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NICCOLO' TOMMASEO

POESIE
1.VOCAZIONE
Una voce in cuor mi suona,
e mi dice: "Tu morrai.
Del Signor, che non perdona
a' superbi, il d vedrai.
L'alma tua, che usc peggiore
dai lavacri del dolore,
tremer nel sole eterno,
d'esser nuda arrossir.
Lieve foglia, a' venti scherno,
senza vita andr 'l tuo nome.
Come l'alito del verno
sveste al rovo e al fior le chiome,
tale al cenere pi vile
la tua polve andr simile;
e alla pietra illacrimata
la calunnia insulter.
I pensier' che a te beata
d'ineffabili diletti
fr' l'ambascia, e la pacata
armonia degli alti affetti,
sconosciuti andran con teco
nel sepolcro; e il mondo cieco
non sapr di quante vite
era il germe ascoso in te".
Una voce in cuor mi suona,
e mi dice: "Tu vivrai.
Desir' vasti il ciel ti dona,
vasto campo a ignoti guai.
Lungo corso a te prescritto;
e, in correndo, un fier conflitto
durerai con l'ira immite
e de' popoli e de' re.
Turba l'onde, asconde il cielo
l'aggirar d'opposti venti,
speme ed ira e fiamme e gelo
riversando in sulle genti,
che, quai giovani destrieri,
per burron' senza sentieri
vanno insane: e chi quell'impeto
esultante infrener?
Fia merc d'un pio consiglio,
d'un gentile ardir fia pena
la franchigia dell'esiglio,
o l'onor della catena.
Forse un giorno andrai mendico,
senza ingegno e senza amico:
ma 'l pregar di qualche misero
a' tuoi preghi echegger".
Sovra un pelago profondo
di tenbre e di mistero
voga, o Padre, incerto il mondo,
vola ardito il mio pensiero.
Non gli scherni e non gli affanni,
non le plebi e no i tiranni,
non l'esiglio e le ritorte,
ma te sol pavento, o Re.
Il dolor da te mi giova,

parmi un riso di bellezza.


Come d'aquila, s'innova
la mia stanca giovinezza.
Degli afflitti eterno Amico,
al tuo nome i' benedico;
della vita e della morte
i tesori io sacro a te.
2.L'ITALIA
Sola, inerme, tramortita
giaci, o donna delle genti.
Delle febbri e dei tormenti,
che sentir ti fean la vita,
pi tremendo 'l tuo languor.
Manda, o Padre, alla sopita
una scossa avvivatrice;
dona, o Padre, all'infelice
ch'ella intenda il suo dolor.
Non improvvida baldanza,
non imbelle e vil sospiro;
non ignobile il desiro,
non feroce la speranza,
non sia stolto il suo clamor.
D'una vergine fragranza
di ventura et men vile
la ristora; e sia simile
a martirio il suo dolor.
S'esser dee, Padre, di pianti
e di sangue il suo lavacro,
deh quel sangue almen sia sacro;
deh non sian ludibrio i vanti
dell'italico valor.
Di pudico ardir, di santi
detti, e d'opere leggiadre
la consola: e intessi, o Padre,
qualche gloria al suo dolor.
Vero amor pi non s'alletta
nella misera cattiva:
tu l'amore in lei ravviva;
sia l'amor la sua vendetta,
sia l'amore il suo tesor.
E se incontro a lei s'affretta
per la notte del futuro
nuova pena, almen fia puro
d'ire inique il suo dolor.
A te chiami, e si consigli
col tuo Verbo la tradita.
Tu la via, tu sei la vita;
tu la invola a rei perigli
della speme e del terror.
Tu la campa da' suoi figli,
dagli amici e dagli amanti.
Voi che in lei nasceste, o Santi,
tregua orate al suo dolor.
3.GL'ITALIANI MORTI IN ISPAGNA
Veggo spade al sol lucenti,
sento il suon de' combattenti,
sento l'urlo de' morenti.
Voi, che in piume delicate
vostri vizii addormentate,
ricchi e grandi, m'ascoltate.

Stuol d'italici guerrieri


cospargea di sangue ieri
l'infiammato suol d'Algeri:
oggi Francia, che guadagna
se d sangue ed or sparagna,
li commette in dono a Spagna.
Le superbie degli amici,
l'empia rabbia de' nemici
spermentr' quegl'infelici.
Nudi il piede, il ventre vuoti,
a morir certo devoti,
valicr' torrenti ignoti.
Di lor giovane beltate
sole in cor sentian pietate
le fanciulle innamorate.
Al digiun che avean patito
tenea dietro l'imbandito
dalla morte empio convito.
Chi squarciato il capo e il seno,
altri un piede o un braccio meno,
chi freddato in sul terreno.
Cento morti, e cento ancora,
e poi cento; e tutti or ora
strania terra li divora.
Ricchi, a voi che dice il cuore
della fame e dell'orrore
di chi langue e di chi muore?
Ahi dolor! D'Italia i figli
son divisi nei consigli,
nella speme e nei perigli.
Contro Spagna in suolo ispano
ha versato ispana mano
il tuo sangue, Italia, invano.
Ma non fr' per te versate
(nume ignoto), Libertate,
quelle gocciole sacrate.
Ahi, dovr di gloria casso
nostro nome, come sasso,
rotolar cacciato al basso?
Or chi sa se il guardo pio
con dolore e con desio
innalzr' gli afflitti a Dio?
Le lanciate in sul morire
lor bestemmie non udire;
o Dator del buon pentire.
Nuove strade a noi disserra,
vieni, e porta in sulla terra
miglior pace, o miglior guerra.
Combattendo amar c'insegna:
vieni e inalbera un'insegna,
pura, o Cristo, e di te degna.
Al tuo popolo, Signore,
dona un duce ed un pastore,
un linguaggio, un braccio, un cuore.
Se morriam, pianti morremo,
e temuti. - O Re supremo,
il tuo giorno attenderemo.
4.A GIUSEPPE MULTEDO
Te, come donna sconosciuta ancora,
che la voce e l'andar suo c'innamora,

o Corsica, pensai con lieto amor.


Quando vidi spuntar le Sanguinare,
figlie gemelle tue, cui bacia il mare,
e Aprile il capo e il lembo orna di fior'
parvemi quasi di finir l'esiglio:
Italia! Italia! dissi: ogni tuo figlio
stimai fratello, e gli tendea la man.
Ma freddi o schivi i pi de' tuoi vedea
d'Italia al nome: e il cor mi si facea
come d'amante ch'ha sperato invan.
Gli ver ch'italo ferro il pi ti strinse;
che Genova tiranna a te s'avvinse,
s'avvinse a te come serpente suol,
che, vecchio e stanco, all'ali s'aggroviglia
d'aquila giovanetta: ella gli artiglia
le squammee spire, e morde, e tenta il vol.
Ma se del tuo nemico a te diletta
l'acre dolor, compiuta la vendetta:
dalle tue rupi il torrido soffi
vento, che di lontane onde l'altera
regina un tempo, ligure bandiera
con la spezzata antenna in mar lanci.
Itala terra sei. Nell'accorata
delle tue donne funeral ballata
spirano i suoni che il mio Dante am.
Ai pingui colli dell'Euganeo suolo,
alle balze del ripido Niolo
l'alber medesmo i suoi germi fid.
Ebbe anch'Italia antichi i suoi tiranni
li prese e ruppe; e, di famosi affanni,
per agognate vie, bella sal.
E d'Amalfi a Milan, d'Adria a Tortona
fitte, siccome i pini in Vizzavona,
citt pugnaci pullulro un d;
citt, di re terror, donne di regni;
e volro e posr' gl'itali ingegni,
delle terre e dell'onde imperator'.
Quell'odio che i tuoi figli, Isola forte,
consuma, e ad uno ad un li getta a morte,
provincie intere divorava allor.
Non dalla macchia a notte o a dubbia mane,
in pien meriggio, al suon delle campane,
dagli alti merli e sull'aperto pian
si ferivano a mille; infin che, altero
de' falli nostri, il vigile straniero,
venne e leg le parricide man.
L'odio, miseri noi, l'odio ci ha sfatti:
alla febbre de' rabidi misfatti
il letargo segu de' turpi amor.
Scuola ti sia l'esempio: e dona a noi
memore pianto. N scordarti puoi
ch'italo sangue a te batte nel cuor.
Sempre Italia sarai. Sento venire
di versi un'armonia, ch'al mio partire
fra i poggi e l'acque di Bastia vol.
Puro cos d'Arqu sulle pendici,
cos de' cedri tuoi nelle felici
aure, Benaco, l'usignuol cant.
Segui a pi alta via, dolce poeta:
ne' tuoi fratelli generosa e queta

spira col canto un'armonia d'amor.


Me di nuovi dolor' lieto desio
altrove chiama. Austera Isola, addio:
non obbliare il profugo cantor.
Sai di che schietto amor, primo, t'amai;
con che libera gioia ringraziai
de' tuoi mari e de' cieli il bel seren:
e udii le oranti vespertine squille
di poggio in poggio, e le sospese ville
vidi, o posate alla convalle in sen;
e del nembo fuggii nelle tue grotte
lo scroscio; e corse gi per vie trarotte
o su tremuli ponti agile il pi.
E clsi la volante poesia
di bocca alle tue donne: e l'armonia
di lor canzoni ne verr con me,
grato dono all'Italia. Intesi il pianto,
forte e simile a modulato canto,
della sorella ch'alle Assise invan
chiedea vendetta del fratel tradito:
visitai dentro al carcere il bandito,
strinsi, confesso, la macchiata man.
E quando al fin de' miei pensati guai
vicino essere credea, raccomandai
potesser le ignorate ossa posar
al Borgo, l dov'Ombre armate intorno
ai ben difesi tetti errano, e il corno
paion, che a guerra inciti, ansie bramar.
Ombre italiche siete. E spesso a sera
per la bruna onda mute in lunga schiera
cercar vi vidi con materno amor
d'Italia i liti. Nel nato soggiorno
tornate, o benedette: avrete un giorno
grande d'affetti e di preghiere onor.
5.ALLA DALMAZIA
Spregio o pietate alle superbe genti,
o poveretta mia, suona il tuo nome.
Siccome il braccio che, da corpo vivo,
mezzo reciso, dolorosa noia
spenzola, in te cos la vita altrui
scarsa, o Dalmazia, e con dolor s'infonde
Serbica e Turca, ed Itala e Francese,
n ben d'altrui n tua ben fosti mai:
patria viva non ha chi di te nacque.
Ma se non mente al mio doglioso affetto
il ciel sereno, e negli aperti venti
libero il cedro, e l'odorata neve
dei mandorli affrettanti primavera;
vedrai, sincera mia, stagion pi lieta.
Vedrai gl'ignudi poggi rivestirsi
d'irrigua selva e di feconde nubi:
selva nuotante i porti; e nube ratta
(respir di barche nella foga ansanti)
nel puro aere gettar nera favilla.
Siccome uccel che in lieta ombra di verde,
dopo lungo volar, cala e riposa;
tal, da Borea moventi o dall'Occaso,
volte alla calda luce d'Oriente,
sosta faranno a te navi e pensieri.
N pi tra 'l monte e il mar povero lembo

di terra e poche ignude isole sparte,


o patria mia, sarai; ma la rinata
Serbia (guerriera mano, e mite spirto),
e quanti capi, all'italo sorriso
nati, impaluda l'ottoman letargo,
teco una vita ed un voler faranno,
e darann'entro alle tue vene stanche
vigor novello. E tu, porgendo fida
la destra a Italia, ad Ellade la manca,
in sacre le unirai danze ed amplessi.
Forse che in te degl'inimici orgogli
svestan la mente e l'Unghero e il Germano,
ed a' petti ove il sol mesce pi caldo
sangue ed amor, si sentano fratelli.
Ch in te, seconda Italia, Iddio compose,
Serbica stirpe, delle umane forme
e degli affetti le diverse tempre,
e mise in armonia gl'impeti e il senno:
lingua ti di di giovanili ardiri
che in quante Europa suoni, orma maggiore
tien delle forti et quand'era il mondo
bambino al dubbio, e nell'amor gigante.
Soffri gli spregi e la miseria, e spera,
o poveretta mia. Mal nota sei,
ma la dimessa tua fronte non cinge
ladra ricchezza immonda, o gloria infame.
Nel volger dell'et sarai pi grande,
ma pi matura a' gran dolor' sarai.
6.L'ITALIA E L'EUROPA NEL 1848
Mugge il tuono: e fra 'l tuono tu senti
melodia di soavi concenti.
Guizza il lampo: e la nuvola nera
s'apre al riso di limpido sol.
Questa calma che attende bufera;
questa gioia nutrita di duol.
Stan per tutto pensose e frementi
fra speranza e timore le genti:
libert sotto forme novelle
splende agli occhi, si stampa ne' cuor'
Le nemiche si senton sorelle,
e fra l'ira si parlan d'amor.
Francia, al monte ed al mare t'affaccia;
stendi, o Francia, ai dolenti le braccia:
nelle mani hai la pace e la guerra;
i dolenti riguardano a te.
Trema, o Francia, e gioisce la terra
al sonar del tuo rapido pi.
Piegheranno al tuo cenno minace
i superbi, e vorranno la pace.
Della luce il settemplice raggio
si confonde in un solo candor:
delle genti francate il coraggio
si contempri in un inno d'amor.
7.A PIO IX
Non io le membra de' caduti in guerra
a' pi nemici ed agli estivi ardori
empio esporr, ma la dolente terra
ricoprir di fiori.
Te, d'insperato ben serena immago,
pi ch'uom caduco, e quasi eterna idea

concetta in sogno memore e presago,


Italia a s facea.
E te, misero, d'inni, e s, meschina,
sotto il periglio inebri di vanti.
L'urlo tedesco e il suon della rovina
ruppe il delirio e i canti.
Da te volea, tiranna e serva insieme,
la gloria, il senno, e del morir l'impero;
e tu nol dsti. Alla bugiarda speme
fu tradimento il vero.
Cieca innalz te, fragil gesso, e cieca
lasci caderti in polve: or ti calpesta,
e de' suoi falli in te s'adira, e impreca
alla sacrata testa.
Schiavo a' nemici tuoi, tiranno ai figli,
sul seggio tuo; qual corpo morto, giaci;
e in te, vivente ancor, ficcan gli artigli
sozzi avvoltoi voraci.
Siccome tenda di pastor' fuggenti,
passasti: e Italia il vento abbraccia, e cerca
idoli nuovi. Ah! con pi lunghi stenti
dote d'onor si merca.
Disagi, affanni, amor, sangue, pensiero,
sante memorie, a libert son dote.
Ciascun libero a s prence, guerriero,
e servo e sacerdote.
Tu sopravvivi, lasso, alla tua fama;
e dal mugghio del mar che in te si frange,
s'alza il sospir d'un naufrago, che t'ama,
misero, e a te compiange.
8.A CARLO POERIO
Te salutiam risorto a un d novello,
Carlo, e sottratto a man crudeli e ladre:
e l'alto duol che di conforti padre
proviam, pensando teco al tuo fratello.
Splendide esequie, in mestamente bello
ordine, a lui sacrr libere squadre;
e Venezia, immortal sorella e madre,
di pie parole gli scolp l'avello.
E lui del sangue suo l'aperta vena
segn poeta; e con martirio santo
mor credendo nell'Italia e in Dio.
E non visse ai singhiozzi; e non sento
lontan lontano della madre il pianto,
e il suono, o Carlo, della tua catena.
9.MANE, THECEL, PHARES
Briaco, si fe' Baldassar
gli spendidi vasi portar,
che al tempio di Giuda rap
quel re che poi, bestia, mugg.
E tutti negli aurei bicchier'
i grandi si misero a ber,
le mogli, le drude del Sir,
e i muti lor Dei benedir
che l'uomo in metallo gett,
o in sasso od in legno tagli.
Quand'ecco sul muro una man
con dita che rapide van
scriventi una scritta ch'al re
e a' Grandi compresa non .

Il re ne' pensier' si smarr,


de' reni la forza sent
fiaccata, e con trepidi pi
ginocchio a ginocchio batt.
Suoi maghi e indovini chiam:
"aiuto, venite", grid:
"la scritta chi legger sapr,
di porpora e d'oro potr
vestirsi, e consorte seder
in terzo del regio poter".
I maghi le note non san
che scrisse l'orribile man:
e il re, per lo grande terror,
e i Grandi mutaron color.
Chiamato, compar Daniel,
profeta del re d'Israel:
"che far de' tuoi doni, non so.
La scritta, se vuoi, legger.
Iddio, ch' il padrone dei re,
la gloria a Nabucco gi di,
gli di la tremenda virt
di reggere lingue e trib,
d'uccidere a pieno piacer,
far sorgere in alto e cader.
Nabucco di contro al Signor
lev la superbia del cor:
ma Dio d'ogni onore l'orb,
cogli asini al bosco il mand:
bagnaro il ferino suo pel
le piogge e le brine del ciel.
E adesso il suo degno figliuol
a Dio rinchinarsi non vuol:
ne' calici sacri bev,
e i grandi e le drude del re
cantaron gli dei che non han
n senno n lingua n man.
Iddio sconoscesti: per
Iddio quelle dita mand
di mano veggente, immortal,
scrivente la scritta fatal,
che dice: "ecco l'ultimo d:
Iddio lo tuo regno fin':
Iddio di sua man ti pes,
il peso calante trov.
Sei morto. La tua potest
nel Perso e nel Medo n'andr".
A fiero banchetto sed
la fame del popolo re;
nutr, senz'amor n piet,
la sua con le altrui libert;
de' popoli bevve nell'r
le lagrime, il sangue, i sudor'
de' pesci la carne cib
che l'uom di sue carni ingrass;
sull'armi sdraiossi alla fin
briaco d'orgoglio e di vin.
Quand'ecco terribil a udir
falangi da' Borea venir,
e Roma col lungo ulular
dal duro letargo destar,

che indarno col ferro e con l'or


discaccia l'avaro furor.
Qual vento che il verno soffi,
qual flutto che 'l turbo gonfi,
s'avventano senza piet
su lei che difesa non ha:
la forzano i barbari re,
forzata, la pestan co' pi;
e il cranio in cui bevono pien
del sangue del fiacco suo sen.
O Grandi di Francia! e a voi pur
conviti larghissimi fur;
e il povero a voi li imband
con l'opra de' lunghi suoi d.
Gettastegli a' pi, com'a can',
voi, vili, l'oltraggio ed il pan:
voi vili per tutta merc
sfioraste d'onore e di f
la vergine ch'egli educ,
la donna che il misero am.
Diceste agli afflitti: "godiam
co' bruti, ch bruti noi siam.
Ridiamo: la morte verr,
e il fango nel fango cadr".
Dormiron ne' fiacchi piacer':
quand'ecco leggiera a veder
sugli ebri una scure s'alz,
e al torbido sol balen,
e scese veloce e sal,
e vili e possenti fin.
Un popolo i mari pass,
austera una razza cre,
rampollo divelto dal sen
materno, che in forte terren
i rami nel libero va
spandendo, e gran selva si fa.
Fanciulla non rise o vag,
di vergine amor non gio;
ma crebbe possente a raccor
adulte le gioie e i dolor'
Gettossi bramosa sui ben'
che crescon dal fango terren,
feroce con lor s'abbracci,
e quasi d'amor palpit.
L'immenso de' campi ondeggiar,
le immense pianure de' mar',
de' fiumi il profondo muggir,
de' boschi il sublime stormir,
ridusse in venale valor:
e l'uomo (tremendo tesor)
al tasto e al color giudic;
gli spirti al mercato compr:
la morte ai Selvaggi vend,
e il vizio, pi dura dei re.
Ahi popol mercante ed artier,
briaco di grossi pensier,
la razza, tuo spregio e terror,
segnata d'infame color,
un d sulla tua libert,
qual grandine grossa, cadr.

Deh rompi la nebbia il cui vel


ti toglie i sereni del ciel.
Colui che tu chiami Signor,
fu semplice e mite di cuor.
............................
10.CORAGGIO ESPERANZA
E` buia la valle; ma i pini del monte
gi l'alba incorona del vergine raggio.
Scuotiamci dal sonno, leviamo la fronte:
fratelli, coraggio.
Fu lunga la notte, fu sonno affannoso;
ma il sole ci apporta travagli novelli.
Peggior della morte il turpe riposo:
coraggio, fratelli.
Continua battaglia la vita del forte,
per erti sentieri continuo viaggio.
Armati ed andanti ci colga la morte:
speranza e coraggio.
Pensiam che i nemici fratelli ci sono;
cerchiam del valore nel cielo i modelli.
Armiamci d'amore, vinciam col perdono:
speranza, fratelli.
11.SOLITUDINE
A mia madre
Quasi indistinto gemito,
languida al cor mi giunge
la tua soave immagine;
n assai lo stral mi punge,
madre, del tuo dolor.
Altri dolor' men pii
pi forte in me sentii,
altri, e men sacri, amor'
Baciai di donna estrania,
come di madre, il viso;
n la tua pura angoscia
n 'l puro tuo sorriso
m'han tocco di piet.
Lassa, dal suo diletto
indizio alcun d'affetto
la madre mia non ha.
Ed io, crudel, continua
ero al suo cor ferita:
la notte a lei di lagrime
empievo, a lei la vita
di tedio e di timor.
Ahi la tua vita, o pia,
non che un'armonia
di prego e di dolor.
Ma gi 'l dolor l'immobile
ombra de' larghi vanni
stendea sull'incolpabile
fiorir de' tuoi begli anni.
Questa, ch'io sento in me,
di mesto amor dolcezza,
questa di pianto ebbrezza,
madre, mi vien da te.
E il pur vedermi, o misera,
ti rendera beata.
N sospir s languida
fanciulla innamorata

gli occhi del suo fedel.


Della mia voce il suono,
d'un mio sorriso il dono,
altro non chiedi al ciel.
Ed io tel nego: ed anima
cortese ostento ed alta.
Sull'ali del fantastico
pensiero in me s'esalta,
e par sublime, il cuor.
E` questa, ond'io mi vanto,
ambizion di pianto,
solletico d'amor.
Tempo verr che vividi
col declinar degli anni,
quasi rimorso indomito,
i tuoi materni affanni
risorgeranno in me.
Gi questa, in ch'io m'aggiro,
noia affannosa, spiro
d'amor, che accenna a te.
E allor che, infermo e vedovo
d'ogni terreno affetto,
le notti solitarie
sul letticciuol negletto
e ciechi i d trarr;
allor turbata e in pianti,
o madre, a me davanti
l'immagin tua vedr.
Sogni cangianti, e sterili
gioie del vuoto ingegno,
voi per sentier di triboli
a interminato segno
torceste il mio cammin.
Se ignoto accanto a lei
restavo, almen saprei
della mia vita il fin.
Ed or, dov' la patria,
dove la mia famiglia?
di chi son io? le dubbie
mie strade or chi consiglia?
chi regge il mio languir?
Di qual donna amoroca
sul seno il mio riposa,
lieto del suo gioir?
Tardo e superbo, all'anima
apprese un gran pensiero:
farmi agli afflitti popoli
nunzio del santo vero,
a Italia mia legar
gli esempi del patire,
vincer, pregando, l'ire,
l'ire d'amore armar.
Ma disdegnosa e debole,
ed in peccato tinta,
e sparta, e or troppo agli uomini
straniera, or troppo avvinta,
la mente insana or va,
or viene, e lenta ondeggia;
ne' suoi pensier' vaneggia,
l'arte d'oprar non sa.

E pur s'avanza. Un impeto


dell'inspirato core,
e del commosso secolo
l'istinto, e il mio dolore
dicono a' miei pensier:
sola la morte posa,
sola la tomba sposa
all'uom che annunzia il ver.
Forse divisi, o misera
madre, il terreno esiglio
lasciar dovremo; e i languidi
occhi, morendo, il figlio
ricercheranno invan:
invan nell'agonia
per benedirmi, o pia,
distenderai le man.
Ma scender benefica
l'ultima tua preghiera
in me, siccome tacita
sui fior' chinati a sera
la stilla del mattin.
E piover da lei
rimedio a' falli miei,
conforto al mio cammin.
12.A UN ALBERO
Non gi in una spera
vederti riflesso,
al rezzo tuo stesso
sedermi vorrei
da sera;
tra 'l verde tuo lieto
veder senza velo
dell'italo cielo
il vivido lume
quieto;
e sotto a' tuoi rami
la vista fruire,
l'accento sentire
di moglie toscana
che m'ami;
e ai mesti fratelli
veder menomati
gli affanni e i peccati,
e giorni aprir loro
pi belli.
Vorrei... Ma che bramo
un bene negato?
O cuor vedovato,
o occhi miei lassi,
moriamo.
13.A UNA FOGLIA
Foglia, che lieve a la brezza cadesti
sotto i miei piedi, con mite richiamo
forse ti lagni perch'io ti calpesti.
Mentr' eri viva sul verde tuo ramo,
passai sovente, e di te non pensai;
morta ti penso, e mi sento che t'amo.
Tu pur coll'aure, coll'ombre, co' rai
venivi amica nell'anima mia;
con lor d'amore indistinto t'amai.

Conversa in loto ed in polvere, o pia,


per vite nuove il perpetuo concento
seguiterai della prima armonia.
E io, che viva in me stesso ti sento,
cadr tra breve, e dar del mio frale
al fiore, all'onda, all'elettrico, al vento.
Ma te, de' cieli nell'alto, sull'ale
recher grato lo spirito mio;
e, pura idea, di sorriso immortale
sorriderai nel sorriso di Dio.
14.LA MIA LAMPANA
La piccola mia lampa
non, come sol, risplende,
n, com'incendio, fuma;
non stride e non consuma,
ma con la cima tende
al ciel che me la di.
Star su me sepolto
viva; n pioggia o vento,
n in lei le et potranno;
e quei che passeranno
erranti a lume spento,
lo accenderan da me.
15.AFFETTI, ERRORE, RAVVEDIMENTO
Allora, allor nell'anima
profonda suoneranno
religioso gaudio,
desiderato affanno
le tue soavi e sante
parole, o pia, d'un misero
madre, sorella, amante.
Allor teco alla povera
mensa vedrommi assiso,
teco i sospir confondere
e il genial sorriso:
conoscer qual sei
allora; e la memoria
dir quant'io perdei.
Ella rugiada all'arido
cor, del suo cor non degno:
da lei scintille e giovane
vita al senile ingegno.
I' bastai solo a lei;
e i suoi terror seguirono
sempre i perigli miei.
Guard nel mio silenzio
mesta e pietosa, e tacque:
ud mie lodi, e tacita
e umle in lor si piacque.
Della mia voce al suono
precesse il suo servigio,
precesse il suo perdono.
Dunque per me pi misera
vivesti, e per me rea!
Ingrato, io di terribili
gioie e di speme empiea
quel cuor che, poi frustrato,
lavar con tante lagrime
doveva il mio peccato.
Ella esult negl'impeti

d'un inconcesso amore:


e me bugiardo e perfido
diceva, e non migliore,
allor ch'ai desiosi
suoi baci, qual fantasima
di morte, Iddio frapposi;
allor che me contrario
a' miei desir pregai,
e ad uno ad un gl'indizii
alla fedel negai
dell'usitato affetto,
come pugnal che strazia
di fibra in fibra il petto.
Ma tu di mute lagrime
pascevi il lungo affanno,
tu mansueta e docile
servivi al tuo tiranno;
e semplice, sincera
saliva al Dio degli Angeli
per lui la tua preghiera.
Piet, Signor degli Angeli,
piet, piet di lei.
Mie le sue colpe furono,
i suoi dolor sian miei.
Troppo quel cuor s'affranse
d'ansia, d'amor, di tedio;
troppo conobbe e pianse.
Sola i' la lascio, e vedova
d'ogni terrena speme.
Tu nella notte, o Vergine,
quando il dolor pi freme,
Tu scendi a visitarla;
non delle mie miserie
Ma del mio cuor, le parla.
Fa' che gli error, le angoscie
della mia vita ignori.
E se al mio crin di nobile
fronda o d'eletti fiori
serto destina il cielo,
sotto i suoi pi si spargano,
coronino il suo velo.
S' ver ch'amore all'anima
spiro, i' vissi assai:
molti e profondi e insoliti
affetti esercitai.
Non di piacer fiorita,
ma calda di memorie,
mi correr la vita.
16.A DONNA ELEGANTE
T'amerei se, al mondo ignota,
in un povero vestir,
sulla pallida tua gota
non spirasse del gemmato
volgo il gelido respir.
E` pi sacra dell'amore
la piet che desti in me.
Come chiedere al candore
d'un bel corpo estenuato
il vigor che pi non c'?
No, non vesta in te natura

a piene onde i suoi piacer.


Meglio in facile pittura,
meglio in garrulo concento
si compiace il tuo pensier,
che ne' raggi e nelle note
che dal cerulo seren
scendon fitti e in ampie ruote,
riversando il firmamento
alla terra e all'acque in sen.
Quasi in pietra ben tornita
che l'artista effigi,
il mistero della vita
fiede in te soavemente,
ma nell'alto entrar non pu.
Passerai com'onda breve
che in zampilli se ne va.
Di quel pi, che ornato e lieve
fa sua via languidamente,
non un'orma rimarr.
E qualch'orma eri pur nata
a lasciar di te quaggi.
Del piacere ormai svogliata,
tu se' presso a quella noia
ch' il sospir della virt;
quando l'alma si risensa,
e a se stessa inferma appar;
e del cor la notte immensa
d'alti duoli e d'alta gioia
s'incomincia a colorar.
E non tutta il gel dell'arte
mai la vita in te fredd:
sempre il cielo alcuna parte
di sua candida bellezza
ondeggiar su te mir.
La calunnia e la lusinga
vili strisciano al tuo pi;
ma tu schiva e in te solinga,
del ben far la pia dolcezza
tenti, e gl'inni della f.
O gentile, allor che belle
di virgineo pallor
ti scintillano le stelle,
prega a Dio per le accusate
ch'hanno l'opra impari al cor.
E d'affetti generosi
ti componi un origlier,
ove lieto si riposi
nella stanca e sola etate,
o gentile, il tuo pensier.
17.MEMORIE SPARSE
Dammi l'anima tua. Queste beate
splendide forme che gentil passaggio
fan d'una in altra, come all'aura estiva
biancheggiando ricresce onda sovr'onda,
sono intoppo a' miei sguardi. E non la forte
volutt che, com'angue in mezzo al verde,
d'ogni parte di te guizza e si snoda,
n 'l crin, largo sugli omeri scorrente,
n 'l fremer della vita che s'affretta
per vanire in un bacio e in un amplesso,

cerco, misera, in te. Come fanciullo


che il vago arnese, onde gli vien diletto,
spiar desa negli spezzati ordigni;
cos l'intima mente e la bellezza
del giovanetto tuo spirito arcana,
e le piaghe celate, e quante mai
fr vite in te morte, rinate, o miste,
tutto saper chiegg'io. Candida un giorno
eri cos 'l pensier come la fronte;
e queste chiome che dell'arte fuggono,
lussuriando, i nodi, erano allora
di non tocca ghirlanda incoronate.
L'ore correvano
in variata danza
alla tua gioia ancelle.
Teco sedevano,
di vergine speranza
liete, le tue sorelle.
D'amor non anco
premean le punte assidue
nel cor di gi piagato,
come nel fianco
d'egro destriero il pungolo
di cavaliere armato.
E ancor sei bella. Ancor nel tuo segreto
siede il dolor ch' di virt consorte:
e d'altre gioie i memori desiri,
e l'angel del rimorso e dell'amore
parlan l entro. Oh! le presenti noie
dimmi, e i deliri andati: ad uno ad uno
contami i passi della lunga via,
lunga s che Dio solo che l'abbracci
in un concetto. Pi che l'ultim'astro,
che l'alte solitudini consola,
corre lontan dalla terrena valle,
lontano il tuo pensiero da se stesso.
Pur dinne alcuna parte. Il cuore arcano
aprimi, e al tocco della man pietosa
risponderan le viscere profonde
d'amarissima colpa inebriate.
Povero fior, quant'impeto
di pioggia e di tempesta,
sulla tua china testa
quanto dolor pass!
Lassa, d'amar, di piangere,
la forza, il so, ti manca:
del vivere sei stanca
e del gioir, lo so.
Vieni: e il languido tuo capo riposa
sulle ginocchia mie. Molti soffersi
celati affanni; e i non sofferti ancora
di comprender m' dato, e i tuoi comprendo.
Come a me, lassa, i tuoi, cos parlaro
a te gli sguardi miei. Forse che Iddio
vorr, pietoso della mia pietade,
camparti alla rovina delle afflitte
che vanno del piacer sulla muggente
onda languidamente abbandonate.
Poich s frale
volle il candore

di tua belt,
spero, immortale
il tuo dolore
Dio non vorr.
In questo esilio
forse non mai
pi ti vedr:
ma nella patria
m'incontrerai,
teco vivr.
Quivi ci aspetta
schiera infinita
cui la bellezza
fu lungo error.
O giovanetta!
ivi la vita,
ivi l'ebbrezza
vera d'amor.
Deh, chi mi d raccorre in questo breve
petto la piena degli altrui dolori,
e di prece lenirli e di possenti
lacrimate parole? Ahi troppo avara
l'umana pietate ai muti affanni
delle figlie d'Adamo! Ahi quante fiamme
spente nel dubbio amaro, e nell'insano
deso di gioie che non d la terra,
ch'agili e schive nel pensiero immenso
volano, annunzio di ben'altra vita!
Molte vid'io novelle pellegrine,
cui l'ali verginette venner meno,
cader dall'alto nel cedevol fango,
e affondar disperate. E molte a cui
pi gran tratto di ciel s'apra nel volo,
nelle terrene immagini cercando
ir l'eterea bellezza, e veder quelle
lieve lieve appressarsi e poi fuggire,
e piangerne la fuga, e col pensiero
ritentarle, e morir nei vani amplessi,
di lunghissimo amore estenuate.
Del primo amore
dall'ardue cime
discendi, o misera:
ti sia terrore
la tua sublime
credulit.
Vivrai felice
pi che non speri
se la fantasima
posseditrice
de' tuoi pensieri
con false immagini
i piacer' veri
non turber.
Ma chi ne' tuoi dolor' s'attrista e pensa,
o donna, i cui dolor' solo comprese
chi gli umani dolor' tutti sento?
Chi l'adultera piange? In ira o a scherno
l'ha il mondo: e pur Colui che dritto estima
gli umani error' la difendea da' vili,
e salva la mandava, e ricreata

di benigne parole. Oh non assai


pena alle afflitte soffogar la gioia,
premer l'ambascia, vergognar d'un guardo
e d'un silenzio, e dell'amor de' suoi,
e di se stesse; e trepidar per due,
e dubitar di tutti; e morte e oblio
chieder sempre, e temer non Dio le ascolti,
e a sogno atroce aver simili i giorni,
e d'inferno le notti; e rimembrando
rabbrividir d'amore, e riversarsi
sovra il memore letto, inconsolate?
Ma di troppi dolor' buon Dio, contrita
hai la deserta che le mie sventure
e i miei delirii in sul suo capo accolse.
Oh sconosciuta al mondo, a che la fronte
chini al suol, conturbata? In Dio rimira,
e in lui di me, lontano, avviserai
il mesto aspetto. In lui fa' ch'i' ti vegga,
non di crude memorie sanguinante,
ma, quasi pianta che la queta stilla
del ciel riceve nelle chine fronde,
mite di lunga speme, e le pupille
di quieto dolore irradiate.
Tu piaga immedicabile
gemi ne' miei pensieri:
tu le mie doglie temperi,
e attoschi i miei piaceri.
Piene di te le tenebre,
pieno il pregar di te.
Or mesta luna e pallida,
or importuno sole,
dentro mi splendi; e pensano
in me le tue parole.
Ahi tu se' morta, o misera,
e la tua vita in me.
18.L'IDEALE
La giovin donna ch'i'amo d'amore,
m'ama con tutte le forze del core.
Mai tutta trista, n mai tutta lieta:
queta sua doglia, la gioia pi queta.
Tutta coperta d'un semplice manto:
la sua parola un dolcissimo canto.
Vede, dormendo, di ciel visioni,
e le contsse in sognate canzoni.
Ell'ha di vergine il timido amore,
di vedovetta il maturo calore.
Da sera al sommo degli anni fiorisce,
da mane invergina e ringiovanisce.
Siede nel sole, o, deposto ogni velo,
qual fior, riceve la pioggia del cielo.
Umor la nutre di schiette bevande
che per le gracili membra si spande,
e le commove d'un moto leggiero,
simile al moto d'un lieto pensiero.
N mai, nell'atto d'andar, muta i passi,
ma, come uccello per l'aere, vassi,
o, come nave per l'acqua, procede,
che tutta mossa in un tratto si vede.
Ella si lascia libar da' miei baci
l'altera fronte e gli sguardi vivaci,

ma non mai, seno compressa con seno,


bevve degli ebri complessi il veleno.
Sempre la veggo, pur sempre la bramo:
non disse mai: tu se' buono; n: t'amo.
Alle sue docili orecchie amorose
suona una voce da tutte le cose;
un'aura spira, sottil ma sicura,
che le fa tutta sentir la natura.
Docile ell' come stelo di fiore;
ma ferma tiensi in radici d'amore.
E s conosce; e quel Dio che la ispira,
sente in se stessa: e per non s'ammira.
Sublime guarda, comprende profondo
per s'inchina ai misteri del mondo.
Ama tranquilla con ordin d'affetto
un fiore, i mondi, il Signor suo diletto.
Tutti ama; e meco si vive soletta
la mia fanciulla, la mia vedovetta.
19.ESPIAZIONE
Ad Alessandro Poerio
Mesto sentire e lieta fantasia,
raccolti affetti il mio genio mi di;
e tra l'audacia de' pensier' fioria,
qual fiore in selva, il pudor della f.
Ma per ingrate terre i' derivai
la limpid'onda che venne di ciel;
e gli erranti per l'alto idoli amai
gravare, indegno, con sordido vel.
Muta allor di splendori ed in gramaglia
parvemi avvolta natura veder;
e fremer dentro sentii la battaglia
infaticata de' molli pensier'.
Lunga tela la vita: e, se in un punto
fall la mano al difficile ordir,
ivi vaneggia, e gracile e disgiunto
cede ad ogni urto e si squarcia il desir.
Lasso, il riso vedrai della serena
speme, nebbiose memorie velar:
de' passati anni udirai la catena
lungo_strisciante per terra sonar.
Caddi, ma piansi ancor; piansi, e parlai
delle mie piaghe, o Signore, con te:
e risorsi, e ricaddi; e pur pregai,
e vincitor mi composi al tuo pi.
N fu viltade il creder mio, n tacqui
da lui diverso l'errante voler:
e amai quanti eran buoni, e mi compiacqui
ne' bei perigli del libero ver.
Risorger poeta. E tu con meco,
giovane stanco del vano vagar.
Sento sull'alma mia, come su cieco
abisso, un'aura divina volar.
Ogni affetto una vita, tutto un mondo
ogni pensiero: e quest'alma immortal,
come le penne apr, tocca il profondo,
emula al volo degli Angeli sal.
La region degli Angeli, partita
per sottil velo da' sensi, m'appar.
Centuplicata intorno arde la vita,
siccome stelle tremanti nel mar.

Questa che muove e sta, suona ed olezza,


e in sette brilla ed in mille color'
e palpita di morte e di bellezza,
materia arcana, pregnante d'amor,
aura che da lunge, messaggera
d'ignote terre, volando ne vien;
di voci armonia, che non intera
giunge, e si perde nell'ampio seren.
Questo, che me di tanto amor circonda,
ampio universo, e si curva su me,
spirito tutto: e, come sole in onda
Dio vi pentra e lo compie di s.
Come del nostro sol corrono i giri
immensi intorno a pi splendido sol,
tal d'amor mille io veggo e di martiri
rote scontrarsi; e con mistico vol
di mondo in mondo, e d'una in altra prova
scendere a schiere gli spirti e salir;
e ogni cosa rifarsi, e sempre nuova
onda di spirti e di mondi venir.
E in questo mar nuotiamo. E dei venturi
anni siam parte e del tempo che fu.
E forza i mondi andati e i nascituri
prendono e danno all'umana virt.
Degli spazii e de' secoli sovrana,
leviam la mente alla cima del ver:
n sola abbracci la famiglia umana,
ma i cieli eterni, l'umle pensier.
20.CONFORTO
Cessa, o fratello, il piangere;
e con uml coraggio,
a Dio levando l'anima,
procedi al tuo viaggio.
In mezzo a tante lagrime,
che sono i tuoi dolor'
Tra le angosciose tenebre,
nel vigile mattino,
pensa alla madre vedova,
all'orfano bambino:
pensa al prigione, all'esule;
prega pel reo che muor.
Uom sei: di tutti gli uomini
accogli in te l'affanno;
t'unisci a quanti vivono,
a quanti un d vivranno.
Inno d'amore, ascendano
al cielo i tuoi dolor'
21.A UN MAESTRO
Ben ti provvide il Ciel, quando al tuo core
commise il fior de' giovanetti ingegni.
Dell'intatta natura il sacro germe
l vagheggiar t' dato. A te la bella
primavera dell'uom si raccomanda.
Di quel Bello l'idea, che il senso affina,
bean dal tuo labbro. In lor sereni e caldi
volgi i rai dell'esempio; e, come scerni
spuntar la gemma del primiero affetto
sui rami tenerelli, amor v'innesta,
quell'alto amor che della mente figlio.
Tempo verr che de' felici rami

l'albero adulto alle gi bianche tempie


e al cener tuo prepari ombra e ghirlande.
E tu, nell'ora che il tuo sol declina,
sentirai nel rinchiuso orto del cuore
piovere un'ineffabile dolcezza,
n saprai dir perch ti venga o donde.
Quel sar l'Angel tuo, che a te 'l pensiero
recher degli eletti, in cui rivivi.
Or fa che in te, primier, profondo alligni
de' forti sensi il delicato germe,
e mite al sol di verit maturi.
L'alata fantasia, la salda mente,
e l'arte e il caso in armonia contempra.
A te notturna luce, a te diurna
il libro ch' del Ciel messaggio in terra:
quivi al fuoco del cor l'ingegno affina.
E, come pellegrin che, per deserti
lunghi inviando l'occhio irrequieto,
se luogo allegro di fresch'ombre e d'acque
visto gli vien, s'adagia e si rinfranca;
tal, pe' dolenti secoli scorrendo,
de' Grandi pochi alle vestigia sparse
frmati, e n'abbia il tuo cammin conforto.
Al futuro edifizio, onde tua mente
form l'alto modello, ardue colonne
e profondi metalli e gemme ardenti
raccogli, intaglia, appura. In sul passato
dell'avvenir la mole ha fondamento.
Oh se possente meditar solingo,
e lavor diuturno, e intgra vita,
e incessante pregar, dal Ciel t'impetri
poche, ma pregne di fecondi veri
splendide carte, in cui l'et lontane
bacin segnata del tuo cor la stampa,
e ogni anima gentil senta il tuo spirto
in s trasfuso, e a pianger teco impari;
te beato in fra mille! Allor potrai
volgere al mondo, che da lunge amasti,
sereno il guardo, e dir morendo: io vissi.
22.VITA NUOVA
Esci di te. Ne' liberi
splendor' del cielo immenso,
sul mar profondo e placido
degli enti, il volo intenso
corra del tuo pensier.
Ogni alito che senti
un'immortal parola;
ogni respir de' venti
un Angelo che vola,
de' mondi messaggier.
Esci di te. Nell'ampia
luce che avviva i mondi
le tue virt ritempera,
le gioie tue trasfondi,
dilegua i tuoi dolor'
Il tuo destino apprendi;
de' secoli le vie
sali, raggiando, e scendi,
concorde all'armonie
del provvidente Amor.

23.LA DONNA
A Giorgio Sand
Ombra fugace, ed immortale idea,
sacro, immondo, terribile diletto,
donne, voi siete. La Virt che crea,
nel vostro grembo il secol rinnovella:
sugge il fanciul da' vostri baci in pria
il Verbo ch' fattor dell'intelletto.
Siete Dio. Tutta spirto la bellezza
che lo spirto in voi cerca. Il cor negli occhi,
della voce nel suon l'anima intera;
e traspar dalle forme un'armonia
che con man non si coglie: ella risponde
all'intimo intelletto dell'amore:
il resto fango. E incauto al vostro fango
l'uom s'inchina, e calpesta il vostro nume;
e s'avvisa d'intendervi nel fondo,
come bambino intende i suoi trastulli
se li brancica e infrange. Intere e nette
per distanza allo sguardo entran le cose;
come in pure acque il cielo e l'erba verde
miri dall'alto; ma se in lor t'immergi,
lo specchio muto. E se, o gentili, il core
d'umilt non vi sfiori arte tiranna,
umilt v' natura, e caro istinto
la scienza de' nobili desii.
La Bont che promette minacciando,
libertade alla donna annunziava
nascitura dal fallo: e gli occhi d'Eva
nella speme del supplice rimorso,
lagrimando, intravvidero Maria.
Nel nome di Maria l'amor pi puro,
e pi sacro il domestico ricetto,
e la donna men serva. E queste umli,
alto ispirando il cuor de' figli nostri,
libert porteranno all'egre genti,
chiesta indarno agli sdegni, al senno, all'armi.
E saran da' tiranni abbracciamenti
franche e dal reo martir de' servi baci:
o figliuol di Maria, tu solo intendi
l'alto misterio del piacer verace.
Oh se Dio nol difende, il grave fiato,
la dura man dell'uomo, estinto avria
questo gracile fior che pensa e geme.
Serva a tue voglie ed alle altrui, tu regni:
tu del tuo sen l'infante nutri, accogli
l'uom dolente al tuo seno, e del tuo core
scaldi il cor che gi sente in s la tomba.
Gli Angeli, come rose al vento sparse,
raccolgono i tuoi preghi; e il capo chino
n'ha della schiava umanit ghirlande.
Chi numerar sapria quanti un affetto
chiuda pensieri, e quanti affetti un suono?
Chi ridir quanti de' comuni affanni
nelle bestemmie tue, Lelia, prorompano,
ne' sospir del tuo canto e ne' sorrisi?
Al piede snello non calzar dell'arte
il piombo; il mite lacrimoso ciglio
non gravar d'accademica burbanza.
Tu se' donna, o poeta: e quando intendi,

d'ire superbe e dubbi freddi armata,


pi che donna parer, cadi, e il serpente
della noia ti striscia al petto e al crine.
Tu se' donna. A volar tra' raggi e il verde
delle valli e del cielo ove crescesti,
e nel concento de' ruscelli noti
inebriarsi, e all'mile gioire,
e ad intender la croce e ad abbracciarti
col dolor, fido sposo e caldo amante,
l'anima tua gentil creava Iddio.
Scende via pe' declivii della vita
torrente, il sai, pi ruinoso amore.
E se pensati errori e cerche ambasce
trama a te la procace fantasia;
pensa ai veri dolor' che sugli umani
piovono come i rai d'un d sereno:
pensa a lor che per molti anni contente
stettero a un solo affetto, e morte il rompe;
pensa alla pura vergine deserta
del suo lieto deso; pensa alle fide
derelitte; alle madri, a cui la prole
chiede piangendo pane, e pan non hanno;
pensa le inferme in angoscioso letto;
quelle che fr vendute, o s vendro;
tutti, col Figlio uml, coll'alta Madre,
per la lunga de' secoli catena,
i duoli accogli delle umane genti;
te, misera, per tutti espiatrice
ostia consacra: e allor saprai l'amore.
24.LA DONNA
A Giorgio Sand
Siete un gemito, un sorriso,
un fuggevole fantasma;
siete un sordido, un sublime,
un terribile diletto,
un mistero.
Della possa creatrice
l'invisibile portento
entro a voi si rinnovella:
il fanciul dal vostro labbro
sugge in primo il Verbo arcano
ch' fattor dell'intelletto:
d'ogni amor, d'ogni beltate
spira in voi lo spiro eterno:
siete Dio.
Tutta spirto la beltate
che la mente in voi vagheggia:
nella fronte e nel sorriso
par ch'albeggi il sole ascoso
del pensiero e dell'affetto;
il candor rosato o pallido
un vibrar di quella luce
che pentra l'universo,
senza pondo, e varia ed una,
viva immagine di Dio:
negli sguardi il cor si mostra:
nella voce l'alma intera:
son le forme un'armonia
chiusa al senso, aperta all'intimo
intelletto dell'amore:

tutto il resto polve e vermi:


siete fango.
Il silenzio e la parola
son del par misterio in voi.
In suo credulo sospetto
l'uom s'inchina al vostro fango,
e conculca il vostro nume;
e d'intendervi s'avvisa
come intende i suoi trastulli
ozioso fanciulletto,
se vi brancica e v'insozza
e vi frange.
Per distanza intere e nette
fansi a noi le grandi cose.
Se alla pura onda sovrasti,
vedi il cielo e l'erba verde
che amorosa in lei si specchia
ma se tutto vi t'immergi,
turbi il placido concento,
n pi 'l cielo e l'erba verde
pi vi leggi.
Dubbio stolto o stolto orgoglio
l'amor dell'alme vili.
Ma se a voi, misere, il core
non isfiora arte tiranna,
umilt v' caro istinto,
v' gentil necessitate.
A voi sole nota, e in voi
l'apprendiam piangendo, lassi,
la scienza del desio.
Alla donna errante e schiava
la bont gastigatrice
che impromette minacciando,
nascitura dal peccato
libert vaticinava:
e la donna all'egre genti
recher la chiesta invano
alle frodi, al senno, all'armi
libertate.
Gli occhi d'Eva lagrimosi
nella speme del rimorso
intravvidero Maria.
Una povera fanciulla
degli antichi e de' novelli
desiderii puro segno.
Fu nel nome di Maria
via pi vergine l'amore,
il domestico recesso
via pi santo, e voi men serve,
sventurate.
Pi dal figlio di Maria
stiller con l'onda il sangue
a sanar le nostre piaghe,
e pi franche dall'angoscia
de' tiranni abbracciamenti
dal martir de' servi baci
voi sarete, o sventurate.
Della donna ai muti affanni
chi compianse? e chi comprese
il mister della verace

volutt? Tu solo, o figlio


di Maria.
Oh, se Iddio nol difendesse,
dell'uom duro il grave fiato,
la man fredda estinto avria
questo fior che pensa e geme.
Nel passar della tempesta
l'umil giunco il capo inchina
dolcemente sospirando,
n si spezza. E invan sovr'esso
l'uom s'aggrava, e le sue noie
su vi getta e i suoi rimorsi:
l'umil giunco a poco a poco
si rileva, e tende in atto
di preghiera e di lamento
suso al ciel la molle cima.
Di tue voglie e delle altrui
debil serva, ancor tu regni,
del tuo sen l'infante nutri,
al tuo sen l'amante stringi,
nel tuo cor riscaldi il core
che gi sente in s la tomba,
di tue lagrime alimenti
la piet, la gioia nostra;
l'ire nostre, i nostri orgogli
di tue lagrime mollisci.
Senza te trarotta andrebbe
la catena immensurata
che fa 'l core all'intelletto,
l'uomo agli angeli consorte.
Non un sol de' tuoi pensieri,
pur che umle amor lo informi,
va smarrito; e al cor gentile
odorosi intorno aleggiano
siccom'atomi in un raggio
ondeggianti.
Van gli spiriti del cielo
tutte in un le tue preghiere,
quasi fior dal vento spersi
raccogliendo; e il capo chino
della serva umanitate
n'ha ghirlanda. - Oh chi saprebbe
numerar quanti un affetto
pensier chiuda, e quanti affetti
una voce? E chi dira
quanta parte si nasconde
delle tue, di nostre doglie,
de' tuoi gaudii e degli umani,
nelle tue bestemmie, o Lelia,
ne' singulti e ne' sorrisi
del tuo canto?
Ma perch dell'arte il piombo
calzi al piede, e ad ora ad ora
gravi il molle arco del ciglio
d'accademica burbanza?
Non t'infingere, o poeta;
tu se' donna.
E quand'alta apparir vuoi
pi che donna, allor tu cadi,
e la serpe della noia

ti s'avvinghia al collo intorno.


Ma sublime allor mi sei
quando ignuda e donna torni
ricca il crine e ricca il seno,
non di dubbi e d'ire armata.
Le lussurie letterate
fuggi, misera; t'invola
alla garrula Parigi
che, qual rana dal suo fango
gracchia al ciel fangoso anch'esso.
A volar tra i raggi e il verde
de' tuoi campi e del tuo cielo,
nel concento a inebriarsi
de' natii ruscelli, nata
la divina anima tua;
a gioire umilemente
a abbracciarsi col dolore,
ad intendere la croce:
tu se' donna.
Pensa, o lassa, agli anni andati;
non tornar sull'aspra via
che di lagrime rigata,
di fior pochi e tante spine.
Pel declivio della vita
scende, il sai, pi ruinoso
il torrente dell'amore.
E se a te pensati errori
versa in core e cerche ambascie
la procace fantasia,
pensa allora ai veri affanni
che sul capo degli umani
piovon fitti, inevitabili,
come i rai d'un d sereno.
Pensa a lor che un puro affetto
fea per molti anni contente,
e sventura o morte il rompe;
alle vergini frodate
di lor unico desio;
alle fide derelitte;
alle madri cui la prole
chiede pane, e pan non hanno;
alle inferme in solo letto;
a color che fur vendute,
a color che si vendro:
pensa agli odii ed ai sospetti,
ai misfatti ed a' rimorsi,
agli esilii, ai ceppi, al sangue,
agli schiavi ed ai tiranni.
Tutti al par del figlio umile,
tutti al par dell'alta Madre,
i dolori in seno accogli
delle etati e delle genti,
te per tutti espiatrice
ostia porgi; e allora, o misera,
sentirai che sia l'amore.
F uggi le tane aurate
+_
di mal domate belve,
e del lontan Brasile
nelle profonde selve
ricvrati, o gentile.

Rocce vedrai vestite


di pendenti ghirlande,
lussureggiar le lande,
l'isole, le convalli,
di verdeggianti vite;
e il molto fior ch'estolle
le odorate corolle
sui fuggenti cristalli;
e in bianchi e in bruni e in gialli
ed in color di rose
le austere arbori annose
gioir di ricco aprile.
Non pensata vedrai
variet d'odori,
di bellezze, d'amori:
e in tirso, in ondeggiante
nastro, in racemi, in gai
festoni, in lunghe spire
conserti i fior' venire;
e l'ellera gigante;
e, pi d'alpine piante
un arboscel sublime,
fletter le lente cime
a grande arco simle.
Il margine a' ruscelli,
quasi un fiorito calle,
alianti farfalle
fitto ingemmar vedrai:
di sconosciuti uccelli
forti e soavi note
errar di selve ignote
per l'ampia pace udrai.
Di verdi e aurati rai,
in nuova guisa ardenti,
stellar l'ombre lucenti
la luccioletta umle.
Felice l'uom che intese
la sapiente e pura
tua volutt, Natura!
L'arte strisciando in nodi
di serpe a noi s'apprese;
ai mollemente fieri
tormentosi piaceri,
ai lenti dubbi, agli od
freddi, alle dotte frodi
gli arguti ingegni apra;
di sante li vesta
rabbie, e d'audacia vile.
Ahi, tutti schiavi e tutti
noi siam selvaggi ancora.
L'uomo il vicino ignora;
e ne' fraterni guai
non sente i proprii lutti.
Di Cristo il sangue in questa,
mal nota ancor, foresta
non piovuto assai.
Oh Padre, e quando mai
la potest del brando
sar finita? E quando
saremo un solo ovile?

Sole di Dio, la vivida


luce che crea l'aprile e fa l'aurora,
nella pupilla languida
versa di s pur qualche stilla ancora.
Qual chi da buia carcere
esce all'aperto, e la catena ha seco;
qual chi, l'opaca tunica
toltagli, esclama: or non son io pi cieco?;
Tal, come di miracolo
quotidian, ti rende il pensier mio
grazie, e con gioia trepida
dice: I' ti veggo ancor, sole di Dio.
Dal buio che l'attornia,
discerne ancor sulla parete il bianco
raggio posare, e il coglie,
quasi candido fior, quest'occhio stanco.
Ma non distingue il tremulo
scintillar delle stelle, e i bei colori
dell'iride, e il sorridere
de' visi amati, e in mezzo al verde i fiori.
Ah sia continue tenebre
la mia giornata estrema tutta quanta,
purch tu sole all'anima
quaggi mi resti, oh mansueta, oh santa.
Nel paziente e vigile
senno romita, ed umilmente altera,
tu nel mio verno un florido
ispirasti alitar di primavera.
La man tua fida il povero
cieco sorregga, e di tua mente pura
l'occhio la via gl'illumini,
salvo mi scorga alla mia sepoltura.
Senza di te, cadavere
pien di vivi dolor' che farei io?
Della sua pace il raggio
non mi s'asconda. Orate, Angeli, a Dio.
27.A UNA MARCHESA PARTORIENTE
Io canto al tuo periglio.
Forse una bara fia
la culla del tuo figlio;
forse due care vite,
di comune agonia
nel volo andranno unite;
dove l'uman desio
le immense ali riposa
sotto il braccio di Dio;
e paion fior' celati
in fondo a valle ombrosa
i mondi immensurati.
Forse una vita nuova
ti s'apre; e adesso appena
comincia la tua prova.
Raccogli, quant' molta,
la giovanil tua lena,
donna, e il poeta ascolta.
Se affaticar non sai
di forti gioie il cuore,
misera e rea sarai.
Da quest'angusto e frale
t'innalza a quell'amore

eterno, universale,
che ne' suoi giri abbraccia
l'oscura della terra
e la raggiata faccia;
che tutte creature
in un amplesso serra,
le ignote e le future.
Battaglie dolorose,
e a tutti, fuor ch'a Dio
e agli Angeli, nascose,
ti dar la speranza
perfida, il van desio,
l'impronta rimembranza:
ma poi del suo piacere,
serenamente queto,
Dio ti dar godere;
e, nella sua giustizia
raccolto, il cor secreto
a s sar letizia.
Se mai tra gli odorati
fior' che del ciel le schiette
lagrime avran rigati,
della calunnia il vento
freddo e crudel si mette
non ne menar lamento.
Gli delle cose belle
destin, che o le sian guaste
o non si creda in elle.
Ma del tuo verde a' lieti
silenzii ed alle caste
aure de' tuoi roseti
(chiuso orticel gentile,
cui l'invecchiar dell'anno
rinnover l'aprile)
verran di tanto in tanto
e grato apporteranno
le gentili alme un canto:
e il dolce odor che intorno
spirer da que' rami,
nuovo ogni nuovo giorno,
forse avverr ch'al vero
dal mesto error richiami
qualche stanco pensiero.
Questa ch'or t' largita
anima nuova, fia
gran parte di tua vita.
Tiengli in sublime il guardo
levato, e lo disvia
dal secolo codardo,
che ha molti i vanti, ha vile
l'ira, gli amor' loquaci,
e giovent senile,
e svogliato il disire;
che non sa dar possenti
n ferite n baci,
fiacco l'opre e gli accenti.
Pochi nel suo viaggio
avr compagni, e oscuro
e' parler linguaggio,
quasi difficil canto,

che il secol poi maturo


ripeter con vanto.
Ma com'uom che si muore
di freddo a cielo aperto,
che il desiato albore
chiarir non vede ancora,
dice: io morr, ma certo,
certo verr l'aurora;
tal egli il giovanetto,
cui sar f possente
il meditato affetto,
con la morente mano
additer presente
il secolo lontano.
Questi, madre felice,
benedetti il poeta
dolori a te predice.
Se al figliuol tuo di grami
gusti dev'esser lieta
la vita, e d'ozii infami;
se dell'italo germe
non pu, con degni figli,
sanar le posse inferme;
se in altro e' dee sua gioia
locar che in bei perigli
e in alti affanni, ah muoia.
28.GL'IGNOTI
Dopo accompagnato un feretro di donna, che fu di
Lione, e mor tisica in grande angoscia).
N quale il nome tuo, n quale il viso,
seppi; e la tua statura
misurai dal fertro. Io dalla sponda
illiria, e tu dal Rodano sonante
mover dovevi; e rincontrarsi alfine
in Parigi dovea con la tua bara,
o donna, il prego mio.
Tal, da lontano turbine reciso,
sovr'ignota verzura
cade languido fior; tale quell'onda
che di fanciulla tenera le piante
bacia amorosa, e lunghe selve alpine
corse e giardini gai trepida e chiara
con fido mormoro.
Nulla di te conosco. E notte oscura
m', come i casi tuoi,
quant'ebbi al mondo pi fidato e caro.
Ogni anima, ogni tempo, ogni sembianza
mar profondo, aere interminato:
e l'amor, che lo valica d'un passo,
la sua possanza ignora.
N senza eccelso provveder, Natura,
il tuo prospetto a noi
di f benigno, di scienza avaro.
Opportuno ignorar fa la speranza
ricca, e il pensier di fantasie beato,
che presente in ogni onda e in ogni sasso
l'amico Nume adora.
Tal per angusta via, di grigi massi
orrida a dritta e a manca,
move a mesto cammino il viandante;

e dal monte interrotto ad ora ad ora,


quanto l'occhio pu trar, vede pianure
ondeggiar liete, e sparso ode un concento
d'augei, d'alberi e d'acque.
Nulla di te conosco. E tutti i passi
della mia vita stanca
or tu segui con l'occhio, anima amante.
Mi siedi accanto, a bene amar m'incuora
tua dolce voce, e fra le mie sventure
a pregar lieto, a riposar contento.
N giammai si compiacque
donna in bramato sposo, o in giovanetto
fanciulla innamorata,
come tu, donna, m'accarezzi e m'ami.
E mille, in un con te, spiriti pii
mi guardan sempre da tutte le stelle,
d'amor severo e lieta f versando
in me nuova armonia.
Schietto, efficace, uml voli l'affetto
dell'anima turbata,
che da s fugga, e in Dio raccrsi brami:
ogni belt terrena al ciel la avvii;
e tutte, o meste o liete, a lei sian belle
di quante cose Iddio vien variando
la sua modesta via.
Spiriti ignoti, al vostro i' raccomando
amor l'anima mia.
29.VOLUTTA E RIMORSO: ELENA
Allor che 'l fremito de la pugna da l'ardua torre
ascolto, al sommo del petto il core mi balza,
e dico: ahi quanti da la ferrea destra di Marte
per te tormenti sostengono, svergognata,
Troia di destrieri domitrice e i nobili Achei!
Per te di vedove consorti e d'orfana prole,
fnebre, ne' tetti, ne' templi corre ululato,
che 'l giovane ancora genitore e il dolce marito
veggono travolti rotolar ne la polvere, e pianto
e lai versando sul petto recente ferito,
reggono con mano la cara cervice cadente.
Ma de gli estinti e de' gementi ti sfugge la vista
se Paride ammiri tornar da la strage cruenta
incolume. E te, da lungi accennante, saluta;
e il sangue appreso e 'l tintinno de l'arme sonanti
lo fan pi bello. Ma tu l'ancelle chiomate
sollecita appelli, gli apprestino i caldi lavacri,
e' sale a l'alte case: e, ancor di lorca gravato,
i' me gli stringo, com'ellera lussuriante
a querce altera frondente di verde novello;
e la man trepida, le ondanti creste de l'elmo
posate a terra, il bel crine di polvere sparso
carezza, e terge il sudor de le floride guance.
Ahi! ma le abondanti dal petto care parole
un nume ignoto raffredda, e la voce rimansi
stretta alle fauci nel nome di dolce marito.
E quando, in forte amplesso commista d'amore,
il cor segreto tutto negli ignei baci
si sface, nomarlo la bocca ansante ricusa
uom mio. Deh quanto con lacrime t'invidiai,
te che al compresso mio duol compiangi tacendo,
figlia di Priamo, bella d'Elicone sposa,

Ladice! A te di pura dolcezza rigati


gli amplessi, a te di tristo rossore la fronte
immacolata. E tu, splendor de le troadi ninfe,
oh tu cui 'l sacro Priamo parla riverente,
Andrmaca, allor che incedi a Diana simile,
bella d'odorato peplo e d'argentei veli,
a te d'intorno un sommesso d'amore sussurro
corre, e l'mil volgo s'arrestano contemplando.
Perch la vista di quel tuo dolce rosato
pallor virgineo e de' semplici sguardi soavi
regger non posso? Perch tua voce modesta
qual d'usignolo ch'entro a fragrante roseto
canta sul primo tremolar de le vergini stelle
mi suona nel petto quasi suon di triste novella?
Fuggir m' forza e della magion ne' recessi
celar la cura. Quivi Etra di Ptteo nata,
e Clmene fida, ridenti ancelle, beate
ancor del tenero fior dell'improvvida vita,
a me pensosa, tessente le lucide tele
trascorrer fanno talor su la china pupilla
un mesto riso. Ma quando la lor giovinetta
belt ragguardo, mi torna soave dinanzi
di te che 'n Argo le morbide tele sedevi
meco tessendo, cara nutrice, l'imago
materna. E Giuno mi mette ne l'intimo petto
de' patrii tetti, de' non pi visti parenti,
e di chi primo mi fe' sua, dolce la brama.
Ma come, ahi misera! de le donne argive lo sguardo,
o del cognato, o di te soffrire potrei,
figlia? Quale a me, di doglie tante ministra,
qual fra l'amplesso, la voce de l'inclito Atride?
Stolta! e tu pensi ch'e' dorma fredde le notti,
di te sognando, Menelao di Marte l'amico,
n tenere ancelle, all'incendio di predata
citt sottratte, dono di nobili Achei,
di giovane amplesso l'allegrino? Tale d'amori
ponesti a' ciechi mortali immobile fato
Tu, Dea, che a Gnido sorridi ed a l'alta Citera.
Di Giove l'arcano senno a te, lieta Afrodite,
serve; e la madre mia l'attesta, e i forti gemelli,
Castore del corso mastro, Polluce de l'armi.
E tu l'attesti, dell'inclito Bellerofonte
nata, ch'a l'Egoco confusa in amore, creasti
il simile a' numi Sarpedone, Laodama.
Queste ne l'intimo core mi mormora blande loquele
la santa Citera, ch'a me de le cure latenti
sgombra da l'immoto pensiere la pallida nube.
Talor la veggo spuntar ne' languidi sogni,
come da l'Oceano i rai d'Espero dolce_tremanti;
e al seno, ed al passo leggier quasi vol di colomba
la Dea conosco. Ridesta, in amor mi si volge
l'infiammata anima; e al chiaror de la luce novella
che su i torniti letti risplende, lo veggo,
i be' crin, sulla rosea cervice fluenti
(quale infra' lauri d'Eurota il Cinzio nume,
o quale in selva il bellissimo Endimione),
quel per cui Priamo sua figlia dolce mi noma.
Dal suo respiro i' pendo, e me dico beata
ch'unica fra tutte l'argive e le troadi ninfe
orno gli odorati talami di tale marito.

E se di veli ondeggianti e di splendido peplo


bella oltre all'uso i' paio, e pi vivida fiamma
per me 'l pensiero comprendegli, grazie vr te
unqua pi calde non salsero, lieta Afrodite.
Ma n i diletti n 'l duo? del core profondo
ho cui narrarli: n qui di conscio riso
son dati a me misera i conforti, o di conscio lutto.
Qual chi per selva di pruneti orrida e d'angui
cerca smarrito calle e vestigia note,
i' non rinvengo me stessa. E strania vivo,
strania vivrommi finch vecchiaia mi colga
squallida ne' tetti per me di floride vite
orbati. Lutto a' presenti, infame sarai
favola a' venturi. Deh morte piaciuta mi fosse
anzi che 'l talamo antico e i diletti parenti
lasciar! Deh slanciata m'avesse la negra procella
su i ripidi scogli o ne la spuma de l'onde sonanti!
30.UNA SERVA
Il soggetto non storico, ma conforme alla storia
de' tempi;che non sono, come ognun vede, quelli del San
Zanobi vescovo di Firenze).
Verso il monte ascendean dalla pianura
che lungo il tuo bel fiume, Arno, dechina.
L'ombra involvea le falde, in sull'altura
l'aure godean la luce mattutina.
Or appariano ed or tra la verzura
si nascondean, la salmodia divina
cantando a due a due la turba pia;
e il vescovo Zanobi li segua.
Benedicean la terra, e buona annata
chiedeva il pio colono al buon Signore.
La primavera sorridea beata,
e tutta la campagna era un amore;
e, di pioggie recenti consolata,
si rinverdiva nell'amato umore
ogni mil fronda, ogni foglia novella,
e dire un inno a Dio pareva anch'ella.
Nel pensar che i figli vostri
feno, o Padre, liberati,
si sentro i pensier' nostri
consolati.
Sulla lingua i lieti accenti
abbondr dal cuore espressi.
Fu il Signor, diran le genti,
grande in essi.
Il Signor fu grande in noi:
la letizia nostra piena.
Togli, o Padre, i cari tuoi
di catena.
Il torrente innondatore
l'ire omai del flutto ha quete.
L'uom che semina in dolore,
gioia miete.
Mesti andavan seminando
lor sementa: ed or verranno,
e, i manipoli portando,
gioiranno.
Seguitavan chiamando in lor preghiera,
Angeli, il vostro nome, e il tuo, Maria;
e il Battista, pensosa anima austera,

e
e
e
e
e

tutti che sperr certo il Messia;


gl'Innocenti, pargoletta schiera;
i Dodici da Pier fino a Mattia;
i Romiti, e i Dottor' di sacre cose,
i Martiri, e le Donne affettuose.
Alto levai
gli occhi, e pregai,
a te che in ciel
dimore,
come famigiio
tien fiso il ciglio
al suo fedel
signore.
Come servente
guarda umilmente
la donna sua
ch'ell'ama;
il nostro amore
guarda, o Signore,
la faccia tua
con brama.
Piet, buon Dio,
l'onta c'empo
d'un duolo acerbo
a morte.
D'onta e di pena
nostr'alma piena,
scherno al superbo
e al forte.
Giungeano a passo lento in cima al colle
ove mostra sue croci e biancheggiante
la cattedral di Fiesole s'estolle
tra 'l verde lieto delle folte piante.
Inginocchion sulle sudate zolle
stavan di molte donne al tempio innante:
e ve n'avea di condizion servile,
mancipii del palazzo vescovile.
Una, che, nuda il pi, pallida il viso,
rossa i labbri, e del corpo estenuata,
gli occhi di mesta pace, e d'un sorriso
di paziente amor le labbra ornata,
con le man giunte, al ciel guardando fiso,
pregava basso con voce accorata,
e, tra nero e sanguigno, avea suggello,
sovra le ciglia, di servil flagello,
al vescovo Zanobi di negli occhi,
mentre la man tendea benedicente:
poi dentro in chiesa videla in ginocchi,
romita in s, pregar ferventemente.
Non pu, vedendo, che piet nol tocchi:
cos, se in acqua od in vetro lucente
raggio pentra, il suo baglior divide,
e in modesti color' vario sorride.
Compiuto delle preci il ministero,
il vescovo Zanobi per lei manda.
Nuovi dolor' nel trepido pensiero
volge l'afflitta, e a Dio si raccomanda.
Egli con volto tra mite ed austero
la guarda appena, e, - chi se' tu? - domanda.
Dice la giovanetta: - i' son lucchese,

senza padre n madre; e ho nome Agnese. - Forse di servo nata? - Oh no, signore:
ingenua, grazie a Dio, la stirpe mia.
E mio padre era un povero aratore
di campicel non suo, lungo la via
che mette alla citt. Quando il Signore
ci percosse dell'aspra carestia;
e' pat tanto, e s le forze afflitte
per campar noi logr, che ne moritte. Tutta nel suo pensier si stette alquanto;
egli pietoso in lei lo sguardo fisse:
- segui, infelice. - Ed ella: - Orfano, accanto... e arrossiva e piangeva: e pi non disse.
- Orfano, tu dicevi? Accheta il pianto;
dimmi il nuovo dolor che ti trafisse.
Parli a chi ti compiange: apri il tuo cuore:
non il signor, t'ascolta il tuo Pastore. - Orfano, accanto al nostro poderetto,
un giovanetto povero vivea. Qui si tacque: e 'l Pastor, pio nell'aspetto,
- segui, figliuola. - Agnese rispondea:
- la madre e il padre mio, quel giovanetto
chiamavan sempre all'opre: io ne godea.
Come figliuolo suo l'amavan quelli,
e no' due ci amavam come fratelli.
Quando vide portarsi in chiesa il padre,
non fu men alto il suo del nostro strido.
Poscia de' suoi sudor' me con mia madre
mantenea, di d 'n d sempre pi fido.
Ma la fame crescea. Quando le squadre
sotto l'insegna dell'Augusto Guido,
di marchigiana gente e di francese
e di toscana nostra, armarsi intese;
pens che meglio con l'opra guerriera
(misere noi!) ci avria fornito un pane;
e ci lasci solette a primavera,
per far la guerra in contrade lontane.
E combatt nella battaglia fiera
dove tedesche genti e friulane
fuggiro, fama, come al vento nebbia,
l presso un fiume che si chiama Trebbia.
Quando si seppe noi della vittoria,
ah che gioioso d, signor, fu quello!
- Egli riviene a noi, n senza gloria:
lo rivedrem - dicevo - il mio fratello. I' vidi ritornar (fiera memoria!)
ricchi di preda que' del suo drappello,
empiendo i campi e il ciel di lieti gridi
che mi feran il cor: ma lui non vidi.
Seppi che, nel fervor della battaglia,
toccata il prode non avea ferita:
ma tra' fuggenti, misero! si scaglia,
e, stretto in mezzo a lor, perd la vita.
A noi due poverette, orbe in gramaglia,
la gente, a' mali nostri impietosita,
povera anch'essa, alcun soccorso dava;
ma la fame crudel continuava.
E mia madre... Or non pi. Che importa a voi
di me meschina e della mia sventura?
- Segui, diss'egli, e narra i dolor' tuoi.

Anche in me le sue piaghe apri natura. Tacque ella un poco, lagrimando; e poi:
- dal tapinar della sua creatura,
pi che dal suo, mia madre consumata,
dopo molto languir cadde malata.
Per procacciarle un po' di pane asciutto,
sola nel letto lasciarla i' dovea.
Ella metteasi inginocchioni, e tutto
quel tempo lo pregava e lo piangea.
Queste parole: benedetto il frutto
delle viscere tue, sempre dicea:
ora, o Madre di Dio, per noi meschine
adesso e all'ora della nostra fine.
Una mattina i' esco, in sulla via
mi metto, e tutto il santo giorno attendo
chi un poco di pan per lei mi dia;
torno la sera a lei, per man la prendo:
e, - piuttosto, - le dico, - o madre mia,
che vedervi languir, vado e mi vendo.
Avremo almen cos due soldi d'oro,
che, se mi campan voi, sono un tesoro. La derelitta le tremanti braccia
mi cinge al collo singhiozzando, e stretta
con quanta forza avea, stretta m'abbraccia:
- il buon Ges, - dicendo, - o benedetta,
premio a tua carit trovar ti faccia.
I' sono in fine. Oh non lasciarmi! aspetta
tanto che la mia ultima parola
spiri nel bacio della mia figliuola. Ma volle almen Ges farle pi lieve
l'ultimo passo con alcun conforto.
Venne il pievan della vicina pieve
a confortarla (il nostro era gi morto);
e, dalla sua bont scaltrito, in breve
si fu della miseria nostra accorto.
Dar le potetti un po' di cibo, ed anche
con vino inumidir le labbra bianche.
Dicendo, - Iddio rimanga teco, Agnese, entr soavemente in agonia:
e come un sonno languido la prese,
e spir mormorando Ave Maria.
Ma la benedizion dal ciel non scese
su me con il tuo prego, o madre mia! E il vescovo: - Figliuola, allor pi pio
quand'appar vie pi sdegnato, Iddio.
Crebbe la fame (non vero?), ed hai
piegata al giogo la libera fronte. - Mia madre e mie sorelle erano omai
nudit, fame, sete, insidie ed onte.
Senza pianto il terren caro lasciai,
e venni alla ventura a questo monte:
e servir chiesi, e nelle forme usate
toglier lascimi la mia libertate.
La moneta, mio prezzo, se n' ita
in suffragio dell'anima di lei.
Nuova degli usi, fuor di me, sfinita,
mal compir le servili opre potei.
Quando vide il signor che di mia vita
troppo misera usura gli darei,
mi mand sul mercato; e compratore

nuovo il castaldo vostro ebbi, signore. Io gli ho pur, - disse il vescovo, - interdetto
verso i miei servi usar punto angheria:
e qualcuno comprar gliene permetto
perch'abbian qui pi mite signoria.
Di lividi segnato alcun soggetto
di Zanobi Pastor non vo' che sia. Agnese allor: degna di pena, o buono
signor, ben pi che non crediate, io sono.
Una stanca tristezza obbliviosa
mi prende; e in mezzo del lavor mi seggio,
e guardo il cielo e piango, e in dolorosa
calma, fremente di pensier', vaneggio.
Al castaldo, che un d non so che cosa
mi rimbrottava fra sdegno e dileggio,
io, del servil tacere ancor non dotta,
risposi male, e n'ebbi questa botta. - Soffri 'l gastigo e il nuovo stato in pace,
disse Zanobi, e con Dio ti consola.
Se non puoi la fatica, o s'altri audace
onta ti fa, ricorri a me, figliuola. Ella, lo sguardo fiso a terra, tace;
poi, quasi vergognando, a lui s'invola.
Segue con gli occhi il vescovo pietoso
la gi lontana, e si riman pensoso.
Da quel d, lei venir delle pi pronte
alla chiesa, e in un canto orar vedea,
e dal seren della percossa fronte
sparir la tetra margine godea.
Se s'incontrava in lei scendendo il monte,
brevi parole umane le dicea:
ma con tutti del par buono e cortese
servi e serve parea, che con Agnese.
La s'ammal sul cominciar d'agosto,
men dal lavor che da' gran caldi stanca.
Ei dell'assenza sua s'avvide tosto:
e, - qualchedun di voi, - disse, - qui manca. Poich del mal di lei gli fu risposto,
con voce incerta, che parea pur franca,
- se infermo, - comand, - servo od ancella
cade de' miei, ne vo' saper novella. Ed al castaldo poi: - forse l'avranno
l'opre ingiunte da te stanca e accaldata. - Lavor come l'altre. - E non ve n'hanno
altre con febbre? - Ell' sola malata. - Fu, pi ch'a tutte, a lei crudel quest'anno:
con carit vogl'io che sia trattata.
Non che tra l'altre e lei ponghiate guari
divario: a tutti la piet sia pari. Di lei gli cale, e al mal di lei ripensa
con pi molle piet che non vorrebbe.
E di saper sue nuove ha voglia intensa;
e, di lei chiesto un d, poi gli rincrebbe.
E tra' libri, ne' campi, in chiesa, a mensa,
sente un tumulto in cuor che mai non ebbe.
A passeggiar leggendo esce una sera
verso la casa ove sapea ch'ell'era.
Quasi impensato, un prepotente affetto
condusse a quella stanza i passi suoi.
Com'ella il vide: - oh siate benedetto

che pur vi tocca un po' cura di noi! Indi lo prega le si accosti al letto,
e, - vorrei, - dice, - confessarmi a voi. Usciron tutti: ed ei l' uscio socchiuso
aperse, e accanto a lei siede confuso;
che le confessa, basso lagrimando
suoi pochi falli e suoi molti dolori:
e della madre gli vien raccontando,
e de' sepolti ed innocenti amori.
Il vescovo dicea: - ti raccomando
non isviar la mente in grati errori.
Figlia, pi gravi, quanto men sentite,
del memore desio son le ferite. - Come schiantar la rimembranza infitta
dal dolor nuovo e dall'antico affetto?
Vedova pria che moglie, derelitta,
o di servile amor misero oggetto. - Chiedi nuovi pensier': chiedili, afflitta;
e Dio te li far nascere in petto. - La bont vostra sola il pensier mio
ristora. - Or ben, grazie ne rendi a Dio.
Per me prega: e se cosa ti bisogni,
chiedi, e averai di me pi che padrone. L'assolve, ed esce; e par che si vergogni
delle parole che le disse buone.
Spesso al dolor di lei pensa, e ne' sogni
la vede e nella calda orazione:
sana la prega; ed ne' desir' sui
ch'ella richiegga confessarsi a lui.
Ci pi volte ella chiese. E pi la udiva,
e men se ne parta di s contento.
La smania in lei del pianto era pi viva,
in lui pi fondo e amato il turbamento.
E in rimirarla un lungo ardor sentiva,
una piet che gli facea spavento.
Un d, mentre ch'egli esce, ella di grata
tenerezza innocente inebriata,
tese le man' vr lui fuori del letto,
e fuor con mezza la persona s'erse,
e le giovani braccia e il giovin petto,
mezzo velato da' capei, scoverse.
Quasi a suon di battaglia, a quell'aspetto
raccoglie il pio le sue virt disperse,
e fugge: ella rimase a tese braccia;
poi con le aperte man copr la faccia.
E, pi che di peccato, vergognosa
di quell'atto, e dentro si tormenta;
e richiamare il vescovo non osa
che la confessi, e il guardo suo paventa.
E, mezzo inferma ancor, desiderosa
d'uscir si mostra; ed esce, ed contenta
di rivederlo; ed egli la saluta,
e le domanda se sia riavuta.
I miti soli e la serena brezza
del primo autunno gi la riavea,
e dagli occhi la calda giovanezza
e dalle gote languido ridea.
Tal, dopo quete pioggie, in sua verdezza
il crescente arboscello si ricrea,
e dalle foglie trepide rifrange

la luce, e quasi di letizia piange.


Un d che al bosco, incontro al sol cadente
inginocchiata, e, gli occhi al ciel, pregava,
e passe foglie l'arbore pendente
e luce ed ombra sovra lei versava;
ei di lontan la vide, e mestamente
or il cielo, or la selva, or lei guardava.
Agnese, udito uno stormir, si scosse;
lo vide, e sorse in piedi e vr lui mosse;
che parlar le volea: ma nel sentire
frusco di piedi tra le passe fronde,
nell'alta selva, senza nulla dire,
com'uom ch' colto in fallo, si nasconde.
Non intese il perch di quel fuggire
l'afflitta, e ne' pensier' suoi si confonde:
e, chiesto di parlargli il d seguente,
con voce piena del pianto nascente,
gli dice: - O mio signor, che v'ho fatt'io
che voi m'odiate? Se meschina i' sono,
deh non siavi in dispetto il grado mio;
e se in cosa peccai, chieggo perdono. Ed egli: - Altro pensier ier mi rapio,
n a te badai. - Gli ver, voi siete buono,
signor, - diss'ella: - ma chi che osserva
la presenza e i dolor' d'una vil serva? Cos se n'esce tra turbata e altera,
come s'ella signora, ei servo fosse.
N mai commessa grave colpa vera
contra Dio, tanto in lui dolor commosse,
come adesso l'aver con faccia austera
viste sue luci umiliate e rosse.
E s'adira e si cruccia, e s s'affrange
nella tempesta de' pensier', che piange.
Qual chi stende la mano, e di petecchia
contagiosa il reo gavcciol senta,
dubbio del certo male, e si rispecchia
entro la spera, e con la man ritenta,
e, spaurito, a scappar s'apparecchia
dall'uncin della morte che lo addenta;
tal Zanobi. E diceva: - ahi sciagurato,
non ti nasconder pi: tu se' malato. A un'immagin lev di Nostra Donna,
ch'alta sul letto avea, gli occhi languenti.
Ma sostener non pu viso di donna,
com'occhio infermo i rai del sol ferventi.
E qual chi teme di morir se assonna,
e pur non puote che non s'addormenti;
tal egli il suo rischio ama, e il suo mal sogna;
n del vincente amor pi si vergogna.
Talvolta il buon pensier vien poderoso,
poi, qual suon che digradi, s'allontana.
A que' d papa Sergio, a cui Formoso
rapir volea l'autorit sovrana,
scelto avea, come in luogo di riposo,
soggiorno nella Marca di Toscana.
Fu l l per mostrar pi volte a lui
il vescovo gl'infermi pensier' sui;
ma teme nol riprenda, e al cor piagato
troppo crudel rimedio non comande.
Un giorno che, pi fosco dell'usato,

male intender parea le altrui domande,


gli disse il papa: - tu mi par' gravato
d'un segreto dolor. - Dolore, e grande
(il vescovo rispose): ed io vorrei,
Padre, leggeste in fondo a' pensier' miei. Sergio a lui: - La sua doglia a ciascun preme:
me pur ange, o figliuol, sospetto e sdegno
de' miei nemici e nostri, e cura insieme
dell'alta sede a me commessa indegno. Tale risposta al vescovo ripreme
l'affanno dentro, ond'egli il cuore ha pregno.
Per propose non narrar che a Dio
del pudor le battaglie e del desio.
Ma, come a' colpi d'implacato acciaro
grave armatura cede a poco a poco,
e sempre men possente oppon riparo,
e gi si smaglia e arrossa in pi d'un loco;
cos cede al pensier crudele e caro
Zanobi, e anela al duol siccome a gioco:
senza pi terror, senza consiglio,
attrae con gli occhi immoti a s 'l periglio.
Con papa Sergio visit 'l marchese
Adalberto, e sedette alla sua mensa.
Mentre quant'ha delizie il bel paese,
quanti ricchezza umana agi dispensa,
mira, ode, assaggia, al tuo, povera Agnese,
dolce_arridente lagrimar ripensa;
e quante vede giovani, con pronta
cura, e quasi materna, a te raffronta.
Pi pensa, e pi delle mortali cose
gl'ingombra il cor la sonnolenta ebbrezza;
e le disperse memorie amorose
raccoglie dell'ardente giovanezza,
e le rintreccia, e di recenti rose
quasi un serto ne fa, che punge e olezza.
Or lambe il reo padule, ed or leggiero
spande l'ali nell'alto, il suo pensiero.
Ma non mai dell'aiuto di Maria
dispera in cor, n la final disfatta
previen colla scorata fantasia;
sempr'erra, e sempre i grati error' ritratta.
Qual chi su lieve tavola si stia
in mar sospeso, e l'onda insana il batta,
sempre il lubrico legno riafferra,
e guarda ansante alla contesa terra.
Ma poi che il papa alfin si fu partito,
torna alla greggia sua l'egro Pastore,
che risolse dell'animo ferito
disvelar la vergogna a un confessore.
Sceglie un prete, nell'armi incanutito,
che gli ultim'anni avea sacri al Signore:
e - a Dio, - comincia, - agli angeli, a Maria,
confesso, e ai Santi, e a te, la colpa mia.
La colpa mia, la colpa mia confesso. E narr la piet, l'ignudo seno
della fanciulla, il guardo mal represso,
e de' tenui pensier l'acre veleno.
- Figliuol mio, - dice il prete al genuflesso, i' pregher, perch non venga meno
a noi l'esempio tuo. Pntiti; ed io

t'assolvo: in ciel cos t'assolva Iddio. Pi di lunghi consigli o di rampogna


gli and diritta al cor quella parola.
Tra 'l timore e il rimorso e la vergogna,
del non esser pi reo pur si consola.
Tale colui che fiero danno sogna,
che col sonno il terror parte s'invola.
E tal, dopo il fervor della tempesta,
il mareggiar del lungo fiotto resta
(pieno ancor del periglio, il navigante
guarda ora al mare, or alla frale barca):
tal egli col pensier per tutte quante
del non percorso error le vie rivarca.
Di pastor, fatto lupo; osceno amante.
di padre pio; la torba anima crca
di gelosie, terror', corrucci e scorni;
le notti in pianto, in ignominia i giorni.
Rabbrivida pensando. In questa, intese
che del palagio un servo giovanetto,
del far gentile e del dolor d'Agnese
preso era, e la chiedea con molto affetto.
Di pena un misto e di piacer comprese,
a quell'annunzio, di Zanobi il petto:
fe' venir la fanciulla; e, pi turbato,
ma con pi dolce accento dell'usato,
- Agnese, - incominci, - l'ultima volta
che al mio cospetto a lamentar venisti,
confesso, Agnese, i' t'ho non bene accolta;
di che trafitta, dolorando uscisti.
Non creder gi che molto affetto e molta
de' casi tuoi piet non mi contristi.
Questo dirti volea, figlia e sorella:
poi debbo anche annunziarti una novella.
Un tuo compagno, il giovane Leone,
par che ti voglia bene, e sua ti chiede.
Pensa, figliuola: e se il cor ti dispone
ver lui (buono e' mi par), dgli tua fede.
Del dubbiar tuo ben veggo la cagione:
prole crear del tuo servaggio erede
non ti d 'l core. Or t'assicura: Iddio
a ci porr rimedio, e il tempo, e io. Agnese a lui: - Non so s'io dica o taccia:
ma forse che Leon conosca alcuna
delle bont che voi m'usate, e faccia
vista d'amarmi per mutar fortuna. D'affettuosa, a questo dir, la faccia
del vescovo si fa severa e bruna.
E - credi tu che la piet, - riprese, ch'io del tuo duol mostrai, gli sia palese? - Non so: gli un mio pensier. - Candidamente
disse (e giungea le man') la giovanetta.
- M'accerter ben io della sua mente, dice Zanobi; e la rimanda in fretta.
Men di vergogna che d'orgoglio ei sente
al cuore insopportabile una stretta.
Passeggiava a gran passi: - E che? sarei
favola gi, - diceva, - a' servi miei? Ma fu breve il bollore: e un pi gentile
pensier nella sedata anima scese.
Ritto e fermo dicea con fronte umle:

- Lo sa Dio, non foss'altri, e sllo Agnese;


che di me forse ride, e a lei par vile
e stolto affetto quel che a me cortese.
Semplice pare agli atti: ma chi mai
donna conosce? e tu di lor che sai?
Non cercar, sventurato, a quarant'anni
miseria ignota e irrisa e infame e rea.
Pensa a quel tempo che non d'altri affanni
che degli altrui piet ti possedea.
Salvami, o Madre, da crudeli inganni,
Tu, del sicuro amor serena idea:
sgombra co' rai dell'immortal tuo giorno
la sozza nebbia che mi fuma intorno. E, quasi molla che, pigiata, scatti,
da quel breve pregar s'alza mutato;
e in alti affetti e varii e in virili atti
versa ed afforza l'animo turbato.
A Leon parla, e con acuti e ratti
accenti tenta del suo cor lo stato;
e sente (come quei che i veri apprese
segni, in breve, d'amor) ch'egli ama Agnese.
Degl'indugi temente, a s richiama,
di rivederlo lieta, la fanciulla:
- Vidi Leone, e ti so dir ch'e' t'ama:
il cuor per esso che ti dice? - Nulla. - Giovane pur. - Fin troppo: e in folle brama
di clamorose gioie e' si trastulla. - Altri fors'ami. - No. - Migliore sposo
speri? - Pensare all'avvenir non oso. - Ma se dal mio dominio ir ti lasciassi
libera s del capo e s del cuore? Agnese verso lui si fe' due passi,
lieta, con atto che parea d'amore.
Poscia, richiusa in s, cogli occhi bassi:
- Che farei sola e povera, o signore?
E chi guardare, e chi nutrir vorria
l'orfana inferma giovanezza mia?
Umil, n in tutto a voi spregiata, ancella
star, finch'altro di me voglia Iddio. Ed ei: - cos non pu durare. - Ed ella:
- Perch durar non puote, o signor mio? Quei la sogguarda fiso, e non favella;
ella il rimira in atto incerto e pio;
s'intenerisce, e teme, e non intende,
lui che, fra il dubbio ed il timor, s'accende.
Ed or fuggire con terror vorria,
or accostarsi e prenderla per mano,
aprirle il cor ferito, e l'agonia
sfogar del lungo desiderio insano.
Lev 'l guardo, e all'immagin di Maria
l'affisse; e allor su un seggio pi lontano
s'assise brancolando, e, a terra gli occhi,
e le convulse man strette a' ginocchi:
- Agnese, a tal siam noi, che non possiamo
vivere ormai sotto un medesmo tetto.
Serva vederti non poss'io, che t'amo,
t'amo di forte ed inconcesso affetto:
n tenerti potrei, siccom'io bramo,
senza tirar su noi giusto sospetto;
n, che d'infame accusa il crco resti

sulla memoria mia, tu sosterresti.


Questo non dovre'io farti palese;
ma nol posso celar. - Tacque, e riscosso
quasi d'alto pensier, poscia riprese,
lente abbassando ambe le man: - non posso. Duolo, piet, pudor, facean d'Agnese
il volto ad ora ad or pallido e rosso.
Nuovo quel dire e strano a lei parea;
pure il cor mormorava: i' lo sapea.
Ei seguit: - se l'r ch'ho per te dato,
i' non ricatto, farei dir la gente.
Meglio facciam le viste che al mercato
ti comperi a danaro un tuo parente.
Quanto bisogni al tuo libero stato,
io vedr di fornir compiutamente.
E tu, da me lontana, in qual vorrai
solingo luogo, in pace i d vivrai. E la fanciulla allor: - di vostra mano
la libert, signor, certo m' cara.
Pur temo forte che, di qui lontano,
la vita non mi sia tetra ed amara.
Ma spero (e prego non sperare invano)
ch'io non sar del vostro stato ignara. - Oh no! - sclama egli. - A Dio chieggo perdono
di mia promessa. Uomo, e non Angel, sono. Giunse in breve un de' suoi, che in d di fiera
la riscatt con l'r che gli fu dato.
Agnese venne quella stessa sera
(s Zanobi volea) prender commiato.
La non parlava, s turbata ell'era:
e' la guardava come trasognato.
Una povera croce a un nastro appese,
e gliela cinse al collo, e: - questo, Agnese,
questo ti sia memoria, - le dicea, del mio dolore. - Ed ella: - o padre mio! E la man gli baciava, e soggiungea
infra i singhiozzi, - vi consoli Iddio!
Egli e voi mi perdoni: io son la rea
che tolsi pace a un cuor s buono e pio. - Tu la rea? - esclamav'egli. E le tremanti
labbra beean le lagrime stillanti.
- Dimmi almen che per me Dio pregherai
tutti i d. - Tutti i d, con tutto il cuore. - Che ne' bisogni a me ricorrerai,
come a fratello? - Oh mio benefattore! - Che, se uno sposo Iddio ti manda... - Oh, mai.
Non resta in questo cor luogo ad amore. - L'Angel tuo ti protegga: Iddio ti dia
ogni suo bene, Agnese,... Agnese mia. Sola nel mondo, Agnese poco visse,
e di febbre e di tedio si consunse.
Venn'egli a lei gi 'n fine, e benedisse,
e del sant'olio i labbri e i pi freddi unse.
Lungo al cammin di lui spazio prescrisse
Iddio: m'alfin l'ora beata giunse.
La notte innanzi ch'e' morisse, intese
fioca una voce che parea d'Agnese.
31.LA CONTESSA MATILDE
Il pianto delle squille vespertine
per li romani colli si spandea.

Scesa dal suo destrier, fra le ruine


belle, d'un tempio sacro a Citerea,
Matilde, in ferro chiusa il petto e il crine,
presso Gregorio tacita sedea.
E 'l Papa incominci: - Dimmi, Contessa,
la storia de' tuoi primi anni, promessa. - S tosto come giunse la novella,
di Lorena venir Fredo il mio sposo,
molti signor' di terre e di castella
dal Po superbo all'Appennin selvoso,
a me ligi, raccolgo, acci che bella
facesser l'accoglienza e il d festoso:
e incontro gli muoviam: d'oro i destrieri,
d'oro l'arme lucean de' cavalieri.
Piene le gote avea, la voce esile,
mal sicuro l'andar, grave l'aspetto:
dalle incomposte membra una gentile
aura spirava di velato affetto,
che ad ora ad ora si facea simile
a cupo orgoglio ed a senil sospetto.
Qual tra persone vive incerta idea,
tal fra gli Itali miei Fredo parea.
E miste di latino e di tedesco
strane blandizie andava mormorando.
Ma poi che alfin dall'imbandito desco
gli ebri baroni si venian levando,
dall'ampie sale vergognando i' esco,
e alla Vergine in cor mi raccomando,
madre del bello amor, che le sien grate
le primizie di mia verginitate.
E per mio cenno inginocchioni anch'esso
preg, da me dettata, una preghiera,
che in buono augurio Iddio, con altre appresso,
passar ci faccia quella prima sera.
Indi, ogni cinto dislacciato, emesso
giuso ogni velo, a lui mi lascio intera.
E d'una cosa sol mi vergognai,
confesso a te: non gli piacere assai. La interruppe gemendo a questo passo
Papa Gregorio, e con affetto austero,
- Matilde, - mormor, - parla pi basso,
e chiudi a tai memorie il tuo pensiero.
Il peso della carne grave sasso
che tira al fondo l'intelletto altero:
e una parola all'anima tranquilla
d'incendi lunghissimi scintilla. Qui, rimettendo della voce alquanto,
rispondea con rossor la pia Contessa: di quella notte, e poi dell'altre, o santo
Padre, a te voglio in tutto esser confessa.
Tu mi dirai quant'io rea fossi, e quanto
misera; e in te conoscer me stessa.
Che del par nuovo parmi al piacer vero
e alla virt verace il mio pensiero. - Sulle dolcezze invan desiderate,
- diss'ei, - la mente tua corta leggiera,
come leggiere pon le sue pedate
per lubrico terren cacciata fiera. E di madre e di sposa a s vietate
narr le gioie allor la donna altera;

come scoperse il ver, come all'amore


la fantasia s'apr, si chiuse il cuore.
- Ira ed orgoglio a un tratto in me consunse
l'acre deso, de' sensi miei tiranno.
Dissi: la tua follia, Duca, presunse
alle grandezze nostre fare inganno.
I corpi che natura non congiunse,
sotto ad un tetto ad abitar non hanno.
Sia perdonanza alle codarde offese,
ma tu ritorna ratto al tuo paese. Egli, pien di vergogna e di paura,
se ne torn di cheto alle sue case.
Sola, n moglie n vergine pura,
co' suoi desir Matelda si rimase.
N le memorie della sua sventura
giammai le fr dall'anima s rase
che, in pensar del passato, ella ancor possa
far che non senta un brivido per l'ossa.
- Ma con l'ardenza del desir pugnava
di delusa l'orgoglio e di contessa;
e il tempo e la preghiera avvalorava
l'alma dai giovanili impeti oppressa.
Poi nelle cure del regnar gettava
me, quasi in mischia ardente, e, in quella pressa
d'acri speranze e di non miei timori,
poco il blandir sentii de' molli amori.
Garzon' leggiadri e nobili guerrieri,
desiderosi della mia bellezza,
con gran diletto entrr ne' miei pensieri,
e di talun di loro ebbi vaghezza:
ma quai dimessi, e quai soverchio alteri,
in chi acerba la vita, ed in chi mzza:
tal altro avea valor, senno, possanza,
ma del Tedesco mio rendea sembianza.
Le rimembranze mie fatte terrori
mi facean pure a giogo d'uom nemica.
Sempre fra me dicea: duchi e signori,
di chiaro nome e di progenie antica,
ho miei vassalli; e papi e imperatori
posso, avversa, attristar, far lieti amica.
Che potra darmi un uom? pu far mia sorte
ontosa, s'egli vil, serva, se forte.
Anima in me romita, esercitai
le faticose gioie dell'impero:
o or indicer battaglia, or chiesa amai,
or castello fondare, or monastero.
Sui toschi monti e sui roman' fermai
pien di guerra e di pace il mio pensiero:
tenni d'Ancona i campi e di Guastalla,
e dove l'Arno e dove il Po s'avvalla.
N mai dal chiuso petto si parto
il sospiro dell'anima solinga;
e per la notte lamentava a Dio,
quale su' tetti passera raminga.
Ma (... come stral che di gran foga usco,
ch'assai lontan forz' che il volo spinga)
non si fermava nelle cose vili,
pieno lo sguardo mio d'alte e gentili. - Figlia, - Gregorio domandava, - e ora
i tuoi desiri ti dann'eglin pace? -

A cui Matilde: - Ancora, o padre, ancora


l'acuto grido del mio cor non tace. Ed ei: - Soffri, infelice, e ti rincora;
ch quel che scalda te, molti disface.
Ogni calice, donna, ha il suo veleno;
e ciascun porta una battaglia in seno.
Scuoter convien da noi gli affetti imbelli,
s come l'arbor dalle vive frondi
scuote la pioggia, che far pi belli
di nuovo verde i rami e pi fecondi.
Nascemmo, o donna, di Ges fratelli,
a pi sublimi affetti e pi profondi.
Divelto fiore in un d si muor tutto:
io vo' rimanga, e vo' ch'alleghi in frutto. Tacean cogli occhi a terra: ed ecco un tetro
lume di faci uscir loro alle spalle,
e sonar mesti canti, ed un fertro
scendere lento vr la bruna valle.
S'alz Gregorio, e non fe' motto, e dietro
a quello and per il solingo calle.
Sul palafren sal Matilde armata,
e scintille mettea l'ugna ferrata.
32.FIORI DELL'ORTO DI GETSEMANI
Quanti, non pur Getsemani,
tutta la terra, ha fiori,
stillan de' tuoi sudori,
e del tuo sangue vivono;
adoran, Cristo, a te.
Ma il mondo vile in ebrie
danze que' fior' calpesta,
e de' fratei la testa;
li svelle, e appende, adultera
ghirlanda, a mime e a re.
33.AL REDENTORE
Il sanguigno sudor che l'agonia
dalla tua fronte espresse, e l'acqua e il sangue,
a cui la lancia apr la via dal petto
morto, la terra ne bevea le stille:
e nel gran giro delle vive cose
le rinfondea, negli elementi primi
sciolte, or aura or liquore; e le volgea
d'una in un'altra et, di clima in clima.
L'aria spirata dal tuo petto sacro,
e che suon le tue sante parole,
mosse i bianchi capei del vecchio stanco
e i fior' delle virgine ghirlande;
e la recr di poggio in poggio i venti,
fecerla in nube, e la stillro in pioggia;
e l'attraeano in s gli umani petti
non conscii di spirar l'aura d'un Dio.
Di luna un raggio, l'alito fugace
d'mile fior di s le cose imprime;
par morto, e vive in esse: or come alcuna
orma, Ges di tua terrena vita,
come potea smarrirsi alito alcuno?
Non da solo l'altar zampilla il sangue
rinnovellato all'immortal parola:
questo tutti bevete; sangue mio,
il sangue dell'Amor nuovo ed eterno;
ma in quanti ha mai la terra atomi, in quanta

aria la cinge, il lievito del sangue


liberatore e il tuo respiro io sento.
Come le dita della mano, e come
fiori, bellezza d'una stessa rama,
Signor, con questa terra in cui nascesti
son le immense per l'alto ultime stelle.
Come nel tempio tuo gl'incensi e i canti,
il sangue tuo da questo uml pianeta
ascende ai mondi che per te son fatti,
tutti di s li benedice e sacra.
Come i Beati, e i lagrimanti in questa
valle, fan tutta una citt de' Santi;
cos dal sangue tuo, che noi rinfranca,
spira l'amor che i Serafini inda.
34.IL SABATO SANTO
Qual, da viaggi dolorosi affranto,
uom li ripensa allor che siede in porto,
e sente un gran terror nel suo conforto,
ch non sapea d'aver patito tanto;
tal, mentre i suoni delle chiese e il canto,
Signor mio, mi vi annunziano risorto,
penso, Ges, come voi foste morto,
quanto soffriste; e mi commuovo al pianto;
veggo ne' rai dello splendor divino
le piaghe che vi fe' la colpa mia,
e con lieto spavento a lor m'inchino;
e a lei che madre ci donaste, io dico:
insegnateci amar, dolce Maria,
questo dolce, tremendo, unico amico.
35.LA REDENZIONE
Come continuo scendi
nell'immutato pane,
liberator non visto;
cos trasmuti e rendi
le coscienze umane
ostie di vita, o Cristo.
Ma, come rio che appena
stilla di roccia in roccia,
tale del seno aperto
l'inessiccata vena
irrora a goccia a goccia
quest'arido deserto.
Convien si rinnovelli
spesso il mistero, e muora
l'Agnel per man degli empi
che al nuovo ver fan guerra.
E allor da' santi avelli
balzar la vita, allora
squarciarsi il vel de' Tempi
senti e tremar la terra.
36.ALLA VERGINE
Madre dell'unico
conforto mio,
ch non pens'io,
con la dolcezza
ch'io pur dovra,
la tua bellezza?
Amor degli Angeli,
fior delle cose,
perch continuo

al tuo materno
amore eterno
non raccomando
la madre mia?
A te pensando,
l'anima, piena
di noie irose,
si rasserena.
La tua mestizia
un gioir santo;
un dolce pianto
la tua letizia.
Com'onda schietta
di sasso in sasso
scende sonando;
vien la tua grazia,
o benedetta,
ad ogni passo
pe' lunghi secoli
moltiplicando.
E, liberati
per te dall'odio,
ch' lor tiranno,
tutti vivranno
un giorno i popoli
innamorati
di tua divina
malinconia,
umil regina,
dolce Maria.
37.I SANTI
L'inno leviamo a Dio. Di Santo in Santo
salga il pensier, come di cima in cima,
lieto volando, e si riposi in Lui.
Qual di mille splendor' conserta luce,
qual di mille ghirlande aura diffusa,
son le virt de' Santi. Or chi m'aiuta
nell'anima raccr tanta bellezza?
Vieni, invocata, e le celesti altezze
rischiari il tuo candor, dolce Maria.
Ogni color di bene ha posto Iddio
nel tuo candor. Le bianche ali e vermiglie
muovono in quella luce alme leggiadre.
"Salvete, o fior de' martiri, che, al primo
aprir del d, regale ira disperse
come turbine fa rose nascenti".
Cara la voce di Ges che disse:
"lasciate i pargoletti a me venire".
E belli i vostri passi e benedette
le frondi vostre, o Calasanzio, o Neri,
e quanta in molte etadi, in molte genti
nell'amor di Ges prole vi nacque.
Sacra cura i fanciulli. E come allora
che per l'ombre de' boschi e della notte
trafugavi, Giuseppe, in vr l'Egitto
con la Vergine cara il Figlio Iddio,
trepidando di tema e di pietate
e d'umil gioia e di speranza mesta,
e pregavi il Signor che te facesse
degno custode al venerato pegno;

cos siam noi, Giuseppe: e in ogni voce


di bambinello udiam Ges, che chiede
e promette piet. Con noi pregate,
donne che foste madri, e sante or siete,
che sui figliuoli, o periglianti o morti
o ingrati a Dio, spargeste e preci e pianto:
pe' nostri figli orate. Italia al vostro,
o pie, materno amor si raccomanda.
In mezzo a noi scendete, e a' cari nostri
istillate nel cor sante parole;
e il ciel sia con la terra una famiglia.
O tempi primi! Oh giovent del mondo,
quando fra terra e ciel vena pi lieve,
pi rilucente un velo, e le foreste
vergini ancor nell'alito di Dio;
piena d'arcane vision la notte,
piene di sacri mormorii le fonti,
e il dolor di fatidiche speranze.
E` sublime il dolor nella speranza.
Come il Battista della madre in seno,
tale esultava a' Patriarchi in cuore
la viva f de' secoli venturi.
Forti gioie, Signor, gioie pensose
spira ne' figli tuoi. Risplenda in alto
l'esempio vostro a noi, Vergini Sante,
che di sangue e d'amor deste martiro.
N ferro o fiamma che divelse ed arse
gli occhi possenti e il dolce viso e il seno,
n di calunnia attossicati dardi,
n di lusinga insidie allettatrici
sciolser l'affetto che a Ges v'una;
e, amate membra del suo corpo divo,
a lui tornaste. Il freddo mondo ingrato,
che macchiate e dimentiche v'avra,
v'adora il mondo e v'erge altari e templi,
e a citt molte e a genti il nome vostro
festa e tutela. E mentre a voi ripensa
dell'artigian la poveretta moglie
e prega a' vostri altar' pi bei sembianti
e pi puri vest la pargoletta
ch'or le fiorisce il talamo pudico.
Ma non tutte, o Signor (consiglio arcano),
fr l'elette del cielo abitatrici
inesperte di colpa. E come in alto
nuvola ascende e dall'opaco grembo
acque distilla che dan vita ai fiori;
cos da' falli e dal pentir de' Santi
alle languenti usciva anime umane
refrigerio e conforto. A voi che il mondo
pun di gioie amare e ambiti affanni;
e combatteste, e non servil paura
ma vergogna gentil vi volse a Dio;
e pregando vinceste; alme felici,
piet di noi: che confessiamo a Dio,
alla Vergine madre, agli ascendenti
angelici candori, e, Santi, a voi
grande la colpa nostra. E tu che tanto
di concetti, Agostino, e di desii
cammin coll'infiammata alma corresti,
prega dal ciel con noi. Quanti il costume

di studi ornaste, onde la f splendea


come profondo ciel fitto di stelle;
pregate: e a quanti la parola amante
(come dal verde di romita cima
ampio fiume) abbond pura e sonante,
che ad alto ver giungeste alta bellezza.
Non nemico di gentil bellezza,
Cristo, il tuo vero. E qual per l'aere immenso
di gracile uccellin vola la voce;
tal varca i cieli, e in armonia temprato
sale al Signor, Cecilia, il tuo sospiro.
Alla dolce aura de' tuoi detti santi
corser, Ges, le donne; e i tuoi misteri
tu gli versasti in cor, quasi possente
liquore in sottil vetro. Oh benedetto
Padre e Signor del ciel, che queste cose
a' parvoli riveli, ai dotti ascondi!
Da che scuola, o Profeti, aveste il canto
ch'alto su tutti i secoli si stende
siccome il cielo? Di Neron la corte
forse t'apprese, o pescator mendico,
quella parola in cui rivisse il mondo?
Oh campi, oh poggi, oh schiette acque correnti,
in voi ci parla Iddio. Da voi, maestre,
Spiridion tra le odorate valli
di Cipro sua pastor, sent la mente
alle divine cose illuminarsi.
A un popol di romiti entrava in cuore
la vostra ebbrezza; ed esult ripiena
la solitudin pia d'angeli e d'inni.
E nel deserto in pria spiegar vi piacque
ampie le vostre tende, o Patriarchi
d'Italia mia, che di Ges la sposa
d'mil coraggio e libere fatiche,
Benedetto e Francesco, incoronaste.
Giorni men tetri alla gemente sposa
orate: e voi che la esaltaste arditi
col testimonio della morte sacra,
martiri, orate. Ascenderanno in gloria,
e salirem con essi; e l men grande
il re sar del servo: e ad uno ad uno
conoscerem que' forti a cui fu bello
donar senz'ira per la patria il sangue,
puri d'orgoglio il cuor. Crescon feraci
in ogni terra del martr le palme,
e in ogni et. Nepomucno, il sai,
che all'importuno re sdegnasti i sacri
tradir segreti del femmineo petto:
Ambrogio il sa, che l'omicida Augusto
discacci dalla Chiesa, e qui, dicea,
mare, l'insano fiotto infrangerai.
Quante, o Signor, dolcezze a' tuoi diletti
vennero, e quanti, dacch 'l mondo nacque,
sorser da cuore umano atti d'amore,
sapremo in te. Di ciascun fiore ogni aura,
e di ciascun ruscel godremo ogni onda,
i rai distinti di ciascuna stella.
Credo al consorzio de' tuoi Santi, o Dio;
sento lo spirto lor correrci intorno
com'aria viva, e palpitarci in cuore:

ch ne' fior' nostri il sangue loro e il pianto.


Ma voi pur, che ne' secoli venturi
con amor lungo educherete, o Giusti,
l'arbore sacra de' gentili affetti,
ringrazio e invoco. L'avvenir ci giovi:
e alcuna a noi ne venga aura, siccome
a' naviganti vien, di terre ignote
nunzio, uccel pellegrino o fior nuotante.
Il prego udite, al senso nostro ignoti
Angeli santi, Potest sovrane,
-vite d'amor, che l'universo empiete,
come la luce il cielo. Al vostro echeggi
l'inno terreno; e a questo uml pianeta
guardate pii; ch in questo uml pianeta
discese Gabriel, pianse Maria.
38.AL MARE
Ne' tuoi profondi, o mar, la vita ardente
del sol si versa, quasi fiume in fiume:
galleggia in sulla lieta onda tacente
lieve la luna, quasi argentee spume.
E rifiorisce in te, mesto_ridente
delle sottili nuvolette il lume:
e la remota stella in te scintilla,
qual di rugiada al sol tremula stilla.
Voce di Dio sull'acque. Il tuono echeggia
di nube in nube, il ciel lampeggia e l'onda.
Volvesi il fiotto audace, e rumoreggia,
come a vento autunnal selva profonda:
e, qual masso che rotola e si scheggia,
rompe superbo, e alla scogliosa sponda
manda un confuso suon d'ira e di pianto;
furor ne' baci, e gemito nel canto.
Quanto, o divino, entro alle tue convalli
popol di piante e di guizzanti accolto!
Quante memorie, e di dolor' di falli,
di speranze naufragio in te sepolto!
Ma cresceran da' gracili coralli,
col tacito lavor di secol molto,
verdi isolette, ove la gente pia
porr sue case, e altari a te, Maria.
Mille miglia lontano al monte aprico
i suoi vapori invia, messaggi fidi:
l'acque del monte al generoso amico
corron, cercando i desiati lidi.
Tu, pacier prepotente, e pio nemico,
stringi le umane genti e le dividi.
La bella Libert, che sul mar nacque,
esule quindi e nuda erra per l'acque.
39.LA LUCE
Di', sei tu forse un alito
che, del volar nell'impeto,
liete le stelle vergini
dal dolce labbro spirano?
Sei tu fragranza, in atomi
diffusa, i cieli ad empiere,
come l'odor di varia
ghirlanda in casto talamo?
Armonioso fremito,
luce, tu sei, che rapido
per l'universo pnetri

in rivi, in onde, in vortici.


Non era il mar: fervevano
l'acque in tempesta, in turbine:
il sol non era; e libera
ella vincea le tenebre.
Le cose al sol rispondono,
come toccata ctera
sveglia l'interno tremito
sotto la man che l'eccita.
Ch tutte i proprii numeri,
tutte la luce propria
(eco de' monti e specchio)
in s le cose ascondono.
Come la foglia tenera
a lieve vento palpita,
le sfere immense al trnsito
dell'armonia scintillano.
E plettro i cieli altissimi
son l'uno all'altro, e ctere
che gli splendor' si rendono
come echeggiato cantico.
Questi, che l'occhio assordano,
lieti del sole incendii,
sono un sommesso gemito,
un ruscelletto torbido,
a quel di fiamme oceano
ch' refrigerio all'anime,
sul qual soavi volano
le melodie degli Angeli.
40.I COLORI
Minuta gocciola d'acqua finissima
nutre invisibili abitatori:
cos nel candido raggio s'annidano,
famiglia unanime, tutti i colori.
Alto dal tenue seme si spiegano
in fiore, in tremula foglia le piante;
vaghi dall'unico lume rampollano
color' molteplici, selva raggiante.
Gli uccelli svegliano coll'alba il cantico;
fide col Maggio tornan le rose:
cos favellano col sole, e d'intima
luce fioriscono, tutte le cose.
La mesta tortora conosci al gemito;
conosci al calice il gaio fiore:
e; se men deboli, gli occhi ogni gocciola
potrian discernere al suo colore.
Ch, come a vergine a cui la tacita
fiamma dell'anima parla nel viso,
a ciascun atomo brilla dall'indole
nativa un proprio di rai sorriso.
Ha la sua tempera, Signore, ogni atomo,
ha vita e spiriti, atto e linguaggio.
Da un raggio innumeri mondi a te crescono;
di mondi innumeri fai tutt'un raggio.
Queste ch'esultano nell'occhio attonito,
son cifre mistiche, ardenti, ignote.
Ah quanti secoli anzi che il pargolo
discerna e cmpiti le fitte note!
Ma i tardi posteri sapranno intessere
di raggi e simboli nuove parole,

il non dicibile pensier dipingere,


scriver la splendida lingua del sole.
Deh! vieni, o Spirito, vieni ed illumina,
vieni in immagine di fiamma viva.
Al suo linguaggio praci l'anima
quei ch'agli Apostoli il labbro apriva.
41.LO SPAZIO
L'ampio sereno ove l'ardenti piume,
stelle felici, giubilando aprite,
pieno non sol di puro etra e di lume,
ma di pensanti vite.
Cos la msse, ancor tra verde e bionda,
gremta ondeggia, ed acconsente al vento;
cos di largo fiume onda con onda
si preme, e fa concento.
Per tutto spirti e idee. Non puoi ne' cieli
o nel gorgo de' bratri profondi
interstizio pensar, che in s non celi
germe e ragion di mondi.
Per questa selva di viventi amori
passa il raggio di Dio, come per vano,
e candido, e rifranto in bei colori
spira nell'occhio umano.
E quante apre in sembiante ampie distanze
al guardo e al passo de' viventi Iddio,
campo alla fatica, alle speranze,
alito al deso.
Commove ad ogni passo un mondo intero
d'intorno a s l'uom cieco, e a s par solo:
cos l'aere invisibile leggiero
sostien la penna al volo;
cos sul capo del fanciullo aggreva
una soave man colonna immensa
d'aria vibrante, ed il fanciul si leva,
e corre, e ci non pensa.
Com'uom si desta in quel che all'alba pura
rendon le nubi e i fior' dolce sorriso,
e vede i poggi e il mare, e la verdura
fresca, e un amato viso;
cos, dolce Signor, nel d supremo
che ci far di te vivi e veggenti,
la svariata unanime vedremo
famiglia d'elementi,
che a noi conduole e congioisce ignota,
fedel compagna all'esule viaggio,
e nel respiro uman si mesce, e nuota
com'atomi in un raggio.
42.I MONDI
In ciascun'onda a mille
fervon minute stille
al vivo sole e a' venti;
e in ogni stilla innumeri
con guizzo infaticabile
avvolgono i viventi.
Cos mareggia, e denso
ferve nel cielo immenso,
il popolo de' mondi.
Li movono coll'alito
gli angeli amici, e nuotano
negli spendor' profondi.

Stelle del ciel, voi liete


sotto ai lor pi cedete,
quasi gemmante arena.
Vostra virt raccogliere
puote il Signor nell'atomo
che si discerne appena.
Come vapor dispare,
se il ciel lo toglie al mare,
poi si risolve in onda,
ed armonie ne crescono
a' fiumi, e se ne inebria
la terra sitibonda;
cos, se un mondo ha fine,
nido le sue rovine
d'altri e maggior' saranno,
che ingrandiran co' secoli:
e il vol di mille secoli
a' mondi un d dell'anno.
43.ARMONIA DELLE COSE
A giovane donna
Quanto tratto di ciel, quanto, o diletta,
vincea d'acque e di terre impedimento
l'aura che reca a me della tua schietta
voce il concento?
Di che pianeta, o di che fonte arcana
move, e per quanti error' balza e si frange
il raggio ch'entro una pupilla umana
sorride o piange?
E il calor ch'esce di due alme unite
in un amplesso generoso e pio,
in quant'aria si fuse, in quante vite
corse e svano?
Quanti moti un solo moto, e quanti adduce
una sola cagion diversi effetti!
piena di preghi l'armonia, la luce
piena d'affetti.
Una materia in varii modi ordita
voi, zefiri, produsse, e voi, ruscelli:
spira da un solo amor la vostra vita,
fiori ed uccelli.
E tutto vive; e quel che morte al mondo
appare, sogno de' nostr'occhi infermi.
Un sereno, instancabile, profondo
spirto i suoi germi
sparge nel giro delle sfere ardenti,
posa nel seno delle tombe oscure.
E nulla cosa vil; tutte possenti,
tutte son pure.
Fervid'acqua di stagno in alta neve
biancheggia: umida terra fior gentile;
cenere e terra, o giovanetta, 'l breve
tuo casto aprile.
Forse quest'aura, che le smorte foglie
lieve baciando erra su me, rapo
alcun de' germi che fr gi le spoglie
del padre mio.
L'aura notturna all'esule mendico
porta i sospiri che la madre pia,
o la diletta memore, o l'amico
fido gl'invia.

Nell'aria stessa erran confusi insieme,


qual di suoni o di rai pieno concento,
e l'inno di chi spera, e di chi geme
l'umil lamento;
e il respir de' nemici e degli amanti,
e de' servi le grida e de' tiranni,
che, insieme miste, van sulle sonanti
ale degli anni,
e armonia d'ineffabile mistero
nelle lontane et diffonderanno,
e dall'odio l'amor, dal falso il vero
educheranno.
L'una nell'altra essenza si rinfonde,
e pi s'innova quanto pi si mesce;
cigno che pi si tuffa, e pi dall'onde
bianco riesce.
Entro la vita del mio stanco frale
altre s'accendon vite a cento a cento;
e ad altri spirti il mio velo mortale
forse strumento.
Morte ed Amor de' tuoi mister', Natura,
de' tuoi misteri, o Fede, apron le porte;
allevan l'alma con materna cura
Amore e Morte.
La terra e il ciel con grande amor feconda
di piccol fiore un delicato stelo:
con gran desio si specchia in picciol'onda
la terra e il cielo.
In ogn'istante un'infinita ampiezza
d'anni: ogni spazio l'universo intero.
Il buio luce, l'umiltade altezza:
tutto mistero.
44.LA TERRA E I CIELI
Ascese il Golgota,
le man trafitte stese
orando, e tutti i secoli
in un amplesso e in un pensier comprese.
Chi mi d sciogliere
l'ali da questo fondo,
e le tue vie conoscere
dagli splendor' di pi sincero mondo,
o Terra; e intendere
la spirital parola
che nel lontano spandersi
delle divise genti, unica, vola,
qual veggo florida
dal poggio la vallea,
quale in fugace immagine
veggo lucente un'immortale idea?
Ahi! fiori candidi
veggo di sangue tinti,
ed incomposti e lividi
sogni tra forme angeliche dipinti.
Ma quel che a' languidi
nostri occhi appar disgiunto
da balze e da voragini,
nelle altezze di Dio non che un punto.
Terra, che l'alito
dell'ardue tue cittati
al ciel sollevi, e il vortice

fumoso de' sofismi e de' peccati;


sei breve gocciola
all'ocen de' mondi,
che s'alzano e ricadono
entro al letto de' secoli profondi.
Fanciulla indocile,
e vecchia invereconda,
la schiatta tua pu tendere
il passo appena, ed in minaccie abbonda.
Ma ciascun'anima
mondo, in te, pi grande
che i cieli immensi, ov'agile
l'armonia di tua poca ala si spande.
Per ciascun'anima
ospite a te l'Eterno
venne, e dom gli spiriti
che versan pel turbato aere l'inferno.
A ciascun'anima,
occhio sereno e fido,
veglia un gentile spirito,
come rondine madre al dolce nido.
Tu pure un Angelo
hai di tue vie custode,
che le tue doglie tempera,
misera Terra, e de' tuoi merti gode.
Ogni famiglia
di stelle in ciel crescenti
Iddio commise a un Angelo,
e ministre gli di beate Menti,
che cura prendano
di ciascheduna stella,
a ignoto fin la scorgano,
di mondi ignoti unanime sorella.
Quanto pi d'etere,
alto cerchiando, piglia,
quanto in pensier moltiplica
ed in amor la splendida famiglia;
tanto gli Arcangeli,
l'innumerabil coro
lieti guidando, ascendono
l'eterne altezze, e Dio gioisce in loro.
45.GLI SPIRITI
Quante han corolle i fior' di quante stille
asperge l'Ocen l'ale de' venti,
quante han gli astri vivifiche faville,
quanti l'aure sospir', l'acque concenti,
quante nutre invisibili scintille
il fervor delle elettriche correnti;
tanti, d'amore e di pensier' raggianti,
ha la terra custodi Angeli Santi.
Ma, come il sol ch'alle assetate ciglia
tutto si versa, e tutto in ciel risplende;
ferma cos la spirital famiglia
contempla in alto, e insiem quaggi discende.
N cos madre pia cura si piglia
del figliuolin che a lei le braccia tende,
com'arde sempre in quel beato coro
amor di noi, che non sappiam di loro.
Un angelo, qual madre, ad ogni fonte
il latte instilla de' serbati umori;

l'alga nel mare educa, il pin sul monte,


nell'orticel della fanciulla i fiori:
raggia il pudor sulla virginea fronte,
e al cor, battuto da' tremendi amori,
parole di piet miti bisbiglia,
e, quasi supplicando, lo consiglia.
Se di mare o di ciel riso o tempesta,
se arditi accenti, affettuose note,
se allegra fantasia, memoria mesta
subitamente l'anima percuote;
se del ben far la volutt modesta,
o di colpa spavento, ci riscuote;
gli occhi leviam dicendo: odi, cor mio
questi che passa, un angelo di Dio.
46.LE ALTEZZE
Questa pianta del ciel che nutre i mondi,
come frutti dall'albero pendenti,
lascia, nel muover dell'eteree frondi,
altre ampiezze ammirar di firmamenti:
sovra quelle altri cieli ancor pi fondi,
dalle cui cime, in ruota immensa ardenti,
veggonsi i soli gi, come nascosa
lucciola in siepe bruna, o ape in rosa.
__Quella che vien coll'etere
rotato in giro immenso,
luce di stella, e penetra
fino in quest'aer denso,
come candor d'incenso
che fuma, e in piccole onde
colla terrena nebbia si confonde;
forse nell'alta origine
elettrica scintilla,
divenne in suo viaggio
calore, e luce or brilla;
poi la terrena argilla,
magnetico vigore,
ecciter con palpito d'amore.
Chiaror di luna e fulmine,
incendio e calamita,
per l'universo in ordine
di numeri sortita,
la trascorrente vita
spingendo regge, e dissolvendo crea.
Amor, gli arcani tremiti
di cielo in ciel commuta.
Forse da Urano e Sirio
questa in te venuta
forza, che il frale aiuta
tuo corpo al tuo pensiero
farsi ministro, e congioir nel vero.
Quanti, o Ges, pi tenui
nutriva e pi possenti
atomi il mondo, accorsero
dagli astri ubbidienti,
e fecersi elementi
delle tue membra sante,
di nostra umanit divino amante.
Quanta da lunghi secoli
vita d'amor fioria,
come stillato spirito

nel grembo di Maria


s'accolse in armonia
di movimenti e rai,
quale in terra non fu n sar mai;
e la infondea la Vergine
Madre nel tuo bel velo:
e tu, crescendo, agli uomini
ne rifondevi e ai cielo;
siccome, dallo stelo
vivente, il fior rifonde
di quel che toglie al suolo, all'aria, all'onde.
Pria che tua carne fossero
i pani, e sangue il vino,
degli aliti vivifici
del corpo tuo divino
(qual raggio mattutino
la terra e il ciel ricrea)
sacra Natura e santa si facea.
Di tue pupille il raggio,
l'aura de' tuoi respiri,
l'umor delle tue lagrime,
il sangue de' martri,
com'onda in ampii giri,
in ogni cosa viva
si spandea per la terra, e al ciel saliva.
E il sangue tuo gli spiriti
e i corpi ancor pentra;
si leva, incenso mistico,
negli splendor' dell'etra.
Come toccata cetra
che l'armonia diffonde,
tutta la terra a tutto il ciel risponde.
Un fil di verde, un battito
di fibra, un vol d'insetto,
invian del mondo ai termini
commisurato effetto.
Misuri il cenno, il detto
dell'uom, tu giusto e pio,
gli di valor nell'universo, o Dio
Mondi le arene, e polvere
innanzi a Dio le stelle.
Tutte del Verbo altissimo
favella, e in Dio sorelle,
gioite, o cose belle.
Sacra, da' tuoi profondi,
Natura, esulta; e dite un inno, o mondi.

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