzioni e reazioni, lotte tra libert e autorit, crisi e colpi di stato, dittature, formazione di nuovi ceti dirigenti e simili, se non per notizia teorica e per lettura di racconti storici del passato, in modo pur sempre alquanto astratto, vago e superficiale, a differenza delle presenti che ora conoscevano queste cose per avervi assistito e averle anche sofferte in s9. La diagnosi, dunque, era stata formulata allora, senza infingimenti; e sebbene fosse infausta, Croce non era, per la parte che la riguardava, andato in cerca di parole che la rendessero meno pessimistica e amara10. Ma la prognosi era, senza dubbio, sbagliata; e tanto
8 Cfr., per es., una sua lettera, 11 aprile 1926, a Paolo Giorgi, Epistolario, I, 127: un amaro dovere quello che ora ci tocca, di propugnare e difendere quanto durante tutta la nostra vita avevamo creduto ormai possesso saldo e sicuro. 9 Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, II, Bari 19473, p. 168. 10 Deve ribadirsi che da questa idea sarebbe assurdo dedurre che nei confronti del fascismo egli avesse nutrito qualche simpatia e che, come ebbe a scrivere G. Volpe, Ripensando al Congresso fascista (1925), in Guerra, dopoguerra, fascismo, Venezia 1928, pp. 398-399, avesse (nel 1922) civettato con quel movimento. A Volpe Croce ebbe modo di rispondere in una lettera del 18 agosto 1927: Epistolario, I, 140, nella quale dichiar che quanto aveva letto in un suo articolo non rispondeva a verit. Io non ho mai carezzato, adulato o in qualsiasi modo mi sono mai offerto al fascismo, e anzi ho lasciato sempre cadere le avances a me fatte. Ho bens per certo tempo sperato e creduto che esso non si sarebbe allontanato dalla via liberale dellItalia, e questo, se mai, amore (che mal si direbbe civettamento) per lItalia, della quale sono devoto figliolo. Il famoso episodio del suo scontro con Giustino Fortunato dopo il discorso tenuto da Mussolini al San Carlo di Napoli il 24 ottobre 1922, indirettamente documentato: per es., da un breve accenno contenuto in un lettera di T. Fiore a

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pi in quanto, consapevole comera che la politica utilit e forza, Croce non poteva assumere che la forza e lutilit che i liberali non erano in grado di esercitare potessero esserlo, in nome loro, da altri che, necessariamente, solo per realizzare il proprio utile lavrebbero esercitata. Insistere su questo sarebbe, daltra parte, a questo punto superfluo, perch, definita cos, la questione certo ben definita. Ma forse converrebbe dar rilievo allo stato danimo con il quale pi che probabile che Croce accompagnasse allora questi suoi pensieri. Fra la diagnosi realistica e la prognosi ingenua si apriva infatti, nel suo animo, uno spazio psicologico nel quale, al tramonto della prima, teneva dietro lannunzio di unaltra prognosi, diversa dalla precedente; e che per s stessa era segnato forse da una forma di dissimulazione onesta, assunta nel senso che egli riconobbe al fondo del trattatello di Torquato Accetto quando lo ripubblic, dopo tre secoli dalla sua prima apparizione, nel 1928. Egli scrisse in quelloccasione parole preziose per chi intenda guardare dentro lanimo che allora fu il suo. Scrisse, allinizio del periodo seguito alla grave sconfitta subta dalla libert, che a quella formula volentieri si sostituirebbe la parola che esprime il tacere, il ritirarsi in s, lo stornare la mente, il fissarla sulla speranza, il persuadersi nella fiducia, e, insomma, il procurarsi conforto e rianimarsi di coraggio e simili11. Nel 1928 queste parole esprimevano, in forma malinconica, la determinazione morale di chi si preparava a resistere a un regime tirannico che si annunziava di non breve durata12. Pronunziate (e forse anche allora Croce le pronunzi a s stesso) nel 1923/1924, quelle stesse parole significavano altro; e cio la speranza, anzi addirittura lillusione, che la libert si riaffermasse, anche con laiuto del fascismo. Nessuno potrebbe onestamente sostenere che, nello scrivere la Politica in nuce e, di seguito a questa, le noterelle di storia del pensiero politico, nelle quali furono toccati i punti emblematici, e per lui decisivi, del suo svolgimento (non solo Machiavelli e Vico, Rousseau e Hegel, ma anche Haller e gli scrittori reazionari), Croce non avvertisse dentro di s il peso della drammatica situazione che gli stava dinanzi e che ancora non aveva raggiunto il

Salvemini (G. Salvemini, Carteggio 1921-1926, a cura di. E. Tagliacozzo, Bari 1985, p. 170). La vivace ricostruzione di questo episodio fornita da L. Russo, Conversazioni con Benedetto Croce, ora in Il dialogo dei popoli, Firenze 1955, p. 329, conforme a quanto detto nel carteggio citato qui su. Quanto poi alla frase su Mussolini che sprizza genialit da tutti i pori e muscoli del viso e sugli industriali che perci gli affiderebbero le loro ricchezze (Russo, op. cit., p. 329), deve precisarsi che, se mai fu pronunziata, non fu in riferimento al discorso del San Carlo, come la Martina, Croce giornalista, p. 189, ha ritenuto. Sulla partecipazione di Croce al discorso del San Carlo, cfr. comunque Relazioni o non relazioni col Mussolini, in Nuove pagine sparse, I, Bari 1966, pp. 81-82. 11 B. Croce, Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari 1931, pp. 89-90. 12 Cfr., per questo, il mio Per invigilare me stesso, I Taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Bologna 1989, pp. 100-102.

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punto culminante della sua parabola. Nessuno potrebbe negare che il fascismo vi fosse presente e, con varia preoccupazione, egli lo tenesse in mente nellatto stesso in cui, in forma per altro strettamente filosofica, elaborava il suo concetto della politica. Ma, del pari, nessuno potrebbe negare che, in quelle pagine, egli trattasse in primo luogo di filosofia, e che, nel trattarne, riprendesse contatto con le questioni che, attraverso lo studio di Marx e la Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia delleconomia (1907), erano confluite nella Filosofia della pratica. Un conto, infatti, dire che da quel che stava avvenendo in Italia il suo concetto della prassi (economica e etica) era stato messo a dura prova e che quegli eventi gli fossero, mentre scriveva, ben presenti. Un altro non considerare, non sapere o non voler considerare, che a dura prova era stato messo, non un gruppo di opinioni, ma un sistema di pensiero, che a questa non poteva far fronte se non, in primo luogo, accettandola e riesponendo le sue tesi in vista della realt che si era formata e che ora si trattava di meglio capire e interpretare. Insomma, la Politica in nuce bens la risposta che Croce dette alla sfida della realt. Ma la risposta fu, in primo luogo, filosofica; e in questo, che il suo carattere autentico, deve innanzi tutto essere considerata. Nella sua apparente semplicit, la Politica in nuce un testo difficile. Non deve troppo meravigliare, perci, che sia stato non di rado frainteso. un testo difficile, in primo luogo, per lestrema concisione della scrittura; che tanto pi richiede un lettore capace di svolgerne i concetti impliciti, o soltanto accennati, quanto meno Croce abbia avvertita la necessit di darlo lui questo svolgimento e di renderne edotto il lettore. un testo difficile, in secondo luogo, per la paradossalit dellassunto che, mentre della politica faceva non pi che un aspetto della infinita regione dellutile, e dello Stato niente pi che un processo di azioni utili, in coerenza con questa idea la sottoponeva a una sorta di metabasis. Per un verso, infatti, la politica non era se non la categoria dellutile; e, poich si risolveva in questa, il luogo della sua considerazione autentica non poteva che essere la storia, alla quale, per la sua parte, la sua categorialit dava forma e incremento. Per un altro, la scienza che la riguardava studiandone e distinguendone le forme (lo Stato, il governo, la libert, lautorit, le costituzioni, le leggi) era, non la filosofia (che soltanto al suo aspetto categoriale volgeva lo sguardo), ma una scienza empirica, che le distinzioni prendeva come altrettante separazioni e, in luogo di affisare la vera unit, la concepiva come una somma di parti. un testo difficile, in terzo luogo, per il rigore, non privo, nel fondo, di un tratto di persistente elusivit, con il quale, dopo aver operato il passaggio dalla filosofia alla scienza empirica della politica, Croce faceva in modo che le forme, che in questa stavano come separate e astrattamente classificate, salissero di nuovo al cielo filosofico, dove le parole che le
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avevano designate restavano le stesse e significavano tuttavia in modo diverso. Ne conseguiva, per esempio, che, se, nella rappresentazione empirica la forza e il consenso si richiamavano a partire tuttavia dalla loro persistente separazione, e in modo tale, quindi, che alla qualit a sostituirsi era la quantit, in quella filosofica quei due termini si richiamavano bens, ma in tuttaltro segno. Non pi come due entit delle quali potesse darsi la (estrinseca) rappresentazione unitaria, ma come, entrambe, volont, e quindi, in s stesse, inclusive dellaltro termine. Volont era infatti il soggetto della forza richiedente il consenso. Ma volont era altres il consenso che alla forza, che ne lo richiedeva, dava s stesso. E come non cera, per Croce, volont che non sorgesse sulla forza di una situazione, cos a conseguirne era quello che, non senza qualche ragione, si sarebbe potuto definire un paradosso. Il linguaggio, infatti, designava la forza e il consenso (o anche la libert e lautorit) come i termini di un rapporto. Ma il concetto al quale il linguaggio dava espressione diceva invece che, in realt, come atti volitivi, ciascuno di questi termini era un rapporto; e che per questo, per questa sotterranea identit, tra forza e consenso, autorit e libert, non cera se non medesimezza. Questo duplice movimento, per il quale la considerazione della politica passava dalla filosofia, che la affisava come utilit e la valutava nella storia, alla scienza empirica, nella quale quella riceveva le sue partizioni e varie denominazioni, non deve mai, quando si leggono queste pagine, essere perduto di vista. Se questo infatti accadesse, la via alla loro comprensione risulterebbe sbarrata. E occorre perci insistervi. La verklrte Synthese, la sintesi trasfigurata, nella quale i termini si convertono luno nellaltro e significano lo stesso; lo spirito concepito nella logica rigorosa, e non temporalmente scandita, delle sue distinzioni e unificazioni; la dialettica degli opposti in eterno rientranti nellimplicazione dei distinti, tutto questo stava alla radice dellidea secondo la quale ogni realt politica che, con un volto si fosse presentata nella dimensione del tempo, ne rivelava un altro quando il primo fosse stato osservato nella concretezza dellaccadimento storico. Lautentica comprensione della politica aveva perci la sua radice, non nella politica descritta dalla scienza, ma nella storiografia, che la scioglieva dal suo involucro pseudoconcettuale, e la osservava in questa sua pi profonda realt. La comprensione della politica non avrebbe potuto aver luogo, del resto, nella politica nemmeno se questa fosse stata presa nel suo farsi, ossia nelle lotte in cui entrava e di cui costituiva un momento. Aveva luogo, si ripete, soltanto nella storia. E questa era unidea che aveva, in Croce, una radice profonda; che, se fosse stata raggiunta, avrebbe fatto in modo che si sarebbe potuta tracciare una linea unitaria che, per esempio,
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dal saggio del 1912 su Il partito come giudizio e come pregiudizio13 avrebbe condotto allaltro, del 1929, su La grazia e il libero arbitrio14. Ma era anche unidea difficile; che mentre, a chi ne fosse stato indotto allequivoco, sembrava consentire quei tali discorsi conciliativi di fascismo e liberalismo che gi avevano cominciato a circolare, in Italia, negli ambienti politici e culturali, ne escludeva, in modo netto, la legittimit. La escludeva sia sul piano della politica colta nel suo atto, dove anche le conciliazioni e i compromessi fanno parte della lotta politica, della quale sono forme, sia su quello della Weltgeschichte, della storia universale. Sul primo, ed ovvio, perch, nel vivo della lotta, quel che nellaccadimento si sarebbe ricomposto in unit, era appunto lotta, era contrasto, era scontro di parti che, ciascuna, chiedevano la vittoria ed erano perci inconciliabili. Sul secondo, perch non cera, nellulteriorit della onnicomprensiva Weltgeschichte, possibilit che i nomi conservassero il loro significato, dal momento che soltanto la regressione alla logica separante del Verstand poteva consentire che quelli, illegittimamente su quel piano, avessero corso. E cera poi, al margine di questa che, prevedendo questo alterno respiro, rischiava di consegnare al mondo pseudoconcettuale quanto pur si sarebbe, a buon diritto, dovuto considerare proprio del mondo attuale e concreto delle passioni, unaltra difficolt. Che anchessa trovava la sua ragion dessere in unanaloga, o identica, ragione: ossia nella differenza che non poteva non sussistere fra il ritmo dello spirito assunto nelleterna, e atemporale, implicazione e opposizione delle forme, e la esistenzializzazione e temporalizzazione di queste in un quadro che, rispetto al primo, presentava un volto segnato da forte e non risoluta problematicit. Questa difficolt emerge quando si considera il nesso che in questo scritto Croce stabiliva fra il momento utilitario, inclusivo della politica in ogni sua forma, e il momento etico; che aveva nel primo la sua premessa e su quello si affermava trasfigurandolo in moralit. La questione, che questa tesi poneva, era infatti tra le pi delicate. vero infatti che in Croce la distinzione implicava lunit che, a sua volta, ne era implicata essendole identica. vero che lobiezione attualistica secondo cui linferiore non poteva mantenere la sua autonomia nei confronti del superiore che, necessariamente, risolveva in s la sua (astratta) inferiorit, non era tale da salvare s stessa nei confronti del concetto stesso che metteva in campo. Parlare della risoluzione dellinferiore nel superiore, dellastratto nel concreto, importava infatti, pur sempre, che a questo inferiore, a questo astratto si confe-

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Lo si veda in Cultura e vita morale, Bari 19553, pp. 191-198. Si pu leggerlo in Ultimi saggi, Bari 1934, pp. 290-295.

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risse tanta realt quanto bastava a far s che del suo superamento potesse parlarsi in termini, appunto, di concretezza. E importava quindi che linferiore e lastratto fossero bens tali rispetto al superamento che ne veniva eseguito, ma non cos inferiori e cos astratti che a essi non dovesse riconoscersi la realt del loro essere inferiori e astratti quale condizione sine qua non del poter essere, appunto, superati: insomma non cos inferiori e astratti che, sebbene il concreto per un verso li precedesse, non fossero essi, per un altro, a precederlo. La conseguenza di tutto questo era dunque, non quella che Gentile traeva quando, in nome dellidealismo attuale, criticava la filosofia dello spirito. Era, se mai, linadeguatezza e lautocontraddittoriet di questo concetto del superamento. Il che, per altro, non implicava la conseguenza che, se il rilievo gentiliano non colpiva il punto giusto, difficolt, in Croce, non fossero presenti. Erano presenti, invece. E le si sarebbe colte se si fosse considerato che, fosse pur vero che lunit era in lui il suo stesso distinguersi, s che i momenti aurorali del conoscere teoretico e del fare pratico avevano, in quanto distinti, la medesima dignit dei distinti (la filosofia e la moralit) dai quali si distinguevano. Ma, appunto, proprio qui stava la pi pungente difficolt. Che aveva due forme; e da una parte, infatti, consisteva in ci che se, nellunit da essi stessi costituita, i distinti stavano luno nellaltro, e a tutti dunque questo carattere apparteneva come il loro proprio pi profondo, considerarli nel segno del loro reale esser distinti era impossibile. A essere reale era infatti, in un quadro cos congegnato, la simultaneit, meglio ancora, lidentit dellimplicazione, nella quale, e nei confronti della quale, la loro realt specifica cedeva e non riusciva a mantenere s stessa, ossia, in concreto, a essere quale si pretendeva che fosse. La distinzione e lunit erano dicibili luna per laltra, ma solo perch erano identiche, cos che il dirle identiche non aggiungeva niente alla purezza dellidentit, n certo la distingueva. Pensata con rigore, lidentit della unit e della distinzione non concedeva, a queste, nessuno spazio. Ed era come un punto idealmente indivisibile, nella cui non si dava alcuna possibilit di entrare, articolandola. Era questa una difficolt del tutto diversa da quella sollevata dallattualismo; che, a guardar bene, non ne era meno coinvolto di quanto la filosofia di Croce non lo fosse. Ma laltra questione, quella che qui sopra tutto interessa, era non meno pungente. Se, alla luce della prima, era il nesso dellunit e della distinzione a subire il peso, si dica cos, dellimpossibilit, alla luce della seconda, era la distinzione del logico e del fenomenologico (o esistenziale), che Croce aveva delineata in due pagine cruciali, appartenenti, una, al saggio hegeliano del 1906, laltra alla Logica del 1909, a generare problemi. In quelle due pagine, Croce aveva sostenuto che, mentre nella prima accezione (logica), il passaggio dei distinti mediante
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lopposizione si configurava, non come un diventare, ma come un essere, nella seconda (esistenziale) quello si presentava, allopposto, non come un essere, bens, invece, come un diventare. Ebbene, se in questo nesso di pensieri si fosse guardato a fondo, e con qualche attenzione, si sarebbe giunti a intravvedere uno spettacolo, per la verit, alquanto sconcertante. Il diventare esistenziale, nel cui quadro lessere logico e concettuale si capovolgeva, non poteva non essere caratterizzato in termini di tempo; al contrario dellaltro, che solo dalleternit poteva, per dir cos, ricevere la sua definizione. Ma se, in questa visione, era il tempo a penetrare nella struttura dellessere e a configurarlo in forme di esistenziale discorsivit, la conseguenza da trarne non avrebbe potuto essere se non questa: e cio che, dal tempo, lessere era falsificato; allo stesso modo che, nellastrazione a cui era sottoposto, il concetto lo era dallo pseudoconcetto. Che significa, infatti, separazione, scissione, intellettualizzazione del concreto, immobilizzazione del ritmo dialettico. E la conseguenza era che i distinti, che nel concetto stavano, o avrebbero dovuto stare, luno nellaltro, nellesistenzializzarsi, assumevano ciascuno una posizione nel tempo e, da distinti, si facevano separati. Prima, perci, veniva la politica, che assumeva, o assumeva di nuovo, il crudo volto scolpitole da Machiavelli. Poi letica, nella quale la politica, quella politica, si trasfigurava, perdeva il suo carattere e ne assumeva un altro che, in comune con il primo non aveva che le parole, che erano le stesse, ma significavano in modo diverso. La conseguenza di tutto questo era che, nellambito della prassi, il rapporto delle forme assumeva una connotazione ben altrimenti drammatica da quella, che drammatica non era affatto, riguardante larte e la filosofia, lintuizione e il concetto. Nel concetto, la politica aveva la sua autonomia solo nellattimo, scevro di tempo, in cui anche letica era presente. E i delitti che, operando politicamente, si fossero commessi non avrebbero potuto essere considerati quali invece avrebbero dovuto nellaltro caso, in quello dellesistenza, nel quale i distinti non sono, per Croce, sul serio distinti, perch sono separati e luno viene prima, laltra dopo. Nella prima dimensione, la politica era stata assunta nella sua pura realt extratemporaria, dove la sua distinzione dalletica era altres lindissolubile unit che formava con questa. Nella seconda, che inevitabilmente era segnata dal tempo, essa tornava ad assumere il suo crudo volto machiavelliano. Drammatico volto, volto tragico addirittura nella consapevolezza che inevitabile fosse quel suo aspetto; e condannabile tuttavia alla luce dellaltra, dove essa non era se non un momento ideale. La questione, come si vede, non era piccola; e, a studiarla con cura, si rivelava come un episodio particolarmente intenso della lunga e mai placata ricerca che per tutta la vita Croce esegu della
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logica che meglio si fosse rivelata idonea a tenere insieme le esigenze, per lui parimenti irrinunziabili, rappresentate dalla distinzione e, insieme, dallunit delle forme categoriali. Non fu quella che Croce esegu, e nella quale impegn al massimo grado il suo talento speculativo, una ricerca nel cui corso i due piani, quello del concetto e laltro dellesistenza, che egli aveva osservati come diversi, non tendessero a passare luno nellaltro e a presentarsi insieme. Donde la difficolt che i lettori di questo suo saggio incontrarono a coglierne il punto specifico; che era problematico, come si visto, ma, proprio per questo, tanto pi richiedeva di esserlo. In una filosofia qual quella che Croce aveva costruita (e, del resto, non nella sua soltanto) il punto dintersezione (se si vuol dire cos) della logica e della fenomenologia dei pi ricchi di complicazioni. un Capo Horn assai difficile da navigare restando incolumi. E posto, per esempio, che alla dimensione logica quella fenomenologica si affianchi senza arrecare danni alla coerenza dellinsieme, certo che del loro rapporto, che non , e non pu essere, un semplice affiancamento, occorrerebbe indicare il criterio; che rischierebbe di essere, non potendo essere fornito n dalla logica n dalla fenomenologia, metalogico e metafenomenologico: con non piccole, come si comprende, complicazioni concettuali. Ci si potr, di questo, occupare altrove. Ma gi qui pu comprendersi che il rischio al quale prima si alludeva, e cio che i piani tendessero talvolta a confondersi, era, in effetti, un reale rischio. Lo si vede, con particolare chiarezza, in un passo, del resto cruciale, del breve capitolo dedicato, nella seconda parte degli Elementi di politica, a Machiavelli e a Vico. Il rapporto che, nel tracciare la storia del pensiero politico moderno, Croce stabil fra il primo, scopritore dellautonomia della politica, e il secondo, teorizzatore di un moderno concetto della provvidenza, fu presentato, in quel contesto, come quello che, oltre che fra questi due pensatori, si stabiliva, nel pensiero del secondo, fra quei due concetti. E se, infatti, Machiavelli fu allora chiamato a testimoniare della cruda politicit della politica, e Vico del suo superamento nella sfera delletica, vero anche che in questultimo il primo momento era conservato come il certo a cui segue, nel dispiegamento della mente, il vero. Il momento del certo e quello del vero erano presentati da Croce come lunico momento del loro ideale implicarsi15. E, per questo riguardo, Vico si poneva come il simbolo dellidentit sottendente la distinzione e lunit. Ma, per un altro verso, anche vero che, con locchio rivolto alleffettivo corso e ricorso delle cose storiche, quei due momenti, proprio in Vico, si esistenzializzavano; e, posto che non lo

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Elementi di politica, Bari 1925, pp. 64-65. (= Etica e politica, pp. 254-255).

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fossero stati fin dallinizio, si disponevano nella forma della pura successione storica, quella per la quale alla ferinit dei bestioni aveva tenuto dietro lumanit dei Lelii e degli Scipioni. La successione categoriale, che non era successione perch, piuttosto, la si sarebbe dovuta considerare come uneterna implicazione, e cos, in effetti, Croce laveva presentata, tendeva perci a trapassare in semplice successione di epoche storiche; e, come del resto si era letto nella monografia del 1911, le eterne categorie tendevano a materializzarsi come forme del tempo storico, condizionate da questo e, in questo, contingenti16. Non diversamente da come, in queste pagine, accadeva, in qualche passaggio, allo stesso Croce; che pure, proprio in Vico aveva colto il rischio di quel disguido. Se, allora e poi, nella Politica in nuce si fosse guardato con lattenzione richiesta dalla sua soltanto apparente semplicit; se delle questioni dalle quali nasceva e che contribuiva a inasprire si fosse lavorato a capire quale, propriamente, ne fosse la natura; se, insomma, la si fosse letta nel quadro del sistema al quale apparteneva, nessuno avrebbe potuto considerarla come un testo scritto ad ammaestramento di qualcuno; e meno che mai del personaggio al quale si ora pensato che Croce lavesse indirizzata17. In effetti, che cosa avrebbe imparato un uomo politico del 1924 da un saggio nel quale, in ultima analisi, si sosteneva che il significato autentico di quel che si opera nella politica nella storia e, quindi, nella storiografia che ne riconosce il senso, a ciascuno dando il suo, nel quadro del tutto? Forse che, posto che, come Croce diceva, non il governo, ma la storia, la sintesi delle antitesi dei partiti18, considerare questi come un unico partito distinto soltanto dai nomi avrebbe significato collocarsi nella storia e nella sua superiore verit? In un testo si pu pretendere che sia presente quel che meglio ci aggrada. Ma se lignoranza contribuisce a rendere pi forte la non

B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, Bari 19222, pp. 157-158, passim. Non si capisce, del resto, a che cosa Mussolini avrebbe dovuto essere educato da Croce: allidea forse che la politica e lo Stato sono forza e autorit? Ma di questo, nello stile che gli era proprio e alla luce dei concetti che gli stavano in testa, Mussolini era fin troppo consapevole; e tanto, comunque, da non aver bisogno di un maestro che lo incoraggiasse a camminare su questa via. Al liberalismo, come la Martina asserisce pi volte nel suo libro, e, per es., nel paragrafo dedicato al crociano Bottai (pp. 183-188), e ribadisce a p. 215. Ma a quale liberalismo se in quegli anni Croce era, a suo parere, piuttosto filofascista, e non per ragioni contingenti, che non liberale? Vorrei aggiungere che nel discorso pronunziato nel 1924 allAugusteo di Roma (che non so perch sia qui chiamato Augusteum?), assai meglio della Martina Bottai aveva colto il senso per il quale, crocianamente parlando, il liberalismo coincide con la storia (G. Bottai, Pagine di critica fascista, 1915/1926, a cura di F.M. Pacces, Firenze 1941, p. 341): salvo che non si era ben reso conto che, in quanto partito politico operante giorno dopo giorno, il fascismo era appunto un partito, e non laccadimento: un partito, e non la Weltgeschichte. 18 Elementi di politica, p. 45 (= Etica e politica, p. 240).
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buona coscienza, e questa restituisce il favore allignoranza potenziandola, a quelle sciocchezze deve finalmente dirsi addio, perch la recta interpretatio di quel testo crociano suggeriva, in realt, tuttaltro. Attraverso le sue tesi, e persino le sue interne difficolt, quel testo insegnava che, in tanto le antitesi dei partiti si risolvono nella sintesi della storia, in quanto, nella concretezza della lotta, furono antitesi, contrasti, scontri non simulati, ma reali. Se, nella luce del concetto (lo si notato, ma converr ripeterlo), le forme politiche perdevano la loro fissit empirica e pseudoconcettuale, e unico criterio idoneo a giudicare del loro valore era, come anche si visto, la storia universale, nella quale le parti che si erano contrapposte nelle poleis e sui campi delle pi aspre contese rivelavano il loro autentico significato, e, in questo senso, la loro unit, nellesistenza, nella storia come azione, quelle parti erano le protagoniste di uno scontro autentico. E sarebbe stata perci unindebita quella che si sarebbe compiuta se, immaginando colpevolmente che il presente fosse il futuro, dal liberalismo si fosse compiuto il percorso che conduceva al fascismo, forti, appunto, dellidea che agli occhi dello storico quelli avrebbero rivelato un volto non coincidente con quello che, qui e ora, era il loro volto. Retto dai princpi che in breve, ma conferendo rilievo alle articolazioni e ai passaggi, sono stati esposti qui su, il testo che Croce compose fra il marzo e laprile del 1924, e pubblic nel maggio, era tuttaltra cosa da quello che la Martina ha immaginato. In nessuna delle sue dimensioni presentava qualcosa che potesse esser preso come un insieme di precetti diretti alleducazione politica del principe fascista. E, del resto, se questo fosse stato nel 1924, e in questa luce lo si interpretasse, tale dovrebbe essere considerato anche nella riedizione del 1931. A differenza di quel che la Martina ha asserito, e non dimostrato, i due testi sono, infatti, concettualmente, identici; e, a parte le difficolt di ordine filosofico che presentano, e che richiedono di essere affrontate e giudicate per quel che sono nel contesto dei pensieri costitutivi della filosofia dello spirito, non si d, negli Elementi di politica, alcun segreto. Non se ne d, sopra tutto, uno che possa essere svelato con armi diverse da quelle della critica filosofica. Le varianti che, in vista della riedizione del saggio in Etica e politica, Croce vi introdusse nel 1930, sono quelle consuete che egli arrecava ai suoi testi quando li ristampava. Sono, inoltre, poche; e tutte, anche le meno insignificanti, spiegabili in modo diverso da quello tenuto dalla Martina. Alla quale, prima di passare allesame puntuale delle varianti, vorrei osservare che tuttaltro che chiara, e, anzi, non poco confusa, mi sembrata, per come in concreto appare nel suo libro, lidea della duplice redazione. Che per un verso, infatti, sarebbe tale per342

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ch quella del 1931 rielabor la prima, del 1924, o vi introdusse, quanto meno, significative correzioni. Ma, per un altro, lo sarebbe invece, e piuttosto, nel senso, o anche nel senso, che, mentre scriveva, Croce correggeva, e non certo solo per ragioni stilistiche, quel che aveva scritto: dal momento che, partito dal proposito di comporre un libretto di istruzioni politiche a uso del duce del fascismo e dei suoi seguaci moderati, gli eventi lo costrinsero a mutare registro in corso dopera. Con la conseguenza che un testo scritto con intenti filofascisti, o di fiancheggiamento liberale della politica mussoliniana, appariva in libreria, nel 1925, quando il suo autore era ormai passato allopposizione19. Tesi divertente, piuttosto che suggestiva. E certamente assurda perch il testo fondamentale degli Elementi, e cio la Politica in nuce fu scritto, come la stessa Martina sa, fra il marzo e laprile e vide la luce nel maggio, quando il delitto Matteotti ancora non era intervenuto a sconvolgere le coscienze e a turbare gli animi20. In realt, per poter parlare, con un minimo di fondamento, di correzioni e aggiustamenti della tesi che si stava svolgendo nellatto stesso in cui la si svolgeva; per poter conferire a una simile tesi un minimo di consistenza, occorrerebbero prove che, posto che in assoluto possano esistere, di certo non sono nel caso specifico, in possesso della Martina. La quale, appunto, non ne in possesso, non perch, trovandosi altrove, il documento di quel che asserisce non sia nelle sue mani, ma per la diversa ragione che quel documento era proprio impossibile che esistesse. Il pensiero che Croce aveva esposto nella Politica in nuce e nelle pagine storiche che a questa tenevano dietro, era il suo, maturato in anni e anni di riflessioni sulle forme dello spirito, la loro implicazione e la loro dialettica. Ed era un pensiero, come ho detto, non un gruppo di opinioni empiriche, fissate sulla carta senza particolare impegno teoretico, per orientare s stesso in un difficile momento storico e politico. Era un pensiero, una filosofia; e per correggerlo, occorrevano concetti, una decisa autocritica, non le attenuazioni e gli aggiustamenti che, senza poterne dare alcuna prova, la Martina immagina che Croce
Martina, op. cit., p. 204. Debbo dire che, conquistata da questa idea, secondo la quale, dopo lassassinio di Giacomo Matteotti, Croce avrebbe corretto e trasformato il suo testo in modo da farne, in luogo del manuale filofascista di educazione politica, che era stato allinizio, il suo esatto contrario: addirittura il primo mattone dellopposizione al fascismo (p. 204), la Martina si prodotta, in questo punto del suo libro, in unargomentazione particolarmente oscura e confusa. Che non cercher di chiarire, limitandomi a osservare che, se questa fosse stata, dopo il 10/13 giugno 1924, la sua preoccupazione, Croce non avrebbe alla fine di quellanno pubblicato il volumetto (Bari 1925) riproducente il testo apparso nella Critica nei fascicoli di maggio e di luglio. Ma lo ripubblic invece quale era, con laggiunta del saggio sulla Storia economico-politica e storia etico-politica, pubblicato nel Giornale dItalia, a puntate, nel novembre 1924, e, in appendice, del discorso del maggio 1924 per linaugurazione della Societ di cultura politica (cfr. qui su n. 3).
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avesse eseguiti via via che scriveva o, eventualmente, durante la correzione delle bozze. Di questa indecisione per la quale la Politica in nuce sarebbe, da una parte, in s stessa e nel breve cerchio della sua materiale estensione, una sorta di work in progress, nella quale il progresso non consisterebbe se non in quelle attenuazioni e in quegli aggiustamenti, e per unaltra invece, e piuttosto, unopera che, mobile gi nella sua prima versione, sarebbe stata, comunque, rimaneggiata nella seconda del 1931, la Martina non giunge mai a rendersi del tutto conto21. Passa da una tesi allaltra; sebbene, se ho ben visto, sia questultima a prevalere: ch, in caso contrario, non si sarebbe da parte sua tanto insistito sulla disattenzione degli studiosi che, avendo letti gli Elementi di politica nella riedizione del 1931, si erano vietati di capire che cosa fossero stati nel 1924. Come che sia, basti di ci. E si passi allesame delle varianti, che, in occasione della ristampa del testo del 1924 in Etica e politica Croce vi apport. Le varianti in questione sono poche. Non pi numerose, in ogni caso, e si deve ribadirlo, di quelle che Croce era solito eseguire su testi suoi quando, dalla Critica o da altre sedi, li trasferiva in uno dei suoi volumi. E ora comunque le esamineremo allo scopo di far vedere come, aggiungendo qualche riga o togliendola, sostituendo qualche parola con altra corrispondente, modificando la sequenza sintattica di un periodo, Croce non si proponesse, fra il 1930 e il 1931, se non di rendere meglio comprensibile qualche passaggio, meglio intonata al contesto qualche parola, in considerazione anche del fatto che quel che nel 1924 assumeva la sua particolare sfumatura significativa, poteva riuscire stonato alla sua sensibilit nel 1931, quando i giochi, che allora potevano ancora essere considerati aperti, si erano chiusi e, per certo, nel peggiore dei modi. Si pensi, per esempio, alla sorte che, nel 1931, incontr la parola duce, presente nel testo nel 1924 e cancellata, sette anni dopo, per essere sostituita da unaltra, e cio da conduttore. Alla Martina (p. 204) la sostituzione sembra significativa e di gran momento. Ma non deve aver considerato che il termine duce che, per riferirsi per altro, non a Mussolini, ma ai capi politici, egli usava nel 1924, era impiegato in quel testo, con intenzioni nettamente minimizzanti; ed era infatti come se, ponendolo fra le virgolette e scrivendolo con la lettera minuscola, il suo intento fosse stato di far capire che duce non significava se non capo politico, era una parola, perci, come unaltra, s che sarebbe stato senza alcuna giustificazione chi vi avesse scorto
21 Non pu essersi del tutto sicuri che la Martina abbia inteso dire quel che qui su ho congetturato. Ma, se non questo, che cosa allora?

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lindizio che quello che si faceva chiamare cos non era un capo politico come gli altri, ma era, appunto, il Duce. Quelle virgolette tenevano, in quel contesto, le veci del cosiddetto, da Croce tante volte usato, nelle sue polemiche, per sminuire loggetto, persona o cosa, a cui lo riferiva. E che quella parola egli cancellasse nel 1931 non significava una censura eseguita sul vecchio testo allo scopo di, appunto, cancellare il segno di una sua debolezza. Ma significa piuttosto che, nel 1931, di quellironia e di quella minimizzazione non cera pi bisogno: senza dire che la parola gli suonava sgradita allorecchio, talch, cancellandola, egli esercitava su di essa la cassazione che non era in suo potere di esercitare sulla cosa. Con leccezione di una soppressione e di unaggiunta, sulle quali mi intratterr pi in l, le altre varianti potrebbero essere affidate alla sagacia del diligente lettore. Ma, per evitare che la Martina eventualmente pensasse che anchio sono stato preso dalla febbre delloccultamento, mi dispongo, con pazienza, a discuterle. E comincer dalla prima che lautrice abbia esaminata osservando che, nel passare dalla Critica a Etica e politica, il passo che ora sar riprodotto nelle due versioni, a sinistra di chi legge quello della rivista, a destra laltro del volume, sub il peso dellintervento correttorio di Croce:
Se bisogner, per accordarsi con essi [ossia con gli uomini, coi quali si ha da fare] in una comune azione, per muoverli al consenso, carezzare le loro illusioni, lusingare la loro vanit, fare appello alle loro credenze pi superstiziose e pi puerili, nel miracolo di san Gennaro o nelleguaglianza, libert e fraternit e negli altri cosiddetti principii dell89 (nullit teoriche, ma grosse realt passionali), converr adoprare quei mezzi22.
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Se bisogner, per accordardarsi con essi in una comune azione, per muoverli al consenso, carezzare le loro illusioni, lusingare la loro vanit, fare appello alle loro credenze pi superstiziose e pi puerili, per es. il miracolo di san Gennaro, o ai loro concetti pi superficialmente intesi, per es. leguaglianza, libert e fraternit e gli altri cosiddetti princip dell89 (che, quale che sia il loro valore teoretico, sono nondimeno grosse realt passionali), converr adoprare questi mezzi23.

Nel riferire questi testi, a p. 37 la Martina aveva scritto che, nel secondo, il primo aveva subti diversi ritocchi. Ma, a p. 38, tale la potenza seduttiva della tesi in cui si vuol credere, i diversi ritocchi erano diventati un cambiamento radicale. In realt, chiunque legga i due testi, avverte subito che, dalluno allaltro, non un cambiamento radicale intervenuto, ma solo una migliore cura stilistica, visibile, sopra tutto, nel periodo riguardante il miracolo del santo e i princpi dell89: a proposito dei quali non si d luogo

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Critica, 22 (1924), p. 139. Etica e politica, p. 221.

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ad alcuna differenza se, una volta, li si definisce (i princpi) nullit teoriche, anche se grosse realt passionali, e unaltra si preferisce ribadire queste ultime con la riserva di ordine concettuale mantenuta su di essi. Forse che, scrivendo nel 1931 la frase quale che sia il loro valore teoretico, Croce mostrava di aver trasferito in qualcosa di positivo la nullit teorica proclamata nel 1924? Del pari, non c differenza nel passo relativo alla forza e al consenso quale apparve nella Critica e quale lo si legge, dal 1931, in Etica e politica. Il passo quello che, nelle due sedi comincia con le parole il dilemma se lo Stato ... e si conclude con le altre se cos non fosse, mancherebbero insieme e lo Stato e la vita dello Stato. Nel far passare questo passo dalla rivista al volume Croce mut tre parole, non pi24; mentre su quello che, poche linee pi sotto, comincia con in ogni Stato autorit e libert ... e finisce, nella Critica, con la libert cerca e vuole la libert, e lautorit garantisce la libert, egli introdusse, nel 31, qualche mutamento, allo scopo evidente di rendere pi netto e perspicuo il concetto. Scrisse cos: ... in ogni Stato autorit e libert sono inscindibili (e si pensi anche qui agli estremi del dispotismo e del liberalismo); la libert si dibatte contro lautorit, e pur la vuole, e senzessa non sarebbe; e lautorit reprime la libert, eppure la tien viva o la suscita, perch senzessa non sarebbe. Deve aggiungersi, perch la verit, che, in questa nuova redazione, il concetto bens rimasto lo stesso; ma lespressione si resa pi drammatica. Il che devessere messo in connessione, non gi con il passaggio di Croce dal filofascismo del 24 allantifascismo del 31, ma con lessersi il fascismo ormai determinato come un regime di dittatura, nel quale, con la libert, ogni illusione si era ormai spenta. Basta cos? No, perch a questo punto la Martina ha immaginato che, nello scrivere quelle sue parole, sulla forza e il consenso, Croce per un verso intendesse ribadire e rafforzare il concetto che Mussolini aveva formulato in un suo discorso, stampato nel Giornale dItalia del 25 marzo 1924. Cedendo per un istante (per un istante?) al gusto della fantastoria, la Martina ha persino ipotizzato che Mussolini avesse letto in antiprima gli Elementi di politica (p. 203) che a quella data, per altro, non solo non erano stati stampati, ma, quanto alla redazione, erano soltanto agli inizi. E ha formulato unipotesi che, comunque la si giudichi in termini, non di fantastoria, ma di cronologia e di storia, ne presuppone comunque unaltra;

24 A rigore, le parole sono due. La terza variante concerne il periodo che, nella rivista, p. 135, suona: ma ogni consenso forzato, cio tale che ... e in Etica e politica, p. 221 ma ogni consenso forzato, pi o meno forzato, tale che .... Per quel che riguarda le parole mutate, ricominciano (Critica, 22, 1924, p. 136) diventato, in Etica e politica, p. 221, scoppiano; si forma diventato si stabilisce.

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quella, cio, che, quale che fosse stata la forma della comunicazione, al duce il filosofo avesse confidato il suo pensiero sulla forza e il consenso. Ipotesi, nella prima forma non meno che nella seconda, sul serio assurda; e da rettificare nella speranza che qualche dotto professore, scrivendo sui giornali, non la divulghi dopo averne fatta risuonare, nel profondo della sua coscienza, la musica incantatrice. Certo, se di forza e consenso, o dei pi comprensivi concetti di necessit e libert, Croce aveva cominciato a parlare gi nel 1907/1908, al tempo della Riduzione e della Filosofia della pratica, anche Mussolini, che di quei testi avrebbe persino potuto avere qualche diretta o indiretta nozione, ne parlava (parlava, intendo dire, di forza e di consenso). Su questa coppia di concetti aveva persino scritto un articolo25 che, in un altro, dedicato, ahim, nel 1924, a Machiavelli, non aveva esitato un istante a definire gi famoso26. Ma lanalogia dei suoi con i concetti crociani non che di parole. A differenza di Croce che, si sia daccordo con lui oppure no, di forza e consenso parlava nel quadro di una coerente teoria della volont, e li intendeva come i termini di una relazione, nella quale la sovranit apparteneva, non a uno dei due, ma alla relazione stessa27, per Mussolini, che brutalmente semplificava, e alla filosofia stava come Corrado Brando al buon gusto, la forza era essa la sovrana, e il consenso, per conseguenza, non era che obbedienza. Al popolo, scrisse sprezzantemente nel suo saggio su Machiavelli, ogni sovranit sottratta nello svolgimento effettivo della politica e a lui non resta che un monosillabo per affermare e obbedire28. E ora qualche parola sullaggiunta e sulla soppressione. Laggiunta quella che sincontra nel secondo capitolo, dedicato a Lo Stato e letica, della Politica in nuce, dove, a proposito di due lettere scritte da san Bernardo nel corso della sua vivace e varia lotta a pro della Curia contro re Ruggiero di Sicilia29, e del giudizio dello storico che, avendovi rinvenuta lasserzione, a breve distanza di tempo, di due cose opposte, aveva concluso che la sua era stata bens politica, ma non politica da santo, Croce osserv che quella era invece proprio politica da santo, e cio di uno che, nellattuare i suoi fini santi, si valeva (da galeotto a marinaro) dei soli mezzi reali di attuazione, che erano quelli offertigli dalla politica.

B. Mussolini, Forza e consenso, in Scritti e discorsi, III, Milano 1934, pp. 77-79. Ibid. 27 Critica, 22 (1924), p. 136; Etica e politica, p. 223. 28 Mussolini, Scritti e discorsi, I, 109, 29 Lo storico a cui, senza nominarlo, Croce si riferiva (p. 140 = p. 228) E. Caspar, Roger II (1101-1154) und die Grndung der normannisch-sicilischen Monarchie, Innsbrck 1904. Ho sottocchio, messa a mia disposizione da Stefano Palmieri, che ringrazio, la trad. it. Bari 1999, p. 130.
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Con la sola variante costituita dal verbo asserire che, nel 1931, sostitu laffermare del 1924, i due passi sono identici. Ma nel 1931 Croce vi aggiunse alcune linee, che suonano cos: e il protestantesimo stesso, che tanto contribu a restaurare lintimit e sincerit morale, non dov adottare, sin dallinizio, metodi politici, e imparare poi, per questa parte, dai suoi avversari gesuiti, eccellenti maestri di tali cose in dottrina e in pratica?30. Ebbene, che cosa significa questo passo che, impegnato come fin allora era stato nello studio dellet della Controriforma, gli parve utile aggiungere? Forse che il suo intento era di eseguirvi unoperazione di mascheramento di quel che aveva affermato nel 1924? Oppure, che a quel punto, per ribadire la sua tesi che la politica la politica, e che anche nellattuazione di fini santi, il suo esercizio non pu essere difforme dalle sue regole, egli avvert la necessit di aggiungere che se, ai suoi tempi, san Bernardo aveva agito secondo quella, non diversamente avrebbero agito poi gli uomini stessi della Riforma protestante? Che significhi questa seconda cosa, ovvio. La soppressione riguarda invece il periodo che Croce aveva scritto di seguito alla pagina nella quale aveva parlato della tendenza propria dei partiti politici a separare linseparabile, ossia ci che tale nellidea, e a chiamarsi con i nomi contrapposti di liberali, autoritari, democratici, aristocratici e cos via. Il periodo del 1924 conteneva lesempio di quel che allora aveva circolazione nella stampa quotidiana e riguardava la polemica politica e la cos detta battaglia delle idee. E suonava cos:
Test in Italia abbiamo udito sostenere perfino che un regime di dittatura, qual quello che ha preso il nome di fascismo, sia liberalismo: affermazione certamente non bugiarda, perch, come sappiamo, in ogni regime politico, anche in quello che si considera il pi dispotico, c libert, ma che diventa fallace in quanto esibisce una generalit con laria di somministrare alcunch di specifico e di proprio, e di condannare come antiliberali o malamente liberali gli altri partiti31.

In questo passo, scritto prima del maggio 1924, quel che meriterebbe, in particolar modo, di essere discusso, il significato che Croce attribuiva allespressione regime di dittatura, riferita al fascismo. Sarebbe interessante, infatti, sapere e poter decidere se nel fascismo Croce individuasse allora un regime nel quale le libert politiche erano sulla via di essere spente nella prospettiva di esserlo, a breve termine, del tutto. O se, con regime di dittatura intendesse un modo di governare autoritario, ma non eversivo, quello della dittatura essendo in ultima analisi un istituto, e una prassi politica, previsti dalla costituzione e, in linea di principio, non ostili a
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Etica e politica, p. 228. Critica, 22 (1924), p. 148.

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questa. Quale, fra queste due, sia, per dire cos, la lectio difficilior e quale la facilior non agevole dire: anche se la considerazione del fatto che, formalmente, quello di Mussolini era ancora, nel 1924, un governo costituzionale, dovrebbe indurci a ritenere che difficilior, e perci da accogliere, fosse la seconda di queste due alternative, non la prima, alla quale pure non pu affatto escludersi che Croce avesse la mente, indotto a ci dalle parole di disprezzo che tanti fascisti allora pronunziavano nei confronti del regime parlamentare. Su questo potr, eventualmente, discutersi in altra sede. In quella nella quale ci troviamo, converr invece osservare che la cancellazione di queste linee dipese non certo dallintento di far apparire come antifascista un testo scritto con un diverso intento, ma, al contrario, da ragioni forse di prudenza, suggerite dallessere ormai quel regime, nel 1931, di dittatura nella prima delle due accezioni delineate qui su; o, se non da queste, da quelle che potrebbero indicarsi nel tempo che, dal 1924, era trascorso, e che avrebbero comunque imposto che il passo fosse modificato. Quanto alla polemica antiattualistica, resa evidente dallaccusa di genericit, o generalit, rivolta ai sostenitori del carattere liberale del fascismo (e fascista del liberalismo), quella era certo ben viva, in Croce, nellanno in cui ripubblicava il suo scritto sulla politica. Ma aveva trovate ormai tante occasioni per essere comunicata ai lettori dei suoi scritti, che la soppressione di quelle linee non poteva rivestire ai suoi occhi particolare significato. Mi sembrerebbe superfluo, in ragione della loro irrilevanza, continuare nellanalisi delle altre varianti presenti nel testo del 1931. E vorrei concludere con una semplice osservazione. Alle pp. 206209 del suo libro, la Martina ha analizzato il discorso che nel maggio del 1924, nello stesso mese e anno in cui la Politica in nuce vedeva la luce nella Critica, Croce pronunzi per linaugurazione di una Societ di cultura politica; e ha concluso la sua disamina osservando che quantunque qui, come del resto in Politica in nuce, la morale venga agganciata alla politica, ancora Croce non riconosce il contrasto possibile, lantinomia che pu manifestarsi tra le due categorie (e dunque la possibilit, e talora la necessit, di una battaglia morale contro la politica) (p. 208). Sono linee veramente rivelatrici. Non c una sola parola, in questo testo, che non fraintenda gravemente il pensiero di Croce; da quellorribile verbo agganciare allantinomia che pu insorgere fra due categorie, per non parlare della lotta, anzi della battaglia morale che letica pu e talora deve intraprendere contro la politica. Qui c poco da commentare: anche perch non vorrei che il mio qualsiasi discorso suonasse arrogante (e sia pure involontariamente arrogante) nei confronti di una studiosa che, comunque, ha letto molte cose e si industriata di interpretarle. Ma non potrei tuttavia non rilevare che a far de349

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viare dalla giusta via la gentile autrice sono stati, rispettivamente, un atteggiamento giornalistico (di non buon giornalismo) e un luogo comune: luno e laltro ben presenti nella cultura di questi anni. Il primo, di assai pi recente formazione, quello per cui quel che conta, nelle cose della storiografia relativa allet contemporanea, la sorpresa, e anche la meraviglia, che si deve cercar di suscitare nellanimo di colui che legge. E quale maggior sorpresa, quale pi grande meraviglia, nascerebbe in questultimo se sul serio qualcuno dimostrasse che, negli anni che nel primo dopoguerra videro la crisi delle istituzioni liberali, Benedetto Croce aspir a diventare il consigliere politico di Benito Mussolini e che a questo fine scrisse la Politica in nuce? Laltro di data assai meno recente. un luogo comune, infatti. E ha trovato, e seguita a trovare, la sua espressione nelle parole con le quali stata divulgata e poi variamente ripresa la leggenda secondo cui, a differenza dellastruso e difficile Gentile, Croce sarebbe uno scrittore semplice, piano, da tutti leggibile e abbordabile. Quanto questa idea risponda al vero dimostrato dalla feroce ignoranza con la quale di Croce si parl, da parte di coloro che lo giudicarono cos, ieri; e pi che mai dimostrata da quella di coloro che a quel giudizio si sono rifatti e si rifanno nei presenti tempi. dimostrato, purtroppo, anche da questo libro; nel quale, con danno di colui (o di colei) che lha scritto, si fa prova del fatto che una bella prosa non necessariamente una prosa facile, e pu celare nel fondo difficolt persino pi ardue di quelle che una scrittura meno elegante, subito metterebbe innanzi a chi si provasse ad affrontarla. In realt, Croce filosofo assai meno semplice di quanto da taluni non si sia pensato, e la Martina non pensi. Richiede perci molta attenzione; e una mente disposta alla fatica che si richiede per capire le sue tesi nel quadro unitario di un sistema, mobile senza dubbio, e che tanto pi dovrebbe essere presente, tuttavia, allinterprete quanto pi il suo svolgimento mostrasse che le sue strutture furono messe a confronto di nuove esperienze e di nuovi pensieri. E richiede, sopra tutto, che si rinunzi ai coups de thtre.

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