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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed.

 Rossini, Città di Castello, 2000)
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Capitolo 1

LE TEORIE CRIMINOLOGICHE 

Nel   corso   del   tempo   si   sono   evidenziati   diversi   approcci   allo   studio   del   crimine   che   hanno 
ipotizzato le origini del comportamento criminale localizzate nella psiche dell’individuo, nel suo 
patrimonio genetico, nell’ambiente sociale, nelle psicopatologie o ancora nelle diverse modalità di 
attribuzione  di significato  alla  realtà  o nella capacità  di adattamento  alle norme. Talune  scuole 
criminologiche si sono attestate su posizioni critiche ponendo in discussione il rapporto stesso tra 
individuo e un sistema normativo che è culturalmente e socialmente determinato e come tale non 
necessariamente   accettabile   da   tutti.   Evidentemente   la   scelta   teorica   del   criminologo   risulta 
fortemente   influenzata   dal   suo   stesso   rapporto   ideologico   con   il   sistema   sociale.   Posizioni 
consensuali e integrate degli studiosi saranno maggiormente legate ad una visione del crimine in 
termini   di   disfunzionalità   ed   anomalia   (ricercata   in   aree   psicologiche,   psicopatologiche   e 
sociologiche). Posizioni maggiormente conflittuali invece orienteranno probabilmente lo studioso 
su valutazioni attinenti ai rapporti di potere tra gruppi sociali, ricercando la spiegazione del crimine 
nelle dinamiche di reazione sociale, di etichettamento, di esclusione, di stigmatizzazione. In questa 
breve raccolta di contenuti criminologici cerchiamo di proporre al lettore gli spunti maggiormente 
significativi dei vari approcci ancora vivi nella Criminologia contemporanea ognuno dei quali offre 
alcune possibili “cause” della fenomenologia criminale. In realtà sovente le teorizzazioni mostrano 
semplificazioni ed esasperazioni concettuali che non corrispondono alla realtà. Il concetto stesso di 
causa, applicato al comportamento umano, necessita di estrema cautela proprio in ragione degli 
infiniti   fattori   che   influenzano   l’agire   dell’uomo,   posti   su   piani   genetici,   biologici,   psicologici, 
sociali e talvolta fortuiti, mediati ed organizzati, tra l’altro, dalla variabile primaria indotta dalla 
razionalità e dalla libertà di scelta. La ricerca di una causa specifica dovrà quindi essere intesa come 
maggiore o minore peso di una variabile all’interno di una dinamica complessa o meglio ancora 
come un fattore di possibile ingerenza. Un ulteriore elemento di complessificazione è dovuto poi 
alla   grande   diversità   che   intercorre   spesso   tra   i   vari   crimini.   Taluni   comportamenti   criminali 
sembrano infatti essere maggiormente influenzati dalle variabili biologiche e psicologiche (es. i 
crimini violenti) mentre altri appaiono maggiormente correlati a dinamiche sociali. 

LE FUNZIONI DELLA CRIMINOLOGIA 

L’oggetto   della   moderna   Criminologia   appare   assai   diversificato   in   ragione   della   grande 
complessità del comportamento umano (e quindi di quello criminale). Gli elementi che assumono 
rilevanza criminologica sono infatti: 

 i fatti delittuosi 
 gli autori del delitto 
 la reazione sociale 
 la vittima 
 la devianza (le manifestazioni non conformi ma non criminose) 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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La Criminologia opera in stretta connessione con le altre Scienze criminali che sono: 

1. il Diritto penale (l’articolazione della produzione normativa penale); 

2. la Politica criminale (che studia i modi per prevenire e combattere i fenomeni criminali); 

3. la Penologia (lo studio della pena nelle sue applicazioni concrete); 

4. il Diritto penitenziario (che progetta la fase esecutiva del procedimento giudiziario penale); 

5. la Psicologia giudiziaria (che studia l’uomo come attore del procedimento penale es. interazioni 
in fase processuale tra le parti); 

6. la Psicologia giuridica (una branca della psicologia applicata al diritto); 

7. la Criminalistica (lo studio delle tecniche dell’investigazione criminale). 

La Criminologia utilizza numerosi quadri teorici e metodologici delle Scienze umane. E’ infatti una 
Scienza multidisciplinare che non possiede un proprio metodo di ricerca ma che tende ad integrare 
tra loro le conoscenze confluenti da molteplici discipline, tra cui: la Sociologia, la Psicologia, la 
Medicina, il Diritto e l’Antropologia. Comunque non è semplicemente il frutto della costruzione di 
un sapere integrato ma ha una sua autonomia scientifica prendendo in esame alcune dinamiche non 
considerate dalle altre Scienze. I suoi paradigmi attuali sono il risultato di un lento processo di 
costruzione che ha visto il lavoro di molti studiosi nel corso della storia. Il suo bagaglio teorico e 
metodologico   è   quindi   cumulativo   essendo   le   sue   teorie   costruite   sovente   in   derivazione   l’una 
dall’altra   nell’ambito   di   una   paziente   opera   di   correzione,   modifica   e   conferma   delle 
concettualizzazioni  precedenti.  Come  ogni altra  Scienza,  la  Criminologia  ha quindi  esigenza   di 
sistematicità e di controllabilità delle sue ricerche per garantire dignità scientifica al suo operare. 

LE FUNZIONI DELLA CRIMINOLOGIA: 

Gli studi criminologici trovano applicazione in numerosi ambiti, alcuni maggiormente accademici e 
finalizzati allo sviluppo delle conoscenze, altri maggiormente operativi, direttamente utilizzabili in 
campo   sociale   ed   istituzionale.   Le   ricerche   prodotte   dai   criminologi   possono   avere   le   seguenti 
motivazioni: 

1. Ricerche accademiche non direttamente finalizzate; 

2. Ricerche accademiche finalizzate ad orientare la politica criminale (es. studio delle correlazioni 
tra aggressività ed alcool); 

3. Ricerche accademiche finalizzate alla più efficace prevenzione del crimine (es. studio dei gruppi 
di tifosi per prevenire la violenza negli stadi); 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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4.   Ricerche   e   consulenze   finalizzate   alla   più   efficace   repressione   del   crimine   (es.   studio   del 
comportamento dei serial killer per cercare di individuare il colpevole di una serie di omicidi); 

5. Criminologia clinica (o applicata) in fase processuale e di applicazione della pena. 

LA CRIMINOLOGIA CLINICA O APPLICATA 

La funzione primaria della Criminologia clinica o applicata è quella di integrare ed interfacciare le 
Scienze   criminali   con   le   Scienze   dell’uomo.   La   sua   utilizzazione   pratica   è   quindi   soprattutto 
nell’ambito   della   giustizia   penale   dove   fornisce   informazioni   sulle   dinamiche   psicologiche   e 
sociologiche   che   sono   alla   base   del   comportamento   criminale   orientando   così   l’opera   di 
applicazione della norma da parte del giudice. Il termine “clinica” è mutuato dalla Scienza medica e 
si   riferisce   all’insieme   degli   interventi   del   criminologo   che   tendono   a   riconoscere   “curare”   e 
prevenire i comportamenti illegali nel singolo individuo. L’applicazione della Criminologia clinica 
si estrinseca quindi nelle seguenti situazioni: 

nella fase processuale: durante la quale fornisce informazioni sulla personalità dell’imputato così 
che il giudice possa disporre di tali elementi conoscitivi (componenti soggettive del singolo caso) 
per la migliore individualizzazione della sanzione; 

al   momento   dell’esecuzione:   attraverso   l’osservazione   scientifica   del   condannato   che   viene 


utilizzata   dalla  magistratura  di  sorveglianza  per  l’individualizzazione  delle   modalità  secondo   le 
quali   la   pena   dovrà   essere   eseguita   (es.   affidamento   servizio   sociale,   semilibertà   eccetera). 
L’osservazione prende in considerazione le caratteristiche personologiche, situazionali, microsociali 
e di pericolosità del soggetto. Attraverso l’osservazione scientifica della personalità in prospettiva 
criminologica è possibile acquisire informazioni su: 

∙ criminogenesi (caratteristiche individuali e sociali che hanno avuto peso nella scelta delittuosa); 

∙ criminodinamica (meccanismi interiori che hanno condotto al delitto); 

∙ predizione (prospettive future di recidiva o di risocializzazione efficace). 

durante la detenzione: per indirizzare tecniche di trattamento risocializzativo. 

L’osservazione criminologica prende quindi in considerazione i tratti di personalità del soggetto, le 
caratteristiche dell’ambiente sociale dove il soggetto è inserito e il significato che psiche e ambiente 
hanno   avuto   nei   confronti   del   comportamento   delittuoso   del   singolo   soggetto   osservato. 
Abitualmente si articola in una fase diagnostica e in una fase prognostica. La fase diagnostica viene 
eseguita solitamente mediante i seguenti strumenti: 

∙ colloquio criminologico; 

∙ reattivi mentali (di efficienza intellettiva e di personalità); 

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∙ inchiesta sociale (condotta dall’assistente sociale) sull’abituale ambiente di vita del soggetto; 

∙   esame   comportamentale   fatto   dall’educatore   (atteggiamento   nei   confronti   della   disciplina 


carceraria); 

∙ dati documentali (curriculum criminoso, sentenza di condanna, precedenti sentenze). 

La fase prognostica o predittiva rappresenta un momento di grande responsabilità etica e morale per 
il criminologo poiché può generare due tipi di errore di valutazione: il falso positivo (quando si 
valuta il soggetto potenzialmente pericoloso ed invece non lo è) e il falso negativo (quando si valuta 
il soggetto non pericoloso ed invece esso si mostra recidivante). La valutazione prognostica del 
criminologo si basa normalmente sui seguenti fattori: 

∙ risultati dell’osservazione; 

∙ parametri: (famiglia di origine disastrata, carriera criminosa, tossicodipendenza eccetera); 

∙ ricerche criminologiche pregresse; 

∙ sistemi predittivi statistici. 

Per una predizione equilibrata emerge nell’esperienza clinica la necessità di un giudizio integrato 
che   si   basi   quindi   sia   su   parametri   statistici   che   sulle   caratteristiche   individuali   emerse 
dall’osservazione. 

DIFFERENZA TRA DEVIANZA E CRIMINALITA’ 

Il crimine è un comportamento che viola una norma penale. Il concetto di crimine utilizzato in 
questa sede intende quindi il delitto come fatto sociale (espresso dalla normativa) e non come un 
fatto   naturale.   Per   questo   è   necessario   osservare   la   storicizzazione   delle   norme   e 
conseguenzialmente del crimine. Esiste così evidentemente uno stretto legame tra Criminologia e 
Diritto   penale   (il   diritto   penale   sviluppandosi   produce   nuovi   crimini).   Il   concetto   di   devianza 
utilizzato   in   questa   sede   è   invece   relativo   ad   una   generica   deviazione   dalla   norma   sociale 
(comunemente   condivisa)   e   quindi   apparentemente   fuori   dal   campo   di   azione   criminologico. 
L’interesse criminologico in realtà non è solo quello delle leggi per il parziale sovrapporsi spesso di 
devianza e criminalità. La criminologia si interessa allo studio della devianza perché essa comunque 
costituisce un aspetto importante per molti crimini e talvolta il terreno da cui nascono i crimini. 
Comunque   non   esiste   una   correlazione   lineare   tra   devianza   e   criminalità   ed   un   soggetto   può 
incappare anche in una sola delle due condizioni. Tre possibili situazioni: deviante e non criminale 
(es.  bere  molto); deviante e criminale (es. bere molto e reagire  con violenza);  criminale e non 
deviante (evadere il fisco, accettare raccomandazioni, eccetera). 

I PARADIGMI INIZIALI 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Le   origini   Le   leggi,   scritte   o   tramandate   oralmente,   sono   sempre   esistite   anche   prima   del 
diciottesimo secolo, periodo in cui, secondo gli studiosi, nasce il sistema penale moderno e con esso 
la Scienza Criminologica. Fino ad allora il potere assoluto del sovrano di infliggere le punizioni, 
indipendentemente dal crimine commesso, aveva caratterizzato sovente l’applicazione delle norme 
e largo spazio era affidato alla tortura ed alla pena di morte[1]. Certamente, anche nell’ambito di 
civiltà antiche e medioevali è documentata l’esistenza di protocodici e di strutture di applicazione 
delle pene anche sofisticate in alcuni intervalli temporali (es. il diritto romano), ma la discontinuità, 
la barbaria e l’arbitrio di tale applicazione non consentono di riconoscere una condizione di civiltà 
del diritto, prima della metà del settecento, nei termini in cui essa viene intesa attualmente. La pena 
veniva infatti soprattutto intesa come sistema di mantenimento del potere e dei privilegi dei nobili, 
di frantumazione del dissenso e talvolta come capriccio e, in generale, si assisteva ad un’assoluta 
mancanza di coerenza delle punizioni oltre che, naturalmente, alla loro inaudita violenza.[2] 

L’Illuminismo  e la Scuola Classica Dalla seconda metà del settecento si sviluppa in Europa la 
Scuola   Classica,   ad   opera   soprattutto   di   Cesare   Beccaria   (1738­1794)   e   dell’inglese   Jeremy 
Bentham   (1748­1832).   Le   idee   filosofiche   dell’illuminismo   ispirano   energicamente   il   lavoro   di 
questi   studiosi.   Per   Beccaria,   ispiratore   della   Scuola   Classica   italiana,   il   diritto   dello   Stato   di 
applicare una sanzione al cittadino deve così rientrare nell’ambito di un contratto sociale, stipulato 
tra i vari componenti di una società che rinunciano coscientemente ad una parte della loro libertà 
per ottenere una convivenza civile ed il più possibile armoniosa.[3] Lo stato, in caso di violazione di 
una norma, può solo applicare la pena prevista ma non può ingerire nella personalità del soggetto 
che ha commesso il crimine. L’uomo che delinque è infatti ritenuto, secondo la filosofia illuminista, 
un soggetto razionale, libero ed in grado di scegliere in autonomia decisionale tra il comportamento 
deviante e quello conforme alle leggi. In tale contesto ideologico le norme devono essere chiare e 
uguali per tutti e le pene devono essere utili alle esigenze della società (alla deterrenza in special 
modo), umanitarie (la tortura e la pena di morte sono bandite), e legali (criteri prefissati e scritti in 
codici penali ufficiali). La punizione inflitta ai soggetti che si sono resi responsabili di un crimine 
deve in pratica seguire dei criteri retributivi in base al danno sociale provocato alla maggior parte 
dei   cittadini   e   non   a   quello   arrecato   ai   potenti.   Viene   sempre   affermato   il   libero   arbitrio   del 
criminale e l’azione illegale diventa una libera scelta del soggetto­criminale a cui è riconosciuta una 
razionalità specifica. Il delinquente, in quest’ottica non è diverso dal non delinquente e deve essere 
giudicato   in   base  a  ciò  che  commette  e  non in  base  a  ciò   che  è.  Tali  concettualizzazioni,   pur 
rimanendo   per   certi   versi   in   condizione   di   astrattismo   e   di   difficile   applicazione,   contengono 
elementi di grande attualità e mostrano ancor oggi vitalità all’interno del dibattito critico sul danno 
sociale e sul reale obiettivo di tutela da parte dei moderni codici penali. La Scuola Classica trova in 
Italia diversi seguaci tra cui Carrara, Romagnosi, Carmignani.[4] Il Carrara afferma che il crimine 
non   è   un   fatto   naturale   ma   si   configura   come   ente   giuridico   e  come   tale   storicizzato   e   legato 
all’esistenza di una specifica norma. Il comportamento criminale è rappresentato da una libera e 
razionale scelta dell’uomo che non rispetta il patto sociale e tale scelta assume significato  solo 
nell’ambito di una definizione giuridica. La dottrina di fondo di Carrara si basa sul famoso sistema 
tariffario[5]  e sulla volontà di evitare il pur minimo abuso da parte dell’autorità anche attraverso 
una codificazione certosina del diritto. 

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Il positivismo e il determinismo biologico di Lombroso. 

La fine del  1800 vede un crescente successo di un approccio allo studio del crimine di radice 
prevalentemente  bioantropologica.  Tale  approccio  ruota  intorno alla figura di Cesare Lombroso 
(1835­1909)[6] che è considerato il più rappresentativo esponente della Scuola Positiva. Le radici 
epistemologiche lombrosiane affondano nell’opera di Charles Darwin sull’origine evoluzionistica 
delle specie e sui criteri dei fisiognomici e dei frenologi, studiosi del comportamento umano che già 
dall’inizio del 1700 tentavano di riscontrare ricorrenze tra comportamento umano e tratti somatici e 
costituzionali   degli   individui   (particolarmente   attivi   in   Inghilterra   e   Francia).   Alla   base   del 
comportamento  criminale  vengono   poste   alcune  anomalie,   identificabili   anche   somaticamente   e 
anatomicamente[7],   di   tipo   innato.   Il   delinquente,   discendente   dalla   particolare   specie   umana 
dell’homo delinquens[8] è così distinguibile dal non­delinquente. La ricerca di peculiarità ataviche 
nel  criminale,  per certi  versi pseudoscientifica,  ha dato voce al senso comune che osserva con 
timore  il diverso e che cerca rassicuranti segni predittivi di comportamenti anomali,  facilmente 
localizzabili e da cui ci si può così difendere. Pur con le innumerevoli critiche che gli sono state 
rivolte e con l’invalidazione della maggior parte delle sue teorie, Lombroso mantiene l’indiscusso 
pregio di aver donato dignità scientifica alla Criminologia, facendola conoscere come Scienza in 
tutto il mondo e stimolando una grande quantità di studi sul comportamento dei criminali. La sua 
opera letteraria più importante è “L’uomo delinquente”, corposo trattato di cinque volumi che ha 
visto numerose edizioni e rielaborazioni da parte dell’autore[9]. Altri due fondamentali esponenti 
dell’Antropologia criminale sono Enrico Ferri (1856­1929) e Raffaele Garofalo (1852­1934) che 
pur negando  l’importanza  del libero arbitrio  nella spiegazione del comportamento  criminale  (in 
linea con Lombroso e con il positivismo), e focalizzando l’attenzione clinica sulle caratteristiche 
innate dell’individuo, attribuiscono una certa importanza ai fattori ambientali e situazionali. In altri 
termini,   la   Scuola   positiva   ritiene   il   crimine   come   la   risultanza   di   predisposizioni   innate   nel 
soggetto­criminale  favorite  da fattori  insiti nella  società.  La rassicurante  illusione  di spiegare   e 
addirittura   prevedere   il   comportamento   criminale   in   base   alla   localizzazione   di   segni   esterni 
(somatici,   biologici,   psicologici,   la   possibilità   di   distinzione   certa   tra   il   bene   e   il   male,   la 
riconoscibilità del “cattivo”, hanno contribuito alla fortuna dell’Antropologia criminale per lungo 
tempo   come   evidenziato   dal   contributo   teorico   multifattoriale   del   Ferri[10]  particolarmente 
apprezzato, in special modo in Usa e in URSS e centrato sulla responsabilità sociale dell’individuo, 
categoria,   quest’ultima,   in   contrapposizione   evidente   con   quella   della   responsabilità   legale 
retribuzionistica   della   Scuola   classica.   Per   il   Ferri   assume   rilevanza   non   tanto   la   gravità   del 
comportamento quanto la pericolosità del soggetto rispetto all’organizzazione sociale vigente e tale 
concezione, evidentemente acritica, introduce un prezioso elemento di arbitrio da parte dell’autorità 
costituita che può convertirla in produzioni giuridiche­normative aggirando faticose legittimazioni 
etiche e politiche. 

L’approccio sociologico allo studio della criminalità Il filone di studio sociologico, nella storia del 
pensiero   criminologico,   è   contemporaneo   a   quello   positivistico.   Alla   base   del   suo   paradigma 
epistemologico   e   metodologico   si   pone   la   ricerca   delle   costanti   poste   su   un   livello   di 
generalizzazione   più   elevato   rispetto   a   quello   individuale   (psicologico,   psichiatrico,   biologico) 
analizzando le dinamiche sociali correlate al crimine. L’inizio di tale approccio è rintracciabile nella 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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prima metà dell’800 in Francia (A.M. Guerry) e in Belgio (A. Quetelet) che svolsero approfonditi 
studi   dei   tassi   di   criminalità,   comparando   diverse   forme   criminali   con   variabili   sociali   e 
geografiche[11].   Tali   ricerche,   che   si   basano   sulla   consultazione   di   archivi   e   dati   ufficiali, 
sfociavano nella realizzazione di “carte della criminalità” da cui deriva la definizione di Scuola 
cartografica.   Marx   e   Engels,   in   linea   con   il   loro   approccio   filosofico   e   politico,   evidenziano 
correlazioni tra fluttuazioni economiche e tassi di criminalità e spostano l’osservazione dai fattori 
individuali a quelli economici e sociali. La spiegazione dei crimine si basa sul presupposto che gli 
interessi più tutelati dal diritto sono quelli della classe dominante. Marx evidenzia un’immagine 
negativa del sottoproletariato forse per differenziarlo dal proletariato, classe in ascesa. Per il Emile 
Durkheim, sociologo francese (1858 1817), il crimine è un fatto sociale e risiede pertanto fuori dalla 
coscienza   degli   individui   appartenendo   alla   dimensione   sociale.   Con   il   processo   di 
industrializzazione e di trasferimento di grandi quantità di persone dalle aree di campagna alle aree 
urbane   (tipico   fenomeno   del   tempo)   gli   individui   passano   da   un  sistema   culturale   basato   sulla 
solidarietà   meccanica   (rurale,   collettiva,   redistributiva,   tradizionalista)   ad   uno   basato   sulla 
solidarietà   organica   (urbana,   industriale,   razionale,   individualista).   Tale   passaggio   conduce 
all'anomia  (mancanza   o   incertezza   di  norme,   inadeguatezza   delle   norme).   Gli   individui   in   fase 
anomica si trovano al centro tra spinte sociali e culturali contrastanti e in tali circostanze il crimine 
viene   favorito.   Per   Durkheim   il   crimine   assolve   anche   ad   alcune   funzioni   sociali:   sottolineare 
pubblicamente   (attraverso   la   punizione),   il   confine   tra   il   lecito   e   l’illecito,   definire   il   confine 
normativo   e   vederlo   attivo,   funzioni   di   coesione   sociale   ed   integrazione   tra   i   non   criminali. 
L’approccio sociologico allo studio del crimine giunge fino al periodo contemporaneo attraverso 
l’opera di numerosi studiosi in USA ed in Europa. 

L’approccio genetico 

Le correlazioni tra predisposizione genetica e criminalità appaiono alquanto difficili anche se hanno 
rappresentato oggetto di interminabili dispute scientifiche, alcune ancora attuali. In primo luogo il 
comportamento criminale è legato alla produzione di una norma che è frutto di convinzioni sociali 
mutabili. Ciò che era illegale un tempo non necessariamente lo è attualmente. I codici genetici, 
viceversa rappresentano un elemento biologico immodificabile. Numerosi studi condotti su gemelli 
omozigoti e sulle famiglie dei criminali hanno fornito correlazioni apparenti tra consanguineità e 
crimine, fortemente inficiate però sul piano empirico dall’ovvia esposizione di persone della stessa 
famiglia ai medesimi modelli sociali. Il crimine in realtà rappresenta un comportamento troppo 
complesso   per   essere   determinato   ereditariamente.   La   storia   della   criminologia   ha   poi   visto   la 
produzione di teorie circa la presenza di segni identificativi biologici nei criminali. Sheldon (1942), 
ad esempio, notando una correlazione tra alcuni giovani criminali e una determinata struttura fisica 
(mesomorfica)   ha   ipotizzato   che   tale   conformazione   potesse   essere   legata   ai   comportamenti 
criminali. Altri studi hanno proposto una correlazione tra anomalie cromosomiche e delitto, notando 
una certa prevalenza del cromosoma soprannumerario Y in alcuni campioni di detenuti. In linea di 
massima le ipotesi legate all’identificabilità del delinquente su base biologica non hanno retto alle 
falsificazioni essendo sovente la “dura vita del criminale” a selezionare individui particolarmente 
adatti a sopravvivere in situazioni violente. Talune ricerche genetiche applicate alla criminologia si 
sono comunque mostrate più verosimili orientandosi non direttamente sul crimine ma su eventuali 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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qualità   psichiche   e   biologiche,   trasmesse   ereditariamente,   in   grado   di   influenzare   in   maniera 


indiretta il comportamento delinquenziale (es. il carattere, l’aggressività, la scarsa tolleranza alle 
frustrazioni eccetera). 

­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­

[1]  Cuomo F. (a cura di), Pietro Verri (1770), Osservazioni sulla tortura, Newton editore, Roma, 
1994 

[2]  La tortura e la pena di morte rappresentavano elementi di assoluta normalità, applicate con 
sistemi barbari come il rogo, lo squartamento, la “ruota” e l’impalamento. Tra le punizioni corporali 
erano contemplate azioni raccapriccianti come la bruciatura della lingua, la mutilazione degli arti e 
l’accecamento. 

[3] Fabietti R., (a cura di), Cesare Beccaria, Dei Delitti e delle pene, (pubblicato nel 1764), Mursia 
edizioni, Milano, 1973. 

[4]  Carrara F., Programma del corso di diritto criminale, parte generale Vol. 1, Lucca, Canovetti, 
1860; Carmignani G., Elementi del diritto criminale, Napoli, Androsio, 1854; Romagnosi G.D., 
Genesi del diritto penale, Firenze, Stamperia Piatti, 1834. 

[5]  Inserimento minuzioso nei codici di ogni possibile reato e contemporanea determinazione di 
pene in base alla gravità di tale reato. 

[6] Medico Psichiatra, definì l’ambito di studio da lui inventato Antropologia criminale e tentò di 
trasferire   in   ambito   criminologico   il   metodo   e   le   basi   epistemologiche   della   Scienza   medica, 
affrontando la questione criminale dal punto di vista prevalentemente clinico. 

[7]  Nel  1872,  durante  l’esame   autoptico   di  Giuseppe  Villella,   brigante  calabrese  di  70  anni,   il 
medico   legale   del   carcere,   studioso   amico   di   Lombroso,   evidenziando   una   fossetta   all’interno 
dell’osso occipitale, identifica al suo interno una formazione ghiandolare “animale” rilevabile nei 
crani di pazzi e criminali, che non aveva mai in precedenza trovato negli individui normali. Tale 
considerazione induce Lombroso a formulare l’ipotesi di una distinzione anatomica specifica dei 
delinquenti. 

[8]  Le caratteristiche fisiche dell’homo delinquens potevano essere, per il Lombroso, facilmente 
identificate: fronte bassa, anomalie della simmetria del viso, forma e dimensioni delle orecchie, gli 
zigomi sporgenti, la scarsa sensibilità neurologica al dolore eccetera. Lo studioso, pur colpevole di 
un’ingenuità scientifica che lo condusse a scegliere un campione sicuramente non rappresentativo 
(all’interno delle carceri), svolse un’indagine degna di nota per quanto riguarda la minuziosità e 
l’impegno. Per la realizzazione della sua più famosa opera letteraria, L’uomo delinquente (1876) 
Lombroso   raccoglie   infatti   innumerevoli   casi   clinici   misurando   e   descrivendo   con   pazienza   e 
puntigliosità   aspetti   somatici   e   comportamentali   legati   ai   soggetti   che   riesce   ad   osservare   ed 
analizzare. 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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[9] Rispetto alla prima edizione dell’opera, dove l’autore afferma che circa il 70% dei criminali è 
riconducibile   alla   categoria   del   delinquente   congenito,   nelle   successive   rielaborazioni   tale 
percentuale   scende   al   35%   lasciando   spazio   alle   categorie   del   delinquente   folle   (di   interesse 
psichiatrico) e del delinquente occasionale evidenziando una lodevole disponibilità da parte dello 
studioso a correggere pubblicamente le sue risultanze scientifiche. 

[10] Si ritiene che abbia contribuito all’introduzione dei fattori sociali nella spiegazione del crimine, 
in concomitanza a quelli bioantropologici e psicologici, la nota vicinanza dell’autore all’ideologia 
socialista. 

[11] Ad esempio la differenza dei tassi di criminalità tra città e campagna. 

ALCUNI CONTRIBUTI TEORICI SOCIOLOGICI 

Teoria dell’anomia di Durkheim 

Per il sociologo francese (1858 ­ 1817), il crimine è un fatto sociale la cui spiegazione appartiene 
alla dimensione sociale e risiede pertanto fuori dalla coscienza degli individui. Con il processo di 
industrializzazione e di trasferimento di grandi quantità di persone dalle aree di campagna alle aree 
urbane   (tipico   fenomeno   del   tempo)   gli   individui   passano   da   un  sistema   culturale   basato   sulla 
solidarietà   meccanica   (rurale,   collettiva,   redistributiva,   tradizionalista)   ad   uno   basato   sulla 
solidarietà organica (urbana, industriale, razionale, individualista). Tale passaggio conduce sovente 
all’anomia   (mancanza  o incertezza  di norme,  inadeguatezza  delle  norme). Gli  individui  in   fase 
anomica si trovano al centro tra spinte sociali e culturali contrastanti e in tali circostanze il crimine 
viene   favorito.   Tale   teoria   presenta   ancora   spunti   attuali   essendo   il   passaggio   dalla   solidarietà 
organica a quella meccanica presente in alcune aree geografiche. 

La teoria della disorganizzazione sociale 

Thomas e Znaniecki, sociologi polacchi inseriti nella Scuola di Chicago, hanno studiato i fenomeni 
socio­culturali   connessi   all’immigrazione   dei   contadini   polacchi   in   USA.   Nei   loro   studi   è 
abbastanza   evidente   l’influsso   di   Durkheim   (anomia).   La   teoria   della   disorganizzazione   sociale 
ritiene l’impatto con una nuova realtà socio­culturale (legata all’immigrazione) come responsabile 
di un disorientamento culturale e disomogeneità culturale. Il rapporto non armonioso tra culture 
diverse che si incontrano e producono disagi e tensioni disorientanti può essere quindi responsabile 
di fenomeni criminali, in special modo quando una delle due culture è associata a minore forza 
economica.   La   teoria   offre   comunque   numerosi   spunti   di   riflessione   sul   fenomeno 
dell’immigrazione in Europa da parte di popolazioni con culture notevolmente diverse e condizioni 
economiche disagiate. 

La teoria della patologia sociale 

Talcot Parson, teorico americano dello Strutturalismo considera la società come un insieme di parti 
integrate, in equilibrio. La socializzazione è legata al processo di apprendimento di ruoli. Il ruolo 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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viene inteso come una serie di prescrizioni (e di aspettative di comportamento) connesse a posizioni 
sociali (padre, madre, impiegato ecc.). La società viene quindi considerata da Parson come insieme 
un di ruoli e alcune istituzioni sono deputate al loro apprendimento e metabolizzazione. La devianza 
viene quindi intesa come una sorta di patologia sociale dovuta ad un difetto di apprendimento dei 
ruoli. La devianza può essere talvolta anche considerata per Parson come patologia individuale, 
quando è dovuta a patologie mentali. La visione di Parson è stata criticata come sostanzialmente 
conservatrice   e   manca   in   effetti   di   un’efficace   analisi   dei   conflitti   e   delle   contraddizioni. 
L’approccio centrato sui ruoli e sulle aspettative di ruolo può ancora però offrire interessanti spunti 
di riflessione è induce ad un’osservazione attenta della strutturazione sociale. 

La teoria dell’anomia di Merton 

Merton,   funzionalista,   analizza   il   comportamento   di   soggetti   che   si   trovano   in   posizioni 


differenziate rispetto ad una pressione culturale indifferenziata. Il processo di adattamento a tali 
pressioni (anomiche, contradditorie), determina o meno la devianza. Alla radice del crimine sarebbe 
quindi discrepanza tra mete culturali accettate e mezzi per raggiungerle che porterebbe nel soggetto 
una   condizione   di   anomia.   Il   concetto   di   anomia   mertoniano   è   quindi   diverso   da   quello   di 
Durkheim. Il soggetto che subisce la pressione culturale in direzione del raggiungimento delle mete 
(il successo, il denaro eccetera), in difetto di mezzi per raggiungerle può assumere per Merton i 
seguenti comportamenti: conformismo (utilizzo di mezzi leciti senza quindi raggiungere le mete), 
l’innovazione   (uso   di   mezzi   illegali,   devianza),   Il   ritualismo   (concentrarsi   e   seguire 
ritualisticamente i mezzi senza curarsi degli obiettivi), la rinunzia ( cercando ad esempio la strada 
nella droga o nell’alcool), la ribellione (condanna ideologica alle mete ed ai mezzi). 

La teoria del numero oscuro 

Sutherland, negli anni 1940­47­49, formula una teoria sulla dimensione nascosta della criminalità. 
La maggior parte delle ricerche criminologiche dell’epoca includevano infatti solo i campioni di 
classi   basse   trascurando   i   colletti   bianchi.   L’attenzione   degli   studiosi   e   dell’opinione   pubblica 
americana nel dopoguerra è infatti focalizzata sul solo street crime. La teoria del numero oscuro e 
dell’indice   di   occultamento   (rapporto   tra   reati   noti   e   reati   commessi)   evidenzia   che   il   crimine 
coinvolge   non   solo   una   minoranza   deviante   ma   una   maggioranza   normale   e   questo   necessita 
l’adozione di nuovi paradigmi di studio. Le azioni illegali che vengono inserite nelle statistiche 
sono solo quelle che vengono scoperte e denunciate ma forniscono una quantificazione artefatta. In 
special modo i crimini commessi da persone di classe sociale elevata (white collar crime) spesso 
non   giungono   all’attenzione   della   giustizia   e   dell’opinione   pubblica.   La   rilevanza   del   numero 
oscuro dipende anche dalla maggiore o minore propensione alla denuncia da parte della vittima 
oltre che dalla maggiore o minore intensità del controllo rispetto a determinate categorie di crimini 
o di autori. 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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La teoria delle associazioni differenziali 

Per Sutherland il comportamento criminale è appreso in interazione con altre persone mediante un 
processo   di   comunicazione,   che   può   essere   sia   verbale   che   non   verbale.   Il   processo   di 
apprendimento   del   crimine   avviene   apprende   soprattutto   all'interno   di   un   gruppo   ristretto   di 
relazioni interpersonali. I mezzi di comunicazione impersonale (cinema e giornali) sembrano a tal 
fine meno efficaci. Nel processo di apprendimento sono incluse le tecniche idonee alla commissione 
di un crimine e l’orientamento degli atteggiamenti del soggetto. Il soggetto in seguito orienterà 
impulsi e atteggiamenti in base alle interpretazioni (apprese) favorevoli o sfavorevoli dei codici 
legali. Secondo Sutherland, in pratica, un soggetto diviene criminale quando all’interno del gruppo 
dove vive le definizioni favorevoli alla violazione della legge sono in eccesso rispetto a quelle 
sfavorevoli.   Una persona quindi diventa  un criminale  non solo a causa di contatti  con modelli 
criminali,   ma   anche   a   causa   di   un   isolamento   dai   modelli   “anticriminali.   L’efficacia   delle 
associazioni differenziali nel determinare il crimine dipende dalla loro frequenza, durata, priorità (il 
comportamento criminale sviluppato nella prima infanzia può influire nel corso di tutta la vita) ed 
intensità. 

La teoria delle subculture devianti 

Choen, nel 1955 formula la teoria delle subculture devianti come prodotto del conflitto tra classi 
alte  e  classi basse. I giovani della  classe proletaria  pur aspirando alle stesse mete culturali   dei 
giovani   della   classe  agiata  sono svantaggiati.   Si sviluppa  una  reazione   negativistica   verso   quei 
valori che non possono raggiungere con lo sviluppo di una cultura edonistica e non utilitaristica 
(spiegazione   degli   atti   vandalici   teppismo,   atteggiamenti   distruttivi).   Si   tratta   di   una   sorta   di 
formazione reattiva, non un conflitto reale verso la cultura dominante ma una sua distorsione. 

Le teorie delle aree naturali della criminalita’ 

Alcuni sociologi come Shaw, McKenzie, Burgess e Park hanno osservato la maggiore incidenza 
statistica di vari crimini in alcune aree urbane identificabili, specialmente quelle soggette a forte 
immigrazione e caratterizzate quindi da disorganizzazione sociale. In tal senso l’ambiente urbano 
assume   valenza   criminogenetica   quando   presenta   determinate   caratteristiche.   Gli   studiosi   della 
Scuola di Chicago sono stati criticati per il fatto che la criminalità è presente anche in altre aree 
urbane   ma   è   più   occulta   e   non   si   vede,   agisce   con   altre   modalità   e   con   altri   comportamenti 
criminali. 

La teoria dell’immunità differenziale 

Chapman, nel suo saggio “lo stereotipo del criminale” (1975) considera che la criminalità nota non 
è collegata all’effettiva commissione dei reati. Esiste infatti una discriminazione dei soggetti in base 
alla classe sociale, alla visibilità pubblica ecc., operata a livello sociale. Il povero godrebbe infatti di 
minore immunità ai processi selettivi della rappresentazione sociale e del controllo istituzionale 
(documentato da ricerche sull’attribuzione semantica del crimine). Tale condizione distorcerebbe le 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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statistiche   giudiziarie   mostrando   una   maggiore   tendenza   al   crimine   da   parte   delle   classi 
svantaggiate. 

La teoria dell’etichettamento 

La   teoria   dell’etichettamento   (Labelling   approach),   considera   il   crimine   come   processo   di 


etichettamento sociale. Tale processo, che può giungere come ultima fase alla riorganizzazione del 
SE’ del deviante, è dovuto ad un intervento selettivo della società sul deviante stesso. La devianza 
del soggetto si costruisce progressivamente in base all’azione della società. Lemert, ad esempio, 
suddivide due fasi: devianza primaria (fase di commissione del crimine) e devianza secondaria (fase 
di identificazione sociale). La condizione di criminale è quindi il risultato di un processo interattivo 
tra l’aspetto  psicosociale dell’azione deviante e del suo autore e l’effetto sociopsicologico della 
reazione sociale. Per Becker, il deviante è un soggetto a cui questa etichetta è stata applicata con 
successo.   Il   suo   oggetto   di   studio   privilegiato   sono   le   carriere   devianti   (arresti   e   pubblici 
etichettamenti   come   elementi   che   conducono   ad   una   nuova   identità).   A   dimostrazione 
dell’importanza del processo di etichettamento analizza le possibilità di reversibilità della carriera 
deviante. Per i teorici dell’etichettamento il crimine è frutto di un processo unidirezionale (definito 
costruzionismo   del   crimine).   In   tale   ottica   l’uomo   appare   come   “sballottato”   da   cause   esterne 
(multifattoriali) e si evidenzia una ridotta importanza della capacità di selezione ed organizzazione 
volontaria   della   mente   sul   suo   comportamento   sociale.   Il   soggetto,   secondo   i   teorici 
dell’etichettamento, entra quindi nei processi di selezione sociale solo come oggetto di selezione. 

La teoria delle tecniche di neutralizzazione 

David  Matza (1969) comincia  a prendere le distanze con la predestinazione in Criminologia,  e 


indica una progressiva valorizzazione dell’uomo come costruttore del proprio mondo e della propria 
devianza. I processi sociali del bando (arresto, esclusione) sono si importanti e danno significato 
alla devianza del soggetto. (la dimensione simbolica delle azioni) ma essere significato come ladro 
non assicura la continuazione di tale attività. Il soggetto può confrontarsi con tale significazione 
(reagendo e rinnegando la scelta o aderendo all’etichetta e riorganizzando attorno ad essa la propria 
identità). Per l’autore anche i peggiori criminali subiscono l’influenza delle norme sociali e riescono 
ad eseguire dei comportamenti criminali grazie alla loro capacità di neutralizzare la morale sociale 
ed   il   senso   di   colpa.   Tale   capacità   si   attua   attraverso   l’applicazione   di   alcune   tecniche   (di 
neutralizzazione)   nella   fase   antecedente   all’azione   criminale:   la   negazione   della   propria 
responsabilità, la minimizzazione del danno provocato, la negazione della vittima, la condanna di 
coloro che condannano, il richiamo ad ideali più alti. 

La teoria delle opportunità differenziali di Cloward e Ohlin 

La teoria risente in modo particolare dell'influenza di Sutherland. Cloward e Ohlin (1968) tentano di 
mettere insieme due correnti della prima criminologia: la teoria dell'anomia di Merton e la teoria 
delle associazioni differenziali di Sutherland. Secondo la teoria delle opportunità differenziali, ogni 
individuo   occupa   una   determinata   posizione   nella   struttura   sociale,   sia   per   quanto   riguarda   le 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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opportunità legittime sia per le opportunità illegittime. Ereditando la concezione del consenso da 
Merton, gli autori affermano che esiste un'unica meta culturale, il successo economico, che può 
essere   raggiunto   attraverso   sia   le   opportunità   legittime   che   quelle   illegittime.   Gli   individui   si 
trovano però ad agire in sistemi differenziali di opportunità che condizionano le loro scelte ed i loro 
comportamenti.   In   pratica   le   condizioni   economico­sociali   sfavorevoli   si   traducono   in   una 
limitazione  delle opportunità di affermazione  e di promozione sociale.  La diversa diffusione di 
opportunità illegittime in una determinata area urbana determina la formazione di tre tipi differenti 
di   sottoculture   rispettivamente   denominate   come   "criminale"   (giovani   dediti   a   furti   e   rapine), 
"conflittuale"   (giovani  dediti  a danneggiamenti  e  vandalismo)  e "astensionistica"  (tossicomania, 
alcolismo, associazioni in gruppi eversivi). 

La teoria dello stimolo rafforzatore differenziato di Burgess e Akers

Burgess e Akers (1966) riformulano la teoria di Sutherland introducendo come determinante lo 
stimolo rafforzatore. Il comportamento criminale è appreso secondo i principi del comportamento 
operante   e   l'apprendimento   avviene   sia   in   situazioni   non­sociali,   che   sono   rafforzanti   o 
discriminative, sia nell'interazione sociale in cui il comportamento di altre persone è rafforzatore o 
discriminativo nei confronti di quello criminale. La teoria dello stimolo rafforzatore differenziato 
afferma che una situazione non­sociale può consolidare una determinata scelta, dunque estende la 
nozione secondo la quale il crimine è appreso solo attraverso l'interazione sociale. Burgess e Akers, 
in accordo con Glaser, riconoscono l'importanza, nel processo di apprendimento anche dei gruppi di 
riferimento   distanti   (non   direttamente   in   contatto   con   il   soggetto   ma   “mediati”   da   mezzi   di 
comunicazione) oltre a quelli primari e a quelli con cui si è intimamente associati. 

La teoria dell'identificazione differenziata 

Glaser, nel 1960, riformula la teoria delle associazioni differenziali di Sutherland rifacendosi alla 
teoria dei ruoli, secondo l'esposizione di George H. Mead, che consente di tradurre l'associazione 
differenziale in termini di "identificazione differenziata". Glaser, nella sua riformulazione, afferma 
che   ai   fini   dell'apprendimento   della   delinquenza   è   importante   l'identificazione   con   modelli 
criminali, più che l'associazione con essi. Il fattore determinante per la criminogenesi è quindi il 
processo di identificazione, inteso come processo psichico mediante il quale si tende incosciamente 
a rendersi simili a certi modelli scelti come ideale del proprio Io. Nel corso di tale processo il 
soggetto assume conseguentemente come propri anche i valori normativi ed etici associati a tale 
modello  ideale introiettato. L'identificazione non richiede  un contatto interpersonale  poiché può 
realizzarsi anche verso modelli (reali o immaginari) con i quali non vi è stato un rapporto diretto. 
L'identificazione con soggetti delinquenti può verificarsi in diversi modi: a seguito di esperienze 
dirette con associazioni di delinquenti, attraverso una valutazione positiva dei ruoli delinquenziali 
rappresentati dai mass media oppure a seguito di una reazione negativa a forze che si oppongono 
alla criminalità. La teoria di Glaser permette così di spiegare le azioni criminali commesse da parte 
soggetti che sono abitualmente inseriti in gruppi sociali non criminali.

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Capitolo 2

ALCUNI CONTRIBUTI PSICOLOGICI IN CRIMINOLOGIA 

La psicoanalisi 

Fra le teorie psicologiche, la psicoanalisi può considerarsi una delle prime che si è posta l’obbiettivo 
di fornire un paradigma interpretativo del crimine legato alla struttura psicologica e ai meccanismi 
dinamici agenti nell’uomo. L’essere umano, secondo Freud, sarebbe per sua natura antisociale e si 
adeguerebbe   ai dettami  sociali  solo per timore  o per convenienza.  L’antisocialità  (e con essa  i 
comportamenti   criminali)   sarebbe   quindi   la   condizione   originaria   comune,   sempre   pronta   a 
manifestarsi in situazioni in cui le inibizioni perdono di efficacia. Quando le pulsioni libidiche o 
aggressive dell’ES riescono ad avere la meglio sulle spinte opposte verso la conformità sociale 
messe in atto dal Super­io, avvengono i comportamenti asociali e criminali da parte dell’individuo. 
In   tale   ottica   assume   un   ruolo   centrale   il   processo   di   identificazione   con   le   figure   parentali, 
fondamentale, in ottica psicodinamica, per la realizzazione di una struttura superegoica funzionale. 
la cui Secondo la prospettiva di Alexander e Staub (1929) il crimine è interpretabile secondo una 
riduzione dell’efficacia del controllo da parte del Super­Io. Secondo i due studiosi tale circostanza 
darebbe vita a varie forme di criminalità in base al livello di efficacia residuale del Super­io. Nella 
delinquenza fantasmatica, ad esempio è ancora possibile al soggetto arginare le pulsioni antisociali 
dislocandole su azioni fantastiche (es. identificandosi con un personaggio cattivo in un film). La 
delinquenza   colposa  manifestata   attraverso   una condotta   imprudente   che  provoca  disgrazie   può 
rappresentare una forma di dislocazione più complessa che provoca ugualmente il danno desiderato 
dall’ES   senza   dover   rispondere   alle   controcariche   superegoiche.   Nella   delinquenza   nevrotica   il 
crimine rappresenta viceversa un sintomo della presenza di una situazione conflittuale profonda che 
vuole essere risolta dal soggetto, come nel caso della delinquenza da senso di colpa. In tali forme di 
azione criminale, come sottolineato da Reik, il soggetto sentirebbe una profonda angoscia dovuta al 
senso   di   colpa   che   scaturisce   dai   tabù   del   parricidio   e   dell’incesto   per   cui   il   comportamento 
criminale e spesso la correlata ricerca di punizione possono evidenziare il bisogno di attenuare quel 
senso   di   colpa   attraverso   un   crimine   “questa   volta   realmente   commesso”.   La   delinquenza 
occasionale si verificherebbe in circostanze particolari (es. in caso di delitti passionali) quando si 
delineano situazioni favorevoli allo svincolo dal controllo superegoico. Nella delinquenza normale 
il   Super­io   perde   completamente   la   sua   capacità   di   controllare   le   spinte   pulsionali   e   il 
comportamento criminale può emergere con facilità. L’interpretazione psicoanalitica del crimine 
prende in considerazione anche la maturazione e l’efficacia dell’IO attribuendogli responsabilità nel 
comportamento criminale quando diminuisce la sua capacità di dilazionare le pulsioni. Anche l’ES 
può   rappresentare  un elemento  significativo  nella criminogenesi  nella misura in cui le pulsioni 
istintuali da esso prodotte risultano particolarmente virulente ed incontenibili (Ponti, 1990). 

Le teorie comportamentistiche stimolo ­ risposta 

Secondo   tali   teorie   diversi   stimoli   e   condizionamenti   ambientale,   attraverso   il   meccanismo   del 
rinforzo,   radicano   nell’individuo   quegli   elementi   direttamente   correlati   con   il   comportamento 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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antisociale e criminale. Nel 1939 Dollard, ad esempio, afferma che ogni forma di aggressione da 
parte   dell’uomo   è   legata   ad   una   precedente   frustrazione   di   un   bisogno   importante. 
Nell’impossibilità   di   raggiungere   il   successo   sociale   l’individuo   può   porre   in   essere   forme   di 
aggressività   verso   la   società   (persone,   beni   individuali   eccetera).   Il   ripetersi   delle   frustrazioni 
costituirebbe poi un rinforzo per le risposte aggressive. (Ponti, 1990). 

Le teorie sulla deprivazione relativa Lea e Young nel 1984 sviluppano il concetto di deprivazione 
relativa   attorno   al   quale  costruiscono   un  interessante  quadro  teorico.   Gli  autori   riconsiderano   i 
fattori eziologici (patologia, povertà, razza) che però non generano direttamente negli individui una 
condizione   di  deprivazione   e  quindi   non  possono  essere  associati  direttamente   al  crimine.   Tali 
circostanze possono però generare un generico malcontento dovuto a un aumento delle aspettative a 
fronte di insufficienti possibilità di raggiungimento delle mete. La situazione di malcontento può 
generare in seguito delle rappresentazioni individuali o sub culturali di deprivazione relativa ma tale 
processo è frutto della costruzione e della significazione da parte dell’individuo. La deprivazione 
relativa rappresenta quindi non una mancanza materiale ma la significazione della mancanza con 
caratteri negativi (presenza di un processo di significazione) che genera il malcontento. (De Leo, 
Patrizi, 1999) 

Le teorie personologiche I primi studi moderni sulle correlazioni tra personalità e crimine sono ad 
opera   dello   studioso   belga   Etienne   De   Greeff.   La   personalità   costituisce   per   De   Greeff,   una 
disposizione   prefissata   a   reagire   in   un   certo   modo   ad   uno   stimolo   e   deriva   dall’insieme   delle 
esperienze passate. De Greeff (1947), studiando la criminogenesi ha individuato dei tratti tipici 
della personalità criminale, fra cui merita menzione il silenzio affettivo di alcuni delinquenti che 
secondo l’autore deriva dal loro sentimento di essere stati sottoposti ad un’ingiustizia. De Greeff per 
spiegare   il   comportamento   criminale   (la   criminodinamica)   ha   introdotto   il   concetto   di   “stato 
pericoloso“ che è costituito da una fase di equilibrio psichico instabile nel soggetto che precede 
l’esecuzione di un crimine. L’autore formula anche il concetto di “passaggio all’atto” fase in cui la 
situazione   precipita   e   avviene   l’esecuzione   del   delitto.   Analizzando   la   criminodinamica   degli 
omicidi De Greeff nota ad esempio tre fasi identificabili che precedono l’ideazione del crimine. La 
prima fase, definita del “consenso mitigato”, la fase “dell’assenso formulato” e la fase del “periodo 
di crisi”. Nella fase del consenso mitigato possono emergere dei segnali che anticipano l’evento 
criminale; nella fase dell’assenso formulato, si rilevano talvolta comportamenti offensivi, di tipo 
legale,   di   tipo   verbale,   od  omissioni;   nella   fase   del   periodo   di   crisi   il   soggetto   coscientizza   la 
necessità di passare all’atto ed in entra nello stato pericoloso che condurrà al crimine. Un altro 
interessante contributo allo studio personologico dei delinquenti è stato fornito da Pinatel (1968) 
che ha individuato un nucleo centrale della personalità di taluni criminali costituito da quattro tratti 
fondamentali: l’egocentrismo (che consente di ignorare i giudizi), la labilità (che consente di non 
tener conto delle conseguenze del crimine), l’aggressività (che consente di effettuare talune azioni 
criminali e superare gli ostacoli) e l’indifferenza affettiva (che consente di ignorare le sofferenze 
della vittima)[1]. Tra i contributi più recenti riportiamo quello di Frechette e Le Blanc (1987) che 
hanno delineato una sindrome della personalità criminale, rappresentata da una specifica struttura 
psicologica, che in alcuni individui si sovrappone ad altre strutture di personalità, favorendo l’acting 
out.   La   “sindrome”   comprende   tre   tratti:   l’iperattività   delittuosa,   la   dissocialità   e   un   notevole 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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egocentrismo.   Le  Blanc  e  Frechette   affermano   che  nei   delinquenti   di  spessore   elevato  i  fattori 
sociali ed ambientali ingeriscono con il comportamento ma sempre mediati dai tratti della sindrome 
della personalità criminale. Yochelson e Samenow (1976) sostengono che i tratti di personalità del 
delinquente sono in realtà presenti in forma attenuata in tutti gli uomini. E’ la presenza intensa di 
tali tratti che determina una specifica personalità criminale. I due autori statunitensi affermano che 
la mente del delinquente possiede generalmente una grande energia, e presenta della caratteristiche 
ricorrenti:   facilità   di   eccitamento,   fantasie   di   dominio,   di   potere   e   di   trionfo,   paura   diffusa   e 
persistente,   sospettosità.   Un’altra   condizione   tipica   del   pensiero   criminale   è   costituita   per 
Yochelson   e   Samenow   dallo   “stato   zero”,   durante   il   quale   nel   soggetto   si   rilevano   una   scarsa 
autostima ed una sensazione di disperazione unite a sentimenti di superbia e ricerca spasmodica del 
potere. L’unione di questi fattori sarebbe in grado di spingere alcuni criminali verso la ricerca del 
dominio e dell’illegalità. (Bandini T., Gatti U., Marugo M. I., Verde A, 1991) 

[1]  Le ricerche di Pinatel sono state sottoposte a verifica da Canepa (1974) che ha condotto uno 
studio   su   un   campione   di   delinquenti   recidivi   mediante   colloqui   e   stumenti   psicodiagnostici 
cercando di localizzare i tipici tratti di personalità. La ricerca ha fornito poche conferme all’ipotesi 
di Pinatel. Altre indagini (Favard 1985) non sono riuscite a determinare se i tratti di personalità 
tipici rappresentano una particolare intensità di tratti diffusi in tutti gli individui e soprattutto se tali 
tratti siano la causa o semplicemente l’effetto di una vita da delinquente. 

LE TEORIE COSTRUZIONISTICHE 

Le critiche al determinismo 

Gli   approcci   criminologici   basati   sulla   ricerca   delle   cause   del   crimine   insite   nell’autore   (teorie 
biologiche, psicologiche, psichiatriche) o nell’ambiente sociale dove l’autore è “immerso”(teorie 
sociologiche)   non hanno retto, nel corso della  storia, alle  verifiche  empiriche.  La  possibilità  di 
localizzare degli elementi visibili (clinici, psicologici, sociali) nel soggetto, in grado di fornire una 
predizione del suo comportamento ha costituto (e ancora costituisce) una strada sovente percorsa 
dagli scienziati sociali alla ricerca di strumenti rassicuranti e generalizzabili. Nel gennaio del 1979, 
presso La Maison des Sciences de l’Homme, si tenne un importante convegno a cui parteciparono 
E.   Goffman,   T.  Luckmann,  J.S. Bruner,  W.  Hacker  e R.  Harré,  nel  corso del  quale   emerse  la 
convinzione della necessità di adottare l’azione come unità di analisi nelle scienze sociali e non 
l’ambiente  dove l’azione avviene o il soggetto (o gruppo) che la effettua, al fine di superare  i 
precedenti determinismi causa­effetto e per ridare giusta importanza al potere determinativo della 
Mente   nell’ambito   del   comportamento   umano.   Tale   categoria   (l’azione)   implica   il   contributo 
dell’interazionismo   simbolico,   della   Teoria   generale   dei   sistemi,   del   Cognitivismo   e   di   altre 
discipline psicologiche. (Vedasi a tal proposito il testo di Mario Von Cranach e Rom Harré “The 
analysis of action”, Cambridge University Press, 1982). Un uomo quindi non più completamente in 
balia dei condizionamenti sociali (sociologi deterministi) o di quelli inconsci (psicoanalisi) ma in 
grado   di   organizzare   una   buona   parte   della   propria   realtà   attraverso   continue   interazioni   e 
mediazioni con il reale. La previsione comportamentale, in quest’ottica, si indirizza verso la natura 
e l’intensità  di tali processi interattivi più che su caratteristiche stabili, antecedenti  all’ipotetico 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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fatto,   insite   nell’ambiente  sociale   o nella  personalità   dell’attore.   In realtà   tutti   i  comportamenti 
umani,  compreso quello criminale, sono posti su piani di maggiore complessità e contemplano, 
necessariamente (parallelamente agli stimoli orientanti (biologici, personologici, sociali) un’attività 
di costruzione circolare (agente e retroagente) da parte dell’attore sociale e del controllo sociale, 
non   leggibile   nei   soli   fattori   biologici   e   sociali   preesistenti   ma   ascrivibile   all’attività   di 
interpretazione, significazione e riorganizzazione compiuta dalla mente umana. La devianza, in altri 
termini, non è un’entità di fatto, iscritta nell’ordine naturale del mondo o rigidamente determinata 
da strutture interne del soggetto ma è il frutto di un processo di costruzione sociale mediato da 
un’attività peculiare del genere umano: il pensiero. Al delinearsi di tale approccio ha contribuito tra 
gli altri Karl Popper già agli inizi degli anni 70’ proponendo la mente umana non come una sorta di 
tabula rasa in balia delle stimolazioni interne ed esterne ma come una realtà dinamica in grado di 
produrre ipotesi che precedono, organizzano e quindi influenzano la percezione di ciò che avviene. 
La   percezione,   poi,   induce   modifiche   sul   processo   di   anticipazione   del   futuro   mediante   una 
retroazione   esperenziale.   L’osservazione   viene   così   reintegrata   nella   teoria,   che   si   modifica 
all’interno di una processualità interattiva. (De Leo G, Patrizi P., 1999) 

Il   costruzionismo   complesso   L’approccio   proposto,   che   si   riferisce   alla   cosiddetta   “Scuola   di 
Roma” (De Leo G. et altri) attinge dal contributo di vari filoni psicologici: 

L’Interazionismo simbolico (Mead 1934) che formula il concetto di “altro generalizzato” e che 
ritiene le aspettative di comportamento dell’interlocutore in grado di orientare l’interazione (agiamo 
in   base   alle   presunte   reazioni   dell’interlocutore).   Il   processo   sociale   influenza   quindi   il 
comportamento degli individui che a loro volta sviluppano il processo sociale. L’individuo tende ad 
assumere il punto di vista del gruppo sociale e i significati condivisi (schemi simbolici) relativi 
all’azione che sta per compiere, orientando il proprio comportamento. L’individuo è in grado così di 
produrre   delle   anticipazioni   mentali   degli   effetti   della   propria   azione.   Per   gli   interazionisti   il 
comportamento   è   definito   ed   orientato   da   una   complessa   rete   di   interazioni   “..che   produce 
significati intorno all’azione e al suo autore che a quell’interazione partecipa con un ruolo tutt’altro 
che   marginale..”   (De   Leo,   Patrizi   1999).   Le   tre   dimensioni   importanti   per   la   criminologia 
interazionistica sono: l’azione deviante che deve essere visibile e deve produrre effetti pubblici; 
L’esistenza   di   una   norma   che   viene   violata   in   caso   di   devianza   e   rappresenta   quindi   la 
precondizione indispensabile per la definizione della trasgressione; una reazione sociale intesa sia 
come risposta socio­istituzionale alla devianza e sia come insieme di stereotipi, atteggiamenti e 
pregiudizi che precedono l’azione e ne orientano il decorso; 

La Teoria sistemica (Onnis 1986) che inserisce l’azione (anche la devianza) nel contesto ambientale 
e situazionale in cui si manifesta e di cui necessariamente è espressione. Il comportamento negativo 
non può quindi essere interpretato senza analizzare le dinamiche del sistema di interazioni a cui 
appartiene; 

La Teoria dell’azione (Von Cranach, Harre’ 1982) che individua nella dinamica delle azioni (dirette 
ad uno scopo) tre componenti interagenti tra loro: Il comportamento osservabile che costituisce la 
dimensione manifesta dell’azione, (il suo inizio, la fine, eventuali nodi significativi, le tappe, le 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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direzioni   intraprese);   le   cognizioni   coscienti   dell’autore,   ovvero   come   il   soggetto   prepara, 


accompagna,   percepisce   e   segue   l’azione;   i   significati   sociali   che   sono   costituite   dalle 
rappresentazioni sociali diffuse (rispetto all’azione) le regole informali, le norme, valori e scopi 
dell’autore eccetera. Per la Teoria dell’azione i significati sociali controllano le cognizioni coscienti 
che   organizzano   e   orientano   il   comportamento   osservabile.   Il   comportamento   osservabile 
retroagisce sulle cognizioni coscienti. Il soggetto, in altri termini elabora ed interpreta socialmente 
le regole sociali e orienta il proprio comportamento anticipandone gli effetti (mentalmente) con una 
sorta di monitoraggio che definisce lo svolgimento dell’azione. Nel modello in esame le dinamiche 
intrapsichiche dell’individuo e le sue rappresentazioni cognitive entrano quindi in interazione con i 
significati e le regole sociali e tale dinamica complessa determina il suo agire. Correlata ad ogni 
azione è presente una fase di anticipazione mentale dei suoi effetti da parte dell’individuo (aspetto 
non sviluppato da Von Cranach ed elaborato dalla Scuola di Roma) Gli effetti dell’azione possono 
infatti avere una funzione strumentale (non sufficiente a spiegare l’azione) es. uccido per eliminare 
un soggetto per me scomodo, e una funzione espressiva che assume viceversa valenza comunicativa 
autodiretta e eterodiretta. La funzione espressiva autodiretta comporta una serie di messaggi che 
l’autore invia a se stesso e attraverso cui rielabora la propria identità (es. uccido per mostrare a me 
stesso   che   sono   in   grado   di   farlo).   La   funzione   espressiva   eterodiretta   comporta   una   serie   di 
messaggi che l’autore invia all’altro generalizzato (es. uccido per mostrare agli altri quanto sono 
deciso). Il caso del parricidio, tipico omicidio in cui il figlio uccide il padre che costituisce un 
elemento di oppressione, rappresenta ad esempio un crimine difficilmente spiegabile osservando la 
sola funzione strumentale. Sovente, in tale forma di omicidio, l’azione criminale non rappresenta 
solo   l’eliminazione   di   un   ostacolo   ma   anche   un’affermazione   di   forza.   La   funzione   espressiva 
infine, agisce su quella strumentale orientandola. (De Leo G., Patrizi P, 1999) 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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editore, Milano, 1991. 

IL DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITA’ 

Introduzione 

La categoria nosografica definita disturbo di personalità antisociale ha rappresentato, in prospettiva 
criminologica, motivo di numerose dispute scientifiche, soprattutto riguardo la sua reale capacità di 
cogliere   la   complessità   del   comportamento   criminale.   Le   categorie   diagnostiche   proposte   si 
riferiscono   infatti   a   problematiche   di   cattiva   socializzazione,   di   generico   disordine   di   vita,   di 
assenza   di   regole   ma   difficilmente   riescono   ad   esplicitare   le   dinamiche   di   passaggio   all’atto 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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criminale   anche  in  considerazione  della   dimensione  storica   della  norma.  Proponiamo   in questo 
capitolo   alcuni   contributi   teorici   che   possono   essere   utili   all’inquadramento   di   tale   tematica 
riportando   integralmente   alcune   parti   del   DSMV   utili   alla   comprensione   criminologica 
dell’argomento. 

Manifestazioni cliniche 

Il Disturbo Antisociale di Personalità è caratterizzato essenzialmente da “un quadro pervasivo di 
inosservanza e di violazione dei diritti degli altri, che si manifesta nella fanciullezza o nella prima 
adolescenza,   e   continua   nell’età   adulta”,   (DSM­IV,   1994,   pag.   704).   I   pazienti   antisociali 
normalmente tendono ad essere evitati dai clinici poiché in situazione terapeutica, possono mettere 
in   atto   comportamenti   a   rischio   (menzogne,   strumentalizzazioni)   e   possono   giungere   anche   a 
mettere   a   repentaglio   l’incolumità   fisica   del   terapeuta.   In   considerazione   di   ciò   questi   soggetti 
spesso vengono ritenuti scarsamente trattabili dal punto di vista clinico e non è raro che alcuni 
terapeuti   si   dichiarino   non   in   grado   di   gestirli.   Alcuni   autori   li   hanno   definiti   in   passato 
“psicopatici” o “sociopatici”. Hervey Cleckley (The Mask of  Sanity 1941), descrisse clinicamente 
tali   pazienti   considerandoli   non   chiaramente   psicotici   ma   aventi   un   comportamento   caotico   e 
scarsamente   in   sintonia   con   le   richieste   della   realtà   e   della   società.   Tali   aspetti   del   loro 
comportamento,   secondo   Cleckley   consentivano   di   inferire   una   psicosi   al   di   là   della   facciata. 
(Gabbard,   1994).   Il   termine   “psicopatico”   cadde   in   disuso   nei   decenni   che   seguirono   la 
pubblicazione del pioneristico lavoro di Cleckley. Il termine “sociopatico” venne usato ancora per 
un certo periodo, afferma Gabbard, “come riflesso delle origini sociali piuttosto che psicologiche di 
alcune delle difficoltà presentate da questi individui”. Rispetto a tale considerazione, Lalli (1991, p. 
219 e segg.) sembra discordare quando afferma che: “Successivamente si è cercato di dare una 
connotazione più oggettiva tenendo conto soprattutto del comportamento: nasce così il concetto di 
sociopatia”. Una gran parte della letteratura psichiatrica, soprattutto americana, tende sempre più a 
privilegiare  l’aspetto comportamentale, cioè lo psicopatico  viene identificato  con il sociopatico, 
nella   misura   in   cui   fa   soffrire   la   società.   Non   è   un   caso   che   nella   classificazione   adottata   nel 
Diagnostic   and Statistical  Manual  of Mental  Disorders  (DSM), la personalità  psicopatica   viene 
completamente eliminata ed è sostituita dalla generica dizione di disturbi della personalità. Una 
suddivisione   di   questa   comprende   la   personalità   sociopatica   a   sua   volta   divisa   in:   alcolismo, 
deviazioni sessuali, reazione antisociale, reazione dissociale. Da questa classificazione degli anni 50 
si   sono   susseguite   ulteriori   divisioni   e   sottodivisioni   che   non   hanno   comunque   contribuito 
efficacemente   alla   comprensione   del   fenomeno.   Con   l’introduzione   del   DSM­II   la   diagnosi   fu 
definitivamente   chiamata   “personalità   antisociale”,   termine   che   dura   tuttora.   La   definizione 
proposta dal DSM­II, appare abbastanza precisa anche se priva di criteri diagnostici: “Il termine va 
riservato   ad   individui   sostanzialmente   non   socializzanti   e   il   cui   comportamento   li   porta 
ripetutamente in conflitto con la società. Sono incapaci di una significativa lealtà verso individui, 
gruppi   o   valori   sociali.   Sono   grossolanamente   egoisti,   insensibili,   irresponsabili,   impulsivi   e 
incapaci   di   provare   colpa   o   di   imparare   dall’esperienza   e   dalla   punizione.   La   tolleranza   alla 
frustrazione è bassa. Tendono a biasimare gli altri o ad offrire plausibili razionalizzazioni per il loro 
comportamento” (M. Battaglia, L. Bellodi, P. Migone, 1992, p.1998). Gabbard (1994, p. 495 e 
segg.) conferma tali  valutazioni  riconoscendo che con l’introduzione  del DSM­III nel 1980, “il 

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disturbo  antisociale di personalità  è stato significativamente modificato  rispetto alla descrizione 


originale   di Cleckley”.  I nuovi criteri  del DSM­III hanno infatti  proposto maggiori  opportunità 
diagnostiche anche se hanno ridotto il punto focale del disturbo correlandolo quasi esclusivamente 
ad una popolazione criminale di basso ceto sociale e svantaggiata (Halleck, 1981; Meloy, 1988; 
Modlin, 1983). In realtà alcune ricerche mirate sulla popolazione carceraria hanno indicato  che 
soltanto il 40­50 per cento dei detenuti hanno una personalità antisociale (Guze, 1976; Hare, 1983). 
Fornari (1989, p.258 e segg.) localizza la personalità psicopatiche negli individui il cui “stile di 
vita” è caratterizzato abitualmente da risposte comportamentali abnormi agli stimoli ambientali: “si 
tratta di risposte egosintoniche, prive di sensi di colpa, resipiscenza o rimorso, emesse a spese degli 
altri  (condotte alloplastiche), in assenza assoluta di disturbi psicotici  che intacchino  le funzioni 
psichiche (tipo deliri o allucinazioni) e il rapporto con la realtà e gli altri. La personalità appare ben 
conservata e non presenta segni di destrutturazione o di deterioramento”. Bandini e coll. (1991, p. 
212), analizzano come il termine di “personalità psicopatica” sia oggetto di molte critiche, sia per la 
sua genericità, sia per una certa connotazione negativa e moralistica che spesso lo ha accompagnato 
ricordando a tal proposito che “quella di “psicopatia” è la versione moderna di termini quali “follia 
morale”, “psicodegenerazione”, ecc., un tempo largamente usati”. Secondo questi autori l’attribuire 
etichette quali “psicopatico”, “sociopatico”, “personalità abnorme”, può nascondere una rinuncia da 
parte del clinico a comprendere e definire individui il cui comportamento non è spiegabile secondo 
le linee interpretative tradizionali dell’indagine clinica . 

I criteri diagnostici del DSM­IV 

“Poiché la disonestà e la manipolazione sono caratteristiche centrali del Disturbo Antisociale di 
Personalità, può essere particolarmente utile”, suggerisce il DSM­IV (1994, pag.705), “integrare le 
informazioni acquisite dalla valutazione clinica sistematica con le informazioni raccolte da fonti 
collaterali”, quindi esterne alla valutazione clinica stessa. Premesso questo, iniziamo la disamina dei 
criteri diagnostici indicati dal Manuale (ivi, p. 705 e segg.). 

Criterio A 

“Gli individui con il Disturbo Antisociale di Personalità”, comincia il DSM­IV, “non riescono a 
conformarsi alle norme sociali secondo un comportamento legale (Criterio A1). Possono compiere 
ripetutamente atti passibili di arresto (che vengano arrestati o meno), come distruggere proprietà, 
molestare gli altri, rubare o svolgere attività illegali. Le persone con questo disturbo non rispettano i 
desideri, i diritti o i sentimenti degli altri. Sono frequentemente disonesti e manipolativi per trarre 
profitto o piacere personale (per es., per ottenere denaro, sesso, o potere) (Criterio A2). Possono 
ripetutamente mentire, usare false identità, truffare o simulare. L’impulsività può manifestarsi con 
l’incapacità di pianificare il futuro (Criterio A3). Le decisioni vengono prese sotto l’impulso del 
momento, senza previdenza, e senza considerazione delle conseguenze per sé e per gli altri; questo 
può determinare cambiamenti improvvisi di lavoro, di residenza, o di relazioni. Gli individui con 
Disturbo   Antisociale   di   Personalità   tendono   ad   essere   irritabili   ed   aggressivi,   e   possono   essere 
coinvolti   ripetutamente   in   scontri   fisici   o   commettere   aggressioni   fisiche   (incluso   picchiare   il 
coniuge o i figli) (Criterio A4). Le azioni aggressive richieste per difendere sé o gli altri non sono 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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considerate in questo item. Questi individui mostrano anche di non curarsi della sicurezza propria o 
degli altri (Criterio A5). Questo può essere evidenziato dal loro modo di guidare (ricorrenti eccessi 
di   velocità,   guidare   in   stato   di   intossicazione,   incidenti   multipli).   Possono   coinvolgersi   in 
comportamenti sessuali o in uso di sostanze con elevato rischio di conseguenze dannose. Possono 
ignorare o non curarsi di un figlio, in modo tale da mettere il bambino in pericolo. Gli individui con 
Disturbo Antisociale di Personalità tendono ad essere spesso estremamente irresponsabili (Criterio 
A6). Un comportamento lavorativo irresponsabile può essere indicato da periodi significativi di 
disoccupazione nonostante la disponibilità di opportunità di lavoro, o dall’abbandono di molti lavori 
senza un piano realistico per ottenere un altro lavoro. Può essere presente anche una situazione di 
assenze ripetute dal lavoro non giustificate da malattie proprie o dei familiari. L’irresponsabilità 
finanziaria è indicata da azioni quali inadempienza ai debiti, incapacità di provvedere al supporto 
dei figli,   o incapacità  di supportare altre figure dipendenti in modo regolare. Gli individui  con 
Disturbo Antisociale di Personalità mostrano scarso rimorso per le conseguenze delle proprie azioni 
(Criterio A7). Possono essere indifferenti, o fornire una razionalizzazione superficiale dopo avere 
fatto del male, maltrattato o derubato qualcuno [...]. Questi individui possono biasimare le vittime 
per   essere   pazzi,   senza   risorse,   o   perché   meritano   il   loro   destino;   possono   minimizzare   le 
conseguenze   dannose   delle   proprie   azioni;   o   possono   semplicemente   mostrare   completa 
indifferenza. Generalmente sono incapaci di scusarsi o di riparare al loro comportamento”. 

Criterio B 

“Per porre questa diagnosi, l’individuo deve avere almeno 18 anni (Criterio B) [...]”. 

Criterio C 

Per soddisfare questo criterio, l’individuo [...] deve avere in anamnesi alcuni sintomi del Disturbo 
della Condotta prima dell’età di 15 anni (Criterio C)”. 

Criterio D 

“Il   comportamento  antisociale”,  puntualizza  il  DSM­IV, “non deve manifestarsi  esclusivamente 


durante il decorso della Schizofrenia o di un Episodio Maniacale (Criterio D)”. 

Rispetto ai criteri diagnostici attuali Gabbard, studioso di orientamento psicodinamico (Gabbard, 
1994,   p.497   e   segg.)   ritiene   che   certe   difficoltà   interpretative   siano   ancora   presenti.   Secondo 
l’autore   infatti  “sebbene i tratti  psicopatici  siano talora  più evidenti  nel nuovo assetto, i criteri 
riflettono ancora degli aspetti comportamentali piuttosto che psicodinamici. Queste considerazioni 
psicodinamiche sono clinicamente utili perché un soggetto può essere uno psicopatico senza avere 
un disturbo antisociale di personalità secondo i criteri del DSM­IV. Al contrario, un individuo può 
rispondere   ai   criteri   del   DSM­IV   per   il   disturbo   antisociale   di   personalità   ma   non   essere   uno 
psicopatico”. 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Il quadro clinico 

Secondo   molti   clinici   una   caratteristica   peculiare   riscontrabile   nei   soggetti   con   personalità 
antisociale è il trasformismo. A volte possono apparire isolati come gli schizoidi, altre volte (più 
frequentemente),   paiono   attivamente   coinvolti   nei   rapporti   interpersonali.   Alternano   talvolta 
comportamenti   aggressivi   con   atteggiamenti   miti   e   remissivi   a   secondo   delle   persone   con   cui 
interagiscono o in base a diversi intervalli temporali con lo stesso interlocutore. Raramente queste 
persone sperimentano emozioni d’ansia che deriva dai sensi di colpa. Nella loro vita non sembrano 
trovare posto le preoccupazioni dettate da regole morali e tendono ad “attribuire alle mancanze 
degli altri i problemi i cui possono essere coinvolti, piuttosto che a proprie inadeguatezze personali” 
(M. Battaglia, L. Bellodi, P. Migone, 1992, p. 1998). Lalli (1991, p. 220 e segg) elenca alcuni tratti 
fondamentali della personalità e del comportamento dello psicopatico: 

 ∙   Preponderanza nella struttura dell’essere psichico di alcune dimensioni istintuali distruttive alle 
quali il paziente aderisce in maniera più o meno completa. Tale atteggiamento può essere a volte 
causa ed a volta effetto di una deficitaria struttura dell’Io, istanza che regola tramite il principio 
della  realtà,   l’interazione tra il soggetto e il mondo. Ne consegue, pertanto, un comportamento 
spesso di tipo antisociale, a causa della non accettazione della norma collettiva, con conseguente 
incapacità a programmarsi secondo valori socialmente accettabili. 

 ∙     Deficitaria o anomala strutturazione del Super­Io che comporta una labilità o una mancanza 
totale del senso di colpa: è questa una delle caratteristiche fondamentali che spiega gran parte del 
comportamento psicopatico. 

 ∙   Mancanza di conflitti emotivi e pertanto assenza di ansia, che rappresenta l’epifenomeno clinico 
del conflitto. 

 ∙       Mancanza   di   identificazione   con   modelli   validi   e   pertanto   incapacità   ad   assumere   dei 


comportamenti costruttivi; lo psicopatico è una facciata dietro cui si nasconde un profondo vuoto 
esistenziale. 

 ∙       Tono   dell’umore   prevalentemente   ipertimico:   ipertimia   che   può   essere   vista   come   un 
meccanismo   ipomaniacale   di difesa.  In  altri   individui  però,   è  frequente   un certo  atteggiamento 
oscillante del tono dell’umore, con possibilità di fasi a carattere disforico. 

 ∙   Intelligenza nei limiti della norma; a volte superiore alla norma. 

 ∙     Distruttività sempre presente e spesso spiccata: indice di una incapacità a modulare la vita 
istintiva. 

 ∙       Coscienza   di   malattia   assente:   lo   psicopatico   vive   in   genere   la   propria   abnormità   senza 


accorgersene”. 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Le manifestazioni e i disturbi associati 

Secondo il DSMV (pag. 706) “Gli individui con Disturbo Antisociale di Personalità frequentemente 
mancano di empatia e tendono ad essere indifferenti, cinici e sprezzanti nei confronti dei sentimenti, 
dei diritti e delle sofferenze degli altri. Possono avere un’autostima ipertrofica ed arrogante [...] e 
possono   essere   eccessivamente   testardi,   sicuri   di   sé   o   presuntuosi.   Possono   avere   un   fascino 
disinvolto,   superficiale,   e   possono   essere   piuttosto   volubili   e   compiacenti   verbalmente   [...].   La 
mancanza   di   empatia,   l’autostima   ipertrofica,   e   il   fascino   superficiale   sono   caratteristiche 
comunemente   incluse   nelle   concezioni   tradizionali   della   psicopatia   e   possono   essere 
particolarmente distintive del Disturbo Antisociale di Personalità in ambito carcerario o forense, 
dove   di   solito   gli   atti   criminali,   delinquenti   o   aggressivi   non   sono   dirimenti.   Questi   individui 
possono anche essere irresponsabili e sfruttatori nelle relazioni sessuali. Possono avere nella loro 
storia   numerosi   partner   sessuali,   e   possono  non   avere   mai   sostenuto   una   relazione   monogama. 
Possono essere genitori irresponsabili, come evidenziato dalla malnutrizione di un figlio, da una 
malattia di un figlio che deriva dalla mancanza di un’igiene minima, [...]. Questi individui”, precisa 
il Manuale, “possono ricevere un’espulsione con infamia dai servizi militari, possono non riuscire 
ad essere indipendenti, possono impoverirsi o anche diventare dei “senza­tetto”, o trascorrere molti 
anni  in  istituzioni  penali.  Gli individui con Disturbo Antisociale  di Personalità  hanno maggiori 
probabilità rispetto alla popolazione generale di morire prematuramente per causa violenta (per es., 
suicidio, incidenti, e omicidi). Gli individui con questo disturbo”, continua il DSM­IV, “possono 
anche presentare disforia, lamentele di tensione, incapacità di tollerare la noia, e umore depresso. 
Possono avere Disturbi d’Ansia, Disturbi Depressivi, Disturbi Correlati  a Sostanze, Disturbo di 
Somatizzazione,   Gioco   d’Azzardo   Patologico,   e   altri   disturbi   del   controllo   degli   impulsi.   Gli 
individui con Disturbo Antisociale di Personalità hanno anche spesso caratteristiche personologiche 
che soddisfano i criteri per gli altri Disturbi di Personalità, particolarmente i Disturbi Borderline, 
Istrionico   e  Narcisistico  di  Personalità.   La  probabilità   di  sviluppare  un  Disturbo  Antisociale   di 
Personalità nella vita adulta è aumentato se il soggetto ha presentato un esordio precoce di Disturbo 
della   Condotta   (prima   dei   10   anni)   accompagnato   da   un   Disturbo   da   Deficit 
dell’Attenzione/Iperattività.   Abusi   o   incuria   da   bambino,   genitori   instabili   o   imprevedibili,   o 
disciplina incoerente da parte dei genitori possono aumentare la probabilità che il Disturbo della 
Condotta evolva in un Disturbo Antisociale di Personalità”. 

Sul   piano   comportamentale,   Lalli   (1991,   p.   221)   distingue   per   questi   soggetti   le   seguenti 
caratteristiche: 

 ∙   “Vivere momento per momento, senza una vera dimensione temporale; 

 ∙       Strumentalizzazione   degli   altri,   conseguenza   dell’incapacità   a   stabilire   un   vero   rapporto 


interpersonale. Deriva dall’annullamento dell’altro come essere psichico che pertanto, ridotto a pura 
realtà materiale, può essere tranquillamente eliminato come si elimina un oggetto che dà fastidio o 
intralcia la strada. I rapporti interpersonali sono molto labili e disturbati: ogni legame è improntato 
all’inganno, alla strumentalizzazione ed il partner in genere o soccombe o si ritrae. Può perdurare 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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solo il legame con una personalità simile: la compensazione reciproca comporta un adattamento 
minimo. 

 ∙   Rifiuto dell’autorità sia parentale che sociale con tendenza ad atteggiamenti disgregatori”; 

 La diagnosi differenziale 

“La diagnosi di Disturbo Antisociale di Personalità”, sottolinea il DSM­IV (1994, p. 708), “non 
viene posta in individui al di sotto dei 18 anni di età e viene posta soltanto se sono presenti in 
anamnesi alcuni sintomi del Disturbo della Condotta solo se non risultano soddisfatti i criteri per il 
Disturbo Antisociale di Personalità”. Gabbard stigmatizza la stretta correlazione tra la patologia 
antisociale del carattere e la tossicomania (Cadoret, 1986; Halleck, 1981; Meloy, 1988; Modlin, 
1983; Reid, 1985; Vaillant, 1983). Secondo l’autore l’interrelazione tra le due condizioni è che 
spesso coesistono ma che ciascuna ha una propria eziologia (Cadoret, 1986; Reid, 1985; Vaillant, 
1983). L’attività criminale è inoltre spesso intimamente connessa alla tossicomania (Holden, 1986). 
I delinquenti infatti in una percentuale tra il 52 e il 65 per cento, sono tossicomani. “Quando in un 
adulto”, specifica il DSM­IV (1994, p. 708 e segg.), “il comportamento antisociale si associa con un 
Disturbo Correlato a Sostanze, non si fa diagnosi di Disturbo Antisociale di Personalità, a meno che 
siano stati presenti segni del Disturbo Antisociale di Personalità nella fanciullezza e siano continuati 
nell’età   adulta.   Quando   sia   l’uso   di   sostanze   che   il   comportamento   antisociale   iniziano   nella 
fanciullezza e continuano nell’età adulta, si dovrebbero diagnosticare sia un Disturbo Correlato a 
Sostanze che un Disturbo Antisociale di Personalità, anche se alcuni atti antisociali possono essere 
una conseguenza del Disturbo Correlato a Sostanze (per es., vendita illegale di droghe o furti per 
ottenere   denaro   per   le   droghe).   Un   comportamento   antisociale   che   si   manifesti   esclusivamente 
durante il decorso della Schizofrenia o di un Episodio Maniacale non dovrebbe essere diagnosticato 
come Disturbo Antisociale di Personalità. Altri Disturbi di Personalità possono essere confusi con il 
Disturbo   Antisociale   di   Personalità   per   certe   caratteristiche   comuni.   E’   quindi   importante 
distinguere tra questi disturbi in base alle differenze nelle loro caratteristiche specifiche. Comunque, 
se un individuo presenta caratteristiche di personalità che soddisfano i criteri per uno o più Disturbi 
di Personalità oltre al Disturbo Antisociale di Personalità, tutti possono essere diagnosticati. Gli 
individui   con   Disturbo   Antisociale   di   Personalità   e   con   Disturbo   Narcisistico   di   Personalità 
condividono   la   tendenza   ad   essere   brutali,   disinvolti,   superficiali,   sfruttatori   e   non   empatici. 
Comunque,   il   Disturbo   Narcisistico   di   personalità   non   include   caratteristiche   di   impulsività, 
aggressività e disonestà. Inoltre, gli individui con Disturbo Antisociale di Personalità possono non 
essere   così   bisognosi   dell’ammirazione   e   dell’invidia   degli   altri,   e   le   persone   con   Disturbo 
Narcisistico della Personalità di solito non hanno una anamnesi di Disturbo della Condotta nella 
fanciullezza o di comportamento criminale nell’età adulta. Gli individui con Disturbo Antisociale di 
Personalità e con Disturbo Istrionico di Personalità condividono la tendenza ad essere impulsivi, 
superficiali, alla ricerca di situazioni eccitanti, avventati, seduttivi e manipolativi, ma le persone con 
Disturbo   Istrionico   della   Personalità   tendono   ad   essere   emotivamente   più   esagerate,   e 
caratteristicamente  non si coinvolgono  in comportamenti  antisociali.  Gli individui  con Disturbo 
Istrionico e Borderline di Personalità sono manipolativi per ottenere considerazione, mentre quelli 
con   Disturbo   Antisociale   di   Personalità   sono   manipolativi   per   ottenere   profitto,   potere,   o   altre 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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gratificazioni  materiali. Gli individui con Disturbo Antisociale  di Personalità tendono ad essere 


meno   instabili  emotivamente  e  più   aggressivi  di   quelli   con  Disturbo  Borderline  di   Personalità. 
Sebbene   il   comportamento   antisociale   possa   essere   presente   in   alcuni   individui   con   Disturbo 
Paranoide   di  Personalità,  di solito  non è motivato  da  un desiderio  di guadagno personale   o   di 
sfruttare gli altri, come nel Disturbo Antisociale di Personalità, ma piuttosto è più spesso dovuto ad 
un desiderio di vendetta. Il Disturbo Antisociale di Personalità”, specifica il DSMIV, “deve essere 
distinto   dal   comportamento   criminale   intrapreso   per   guadagno   non   accompagnato   dalle 
caratteristiche personologiche tipiche di questo disturbo. Il Comportamento Antisociale nell’Adulto 
[...] può essere utilizzato per descrivere un comportamento criminale, aggressivo, o antisociale di 
altro tipo, che giunge all’attenzione clinica ma che non soddisfa i criteri completi per il Disturbo 
Antisociale di Personalità. Solo quando i tratti antisociali di personalità sono inflessibili, maladattivi 
e   persistenti,   e   causano   una   compromissione   funzionale   significativa   o   sofferenza   soggettiva 
configurano il Disturbo Antisociale di Personalità”. 

Il Disturbo della Condotta 

Tale   disturbo   assume   rilevanza   in   quanto   talvolta   è   prodromico   a   quello   antisociale.   “La 
caratteristica fondamentale del Disturbo della Condotta”, indica il DSM­IV (1994, p. 104 e segg.), 
“è una modalità di comportamento ripetitiva e persistente in cui i diritti fondamentali degli altri 
oppure le norme o le regole della società appropriate per l’età adulta vengono violate (Criterio A). 
Questi comportamenti si inseriscono in quattro gruppi fondamentali: condotta aggressiva che causa 
o minaccia danni fisici ad altre persone o ad animali (Criteri A1­A7), condotta non aggressiva che 
causa perdita o danneggiamento della proprietà (Criteri A8­A9), frode o furto (Criteri A10­A12), e 
gravi violazioni di regole (Criteri A13­A15). 3 (o più) comportamenti caratteristici devono essere 
stati   presenti   durante   i   12   mesi   precedenti,   con   almeno   1   comportamento   presente   nei   6   mesi 
precedenti.   L’anomalia  del comportamento  causa compromissione  clinicamente  significativa  del 
funzionamento sociale, scolastico, o lavorativo (Criterio B). Il Disturbo della Condotta”, precisa il 
Manuale, “può essere diagnosticato in soggetti che hanno più di 18 anni, ma solo se non vengono 
soddisfatti   i   criteri   per   il   Disturbo   Antisociale   di   Personalità   (Criterio   C).   La   modalità   del 
comportamento è di solito presente in diversi ambienti, come la casa, la scuola o la comunità. Dato 
che i soggetti con Disturbo della Condotta tendono a minimizzare i propri problemi di condotta, il 
clinico”, suggerisce il DSM­IV, “deve spesso affidarsi a ulteriori fonti di informazioni. Comunque 
la conoscenza da parte degli informatori riguardo ai problemi di condotta del bambino può essere 
limitata da un controllo inadeguato o al fatto che il ragazzo non li ha rivelati”. Il DSM­IV suddivide 
il Disturbo della Condotta in due sottotipi, diversamente correlati con il Disturbo Antisociale di 
Personalità, a seconda dell’età all’esordio del disturbo: 

Tipo con Esordio nella Fanciullezza: “Questo sottotipo è definito sulla base dell’esordio di almeno 
uno dei criteri caratteristici del Disturbo della Condotta prima dei 10 anni di età. I soggetti con il 
Tipo ad Esordio nella Fanciullezza sono di solito maschi, mostrano di frequente aggressioni fisiche 
contro altri, hanno relazioni disturbate con i coetanei, possono aver avuto un Disturbo Oppositivo 
Provocatorio nella prima fanciullezza, e di solito hanno sintomi che soddisfano pienamente i criteri 
del  Disturbo   della  Condotta prima della  pubertà. Questi soggetti  hanno maggiori  probabilità   di 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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avere un Disturbo della Condotta persistente e di sviluppare un Disturbo Antisociale di Personalità 
rispetto ai soggetti con Tipo ad Esordio nell’Adolescenza”. 

Tipo   ad   Esordio   nell’Adolescenza:   “Questo   sottotipo   è   definito   dall’assenza   di   tutti   i   criteri 


caratteristici del Disturbo della Condotta prima dei 10 anni di età. Rispetto a coloro che sono affetti 
dal   Tipo   ad   Esordio   nella   Fanciullezza,   questi   soggetti   hanno   meno   probabilità   di   manifestare 
comportamenti aggressivi e tendono ad avere relazioni con i compagni maggiormente nella norma 
(sebbene mostrino spesso problemi di condotta in compagnia di altri). Questi soggetti hanno meno 
probabilità di avere un Disturbo della Condotta persistente o di sviluppare da adulti il Disturbo 
Antisociale di Personalità. Il rapporto tra maschi e femmine affetti da Disturbo della Condotta è 
minore per il Tipo ad Esordio nell’Adolescenza che per il Tipo ad Esordio nella Fanciullezza”. 

Il Comportamento Antisociale dell’Adulto 

“Questa   categoria”,   suggerisce   il   DSM­IV   (1994,   p.   743   e   segg.),   “può   essere   usata   quando 
l’oggetto dell’attenzione clinica è un comportamento antisociale dell’adulto che non è dovuto ad un 
disturbo mentale (per es., Disturbo della Condotta, Disturbo Antisociale di Personalità, o Disturbo 
del Controllo degli Impulsi). Gli esempi includono il comportamento di alcuni ladri di professione, 
di soggetti dediti al racket, o che commerciano in sostanze illecite”. 

Le caratteristiche collegate a cultura, età e genere 

“Il   Disturbo   Antisociale   di   Personalità”,   afferma   il   DSM­IV   (1994,   pag.   707),   “sembra   essere 
associato   con   uno   stato   socioeconomico   basso   e   con   gli   ambienti   urbani.   Su   tale   categoria 
diagnostica sono state sollevate preoccupazioni per il fatto che la diagnosi possa talvolta essere 
male applicata ad individui in ambienti in cui verosimilmente il comportamento antisociale può 
essere parte di una strategia protettiva di sopravvivenza. Nel valutare i tratti antisociali, è quindi 
utile per il clinico considerare attentamente il contesto sociale ed economico in cui si manifesta il 
comportamento”.   “Una   corposa   mole   di   conoscenze”,   scrive   Gabbard   (1994,   p.   498),   “è   stata 
accumulata   sulla   epidemiologia   del   disturbo   antisociale   di   personalità   (Cadoret,   1986)   [...]. 
Individui con questo disturbo si ritrovano più comunemente in aree urbane impoverite e molti di 
loro interrompono le scuole secondarie prima del diploma. C’è uno scivolare verso il basso nella 
vita degli individui antisociali (Person, 1986), che tendono a guadagnare denaro e a perderlo in 
maniera ciclica fino a che non “scoppiano” durante l’età media, spesso al caro prezzo di grave 
alcolismo e debilitazione (Halleck, 1981)”. “Per definizione,” ripete il DSM­IV (1994, p. 707), “ il 
Disturbo   Antisociale   di   Personalità   non   può   essere   diagnosticato   prima   dei   18   anni   di   età.   Il 
Disturbo Antisociale di Personalità è molto più comune nei maschi che nelle femmine. E’ stata 
sollevata   qualche   preoccupazione   che   il   Disturbo   Antisociale   di   Personalità   possa   essere 
sottodiagnosticato   nelle   femmine,   particolarmente   a   causa   dell’enfasi   posta   sugli   item   che 
riguardano l’aggressività nella definizione del Disturbo della Condotta”. Su tale argomento Gabbard 
afferma (1994, p. 499) che la psicopatia può manifestarsi in effetti anche nelle pazienti femmine 
anche se tale disturbo si evidenzia con maggiore frequenza tra i maschi. La ragione per cui alcuni 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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clinici tendono a trascurare tale diagnosi nelle donne è da ricercare per l’autore negli stereotipi nel 
ruolo sessuale. 

La prevalenza 

Sostiene   il   DSM­IV   (1994,   p.   707)   in   proposito:   “La   prevalenza   complessiva   del   Disturbo 
Antisociale  di Personalità nei campioni comunitari è circa il 3% nei maschi e circa l’1% nelle 
femmine.  Le stime della prevalenza in ambienti clinici variano dal 3% al 30% a seconda delle 
caratteristiche predominanti della popolazione in esame. Percentuali di prevalenza anche superiori 
sono associate con gli ambienti di trattamento per l’abuso di sostanze e in ambito carcerario  o 
forense”. Puntualizza a tal proposito Gabbard (1994, p. 499): “Si pensa che i pazienti con problemi 
antisociali siano generalmente maschi, invece il rapporto maschi­femmine nel disturbo antisociale 
di personalità varia da 4:1 a 7,8:1 (Cadoret, 1986)”. Anche Kaplan (1993, p. 599 e segg.) conferma 
tali dati: “La prevalenza del disturbo antisociale di personalità è del 3% negli uomini e dell’1% 
nelle donne. [...] Nelle popolazioni carcerarie la prevalenza del disturbo antisociale di personalità 
può arrivare al 75%”. 

Il decorso 

Per il DSMV il Disturbo Antisociale di Personalità ha un decorso cronico, ma può diventare meno 
evidente   o   andare   incontro   a   remissione   man   mano   che   l’individuo   diventa   più   adulto, 
particolarmente   dalla   quarta   decade   di   vita.   Sebbene   questa   remissione   tenda   ad   essere 
particolarmente   evidente   per   quanto   riguarda   l’essere   coinvolti   in   comportamenti   criminali,   è 
probabile   una  riduzione  dell’interi  spettro  di  comportamenti   antisociali  e  dell’uso  di  sostanze”, 
(DSM­IV, 1994, p. 707). 

La familiarità 

“Il Disturbo Antisociale di Personalità”, afferma il DSM­IV (1994, p. 707 e segg.), “è più comune 
tra i consanguinei di primo grado di individui con il disturbo che nella popolazione generale. Il 
rischio  per i consanguinei  di femmine con il disturbo tende ad essere maggiore del rischio dei 
consanguinei di maschi con il disturbo. I consanguinei di persone con questo disturbo hanno anche 
un rischio aumentato di Disturbo di Somatizzazione e di Disturbi Correlati a Sostanze. Nell’ambito 
di una famiglia con un membro affetto da Disturbo Antisociale di Personalità,” continua il Manuale, 
“i maschi hanno più spesso il Disturbo Antisociale di Personalità e Disturbi Correlati a Sostanze, 
mentre le femmine hanno più spesso Disturbo di Somatizzazione. Comunque, in tali famiglie, vi è 
un aumento nella prevalenza di tutti questi disturbi, sia nei maschi che nelle femmine, in confronto 
alla   popolazione   generale.   Studi   sull’adozione   indicano   che   fattori   sia   genetici   che   ambientali 
contribuiscono al rischio per questo gruppo di disturbi. Sia i figli adottivi che quelli biologici di 
genitori   con   Disturbo   Antisociale   di   Personalità   hanno   un   rischio   aumentato   di   sviluppare   il 
Disturbo Antisociale di Personalità, il Disturbo di Somatizzazione e i Disturbi Correlati a Sostanze. 
I   bambini   adottati  assomigliano  ai genitori biologici  più che ai genitori  adottivi  ma l’ambiente 
familiare adottivo influenza il rischio di sviluppare un Disturbo di Personalità e la psicopatologia 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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correlata”. Gabbard (1994, p. 500), considera come taluni studi sui gemelli sembrano convincere 
dell’influenza   dei   fattori   genetici   sullo   sviluppo   della   psicopatia   (Christiansen,   1977;   Wilson, 
Herrnstein, 1985, Yeudall, 1977). “Connessioni familiari”, scrive ancora Gabbard (1994, p. 499), 
“tra psicopatia e disturbo di somatizzazione (isteria) sono state largamente documentate (Cadoret, 
1978; Cloninger et al., 1984; Cloninger, Guze, 1975; Woerner, Guze, 1968)”. Secondo West (1990, 
p. 217 e segg.): “Vi sono prove valide per l’esistenza di questi legami, ma siamo ben lontani dal 
comprendere la relativa importanza e il ruolo incrociato dei diversi fattori biologici e sociali, e la 
situazione   non   migliora   a   causa   della   tendenza   delle   varie   discipline   a   cercare   di   spiegare 
completamente l’intero quadro in base ai loro particolari interessi”. 

I rapporti con altra patologia 

I   Disturbi   più   frequentemente   osservati   nelle   personalità   antisociali   sono   quelli   da   Abuso   di 
Sostanze o Alcool. In numerose ricerche si evidenzia infatti una elevata comorbidità per abuso di 
droghe e per abuso di alcool. Talvolta episodi affettivi di Depressione Maggiore o Distimia possono 
manifestarsi   nella   storia   individuale   delle   personalità   antisociali.   (M.   Battaglia,   L.   Bellodi,   P. 
Migone, 1992, p. 2000). 

Il trattamento farmacologico 

Secondo numerosi autori nel disturbo antisociale le terapie farmacologiche non si sono in mostrate 
di   grande   efficacia.   I   sintomi   classici   di   tale   disturbo   (ansia,   depressione)   sono   spesso   infatti 
situazionali e quindi trattabili con maggior successo con approcci di tipo “counseling”, basati su 
informazioni e consigli. Talvolta discreti risultati terapeutici si sono riscontrati con l’uso di farmaci 
studiati   per   un   trattamento   specifico   del   comportamento   aggressivo.   I   pazienti   con   Personalità 
Antisociale, infine, non possono essere trattati in comuni reparti psichiatrici, sovente non attrezzati 
per tali individui. (M. Battaglia, L. Bellodi, P. Migone, 1992, p. 2002). Afferma Kaplan (1993, p. 
600) a proposito della farmacoterapia: “Se vi è evidenza di disturbo da deficit dell’attenzione con 
iperattività,   di   tipo   residuo,   possono   usarsi   psicostimolanti   come   il   metilfenidato.   Sono   stati 
compiuti   tentativi   di   alterare   il   metabolismo   catecolaminico   con   farmaci   e   di   controllare   il 
comportamento impulsivo con farmaci antiepilettici, specialmente se l’EEG si notano forme d’onda 
anomale”.   Riguardo   a   una   terapia   farmacologica   di   tipo   sedativo,   Intreccialagli   (1990,   p.   433) 
consiglia neurolettici e carbamazepina, ma afferma che: “nel momento in cui il paziente antisociale 
viene a calarsi nuovamente nel suo ambiente abituale avverte immediatamente il rallentamento del 
proprio output e vi si oppone decisamente”. West (1990, p. 219) ritiene che l’unico settore in cui la 
terapia farmacologica mostra efficacia e prospettive è forse quello delle sostanze sopprimenti gli 
ormoni sessuali. Negli altri ambiti la psichiatria non ha per ora fornito alcuna risposta chiara. 

Il trattamento psicoterapeutico 

I pazienti antisociali raramente richiedono la terapia volontariamente e le sole sedute settimanali in 
ambulatorio, senza un contesto istituzionale di contenimento, non sembrano essere sufficienti. Si 
manifesta   quindi   l’esigenza   di   un   ricovero   in   strutture   specializzate   per   svolgere   con   successo 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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qualsiasi intervento psicoterapeutico, i cui eventuali risultati potrebbero però non permanere una 
volta  che  il  paziente  cambia ambiente.  Alcuni autori (Parsons, Alexander, 1973; Harbin, 1979) 
suggeriscono la terapia familiare, altri autori (Moss, Rick, 1981), una terapia comportamentale o di 
token  economy, sempre se usata in un ambiente di contenimento.  (M. Battaglia, L. Bellodi,  P. 
Migone, 1992, p. 2001 e segg.).Di un parere simile sembra essere Lalli (1991, p. 226): “La terapia 
della personalità psicopatica è estremamente difficile, tanto da essere sembrata per un lungo periodo 
di   tempo,   impossibile.   Un   motivo   importante   è   costituito   dal   fatto   che   lo   psicopatico   non   ha 
consapevolezza di malattia né esperisce malessere o ansia e quindi non chiede aiuto, e se l’aiuto 
nonostante tutto gli viene proposto, egli più o meno apertamente lo rifiuta”. Anche Gabbard (1994, 
p.   505   e   segg.):   sottolinea   il   fatto   che   i   pazienti   con   un   serio   comportamento   antisociale   non 
traggono   beneficio   da   un   approccio   terapeutico   fondato   esclusivamente   su   una   psicoterapia 
ambulatoriale (Frosch, 1983; Gabbard, Coyne, 1987; Person, 1986; Reid, 1985). La presenza di un 
setting   istituzionale   o   residenziale   è   auspicabile   secondo   l’autore   per   cercare   di   ottenere   un 
miglioramento   anche   modesto.   Rispetto   alla   psicoterapia   individuale,   Gabbard   (1994,   p.   514   e 
segg.)   afferma   che:   “la   psicoterapia   individuale   ambulatoriale   del   paziente   antisociale   grave   è 
destinata a fallire. Gli affetti saranno scaricati attraverso l’azione perché non vi è nessun ambiente 
contenitivo in cui controllare tale canalizzazione. Inoltre, le menzogne e gli inganni del paziente 
sono così pervasivi che il terapeuta non avrà nessuna idea di ciò che realmente accade nella vita del 
paziente.   Kaplan   (1993,   p.   600),   ribadisce   il   fatto   che   i   pazienti   con   disturbo   antisociale   di 
personalità   diventano   accessibili   alla   psicoterapia   solo   se   vengono   immobilizzati   (p.   es. 
ospedalizzandoli). 

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Capitolo 3

LINEAMENTI   DI   METODOLOGIA   DELLA   RICERCA   SCIENTIFICA   IN 


CRIMINOLOGIA 

Argomenti principali: 

∙ Conoscenza intuitiva e conoscenza scientifica. 

∙ La formulazione del problema∙ 

∙ Concetti di base dell'indagine scientifica 

∙ Metodi di ricerca: metodi quantitativi e metodi qualitativi ∙ 

∙ Altri possibili approcci 

∙ La ricerca in criminologia 

Conoscenza scientifica e conoscenza intuitiva Nel corso della vita di tutti i giorni, per prendere 
innumerevoli   decisioni,   si   ricorre   spesso   all'intuizione   ed   in   particolare   al   senso   comune. 
Quest'ultimo si avvale di metodi informali che mirano ad evidenziare l'accordo fra l'opinione di una 
persona   e   le   idee   e   le   esperienze   comuni   di   un   ampio   gruppo   di   soggetti.   Tale   strumento   di 
conoscenza ha due limiti fondamentali: i suoi criteri mutano da un epoca all'altra e da un luogo 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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all'altro in accordo con le idee e con l'esperienza della cultura, inoltre il metodo basato sul senso 
comune non richiede che si facciano tentativi sistematici per esaminare la spiegazione teorica di una 
prassi e per vedere se essa è vera. L'assenza di una teoria è una delle più importanti limitazioni di 
questo mezzo conoscitivo, infatti finché una certa pratica funziona essa è seguita e la teoria su cui 
essa si basa è considera vera. Al contrario, la scienza mira ad una spiegazione teorica dei fenomeni, 
e   la   raccolta   e   l'elaborazione   di   informazioni   "scientifica"   si   differenzia   dalla   raccolta   e 
dall'elaborazione   di   informazioni   che   ognuno   di   noi   compie   quotidianamente,   per   il   carattere 
sistematico ed intenzionale della prima. La ricerca scientifica può essere definita come "un processo 
di osservazione deliberata e controllata" (Kaplan, 1964). In primo luogo occorre precisare che non 
vi è un metodo scientifico, bensì vi sono diversi metodi scientifici, il cui scopo consiste nell'ottenere 
conoscenze   attraverso   osservazioni   obbiettive.   Queste   ultime   sono   quelle   fatte   in   modo   che   le 
persone con una percezione normale e poste nello stesso luogo e nello stesso tempo arriverebbero 
allo stesso risultato. La necessità che le osservazioni siano oggettive spiega l'importanza che gli 
scienziati attribuiscono alla validità dei metodi di ricerca. Essi tentano di esplicitare accuratamente 
le condizioni esatte in cui sono state eseguite le osservazioni, in modo che altri scienziati le possano 
all'occorrenza ripetere. Quindi il processo di produzione di conoscenza scientifica è caratterizzato 
da una serie di "scelte ragionate", che il ricercatore deve di volta in volta compiere. Tali decisioni 
introducono innegabilmente un elemento di soggettività, che non può essere eliminata, ma può e 
deve essere resa esplicita.  L'oggettività  è quindi la caratteristica che contraddistingue ciò che è 
scienza da ciò che non lo è, ed è ciò che fa della scienza l'unico mezzo universale per acquisire 
conoscenze, perché sin dall'inizio rifiuta di considerare ogni fenomeno che non sia accessibile a 
tutti. I diversi metodi scientifici, costituiscono quindi il percorso più idoneo per il raggiungimento 
di verità probabilistiche e disponibili a possibili modifiche e non dei filtri magici, validi in ogni 
occasione e per ogni scopo. I concetti di base della ricerca scientifica. Tutte le indagini, anche se 
non   sempre   viene   chiaramente   espresso,   prendono   le   mosse   da   un   quesito,   scaturente   da 
un'osservazione   o  da  una  lacuna  di  una   teoria.   Tale  interrogativo   potrebbe   essere   formulato   in 
questo modo: "Perché X si comporta nel modo Y?" Per poter continuare verso la spiegazione o la 
descrizione dell'evento, lo sperimentatore deve tramutare il quesito in un'ipotesi di ricerca, secondo 
uno schema del tipo " se… allora…". Un aspetto non trascurabile è rappresentato dal legame tra 
ipotesi e definizioni operative delle caratteristiche che sono oggetto di studio. Le ipotesi devono 
basarsi su caratteristiche in qualche modo quantificabili. Lo studioso, così come l'uomo della strada, 
fanno ricorso a procedure interpretative che pongono in relazione concetti non osservabili e eventi 
osservabili:   nell'approccio   scientifico,   tuttavia   tali   procedure   devono   essere   esplicitate   ed   il 
ricercatore deve aver chiaro fin dal principio che tipo di relazione ipotizza tra i concetti studiati e 
ciò è influenzato principalmente dallo scopo dell'indagine. Un'indagine di tipo descrittivo, a cui si 
ricorre   spesso   in   una   fase   iniziale   della   ricerca   quando   il   ricercatore   non   possiede   conoscenze 
approfondite del fenomeno che intende studiare, si limiterà a fornire una rappresentazione il più 
possibile accurata, di ciò che avviene. Invece si ricorre ad un livello di indagine correlazionale, 
qualora lo studioso ipotizza una compresenza sistematica, in uno stesso evento, dei concetti studiati, 
senza   nessuna   relazione   di   causa   ed   effetto   tra   loro   (x   ed   y   si   presentano   insieme   nell'evento 
comportamentale).Il   livello   più   alto   di   indagine,   è   rappresentato   dall'indagine   sperimentale.   In 
questo caso si ipotizza una relazione di causa e di effetto tra X ed Y , e lo scopo è quello di spiegare 
il   comportamento   in   funzione   di   un'unica   causa.   Affinché   tale   assunzione   sia   valida,   risulta 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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necessario condurre l'indagine nel modo più rigoroso possibile, alfine di escludere l'incidenza di 
altre variabili non oggetto di studio. 

La formulazione del problema 

La scelta di un argomento adeguato è il primo passo che si dovrebbe compiere nel condurre una 
ricerca scientifica. Alcuni autori (Ercolani ed al., 1993) suggeriscono dei criteri per l'individuazione 
di un'area problematica: 

1. lo stato di sviluppo teorico ed empirico della disciplina; 

2. particolari interessi e preferenze del ricercatore nell'ambito della disciplina stessa; 

3. osservazioni casuali che rivelano una lacuna nelle conoscenze disponibili; 

4. esplicita richiesta di un committente In ogni caso, nel formulare esplicitamente un problema lo 
scienziato  costruisce o si avvale di una teoria di riferimento ed in base ad essa ed alle proprie 
intuizioni avanza delle ipotesi di soluzione possibile. 

Metodi di ricerca: approcci quantitativi e qualitativi Metodo quantitativo. La ricerca contemporanea 
nel settore delle scienze sociali è impregnata di tradizioni empiriche e quantitative. Il Positivismo 
logico, corrente di pensiero in cui si sosteneva che tutto il sapere deriva dall'osservazione diretta e 
da inferenze logiche basate su di essa, ha rappresentato il fondamento epistemologico della ricerca 
sociale durante tutto il ventesimo secolo. Alcuni metodi statistici si sono rivelati particolarmente 
utili per osservare relazioni e modelli ed esprimerli con dei numeri. La statistica descrittiva illustra 
questi   modelli   di   comportamento,   mentre   la   statistica   inferenziale   si   avvale   di   argomenti 
probabilistici per generalizzare da campioni a popolazioni oggetto di studio. La ricerca sperimentale 
utilizza progetti di ricerca quantitativi al fine di rilevare differenze tra gruppi o classi di soggetti. Il 
focus è posto sulla precisione delle misure e sul controllo di fonti d'errore esterne. Lo scopo è 
quindi quello di isolare una variabile di interesse (variabile indipendente o di disegno) e manipolarla 
al   fine   di   osservare   l'incidenza   di   tale   manipolazione   su   una   seconda   variabile   (variabile 
dipendente).   Questa   procedura   è   agevolata   dal   "controllo   di   variabili   esterne,   ponendo   così   il 
ricercatore  in  condizione di inferire una relazione causale tra le due (o più)variabili  oggetto   di 
studio.   Il   controllo   metodologico   è   compiuto   generalmente   per   mezzo   di   due   procedure   che 
poggiano sul principio di casualità. Si ha un campionamento casuale (random), usando soggetti che 
sono stati estratti in maniera casuale da un gruppo in modo che ogni componente della popolazione 
abbia   le   stesse   probabilità   di   essere   scelto.   La   selezione   casuale   del   campione   permette   al 
ricercatore   di   generalizzare   i   risultati   dello   studio   dal   campione   alla   popolazione   da   cui   viene 
estratto.   La   seconda   procedura   è   la   "randomizzazione",   che   consiste   nell'assegnare   i   soggetti   a 
gruppi o condizioni sperimentali in modo tale che ogni soggetto abbia la stessa probabilità di venire 
selezionato per ciascuno di essi. In questo modo le caratteristiche del soggetto sono così distribuite 
casualmente   in   ogni   aspetto   salvo   che   per   la   manipolazione   sperimentale   o   il   trattamento, 
consentendo al ricercatore di inferire che le differenze emerse tra i gruppi possono essere attribuite 
alle  variabili  isolate. Nell'ambito delle scienze  sociali, l'applicazione  del metodo sperimentale  è 
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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spesso ostacolata dal fatto che si utilizzano soggetti umani. In effetti in campo sociale e clinico si 
ricorre più frequentemente ad un disegno "quasi sperimentale", approccio empirico sistematico nel 
quale lo sperimentatore non ricorre alla manipolazione sperimentale né all'assegnazione casuale dei 
soggetti a determinate condizioni; ciò in quanto gli eventi sono già accaduti oppure perché sono 
inerentemente non manipolabili. Sia nel caso in cui la ricerca utilizzi un disegno sperimentale o 
quasi­sperimentale, la strategia più diffusa nelle scienze sociali è il confronto tra gruppi. Gruppi 
indipendenti di soggetti sono utilizzati per ogni condizione sperimentale o di controllo; il disegno 
più conosciuto, è quello che prevede l'uso di due gruppi equivalenti di soggetti, che differiscono 
solo per il trattamento sperimentale al quale sono sottoposti e che vengono testati prima e dopo il 
trattamento.   Risulta   così   possibile   valutare   l'incidenza   di   un   intervento,   dato   che   il   gruppo   di 
controllo rappresenta un termine di confronto. Tale disegno rende possibile attribuire gli effetti di 
una  manipolazione  sperimentale  all'intervento  stesso piuttosto che a variabili  estranee,  purché  i 
soggetti siano stati assegnati alle diverse condizioni sperimentali in modo completamente casuale. 
Poiché   la   randomizzazione   non   è   sempre   effettuabile,   diviene   di   fondamentale   importanza 
considerare   l'equivalenza   dei   due   gruppi   anche   se   i   soggetti   non   provengono   dalla   stessa 
popolazione. Un modo per sopperire a tale inconveniente, consiste nell'appaiare i gruppi per delle 
variabili chiave come il sesso, l'età, ecc. Infine occorre precisare che tale disegno non controlla 
affatto   l'eventuale   influenza   delle   valutazioni   del   pretest   sui   soggetti.   Un   semplice   disegno 
sperimentale che contempli il singolo postest può ovviare a tale inconveniente, ma in ogni caso, la 
scelta di un disegno sperimentale di base non elimina il bisogno di sforzarsi a riflettere attentamente 
e  creativamente  alle  potenziali  fonti di errore. I dati  che scaturiscono  da indagini sperimentali, 
vengono analizzati usando un'appropriata statistica inferenziale. Le tecniche statistiche utilizzate per 
valutare l'efficacia di un intervento o delle differenze tra gruppi, come l'analisi della varianza o il t 
test, confrontano l'ampiezza delle differenze "inter­gruppo" e delle differenze "intragruppo" dovute 
alla variabilità individuale. Il paradigma correlazionale, è basato invece su principi piuttosto diversi. 
Le   correlazioni   dipendono   dal   confronto   tra   due   distribuzioni   di   punteggi,   ovvero   punteggi 
ampiamente   dispersi   lungo   due   dimensioni.   Le   tecniche   statistiche   provenienti   da   questa 
impostazione,   come   la   regressione   multipla,   sono   particolarmente   utilizzate   nell'ambito   delle 
scienze sociali che usufruiscono di questionari, esami o scale, e relazioni tra variabili continue. In 
ogni caso è l'impianto teorico e non la scelta dei metodi statistici che determinai tipi di assunzioni 
che possono essere fatte in merito alle relazioni tra variabili. 

Metodi   qualitativi.   Il   termine   "qualitativo"   nell'ambito   della   ricerca,   implica   che   i   dati   da   essa 
scaturenti sono sotto forma di parole e non di numeri. Mentre i dati quantitativi sono generalmente 
valutati attraverso la statistica inferenziale e descrittiva, i dati qualitativi sono ridotti a categorie o 
temi e valutati soggettivamente. I sostenitori di tale metodo criticano l'artificiosità e la limitatezza 
degli studi sperimentali nell'ambito delle scienze sociali e, promuovono una maggiore flessibilità e 
spontaneità   nell'esplorazione   dei   fenomeni   nell'ambiente   naturale.   Sempre   gli   stessi   autori, 
prendendo   spunto   dalla   fisica   moderna,   affermano   che   la   presenza   di   un   osservatore   altera 
inevitabilmente   ciò   che   viene   osservato   in   modo   tale   che,   di   fatto,   non   è   possibile   scindere 
l'osservatore dall'oggetto di studio. I metodi qualitativi risultano particolarmente utili nella "genesi 
di categorie necessarie alla comprensione dei fenomeni umani e nell'indagine sull'interpretazione e 
sul significato  che gli individui attribuiscono agli eventi sperimentati". A differenza dei metodi 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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quantitativi, in cui il ricercatore registra e utilizza un piccolo insieme di variabili identificate in 
precedenza,  l'approccio qualitativo tenta di raggiungere una comprensione dell'individuo ricca e 
profonda. I diversi metodi qualitativi sono accomunati da tre assunti principali: una visione olistica, 
in   base   alla   quale   si   cerca   di   comprendere   i   fenomeni   nella   loro   interezza   e   complessità;   un 
approccio induttivo in base al quale la ricerca parte da osservazioni specifiche e si sposta verso 
schemi   generali   che   scaturiscono   dai   casi   studiati;   indagine   naturalistica,   dato   che   l'indagine 
qualitativa   è   concepita   per   comprendere   i   fenomeni   negli   stati   che   si   verificano   naturalmente. 
Esistono diverse tradizioni della ricerca qualitativa, ne elencheremo le principali: 

Fenomenologica.   Le   ricerche   fenomenologiche   tentano   di   descrivere   e   di   chiarire   i   significati 


dell'esperienza umana. Tale approccio, che si avvale prevalentemente di interviste odi conversazioni 
estese, cerca di andare oltre la descrizione offerta dagli individui circa le esperienze vissute, per 
giungere alle strutture che sottendono la coscienza. In questo ambito, assume importanza particolare 
il legame empatico con il soggetto. 

Ermeneutica. Tale approccio, si basa sul presupposto che una specifica attività può essere compresa 
solo se si comprende il contesto nel quale si sviluppa, piuttosto che concepirla come un'astrazione o 
un   insieme   di  relazioni  causali.  In ermeneutica  i dati  sono forniti  in precedenza  al ricercatore, 
mentre   in   uno   studio   fenomenologico   standard,   il   ricercatore   contribuisce   a   creare   il   racconto 
trascritto che di solito è stato ottenuto intervistando i partecipanti­soggetti. Tale approccio, data la 
sua complessità, è raramente utilizzato nel campo della ricerca sociale. Esso, infatti, richiede un 
continuo   rimando   ai   dati   originari   ,   al   fine   di   individuarne   il   significato   e   riuscire   a   integrare 
quest'ultimo con il valore che il ricercatore gli attribuisce. 

Indagine etnografica. Tale modello comprende descrizioni antropologiche, ricerche naturalistiche, 
sul campo e osservazioni dei partecipanti. Il ricercatore tenta di catturare e comprendere aspetti 
particolari   della   vita  di  un particolare   gruppo, allo   scopo di  ottenere   informazioni  minuziose   e 
complete. Tale indagine spazia dalla pura descrizione ad una vera e propria spiegazione teorica 
della vita sociale e culturale. Il ricercatore inizia dei contatti profondi e prolungati con l'oggetto di 
studio, cercando allo stesso tempo di mantenersi il più possibile distaccato da esso. L'etnografo 
raccoglierà i dati in un diario, questi saranno registrati possibilmente in modo testuale. 

Altri possibili approcci: 

L'approccio misto, ossia una combinazione di metodologie quantitative e qualitative, rappresenta 
spesso una buona scelta. Ne sono un esempio alcune ricerche che affiancano ad un questionario una 
discussione di gruppo. Un altro possibile approccio alla ricerca, è rappresentato dalla dissertazione 
teorica,   che   permette   di   aggirare   l'ostacolo   della   raccolta   dei   dati,   ma   che   spesso   rappresenta 
un'avventura   non   priva   di   pericoli,   soprattutto   per   lo   studioso   alle   prime   armi,   all'oscuro   delle 
tematiche e delle controversie in un determinato ambito teorico. 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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METODOLOGIA DELLA RICERCA APPLICATA ALLA CRIMINOLOGIA 

Sommario:   Premessa.   ­   1.   Statistiche   di   massa.   ­   2.   ­   Metodo   sperimentale.   ­   3.   Metodo 


dell'inchiesta. ­ 4. Indagini individuali. ­ 5. Metodo storico. 

Premessa 

Occorre innanzitutto precisare che in campo criminologico si ricorre a svariati metodi d’indagine; la 
scelta   di   una   specifica   metodologia   è   influenzata   innanzitutto   dagli   scopi   che   il   ricercatore   si 
prefigge. Il processo della ricerca non è lineare, bensì si configura come un ciclo di passi ripetuti nel 
tempo.   Il   punto   di   entrata   più   comune   è   rappresentato   da   una   qualche   forma   di   osservazione 
empirica.   Il   ricercatore   sceglie   un   argomento   da   un   infinito   insieme   di   argomenti,   in   seguito, 
attraverso un procedimento induttivo formula una proposta di ricerca. Il passo successivo consisterà 
nello   sviluppare   in   modo   compiuto   la   proposta,   enunciandola   sotto   forma   di   affermazione   che 
stabilisce una relazione tra due fenomeni. Dato che, l’asserzione è valida solo nell’ambito di una 
specifica struttura teorica, spetterà al ricercatore il compito di spiegare tale proposizione alla luce di 
un più vasto sistema teorico. 

Sebbene i metodi criminologici siano stati usati in primo luogo per comprendere l'eziologia del 
delitto,  vengono altresì impiegati nello studio dei mezzi di controllo, prevenzione e trattamento 
delle diverse forme di reato. 

1. Statistiche di massa 

Le statistiche di massa esprimono in numeri l’osservazione di fatti; privilegiano lo studio di fattori 
macrosociali   di   generale   influenzamento   e   non   consentono   l'identificazione   di   fattori   causali   e 
l'evidenziazione di condizioni microsociali o personali significative. 

Tale metodo risulta essere indispensabile per la conoscenza dell’estensione del fenomeno criminale 
e per l’espressione delle sue caratteristiche più generali quali diffusione, frequenza, modificazioni 
quantitative e qualitative, distribuzione qualitativa in ordine al tipo di reati, qualità e gravità delle 
sanzioni, ecc. 

La   statistica   di   massa   si   limita   in   genere   ad   una   descrizione   fenomenologica   della   condotta 


criminale. Può usufruire di dati, pervenuti dagli organi della magistratura o da quelli della polizia, 
che   possono   essere   considerati   in   funzione   di   numerose   variabili   (sesso,   età,   tipo   di   reato, 
occupazione,  stato civile, razza, religione, ecc.). La statistica criminale può contenere numerose 
cause di errore, sia riguardo la validità dei dati, dovute all'imprecisione o non attendibilità delle 
fonti, sia per ciò che concerne l'interpretazione dei dati, in genere se la tecnica statistica non viene 
correttamente applicata. La principale causa di errore insita nella statistica di massa è legata al fatto 
che i dati ufficiali (reati denunciati alla magistratura, denuncie formulate dagli organi di polizia, 
provvedimenti penali istruiti contro gli autori, statistiche sulle popolazioni nelle carceri, ecc.), non 
possono   ovviamente   tener   conto   della   statistica   occulta,   rappresentata   dai   reati   effettivamente 
commessi   ma   non   scoperti.   Il   numero   oscuro   (dark   number)   indica   quindi   la   differenza   tra   la 
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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criminalità effettivamente presente in un certo contesto sociale, e quella che invece risulta dichiarata 
e   perseguita   dagli   strumenti   costituzionali.   Esso   invalida,   in   modo   più   o   meno   rilevante,   le 
statistiche sulla criminalità. L'indice di occultamento (rapporto tra fra reati noti e quelli commessi) è 
influenzato da innumerevoli fattori, tra i quali: 

∙ Caratteristiche del reato. Alcuni crimini è più difficile che passino inosservati (omicidi), rispetto 
ad altri di cui spesso non se ne ha neppure notizia (truffe). 

∙ Atteggiamento della vittima. Una delle fonti dalla quale emerge la conoscenza dei delitti commessi 
è la denuncia della parte offesa, ma non tutte le vittime (o testimoni) rendono di dominio pubblico il 
danno subito. 

∙ Atteggiamento degli organi istituzionali. Le iniziative di questi ultimi rappresentano un'ulteriore 
fonte  per  l'evidenziazione  dei fatti  delittuosi.  Spesso però queste  indagini  finiscono, per motivi 
contingenti   o   di   scelta,   col   privilegiare   un   settore   o   un   gruppo   sociale   piuttosto   che   un   altro,. 
Significativo a tal proposito è il riferimento alla "delittuosità dei colletti bianchi", caratterizzata da 
un alto indice di occultamento, incrementato in parte dal mancato controllo da parte delle forze 
istituzionali. 

∙   Qualità   dell'autore   del   reato.   Fattori   quali   ceto   sociale,   razza,   stato   civile,   nonché   livello   di 
professionalità del criminale influenzerebbero la scoperta o la denuncia del crimine. In ogni caso 
queste considerazioni dovrebbero far desistere dall'attribuire significato di causalità alle indagini 
statistiche, nonché dall'arbitraria generalizzazione dei risultati. 

In conclusione, il campo della delittuosità reale è molto più ampio di quello che convenzionalmente 
si ritiene: coinvolge larga parte della popolazione e interessa gran parte dei gruppi sociali. 

Per crimine si intende qualunque fatto previsto dalla legge come reato, che si manifesta peraltro con 
modalità   differenti   in   funzione   della   posizione   sociale   e   dei   vari   status.   Mentre   i   delitti   che 
costituiscono la delittuosità convenzionale sono, statisticamente parlando , appannaggio dei gruppi 
sociali più squalificati, gli altri gruppi sociali commettono reati di diversa natura, che sono in genere 
quelli meno perseguiti. Così ad esempio un giovane immigrato manifesterà la sua indifferenza verso 
le norme rubando o rapinando in modo “convenzionale”, mentre il borghese “disonesto” esplicherà 
la propria antinormatività in settori suoi propri, nelle frodi del commercio, nella corruzione, ecc. 

Questi   delitti   “non   convenzionali”   avranno   però   la   caratteristica   di   comparire   nelle   statistiche 
redatte sulla scorta dei soli delitti perseguiti e giudicati, in modo poco rilevante rispetto alla loro 
entità, ingenerandosi perciò la erronea convinzione che i “veri delitti” sono quelli “convenzionali”, 
e che questi ultimi siano molto più diffusi degli altri. 

2. Metodo sperimentale 

Si ricorre al metodo sperimentale per valutare l'utilità di metodi alternativi, in special modo quando 
si tenta di isolare gli effetti di uno o più fattori del comportamento umano. Se condotto in modo 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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corretto, tale metodo può fornire il controllo rigoroso di spiegazioni alternative di effetti osservati. 
Il metodo sperimentale è sovente utilizzato al fine di verificare l'efficacia di un trattamento. Un 
esempio   è   rappresentato   dagli   studi   dell'effetto   della   supervisione   sul   recidivismo   da   parte   di 
criminali   dimessi   da   istituzioni   per   minori.   A   tal   proposito,   alcuni   soggetti   della   popolazione 
oggetto  di  studio sono stati selezionati  a caso ed assegnati alle  diverse condizioni  sperimentali 
secondo una procedura definita "randomizzazione." Tale tecnica, consente di ridurre al minimo la 
probabilità di errore dovuto a differenze individuali, attraverso l'assegnazione dei soggetti a gruppi 
o condizioni sperimentali in modo tale che ognuno abbia la stessa probabilità di venire selezionato 
per ciascuno di essi, eventuali differenze si distribuirebbero a caso. Il comportamento del gruppo di 
controllo (suo eventuale recidivismo), che differisce da quello sperimentale soltanto per la mancata 
somministrazione   della   variabile   sperimentale(supervisione)   diviene   un   metro   di   controllo   per 
valutare gli effetti del trattamento. Il metodo sperimentale è stato utilizzato anche per altri aspetti 
della criminologia, per valutare gli effetti dell'assistenza economica offerta a criminali detenuti in 
carcere, o nello studio sulla efficacia dei vari metodi di controllo di polizia. Alcune critiche rivolte a 
questo metodo, riguardano la sua artificiosità, altre invece si riferiscono ai problemi etici relativi 
alla liceità dell'assegnazione di soggetti ad un gruppo anziché ad un altro. 

3.Metodo dell'inchiesta. 

Il metodo dell'inchiesta utilizza le tecniche dell'intervista o del questionario e permette di rilevare 
opinioni, atteggiamenti, valori, ecc. dei soggetti che fanno parte del gruppo campione della ricerca. 
Spesso l'obiettivo di tale metodo è lo studio della natura e dell'estensione del reato nella società. Il 
ricercatore, rinunciando alla manipolazione delle variabili, come avviene nel metodo sperimentale, 
può   accostarsi   in   modo   più   immediato   a   fenomeni   difficilmente   manipolabili   tramite 
un'apparecchiatura sperimentale. I vantaggi di tale metodo consistono nel poter formulare sia un 
corretto   disegno   sperimentale   sia   un   piano   di   sondaggio   con   finalità   non   dimostrative,   ma 
descrittive. Consente inoltre una maggiore facilità delle operazioni di campionamento, a causa di un 
minor controllo esercitato sulle variabili influenzanti la situazione. In questa sede verranno discusse 
due tecniche di inchiesta, quella cross­sezionale e quella longitudinale. L'inchiesta cross­sezionale è 
quella più diffusamente usata. Fornisce dati circa l'epidemiologia del delitto, ed entro certi limiti, 
sull'eziologia di un comportamento criminale. Essa comprende un campionamento di un insieme di 
individui   o   di gruppi, in modo da poter generalizzare  i risultati  ad una più  ampia  popolazione 
(detenuti dimessi dal carcere, studenti di scuola superiore, ecc.). Il campione è preso in un dato 
momento,  i soggetti vengono intervistati o sottoposti a questionario e i dati vengono analizzati. 
Numerose critiche sono state rivolte a questa tecnica, in particolare risulta difficoltoso isolare gli 
effetti   del   trattamento   o   dei   programmi   di   prevenzione   del   comportamento   criminale.   I   gruppi 
selezionati potrebbero differire tra loro già in precedenza, minando in tal modo la "validità interna" 
della   ricerca.   L'approccio   longitudinale   consiste   nella   misurazione   degli   attributi   e   del 
comportamento della gente durante un dato periodo di tempo. Tale metodo è stato utilizzato per 
studiare la storia e il prevalere della delinquenza a diverse età, per predire il sorgere e il tramontare 
delle carriere devianti, e per analizzare la trasmissione della criminalità da una generazione all'altra. 
Benché le fonti di dati ufficiali o cross­sezionali permettano di fare delle stime sull'incidenza del 
delitto, queste non appaiono così accurate come quelle ottenute con il metodo longitudinale, che 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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segue i soggetti durante un arco di tempo abbastanza ampio. Malgrado gli innumerevoli vantaggi, il 
metodo longitudinale non è certo privo di problemi. Oltre all'alto costo, si aggiunge la "mortalità del 
campione", ossia la perdita dei soggetti nel tempo dovuta a morte, impossibilità di rintracciarli, calo 
nella   motivazione,   ecc.  Altro  inconveniente  è  dovuto  “all’effetto   esame",   cioè  all'influenza   che 
l'intervista iniziale può avere sulle risposte successive. Inoltre, risulta spesso difficile separare gli 
effetti dovuti alla maturazione avvenuta per età da quello che viene chiamato "l'effetto del periodo". 
Per esempio, una diminuzione dell'uso di droga in un campione studiato per cinque anni può essere 
dovuto sia alla maturità causata dall'età, sia alla scarsezza del prodotto sul mercato; è estremamente 
difficile separare questi effetti senza studiare un altro gruppo. Qualora il metodo dell'inchiesta si 
avvali della tecnica dell'intervista, quest'ultima può essere"strutturata", "semi­strutturata" o "non 
­strutturata". Il primo tipo è organizzato secondo una struttura rigida, in cui sono univocamente 
stabiliti sia l'argomento , sia il numero che la collocazione cronologica delle domande. Il secondo 
tipo consente invece una maggiore elasticità nella conduzione dell'intervista, in relazione sia agli 
argomenti,   che   all'interazione   tra   le   persone:   l'intervistatore   deve   rivolgere   un   certo   numero   di 
domande specifiche, potendo poi rivolgerne altre a sua discrezione. Il questionario, viene invece 
utilizzato nel caso in cui s'intende raccogliere dei dati su diverse persone sparse in una vasta area 
territoriale. Di fondamentale importanza è la professionalità dell'intervistatore, che deve conoscere i 
metodi che gli consentono di ridurre al minimo la sua influenza nell'interazione con l'intervistato. 
Tra i fattori di distorsione si registrano tutti gli elementi della comunicazione non verbale, pause 
silenzi, toni della voce, che possono condizionare le risposte dell'esaminato. 

4. Indagini individuali 

I metodi individuali di indagine criminologia consistono nello studio di singoli criminali o di piccoli 
gruppi;   mutuati   dalla   ricerca   psicologica   e   medica,   presuppongono   che   un   ricercatore   possa 
pervenire   ad   una   migliore   conoscenza   di   un   fenomeno   mediante   una   intensa   esplorazione.   Si 
diffondono per reazione allo studio di cause singole e per contro si avvalgono di un approccio 
olistico. Il metodo clinico, possibile approccio allo studio dei casi, viene utilizzato nella diagnosi di 
un problema personale rilevante o anormale e nella messa a punto di un programma di trattamento 
adeguato.   Coniuga   due   aspetti   importanti:   ricerca   e   trattamento,   e   si   sofferma   sui   fattori 
costituzionali,   psicologici   e   sociali   che   caratterizzano   ciascun   delinquente.   Le   correlazioni   fra 
numerose indagini individuali consentono di ricavare tendenze e caratteristiche comuni. Inoltre tali 
investigazioni   hanno   permesso   di   chiarire   fattori   assai   rilevanti   della   condotta   deviante:   fattori 
disturbanti familiari, caratteristiche di personalità, condizioni frustranti, tutti elementi interessanti se 
inseriti in un ottica di causalità circolare. 

Clinici  provenienti  da vari ambiti  vengono spesso interpellati  per formulare valutazioni  circa  il 


possibile futuro comportamento o la eventuale pericolosità sociale di un individuo, valutazioni che 
possono essere usate per incarcerare un reo o limitare in altro modo la libertà. Gli studi dei giudizi 
clinici predittivi di un comportamento futuro hanno evidenziato, che esiste un notevole numero di 
"falsi positivi", cioè predizioni errate. Ciò solleva la spinosa questione dell'equilibrio tra sicurezza 
pubblica e libertà individuale. La critica più aspra rivolta al metodo clinico, è che gli individui o i 
gruppi selezionati per lo studio potrebbero non essere rappresentativi della intera popolazione di 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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quegli individui o di quei gruppi. Oltre al suo impiego clinico in criminologia, l'approccio dello 
studio   dei  casi è stato anche usato nella  forma di "storie  di vita", osservazione  e osservazione 
partecipante.  Il metodo della storia di vita comprende l'analisi di diari, biografie, autobiografie, 
come pure interviste,  al fine di ottenere  una conoscenza profonda di singoli individui  o gruppi 
rappresentativi. Particolare attenzione viene riservata alla storia individuale come raccontata dal 
soggetto,  all'interpretazione che egli ne fornisce, nonché alle sue esperienze e al suo ambiente. 
L'osservazione e l'osservazione partecipante arricchiscono ulteriormente lo studio della vita sociale 
e   della   condotta   deviante,   attraverso   esperienze   dirette   con  il   reato   e   i  criminali.   Di   solito   ciò 
implica il compilare un diario dettagliato, magari comprendente anche un certo numero di interviste 
molto approfondite. Altri ricercatori si avvalgono di registrazioni, fotografie, ecc. Un inconveniente 
del   metodo   dell'osservazione  e  delle   storie  di  vita,  è  rappresentato   dall'estremo   coinvolgimento 
personale richiesto al ricercatore, spesso causa di sgradevoli e dannose conseguenze. Contro tutte 
queste obiezioni si potrebbe ribattere con la considerazione che lo studio dei casi e l'osservazione 
partecipante potrebbero essere utilizzati nella fase preliminare di ogni ricerca, al fine di arricchire 
una teoria e giungere alla formulazione di ipotesi più efficaci e alla costruzione di strumenti più 
appropriati. 

5. Il metodo storico. 

Il metodo storico in criminologia ha molti obiettivi: studiare il cambiamento nella natura e nella 
diffusione del reato nel tempo o in condizioni sociali differenti; rintracciare le fonti sociali del 
cambiamento delle leggi che definiscono la natura del reato; analizzare un evento o un periodo 
storico per il suo interesse intrinseco; isolare una particolare forma di reato o devianza e studiare le 
reazioni ad essa durante uno specifico periodo storico. Tale approccio seppure molto utile, risulta 
spesso di non facile applicazione a causa di limitazioni legate alla parziale o totale indisponibilità 
dei dati presenti negli archivi. Inoltre un altro inconveniente, comune allo studio dei casi, scaturisce 
dalla difficoltà della scelta di un caso rappresentativo. 

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO 

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psicosociali e criminologici dei giovani adulti, UNICOPLI, Milano, 1992. 

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radici, le fonti, gli obiettivi e lo sviluppo della criminologia, Giuffrè, Milano, 1987. 

MC BURNEY D.H., Metodologia della ricerca in psicologia, Il Mulino, Bologna, 1986. 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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UNICOPLI, Milano, 1982. 

PEDON A., Metodologia per le scienze del comportamento, Il Mulino, Bologna, 1995. 

PONTI G., Compendio di criminologia, Raffaello Cortina, Milano, 1990. 

ROBERT B.M., La ricerca scientifica in psicologia, Laterza, Roma­Bari, 1990. 

ROSSI J.P., Il metodo sperimentale in psicologia, Borla, Roma, 1994. 

IL COLLOQUIO CRIMINOLOGICO 

Il   “colloquio”   rappresenta   lo   strumento   di   intervento   principale   del   criminologo   impegnato 


professionalmente nel contesto penitenziario e, più in generale, il momento in cui maggiormente si 
concretizza l’applicazione del sapere criminologico nell’ambito del sistema della giustizia penale. 

In questo settore, infatti, il criminologo può essere chiamato ad operare professionalmente, secondo 
la normativa attuale, in tre distinti momenti[1]: 

a.   Prima   della   sentenza,   in   fase   processuale:   in   questa   fase   l’intervento   professionale   del 
criminologo   è   piuttosto   limitato;   infatti   non   sono   ritenuti   ammissibili   accertamenti   peritali   su 
soggetti   sottoposti  a giudizio  al  fine  di conoscere  “l’abitualità  e la professionalità  nel reato,   la 
tendenza a delinquere, il carattere o la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche 
indipendenti   da   cause   patologiche”(art   220   c.p.p.)   poiché   la   valutazione   della   personalità 
dell’imputato rimane competenza esclusiva del giudice. D’altra parte è previsto (art.223 c.p.p.) che 
vengano   ammesse,   sotto   forma   di   “pareri   delle   parti”,   perizie   sulla   personalità   dell’imputato 
effettuate da consulenti tecnici (tra i quali il criminologo) che il Pubblico Ministero o le parti private 
hanno la facoltà di nominare  

b. In fase di esecuzione della pena: il criminologo, in qualità di “esperto”, ha il compito di effettuare 
“l’osservazione scientifica della personalità del condannato”, così come previsto dall’ordinamento 
penitenziario,   attività   considerata   fondamentale   per   formulare   il   programma   di   trattamento 
individualizzato, intramurario ed extramurario. 

c. Durante la detenzione: il criminologo offre una serie di interventi trattamentali risocializzativi al 
condannato qualora questi ne avverta la necessità e ne faccia richiesta (colloqui di sostegno, di aiuto 
psicologico,group counseling, ecc) 

In pratica l’attività del criminologo clinico consiste, secondo Merzagora[2], in: 

a. attività di osservazione, valutazione e prognosi, su mandato dell’autorità carceraria o giudiziaria 
(ruolo tecnico istituzionale); 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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b.   interventi   sul   reo,   in   seguito   a   sua   richiesta,   per   soddisfare   bisogni   di   aiuto   psicologico,   di 
chiarificazione interiore, di programmazione o di revisione dei progetti di vita, di consiglio ed anche 
per   effettuare   attività   programmate   nell’ambito   dell’istituzione   carceraria   per   finalità   educative 
collettive, discussioni o dibattiti (ruolo terapeutico o trattamentale). 

In tutti i casi descritti, il colloquio rappresenta lo strumento principale di lavoro del criminologo. 
Per lo specifico contesto in cui viene realizzato e per il peculiare “mandato” che lo giustifica, il 
colloquio criminologico si caratterizza in maniera particolare rispetto ad altre forme di colloquio 
(clinico­diagnostico, terapeutico, di orientamento, ecc). 

Definizione ed obiettivi del colloquio criminologico 

Un colloquio,  inteso in termini generici come “una conversazione importante, che mira ad uno 
scopo determinato, oltre che al semplice piacere della conversazione”[3], può essere definito in base 
a: 

1.     il contesto in cui si verifica 

2.     gli obiettivi che lo guidano 

3.     le caratteristiche delle persone che vi partecipano 

Seguendo   questi   criteri   possiamo   definire   il   colloquio   criminologico   come   “una   tecnica   di 
comunicazione, che si svolge in una situazione istituzionale, che ha come antecedente il fatto che 
l’intervistato abbia commesso un reato, e che ha come scopo quello di fornire, ad altri che hanno su 
di lui autorità, informazioni sulla sua personalità in relazione alla genesi e alla dinamica del reato, 
alle   indicazioni   per   il   suo   trattamento,   ed   alla   previsione   del   comportamento   futuro.”[4]   Più 
precisamente con questa definizione ci riferiamo al colloquio che il criminologo svolge più nella 
sua   veste   tecnica–istituzionale   che   in   quella   più   specificamente   terapeutica   trattamentale. 
Osserviamo come il contesto istituzionale, giuridico e ancor più quello penitenziaro, connotano di 
specificità il colloquio criminologico, stabilendone la natura e gli obiettivi. In primo luogo definisce 
i partecipanti, in particolar modo l’intervistato che è un soggetto che ha commesso un reato e che si 
trova in una condizione di restrizione e limitazione della libertà personale. In questo senso differisce 
dal cliente o paziente comunemente inteso che si rivolge volontariamente all’esperto per chiarirsi 
e/o modificare una condizione di vita vissuta come problematica; nel caso del detenuto, non è il 
soggetto   a   richiedere   il   colloquio   del   criminologo   (ad   eccezione   dei   casi   in   cui   il   condannato 
richieda   un   intervento   terapeutico   o   di   sostegno)   ma   questo   avviene   su   formale   richiesta 
dell’autorità giudiziaria o penitenziaria; il contesto quindi determina l’accesso al colloquio da parte 
dell’intervistato, prescindendo dalla sua volontarietà, spontaneità e motivazione che rappresentano 
il presupposto per molte altre forme di colloquio. Inoltre il colloquio criminologico non implicando 
una “domanda” da parte di chi vi si sottopone, non presuppone nemmeno che questi si trovi in una 
condizione di disagio o di sofferenza da cui voglia liberarsi, come ad esempio più comunemente 
avviene per un “paziente” in un colloquio clinico. Appare evidente quindi che la natura istituzionale 
del mandato  determina anche gli obiettivi del colloquio criminologico che non presenta finalità 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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terapeutiche ma valutative. Secondo quanto previsto dall’ordinamento penitenziario del ’75, infatti, 
il colloquio (per il cui svolgimento l’art.80 prevede l’utilizzo di esperti tra i quali il criminologo 
clinico) di fatto viene utilizzato per l’osservazione scientifica della personalità dei condannati ed 
internati, al fine di formulare le indicazioni in merito al trattamento rieducativo (art. 13, comma 2, 
o.p.).  L’  art  1 della legge n.354 del 26 Luglio 1975 infatti  oltre a stabilire che “il trattamento 
penitenziario   deve   essere   conforme   ad   umanità   e   deve   assicurare   il   rispetto   della   dignità   della 
persona”, specifica anche che “nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un 
trattamento   rieducativo  che  tenda,   attraverso  i  contatti   con l’ambiente   esterno,  al  reinserimento 
sociale   degli   stessi”.   Tale   trattamento,   sempre   secondo   questo   articolo   “va   attuato   secondo   un 
criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti”. A tale scopo il 
succitato art. 13 prevede che si compia una “osservazione scientifica della personalità diretta ad 
accertare i bisogni di ciascun soggetto” e “rilevare eventuali carenze fisio­psichico­affettive e le 
altre   cause   del   disadattamento   sociale”.   Risulta   evidente   che   l’obbiettivo   del   colloquio 
criminologico nelle istituzioni carcerarie è fondamentalmente quello di studiare la personalità del 
detenuto e di fornirne tramite l’osservazione scientifica, una “valutazione” sia in senso diagnostico 
(riguardante   la   criminogenesi   e   la   criminodinamica)   che   prognostico   (come   previsione   del 
comportamento futuro) che guidi l’individuazione di un trattamento rieducativo personalizzato del 
carcerato. Il colloquio criminologico quindi, come lo definisce il Ponti[5] (1990, pag464) consiste 
nella “relazione che si instaura nel corso di dialoghi col fine preciso di consentire all’esperto di 
approfondire la conoscenza del condannato su cui deve esprimere un ‘opinione”. Questa opinione, 
(la valutazione del criminologo), viene utilizzata come abbiamo detto, sia (più limitatamente) nel 
campo della fase processuale e in quello delle perizie sul condannato, che in quello più ampio della 
esecuzione penale[6]; in questo caso la valutazione prodotta dai colloqui servirà per formulare il 
“programma   di   trattamento”   individualizzato   oppure   per   fornire   informazioni   su   richiesta   della 
magistratura di sorveglianza in merito alle proprie competenze e decisioni.[7] La magistratura di 
sorveglianza infatti utilizzerà gli esiti di tale osservazione per stabilire: 

a.     “le modalità di esecuzione della pena 

b.     la concessione o meno delle misure alternative e degli altri benefici previsti dall’ordinamento 
penitenziario 

c.     la revoca, commutazione o conferma delle misure di sicurezza”.[8](Ponti, 1990, pag 461). 

Il criminologo, attraverso lo strumento del colloquio, è tenuto a fornire al proprio committente un 
profilo   di   personalità,   del   condannato   e   dell’internato,   in   una   prospettiva   non   tanto   o   solo 
psicologica ma, più specificamente, criminologica. Infatti dovrà essere dato rilievo all’analisi ai 
seguenti aspetti: 

1.       la “criminogenesi” (cioè dovranno essere indagati gli aspetti individuali e sociali che hanno 
contribuito alla scelta delittuosa) 

2.     la  “criminodinamica” (i meccanismi interiori che hanno condotto all’azione delittuosa) 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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3.       la  “pericolosità  sociale”  (previsione   del  comportamento  futuro  in  termini   di  probabilità   di 
recidiva) 

I primi due punti costituiscono la parte “diagnostica” del colloquio; secondo il Ponti[9] in questa 
fase il criminologo deve indagare sui “fattori che, in quel dato soggetto, hanno giocato un ruolo 
nella genesi del singolo reato, ovvero nell’articolarsi  di una carriera  criminale”.  La valutazione 
criminogenetica   deve   quindi   fornire   una   lettura   del   “perché”   è   avvenuto   un   dato   delitto,   cioè 
comprendere   quale   sono   le   interrelazioni   tra   i   vari   fattori   (individuali,   esperienziali,   socio­
ambientali   e   situazionali)   che   hanno   contribuito   al   compimento   del   crimine   osservato.   La 
comprensione della criminodinamica invece illustrerà “come” è stato compiuto il reato, intendendo 
con questo non la modalità concreta di realizzazione ma il processo psicologico e motivazionale che 
ha condotto al compimento di un progetto criminoso. Il terzo punto consiste nella parte prognostica 
della valutazione, che esprime una previsione del comportamento futuro del soggetto. La finalità 
prettamente   valutativa   del   colloquio   e   il   tipo   di   committenza   (i   giudici   e   l’amministrazione 
penitenziaria)   sono   aspetti   che   ovviamente   incidono   sull’atteggiamento   sia   dell’esperto   che   del 
soggetto che vi si sottopone; l’esito dell’osservazione infatti, come abbiamo visto, contribuirà a 
stabilire le decisioni della magistratura di sorveglianza e in definitiva la condizione penitenziaria del 
detenuto. L’intervento del criminologo è motivato, accanto all’interesse per il soggetto esaminato, 
fondamentalmente da un’esigenza di difesa sociale che non va sottovalutata quando si considerino il 
tipo di relazione che può instaurarsi tra i due e la tecnica del colloquio realizzabile. Il criminologo, 
soprattutto,   deve   essere   consapevole   della   natura   e   delle   implicazioni   del   proprio   mandato,   in 
relazione sia al proprio atteggiamento che a quello del proprio intervistato. 

Contenuti ed aspetti tecnici del colloquio criminologico 

Definire gli spazi e i tempi in cui possono svolgersi gli incontri tra esperto e intervistato è molto 
importante a prescindere del tipo di colloquio considerato. Purtroppo il criminologo che opera in 
ambito penitenziario possiede ridotte possibilità di definire, nel modo in cui ritiene più opportuno, il 
“setting” ambientale che faccia da cornice ai propri colloqui. La maggior parte di questi infatti si 
svolge   comunemente   nel   carcere   o   al   massimo   negli   ospedali   dove   è   obiettivamente   difficile 
garantire   le   esigenze   di   riservatezza   e   l’assenza   di   disturbi   e   interruzioni   che   normalmente   un 
colloquio richiede. Quanto al numero di incontri con il detenuto e alla durata dei singoli colloqui, 
ciò dipenderà dalle specifiche esigenze del criminologo relative al singolo caso affrontato; a tal 
proposito   Nivoli [10] afferma:  “Un solo  colloquio  non  è, sempre  e di necessità,  sufficiente   ad 
elaborare una diagnosi corretta e documentata sull’intervistato. In molti casi è auspicabile, se non 
necessario, che il contatto con il deviante sia protratto nel tempo. Il fatto di frequentare il deviante 
attraverso ripetuti colloqui permette al criminologo di raggiungere alcuni specifici obiettivi: raccolta 
più completa dei dati, riduzione dello stato ansioso dell’intervistatore, rilievo di elementi non solo 
statici, ma altresì dinamici nella formulazione della diagnosi del soggetto.” Un altro aspetto tecnico 
del colloquio da prendere in considerazione è rappresentato dalla necessità di “fissare” quanto viene 
detto durante l’interazione tra esperto e condannato, al fine e di non perdere informazioni importanti 
e di poterle poi utilizzare; ovviamente si tratta di raccogliere informazioni che attengono sia alla 
comunicazione   verbale   sia  non  verbale,   per  questo  una   registrazione  su  nastro  oppure   l’uso   di 

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appunti scritti sono entrambe modalità, a dire il vero, non ottimali in quanto possono inibire la 
naturalezza dell’intervistato e non cogliere adeguatamente i messaggi comunicativi del “corpo” che 
invece   raggiungono   naturalmente   l’osservatore.   Merzagora[11]   propone,   accanto   all’ipotesi   di 
utilizzare la telecamera (alternativa che però riproporrebbe questioni non semplici di rispetto della 
privacy), di adottare caso per caso la soluzione più adeguata, a seconda delle necessità presentate. 
Quest’ultima considerazione ci introduce al tema della riservatezza cui è tenuto il criminologo nel 
trattare le informazioni ricavate durante il colloquio. La situazione è resa più complessa che in altre 
situazioni   che   implicano   il   segreto   professionale,   in   quanto   il   ruolo   del   criminologo   risulta 
apparentemente più ambiguo: non è un giudice, ma ha un mandato dell’istituzione giudiziaria o 
penitenziaria e non è in veste di terapeuta. Per Nivoli [12]: “è norma che il criminologo mantenga il 
segreto su quanto potrebbe essere di danno all’intervistato.” Ma al fine di evitare “manipolazioni” 
del segreto professionale, lo stesso Autore ricorda di: 

o     “non richiedere o accettare informazioni confidenziali che non sono utili ai fini del colloquio” 

o         “specificare sin dall’inizio del dialogo che non si è obbligati al segreto professionale (ed 
assicurasi che l’intervistato abbia compreso)” 

o         “portare lo stesso intervistato e di sua volontà e dopo discussione, a “rompere” il segreto 
professionale con confessioni o dichiarazioni che compie personalmente (non accettare deleghe o 
“permessi a parlare” concessi dall’intervistato)” 

o     “ricordarsi che la trasmissione giustificata di notizie ricevute non costituisce violazione della 
norma deontologica del segreto professionale” 

E’ indispensabile, in tal senso, che il criminologo chiarisca bene e preventivamente all’intervistato, 
la natura del suo ruolo, i motivi e gli scopi del colloquio intrapreso e l’utilizzo della valutazione che 
ne scaturirà. 

Le fasi del colloquio 

Possiamo descrivere lo svolgimento del colloquio criminologico, distinguendo alcuni momenti: 

1.     fase preliminare di presentazione 

2.     la raccolta dei dati biografici di vita 

3.     l’approfondimento del reato, la situazione giudiziaria e carceraria. 

4.     l’approfondimento prognostico 

5.     la fase conclusiva del colloquio 

1. Secondo Nivoli[13] “l’incontro inizia con la presentazione (presa di coscienza di essere atteso, di 
trovarsi nel luogo stabilito e con la persona richiesta); prosegue con l’accoglienza formale (mettere 
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a   suo   agio   l’interlucotore   nel   territorio   a   lui   estraneo:   indicare   con   chiarezza   ove   può   sedersi, 
deporre effetti personali, ecc.) e termina con l’invito a parlare”, a raccontarsi. Noventa[14]specifica 
che   in   questa   prima   fase   è   anche   necessario   fare   chiarezza   con   l’intervistato   sugli   scopi 
dell’incontro   e sull’uso che verrà fatto delle  informazioni  ottenute,  in modo da far emergere   e 
modificare in senso più realistico e corretto le aspettative che il colloquio ha potuto suscitare nel 
condannato.   Questi,   infatti,   deve   avere,   assieme   al   criminologo,   consapevolezza   di   ciò   che   si 
accinge a fare; dei ruoli reciproci e dei contenuti su cui verterà il colloquio e degli ambiti che invece 
non andranno trattati.[15] 

2. L’indagine dei dati biografici è essenziale ai fini di una adeguata valutazione del soggetto ma è 
anche   un’ottima   occasione   per   intraprendere   l’interazione   conoscitiva   senza   suscitare   troppi 
imbarazzi ed ansie nell’intervistato, affrontando immediatamente il tema del reato commesso.[16] 
Si  tratta   dei  contenuti  del colloquio  dotati  di maggiore  oggettività,  anche se l’osservazione   dei 
messaggi   comunicativi   paralinguistici   possono,   anche   in   questo   caso,   trasmetterci   molte 
informazioni aggiuntive ai semplici dati di fatto. A tale proposito Nivoli[17] precisa che “..nel corso 
del colloquio l’esame del deviante può svolgersi ai seguenti livelli: 

­     ciò che il soggetto “dice” (modalità di razionalizzare, ecc) 

­     ciò che il soggetto ha fatto(dati obbiettivi anamnestici, ecc.) 

­     ciò che il soggetto sta facendo (linguaggio gestuale, ecc) 

­     ciò che il soggetto prova affettivamente (amore, odio, ecc.) 

­     la obbiettivazione del soggetto su un continuum (somministrazione di test, ecc) 

­     la classificazione qualitativa del soggetto (specifiche dinamiche delittuose o vittimologiche)” 

Secondo   Merzagora[18]   andrebbero   raccolti,   in   linea   generale   in   questa   fase,   i   seguenti   dati 
anamnestici del condannato:

∙ data e luogo di nascita; 

∙ parto e svezzamento; 

∙ normalità, precocità o ritardo nello sviluppo, prime fasi di vita fisiologica (linguaggio, cammino); 

 ∙ Notizie sulla famiglia di origine: livello di istruzione, situazione economica e sociale, occupazioni 
e interessi, esistenza o meno di precedenti delinquenziali fra i familiari o di altra patologia del 
comportamento; 

 ∙   Composizione   della   famiglia:   esistenza   di   fratelli,   età   e   caratteristiche,   rapporto   con   loro, 
risentimenti e conflitti, senso di superiorità o inferiorità, ammirazione e identificazione. 

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 ∙ Atmosfera familiare: ricordi sui genitori nei primi anni di vita, i rapporti dei genitori fra loro e dei 
genitori con il soggetto, attaccamento alla famiglia, preferenza per un genitore o per un altro , 
giudizio sui genitori, disciplina familiare , la famiglia come fonte di conforto e di sicurezza; 

  ∙ Atteggiamento nei giochi e con gli altri bambini (cooperativo, aggressivo, importuno, timido, 
passivo, ecc.) 

 ∙   Carriera   scolastica:   età   di   inizio   e   fine   della   scuola,   motivi   dell’eventuale   interruzione   della 
carriera scolastica, titolo di studio conseguito, classi ripetute, rapporti con i compagni e con gli 
insegnanti, atteggiamento nei confronti dello studio; 

 ∙ Atteggiamento verso il gruppo dei pari, figure di identificazione; 

 ∙ Ambizioni ed ideali adolescenziali e giovanili; 

 ∙  Il servizio di leva: disciplina, frustrazioni, ecc.; 

 ∙ Esperienze sentimentali e sessuali, legami affettivi, matrimonio, atmosfera coniugale, difficoltà, 
accordo o disaccordo, separazioni o divorzi; 

 ∙ I figli e i rapporti con loro; 

 ∙ Malattie, infortuni, precedenti psicopatologici, loro importanza nella vita di relazione e lavorativa; 

 ∙ Carriera lavorativa, costanza o meno nel lavoro, interessi extraprofessionali; 

 ∙ Uso di alcol o di droghe; 

 ∙ Difficoltà di adattamento; 

 ∙ Scopi e aspirazioni per il futuro, ideali sociali e personali. 

Questa ricostruzione della storia di vita del soggetto dovrà essere fatta ovviamente tenendo conto di 
una   prospettiva   criminologica,   che   evidenzi,   nel   corso   dell’arco   di   tempo   considerato,   i   fattori 
personali e sociali che possano risultare maggiormente significativi in prospettiva del delitto o dei 
delitti commessi. 

3. In seguito a questa prima raccolta di informazioni, può essere affrontato l’argomento “reato”. A 
volte è lo stesso detenuto che desidera parlarne per potersi dichiarare innocente, espiare i propri 
sensi   di   colpa   o   lamentarsi   della   situazione   in   cui   si   trova[19].   Proprio   per   impedire   facili 
strumentalizzazioni, è opportuno che il criminologo sia a conoscenza di tutte le informazioni che 
riguardino la condizione giudiziaria attuale e precedente del soggetto esaminato. Al momento del 
colloquio per Merzagora[20] andranno conosciute o investigate le seguenti aree: 

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 Ø Il reato: il tipo di reato; il luogo e il tempo di esecuzione, l’età del reo, la presenza di  eventuali 
complici; la dinamica del reato e le eventuali circostanze aggravanti 

 Ø La vittima: le caratteristiche della vittima e l’eventuale rapporto con il reo 

 Ø Il reo: 

 a) la sentenza o le sentenze che lo riguardano; i sui precedenti e le tappe della eventuale carriera 
criminale 

 b)  la condizione mentale del soggetto al momento del delitto; le valutazioni etiche nei confronti 
del reato   commesso e le reazioni del suo ambiente familiare e sociale;  il suo atteggiamento   al 
momento dell’arresto, del processo e della carcerazione; 

c) il comportamento in carcere e l’atteggiamento nei confronti dell’istituzione carceraria e verso al 
detenzione, i rapporti con gli altri carcerati e con gli agenti di custodia; 

d) Le prospettive del reo: progetti, prospettive e problemi legati al ritorno in libertà, al termine del 
periodo di detenzione 

Tutti questi elementi dovrebbero aiutare l’intervistatore a formulare una ipotesi criminogenetica e 
criminodinamica   del   caso   esaminato   e   quindi   portare   a   comprendere   globalmente   i   motivi   che 
hanno condotto al delitto (in che modo hanno contribuito al delitto); a tal fine Bisio[21] suggerisce 
di: 

a) indagare come il soggetto ha ceduto all’azione dei motivi che su di lui hanno agito; 

b)   determinare   perché   non   lo   hanno   inibito   altri   motivi   (sociali,   individuali,   morali,   religiosi, 
giuridici, ecc.); 

c) ricercare come il soggetto è arrivato a concepire, e sotto quale aspetto, l’azione antisociale, dalla 
quale si è ripromesso la soddisfazione di un interesse; 

d) conoscere come è stata la preparazione e l’esecuzione del reato. 

4. A queste fasi più conoscitive e diagnostiche, segue una fase di approfondimento prognostico 
consistente in una valutazione “predittiva” del comportamento del reo in vista dell’ottenimento o 
rifiuto di una misura premiale, di una misura alternativa o sostitutiva della pena. Il criminologo in 
pratica è tenuto ad esprimere il proprio parere sulla “pericolosità” del detenuto, quindi a valutare “la 
probabilità che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati”(art 203 c.p.). Una previsione 
della recidiva può essere eseguita, concretamente, tenendo conto di alcuni parametri (condizioni 
della   persona,   dell’ambiente,   meccanismi   psicosociali),   che   l’esperienza   diretta   e   la   ricerca 
criminologica, hanno individuato in alta concentrazione in casi di comportamenti delittuosi reiterati. 
Si   tratta   quindi   di   una   valutazione   di   tipo   probabilistico   che   ha   il   limite   di   non   considerare 
l’eventualità, sempre possibile, che, ricorda il Ponti[22]: “il soggetto esaminato modifichi la propria 
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condotta,   nel   bene   e   nel   male,   per   le   più   svariate   e   imprevedibili   ragioni,   anche   quando   la 
concentrazione di fattori che favoriscono la recidiva è particolarmente elevata, o quando all’opposto 
i dati parrebbero più favorevoli”. Lo stesso autore[23] descrive i principali indici di predizione 
negativa   utilizzabili   al   fine   di   elaborare   un   giudizio   prognostico   “integrato”.   Alcuni   di   essi 
riguardano la persona del reo, altri la sua famiglia e alla carriera criminale. Della persona possono 
avere   significato   sfavorevole:   “la   bassa   intelligenza,   i   disturbi   della   personalità,   la 
tossicodipendenza e l’alcolismo, le irregolarità e l’incostanza della carriera scolastica, le sfavorevoli 
condizioni   socioeconomiche,   gli   ideali   antisociali   di   vita,   la   precocità   del   disadattamento, 
l’inserimento   in   sottoculture   delinquenziali,   l’ambiente   frequentato,   certa   tipologia   di   reati,   la 
concreta assenza di possibilità di inserimento, lavorativo e ancora altri mille fattori.” Rispetto alla 
famiglia, che rappresenta un elemento di prima importanza nella possibilità di recidiva dei giovani 
devianti, risulterà sfavorevole l’appartenenza ad una famiglia con un elevato grado di disgregazione 
e caratterizzate da carenze affettive educative o esse stesse da connotazioni antisociali. Altri indici 
prognostici negativi possono essere rintracciati nella carriera criminosa del reo, e in particolare, per 
Ponti[24]: “l’inizio precoce dell’attività delittuosa, la frequenza e il numero delle recidive, la brevità 
dell’intervallo di libertà fra successive condanne, l’omogeneità dell’indole dei precedenti reati.” 

5.  Il  congedo con l’intervistato,  oltre a rappresentare un’occasione per “rimandare” al detenuto 


qualcosa di costruttivo al fine di un migliore adattamento carcerario (Merzagora, 1987, pag 119), 
deve essere anche considerato con attenzione dal criminologo se non vuole incorrere in una serie di 
errori di valutazione che attengono proprio alla fase finale del colloquio stesso. Il Chiari [25]ce ne 
descrive alcuni: 

§ L’errore sistematico: la tendenza a sopravvalutare in rapporto al proprio atteggiamento mentale 
(ad esempio l’ottimista può essere portato ad esprimere giudizi più benevoli) 

§ L’errore di tendenza centrale: per cui l’esperto può assumere una posizione di neutralità per la 
mancanza effettiva di un giudizio negativo o positivo netto. 

§ L’errore di “effetto alone”, cioè la tendenza a giudicare alcune qualità condizionati dal giudizio su 
altre qualità presenti 

§ Errore di “contrasto”, cioè la tendenza a giudicare gli altri in opposizione al proprio modo di 
essere (ad esempio l’ingenuo tenderà a giudicare l’altro come astuto) 

§ L’errore di “proiezione”, cioè la tendenza a trasferire sull’altro caratteristiche proprie. 

Altri aspetti del colloquio criminologico: l’atteggiamento dell’intervistato e l’atteggiamento 
del criminologo 

Il criminologo deve essere consapevole del fatto che l’intervistato, data la peculiare situazione in 
cui si svolge il colloquio, può mostrare un atteggiamento, un modo di porsi e  mettere in atto delle 
strategie comunicative e relazionali, che potrebbero condizionare l’andamento del colloquio se non 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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fossero riconosciute e gestite dall’intervistatore. Nivoli[26] ha descritto una serie di atteggiamenti 
che il detenuto sottoposto a colloquio criminologo può assumere: 

Ø Lo “sfruttamento”: il reo tenta di manipolare la situazione e il ruolo del criminologo per ottenere 
benefici immediati. Quando verifica che non gli riesce, può mostrare disinteresse od ostilità verso 
l’esperto. 

Ø La “rivendicazione”: il reo riversa sull’intervistatore le lamentele, i disagi e le proteste legate alla 
sua condizione, senza tener conto delle esigenze del colloquio e del ruolo del criminologo in quella 
circostanza 

Ø   L’   “intimidazione”:   il   reo   si   pone   in   contrapposizione   all’intervistato   e   considera   la 


collaborazione al colloquio come un compromesso inaccettabile. 

Ø Il ruolo accomodante: al contrario il soggetto in questi caso si dimostra disponibile e zelante, ma 
solo ad un livello apparente e strumentale 

Ø La “dispersione”, atteggiamento in cui il soggetto utilizza l’estrema loquacità per eludere temi 
più coinvolgenti 

Ø   L’“indifferenza”:   viene   ostentato   distacco   e   disinteresse   per   il   colloquio   (atteggiamento 


soprattutto presente in soggetti appartenenti ad organizzazioni criminali) 

Ø   La   “catarsi”,   al   contrario   è   l’atteggiamento   di   quel   detenuto   che   si   lascia   andare   ad   una 


partecipazione   eccessiva,   particolarmente   emotiva,   al   colloquio   e   alla   trattazione   delle   proprie 
vicende e sentimenti personali 

Ø L’“identificazione all’ideale di sé”: l’intervistato in pratica non racconta di sé come è realmente 
ma di come vorrebbe essere idealmente. 

Ø L’“inversione di ruolo”: il soggetto cerca di ottenere il controllo sul colloquio assumendo il ruolo 
dell’intervistatore (sceglie i temi da affrontare, fa domande sul criminologo, ecc.) 

Ø La “drammatizzazione”: il soggetto tende ad assumere atteggiamenti da vittima, amplificando in 
modo eccessivo i propri problemi per ottenere maggiore attenzione e indulgenza 

Ø   La   “seduzione”:   è   il   tentativo   di   controllare   e   manipolare   l’esperto   attraverso   atteggiamenti 


compiacenti, miranti ad attrarre il suo interesse al di là dello scopo precipuo del colloquio 

Ø   La   “provocazione   dialettica”:   il   soggetto   si   pone   in   una   situazione   di   competizione   con 


l’intervistatore, attraverso il sarcasmo o la critica, la messa alla prova della sua competenza, ecc. 

Ø   Il   “patteggiamento”:   in   questo   caso   il   soggetto   si   mostra   collaborativo   per   fini   utilitaristici, 


ritenendo che ciò che offre all’esperto gli permetterà di richiedere qualcosa come contropartita. 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Altre   condotte   particolari   del   detenuto   quali   la   simulazione   o   il   silenzio   possono   mettere   in 
difficoltà il criminologo meno esperto. Occorrerà in questi casi stabilire per prima cosa se si tratta di 
silenzio o simulazione dovuti a una condizione psicopatologia (esacerbata anche dalla deprivazione 
relativa indotta dalla prigionizzazione) o una comprensibile forma di riservatezza o imbarazzo, o se 
invece   si   tratta   di   un   atteggiamento   voluto,   provocatorio   e   di   opposizione.   Ad   ogni   modo   il 
criminologo   dovrebbe   poter   controllare   reazioni   troppo   immediate   e   spiegare   al   soggetto   con 
chiarezza e decisione che la menzogna o il silenzio non possono apportare nessun giovamento alla 
sua   condizione   e  che   “   il   ruolo   dell’intervistatore   è    sì  valutativo   ma   non  inquisitorio”.[27]   Il 
criminologo, d’altra parte deve essere consapevole che anche l’atteggiamento da lui assunto può 
incidere   in   maniera   determinate   sullo   svolgimento   del   colloquio   e   sul   comportamento 
dell’intervistato.   In   primo   luogo   il   criminologo   deve   porsi   in   un   atteggiamento   di   rispetto   nei 
confronti del proprio interlocutore, chiarendo e attenendosi in modo corretto al proprio ruolo e alla 
propria   funzione;   evitando   interventi   troppo   invadenti,   un   atteggiamento   ironico   o   moralistico. 
Inoltre dovrà saper gestire la propria emotività (non negandola ma riconoscendola e utilizzandola in 
modo proficuo), regolare la comunicazione in base alle caratteristiche culturali e linguistiche del 
soggetto, non forzare le risposte mediante un atteggiamento direttivo o allusivo; non suscitare nel 
detenuto   una   aspettativa   di   “complicità”   che   necessariamente   non   potrà   essere   soddisfatta, 
favorendo l’elaborazione delle fantasie e delle false aspettative che il colloquio comporta. 

BIBLIOGRAFIA 

Ponti G., “Compendio di criminologia”, Cortina Editore, Milano, 1990 

Merzagora I. ,“Il colloquio criminologico”, Unicopli, Milano, 1987 

Nivoli G. C., “Il colloquio criminologico”, in Trentini G., (a cura di), Manuale del colloquio e 
dell’intervista, Mondadori, Milano, 1980 

Noventa A., “L’intervista e le storie di vita nell’analisi sociologica”, Unicopli, Milano, 1982 

Bisio B., “Psicologia criminale”, Bulzoni, Roma, 1975 

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[1] Ponti G. , “Compendio di criminologia”, Cortina Editore, Milano, 1990, pag:458,459 

[2] Merzagora I. , “Il colloquio criminologico”, Unicopli, Milano, 1987, pag 18 

[3] Bingham e Moore, cit. in Merzagora, I., “Il colloquio criminologico”, Unicopli, Milano,1987, 
pag 27 

[4] Merzagora I., 1987, Op. cit, pag28 

[5] Ponti G. , 1990, Op. cit. pag 464 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
56

[6]  Ponti G. , 1990, Op cit, pag 463 

[7] Ibidem 

[8]  Ibidem pag 461 

[9] Ibidem, pag 464 

[10] Nivoli G. C., “Il colloquio criminologico”, in  Trentini G., (a cura di), Manuale del colloquio e 
dell’intervista, Modadori, Milano,  1980, pag 10 

[11] Merzagora I., 1987, Op. cit, pag.83 

[12] Nivoli G. C., 1980, Op. cit. pag 11­12 

[13] Ibidem, pag 4 

[14] Noventa A., “L’intervista e le storie di vita nell’analisi sociologica”, Unicopli, Milano, 1982 

[15] Merzagora I., 1987Op. cit., pag 82 

[16] Merzagora I., 1987Op. cit., pag 85 

[17] Nivoli G. C., 1980, Op. cit., pag27 

[18] Merzagora I., 1987, Op. cit., pag.86­87 

[19] Merzagora I., 1987, Op. cit., pag 89 

[20] Ibidem, pag 90 

[21] Bisio B., “Psicologia criminale”, Bulzoni, Roma, 1975, pag. 487 

[22] Ponti G., 1990, Op. cit, pag. 470 

[23] Ibidem, pag.471 

[24] Ibidem, pag. 471 

[25] Cit. in  Merzagora, !987, op. cit, pag. 120 

[26] Nivoli G.C., 1980, Op. cit. 

[27] Merzagora I., 1987,Op. cit., pag. 74 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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LA PERIZIA 

  Secondo l’art. 220 del nuovo codice di procedura penale : “la perizia è disposta quando occorre 
svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono competenze tecniche, scientifiche o 
artistiche”. La perizia appartiene dunque alla fase processuale della formazione della prova, che è 
un   momento   cardine   del   processo   e   consiste   in   una   dichiarazione   tecnica,   specialistica   su   un 
elemento di prova, rese a seguito di uno specifico incarico, affidato ad una o più persone competenti 
in determinate scienze o settori. Dal fatto che è un mezzo di prova discende l’indicazione che essa 
non deve consistere in ipotesi, opinioni od intuizioni, ma fornire concrete ragioni, convincimenti e 
giudizi che siano idonei a far comprendere ad altri, non esperti della specifica materia, in modo 
coerentemente razionale, logico e dimostrativo il perché di quel giudizio. Tutto questo comporta 
che le ragioni del giudizio non possono e non debbono essere speculazioni astratte, bensì dati di 
fatto   e   constatazioni   che   per   la   loro   concretezza   costituiscono   una   prova   non   confutabile   del 
giudizio stesso. Occorre inizialmente chiarire la questione terminologica : con i termini “consulenza 
tecnica” e “perizia” ci si riferisce, rispettivamente a istituti del processo civile e del processo penale, 
anche se la loro funzione è, nella sostanza, identica, entrambe consistono infatti in pareri tecnici 
offerti da esperti in particolari discipline. Il termine “consulenza tecnica di parte” è invece usato 
indifferentemente   sia   nel   procedimento   civile   che   in   quello   penale,   per   indicare   la   prestazione 
tecnica   non   disposta   dal   giudice   ma   eseguita   su   incarico   dell’imputato   o   della   parte   lesa   nel 
procedimento   penale,  ovvero  le  parti  in  lite   nel  procedimento  civile,  a  tutela  dei  loro  interessi 
(Gulotta,   1987).  Nell’attuale   ordinamento  penale  possono  essere   disposte   indagini  peritali   sulla 
persona, in diversi ambiti. Possiamo distinguerli secondo vari parametri:  1. secondo il momento in 
cui   viene   eseguita   la   perizia.   Nella   fase   di   cognizione,   durante   le   indagini   preliminari,   che 
consentono di verificare se sussistono o meno le condizioni per promuovere un’azione penale nei 
confronti di un determinato soggetto, può essere richiesta consulenza tecnica dal pubblico ministero 
;   perizia,   dal   giudice   per   le   indagini   preliminari   (G.I.P.)   ;   perizia   dibattimentale.   Nella   fase   di 
esecuzione   il   magistrato   di   sorveglianza   può   disporre   degli   accertamenti   che   stabiliscano   :   la 
presenza o la persistenza della pericolosità sociale psichiatrica al momento dell’applicazione della 
misura di sicurezza dell’O.P.G. (Ospedale Psichiatrico Giudiziario) ; sul condannato possono essere 
richieste   indagini   che   stabiliscano   le   condizioni   di   mente   attuali   o   sull’internato   ai   fini 
dell’esecuzione  della  pena o di una misura di sicurezza diversa da quella psichiatrica  (Fornari,
1997).  2. secondo la persona che è oggetto dell’indagine peritale: l’imputato in attesa di giudizio, il 
reo già condannato o prosciolto per vizio totale o parziale di mente, oppure la parte offesa o il 
testimone.  Se si tratta di autore di reato i quesiti sono finalizzati a stabilire l’esistenza di vizio totale 
o parziale di mente nell’indagato o nell’imputato al momento dei fatti ; la maturità nel minorenne 
infradiciottenne, la presenza di pericolosità sociale psichatrica e le condizioni di mente in tutte le 
fasi che vanno dalle indagini preliminari, al rinvio a giudizio al dibattimento . Nella fase successiva, 
può essere richiesta la valutazione delle condizioni di mente del condannato ai fini dell’esecuzione 
della pena detentiva, o dell’internato in vista dell’esecuzione della misura di sicurezza. La presenza 
e la persistenza di pericolosità sociale può infine essere accertata al momento dell’ applicazione 
della misura oltre che in una fase successiva della prosecuzione della stessa. Il medesimo discorso 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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vale   per   persona  internata  in  O.P.G. al fine  di valutare  l’opportunità  della  revoca  della  misura 
stessa. Se si tratta di vittima di reato, si dispone accertamento psichiatrico al fine di accertare : 
infermità psichica nelle vittime di reati sessuali o di circonvenzione, presenza di danni psichici in 
vittime di violenze sessuali e di maltrattamenti in genere. Nei confronti di un testimone si valutano 
invece l’attendibilità e la capacità di testimoniare del soggetto ; nel caso in cui si trattasse di un 
minorenne è prevista la possibilità che il magistrato si avvalga di un esperto di psicologia infantile 
(art. 498 c.p.p.).    3. secondo la qualificazione professionale del perito: alcune perizie dovranno 
essere   necessariamente   eseguite   dallo   psichiatra,   dallo   psicologo   o   dal   criminologo,   altre   da 
un’équipe che riunisce tutte queste figure. Si elencano di seguito i principali tipi di perizia, distinti 
secondo l’oggetto fondamentale dell’indagine peritale.  ∙Perizia sulla imputabilità: ha come oggetto 
l’accertamento della capacità di intendere e di volere dell’imputato al momento della commissione 
del reato. Secondo l’art. 85 c.p. “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come 
reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. E’ imputabile chi ha la capacità 
d’intendere e di volere”. poiché nell’individuo adulto, la causa della imputabilità può essere solo 
l’infermità   (art.   88   e   89   c.p.),   si   tratta   di   identificare   eventuali   condizioni   patologiche   agenti 
negativamente sullo stato di mente dell’imputato (Gulotta, 1987).    ∙Perizia sulla imputabilità del 
minorenne: riguarda la capacità di intendere e di volere dell’imputato di età compreso tra i 14 e i 18 
anni, il cui elemento caratterizzante è la maturità, desunta da un esame autonomo della personalità 
del minore e non procedendo ad un esame autonomo della capacità di intendere e di quella del 
volere   (Coviello,   Patrizi,   1989).   Questo   significa   che   raramente   questo   tipo   di   perizia   avrà   un 
carattere psichiatrico; consiste infatti in una vera e propria perizia psicologica, mirante a valutare la 
personalità del minore, la sua maturazione psichica e le sue condizioni socio­familiari. Può essere 
disposta in qualsiasi fase processuale dalla magistratura minorile, ed è preferibilmente affidata a 
psicologi, criminologi clinici o a neuropsichiatri dell’età evolutiva.   ∙Perizia sulla imputabilità del 
soggetto intossicato da alcool o da sostanze stupefacenti: il codice penale prevede e punisce, tramite 
gli artt. 91 (Ubriachezza derivata da caso fortuito o da forza maggiore), 92 (Ubriachezza volontaria 
o  colposa  ovvero preordinata),  93 (Fatto  commesso sotto l’azione  di sostanze  stupefacenti),   94 
(Ubriachezza   abituale   )   e   95   (   Cronica   intossicazione   da   alcool   o   da   sostanze   stupefacenti)   il 
soggetto che commette reato in condizioni di intossicazione abituale, cronica o acuta da alcool o 
sostanze stupefacenti. Nei casi di intossicazione acuta l’imputabilità viene accertata in riferimento 
all’istante in cui il soggetto ha assunto la sostanza stupefacente e non al momento in cui è avvenuto 
il reato, identificando la Giurisprudenza quel momento come inizio di una serie di comportamenti 
che   sono   sfociati   nel   reato.   Viene   poi   stabilito   se   nel   momento   indicato,   in   cui   ha   assunto   la 
sostanza, vi fosse o meno un quadro di rilevanza psicopatologica. Se esso è assente il soggetto viene 
dichiarato “capace di intendere e di volere”, che ha commesso un reato “sotto l’effetto..” di una 
determinata sostanza ; se risulta invece aver assunto una sostanza alcolica o stupefacente quando già 
vi era strutturato un quadro psicopatologico rilevante (psicosi o intossicazione cronica), si riferisce 
la condotta alla patologia del soggetto. Nei casi di intossicazione cronica il discorso è leggermente 
diverso. La Giurisprudenza afferma infatti che : “l’intossicazione alcolica che esclude la capacità di 
intendere   e   di   volere   è   solo   quella   che   provoca   alterazioni   psichiche   permanenti,   cioè 
l’intossicazione   cronica,   mentre   l’intossicazione   transitoria,   anche   se   acuta   e   patologica,   non 
esclude né diminuisce l’imputabilità se non nel caso sia derivata da caso fortuito e forza maggiore”. 
Il perito è dunque chiamato a stabilire se l’intossicazione è o meno cronica, in questo caso dovrà 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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rispondere al quesito se la su “capacità di intendere e di volere fosse scemata o esclusa al momento 
del fatto” per cui si procede. In altre parole quello che il perito deve valutare è l’accertamento della 
presenza di una cronica intossicazione e la rilevanza dello stesso sulla imputabilità del soggetto, 
cosa che esclude la definizione dell’abitualità per quel soggetto di assunzione delle dette sostanze. 
Soltanto il magistrato può infatti pronunciarsi, dopo aver escluso l’ipotesi di intossicazione cronica 
(per  la cui valutazione  ha disposto la perizia) sulla base di testimonianze raccolte dalla polizia 
giudiziaria,   rispetto   all’assunzione   abituale   delle   sostanze   da   parte   dell’individuo   in   esame.   Si 
prenderà quindi in considerazione, quale categoria rilevante ai fini della valutazione della capacità 
di intendere e di volere, l’intossicazione solamente in quei casi in cui l’abuso di sostanze abbia 
prodotto un oggettivo danno organico a carico delle funzioni psichiche dell’autore di quel reato e 
solamente quando esista una chiara connessione tra il reato e quel disturbo psicopatologico. Si tenga 
infatti presente che in una intossicazione cronica anche a distanza di anni compaiono i segni, sotto 
forma di alterazione psichiche, della intossicazione ; lo stesso non avviene nelle assunzioni abituali 
delle   sostanze   alcoliche   o   stupefacenti.   La   Giurisprudenza   non   considera   rilevante,   ai   fini   di 
escludere o diminuire l’imputabilità, l’intossicazione transitoria, anche se acuta e patologica, quella 
abituale   e   la   sindrome   da   astinenza.   In   quest’ultimo   caso   soltanto   la   presenza   di   segni   di 
deterioramento organico della personalità o di destrutturazione psicotica della stessa, e la possibilità 
di osservare detti segni a distanza dalla sindrome di astinenza o dalla fese acuta avranno un peso in 
tal senso.    ∙Perizia sulla pericolosità sociale: generalmente tale quesito è posto congiuntamente a 
quello   sulla  imputabilità.  Il perito può infatti esprimersi sulla pericolosità dell’imputato solo  se 
questa   è   connessa  a  cause   patologiche,   nel  caso  in   cui,  cioè,  sia  stato   ravvisato   un  quadro   do 
patologia  di mente tale da costituire vizio totale  o parziale di mente. In tal caso il perito deve 
specificare se al momento dell’accertamento peritale la patologia di mente persista, in modo tale da 
rendere il soggetto socialmente pericoloso.   ∙Perizia sulla capacità dell’imputato di partecipazione 
cosciente al processo :è una perizia sullo stato di mente attuale, rileva l’esistenza di un qualsiasi 
quadro   patologico   di   tipo   psichiatrico,   che   possa   compromettere   la   partecipazione   cosciente   al 
processo (art.70 c.p.p.).  ∙Perizia sulle misure alternative alla detenzione: è un tipo di accertamento 
peritale che ha per oggetto la scelta, del condannato che ne abbia fatto istanza, della più idonea 
misura alternativa alla detenzione in relazione alla personalità ed alla pericolosità, al fine di meglio 
favorire   il   reinserimento   sociale   (Gulotta,   1987).    ∙Perizia   sulla   infermità   sopravvenuta,   sulla 
capacità processuale e sulla incompatibilità con il regime carcerario: anche in questo caso si tratta di 
una perizia di natura psichiatrica, che può essere disposta in tutte le fasi del procedimento penale o 
su   condannati,   sempre   nell’ipotesi   da   accertare   che   sia   presente   l’infermità   di   mente.   Viene 
generalmente effettuata sull’imputato che si trovi “in condizione di salute particolarmente gravi che 
non   consentono   le   cure   necessarie   in   caso   di   detenzione”   (art.   275   c.p.p.).    ∙Perizia   sull’uso 
personale di stupefacenti: viene disposta quando si tratta di accertare le ipotesi di non punibilità 
prevista dalla legge per chi abbia detenuto stupefacenti.  ∙Perizia psichiatrica sulla vittima: si può 
disporre l’accertamento delle condizioni di mente di una vittima in tre diversi casi : reati sessuali ; 
maltrattamenti di minori ; circonvenzione di persona incapace. Nel primo caso si deve stabilire 
l’entità della coartazione psicologica e le modalità della stessa rispetto alle condizioni soggettive 
della vittima ed ai rapporti che la legavano all’agente (Fornari, 1997). In termini generici il quesito 
psichiatrico­psicologico riguarda la presenza/assenza di condizioni di inferiorità psichica o fisica 
del soggetto passivo e l’abuso di tali condizioni da parte dell’imputato. Riguardo alle situazioni di 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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maltrattamenti e di abuso in danno di minori l’indagine peritale sarà finalizzata ad accertare la 
presenza o meno di un danno biologico e/o di un danno alla salute della vittima ; ad illustrare quali 
siano   gli   effetti   psicologici,   di   tipo   negativo,   dei   maltrattamenti   sullo   sviluppo   del   bambino   ; 
mettere in luce l’eventuale presenza di patologie di mente di uno o di entrambi i genitori (si vedano 
i quesiti sulla imputabilità).Tali quesiti avranno rilevanza anche in ambito civile, rispetto all’ipotesi 
di decadimento della potestà genitoriale e della dichiarazione di affidabilità o di adottabilità del 
minore da parte del Tribunale per i Minorenni. La perizia sulle vittime minorenni o su minorati 
psichici deve inoltre evidenziare : l’idoneità psichica a rendere testimonianza ; l’intelligenza, la 
personalità e l’attendibilità delle accuse ; la presenza di mitomania o di delirio o altre condizioni 
psicopatologiche   che   possono   portare   a   false   denunce   ;   l’influenzabilità   da   parte   di   persone 
interessate a fare dichiarare il falso (Pacciolla, Ormanni, Pacciolla, 1999). L’ambito degli abusi 
sessuali   ai   danni   di   minori   è   quello   che   più   ha   visto   svilupparsi   un’integrazione   tra   discipline 
diverse quali la Giurisprudenza, la psichiatria e la psicologia, chiamate ad agire cercando di ridurre 
al minimo il disagio della vittima e di ottimizzare gli interventi dei servizi, azione possibile solo 
laddove   esista   la   collaborazione   fattiva   tra   esperti   diversi   oltre   che   l’utilizzo   di   protocolli 
d’intervento   uniformi.   L’interdisciplinarietà   psicogiuridica   è   infatti   chiamata   a   pronunciarsi   su 
cruciali problematiche quali la verifica dell’abuso sessuale ; la presenza di suggestionabilità nel 
minore ; l’analisi dei diversi indicatori d’abuso ; la percezione, la memoria e il racconto del reato 
sessuale   ;   le   sensazioni   di   colpa,   vergogna   e   isolamento   della   piccola   vittima.    La   perizia 
psichiatrica sul testimone è infine richiesta qualora, al fine di valutare le dichiarazioni del testimone, 
sia necessario verificarne l’idoneità fisica o mentale a rendere testimonianza. Nei confronti di un 
testimone, minore o adulto che sia, la perizia psichiatrica è disposta solo “purché sia indispensabile 
e   sussistano   gravi   e   fondati   indizi   che   la   rendano   necessaria”   (Cass.,   Sez.   I,   14   marzo   1980). 
L’indagine psicologico­psichiatrica avrebbe, nella fattispecie, come oggetto la valutazione non della 
verità processuale, di pertinenza del magistrato, ma della credibilità clinica del soggetto, vale a dirsi 
della   sua  attendibilità,  della  capacità  di precisione  del  racconto  della  serenità  di percezione,   di 
conservazione e di rievocazione. In alcune situazioni il testimone può essere nel contempo anche 
vittima, in questo caso verranno accertate se ci siano o meno le condizioni morbose, di immaturità, 
o di caratteristiche psichiche che possono far porre in dubbio quanto dichiarato dal soggetto. In 
deroga   a   quanto   stabilito   dall’art.   220   c.p.p.   che   vieta   la   cosiddetta   “perizia   psicologica”,   la 
Giurisprudenza   ammette   il   controllo,   tramite   indagine   peritale,   dell’attendibilità   del   testimone, 
anche in assenza di condizioni patologiche (Fornari, 1997). Il ricorso a tale strumento avrebbe come 
unico  scopo quello di stabilire  la credibilità  e l’attendibilità delle dichiarazioni  del soggetto.  Si 
tenga presente che attendibilità non è categoria direttamente sovrapponibile a quella della verità e 
che anche una persona attendibile potrebbe dichiarare il falso. Sarà quindi compito del magistrato, e 
non del perito, basarsi su riscontri obiettivi per stabilire l’esatto svolgimento dei fatti. I settori su cui 
verte l’indagine peritale illustrata sono quelli delle violenze sessuali, di cui l’attuale legislazione 
ammette   un’ampia   casistica   ;   quello   dei   maltrattamenti   sui   minori   ;   l’accertamento   di   tipo 
psicopatologico su soggetti anziani, sulla presenza o meno di un quadro involutivo senile o di un 
quadro depressivo, confusionale­demenziale; su soggetti psicotici, di cui si indagherà il contenuto 
delle dichiarazioni e la possibilità che esse siano frutto di un delirio con cui può esprimersi una 
personalità psicotica.  Il perito  Come si è già avuto modo di esporre, nel caso in cui le prestazioni 
vengano richieste dal giudice nell’ambito dei processi penali, la persona assume la denominazione 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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di   perito;   nell’ambito   dei   processi   civili,   assume   la   denominazione   di   consulente.   Con   la 
denominazione di consulente tecnico di parte, invece, ci si riferisce alla persona che ha il compito di 
definire i pareri richiesta da una delle parti in causa, che sono il pubblico ministero, gli imputati e le 
parti lese. Il collegio di due o più periti viene nominato quando le indagini e le valutazioni risultano 
di particolare difficoltà o richiedano conoscenze in distinte discipline (art. 221ccp.). I periti e i 
consulenti dunque svolgono le loro prestazioni su incarico dei giudici o delle parti. Negli albi dei 
periti, istituiti presso tutti i tribunali sono iscritte persone fornite di speciale competenza in materie 
come:   la   psichiatria,   la   psicologia,   la   criminologia.   Poiché   inoltre,   il   compito   del   perito   è 
necessariamente   connesso   a   gravi   responsabilità,   va   da   sé,   per   ovvie   ragioni   deontologiche   ed 
etiche, nessuno si appresterà a svolgere un mandato peritale se non è dotato di un approfondito 
bagaglio tecnico e di maturata esperienza clinica (Bellusi, 1991). La perizia viene dunque disposta 
dal giudice per le indagini preliminari, attraverso l’incidente probatorio promosso dalle parti, o dal 
giudice del dibattimento o dell’esecuzione, alla presenza del pubblico ministero e dei difensori delle 
parti. Il giudice, rilevate le generalità del perito, accertata la mancanza di cause di incompatibilità o 
di incapacità nel o nei periti e sottolineate le responsabilità penali relative all’incarico, formula i 
quesiti ed invita il perito a rendere dichiarazione sostitutiva del giuramento di rito. Il giudice per le 
indagini preliminari e il magistrato del dibattimento chiedono al perito che la risposta ai quesiti, 
sotto forma di relazione scritta, sia consegnata entro un termine concordato. In tal modo sia le parti 
che il committente possono prenderne visione e formulare quindi le loro deduzioni. A differenza del 
precedente codice di procedura penale, il consulente tecnico e il perito sono tenuti a presenziare 
all’udienza preliminare o al dibattimento ed ad esporre a voce le conclusioni cui sono giunti; in 
qualità di testimoni dovranno dunque affrontare la cross­examination. Disposta la perizia, il giudice 
e   le   parti   hanno   facoltà   di   nominare   i   propri   consulenti   tecnici   in   numero   non   superiore,   per 
ciascuna parte, a quello dei periti. Il perito per rispondere ai quesiti a lui formulati può essere 
autorizzato (art. 228 c.p.p) a prendere visione degli atti, dei documenti e delle prove prodotte dalle 
parti. Può inoltre servirsi di ausiliari di sua fiducia per lo svolgimento di attività non implicanti 
apprezzamenti   e   valutazioni.   Si   tenga   presente   che   il   magistrato,   Peritus   Peritorum,   non   è 
necessariamente   tenuto   ad   attenersi   alle   conclusioni   cui   il   perito   è   pervenuto;   è   però   tenuto   a 
motivare le ragioni del suo dissenso e nel caso in cui non fosse in grado di farlo “deve far ricorso a 
chiarimenti dello stesso perito o disporre nuova perizia”. Al contrario non vige l’obbligo, per il 
giudice,   di   motivare   il   suo   dissenso   nei   confronti   delle   consulenze   tecniche   di   parte;   esse   si 
ritengono infatti rifiutate se il giudice aderisce alle conclusioni prodotte dal perito d’ufficio.  

L’obbligatorietà della prestazione peritale  

“La prestazione dell’ufficio di perito è obbligatoria” (art. 314 c.4 cpp). Non è dunque possibile 
esimersi   dall’incarico   per   ragioni   di   comodo;   è   sempre   possibile,   però,   far   presente   al   giudice 
l’esistenza di impedimenti, affinché egli orienti la sua scelta se riterrà valide le giustificazioni del 
perito, verso un altro esperto. Circostanze che dovranno indurre il perito a sollecitare il giudice 
affinché conferisca l’incarico ad altri sono: 

 ∙ L’essere prossimo congiunto con l’imputato o con un coimputato del medesimo processo;  

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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∙ l’essere vincolato nei confronti dell’imputato dal segreto professionale;  

∙ l’aver già precedentemente in cura l’imputato o l’aver già espresso nei suoi confronti pareri o 
giudizi, anche in sede non giudiziaria; 

∙ l’esser già stato privatamente interpellato come consulente o esperto dal periziando, o dalle parti 
civili o dai loro avvocati, con espresso riferimento alla vicenda per cui è disposta la perizia; 

∙ l’aver interessi personali di qualsiasi genere nel procedimento;  

∙ il non ritenersi sufficientemente esperto in materia.  

Il giuramento di verità ed obbligo del segreto  

Il perito è tenuto a giurare di svolgere il suo mandato nel modo migliore, fedele e veritiero, senza 
altro   scopo che quello di far conoscere la verità,  nel rispetto del segreto su tutte le operazioni 
peritali.   L’irregolare   svolgimento   delle   operazioni   peritali   o   il   mancato   espletamento   delle 
operazioni stesse può esporre a responsabilità penali. Il codice penale prevede poi espressamente il 
reato di falso in perizia, quando il perito dia pareri mendaci o affermi fatti non veritieri (art. 373 
c.p): è prevista per questo reato la reclusione da 6 mesi a 3 anni oltre che all’interdizione  dai 
pubblici uffici e dalla professione. Sono previste sanzioni anche per la violazione dell’obbligo del 
segreto (art.226 c.p.p). 

 Il rapporto con il giudice  

“Il giudice dirige la perizia e, se lo ritiene opportuno, vi assiste” (art.317 cpp). Il perito, in linea di 
principio deve sentirsi nella veste di collaboratore del giudice, nel senso che entrambi mirano, anche 
se in ruoli diversi, all’accertamento della verità. Il perito, pur mantenendo la sua autonomia tecnica 
di giudizio, la sua libertà di decisione e di interpretazione dei dati acquisiti deve via via rendere 
partecipe il giudice dei suoi risultati, illustrargli le conclusioni verso cui è orientato, nonché le sue 
perplessità,   anche   in   funzione   delle   conseguenze   giudiziarie   che   possono   derivare   dalle   sue 
conclusioni. A sua volta il giudice dovrà informare il perito degli aspetti fondamentali e dei risvolti 
del processo, dovrà inoltre fornirgli ogni utile notizia già acquisita sulla persona da esaminare.  

I rapporti con i consulenti di parte  

La legge dà la possibilità all’imputato ed alla parte civile di nominare loro stessi dei consulenti per 
assistere alla perizia. Il perito dovrà avere sempre ben presente che solo a lui è affidato il compito di 
svolgere le indagini, mentre i consulenti possono solo assistervi. In un sistema inquisitorio, come 
quello utilizzato nei nostri tribunali, è del giudice l’iniziativa per la ricerca delle prove ed è sempre 
lui che dispone la perizia eleggendo un proprio perito, che diviene così un suo diretto collaboratore 
ed una sua emanazione, situato al di sopra delle parti. Da ciò deriva il diverso ruolo che nel nostro 
sistema processuale ha la difesa, e con essa il consulente di parte: egli svolge il ruolo di osservatore 
critico dell’operato del perito d’ufficio, vigila affinché egli agisca secondo scienza e secondo verità, 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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bada che non compia errori, osserva le operazioni peritali con pochi poteri e pochissima iniziativa, 
non può intervenire nella discussione dialettica con il perito.  

La perizia psichiatrica  

La   perizia   psichiatrica   consiste   in   un   accertamento   tecnico   volto   a   formulare   un   giudizio 


fondamentalmente diagnostico­valutativo e prognostico. Ha come destinatari minori, adulti, autori 
di reato, vittime, testimoni, imputati, condannati e internati e viene richiesta nei casi in cui esiste il 
problema   di   stabilire   quali   siano   le   condizioni   psichiche   di   un   soggetto   in   riferimento   ad   una 
determinata fattispecie di reato e ad un preciso momento del suo iter giudiziario, ”in ogni stato e 
grado  del procedimento” (Fornari, 1997). Nello specifico la perizia psichiatrica mira a stabilire 
quale sia la capacità di intendere e di volere di un soggetto. Tale capacità rappresenta infatti il 
requisito   fondamentale   perché   un   soggetto   possa   essere   ritenuto   responsabile   dei   suoi   atti, 
soprattutto   allorché   egli   rischia   di  essere  imputato   per  aver  commesso   un  reato   e  cioè   un   atto 
penalmente perseguibile ( Canepa, 1990). In assenza di responsabilità non è possibile dichiarare un 
soggetto imputabile. Assume dunque fondamentale rilevanza lo stabilire se, al momento in cui egli 
ha commesso una certa azione fosse in possesso della facoltà di capire appieno il significato e le 
conseguenze delle proprie azioni, oltre che della capacità di determinare il proprio comportamento. 
La compromissione di tali facoltà è rilevante a livello penale e indica che siamo in presenza di uno 
stato   di   infermità   mentale,   di   un’alterazione   psicopatologica   consistente   quale   potrebbe   essere 
rappresentata da una psicosi. Tale malattia, infatti, nelle sue diverse varietà, compromette il senso di 
realtà   e   rende   il   soggetto   incapace   di   controllare   adeguatamente   e   stabilmente   il   suo 
comportamento. Il problema della diagnosi è dato dal fatto che, nel corso di una psicosi, possono 
verificarsi dei momenti di remissione, o degli intervalli, durante i quali il soggetto riacquista le sue 
capacità. La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che, tale accertamento a scopo peritale, 
avviene spesso a notevole distanza dal momento in cui è avvenuto il fatto, quindi la valutazione del 
perito è di tipo retrospettivo. Questione centrale alla perizia psichiatrica è inoltre quella relativa a 
ciò che si debba o non si debba considerare come “infermità”, anche tenendo conto i criteri offerti 
dalle diverse classificazioni nel tempo, dal D.S.M. (Manuale diagnostico e Statistico dei Disturbi 
Mentali,   nella   ultima   versione   D.S.M.   ­   IV)   alla   classificazione   più   nota   in   ambito   europeo, 
I.C.D.­10   (decima   revisione   della   classificazione   internazionale   delle   sindromi   e   dei   disturbi 
psichici e comportamentali). Si rimanda a questo proposito a molti dei manuali di psichiatria più 
diffusi; si sottolinea invece l’importanza di stabilire, una volta rilevata l’esistenza di un disturbo 
psicopatologico, la connessione dello stesso e il delitto. Non è dunque sufficiente la diagnosi in 
campo peritale, ed è invece metodologicamente scorretto “saltare” da un quadro psicopatologico 
all’atto ­ reato come espressione patologica, stabilendo, in altre parole, una analogia tra la presenza 
del disturbo mentale e il vizio di mente. Possono dunque essere riconosciuti come espressione di 
malattia solo quei reati che equivalgono ad un sintomo psicopatologico di quadri clinici come può 
essere il disturbo psicotico acuto, il disturbo mentale organico, la destrutturazione da personalità 
schizofrenica. L’infermità di mente si concretizza dunque quando i disturbi patologici psichici, privi 
di   adeguate   controspinte,   si   manifestano   sul   piano   fenomenico   attraverso   condotte­sintomo, 
integrantesi   in   fatti­reato   (Fornari,   1997).   La   diagnosi   peritale   non   può,   inoltre,   tradursi   in   un 
giudizio di personalità. Secondo l’art. 314 c.p.p., attualmente in vigore in Italia dal 1930 (Codice 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Rocco),   “non   sono   ammesse   perizie   per   stabilire   l’abitualità   o   la   professionalità   nel   reato,   la 
tendenza a delinquere, il carattere e la professionalità nel reo, e, in genere, le qualità psichiche non 
dipendenti   da   cause   patologiche”.   Di   conseguenza   la   perizia   sulle   qualità   psichiche   è   dunque 
consentita soltanto nell’ambito psicopatologico, tramite appunto perizia psichiatrica. Questo divieto 
non è valido nel processo penale a carico di minorenni (art. 9, DPR 448) e nella fase esecutiva della 
pena.   In   particolare   la  perizia   psichiatrica   sull’autore   di  reato  deve   rispondere  a  due   principali 
quesiti: 

 ∙ se l’imputato, al momento del delitto, si trovava, a causa di una infermità, in uno stato di mente 
tale che la sua capacità di intendere e di volere era esclusa ovvero gravemente diminuita (art. 85, 88, 
89 c.p.), di cui il quesito: “dica il perito, esaminati gli atti di causa, visitato (nome e cognome), 
eseguiti tutti gli accertamenti clinici e di laboratorio che riterrà necessari ed opportuni (..........), 
quali fossero le condizioni di mente di (nome e cognome) al momento del fatto per cui si procede; 
in specie, se la sua capacità di intendere e di volere fosse, per infermità, esclusa o grandemente 
scemata”. 

 ∙ se l’imputato, a causa della sua infermità, potrà commettere altri delitti in futuro, e quindi se sia o 
meno socialmente pericoloso (art. 203 c.p.), di cui il quesito: “in caso di accertato vizio di mente, 
dica altresì il perito se (nome e cognome ) sia da ritenersi persona socialmente pericolosa”.  

∙ quali sono le condizioni di mente dell’indagato nel corso delle indagini preliminari o dell’imputato 
dopo il rinvio a giudizio, “in ogni stato e grado del processo”, di cui il quesito: “dica il perito, 
esaminati gli atti di causa (.............) quali siano le attuali condizioni di mente di (nome e cognome ) 
e, in particolare, se sia o meno in grado di partecipare coscientemente al processo”.  Il giudice può 
inoltre formulare un ulteriore quesito:  ∙ “dica il perito se esistano indicazioni terapeutiche e quali 
esse   siano”.    Viene   da   sé   che   l’autore   di  reato   sarà  punibile   solo   se  risulterà   imputabile,   sarà 
sottoposto a misure di sicurezza solo nel caso in cui risulti socialmente pericoloso. Questo ultimo 
caso comporta l’applicazione della misura di sicurezza psichiatrica, che si traduce, nei casi di vizio 
parziale,   nell’internamento   in   Casa   di   Cura   e   Custodia   (C.C.C.)   a   seguito   della   pena   della 
reclusione, mentre in quelli di vizio totale, nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (O.P.G.), al posto 
della reclusione. Di per sé, considerati da soli, il vizio parziale comporterebbe la riduzione della 
pena di un terzo, il vizio totale l’esenzione totale. Per quanto riguarda il quesito sulla pericolosità 
sociale, si è già sottolineato come sia correlato alla questione della infermità mentale; si risponderà 
cioè a tale quesito solo nel caso in cui venga rilevato un quadro di patologia di mente che costituisca 
vizio totale o parziale. In tal caso quello che il perito deve accertare è se al momento dell’indagine 
peritale   la  patologia   di mente  persista  e  sia  tale  da  rendere  il  soggetto   socialmente  pericoloso. 
Escluso   il   vizio   di  mente,   il   perito   non  deve   invece   rispondere   al   quesito   circa   la   pericolosità 
sociale. In questo caso la formula utilizzata sarà: “l’aver escluso l’esistenza di patologia di mente 
pregressa o attuale rilevante a fini forensi mi esonera dal rispondere al quesito circa la pericolosità 
sociale  del  periziando”.    La metodologia  utilizzata,  è di tipo clinico/criminologica, completa  di 
esami clinici, psicologici e psicodiagnostici; fondamentale è l’utilizzo del colloquio clinico e dei 
reattivi   mentali.   Per   eseguire   l’indagine   della   personalità   del   soggetto   occorre,   innanzi   tutto, 
raccogliere, o analizzare la storia personale del soggetto, o anamnesi, così da avere presente la linea 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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di   sviluppo   psichico   dell’individuo,   appurare   l’esistenza   di   esami   medici   di   tipo   fisiologico   o 


neurologico, effettuare più colloqui clinici, applicare i reattivi mentali.  Reattivi di efficienza. Sono 
quei reattivi che misurano l’intelligenza, intesa come capacità che l’individuo ha di comprendere, 
affrontare e risolvere in maniera adeguata ed adattiva i problemi della vita. Di questo genere è la 
scala di intelligenza Wechsler per adulti (WAIS : Wechsler Adult Intelligence Scale) e, la W.I.S.C. 
(Wechsler Intelligence Scale of Children), WISC ­ R in versione revisionata, derivata dalla prima, 
specifica per i soggetti sotto i 16 anni.  Reattivi di personalità. Appare strumento particolarmente 
utile   l’M.M.P.I. (Minnesota Multiphasic  Inventory), questionario  di  personalità  che  permette   di 
fornire   un   profilo   di   personalità   del   soggetto,   analizzandone   i  tratti   “normali”,   oltre   che   quelli 
“patologici”, contribuendo quindi alla stesura di una diagnosi psichiatrica oltre che di determinare la 
gravità   del   disturbo   psichiatrico   riscontrato.   Tra   i   test   utilizzabili   vi   sono   poi   quelli   di   tipo 
proiettivo, che fanno appello alla produzione spontanea del soggetto. La loro caratteristica comune 
è quella di partire da una situazione standardizzata, uguale per tutti i soggetti, facilitando però il 
meccanismo della “proiezione”. I soggetti sottoposti a degli stimoli vaghi e poco strutturati, alla 
richiesta di dare un significato agli stessi, tenderanno ad organizzarli e a strutturarli proiettando il 
loro   vissuto   interiore,   la   struttura   stessa   della   loro   personalità.   Nella   perizia   psichiatrica   trova 
particolare applicazione il test di Rorschach, il più importante test proiettivo di tipo strutturale, che 
permette   di   approfondire   aspetti   “profondi”   della   personalità.   Il   test   è   composto   da   10   tavole 
standardizzate, che riproducono immagini simili a delle macchie di inchiostro, di cui alcune sono 
grigie e nere, altre grigie e rosse e tre colorate. Le macchie rappresentano delle forme ambigue e 
imprecisate,   ma   nel   contempo   abbastanza   semplici   e   simmetriche   da   favorire   l’interpretazione, 
frutto delle “proiezioni” del soggetto. Di fronte ad ogni tavola, la consegna è infatti quella di dire 
“Che   cosa   potrebbe   essere   ?   A   che   cosa   potrebbe   assomigliare   ?”.   L’esaminatore,   dopo   aver 
fedelmente registrato quanto detto dal soggetto, valuterà le sue risposte secondo vari parametri, 
come   :   la   localizzazione   dell’area   interpretata,   i   fattori   determinanti   la   risposta   (movimento, 
colore...), il contenuto della risposta stessa. Le risposte sono inoltre analizzate rispetto alla qualità e 
alla frequenza statistica. Alcune di esse infatti, ricorrendo con maggiore frequenza sono considerate 
banali, altre invece, presentandosi di rado vengono valutate come originali. Classificate le risposte, 
si attribuisce ai dati raccolti un preciso significato psicologico. Alla fine si ricava una diagnosi della 
personalità che tiene conto di tre dimensioni fondamentali : modalità di approccio alla realtà da un 
punto   di   vista   del   funzionamento   intellettuale,   affettività,   adattamento   sociale.   Questo   test 
risulterebbe particolarmente utile per approfondire diagnosi, soprattutto in presenza di “difese” e di 
dissimulazione di malattia mentale ; rilevare, in termini obiettivi il deterioramento mentale ; offre 
inoltre utili elementi, nell’esame dell’attendibilità del testimone, diretti a valutare il tipo e il modo 
di  percezione  della  realtà,  le caratteristiche  del pensiero, la tendenza  e lasciare  prevalere,  nella 
visione della realtà, fattori razionali piuttosto che emotivi , la capacità critica, la precisione del 
pensiero, l’abitudine a formulare pensieri logici. Molto indicato per approfondire la personalità del 
periziando è anche il T.A.T. (Thematic Apperception Test) di Murray, un reattivo proiettivo di tipo 
tematico, nel quale il meccanismo della proiezione è reso possibile dall’utilizzo di una serie (20) di 
immagini diverse, sulla base delle quali il soggetto deve costruire delle storie. Questo metodo si 
basa sul presupposto che, quando noi inventiamo dei racconti, ci rifacciamo alle nostre esperienze 
passate,   esprimendo   anche,   simbolicamente,   degli   elementi   inconsci.   Tale   modalità   rivelerebbe 
alcuni contenuti significativi della personalità : bisogni, conflitti, aspirazioni, timori, sentimenti e 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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complessi (Passi Tognazzo, 1978). Il potere discrezionale del giudice al momento dell’emanazione 
della sentenza ed ai fini dell’applicazione della pena, tiene conto dei seguenti obiettivi: 

 ∙ esaminare la personalità del reo per valutare i motivi che lo hanno indotto a commettere il reato e 
la motivazione della sua condotta;  ∙ valutare il suo carattere, i suoi precedenti penali e, in genere, la 
vita e la condotta anteriore al delitto, la condotta contemporanea e successiva al reato, le condizioni 
di vita individuale, familiare e sociale (art. 133 c.p.);

  ∙   ricostruire   la   genesi   e   la   dinamica   del   delitto   e   fornire   delle   indicazioni   utili   per   la 
programmazione eventuale del trattamento attraverso la pena detentiva o le misure alternative e per 
la   prognosi   concernente   l’evoluzione   futura   del   caso   esaminato.    Definita   la   questione 
dell’imputabilità del soggetto con disturbi psicopatologici, si dovrà valutare questi disturbi secondo 
la   prospettiva   clinica   della   capacità   a   delinquere,   allo   scopo   di   offrire   al   magistrato   elementi 
utilizzabili per la formulazione di un programma di trattamento efficace e adeguato elle particolari 
esigenze del caso individuale. La perizia psichiatrica, da un passato legato ad una pratica della 
psichiatria tradizionale, basata su pregiudizi patologici, e un’attuale orientamento medico­legale­
psichiatrico, riferito alla valutazione dei dati psicopatologici e attento alle interpretazioni delle leggi 
penali  in   vigore (sulla imputabilità/responsabilità/pericolosità  sociale)  sta sempre più evolvendo 
verso un avvenire criminologico, in quanto perizia sulla personalità unica (psicologica, psichiatrica 
e medico­legale), finalizzata alla comprensione clinico­fenomenologica dei processi criminogeni in 
quanto motivazione e dinamica del delitto, e nel contempo finalizzata alle esigenze di trattamento, 
considerato come promozione e riabilitazione della personalità.  

L’imputabilità e la responsabilità penale 

In fase di cognizione la perizia che viene effettuata sull’autore di reato è sempre di tipo psichiatrico. 
Questo in considerazione del fatto che ogni persona viene ritenuta responsabile delle proprie azioni, 
salvo i casi previsti dalla legge illustrati dall’art. 85 c.p. “ Nessuno può essere punito per un fatto 
preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. E’ 
imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”. Regolano l’imputabilità dell’autore di reato i 
successivi articoli : art. 88 c.p. “Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto era, 
per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità d’intendere e di volere” ; art. 89 c.p. 
“Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare 
grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere, risponde del reato commesso ; 
ma la pena è diminuita”. Questo significa che la punibilità di un soggetto deve necessariamente 
derivare  dall’accertamento della sua responsabilità e della sua imputabilità, dato che è punibile 
soltanto chi è imputabile. Ed è imputabile soltanto chi ha la capacità d’intendere e di volere. Si 
definisce capacità di intendere, quella che il soggetto aveva, al momento del fatto di comprendere il 
valore e il disvalore sociale di quell’azione ; come capacità di volere quella di autodeterminare il 
proprio comportamento in vista del compimento o dell’evitamento di quell’azione che si è costituita 
in   reato.   Perché   un   soggetto   possa   essere   considerato   imputabile,   bisogna   che   siano   presenti 
entrambe,   altrimenti   ,   mancando   od   essendo   una   delle   due   grandemente   scemata,   si   dovrà 
considerare l’ipotesi del vizio totale (art. 88 c.p. ) o parziale di mente (89 c.p. ) (Fornari, 1997). Un 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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soggetto per essere imputabile deve rispondere a determinati requisiti sia fisici che psichici che 
escludano il vizio totale di mente (art.88 c.p.), il vizio parziale di mente (art. 89 c.p.), l’ubriachezza 
accidentale (art. 91 c.p.), la stupefazione accidentale (art.93 c.p.), l’intossicazione acuta da alcool o 
da sostanze stupefacenti, solo se piena e derivata da caso fortuito o da forza maggiore (artt. 91 e 93 
c.p.), il sordomutismo (art.96 c.p.), la cui rilevanza va determinata caso per caso e la minore età, se 
compresa tra i 14 e i 18 anni e se al momento dei fatti erano incapaci di intendere e di volere (art. 97 
c.p.). Secondo l’ordinamento giuridico italiano “è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso 
il fatto, aveva compiuto 14 anni, ma non ancora i 18, se aveva la capacità di intendere e di volere, 
ma la pena è diminuita” (art. 98 c.p.). Per il maggiorenne solo l’infermità può abolire la capacità di 
intendere e di volere, mentre per l’infradiciottenne il requisito non è richiesto, ma assume centralità 
il livello di maturazione del soggetto: i disturbi del carattere, dell’affettività, o qualsiasi condizione 
anche ambientale che possa interferire con l’adeguamento sociale del giovane e sui processi di 
socializzazione. In altre parole, a differenza dell’adulto, nei soggetti compresi tra i 14 e i 18 anni di 
età, la non imputabilità consegue dunque ad una valutazione singolare, caso per caso, che accerti lo 
sviluppo in senso psicosociale, rinviando alla fase evolutiva, al grado di maturità raggiunta, sia 
intellettiva,   sia   affettiva,   oltre   che   ad   un   sufficiente   equilibrio   morale   tale   da   permettere   una 
valutazione etica delle proprie azioni, di distinguere il lecito dall’illecito, il giusto dall’ingiusto, il 
bene dal male. Sia nell’adulto che nel minore si può porre l’ipotesi del vizio totale di mente, da 
causa morbosa, con diversa formula di proscioglimento di quella dell’art. 98 c.p., o l’ipotesi del 
vizio parziale, con ulteriore diminuzione della pena. Inoltre, per un minore riconosciuto capace di 
intendere e di volere, la pena è sempre ridotta di un terzo e, nei casi opportuni, sono previsti dalla 
legge altri benefici oltre ad una larga utilizzazione di misure alternative alla detenzione.  

La consulenza tecnica psicologica  

Approfondisce specificamente la personalità del soggetto, indagandone le potenzialità, l’efficacia 
intellettuale, il tipo di intelligenza, la dotazione affettiva, il controllo, l’abilità e gli atteggiamenti 
sociali. Oltre a questo cerca di studiare a fondo le complesse relazioni interpersonali che struttura un 
individuo nel proprio ambiente di vita. La personalità viene, in, questo caso indagata, tramite diversi 
strumenti, a seconda dell’orientamento teorico del perito. Lo strumento principale, comune a tutte le 
impostazioni psicologiche, è il colloquio clinico. Secondo l’approccio psico­sociale questo potrebbe 
essere   orientato   ad   approfondire   e   focalizzare   aspetti   anamnestici   e   clinici   diversi,   diretti   a 
conoscere la complessità dell’individuo, il suo Sé attuale, i suoi processi di costruzione dell’ identità 
(Coviello, Patrizi, 1989). Un particolare tipo di consulenza tecnica psicologica è quella che viene 
richiesta nel corso di una causa di separazione o divorzio, quando il giudice, venutosi a creare un 
contrasto tra le parti variamente orientato circa l’affidamento all’uno o all’altro dei figli, ai fini di 
pervenire ad una composizione del conflitto coniugale per determinare il migliore affidamento dei 
figli, ha facoltà di avvalersi di esperti dotati di cognizioni in ambito psicologico, anche se essi non 
debbono essere necessariamente degli psicologi. In questo caso la persona con queste competenze 
vengono chiamate consulenti tecnici di ufficio (CTU). L’indagine viene affidata a psicologi, o a 
psichiatri da soli o in collegio tra loro, soprattutto nelle situazioni in cui vi è il sospetto o si abbia 
notizia dell’esistenza di una patologia mentale di uno dei due coniugi. La perizia viene avviata 
dall’ordinanza di nomina emessa dal giudice, segue poi il giuramento del perito e la comunicazione 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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del/dei quesiti cui il perito deve rispondere in presenza del giudice, degli attori, degli avvocati, dei 
periti   di   parte   (CTP),   se  sono  stati   nominati.   Il   CTU   è   tenuto,   pena   la   perdita   di   valore   della 
consulenza, a rendere noto, all’inizio delle operazioni peritali, lo svolgimento delle stesse, rispetto 
ai tempi, le modalità e i luoghi. Il CTU ha facoltà di avvalersi di collaboratori esperti per particolari 
indagini.   Il  CTU  deve, secondo  il principio  del  contraddittorio,  far sì che  i CTP  siano  sempre 
presenti. Nell’espletare l’incarico peritale è importante che il perito tenga sempre presente quale sia 
il quesito posto dal giudice e che le conclusioni a cui lo stesso è giunto siano sempre motivate. Allo 
stesso modo dovrà essere chiaro il procedimento utilizzato nell’esame degli attori e dei minori, oltre 
che il loro ambiente di vita. A tale scopo, verrà illustrato il contenuto dei colloqui effettuati,  i 
risultati della somministrazione dei test, le informazioni ottenute tramite le visite effettuate presso il 
domicilio ove risiedono i minori, le testimonianze raccolte, eventualmente presso parenti o vicini. Il 
quesito,   in   tali   casi   è   generalmente   riferito   a   quale   dei   due   genitori   risulti   più   idoneo   per 
l’educazione e la crescita della prole ; nello specifico si potrà suggerire il periodo di tempo che il/i 
minori   possono   trascorrere   con   il   genitore   non   affidatario   ;   si   consiglieranno   le   modalità 
comportamentali più idonee, da parte dei genitori, alla particolare fase di sviluppo del minore o, a 
seconda   dei   casi,   si   potrà   suggerire   un   affidamento   congiunto   o   alternata,   piuttosto   che 
monogenitoriale. Il CTU, le cui azioni sono volte ad assicurare la soddisfazione degli interessi del 
minore, deve offrire un approfondimento della sua condizione psicologica, del grado di sviluppo 
affettivo,  cognitivo  delle modalità  di relazioni  all’interno  al suo nucleo familiare. Il CTU  deve 
tenere presente che le parti tenderanno a identificare la sua figura con quella del giudice e a mettere 
dunque in atto delle modalità difensive nei suoi confronti. Lo stile difensivo è ravvisabile del resto 
in ogni situazione coatta, dove c’è un inviante e in cui manca dunque spontaneità. Uno Stile tipico è 
quello di tipo Evasivo , in cui non vengono dette determinate cose e in cui si risponde cercando di 
aggirare l’ostacolo ; altro atteggiamento è quello della Compiacenza e sottomissione, che dietro 
un’apparente   atteggiamento   accomodante   e   a   tratti   sottomesso   cerca   stima   e   accettazione 
nell’interlocutore, non permettendogli di arrivare a contatto con la realtà in esame. Altre persone 
adottano come atteggiamento di difesa la Seduzione, con atteggiamenti tali da attirare simpatia o 
compassione, in modo da portare il CTU dalla loro parte (Ciofi, 1998). A prescindere da qualsiasi 
impostazione teorica di riferimento ogni CTU prevede l’utilizzo del colloquio clinico. Questo dovrà 
essere abbastanza strutturato da indagare sia la struttura di personalità delle parti in causa, a partire 
dalla   famiglia   di   origine   alla   storia   della   formazione   della   coppia,   vista   dalle   due   angolazioni 
diverse, alla nascita dei figli, al vissuto legato a tale evento, all’emergere della crisi, al fallimento 
dei tentativi per risolverla. L’indagine psicologico­clinica deve estendersi anche allo “stile di vita di 
entrambi i genitori, alle compensazioni adottate, alle mete perseguite, ai vissuti nei confronti dei 
figli, all’inserimento sociale oltre che lavorativo. Nelle perizie psichiatriche o qualora vi fosse il 
quesito relativo alla presenza di una eventuale patologia di mente in uno o in entrambi i genitori, è 
opportuno riportare inizialmente il risultato dell’indagine che documenti o escluda la patologia. Si 
passerà poi all’indagine degli effetti che questo disturbo ha sulla idoneità educativa del genitore che 
chiede l’affidamento. Per quanto riguarda i bambini invece,  più sono piccoli e più il colloquio 
appare strumento inadeguato a raccogliere informazioni circa la sua personalità. Il colloquio clinico 
può   essere   integrato   dall’applicazione   di   reattivi   mentali,   usati   soprattutto   quando   si   tratta   di 
esaminare dei bambini per i quali può essere inopportuno l’approfondimento, nel colloquio, di certe 
problematiche ansiogene quali potrebbero essere ad esempio i rapporti con i genitori. Il ricorso ai 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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reattivi di tipo proiettivo risponde proprio a questa opportunità (De Leo, 1995). Queste informazioni 
verranno poi integrate da quelle emerse a seguito dell’indagine ambientale dall’audizione di terzi 
eventuali con cui la coppia e i minori sono in contatto. Una volta nominato dal giudice un CTU, e 
soltanto   in   questo   caso,   è   diritto   delle   parti   nominare   dei   periti   di   loro   fiducia,   scelti   a   loro 
discrezione tra gli iscritti ad albi oppure tra i non iscritti. Il giudice ha facoltà di non prendere in 
considerazione le argomentazioni del CTP ; ma è tenuto a prendere in esame le censure che esso 
eventualmente muova all’operato del consulente d’ufficio. E’ importante ricordare che il perito e i 
consulenti di parte sono tenuti a collaborare, essendo l’unico fine del loro operare quello di tutelare 
il o i minori e che essi si debbano adoperare affinché venga mantenuto il contatto anche con il 
genitore non affidatario, avendo il minore “il diritto ad essere educato nell’ambito della propria 
famiglia.  

La perizia psicologica in campo penale minorile  

Secondo l’articolo 98 c.p. l’imputabilità del minore di età compresa fra i 14 e i 18 anni non è 
presunta,   ma   va   verificata   caso  per   caso,   in   relazione   alla   capacità   di   intendere   e  di   volere   al 
momento del fatto­reato commesso. Tale capacità deve essere stabilita dal giudice che procede, il 
quale   può   avvalersi   di   professionisti   presenti   nelle   strutture   minorili   o   di   esperti   esterni.   In 
quest’ultimo caso si parla di perizia ed è finalizzata a prendere decisioni giudiziarie connesse ad 
alcuni degli istituti introdotti dal nuovo processo minorile (D.P.R 448/88): la pericolosità sociale, la 
rilevanza sociale del fatto (art. 17); la messa alla prova (art.28); le adeguate misure penali (art. 30); 
gli eventuali provvedimenti civili (art. 32 c.4). La perizia si caratterizza così come laboratorio di 
ricerca che vede il perito ed il ragazzo impegnati in un lavoro di “co­costruzione”, di racconti e 
narrazioni   di   un   evento   passato,   nonché   di   una   valutazione   che   unisce   dimensioni   cliniche   e 
dimensioni giudiziarie (Palomba, 1991). Mentre il ragazzo infatti, è portato a rivisitare i fatti e i 
percorsi mentali che hanno indirizzato ed accompagnato il suo agire, il perito osserva e segue la 
ricostruzione, dotandola di senso ai fini clinici e peritali. E’ all’interno di questo laboratorio che il 
perito è chiamato a valutare la responsabilità penale dell’imputato, ad esprimere una prognosi sul 
suo   comportamento,   a   formulare   pareri   riguardo   agli   interventi   processuali   più   idonei.   La 
formulazione esplicita più completa in tal senso la troviamo al comma 1 dell’art. 9: “il pubblico 
ministero ed il giudice acquisiscono elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari, 
sociali e ambientali del minorenne al fine di accertarne l’imputabilità ed il grado di responsabilità, 
valutare   la   rilevanza  sociale  del  fatto   nonché  disporre le  adeguate  misure  penali   e  adottare   gli 
eventuali provvedimenti civili”. In deroga a quanto stabilito dall’art. 220 c.p.p., la perizia nella 
minore età è, più che una perizia psichiatrica, un accertamento di tipo psicologico, essendo centrale 
la   valutazione   della   maturità,   piuttosto   che   di   un   quadro   di   patologia   di   mente.   Elemento 
caratterizzante la capacità di intendere e di volere è quello della maturità, desunta da un esame 
completo della personalità del minore e non procedendo ad un esame autonomo della capacità di 
intendere e di quella del volere. La capacità di intendere e di volere non deve essere valutata in 
astratto, ma bensì in relazione al momento dei fatti e allo specifico reato commesso. (Coviello, 
Patrizi,   1989).   Nella   stragrande   maggioranza   dei   casi   infatti,   quello   che   il   giudice   chiede   è 
l’osservazione della personalità del minore, il carattere, la capacita di tenere presenti dei valori etici 
e   morali,   l’attitudine  a  distinguere  il bene  dal male,  il lecito  dall’illecito,  oltre  alla  capacità   di 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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determinare sé stessi rispetto alle proprie scelte ed ai propri comportamenti. La nozione di maturità 
è   poi   abbastanza   ampia   da   permettere   di   riferirla   anche   alla   rete   di   relazioni   familiari   ed 
extrafamiliari ed alla presenza di eventuali problematiche a tale livello, o, in senso più lato, alla sua 
appartenenza ad un contesto sociale disgregato ed emarginato. In altre parole è possibile identificare 
la  “immaturità”  del minore sia nell’esistenza  di deficit  di tipo biologico­psicologico,  oppure  in 
problematiche di tipo relazionale o ancora, di tipo socio ambientale. Il perito deve inoltre valutare 
se   il   minore   in   questione   è   provvisto   di   quelle   generiche   capacità   di   cui   la   giurisprudenza 
presuppone che un minore “maturo” debba essere dotato. Tale valutazione deve necessariamente 
essere   riferita   al   momento   dei   fatti   ed   alle   caratteristiche   del   reato   commesso.   Il   perito   viene 
nominato dal giudice che sceglie tra gli iscritti negli appositi albi o tra persone fornite di particolare 
competenza nella specifica disciplina (art. 221 cpp c.1). Disposta la perizia, il pubblico ministero e 
le parti private hanno la facoltà di nominare i propri consulenti tecnici in numero non superiore, per 
ciascuna parte, a quello dei periti (art. 225 cpp c.1). Quando non è stata disposta la perizia, ciascuna 
parte può nominare, in numero non superiore a due, i propri consulenti tecnici, i quali possono 
esporre al giudice il proprio parere (art. 223 cpp). Nel disporre l’incarico vengono anche stabiliti i 
termini di inizio e di conclusione delle operazioni peritali e della consegna della relazione, che può 
anche   essere   resa  verbalmente  in  situazione  di  incidente  probatorio   e in  corso  di dibattimento, 
costituendo   mezzo   di   prova.   I   quesiti   possono   riguardare:    ∙   l’imputabilità   ed   il   grado   di 
responsabilità (art. 98 c.p.);  ∙ l’accertamento del vizio totale o parziale di mente (ex artt. 88 e 89 )  ∙ 
la pericolosità sociale (are. 203 c.p.);  ∙ la rilevanza sociale del fatto (art. 27 D.P.R. 488/88);  ∙ la 
sospensione del processo e la messa alla prova (art. 28­29 D.P.R. 448/88);    ∙ le adeguate misure 
penali   (art.   30 D.P.R. 448/88);    ∙ gli eventuali  provvedimenti  civili  (art. 32 D.P.R. 448/88);    ∙ 
l’opportunità di formulare prescrizioni, di effettuare progetti di conciliazione con la vittima (art. 20 
D.P.R. 448/88).  Il perito è quindi chiamato ad esprimere un parere che può essere articolato su più 
obiettivi di conoscenza: le capacità attive al momento dei fatti, gli sviluppi ad esso successivi e la 
prospettiva   futura,   i   nessi   di   funzionalità   fra   capacità   personali   e   interventi   processuali, 
l’opportunità di interventi anche preventivi, oltre i confini delle strette esigenze di natura penale. 
Queste   esigenze   definiscono   anche   la   struttura   interna   all’agire   peritale,   che   deve   realizzare 
un’articolazione idonea a rappresentare la complessità della situazione del minore, sotto il profilo 
personale, familiare, socio­ambientale e rispetto ai fatti di cui è imputato, adottando come criterio di 
sintesi, la concettualizzazione e le finalità di ordine giuridico­giudiziario. Una proposta in questo 
senso prevede:    ∙ l’analisi della documentazione esistente: atti processuali, relazioni elaborate da 
altri esperti in occasione di eventuali precedenti contatti del minore con la giustizia, altre relazioni 
presenti   nel   fascicolo   personale   come   per   esempio   quella   dei   servizi   sociali,   ecc.;    ∙  i   contatti 
esplorativi con gli operatori della giustizia che hanno in carico il caso ed eventualmente con gli 
operatori della scuola, dell’Ente locale, ecc. che conoscono il ragazzo;  ∙ gli incontri clinici con il 
minore   e  con   la   sua   famiglia;    ∙   la   somministrazione   eventuale   dei   test;    ∙   le   discussioni   e  le 
valutazioni congiunte con eventuali altri periti e con gli operatori che svolgono il caso ( De Leo, 
1995).  Di due ordini sono le difficoltà che si incontrano generalmente: la personalità del minore, i 
suoi   livelli   di   consapevolezza   rispetto   al   comportamento­reato   e   alle   conseguenze   dello   stesso 
devono essere valutati tenendo anche presente quello che ne deriva, nei termini di risvolti pratici, 
penali delle conclusioni espresse. La seconda riguarda il significato di categoria psicologiche come 
quelle di maturità/immaturità, concetto difficilmente collegabile e non direttamente sovrapponibile 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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a quello di capacità/incapacità di intendere e di volere. Lo psicologo deve dunque essere in grado di 
confrontare   le   richieste   giuridiche,   rigidamente   formulate,   con   un   sapere   fluido   com’è   quello 
psicologico, traducendo quindi un quadro di personalità, ricco di sfumature in termini giuridici.  

L’incarico  

Il giudice può disporre la perizia qualora lo ritenga necessario per ottenere una conoscenza più 
articolata del minore. Il perito, nominato d’ufficio, viene scelto dal giudice tra “le persone che egli 
reputa idonee, e preferibilmente tra coloro che hanno conseguito la qualifica di specialista” (art. 314 
c.p.p.).   Nel   giorno  e  nel   luogo  stabiliti  il   perito   presta  giuramento   con  il   quale   si  impegna   ad 
assolvere all’incarico al solo scopo di far conoscere la verità e a mantenere il segreto sulle indagini 
peritali. Il giudice informa il perito dell’oggetto dell’incarico e pone i quesiti; viene poi fissato il 
termine per la presentazione della relazione scritta, termine generalmente non superiore ai sessanta 
giorni. In caso di bisogno è possibile chiedere una proroga.  

Schema di indagine peritale  

Secondo l’impostazione psico­sociale l’indagine della personalità del minore e la spiegazione dei 
fatti di cui è imputato devono tenere conto sia dei suoi livelli di sviluppo che dei suoi rapporti 
interpersonali, che del significato che il soggetto dà agli stessi. Il lavoro si articola in diverse fasi: 
1. lo psicologo esamina gli atti forniti dal giudice relativi all’inchiesta giudiziaria per conoscere il 
reato di cui il minore è imputato, gli interrogatori cui è stato sottoposto e le dichiarazioni che ha 
prodotto,   Analizzerà   anche   il   materiale   relativo   alle   indagine   socio­familiare,   realizzata 
generalmente dai servizi sociali.    2. il perito incontra il minore in diversi colloqui, nel corso dei 
quali può somministrare diversi strumenti psicodiagnostici, i familiari, i genitori assieme al minore. 
Può esser utile anche osservare il ragazzo nel suo ambiente di vita o, nel caso in cui fosse detenuto, 
nel corso delle interazioni con i compagni e gli operatori della Sezione di Custodia Cautelare. E’ 
bene prevedere anche un incontro, nel caso in cui ci fosse, con l’assistente sociale che ha seguito il 
minore o la sua famiglia.  3. i dati devono essere rielaborati, spiegati in termini psicologici, tradotti 
in termini giuridici e trasformati in conclusioni per rispondere ai quesiti posti dal giudice.  

Strumenti 

Il perito, dietro autorizzazione del magistrato può espletare le indagini peritali con le tecniche e gli 
strumenti che ritiene opportuni, a seconda del proprio orientamento teorico. Il colloquio clinico può 
essere orientato ad approfondire aspetti anamnestici, le relazioni interpersonali, la progettualità e, 
una parte rilevante per analizzare le spiegazioni e le ragioni che il ragazzo fornisce dell’azione 
deviante. Si privilegiano le tecniche autodescrittive, che permettono un’autonoma presentazione del 
Sé, una cosciente esposizione degli aspetti della propria vita, che hanno per il minore assunto una 
maggiore importanza. Una tecnica utile può essere quella del resoconto della storia di vita, in cui si 
chiede al ragazzo: “raccontami la tua storia”. Il ragazzo può, in questo modo decidere da che parte 
incominciare a parlare, le aree da toccare, operando dunque una selezione che sarà per il perito 
informativa dei processi emotivi e cognitivi del minore. Negli incontri successivi sarà opportuno 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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invece approfondire aspetti già presentati o lasciati in sospeso dal ragazzo, utilizzando domande 
dirette,   volte   alla   conoscenza   del   suo   ambiente   di   vita,   all’approfondimento   dei   rapporti   con   i 
familiari, delle sue relazioni extra­familiari, della carriera scolastica, dell’attività lavorativa e del 
tempo libero. Si indagherà quindi come il minore si vede, come sente di essere visto dagli altri, da 
coloro cioè che sono per lui significativi. In questo modo si avrà una visione completa di come si va 
costituendo la percezione che il minore ha del proprio Sé, di quali sono i processi di costruzione 
della  sua identità,  del contributo  che su di essa hanno i fed­back (informazioni  di ritorno)   che 
provengono dalle interazioni sociali. Si può quindi procedere alla rilevazione del resoconto del fatto 
di cui è imputato (“Perché sei qui?”), che possa anche chiarire al minore il senso del lavoro del 
perito.   Le   domande   saranno   dunque   volte   all’indagine   di   come   il   giovane   si   rappresenta 
cognitivamente ed emotivamente i fatti, di come li ricostruisce e li spiega, del significato e delle 
ragioni che dà al suo comportamento. A tal fine si cercherà di soffermarsi sulle intenzioni che 
hanno  preceduto e seguito il fatto, sulle emozioni  provate, sui vissuti attuali  rispetto all’azione 
deviante. E’ inoltre importante indagare se il minore è in grado, e se lo era al momento dei fatti, di 
rappresentarsi le conseguenze delle proprie azioni, e se se ne assume pienamente la paternità e la 
responsabilità. L’ultimo incontro è di chiarificazione e permette di approfondire, di indagare sulle 
potenzialità, sul “positivo” del minore, sulle prospettive di vita che si rappresenta (Coviello, Patrizi, 
1989). Il colloquio con i familiari invece permette di vedere in che contesto si è sviluppata l’attuale 
personalità del minore, prima ancora come si è costituito il nucleo dalla coppia in poi, quali sono gli 
eventi significativi dell’infanzia del minore. E’ importante riservare una parte del colloquio per 
vedere come i genitori vedono la situazione del figlio, “cosa si può fare per lui”, così da cogliere 
l’esistenza all’interno del nucleo familiare di risorse sfruttabili per il lavoro da effettuare con il 
minore, oltre alle capacità di cambiamento della famiglia stessa, rispetto al momento delicato in cui 
viene   a   trovarsi   il   ragazzo.   Gli   strumenti   diagnostici   invece   possono   essere   utili   per   rilevare 
problematiche  non emerse dal colloquio,  soprattutto  con soggetti  particolarmente  chiusi. A  tale 
riguardo esiste un ampio dibattito relativo alla reale utilità degli stessi. Se da un lato infatti se ne 
sottolinea il valore oggettivo e l’obiettività della diagnosi che se ne ricaverebbe, dall’altra si teme 
che   il   contesto   peritale,   non   spontaneo   e   denso   di   ansie   e   preoccupazioni   relative   alla   propria 
posizione   giudiziaria,  rappresenti  una   situazione   molto   lontana  da  quella   di  taratura.  È   tuttavia 
indubbia la possibilità che i test danno di ricavare informazioni supplementari, di approfondire i dati 
già   emersi   in   altra   maniera.   Tra   i   test   usati   vi   sono   quelli   grafici.   Questi   strumenti   utilizzano 
l’attività grafica come medium di trasmissione di sentimenti, affetti, pensieri, rappresentazioni, sono 
cioè finalizzati a considerare le modalità con cui il disegno e tratti specifici di esso esprimono la 
personalità del soggetto (Lis, 1993). Tra questi, il più noto è sicuramente il “test del Disegno della 
figura umana” di K.Machover (1949). Alla base dell’interpretazione di questo test vi è l’assunto che 
il disegno della figura umana rappresenti la “proiezione” dell’immagine del proprio corpo, o ancor 
meglio   del   proprio   io.   L’ambiguità   dello   stimolo   consegna,   “Disegna   una   persona”,   lascerebbe 
infatti   libertà   di   scelta   sul   personaggio   da   rappresentare,   sul   suo   sesso,   l’età,   l’espressione,   la 
posizione, la dimensione e così via, tanto da rendere possibile la proiezione dell’immagine di sé, 
della autostima, dei propri atteggiamenti e verso l’ambiente e verso gli altri significativi che tale 
ambiente   occupano.   Altro   strumento   di   questo   genere   molto   usato   è   il   “test   del   disegno   della 
Famiglia”   di  Corman  (1970), che permette  di rilevare  il modo in cui il minore  vive i rapporti 
affettivi con i familiari, i sentimenti, i desideri, i conflitti, gli atteggiamenti verso quelle persone che 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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più hanno avuto importanza nello sviluppo della sua personalità. Può dare informazioni utili anche 
l’utilizzo   del   ”Reattivo   delle   frasi   da   completare”   di   Saks,   strumento   che   permette   di   avere 
informazioni clinicamente significative su quattro aree rappresentative dell'adattamento del soggetto 
all'ambiente, sul tipo di rapporto interpersonale che il soggetto ha strutturato nella sua dinamica 
esistenziale, nonché del concetto che ha di sé, delle proprie aspirazioni, dei propri timori, sensi di 
colpa e ansie di vario genere ( Riva, 1989). Il “test dell’ Adjective Check List” invece, è un test di 
personalità che si presenta come un metodo standardizzato e pratico di descrizione degli attributi 
personali del soggetto (Gough, 1965). In altre parole, tale strumento tramite l’utilizzo di una lista di 
aggettivi (300), permette di cogliere le modalità con cui il soggetto rappresenta se stesso, i propri 
bisogni, e le proprie potenzialità.  

Stesura della relazione finale  

Sempre utilizzando l’ottica psico­sociale la relazione di perizia può assumere questa struttura:    ∙ 
L’incarico:   modalità   in   cui   è   avvenuto,   quesiti   posti   dal   giudice,   termine   di   consegna   della 
relazione, eventuale richiesta di avvalersi di un collaboratore.  ∙ La metodologia: esplicitazione del 
metodo utilizzato e di come si articola, numero degli incontri, strumenti utilizzati.   ∙ L’anamnesi: 
analisi del contesto di appartenenza del minore e della sua storia personale. Questa parte tratterà poi 
diverse aree: “la famiglia”, dove si evidenzia la storia del nucleo familiare, le relazioni all’interno 
dello stesso, le regole interne, la capacità di cambiamento rispetto alla fase evolutiva del minore; “la 
carriera deviante”, che evidenzia i precedenti penali, se ve ne sono stati, “la scuola”, che illustra la 
carriera scolastica del minore, i suoi risultati, le eventuali interruzioni; “il lavoro e la progettualità”, 
che indica la capacità del minore di impegnarsi in un’attività, di formulare dei progetti realizzabili; 
“le amicizie e i rapporti sentimentali”, che mette in luce quali sono le relazioni significative, per il 
minore, al di fuori della famiglia.  ∙ La personalità del minore. Trattazione dei processi di sviluppo 
dell’identità del minore, della formazione del suo Sé, dove trovano posto i risultati dell’indagine 
psicodiagnostica   oltre   alla   spiegazione   che   egli   da   ai   fatti   di   cui   è   imputato.    ∙   Aspetti 
pscopatologici, nel caso in cui si fossero riscontrati. In questo caso sarà opportuno sentire il parere 
di   esperti   neuropsichiatri   o   medici   specialisti.    ∙   Partecipazione   psicologica   ai   fatti:   vengono 
ricostruiti   i   fatti   con   l’ausilio   del   racconto   del   minore,   si   cercherà   di   leggerli   alla   luce   delle 
spiegazioni   e   delle   ragioni   che   fornisce   del   suo   comportamento;   delle   regole   implicite   che   ha 
seguito;   dell’organizzazione   che   si   è   dato,   degli   scopi   che   si   prefiggeva.   Si   indaga   inoltre   la 
responsabilità   che   si   assume   rispetto   all’azione   e   rispetto   alle   conseguenze   che   da   essa   sono 
derivate.    ∙ Discussione peritale: fornisce un quadro di lettura, riassuntivo e di senso delle parti 
precedenti, collega i significati dell’azione con i quesiti del giudice, anticipando le risposte agli 
stessi.    ∙ Conclusioni: analizza gli aspetti psicologici relativi ai fatti, le implicazioni giuridiche, i 
concetti psicologici relativi alle categorie giuridiche.  ∙ Risposte ai quesiti (Coviello, Patrizi, 1989)  

Conseguenze pratiche  

Nel   momento   in   cui   il   minore   viene   riconosciuto   maturo,   viene   dichiarato   imputabile.   Tra   le 
soluzioni che possono essere adottate abbiamo:  1. sospensione del processo e messa alla prova (art. 
28 D.P.R. 448/1988): in cui il procedimento penale viene sospeso per un periodo, nel corso del 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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quale il minore parteciperà attivamente ad un progetto, elaborato con la finalità di attivare il più 
possibile   le   risorse   del   minore,   a   tutti   i   livelli,   personale,   familiare   e   socioambientale.   È 
indispensabile che il minore accetti la misura, in quanto richiede un suo impegno in prima persona, 
per costruire, seppure con la mediazione dell’adulto, un itinerario non istituzionale di attivazione di 
responsabilità, e per assumere, da protagonista, il significato delle conseguenze sociali e giudiziarie 
del fatto di cui è imputato (Lo Giudice, 1990). Al termine della messa alla prova la personalità del 
minore sarà valutata, l’esito positivo della stessa comporta la dichiarazione di estinzione del reato 
(art. 29 D.P.R. 448/1988);    2. perdono giudiziale: è una rinuncia, per il giudice, di ricorrere alla 
sanzione. Deve però rimanere un provvedimento mirato sul piano del recupero del minore, a tale 
scopo può essere accompagnata da adeguati provvedimenti di sostegno e di recupero in campo 
civile o amministrativo.    3. irrilevanza sociale del fatto: di fronte ad un reato privo di rilevante 
disvalore sociale, vista la tenuità del fatto e l’occasionalità del comportamento, il legislatore, ai fini 
di salvaguardare il processo educativo del minore, qualora l’ulteriore corso del procedimento possa 
pregiudicarlo, può dichiarare l’irrilevanza sociale del fatto. Tale sistema consentirebbe la rapida 
uscita dal circuito penale dei minori che hanno compiuto reati “frivoli”, che non sono indicativi di 
difficoltà di crescita del ragazzo stesso. In tali casi, una sanzione penale, porterebbe ad identificare 
il minore come deviante, cosa alquanto controproducente,; mentre il ricorso alla categoria della 
incapacità   di   intendere   e   di   volere   finirebbe   con   l’essere   improprio   oltre   che   fortemente 
deresponsabilizzante.  Nel caso in cui venga dichiarato immaturo, non sarà invece imputabile e non 
potrà dunque essere né processato, né condannato, ma sarà invece prosciolto per immaturità (ex art. 
98   c.p.).   Se   il   minore   è   invece   dichiarato   socialmente   pericoloso   verrà   sottoposto   a   misura   di 
sicurezza. In minore età questo significa il riformatorio giudiziario. Per i reati della fascia più grave, 
tale misura di sicurezza può essere applicata tramite collocamento in comunità, per gli altri delitti è 
applicabile la misura della libertà vigilata, sotto la forma delle prescrizioni (20 D.P.R. 448/1988) o 
della  permanenza  in casa (Fornari, 1997). Nell’evoluzione del sistema  giudiziario  minorile  si è 
avvertita   la   necessità   di   sottolineare   che   la   pena   non   deve   necessariamente   corrispondere   alla 
detenzione e che è possibile sperimentare risposte sanzionatorie che tengano conto delle esigenze 
legate ai bisogni ed ai diritti del soggetto in età evolutiva. In tal modo la sanzione è intesa come un 
messaggio  responsabilizzante, teso ad affermare  il disvalore sociale  di un comportamento  reato 
compiuto   dal   minore,   e   la   consapevolezza   del   danno   arrecato   direttamente   nei   confronti   della 
vittima  e indirettamente  nei  confronti della  società  stessa (De Leo, 1995). L’introduzione  delle 
misure alternative alla detenzione risponde al bisogno di evitare che il minore prolunghi l’incontro 
con il sistema giudiziario penale, subendo inutili traumi, e al contempo alla necessità di adottare 
provvedimenti più idonei a favorire lo sviluppo di potenzialità positive presenti nel giovane. Gli 
accertamenti   sulla   personalità   del   minore   vanno   dunque   visti   nell’ottica   di   contribuire   ad   una 
risposta il più possibile adeguata alla personalità del soggetto ed alla particolarità del suo caso 
concreto, oltre che una fonte preziosa di informazioni in quel lavoro di mobilitazione di molteplici 
risorse per una adeguata reintegrazione del minore stesso nel tessuto sociale.  

Bibliografia  

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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completare, Firenze, Organizzazioni Speciali. 

Capitolo 4

La mediazione penale minorile 

In questi ultimi anni si è sviluppato un dibattito scientifico e culturale sul tema della mediazione in 
diversi   contesti   della   vita   sociale   quale   quello   penale,   scolastico,   familiare   e   interculturale.   Il 
presupposto su cui si basa la mediazione è che la vita sociale sia regolata da conflitti di diversa 
origine e natura e che questi possano risolversi attraverso un terzo soggetto, scelto e legittimato 
dalle parti, che in modo “neutro” favorisca una soluzione condivisa e alternativa agli interessi della 
singola parte. (Guillaume­Hofnung, 1995; Castelli, 1996). In questo contributo ci occuperemo della 
mediazione   penale   minorile   accennando   brevemente   al   contesto   normativo   di   riferimento, 
soffermandoci sulle principali procedure e metodologie utilizzate nel modello anglossassone con 
riferimento alla sua applicazione nel contesto italiano, delineando alcune potenzialità di questo tipo 
di   intervento   e   alcuni   aspetti   problematici   che   ne   caratterizzano   la   sua   applicazione   nel   nostro 
Paese. Innanzi tutto l’interesse per questo settore si è diffuso fra gli studiosi e gli operatori di diversi 
contesti disciplinari quali quello del diritto, della sociologia, della criminologia e della psicologia 
giuridica. Inoltre si sono avviate numerose sperimentazioni sul territorio nazionale, (Di Ciò 1999, 
Coppola  De  Vanna, Coppola De Vanna, 1999; Buniva 1999, Scali, Volpini,  1999a) che hanno 
cercato   di   utilizzare   gli   spazi   normativi   esistenti   in   campo   minorile,   sviluppando   diverse 
metodologie e tecniche. Attualmente, l’obiettivo principale è quello di coordinare le esperienze per 
confrontarsi sui problemi che le hanno caratterizzate in funzione della messa a punto degli standard 
operativi. La cornice normativa che fa da sfondo alla mediazione penale minorile è il D.P.R.448/88 
all’interno del quale è esplicitamente prevista l’opportunità della riconciliazione fra autore e vittima 
di reato con l’art.28 (“sospensione del processo e messa alla prova”). All’interno di questa misura il 
minore viene inserito in un percorso di responsabilizzazione centrato su alcune attività educative e 
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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risocializzative. A seguito dell’analisi di fattibilità è possibile per alcuni casi, che il minore partecipi 
ad   un  percorso di riconciliazione  con la vittima  del reato.  Un’altra esplicita  opportunità è data 
dall’art.564 c.p.p. in cui, per reati perseguibili a querela, il pubblico ministero, anche prima delle 
indagini   preliminari,  può tentare  la riconciliazione  tra querelante  e querelato.  Anche all’interno 
dell’art.47 (O.P.) che regola l’affidamento in prova ai servizi sociali della giustizia è previsto tra le 
misure di prescrizione che l’autore di reato si adoperi in favore della vittima. Altre misure del 
D.P.R. 448/88 vengono utilizzate come spazi possibili per l’applicazione della mediazione anche se 
non   prevista   esplicitamente.   Le  cornici  normative  sono l’art.9   (“accertamenti  di  personalità   del 
minore”),   in   cui   la   mediazione   è   utilizzata   per   valutare   la   responsabilità   del   minore   e   la 
consapevolezza   delle   conseguenze   della   sua   azione;   l’art.27   (“assoluzione   per   irrilevanza   del 
fatto”),   la   mediazione   in   questo   caso   viene   utilizzata   dal   giudice   per   la   valutazione   del   danno 
prodotto dal minore nei confronti della vittima; l’art.30 (“libertà controllata”) che è una misura 
alternativa alla detenzione in cui il giudice può prevedere come attività prevalente che il minore 
svolga un percorso di mediazione, dopo averne valutato la sua disponibilità insieme all’équipe di 
mediazione. Entrando nel merito della mediazione penale, possiamo definirla come un’attività il cui 
obiettivo è quello di ricomporre il conflitto tra vittima ed autore del reato, attraverso un mediatore 
che in modo diretto o indiretto mette in comunicazione le domande e i vissuti dei due attori in 
riferimento all’azione­reato e ai suoi effetti sul piano giudiziario e psicologico.(De Leo, Volpini, 
1999). Questa forma di intervento si è diffusa, a partire dagli anni settanta, negli Stati Uniti, in 
Canada,   in Australia e in nord Europa, con numerosi programmi che hanno avuto un notevole 
successo. I punti fondamentali (Wright,Galaway,1989) su cui si basa la mediazione riguardano: 

a) il reato inteso come conflitto tra parti; 

b) il sistema­autore vittima come focus dell’intervento; 

c) l’accordo tra le parti come risoluzione del conflitto; 

d) la flessibilità di attuazione delle mediazione dentro e fuori il sistema penale. 

a) Il reato è il risultato di un conflitto tra le parti di cui una subisce un danno che ha significati 
simbolici   e   materiali.   Questa   impostazione   si   differenzia   da   quella   dei   tradizionali   modelli   di 
giustizia   come   quello   educativo­trattamentale   che   ritiene   il   reato   il   risultato   di   problemi   di 
personalità da cui la società proteggersi o come il modello retributivo in cui il reato è una infrazione 
delle regole penali che produce un danno alla società. 

b) Il focus dell’intervento è centrato sul confronto fra le parti. In questo modo l’autore di reato può 
confrontarsi con la vittima rendendosi conto delle conseguenze della sua azione attivandosi in senso 
responsabilizzante verso di lei. La vittima può non solo comprendere i motivi del reato ma anche 
comprendere meglio le proprie strategie personali e d’azione, inoltre può essere parte attiva nel 
chiedere direttamente all’autore del reato cosa questi può fare per lei. L’intervento assume un’ottica 
sistemica   (Bocchi,  Ceruti, 1985;  Cirillo  1990), superando l’orientamento  centrato  sull’autore   di 
reato. 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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c) L’accordo è il principale obiettivo della mediazione, rappresenta la ricomposizione del conflitto. 
L’accordo può essere relativo ad un risarcimento economico (compensation order), alla riparazione 
delle   conseguenze  del  reato  (restitution)  o alla  riconciliazione  tra  vittima  ed autore  di reato.   Il 
risarcimento   economico   viene   utilizzato   per   reati   lievi   come   piccoli   furti,   la   riparazione   delle 
conseguenze del reato invece consiste nello svolgimento di un’attività pertinente nei suoi significati 
simbolici al danno commesso e viene svolta in favore della vittima. La riconciliazione consiste, per 
quanto   riguarda   l’autore   di   reato,   nel   confronto   diretto   con   le   conseguenze   del   reato, 
nell’incremento della propria responsabilità, in un ruolo più partecipe nel sistema della giustizia. 
Per quanto riguarda la vittima, l’obiettivo è la rielaborazione del reato, il contenimento della paura 
di subire altri reati, il recupero di un ruolo attivo nel sistema della giustizia. 

d)   Nei   paesi   anglosassoni   un   aspetto   che   ha   indubbiamente   favorito   ed   incrementato   la 


partecipazione ai programmi di mediazione è il fatto di potere essere svolta in sostituzione del 
procedimento giudiziario, come forma di depenalizzazione applicata a reati lievi. La mediazione è 
prevista durante l’esecuzione del probation (programma risocializzativo della giustizia per i minori 
autori di reato) o come alternativa alla misura penale. 

Umbreit e Warner Roberts (1997) hanno analizzato la tipologia dei programmi di mediazione del 
nord   America  e  della  Gran  Bretagna,  che si riferiscono  a reati  di lievi,  in particolare  di   furto, 
sintetizzando le tappe e le procedure fondamentali che li caratterizzano. 

Generalmente i programmi sono caratterizzati da quattro fasi: 1) la presa in carico delle parti, 2) la 
preparazione alla mediazione, 3) la fase di mediazione vera e propria 4) il follow­up. 

1) La prima fase consiste sinteticamente nell’invio del caso da parte del Tribunale o direttamente 
dalla   Polizia   all'équipe   di   mediazione.   L'équipe   analizza   il   fascicolo   riguardante   i   verbali   ed 
eventuali   informazioni   sul   minore   imputato.   Il   caso   viene   quindi   assegnato   ad   un   membro 
dell’équipe di mediazione, successivamente questi prende contatto sia con l’autore di reato che con 
la vittima attraverso una lettera dove si chiede la disponibilità per un intervento di mediazione. I 
contenuti   della  lettera  consistono nella  presentazione  del programma  di  mediazione  dove viene 
annunciato   un   contatto   telefonico   successivo.   Successivamente   attraverso   una   telefonata,   il 
mediatore prende un appuntamento con l’autore di reato presso la sua abitazione o presso il servizio 
di mediazione. 

2) Comincia a questo punto la fase che prepara l’incontro di mediazione vera e propria. Il primo 
incontro con il minore è basato sulle domande che riguardano i fatti legati al reato e alla sua storia 
personale inoltre vengono analizzate le motivazioni che riguardano l'avere accettato il programma 
di mediazione e l'atteggiamento verso la vittima. 

Se   il   minore   è   disponibile   e   motivato   ad   incontrare   la   vittima,   il   mediatore   la   contatta 


telefonicamente e prende un appuntamento con questa nel contesto che più la fa sentire a suo agio, 
per esempio la sua abitazione. 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Il   primo   colloquio   con   la   vittima   è   centrato   sull’ascolto   degli   effetti   che   il   reato   ha   prodotto 
soprattutto da un punto di vista dei vissuti e del senso di sicurezza personale, inoltre il mediatore 
fornisce delle informazioni riguardanti la storia del minore e la sua disponibilità ad un incontro di 
mediazione, infine la vittima viene sollecitata a pensare alle possibili domande e alle richieste di 
soluzione da fare nell’incontro di mediazione. 

3) La fase di mediazione può essere svolta in forma diretta, in cui le parti scelgono di incontrarsi 
faccia a faccia o in forma indiretta (mediation between) in cui le parti scelgono di non incontrarsi, 
utilizzando il mediatore per comunicare fra di loro. 

Il   ruolo   del   mediatore   è   particolarmente   importante   in   questa   fase   Umbreit   (1995)   propone   la 
combinazione di due stili: nella prima parte dell’incontro propone uno stile definito empowering 
che fa emergere le domande sul reato e le proposte di accordo attraverso un ruolo di ascolto e di 
eventuale stimolo in questa direzione, nella seconda parte propone uno stile definito controlling, 
mirato alla definizione di un accordo vero e proprio fra le due parti, attraverso un ruolo attivo del 
mediatore che raccoglie le proposte di accordo e ne favorisce una sintesi. 

4) Il follow­up (Umbreit 1995, Umbreit, Warner Roberts, 1996) viene sistematicamente svolto per 
valutare l’efficacia dell’intervento, in particolare viene valutato il differente grado di soddisfazione 
tra chi ha partecipato al programma di mediazione diretta rispetto a chi ha partecipato al programma 
di  mediazione  indiretta;  viene  valutata  la differenza  fra chi ha partecipato  alla  mediazione   (sia 
diretta che indiretta) e chi non vi ha partecipato. Vengono anche analizzati i motivi di soddisfazione 
e insoddisfazione a breve e medio termine per i partecipanti. Infine viene preso in considerazione il 
rapporto   con   il   sistema   della   giustizia   e   l’opinione   degli   operatori   della   giustizia   in   merito   al 
progetto di mediazione. I risultati ottenuti fanno emergere innanzi tutto che la mediazione indiretta 
è molto più utilizzata in Gran Bretagna che negli Stati Uniti e che sono rimaste più soddisfatte le 
vittime che hanno partecipato alla mediazione diretta piuttosto che quelle che hanno partecipato alla 
mediazione   indiretta.   Inoltre   gli   imputati   generalmente   rimangono   più   soddisfatti   delle   vittime. 
Tendenzialmente   le   vittime   che   partecipano   alla   mediazione   sia   diretta   che   indiretta   sono   più 
soddisfatte di coloro che non vi partecipano, hanno meno paura di subire altri reati e hanno una 
migliore opinione del sistema della giustizia, mentre gli autori di reato risultano più soddisfatti se 
partecipano al percorso di mediazione rispetto a quelli che non vi partecipano ma fra i due gruppi 
non c’è una diversa considerazione del sistema della giustizia. Fra gli operatori della giustizia il 
consenso   alla   mediazione   è   molto   diffuso   sia   per   gli   effetti   di   maggior   consapevolezza   che   si 
ottengono per l’autore del reato sia per la possibilità data alla vittima di comprendere i fatti, di 
potersi esprimere con le sue domande e i suoi vissuti. Il modello Anglosassone che abbiamo sopra 
delineato,   è   stato   utilizzato   come   punto   di   riferimento   nell’elaborazione   dell’intervento   di 
mediazione   dell’équipe   di   Roma   operativa   dal   1997   (Scardaccione,   Baldry,   Scali,   1998;   Scali, 
Volpini,   1999b), oltre ai contributi  teorici  e metodologici  dell’approccio  sistemico  e strategico, 
applicato alla devianza minorile (De Leo, 1990; De Leo, 1996; De Leo, Patrizi, 1999). L’intervento 
di Roma si basa sull’intervento di rete con le figure professionali coinvolte (magistrati, operatori 
sociali, volontari ecc..), viene progettato per micro­obiettivi inseriti all’interno delle diverse fasi, 
ciascuna fase può prevedere più di un incontro, anche con il servizio inviante ma soprattutto con le 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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parti   in   causa.   Si   caratterizza,   in   fase   di   invio,   per   una   particolare   attenzione   ai   problemi   di 
interazione tra le esigenze, le domande della vittima e gli spazi di intervento offerti dal Processo 
Penale Minorile. La mediazione essendo una nuova modalità di intervento per il contesto italiano 
viene   spesso   vissuta   dalle   vittime   non   tanto   come   opportunità   per   sé   ma   come   opportunità 
strumentale   in   senso   premiale   per   l’autore   di   reato.   Questo   vissuto   è   risultato   particolarmente 
evidente se la mediazione viene svolta durante il percorso penale piuttosto che in seguito ad una 
sentenza.   In   questa  fase dove viene  fatta  una prima  analisi  di fattibilità  è importante  tenere   in 
considerazione a che punto del procedimento penale il caso è inviato all’équipe di mediazione e 
quanto tempo ha a disposizione il mediatore prima che si arrivi all’udienza. Anche durante il lavoro 
di   pre­mediazione,   il   rapporto   tra   tempi   processuali   e   tempi   della   mediazione   sono  di   difficile 
conciliazione, per cui è possibile (soprattutto per reati contro la persona) che con la vittima non si 
ottenga   una   disponibilità   per   una   mediazione   durante   il   periodo   della   messa   alla   prova,  per   la 
necessità di maggiore tempo di elaborazione dei fatti e dei propri vissuti prima di incontrare l’autore 
di   reato.   All’interno   di   questa   fase   il   lavoro   dell’équipe   è   centrato   particolarmente   sull’analisi 
dell’azione   del   reato   (De   Leo,   1991;   Cranach,   Harré;   1991)   con   particolare   riferimento   alla 
dimensione   relazionale   che   a   preceduto,   accompagnato   e   seguito   l’interazione   tra   l’autore   e   la 
vittima di reato (Becker 1963; De Leo, Patrizi 1992). In questa fase sia per la vittima che per 
l’autore di reato viene anche dato ascolto all’espressione di vissuti emotivi come la rabbia, la paura, 
per la prima e il senso di colpa per il secondo con il metodo delle domande riflessive e circolari 
(Tomm,1991).   La   fase   di   mediazione   vera   e   propria   si   è   caratterizzata   in   questa   esperienza 
attraverso un percorso di mediazione indiretta inteso anche come tappa preliminare ad un incontro 
faccia a faccia tra le parti. L’aspetto necessario in questa fase è il consenso informato delle parti che 
incaricano il mediatore di potere riferire contenuti, interrogativi, proposte emerse nell’incontro. Da 
una prima analisi  di follow­up svolta, è possibile affermare che anche quando l’intervento   non 
arriva fino alla fase di mediazione vera e propria, è possibile che le parti ne traggano un qualche 
vantaggio, come per esempio una riduzione di conflittualità, una maggior consapevolezza dei fatti, 
un senso di potenziamento per la vittima, una maggiore disponibilità durante il percorso processuale 
da parte della vittima del reato. Come è facile intuire da ciò che è emerso fino ad ora, la mediazione 
penale minorile non è di semplice applicazione soprattutto perché la vittima sente che il processo 
penale(Ponti, 1996) è centrato soprattutto sull’autore di reato e sente il proprio ruolo marginale sia 
da un punto di vista normativo che di prassi giudiziaria. Il vissuto relativo al suo ruolo nel processo 
penale minorile, la carenza di una cultura diffusa fra i cittadini e gli operatori sulla mediazione 
producono dunque molte difficoltà al livello del consenso della vittima al percorso di mediazione. 
Per questi motivi si sta cominciando a dibattere addirittura la compatibilità tra la mediazione penale 
e   il   sistema   della   giustizia   minorile   (De   Leo,1999)   con   l’esigenza   di   rivedere   alcuni   aspetti 
normativi e organizzativi del sistema minorile in funzione di una reale possibilità di applicazione 
della mediazione. C’è però una grande attenzione anche da parte di organismi internazionali sulle 
opportunità   offerte   dalla   mediazione   come   metodologia   di   intervento   funzionale   alla 
responsabilizzazione del minore e ai diritti delle vittime. Recentemente il Consiglio d’Europa con la 
Raccomandazione n° R (99) 19 del 15 Settembre 1999 si è pronunciato affinché la mediazione 
possa entrare a far parte integrante dei sistemi della giustizia, garantendo in ogni stato e grado del 
processo   la  possibilità  di potere  svolgere  la mediazione,  riconoscendo alla  vittima  un legittimo 
interesse ad avere voce sulle conseguenze della vittimizzazione subita, e un legittimo interesse a 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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potere   comunicare   con   l’autore   di   reato   per   arrivare   ad   un   accordo   o   ad   una   riparazione,   e 
riconoscendo l’importanza di potenziare il senso di responsabilità dell’autore di reato offrendo delle 
opportunità pratiche e funzionali per la sua futura reintegrazione e socializzazione. Viene inoltre 
riconosciuto in questo documento l’importanza del ruolo dei singoli individui e della comunità nel 
prevenire e gestire il conflitto­reato in funzione della costruzione di un sistema della giustizia meno 
repressivo e più costruttivo. In linea con l’esigenza di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica 
che sembra sempre più orientata verso un modello di negoziazione della regolazione dei rapporti 
sociali,   piuttosto   che   verso   un   modello   autoritario   ed   impositivo   (Ceretti,   1999),   anche   se   con 
ambivalenze e contraddizioni. Anche a questo livello la mediazione può rispondere alla comunità, 
rappresentata dal mediatore, la gestione del conflitto tra le parti, rivalutando così anche l’immagine 
della giustizia da parte dell’opinione pubblica. L’attenzione degli studiosi e degli operatori è dunque 
centrata sulle procedure, sulle metodologie, sul ruolo della vittima nella dinamica processuale, sulle 
attese di giustizia dei cittadini e anche sul ruolo della mediazione rispetto alla funzione della pena. 
A questo proposito, la pena intesa in senso retributivo è considerata da alcuni Autori come Eusebi 
(1998) come radicalizzazione del conflitto, come risposta che ripropone la stessa frattura messa in 
atto dall’autore di reato contro il diritto. L’obiettivo della retribuzione della pena secondo questo 
Autore,   mira   alla   negazione   della   frattura   e   del   conflitto   che   emerge   con   il   reato,   mentre   la 
mediazione assume nei suoi presupposti e nelle sue procedure l’esistenza del conflitto fra le parti. 
Attraverso   la   mediazione   viene  ricomposta   la  comunicazione   fra autore   di  reato  e  parte  lesa   e 
quest’ultima viene rivalutata nel proprio ruolo potendo partecipare attivamente alla ricomposizione 
del   conflitto,   superando   l’esigenza   retributiva   nei   confronti   di   chi   ha   commesso   il   reato.   La 
mediazione   penale   sempre   secondo   l’Autore   si   integra   bene   con   l’ottica   risocializzativa   della 
risposta penale che avrebbe in questo modo un suo rafforzamento e un reale compimento rispetto 
alla logica retributiva e punitiva. Anche a questo livello la mediazione senza dubbio rappresenta 
potenzialmente una risorsa per la cultura del cambiamento della giustizia nel nostro paese, anche se 
queste potenzialità sono difficili da sviluppare, per il consolidamento dei sistemi tradizionali di tipo 
retributivo e sanzionatorio, per la apparente semplificità delle forme trattamentali e per una valenza 
ancora rassicurante del sistema carcerario (De Leo,1999). Anche se ci sono delle difficoltà, vale la 
pena   investire   nella   direzione   della   mediazione,   in   termini   di   sensibilizzazione   culturale   ed 
operativa rivolta chi intende operare nel settore della giustizia, non solo in campo minorile ma 
anche in quello degli adulti, per favorire questa opportunità innovativa per il sistema della giustizia. 

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FARMACODIPENDENZA E CRIMINALITÀ 

1. LE SOSTANZE PSICOATTIVE 

Com’è noto, una sostanza psicoattiva è qualsiasi elemento naturale o sintetico capace di modificare 
l’attività psicofisica dell’uomo e di stimolare o deprimere il sistema nervoso centrale e periferico; 
Alcune di queste sostanze possono provocare allucinazioni e modificazioni delle funzioni motorie e 
del giudizio, e col tempo, possono determinare uno stato di dipendenza psico­fisica. Quasi sempre 
l’uso di queste sostanze rappresenta un danno per l’organismo che tenta di mantenere l’omeostasi; 
qualunque modificazione esterna dell’ambiente interno è infatti destinata sempre a provocare una 
reazione finalizzata al ripristino dell’equilibrio iniziale. Attualmente esiste una grande varietà di 
sostanze   psicotrope   più   o   meno   diffuse   e   più   o   meno   legalizzate.   La   scelta   dell’uso   di   una 
determinata droga è dovuta in parte agli effetti che si vogliono ottenere (scelta individuale) ed in 
parte alla tendenza a conformarsi alle usanze del gruppo a cui si appartiene (scelta psicosociale). 

L’alcool è senza dubbio lo psicotropo più diffuso in Italia ed ha, se l’uso è eccessivo, gli effetti 
collaterali socialmente più dannosi. L’abuso di alcool stordisce, toglie il senso della realtà, provoca 
illusioni sensoriali, induce episodi di aggressività e disturbi psichici. 

Anche l’uso dei farmaci è oggi in continuo e progressivo aumento, da un lato incrementato dalla 
convinzione   errata   nel   paziente   che   la   terapia   farmacologica   fa   sempre   e   soltanto   bene 
all’organismo,  dall’altro  lato  dalla  pressione  di marketing  delle  industrie  farmaceutiche.  Spesso 
l’efficacia della farmacoterapia è in realtà esaltata dall’effetto placebo della sostanza. Ogni farmaco 
produce   un   effetto   positivo   per   l’organismo   (terapeutico)   e   contemporaneamente   uno   negativo 
(collaterale)   come   ad   esempio   la   dipendenza.   Pertanto,   la   medicina   “in   pillole”   non   è   sempre 
sinonimo   di   benessere;   il   progressivo   e   indiscriminato   aumento   dell’uso   dei   farmaci   può 
rappresentare un motivo di preoccupazione per il mantenimento dello stato di salute. 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Gli   stupefacenti   sono   sostanze   chimiche   naturali   o   sintetiche   che   introdotte   nell’organismo 
svolgono una particolare azione tossica e soprattutto, con l’uso abituale, possono indurre un forte 
stato di dipendenza. Le più conosciute sono: l’oppio e i suoi derivati (morfina e eroina), la canapa 
indiana (hashish e marijuana), la cocaina e i nuovi prodotti chimici sintetici (es. LSD, ecstasy). I 
loro   effetti   sono   vari:   alcune   svolgono   azione   sedativa   e   analgesica,   altre,   invece,   provocano 
euforia, eccitazione, stato sognante e fenomeni di allucinazione visiva. 

2. LA DIPENDENZA PSICO­FISICA 

L’assunzione di una sostanza psicotropa provoca nella persona la comparsa di alterazioni psico­
fisiche generalmente piacevoli. Qualunque sia stata la causa del primo incontro con la droga, spesso 
il suo uso è destinato a ripetersi fino a diventare una vera e propria schiavitù. Infatti, col passare del 
tempo,   per  ricevere  l’effetto  desiderato  queste sostanze  devono essere introdotte  a dosi sempre 
maggiori; l’organismo si abitua ad esse a tal punto che non ne può più fare a meno, se non a prezzo 
di   gravi   sofferenze.   Questo   stato   di   dipendenza   è   dovuto   a   modificazioni   metaboliche   che   la 
tossicomania ha progressivamente creato nell’organismo. E’ infatti certo che l’abuso quotidiano di 
stupefacenti e di stimolanti provoca contemporaneamente sia anomalie costituzionali (dipendenza 
fisica),   sia   contingenti   fattori   di   ordine   psichico   (dipendenza   psichica).   La   dipendenza   fisica 
determina una subordinazione funzionale dell’organismo ad una sostanza la cui mancata assunzione 
provoca   una   serie   di   disturbi.   Tale   quadro   definito   “sindrome   da   astinenza”   scompare 
immediatamente   quando   viene   ripreso   l’uso   della   sostanza.   La   dipendenza   psichica   è   la 
necessità/motivazione   di   assumere   una   determinata   droga   ed   insorge   quando   coscientemente   o 
incoscientemente   la   persona   ritiene   che   solo   l’assunzione   di   quella   sostanza   porterà   benessere 
all’organismo.   Questa   schiavitù   è   correlata   ad   una   tendenza   psicologica   che   richiede   una 
somministrazione periodica della droga per ricevere l’effetto desiderato. La qualità e la quantità 
delle   sostanze   psicoattive   necessarie   a   soddisfare   il   bisogno   della   persona   sono   direttamente 
proporzionali al grado di coinvolgimento e al tipo di motivazione psico­fisica che hanno spinto la 
persona ad assumere tali sostanze. Coloro che assumono le sostanze psicoattive vengono talvolta 
suddivisi da alcuni autori in base ad una tipologia relativa al diverso grado di dipendenza: 

Il consumatore occasionale: persona con esperienze saltuarie di stupefacenti, quasi sempre sotto 
forma di consumo sociale e ricreativo, con la possibilità di interrompere l’uso quando ciò è ritenuto 
utile   e   necessario.   Domina   in   questo   gruppo   l’effetto   piacevole   ed   euforizzante   indotto   dalla 
sostanza. 

Il consumatore: soggetto che pur avendo sviluppato una certa tolleranza alla droga e pur subendo un 
certo   grado   di   dipendenza  fisica   e  psichica  riesce   a  mantenere   ancora   validi   interessi   a  livello 
sociale, lavorativo e buoni rapporti interpersonali. Questo gruppo di persone è caratterizzato da stati 
di irritabilità e di aggressività, da insicurezza nei movimenti e da frammentazione nelle ideazioni. 

Il tossicodipendente: persona che presenta una marcata dipendenza fisica e psichica dalla sostanza. 
Il contatto con la realtà in questo gruppo risulta affievolito. E’ presente agitazione psicomotoria, 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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alterazioni della coscienza, disturbi dell’ideazione di tipo delirante e allucinazioni prevalentemente 
visive. 

Il tossicomane: soggetto completamente dominato dal bisogno del farmaco. L’individuo investe 
tutte le proprie energie nel tentativo di procurarsi la sostanza con ogni mezzo, lecito o illecito. E’ 
presente una forte dipendenza del soggetto dalla sostanza che viene assunta a intervalli di tempo 
sempre più ravvicinati. Vi è una sensibile trasformazione della qualità delle relazioni interpersonali 
a   causa   di   gravi   disturbi   del   comportamento,   caratterizzati   da   violenta   impulsività   e   da 
manifestazioni a carattere isterico. 

3. GLI EFFETTI PSICO­FISICI 

Gli effetti sintomatologici che producono le sostanze psicotrope possono variare in base: 

­ alla natura e alla composizione chimica della sostanza assunta; 

­ allo stato psico­fisico della persona; 

­ al ritmo delle assunzioni; 

­ al contemporaneo uso con altri farmaci 

L’assunzione   ripetuta   di   alte   dosi   di   sostanze   psicoattive   può   danneggiare   quasi   ogni   apparato 
organico,  specialmente il tratto gastrointestinale, il sistema cardiovascolare e il SNC e SNP. In 
particolar modo si verifica un deficit cognitivo, una grave compromissione della memoria e una 
modificazione   degenerativa   organica   del   cervelletto.   Sono   presenti   tremore,   insonnia,   diarrea, 
brividi   violenti,  innalzamento  della pressione sanguigna, tachicardia  e sudorazione.  Sono molto 
evidenti le alterazioni oculomotorie, le crisi compulsive, l’intensa astenia, il calo della libido con 
impotenza o frigidità[1]. A livello psichico queste sostanze provocano: alterazione dello stato di 
coscienza,   alterazioni   intellettive,   scadimento   della   memoria,   rallentamento   della   percezione, 
disturbi dell’associazione, demenze, decadimento della sfera etica, riduzione dei poteri inibitori. E’ 
presente una forte labilità dell’umore con alternanza di fasi depressive ad altre di estrema irritabilità 
e   aggressività,   ansia,   allucinazioni,   depressioni,   psicosi   paranoidee,   deliri   di   gelosia   e   di 
persecuzione.   Inoltre   sono   presenti   modificazioni   comportamentali,   disturbi   della   percezione 
spazio­temporale, difficoltà nell’elaborazione del pensiero, calo degli interessi sociali e lavorativi, 
modificazione  della   facoltà   di  attenzione,  di  concentrazione   e dei  tempi  di  reazione[2].   Per   un 
criminologo è doveroso conoscere gli effetti collaterali di queste sostanze per meglio comprendere 
ed   interpretare   alcune   modificazioni   comportamentali   che   possono   essere   correlate   con   azioni 
criminali. 

4. LA DIPENDENZA E LA COMORBIETÀ PSICHIATRICA 

Da quanto è emerso, l’assunzione di una determinata sostanza psicoattiva può esercitare una forte 
pressione   sull’uomo   a   scapito   dei   suoi   valori   e   delle   sue   convinzioni.   Tale   fattore   ha   posto   il 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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problema dello studio della correlazione tra personalità, psicopatologia e disturbo da alto uso di 
sostanze.   In   particolar   modo   le   ricerche   sull’argomento   cercano   di   spiegare   come   l’abuso   di 
sostanze   psicotrope   possa   esacerbare   sintomi   psichiatrici   e   come,   al   contrario,   disturbi   mentali 
possano   predisporre   all’abuso.   I   dati   quantitativi   di   riferimento   provengono   dall’Epidemiologic 
Catchment Area (ECA) Study del NIMH ed evidenziano che: 

“tra tutti i soggetti che rilevavano nella vita una diagnosi di disturbo mentale ben il 14,7% avevano 
in anamnesi un disturbo da abuso/dipendenza da sostanze stupefacenti ed il 28,9% in aggiunta un 
disturbo da abuso/dipendenza da alcool”[3]. Ciò indica che coloro che hanno una storia di uso di 
sostanze hanno un rischio di disturbo mentale 4 volte superiore a quello della popolazione generale. 
Questo è dovuto a tutte le alterazioni psicologiche che sono in grado di provocare queste sostanze. 
Da   quanto   emerge   nella   letteratura   nei   farmaco­dipendenti   la   presenza   di   disturbi   gravi   della 
personalità è generalmente associata alla cronicizzazione del disagio psichico e psicosociale, alle 
frequenti   ricadute   nel   ricorso   alle   sostanze,   al   fallimento   terapeutico   e   alla   prognosi   negativa, 
nonché alla depressione, alla scarsa socializzazione, ai danni nell’elaborazione concettuale e nella 
memoria. In particolar modo la diagnosi di disturbo da personalità antisociale nelle persone dedite 
all’abuso   sembra   correlata   a   maggiori   problemi   di   ordine   legale,   ai   minori   vantaggi   sul   piano 
terapeutico,   alla   più   frequente   necessità   di   associazione   della   psicoterapia   ad   un   trattamento 
farmacologico. 

“All’interno  dei sottogruppi diagnostici troviamo poi tassi di comorbietà con disturbi da uso di 
sostanze del 27.5% per la schizofrenia, del 19,4% per i disturbi affettivi, nonché del 42% per il 
disturbo antisociale di personalità”[4]. 

L’associazione   tra   i   disturbi   psichici   e   l’abuso   di   sostanze   trova   sovente   spiegazione 


nell’aggregazione   di  fattori  sociali   di  rischio  correlati  allo  sviluppo  di   forte  depressione.   Molti 
soggetti assumerebbero infatti le droghe per alleviare le ansie, i problemi del sonno, la depressione, 
le allucinazioni visive e sonore e tutti gli effetti collaterali dovuti alle loro malattie psichiche. 

5.   LE   RELAZIONI   TRA   L’ABUSO   DI   SOSTANZE   PSICOTROPE   E   IL 


COMPORTAMENTO CRIMINALE 

Le associazioni tra il comportamento d'abuso e quello criminale possono verificarsi nello stesso 
individuo o tra individui diversi. Nel primo caso è il tossicodipendente stesso a mettere in atto il 
comportamento criminale, mentre nel secondo caso questi ha soltanto un ruolo di consumatore e i 
comportamenti criminali vengono messi in atto da altri soggetti[5]. 

5.1. Relazioni tra i due comportamenti nello stesso soggetto 

Tali   relazioni   si   fondono   sugli   effetti   comportamentali   negativi   che   certe   sostanze   psicotrope 
possono indurre in chi ne fa uso. Si tratta di comportamenti che finiscono con l'avere più o meno 
gravi   ripercussioni   sul   funzionamento   sociale   dell'individuo   e   che   possono   sfociare   nella 
commissione di atti disturbanti e/o reati. Questi effetti comportamentali, come accade per quelli 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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fisici e psichici, sono strettamente connessi al tipo di sostanza, alla quantità e alle diverse modalità 
individuali di coinvolgimento con la stessa. 

A) Vi può essere innanzitutto una correlazione diretta tra l'azione farmacologica svolta dalle diverse 
sostanze   psicoattive   e   il   comportamento   delittuoso.   Si   tratta   in   questi   casi   essenzialmente   di 
comportamenti violenti (danneggiamento di oggetti, aggressioni verbali, fisiche o sessuali, omicidi 
non   premeditati)   commessi   tutti   in   maniera   estremamente   impulsiva.   L'insorgenza   di   questi 
comportamenti   non   può   però   essere   spiegata   esclusivamente   con   l'assunzione   delle   sostanze   le 
quali,   come   dimostrato   da   numerose   indagini   sperimentali,   non   agiscono   direttamente 
sull'aggressività,   ma   facilitano   piuttosto   l'espressione   di   cariche   aggressive   già   presenti 
nell'individuo. Del resto, secondo le più recenti teorie criminologiche, il comportamento criminale 
rappresenta un'unità complessa che emerge dall'interazione tra diversi fattori di ordine biologico, 
psicologico, psicopatologico, relazionale, socio­ambientale e normativo; la sua manifestazione non 
può pertanto, essere ricondotta, secondo una logica di determinismo lineare, a nessuno di questi 
fattori presi singolarmente, né tanto meno alla loro mera sommatoria. L'alcool e alcune droghe 
possono quindi soltanto agevolare la commissione di atti violenti i quali sono sempre generati da 
particolari motivazioni, sia espressive che strumentali, che si costruiscono all'interno di determinati 
contesti e relazioni[6]. Possono essere più facilmente attribuite all'azione esclusiva delle sostanze 
quelle condotte pericolose da cui spesso derivano comportamenti gravemente lesivi dell'incolumità 
propria   e   altrui   che   vanno   a   configurare   reati   colposi   commessi   alla   guida   di   autoveicoli   o 
nell'esercizio di attività pericolose di tipo professionale (infermiere, meccanico ecc.) e domestico 
(maneggio di strumenti pericolosi, bombole di gas ecc.). 

B) L'esistenza di uno stato di dipendenza rimanda poi a molteplici e complesse correlazioni di tipo 
indiretto tra abuso di sostanze psicotrope e criminalità del farmacodipendente. L'uso protratto di 
sostanze aventi un elevato potere di determinare dipendenza psico­fisica (alcool, eroina, anfetamine, 
più   raramente   cocaina)   rende   estremamente   difficile   mantenere   un   comportamento   socialmente 
integrato laddove il bisogno incontrollabile di assumere la sostanza, per rivivere gli stati psichici 
piacevoli e per prevenire la sofferenza della sindrome da carenza, fa sì che questa divenga l'unica 
ragione di vita. E così, quanto più si è instaurata una dipendenza, tanto più sono presenti problemi 
lavorativi, familiari e relazionali in senso ampio legati all'incapacità del soggetto di conservare gli 
interessi precedenti, di ottemperare ai compiti imposti dal suo ruolo, di coltivare i rapporti affettivi e 
amicali e, in definitiva, di mantenere il proprio status. Perdendo di importanza tutti i valori e le 
remore   dello   status   precedente   il   tossicomane   viene   ad   assumere   uno   stile   di   vita   marginale, 
degradato, amorale e improduttivo che a sua volta favorisce la commissione di reati sia di tipo 
violento   che   patrimoniale.   Tali   condizioni   vengono   peraltro   mantenute   e   amplificate   dalle 
permanenti alterazioni sia fisiche che psichiche e dalle rilevanti compromissioni della struttura di 
personalità che subentrano con il ripetersi quotidiano e continuo degli abusi. Difficile però, se non 
impossibile, distinguere se queste degradate condizioni di vita siano da ricondursi esclusivamente 
agli effetti deleteri delle sostanze o non anche a disturbi psicopatologici e di personalità preesistenti 
sui quali l'alcoolismo e la tossicodipendenza possono andare ad impiantarsi. Spesso difatti, come 
segnalato dalla letteratura, l'abuso di sostanze rappresenta la complicazione ed il prodotto di disturbi 
nevrotici, psichiatrici o di personalità rispetto ai quali il soggetto mette in atto un tentativo di auto­

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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cura, di fuga dalla sofferenza e dal disagio. Se poi il consumo della sostanza è proibito per legge e il 
suo prezzo sul mercato clandestino è molto alto (eroina e cocaina) diventa pressoché inevitabile che 
il tossicodipendente arrivi a procurarsi il denaro necessario al suo acquisto tramite la commissione 
di una sequela di reati e che intraprenda, pertanto, uno stile di vita anche delinquenziale. Si tratta in 
questo caso di reati di furto, scippo, rapina, estorsione, spaccio che tanto allarme sociale creano 
soprattutto   nelle   grandi   città.   Molto   spesso   inoltre   i   tossicomani   vengono   ad   avere   una 
frequentazione con ambienti di criminalità comune dove il consumo di droga, in particolar modo di 
eroina e cocaina, è così diffuso e intenso da far parlare dell'esistenza non solo di una delinquenza 
dei tossicomani, ma anche di una tossicomania dei delinquenti[7]. Anche la letteratura segnala il 
frequente abuso di sostanze associato ad un disturbo di personalità antisociale interpretandolo come 
espressione di un più generale atteggiamento di sfida, spregio delle norme e noncuranza per la 
sicurezza propria e altrui. La necessità di contatti per procurarsi la droga e/o per ricettare merce 
rubata,   assieme   alla   tendenza   dei   tossicodipendenti   a   fare   gruppo,   per   creare   quella   ritualità 
comunitaria   che   caratterizza   l'assunzione   di   stupefacenti   e   un   legame   sociale   che   non   si   può 
realizzare nella società "normale," fanno sì che il tossicomane criminalizzato si confonda sempre 
più   con   il   delinquente   tossicomane.   L'inserimento   progressivo   dei   tossicodipendenti   nella 
sottocultura   criminale   può   essere   tale   da   rendere,   ad   un   certo   punto,   praticamente   impossibile 
operare una distinzione tra queste due categorie che non sia puramente teorica. Anche se è poco 
diffusa si registra pure una criminalità da sindrome di carenza caratterizzata da reati compiuti in una 
condizione di sofferenza angosciosa che spinge a procurarsi al più presto i soldi per la droga. Una 
siffatta urgenza può portare alla parziale o completa perdita di controllo e quindi alla commissione 
di atti delittuosi impulsivi, quali rapine o furti, non pianificati precedentemente. 

5.2.  Relazioni tra i due comportamenti in soggetti diversi 

Tali relazioni si realizzano quando il soggetto dipendente da alcool o droga si trovi a rimanere 
vittima di atti violenti compiuti nei suoi confronti; o anche quando i reati siano legati alle attività 
illecite di produzione, traffico e distribuzione degli stupefacenti. 

A) La correlazione tra abuso di sostanze psicotrope e criminalità si estrinseca anche in un ruolo 
vittimogeno di queste sostanze in quanto gli effetti comportamentali negativi che inducono in chi ne 
fa   uso   possono   assumere   carattere   di   provocazione   dell'aggressività   altrui   esponendo   quindi   il 
soggetto   consumatore  al rischio di rimanere  vittima  di atti  violenti.  L'abuso o soltanto  l'uso  di 
sostanze   può   quindi   portare   gli   individui   ad   essere   più   facilmente   sia   autori   che   vittime   di 
comportamenti delittuosi, così come può accadere che un unico soggetto si ritrovi in un momento 
autore ed in un altro vittima di quella stessa violenza precedentemente esercitata. Spesso si verifica, 
soprattutto nel caso dell'alcool, che sia l'autore che la vittima di un reato violento si trovino sotto 
l'effetto di sostanze psicotrope. Per quanto concerne l'abuso di sostanze come fattore vittimogeno va 
anche considerata la possibilità per il soggetto alcool o tossicodipendente di rimanere vittima di 
abitudini di vita pericolose e/o di quegli ambienti degradati e delinquenziali con i quali entra in 
contatto fino a diventarne a volte un vero e proprio gregario. 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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B) Le sostanze psicoattive illecite hanno un'ulteriore valenza criminogena legata agli ingenti introiti 
economici che gruppi criminali, più o meno rigidamente organizzati, ricavano dal loro traffico. 
Particolarmente minacciose sono le organizzazioni criminali dotate di ramificazioni multinazionali 
e di criteri di gestione altamente manageriali che controllano da decenni il traffico dell'eroina e più 
di recente anche quello della cocaina, il cui consumo è in costante aumento. La produzione e il 
commercio di queste due droghe garantiscono difatti una straordinaria moltiplicazione dei profitti 
che nessun altro settore produttivo può lontanamente eguagliare. La produzione e il traffico delle 
droghe leggere (siccome danno vita ad un business decisamente meno proficuo) sono invece gestiti 
da gruppi criminali con una organizzazione meno strutturata, di dimensioni più piccole e meno 
potenti.  I grandi interessi in gioco nelle operazioni di produzione, traffico, e distribuzione delle 
sostanze   stupefacenti   hanno   portato   sia   ad   un   aumento   quantitativo   che   ad   un   cambiamento 
qualitativo della criminalità a livello mondiale. Non soltanto sul mercato della droga sono fiorite 
nuove   organizzazioni   criminali   più   o   meno   pericolose,   estese   ed   efficienti,   ma   l'accrescersi 
rapidissimo  dell'arricchimento  ha prodotto il potenziamento  sia dei nuovi che dei vecchi  poteri 
criminali   un   tempo   fondati   su   attività   illecite   meno   redditizie.   Parallelamente   si   sono   avute,   e 
continuano   ad  aversi, trasformazioni  profonde nella  struttura  attraverso  forme  sempre nuove   di 
organizzazione   dettate   dall'esigenza   di   far   fronte   alla   concorrenza   delle   altre   organizzazioni 
criminali e, al contempo, di sfuggire alle azioni di repressione e contrasto predisposte dagli Stati e 
da   apposite   istituzioni   internazionali.   La   ricchissima   posta   in   gioco   ha   inoltre   determinato   una 
criminalità   sempre   più   efferata   e   violenta   e   la   progressiva   scomparsa   di   quei   codici 
comportamentali che pure un tempo venivano rispettati negli ambienti delinquenziali comuni. Negli 
scontri tra narcotrafficanti per la conquista e la spartizione dei mercati, così come nella guerra in 
atto tra questi e gli apparati statali, vengono oggi colpiti, con estrema ferocia e senza esitazione 
alcuna, donne e bambini, magistrati ed alti esponenti delle istituzioni, giornalisti e chiunque altri sia 
considerato minimamente d'intralcio. Non meno spietate sono le lotte che piccoli e medi spacciatori 
appartenenti   a   ramificazioni   delle   diverse   organizzazioni   criminali   ingaggiano   tra   loro   per   il 
controllo   delle   aree   di   distribuzione   locale.   L'altissima   concentrazione   di   ricchezza   nelle   sedi 
criminali che organizzano il traffico rappresenta inoltre una minaccia per la stabilità politica, sociale 
ed economica tanto dei paesi produttori, quanto di quelli dove essa viene smerciata. Nei paesi in cui 
vengono prodotte le sostanze naturali, (alcuni paesi del sudamerica per la cocaina e del sud­est 
asiatico per l'oppio) l'economia prevalente, attorno alla quale ruotano tutte quante le altre, è quella 
della droga con il risultato che anche i valori morali ne risultano fortemente condizionati. Pertanto, 
sia nei paesi in cui i governi locali sono influenzati o direttamente controllati dai narcotrafficanti 
tramite infiltrazioni nelle amministrazioni e nei gangli decisionali, sia nei paesi in cui li combattono 
strenuamente con continue guerriglie, il vero potere si trova comunque nelle mani dei grandi trust 
criminali.   Per   quanto   riguarda   invece   i   paesi   consumatori,   le   ingenti   quantità   di   denaro   a 
disposizione delle organizzazioni criminali vanno ad alimentare un'altra forma di criminalità meno 
visibile che si infiltra nella pubblica amministrazione, mediante la corruzione, e va a minacciare lo 
stato   di   salute   dell'economia   pubblica   e   privata,   mediante   il   riciclaggio   di   denaro   di   illecita 
provenienza e la sua successiva utilizzazione: l'immissione di denaro riciclato nei normali circuiti 
economici del paese fa saltare le regole imprenditoriali della concorrenza togliendo ai soggetti che 
lavorano secondo principi di onestà ed efficienza la possibilità di competere. La potenza derivante 
dall'enorme ricchezza accumulata viene inoltre utilizzata per influenzare gli indirizzi politici del 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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paese attraverso la creazione e l'orientamento delle clientele elettorali, così da garantire che siffatta 
potenza possa essere perpetuata ed accresciuta. 

6. LE TEORIE SULL’INDUZIONE ALL’AGGRESSIVITÀ 

In particolar modo negli USA sono state prodotte statistiche attendibili[8] che indicano come: 

­ l’86% dei casi di omicidio si realizzano sotto l’effetto dell’alcool; 

­ il 37% delle aggressioni si compiono dopo aver assunto alcolici; 

­ il 60% delle aggressioni sessuali si svolgono dopo aver ingerito alcool. 

Anche se questi dati si incentrano sugli effetti dell’alcool, si può desumere che tutte le sostanze 
psicoattive, se assunte in dosi eccessive, facilitano l’attivazione di comportamenti irruenti e privi di 
coscienza. 

Alcune teorie riguardo al rapporto fra le droghe ed i comportamenti violenti affermano[9]: 

A) L’ipotesi della disinibizione: le sostanze psicoattive indeboliscono i meccanismi di controllo che 
a livello cerebrale bloccano l’impulso aggressivo. Queste sostanze sono in grado di agevolare la 
messa in atto di comportamenti violenti, liberando pulsioni aggressive preesistenti nell’individuo, 
piuttosto che produrli autonomamente. La possibilità di passare ad atti irruenti (acting­out) dipende 
pertanto,   dall’interazione   con   diversi   fattori   preesistenti   nell’uomo:   personalità   di   base,   storia 
familiare, età del soggetto, tipo di inserimento sociale, contesto ambientale. 

B)   La   tesi   dell’alterazione   dei   meccanismi   di   elaborazione   delle   informazioni:   le   sostanze 


psicotrope   determinano   una   interpretazione   errata   degli   atteggiamenti   degli   altri   e   quindi   una 
reazione   esagerata   ad   essi.   Questo   effetto   incoraggia   l’autore   a   mettere   in   atto   comportamenti 
impropri   e  agevola la distorsione interpretativa  dei  messaggi  fra autore  e vittima,  favorendo   la 
messa   in   atto   di   comportamenti   provocatori.   L’aggressività   è   alimentata   dalla   diffidenza,   dal 
sospetto, da quell’ideazione paranoide che spesso complica una intossicazione acuta. Il pensiero 
diffidente/paranoide rappresenta quindi lo stadio nel quale più facilmente il tossicomane produce 
comportamenti   violenti.   Le   azioni   aggressive   possono   essere   dunque   il   frutto   non   solo   della 
tendenza   a   reagire   con   irruenza   a   stimoli   soggettivamente   percepiti   come   intrusivi,   invasivi   o 
minacciosi, ma anche dell’incapacità di controllare la propria emotività, che può agevolare scelte 
delittuose immediate. 

C) La teoria della riduzione dell’attenzione: le droghe diminuiscono la messa in atto delle normali 
norme precauzionali poiché riduce la percezione del rischio. L’effetto disinibente ed eccitante, unito 
a   diminuita   criticità   e   minore   attenzione   possono   predisporre   comportamenti   a   rischio,   che   si 
articolano lungo un ventaglio di possibilità che vanno dalla guida spericolata al mancato uso di 
profilattici in comportamenti sessuali a rischio. Le sostanze psicoattive sono in grado di produrre 
modificazioni delle facoltà attentive, di concentrazione e dei tempi di reazione. 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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7. I RISVOLTI CRIMINOGENI E VITTIMOGENI DELLE SINGOLE SOSTANZE 

Per meglio poter applicare le teorie sopra esposte è opportuno specificare le diverse forme di reati 
correlati all’uso di specifiche sostanze. Alcune agiscono direttamente sui centri nervosi deputati al 
controllo dei comportamenti aggressivi, altre favoriscono stili di vita antisociali che predispongono 
al comportamento criminale, ed altre ancora inducono una generica condizione di disinibizione che 
può tradursi in una più facile manifestazione di azioni violente. 

7.1. L'alcool 

L'alcolismo si configura come un complesso problema sociale oltre che medico, sia perché alla sua 
patogenesi concorrono, assieme a fattori biologici e psicologici, anche fattori sociali, sia perché le 
conseguenze   negative   che   comporta   sul   singolo   individuo   a   livello   medico,   neurologico   e 
psichiatrico si ripercuotono sull'intero corpo sociale. E ciò non soltanto per i costi economici diretti 
e   indiretti   che   l'alcoolismo   comporta   alla   società   in   termini   di   spesa   sanitaria   o   di   perdita   di 
produttività sul lavoro; anche perché la progressiva compromissione di tutte le funzioni psichiche, e 
il   deterioramento   dei   rapporti   sociali   che   ne   deriva,   possono   indurre   particolari   alterazioni   del 
comportamento che assumono una netta caratterizzazione antisociale. Nonostante la dimensione del 
problema, il fenomeno dell'alcoolismo non è però oggetto della dovuta attenzione né da parte dei 
politici, né da parte degli operatori sociosanitari i quali appaiono quasi esclusivamente impegnati ad 
affrontare   le   pur   serie   problematiche   derivanti   dalla   diffusione   delle   droghe   illegali.   Eppure   la 
dipendenza da alcool dà una sintomatologia molto simile a quella degli oppiacei pur instaurandosi, 
contrariamente a quest'ultima, soltanto dopo molti anni di abuso continuativo. Tra i disturbi alcool­
correlati quelli che rivestono maggiore interesse criminologico sono l'intossicazione acuta, l'abuso e 
la dipendenza da alcool. Gli altri raramente conducono a comportamenti criminali, mentre le forme 
di criminalità tipiche dei quadri psicotici indotti da alcoolismo cronico rientrano in una competenza 
più squisitamente psichiatrica. I risvolti criminologici dell'intossicazione alcolica acuta sono legati 
alla sua capacità di slatentizzare o accentuare tendenze aggressive precedentemente controllate o 
comunque mitigate. L'effetto depressivo dell'alcool sui centri superiori corticali indebolisce difatti i 
meccanismi   di   controllo   di   ogni   tipo   di   pulsioni,   comprese   quelle   aggressive,   provocando   una 
condizione di disinibizione. La comparsa di comportamenti aggressivi viene anche agevolata dal 
fatto   che   l'alcool   determina   un'alterazione  dei   meccanismi   di  elaborazione  delle  informazioni   e 
quindi un'interpretazione errata dell'atteggiamento degli altri che può portare a reazioni esagerate. 
L'alcool è pertanto la sostanza psicotropa che più di tutte quante le altre è in grado di produrre 
quella   che  viene definita  "violenza  psico­farmacologica"  e quindi di indurre criminalità  diretta. 
Numerose   e   rigorose   ricerche   sperimentali   volte   a   sondare   l'effetto   dell'alcool   sull'aggressività 
hanno   dimostrato   che   la   sola   somministrazione   di   quantità   rilevanti   di   alcool   non   produce 
autonomamente comportamenti violenti; il suo effetto consiste invece nel potenziare tale tipo di 
comportamenti,   indotti   sperimentalmente   da   specifiche   situazioni   appositamente   create,   sia   in 
intensità che in durata. Negli stati di abuso e di dipendenza da alcool, caratterizzati dall'incapacità di 
interrompere   o   ridurre   l'assunzione   dell'alcool,   i   segni   di   intossicazione   alcolica   sono   presenti 
durante tutto il giorno e, alla lunga, determinano una alterazione alcolica della personalità. In una 
personalità via via sempre più deteriorata la tendenza alla impulsività e a comportamenti aggressivi 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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viene accentuata da profonde modificazioni dell'umore e dell'affettività, da un marcato aumento 
dell'emotività, dal venir meno del senso morale che porta il soggetto a disinteressarsi delle relazioni 
familiari e sociali, del lavoro, di mantenere una condotta retta e onesta. Il conseguente logorio dei 
rapporti in famiglia, le violente discussioni che sorgono attorno all'abitudine del bere e alla condotta 
dell'alcoolista fanno sì che questi arrivi spesso ad usare violenza nei confronti del partner e dei figli 
o di altri soggetti deboli quali possono essere nipoti o genitori anziani. L'associazione tra alcoolismo 
e violenza intrafamiliare è stata ampiamente evidenziata dalla letteratura che individua nell'abuso di 
alcolici (soprattutto nell'autore, ma a volte anche nella vittima) un importante fattore precipitante o 
concomitante   di  comportamenti  violenti   i  quali  possono  essere   di  tipo   psicologico   (aggressioni 
verbali, umiliazioni, limitazioni della libertà di movimento) o di tipo fisico (dalle percosse più o 
meno   gravi   fino   all'omicidio).   L'impotenza   sessuale   che   sopraggiunge   negli   stati   avanzati   di 
dipendenza, unitamente all'insorgenza di un disturbo psicotico, può inoltre far insorgere deliri di 
gelosia nei riguardi della partner con pericolose conseguenze per la sua incolumità fisica. Tali deliri 
vengono peraltro alimentati dal frequente rifiuto della donna di avere rapporti intimi con uomini 
riversi in un tale stato di degrado fisico da suscitare ripugnanza e che fanno spesso richiesta di 
pratiche sessuali umilianti. L'abuso di alcool o droghe è stato quindi individuato come uno degli 
elementi  di  rischio o diagnostici  sia per il maltrattamento coniugale che per quello sui minori; 
quest'ultimo non riguarda solo le forme attive, tra le quali va considerato anche l'abuso sessuale, ma 
anche quelle più diffuse e non meno gravi dell'abbandono, dell'incuria e della discuria. L'alcool si 
correla con il crimine violento anche in contesti non familiari: i reati di violenza (quali percosse, 
lesioni,   omicidi)   sono   quelli   più   frequentemente   commessi   dagli   alcoolisti   come   risultato   della 
impulsività, dell'irritabilità e della tendenza alla litigiosità che finisce per danneggiare tutti i loro 
rapporti   sociali.   L'aumento   della   libido   e   di   pulsioni   erotiche   incontrollabili,   determinato 
dall'assunzione di consistenti quantità di alcool, li induce inoltre a mettere in atto comportamenti 
sessuali disturbati che possono configurare reati contro la morale pubblica e il buon costume (es. 
esibizionismo) oppure di violenza sessuale (es. stupro, atti sessuali con minori); in quest'ultimo caso 
appare però determinante anche la distorsione interpretativa dei messaggi (di natura sessuale o così 
ritenuti) inviati nel corso dell'interazione. Più tipici dei giovani che fanno uso eccessivo e smodato 
di   alcolici,   ad   esempio   cominciando   a   bere   già   dal   mattino,   sono   gli   atti   di   vandalismo   con 
danneggiamento afinalistico di beni di proprietà pubblica o privata. L'alcoolista si ritrova ad essere 
facilmente non soltanto autore, ma anche vittima di numerosi atti di violenza. Il ruolo vittimogeno 
dell'alcool è stata evidenziato da numerosi dati raccolti in letteratura sulla elevata percentuale di 
reati violenti in cui la vittima presenta tassi elevati di alcolemia. La presenza di alcool viene spesso 
riscontrata sia nella vittima che nell'autore di uno stesso reato la cui messa in atto viene pertanto 
agevolata dalla congiunta azione criminogena e vittimogena della sostanza. Entrambe queste azioni 
si   spiegano   allo   stesso   modo   in   quanto   l'allentamento   del   controllo   sulle   pulsioni,   assieme 
all'interpretazione errata dell'atteggiamento degli altri, possono portare i soggetti a mettere in atto 
non soltanto comportamenti violenti, ma anche atti provocatori più o meno intenzionali, creando, in 
quest'ultimo   caso,  situazioni   per loro  altamente  pericolose.   A  volte  la  provocazione  agita   dalla 
vittima consiste proprio in un comportamento violento che provoca l'aggressività dell'altro cosicché 
la posizione della vittima può andare da una totale estraneità fino ad una piena partecipazione attiva 
al delitto. L'alcool agisce da fattore vittimogeno anche perché riduce o annulla la possibilità della 
vittima di opporre resistenza a causa dell'allentamento dei riflessi, della capacità di controllo dei 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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gesti, della diminuzione della vigilanza. Anche nei reati sessuali l'assunzione di elevate quantità di 
sostanze   alcoliche   rappresenta   un   importante   fattore   vittimogeno   laddove   la   vittima   viene   fatta 
spesso bere con il preciso intento di diminuirne l'autocontrollo e quindi le resistenze sia fisiche che 
psicologiche. In altri casi, invece, una donna in stato di ebbrezza può manifestare atteggiamenti 
provocatori che possono essere male interpretati dall'uomo, soprattutto se anch'egli è sotto l'effetto 
dell'alcool, come tacito consenso al rapporto sessuale. Lo stesso modo di trascorrere le giornate ha, 
per l'alcoolista, una valenza vittimogena: le lunghe ore di permanenza nei bar, luogo dove più di 
frequente nascono discussioni verbali e risse, il vagabondaggio per le strade, il rientro a casa nelle 
ore notturne lo espongono fortemente al rischio di aggressioni, rapine e omicidio. Altri reati che gli 
alcoolisti   cronici   sono   pure   indotti   a   compiere,   seppur   meno   frequenti,   sono   quelli   contro   la 
proprietà: lavorando in maniera irregolare o non lavorando affatto sono spesso indigenti e possono 
essere  spinti  a rubare dalla necessità  di acquistare  le sostanze  alcoliche  o anche beni di prima 
necessità; inoltre, venendo meno tanto il controllo sul comportamento quanto il senso morale, essi 
sono portati a prendere, anche con mezzi illeciti, qualsiasi cosa vogliano ottenere. A causa di certi 
effetti provocati dall'alcool (riduzione dell'attenzione, conseguente diminuzione della percezione del 
rischio e di messa in atto delle normali norme precauzionali, rallentamento dei riflessi) ad esso può 
essere attribuita, contrariamente ai casi di cui si è detto sopra, responsabilità certa ed esclusiva nel 
determinare incidenti di diverso tipo che possono configurarsi come reati colposi: incidenti stradali 
che coinvolgono solo gli ospiti delle autovetture o anche i pedoni, incidenti aerei, incidenti sul 
lavoro, incidenti domestici. 

7.2. L’eroina 

E' la droga che trasforma quasi senza scampo chi ne dipende in un delinquente abituale perché, in 
forza della sua capacità di indurre una tenacissima dipendenza e quindi di rendere il tossicomane un 
cliente obbligato, è venduta a prezzi assurdamente gonfiati. La necessità dell'eroinomane di disporre 
in continuazione di ingenti somme di denaro, assieme al subentrare di uno stile di vita degradato e 
amorale, lo portano spesso a commettere reati che consistono non solo in una micro­criminalità di 
tipo esclusivamente patrimoniale (in prevalenza furti), ma anche in aggressioni violente alla persona 
(scippi, rapine, estorsioni). Il bisogno assillante di denaro trasforma il tossicomane anche in una 
fonte di manovalanza facilmente reclutabile da qualunque gruppo o organizzazione criminale per 
qualsiasi attività, purché compatibile con il loro stato; può inoltre predisporre a forme di devianza 
come   la   prostituzione   che   spesso,   a   sua   volta,   induce   altra   criminalità.   Spesso   succede   che   il 
tossicodipendente venga inserito nella catena di distribuzione come piccolo spacciatore coartato 
dalla minaccia di fargli mancare la dose quotidiana, se rifiuta, e allettato dalla possibilità di avere 
dosi gratis, se accetta. Il quotidiano contatto con gli altri tossicodipendenti e la naturale tendenza del 
tossicodipendente a fare nuovi proseliti lo rende difatti un soggetto ideale per operare in direzione 
dell'allargamento del consumo e per garantire  quindi allo spacciatore intermedio  un incremento 
continuo   del   volume   di   affari.   Le   modificazioni   del   carattere   e   della   personalità   tipiche 
dell'eroinomane,   che   si   traducono   anche   in   comportamenti   imprevedibili,   reazioni   esplosive   e 
irritabilità,   possono   pure   dar   vita   ad   atti   di   violenza   soprattutto   in   casa   dove   forti   si   fanno   le 
difficoltà di rapporto. Frequenti sono difatti le discussioni e le liti che nascono attorno allo stato di 
degrado fisico e psichico in cui riversa il familiare, ai tentativi di indurlo a disintossicarsi, alle 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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incessanti richieste o sottrazioni di danaro e beni di valore fatte dal tossicomane. E' facile, pertanto, 
che tali discussioni degenerino in minacce, estorsioni, percosse e lesioni di cui il tossicodipendente 
può   ritrovarsi   però   anche   vittima;   difatti   sovente   succede   che   tanta   violenza   generi   reazioni 
disperate   nei   familiari   che   possono   arrivare,   in   casi   estremi,   anche   ad   ucciderlo.   In   un   ottica 
vittimologica vanno anche considerati i molti reati consumati ai danni degli eroinomani soprattutto 
in   quegli   ambienti   delinquenziali   di   cui   egli   entra   a   far   parte.   Frequenti   sono   i   casi   in   cui   il 
tossicomane, nei panni anche di spacciatore, rimane ferito o ucciso negli scontri che si verificano tra 
rivali per il controllo monopolistico delle zone di distribuzione. Il consumo di eroina, inducendo 
stati di ottundimento psichico, svolge pure un ruolo rilevante nella determinazione di reati colposi 
commessi alla guida di autoveicoli. 

7.3. La cocaina 

Questa   droga,   molto   più   delle   altre,   sembra   esercitare   un'influenza   diretta   sull'aggressività 
slatentizzando 1e istanze aggressive preesistenti e inibendo, contemporaneamente, il controllo e il 
giudizio critico. Si tratta di una sostanza utilizzata, sino ad un decennio fa, soltanto nelle classi 
sociali più elevate e che attualmente si va invece diffondendo in tutti gli ambienti. Ciò in virtù del 
fatto che i suoi effetti vengono considerati non soltanto innocui, ma anche in linea con le richieste di 
efficienza  e prestazioni  elevate poste dalla nostra società.  Pur non subentrando mai una vera e 
propria dipendenza fisica la cocaina può comunque dare una forte dipendenza psichica che porta ad 
assumerne quantità eccessive per tempi prolungati. Si fa alto, in tal caso, il rischio che si verifichino 
episodi di intossicazione acuta e anche stati di intossicazione cronica che possono indurre quadri di 
strutturazione paranoidea fino a veri e propri scompensi psicotici con deliri di persecuzione o di 
gelosia. E' evidente come in presenza di un'ideazione paranoide possano più facilmente verificarsi 
comportamenti   violenti   messi   in   atto   allo   scopo   di   difendersi.   La   cocaina,   agendo   sui   centri 
cerebrali che governano i comportamenti aggressivi e impulsivi, indurrebbe quindi una particolare 
aggressività di tipo difensivo alimentata dalla diffidenza e dalla sospettosità. Ma comportamenti 
violenti possono verificarsi anche nei primi due stadi dell'intossicazione cronica, prima che si arrivi 
cioè alla comparsa del pensiero diffidente/paranoide e, successivamente, del disturbo psicotico. Il 
primo  stadio   definito "di euforia" è caratterizzato da iperattività psico­motoria e miglioramento 
delle capacità cognitive. In questa fase atti di violenza possono essere indotti da una condizione di 
ipervigilanza che comporta una eccessiva tendenza ad interpretare le intenzioni altrui e a reagire in 
maniera immediata; inoltre l'eccesso di euforia, la sensazione di potenza e di fiducia estrema in se 
stessi   possono   essere   utilizzati   strumentalmente   per   compiere   diversi   tipi   di   reati,   così   come 
possono produrre comportamenti spericolati e imprudenti che sono causano di incidenti. Il secondo 
stadio, definito "disforico", è invece caratterizzato non soltanto dal calo della concentrazione e del 
rendimento in tutte le attività, ma anche da una riduzione del controllo emotivo che può portare il 
soggetto   ad   agire  o  a  reagire  in  maniera  violenta,  esponendolo  ovviamente  anche   al  rischio   di 
rimanere   vittima   dell'aggressività   di   altri   provocata   dai   suoi   stessi   comportamenti.   Va   inoltre 
considerato   che,   potendo   indurre   una   forte   dipendenza   psicologica   e   costando   cifre   abbastanza 
elevate, anche la cocaina, così come l'eroina, può portare il soggetto a compiere reati legati alla 
necessità di reperire in continuazione somme di denaro per il suo acquisto. 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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7.4. Le anfetamine 

Anche   se   alcune   indagini   sperimentali   indicano   che   queste   sostanze   potrebbero   stimolare 
comportamenti aggressivi, nell'uomo atti di violenza sembrano verificarsi più frequentemente nei 
consumatori abituali che in quelli occasionali il che induce a ritenere che essi siano determinati non 
tanto   dall'azione   farmacologica   della   sostanza   stessa,   quanto   dalle   deteriorate   relazioni   sociali 
tipiche dell'assuntore cronico. Comportando una forte dipendenza, sia fisica che psichica, l'abuso di 
anfetamine   provoca   difatti   ripercussioni   negative   sul   funzionamento   sociale   con   conseguente 
assunzione dello stesso stile di vita marginale e degradato dell'eroinomane. 

Va però segnalato che, se assunte in dosi eccessive, il piacevole stato di eccitazione indotto dalle 
anfetamine   può   trasformarsi   in   irritabilità   e   aggressività   da   cui   possono   pertanto   scaturire 
comportamenti violenti o provocatori della violenza altrui. 

7.5. Gli allucinogeni, l’ectasy ed altri derivati degli anfetaminici 

Il consumo di queste sostanze è sempre più in aumento soprattutto tra i giovanissimi i quali ne 
fanno largo uso in momenti ricreativi che hanno luogo in particolari giorni e luoghi: esse vengono 
difatti utilizzate prevalentemente durante i fine settimana nelle discoteche, allo stadio, a feste e 
concerti per amplificare il divertimento attraverso prestazioni ed emozioni particolarmente intense. 
Il rischio di una sempre maggiore diffusione di queste sostanze è collegata al fatto che, come già 
inizialmente per la cocaina, esse non vengono percepite come vere e proprie droghe in quanto i 
danni provocati compaiono soltanto dopo periodi molto lunghi di abuso e alcune di loro non sono 
ancora state incluse nelle diverse tabelle delle sostanze stupefacenti. Non vi sono per queste droghe 
significative correlazioni con la criminalità in quanto il loro costo è relativamente economico e non 
sembrano produrre dipendenza; il loro uso rimane difatti esclusivamente limitato alle situazioni di 
svago collettivo. Neanche sono mai state dimostrate correlazioni di tipo diretto tra l'assunzione di 
queste sostanze e comportamenti aggressivi. Vengono segnalati soltanto rari episodi di aggressività 
riconducibili alla perdita di lucidità e al senso di onnipotenza che gli allucinogeni possono indurre; 
manifestazioni di aggressività e partecipazioni a risse possono pure verificarsi come conseguenza 
dell'allentamento dei freni inibitori indotto dall'ectasy, ma anche qui si tratta di casi eccezionali dal 
momento che la tipica condizione di disinibizione procurata dalla sostanza si traduce, generalmente, 
in un migliore rapporto con gli altri, in una più intensa e piacevole socializzazione. E' pur vero però 
che   sull'effetto   e   l'intensità   di   queste   sostanze   giocano   un   ruolo   rilevante   la   personalità   del 
consumatore, l'umore al momento dell'assunzione e, non ultimo, il contesto in cui questa avviene. 
Un ambiente chiuso e rumoroso quale quello delle discoteche, con continue e stressanti stimolazioni 
sensoriali, dove vengono contemporaneamente consumate bevande alcoliche, può quindi favorire 
anche   alterazioni   comportamentali   di   tipo   aggressivo.   Una   elevata   correlazione   diretta   esiste 
soltanto   con   la   delittuosità   colposa   da   incidenti   stradali,   causati   da   eccesso   di   velocità,   che 
avvengono solitamente al momento del ritorno a casa. Nel caso dell'ecstasy essi sono riconducibili 
alla persistente eccitazione, unita ad un diminuito senso critico, che genera una falsa sensazione di 
sicurezza alla guida; altre volte sono invece provocati dalla alterata prontezza dei riflessi legata alla 
stanchezza che subentra una volta esauriti gli effetti stimolanti, stanchezza peraltro pesantissima se 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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si considera che il senso di energia indotto dalla sostanza porta i ragazzi a ballare ininterrottamente 
per parecchie ore e spesso durante tutta la notte. Nel caso invece degli allucinogeni, dosi eccessive 
possono   indurre   perdita   del   controllo   e   della   lucidità   accompagnate   da   una   sensazione   di 
onnipotenza che porta il soggetto a sopravvalutare le proprie capacità, senza contare le conseguenze 
negative che hanno sulla guida le distorsioni percettive tipiche di queste sostanze. 

7.6. I cannabici 

La relazione con la commissione di reati è pressoché inesistente, fatta eccezione per quelli colposi, 
come gli incidenti stradali, determinati dalla diminuzione dell'attenzione, della concentrazione e 
della prontezza dei riflessi. Il basso costo e la mancanza di un bisogno imperativo di assumerla 
fanno   sì   che   il   consumatore   di   cannabis   sia   praticamente   immune   dal   coinvolgimento   con   la 
criminalità: egli conserva un normale funzionamento sociale e il suo status di vita precedente all'uso 
o abuso di sostanze. Anche l'azione diretta delle sostanze sui comportamenti violenti è trascurabile. 
Consumatori di cannabici si trovano più facilmente coinvolti in gravi atti violenti,  nel ruolo  di 
autore   o   vittima,   soltanto   nel   caso   essi   facciano   contemporaneo   uso   di   alcool   o   altre   sostanze 
stupefacenti.   Comportamenti   aggressivi   possono   comunque   manifestarsi   in   fumatori   abituali   e 
ostinati che abbiano sviluppato una dipendenza psichica. La letteratura descrive modificazioni del 
carattere in corso di uso cronico di cannabici anche se questi aspetti risentono molto dell'esistenza 
di precedenti problemi psicologici e relazionali che giocano un ruolo determinante nell'indurre la 
persona a ricorrere all'uso massiccio di "spinelli" e da quest'uso risultano poi rinforzati e acuiti. A 
tal proposito è stata segnalata una sindrome definita "demotivazionale" caratterizzata da perdita di 
motivazioni sia per le attività sociali che lavorative, con un atteggiamento di fuga dai problemi 
quotidiani e di ricerca del benessere esclusivamente nel fumo, un po’ come avviene per l'alcool e 
l'eroina. Alcuni autori hanno pure evidenziato come il consumo intenso e protratto possa interferire 
con i ritmi di sonno e veglia impedendo quindi un riposo regolare al soggetto che in forza di ciò 
potrebbe divenire sempre più irascibile e reagire con comportamenti aggressivi ad ogni minima 
critica   o   provocazione.  Va inoltre  segnalato  che dosaggi molto  alti  di queste sostanze  possono 
indurre   una   intossicazione   acuta   caratterizzata,   tra   gli   altri   sintomi,   anche   da   irritabilità   o 
manifestazioni aggressive secondarie a disturbi ideativi di tipo paranoide. 

8. IL TRATTAMENTO DEI FARMACODIPENDENTI IN AMBITO PENITENZIARIO 

L’istituzionalizzazione è una tappa quasi obbligatoria per il tossicodipendente e per l’alcolista, i 
quali frequentemente finiscono in carcere. L’art.84 della legge 684/75 sancisce che “chiunque si 
trovi in stato di custodia o di espiazione di pena e sia ritenuto dall’autorità sanitaria abitualmente 
dedito all’uso non terapeutico di sostanze stupefacenti o psicotrope, ha diritto di ricevere le cure 
mediche   e  l’assistenza  sanitaria  a  scopo di riabilitazione”.  Per una corretta  impostazione  di  un 
programma terapeutico l’intervento degli operatori deve essere necessariamente multidisciplinare 
ed   avvalersi   delle   strutture   sanitarie   penitenziarie   e   dei   centri   sociosanitari   territoriali.   Il 
contenimento ed il superamento della crisi di astinenza vengono in linea generale affrontati con la 
somministrazione   di   trattamenti   medicamentosi.   Vengono   controllati   il   funzionamento   dei   vari 
organi del tossicodipendente ed eseguiti esami di laboratorio, contemporaneamente ad una terapia 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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farmacologica metabolica, tranquillante, di sostegno e nutrizionale. In un secondo momento viene 
affrontato l’aspetto psico­sociale, con l’obiettivo di far si che questi soggetti riacquistino la fiducia 
nelle loro capacità ed imparino a risolvere con modalità più efficaci i problemi, e di sensibilizzare il 
soggetto   ad   aderire   ad   un   programma   terapeutico   e   socio­riabilitativo   fra   quelli   realizzabili   in 
istituto. L’analisi delle reti sociali permette agli operatori di individuare sia i membri del sistema di 
appartenenza del soggetto che potrebbero essere coinvolti nel processo di aiuto, sia le risorse da 
mobilitare   e   le   strategie   da   mettere   in   atto.   Una   valida   connessione   intersistemica   dovrebbe 
collegare gli operatori del carcere con i servizi territoriali, con i sistemi informali (parenti, amici, 
vicini) e quasi formali di sostegno (volontariato, gruppi self­help). Allo stato attuale la detenzione è 
tra   le   poche   concrete   occasioni   per   effettuare   un’effettiva   disintossicazione,   in   ragione 
dell’obbligato   distacco   dalla   sostanza.   Durante   la   detenzione   è   possibile   realizzare   la 
disintossicazione ed il trattamento degli aspetti fisici delle tossicodipendenze, ma ben poco si può 
fare per gli interventi psicologici e psico­sociali, attualmente carenti. Ne deriva che il trattamento 
nel suo complesso è incompleto, mancando una fase di riabilitazione e di reinserimento sociale[10]. 
Dal punto di vista criminologico l’elevata percentuale di precedenti penali dimostra chiaramente 
l’inefficacia del trattamento puramente custodialistico. E’ necessario programmare nuove strategie 
di intervento in favore del detenuto tossicodipendente o alcolista: 

 ­ utilizzare il contratto con la giustizia per avviare un piano di trattamento fisico e psico­sociale; 

 ­   evitare   stigmatizzazioni:   la   scelta   di   non   isolare   gli   alcolisti   dai   tossicodipendenti   è   data 
dall’esigenza di non “ghettizzare” e di non creare condizioni di privilegio rispetto ad altre categorie 
di detenuti; 

 ­ predisporre un trattamento individuale e specifico. 

 L’ordinamento penitenziario pone l’obbligo di attuare un trattamento rieducativo che tenda, anche 
attraverso i contatti con il mondo esterno, al reinserimento sociale[11]. Tale modalità rieducativa 
dei condannati è diretto a promuovere un processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di 
ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale. In questa prospettiva si auspica un sempre più 
diffuso   collegamento   tra   le   strutture   penitenziarie   ed   i   servizi   territoriali,   in   grado   di   garantire 
globalità   e   continuità   al   trattamento,   anche   al   di   fuori   della   struttura   carceraria.   In   tal   modo 
l’intervento penitenziario diviene più organico e globale, finalizzato all’obbiettivo ultimo, che è il 
recupero attraverso l’effettiva e proficua interpretazione sociale. 

Profili statistici tipici degli alcolisti e dei tossicodipendenti nelle carceri 

ALCOLISTA 

Sesso: maschio, 

Età: 35 anni,

Scolarità: elementare, 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Attività lavorativa: disoccupato 

Reati:   furto,   oltraggio,   resistenza   a   pubblico   ufficiale,   maltrattamenti   in   famiglia,   ricettazione, 


spaccio di sostanze stupefacenti 

TOSSICODIPENDENTE 

Sesso: maschio 

Età: 23 anni 

Sostanza utilizzata: eroina 

Reati: contro il patrimonio, reati comuni, contro la persona 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Tossicodipendenza,   carcerazione,   aree   urbane   a   maggior   rischio   nella   città   di   Bologna,   in: 
Bollettino per le farmacodipendenze e l’alcolismo, XIX (4) 1996. 

­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­ 

[1] Quadro sintetico degli effetti dell’alcool, in: Bollettino per le farmacodipendenze e l’alcolismo, 
XX (4) 1997 

[2] Quadro sintetico degli effetti dell’alcool, in: Bollettino per le farmacodipendenze e l’alcolismo, 
XX (4) 1997 

[3] Tossicodipendenza, personalità e comorbietà psichiatrica. Implicazioni cliniche, in: Medicina 
delle tossicodipendenze, IV n.2­3 (11­12) Dicembre 1996. 

[4] Tossicodipendenza, personalità e comorbietà psichiatrica. Implicazioni cliniche, in: Medicina 
delle tossicodipendenze, IV n.2­3 (11­12) Dicembre 1996. 

[5]   Ferracuti   F.,   Trattato   di   criminologia..   Alcolismo,   tossicodipendenze   e   criminalità   vol.XV, 


Giuffré, Milano 1988. 

[6] De Leo G., Patrizi P., La spiegazione del crimine, Il mulino, Bologna; 1999 2° ed 

98
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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[7] Ponti G., Compendio di criminologia, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999 4° edizione. 

[8] Alcool, violenza ed aggressività, in: Bollettino per le farmacodipendenze e l’alcolismo, XXI (1) 
1998. 

[9] Alcool, violenza ed aggressività, in: Bollettino per le farmacodipendenze e l’alcolismo, XXI (1) 
1998. 

[10] Ferracuti Franco (a cura di), Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria 
forenze: carcere e trattamento, Giuffrè editore, Milano 1989. 

[11] Ferracuti Franco (a cura di), Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria 
forenze: carcere e trattamento, Giuffrè editore, Milano 1989. 

LE ORGANIZZAZIONI CRIMINALI 

La ricerca criminologica, nell'ambito del crimine organizzato, sembra essere in una condizione di 
incertezza e approssimazione soprattutto per ciò che attiene agli studi di tipo qualitativo. Le ragioni 
di tale condizione sono riconducibili alla natura stessa dell’oggetto di studio in primo luogo per la 
segretezza e mimetizzazione dei gruppi criminali in oggetto nonché per la pericolosità connessa allo 
svolgimento  di studi "sul campo" che pone sovente i ricercatori in condizione rinunciataria.  Le 
caratteristiche   adattive   delle   organizzazioni   criminali   complesse   rappresentano   poi   un’ulteriore 
elemento di difficoltà per la progettazione delle ricerche. La rapide modifiche strutturali e la loro 
continua evoluzione rende infatti questi aggregati un oggetto sfuggente alle categorizzazioni e alla 
stessa formulazione di ipotesi operative. Le difficoltà metodologiche si associano sovente ad una 
certa inadeguatezza delle teorie criminologiche correnti. La maggior parte degli studi criminologici 
assume   infatti,   come   assunto   generico   di   fondo,   che   il   crimine   sia   prodotto   di   una   certa 
disfunzionalità dovuta a deficit di socializzazione o a “patologie individuali” o ancora a una distorta 
attribuzione di significato alla realtà. Sovente, l’appartenenza a organizzazioni criminali complesse 
e l’esecuzione di crimini nel loro ambito, rappresenta viceversa l’esito fisiologico di un vero e 
proprio processo di socializzazione, soprattutto in talune aree geografiche dove la “cultura mafiosa” 
è in grado di relegare in condizioni subculturali e di devianza la “cultura ufficiale”. L’ultimo aspetto 
da   considerare   è   la   forte   capacità   dei   grandi   gruppi   criminali   di   organizzare   ed   orientare   il 
comportamento dei singoli appartenenti attraverso un sistema sanzionatorio estremamente efficace. 
Queste   condizioni   hanno   reso   il   materiale   scientifico   disponibile   di   taglio   criminologico 
estremamente   limitato,   soprattutto   quello   riguardante   le   dinamiche   delle   organizzazioni   e   le 
interazioni tra i loro componenti e tra le loro strutture. Molti studiosi, viceversa, hanno prodotto 
numerosi   scritti   e   saggi   sull'argomento   di   impostazione   giornalistica   e   sociologica,   centrati 
soprattutto sulle componenti antropologiche e rituali o impostati sulla semplice disamina statistica 
degli   “indicatori”   della   presenza   criminale   organizzata   in   un   determinato   territorio[1].   Talune 
eccezioni di impostazione qualitativa si riscontrano negli studi che riportano la life history di alcuni 
pentiti,   unici  elementi  disponibili  alla  narrazione  di questioni attinenti  alla  loro organizzazione. 
Questi racconti, pur fornendo informazioni utili alla comprensione del fenomeno mai ottenute in 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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precedenza,   presentano   caratteristiche   che   dovrebbero   indurre   gli   studiosi   ad   una   particolare 
cautela,  soprattutto in ragione del fatto che la “condizione di pentito” può indurre il soggetto a 
stravolgimenti della realtà (oltre che a tentativi di depistaggio). L’interesse delle organizzazioni 
criminali per il criminologo si articola sostanzialmente verso due filoni di studio: l’osservazione dei 
singoli appartenenti, intesi come criminali aventi spesso delle peculiarità dovute all’inserimento 
all’interno della subcultura dell’organizzazione e l’analisi organizzativa, che mira ad evidenziare le 
dinamiche e le strutture (e la loro evoluzione nel tempo) del gruppo delinquenziale. Per ciò che 
attiene al primo filone lo studioso dovrà dotarsi soprattutto di strumenti conoscitivi in grado di porre 
in evidenza l’influenza della struttura organizzativa sulla personalità e sull’agire del soggetto, senza 
dimenticare però la sua residuale capacità determinativa del proprio comportamento, per ciò che 
attiene invece alla dimensione organizzativa, una possibile soluzione metodologica e concettuale è 
rappresentata dall’impiego di paradigmi interpretativi mutuati da altre branche delle scienze sociali, 
in particolar modo nell’ambito della Psicosociologia del lavoro e delle organizzazioni, considerando 
quindi   i   gruppi   criminali   complessi   come   delle   organizzazioni   finalizzate   alla   produzione   e 
accumulazione di ricchezze in senso lato, connotate (ma solo come variabile) da aspetti di illegalità. 
Questo approccio considera quindi le strutture criminali come sistemi finalizzati alla produzione­
accumulazione   di   ricchezze   impiegando   in   alcune   fasi   temporali   degli   imputs   (risorse)   e   delle 
tecnologie illegali. 

Il comportamento individuale ed organizzativo

Esiste una correlazione intensa tra i fattori legati all’ambiente (sociale e gruppale) che favoriscono 
una condotta criminosa, e quelli legati invece alle singole personalità, con possibilità di infinite 
combinazioni   reciproche[2].   In  linea   di   massima,   quanto   più   i   fattori   ambientali   favoriscono   il 
crimine,   tanto   meno   necessarie   sono   le   componenti   legate   alla   personalità   dell’individuo. 
Un’approccio alle organizzazioni criminali che ipotizzi un’assoluta capacità da parte dei gruppi di 
orientare   il   comportamento   dei   singoli   appartenenti   appare   fuorviante   così   come   sembrano 
riduzionistici   gli   approcci   che   considerano   viceversa   tali   individui   completamente   liberi   di 
organizzare e significare il proprio agire. Nella realtà, quindi, i fenomeni di acting­out criminale 
devono essere intesi come frutto di una costante integrazione tra fattori individuali, di gruppo ed 
ambientali. Le organizzazioni, i gruppi organizzati, anche se non scevri da segmenti irrazionali di 
orientamento   del   comportamento,   presentano   però   un   livello   di   maggiore   stabilità   rispetto   alla 
finalità razionale e le eventuali dinamiche “anomale”, possono essere interpretate (e previste) come 
prodotto  di interazioni tra i componenti  del gruppo o come stimolazioni impreviste  provenienti 
dall’ambiente sociale. 

L’analisi del comportamento individuale 

L’appartenenza di individui ad un'organizzazione criminale  complessa implica due "condizioni" 
sostanziali poste su diversi piani ma aventi numerose interconnessioni e reciproche influenze. La 
prima   condizione   è  riferibile   alla   devianza.   La   semplice   partecipazione   all'organizzazione   pone 
teoricamente il soggetto in una "condizione" di devianza. Tale condizione va però interpretata alla 
luce del sistema di valori diffuso nell’ambiente sociale in cui il soggetto è inserito. La seconda 

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condizione è riferibile al ruolo del soggetto nella compagine delinquenziale ed alle sue conseguenti 
diverse   motivazioni.   La   sua   posizione   gerarchica   e   la   sua   specifica   attività   influiranno   infatti 
probabilmente   sul suo  comportamento  e  sulle  sue aspettative.   I partecipanti,  in  tal  senso,  sono 
notevolmente differenti tra loro, sia per quanto riguarda il tipo di professionalità riversato nelle 
dinamiche   dell'organizzazione   e   sia   per   ciò   che   attiene   alla   rappresentazione   degli   obiettivi 
desiderati   intesi   come   motivazione   di   appartenenza   al   gruppo   criminale.   E'   presumibile   che   la 
percezione del crimine possa variare notevolmente in base al tipo di suttostruttura in cui il soggetto 
opera. Le organizzazioni criminali complesse infatti presentano delle sottostrutture notevolmente 
differenti   l’una   dall’altra,   alcune   più   esplicitamente   criminali   (es.   i   gruppi   di   killer)   altre   più 
asettiche   e professionali  (es. le strutture dedite  al riciclaggio).  Ricordiamo  che, per Sutherland, 
alcune forme di criminalità, come ad esempio quelle condotte in ambienti economici e finanziari, 
anche se incorrono in sanzioni giudiziarie, vengono spesso considerate positivamente o, al limite, 
come un'azione professionale spregiudicata. Tali comportamenti criminali sfuggono allo stereotipo 
del criminale e raramente incorrono nella stigmatizzazione ovvero nella sottolineatura sociale della 
condizione di devianza. 

L’analisi del comportamento organizzativo 

La fase preliminare comune a tutti i percorsi di ricerca è rappresentata dalla definizione dell’oggetto 
di indagine. Tale considerazione, solo in apparenza tautologica, trova origine, specie nell’ambito 
delle   Scienze   sociali,   dalle   numerose   prospettive   che   la   medesima   questione   può   assumere 
imponendo costruzioni teoriche e metodologiche anche molto distanti tra loro. Per ciò che attiene, 
ad esempio, alla specifica tematica delle organizzazioni criminali appare evidente come sullo stesso 
orizzonte si possano delineare aspetti strutturali (soggetti, gruppi ed istituzioni), aspetti relazionali 
(interazioni   tra   soggetti,   gruppi   ed   istituzioni)   ed   aspetti   costruzionistici   (eventi).   In   termini 
strettamente criminologici si può considerare organizzazione criminale un aggregato di individui, 
stabile   nel   tempo   e   dotato   di   gerarchie   e   strutture   operative,   il   cui   fine   razionale   è   ricercato 
attraverso mezzi illegali. Anche se nel linguaggio comune le organizzazioni criminali sono spesso 
assimilate a quelle mafiose, secondo la precedente definizione si possono classificare come tali 
anche   gruppi   terroristici,   alcune   sette   sataniche,   ecotrafficanti,   narcotrafficanti,   contrabbandieri, 
sfruttatori della prostituzione in grande stile, eccetera. 

La scelta dell’approccio di studio 

In tema di analisi organizzativa, la storia delle Scienze sociali ha mostrato una infinito assortimento 
e contrapposizione di approcci epistemologici e di teorie interpretative che hanno, di volta in volta, 
privilegiato   variabili   di   vario   genere,   macrosociali,   psicosociali   ed   individuali   e   che   hanno 
affermato   la   possibilità   di   spiegare   aspetti   organizzativi   ognuna   attraverso   percorsi   conoscitivi 
specifici.   Il   notevole   assortimento   di   contenuti   interpretativi   si   è   poi   associato   ad   altrettanto 
diversificati profili metodologici, funzionali, com’è ovvio, ai vari approcci analitici. In questa sede, 
fermo   restando   il   riconoscimento   del   grande   contributo   allo   sviluppo   dello   studio   delle 
organizzazioni   che   tali   approcci   hanno   indotto,   si   vuole   proporre,   nell’ambito   dell’analisi 
organizzativa, un’ottica di studio di tipo multidimensionale facendo eco, del resto, ad un nutrito 

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gruppo di studiosi che negli ultimi anni hanno costituito a nostro avviso un vero e proprio turning 
point epistemologico nella psicosociologia dell’organizzazione affermando, con forza, l’esigenza di 
una costruzione della ricerca sociale in questo specifico settore “formata” da vari approcci integrati. 
In pratica, la scelta operativa maggiormente proficua sembra potersi definire attraverso un impiego 
sinergico   di   varie   teorie   (anche   molto   diverse   tra   loro)   per   tentare   di   ottenere   un   quadro 
interpretativo   sufficientemente   esaustivo   dell’oggetto   di   indagine   mutuando,   all’occorrenza, 
strumenti   e   metodologie   dalla   sociologia   strutturalista,   dalla   psicologia   sociale,   dalla   teoria   dei 
sistemi, dal funzionalismo, dalla socioanalisi[3] e da altri filoni più centrati sull’individuo e sugli 
stati   più   profondi   della   sua   coscienza,   come   la   psicoanalisi,   il   cognitivismo   e   l’interazionismo 
simbolico. In una scelta di questo genere, in un certo senso, è riscontrabile l’insegnamento ultimo di 
Karl Popper e della sua epistemologia evoluzionistica che auspica, com’è noto, una disponibilità, da 
parte del ricercatore, a trovare la forza di mettere in discussione, ed eventualmente cambiare, anche 
il  suo  quadro teorico  di riferimento  oltre  che le sue metodologie[4].  In quest’ottica,  una scelta 
teorica multidimensionale, senza ovvero un aprioristico orientamento teorico unico, ma alla ricerca 
di quegli approcci e di quelle categorie che di volta in volta consentono di spiegare efficacemente 
taluni   aspetti   organizzativi,   potrebbe   forse   rappresentare   una   possibile   interpretazione 
dell’evoluzione epistemologica auspicata da Popper. E’ evidente che tale impostazione necessita poi 
di un particolare sforzo interpretativo per ricondurre ad un’accettabile visione di insieme ciò che per 
opportunità si è teoricamente e metodologicamente scisso, in special modo per quanto riguarda 
l’osservazione di fenomenologie complesse e disseminate in uno “spazio analitico” strutturalmente 
e temporalmente articolato. L’esigenza, ad esempio, di compatibilizzare i risultati che emergono 
dall’applicazione di modelli strutturali (sincronici) come nel caso dell’analisi multifattoriale, in cui 
si   ipotizza   l’intervento   contemporaneo   di   variabili   significative   per   spiegare   un   determinato 
fenomeno, e di modelli sequenziali[5] in cui le variabili, viceversa, assumono significato anche in 
termini   di   temporalità,   sequenza   e   retroazione   oltre   che   di   intensità   (come   nel   caso 
dell’interazionismo   simbolico),   impone   una   particolare   predisposizione   dell’analista   alla 
complessificazione e alla problematicità dell’approccio nonché alla dimestichezza con i processi 
psicosociali di correlazione lineare (unidirezionale e bidirezionale) e con quelli circolari (es. teoria 
dell’azione di Von Cranach).[6] 

Alcuni approcci per l’analisi organizzativa 

Il paradigma strutturalista 

Il concetto di struttura nelle scienze sociali assume significati estremamente diversificati secondo i 
vari autori che lo utilizzano nelle loro opere (Levi Strauss, Gurtvitch, Piaget, Chomsky, Parson ecc.)
[7]. Nel paradigma strutturalista, così come inteso in questo studio, la dimensione organizzativa è 
sostanzialmente   delimitabile   concettualmente   e   contempla   strutture   organizzative   osservabili   ed 
obiettivi   razionalmente   concepibili   tra   cui   la   coesione   e   l’integrazione   del   sistema.   L’ottica   di 
osservazione   privilegiata   di   tale   paradigma   è   necessariamente   quella   intraorganizzativa, 
indipendentemente   dall’ampiezza   dell’organizzazione   stessa   che   con   Parson   giunge   ad   essere 
l’intero   sistema   sociale.[8]   Anche   in   questo   paradigma,   analogamente   a   quello   sistemico,   i 
cambiamenti   strutturali   possono   essere   di   tipo   esogeno,   generati   ovvero   da   forze   esterne   che 

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inducono un adattamento dell’organizzazione, e di tipo endogeno, correlati all’accumulo di tensioni 
che   non   trovano   efficace   canalizzazione   (espressione)   ed   inducono   quindi   delle   modifiche, 
progressive o traumatiche di alcune sottostrutture o dell’intero sistema organizzativo. Ma gli aspetti 
particolarmente evidenziabili con l’approccio strutturalista si riferiscono alle divisioni dei ruoli e 
delle   funzioni,   alla   localizzazione   delle   aree   strategiche,   alla   divisione   della   leadership,   alle 
dimensioni dei sottosistemi, alle reti di connessione tra sottosistemi e ad altri aspetti “geometrici” 
dell’organizzazione.  Spesso,  questo  genere   di  analisi  predilige   l’elaborazione   teorica  rispetto   al 
momento di verificazione empirica. La riflessione dello studioso “a tavolino” prende spunto dalla 
realtà   osservata   che   viene   interpretata   attraverso   vari   passaggi   induttivi.[9]   Tra   le   modalità   di 
rappresentazione   dei   risultati   dell’analisi   strutturale,   gli   schemi   grafici   sembrano   essere 
particolarmente   idonei   all’esplicazione   delle   osservazioni   sulle   organizzazioni,   poiché   la 
descrizione strutturalista coglie con grande efficacia gli elementi che costituiscono un sistema ben 
definito e le loro relazioni. 

Il paradigma sistemico 

L’applicazione della Teoria dei sistemi implica il considerare globalmente l’organizzazione come 
“un’insieme di capitali, di macchine, di uomini, di strutture, di flussi informativi”[10] e di strutture 
normative   che   interagiscono   con   un   ambiente   di   cui,   comunque,   ad   un   determinato   livello, 
costituiscono   espressione.   L’analisi   sistemico­funzionale   è   sovente   legata   all’osservazione   degli 
imputs energetici e alla produzione di outputs da parte di un sistema composto da sottostrutture 
funzionali o sottosistemi (di varia complessità) che interagiscono tra loro. I fenomeni descritti con 
particolare   efficacia,   utilizzando   le   teorie   sistemiche,   risultano   essere   quindi   soprattutto   quelli 
funzionali   e   relazionali   tra   individui,   tra   gruppi,   tra   sistemi   complessi   ecc..[11]   L’oggetto 
dell’osservazione scientifica diviene così un flusso, un’interazione, una dinamica comunicazionale 
(la  loro  efficacia,  direzione  ed intensità).  Il sistema  non può essere concepito come avulso  dal 
contesto nel quale è inserito e non è possibile apportare modificazioni su uno dei suoi sottosistemi 
senza che tale azione non si ripercuota sull’equilibrio e sul funzionamemto del sistema stesso.[12] 
Gli   strumenti   metodologici   compatibili   con   questo   approccio   sono   evidentemente   di   tipo 
multidisciplinare   (sociologici,   psicosociali   e   psicologici)   essendo   le   relazioni   oggetto   di   studio 
influenzate   da   variabili   di   natura   macrosociale,   psicosociale   ed   individuale.[13]Un   particolare 
riferimento   va   dedicato   all’apporto   teorico   di   Richard   Scott   della   Stanford   University   che   al 
contrario di molti studiosi contemporanei dei sistemi aperti, osserva con attenzione le modifiche 
delle strutture interne alle organizzazioni nel corso dell’interazione con l’ambiente.[14] 

Il paradigma psicosociale 

Queste teorie prendono in considerazione, in special modo, la dimensione umana degli appartenenti 
all’organizzazione nel rapporto con la struttura a cui appartengono, con gli scopi organizzativi e con 
gli altri membri del gruppo. Generalizzando, viene posta l’attenzione sulla mediazione tra istanze 
individuali e finalità organizzative, soprattutto in termini di capacità di adattamento dell’individuo e 
di efficacia della gestione delle risorse disponibili da parte dei detentori della leadership. Al centro 
della teoria psicosociale viene così posto il gruppo (la sua cultura, le sue istanze, le sue norme ecc.) 

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e gli individui che lo compongono nonché il rapporto tra le due realtà. Nell’ambito delle relazioni 
intragruppo   ed   intergruppo   l’approccio   utilizza   solitamente   le   percezioni   consapevoli   e   quindi 
giunte alla coscienza individuale e collettiva. 

Il paradigma psicodinamico 

Le teorie psicodinamiche applicate all’analisi organizzativa indagano soprattutto i vissuti irrazionali 
degli appartenenti e tutti quegli elementi posti su piani profondi della coscienza e non consapevoli 
che   però   influiscono,   a   vario   titolo,   sulle   dinamiche   relazionali   organizzative.   Tale   ottica   di 
osservazione   costituisce   evidentemente   una   possibile   integrazione   all’approccio   psicosociale 
evidenziando degli aspetti relazionali non percepiti consapevolmente ed evidenziabili, quindi, con 
l’utilizzo della psicoanalisi o di altre forme di psicologia individuale. Tra le teorie psicodinamiche 
organizzative   appare   particolarmente   interessante   quella   socioanalitica   che   osserva   i   fenomeni 
collettivi inconsci nei gruppi e pone in evidenza anche gli aspetti personologici degli individui che 
li compongono.[15] 

Altre metodologie applicabili al modello multidimensionale 

Network analysis (analisi delle reti sociali) che studia, nello specifico, le interconnessioni tra le 
unità di analisi ed evidenzia la direzione, la natura e le caratteristiche dei processi comunicativi 
intraorganizzativi ed interorganizzativi; 

Inferenza statistica, che fornisce informazioni su ricorrenze ed ampiezza dei fenomeni partendo da 
elementi numerici (quantitativi). Nel caso di esigenze previsionali, consente ad esempio di fornire 
uno spunto probabilistico di base basato sugli eventi (analoghi o correlabili) accaduti in circostanze 
simili nel passato, su cui poi effettuare un’analisi più avanzata sullo specifico contesto. 

Analisi socioistituzionale, che studia il rapporto tra istituzioni giuridiche e politiche ed il sistema 
sociali che le ospita, in termini di legittimazione e di funzionalità.[16] 

Life   histories,   applicate   ad   individui   correlati   con   l’oggetto   di   indagine.[17]   Consentono   di 
evidenziare alcuni aspetti, non facilmente identificabili induttivamente, della sfera motivazionale, 
emotiva  ed irrazionale di soggetti appartenenti ai gruppi. L’impiego  delle storie di vita, in una 
preliminare   ricerca   di   sfondo   può   ad   esempio   delineare   alcune   variabili   della   psicologia   del 
profondo   significative   nelle   dinamiche   analizzate   dalla   socioanalisi   o   evidenziare   possibili 
meccanismi   di   interazione   “anomala”   tra   individui   e   gruppi   che,   com’è   noto,   rivestono   una 
posizione determinante nei meccanismi di azione singola e collettiva.[18] 

L’organizzazione metodologica dell’analisi

La base di partenza analitica è costituita dalla determinazione delle strutture che sono “in campo”. 
Tale osservazione può condurre ad uno schema che parte da premesse induttive (le categorie) e che 
si arricchisce di elementi empirici (l’osservazione dei gruppi interessati) costituendo una griglia 
strutturalista dove emergono: 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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∙ i confini strutturali del sistema interessato (es. il Sistema­Paese Italia); 

∙ in soggetti e i gruppi interessati (es. le istituzioni, i gruppi sociali, le agenzie di controllo, i gruppi 
intervenienti, gli obiettivi di azioni destabilizzanti ecc.); 

∙ le interazioni tra i soggetti e i gruppi interessati (approccio sistemico), compresa la produzione 
normativa specifica di contrasto; 

∙ il report statistico (almeno decennale) di dinamiche organizzative avvenute in concomitanza con 
condizioni   storiche   analoghe   (es.   variabili   economiche.)   per   determinare   eventuali   modalità   di 
adattamento del sistema criminale agli stimolo provenienti dal sistema sociale; 

 ∙ le motivazioni di base dei gruppi (es. il crimine, il potere economico, l’espansione ecc.). 

Il comportamento organizzativo 

La motivazione dei gruppi 

La motivazione di un gruppo costituisce la spinta a raggiungere degli obiettifi prefissati che nel caso 
delle organizzazioni criminali complesse sono il raggiungimento della ricchezza e del potere. Nella 
determinazione della motivazione razionale di base di un gruppo occorre considerare che essa non è 
necessariamente   uguale   per   tutti   gli   appartenenti   ad   esso.   Intendiamo   quindi,   per   convenienza 
analitica,   una   sorta   di   spinta   motivazionale   (razionale)   media   dell’organizzazione   che   coincide 
solitamente   con   quella   dell’area   di   detenzione   della   leadership   dell’organizzazione   stessa.   E’ 
possibile   infatti   che   alcuni   singoli   appartenenti   all’organizzazione   abbiano   motivazioni   diverse 
(costituendo ad esempio delle accelerazioni o dei blocks al perseguimento dei fini organizzativi. E’ 
così  ipotizzabile  che alcuni singoli appartenenti  all’organizzazione  agiscano in contrasto con  la 
motivazione razionale dell’organizzazione e con le sue strategie e l’efficacia di tali “devianze” può 
essere correlata alla natura strutturale e culturale del gruppo in cui si manifestano. In altri termini, le 
peculiarità   culturali  e  di  strutturazione  gerarchica  di  un’organizzazione   criminale  (es.  la  mafia) 
possono   ridurre   o   ampliare   lo   spazio   tra   quello   che   è   formalmente   prevedibile   e   quello   che   è 
comportamentalmente possibile. 

La scelta dei parametri 

Uno dei primi passi per la progettazione di ricerche sui gruppi criminali è rappresentato dalla scelta 
di   alcuni   parametri   ritenuti   ipoteticamente   significativi   per   interpretare   il   comportamento 
organizzativo.   Questi   elementi   possono   essere   il   frutto   di   rilevazioni   statistiche,   di   studi   sulla 
normativa   e   dell’osservazione   scientifica.   Alcuni   possibili   parametri   utili   allo   studio   delle 
organizzazioni criminali complesse possono essere: 

 ∙ ampiezza dell’organizzazione (es. regionale, nazionale, transnazionale); 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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 ∙   livello   di  complessità  strutturale  (maggiore  o minore  propensione  ad affidare  a sottostrutture 


specializzate lo svolgimento di compiti necessari alla vita  dell’organizzazione); 

 ∙ attività criminali svolte; 

∙ tipologia ed efficacia dei sistemi comunicativi; 

∙ infiltrazione nel tessuto sociale economico ed istituzionale; 

∙ flessibilità strutturale; 

∙ permeabilità informativa e compartimentazione; 

∙ caratteristiche antropologiche dei gruppi; 

∙ capacità di tesorizzazione e movimentazione dei capitali illeciti; 

∙ livello di tecnologie criminali impiegate; 

∙ livello di amministrazione della violenza intragruppo; 

∙ livello di amministrazione della violenza verso l’esterno; 

∙ livello di connessione e cooperazione con altre organizzazioni criminali; 

∙ sistema di trasmissione dei valori; 

∙ efficacia del sistema sanzionatorio; 

∙ capacità di mimetizzazione; 

∙ livelli di equilibrio intraorganizzativo (vari indicatori); 

∙ livello di aggressività interorganizzativa. 

Si tratta oviamente di parametri esposti a titolo esemplificativo che possono essere integrati da 
ulteriori aspetti ritenuti necessari dai ricercatori. 

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­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­ 

[1]   Tale   impostazione,   probabilmente,   necessita   di   contatti   meno   stretti   e   coinvolgenti   con 
l'universo criminale oggetto d'indagine e concerne perlopiù analisi documentali. 

[2] PONTI G., Compendio di Criminologia, Cortina Editore, Milano, 1990. 

[3] FRANCESCATO D., GHIRELLI G., Fondamenti di psicologia di comunità, NIS EDITORE, 
Roma, 1988 

[4] CHMIELEWSKI A. J., Il nostro dovere è essere ottimisti: intervista a Karl Popper del 29 luglio 
1994. in:IDEAZIONE, anno III, n.3, 1996. 

[5] BECKER H. S., Outsiders, Saggi di sociologia della devianza. Edizioni Gruppo Abele, Torino, 
1987. 

[6] VON CRANACH M., HARRE’ R., L’analisi dell’azione: recenti sviluppi teorici ed empirici, 
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[7] BOUDON R., Strutturalismo e scienze umane, Ed. Einaudi, Torino, 1970. 

[8]   ROCHER  GUY, Talcot  Parson e la  sociologia  americana,  Ed. Sansoni Università,  Firenze, 


1975. 

[9]   DE   MASI   G.,   BONZANINI   A.   (a   cura   di),   Trattato   di   sociologia   del   lavoro   e   delle 
organizzazione: le tipologie, ed. Franco Angeli, Milano, 1987. 

[10] DE MASI D., Manuale di ricerca sul lavoro e sulle organizzazioni, ed. Nuova Italia Scientifica, 
Roma, 1985, (pag. 27). 

[11] STRANO M., Strumenti e metodologie per l’analisi delle organizzazioni criminali complesse 
in: De Leo G., Strano M., Pezzuto G., De Lisi L.C., Evoluzione mafiosa e tecnologie criminali, 
Giuffrè, Milano, 1995. 

[12]   DE   MASI   D.,   BONZANINI   A.,   (a   cura   di),   Trattato   di   sociologia   del   lavoro   e   delle 
organizzazione:la ricerca, ed. Franco Angeli, Milano, 1984. (pag. 42) 

[13] STATERA G., Metodologia e tecnica della ricerca sociale, ed. Palumbo, Roma. 1982. 

[14] SCOTT R.W., Le organizzazioni, Ed. Il Mulino, Bologna, 1985. 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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[15] BRUSCAGLIONI M., SPALTRO E., La psicologia organizzativa, Ed. Franco Angeli, Milano, 
1987, (pag.731) 

[16] DE NARDIS P., Teoria sociale ed analisi socioistituzionale, Ed. Carucci, Roma, 1978; 

[17] CIPRIANI R., La metodologia delle storie di vita, Ed. Univ. Romana, Roma, 1987. MACIOTI 
M., Biografia, storia e società, Ed. Liguori, Napoli, 1985.

[18] VON CRANACH M., HARRE’ R., 1991, op. cit. 

IL COMPUTER CRIME 

L’impatto dell’informatica con il sistema sociale ha imposto (come per tutte le nuove sollecitazioni 
del resto), dei processi adattivi da parte degli individui anche in ambito criminale ed ha alterato il 
modo di percepire la realtà (una parte di questa realtà può essere parte di un crimine). Altra ottica di 
indagine rispetto all’impiego del computer come strumento del crimine è quella relativa all’aumento 
dell’efficacia dell’azione criminale (come nel caso di truffe telematiche) o di cambio dello stile 
comunicativo (come nel caso dei siti di gruppi terroristici). 

La spiegazione del crimine informatico Molti autori, per analizzare criminologicamente il crimine 
informatico,   hanno   affrontato   il   percorso   tipologico,   inteso   come   un'elencazione   di   aspetti 
psicologici e culturali riscontrati con più o meno frequenza in soggetti che hanno commesso un 
determinato reato. Tali ricerche, effettuate evidentemente solo sui soggetti che sono incappati nelle 
maglie   della   giustizia,   si   sono   diffuse   probabilmente   anche   per   la   relativamente   semplice 
costruzione  metodologica  di cui necessitano. La ricerca delle cause, psicologiche  o sociali,  che 
determinano   il   verificarsi   di   un   crimine,   ha   costituito   però   nella   storia   della   Criminologia,   un 
impasse   di   difficile   superamento   non   reggendo   alle   falsificazioni   empiriche.   Gli   approcci 
criminologici   basati   sulla   ricerca   delle   cause   del   crimine   insite   nell’autore   (teorie   biologiche, 
psicologiche, psichiatriche) o nell’ambiente sociale dove l’autore è «immerso» (teorie sociologiche) 
non hanno retto, nel corso della storia, alle verifiche empiriche. La possibilità di localizzare degli 
elementi visibili (clinici, psicologici, sociali) nel soggetto, in grado di fornire una predizione del suo 
comportamento   ha   costituto   (e   ancora   costituisce)   una   strada   sovente   percorsa   dagli   scienziati 
sociali alla ricerca di strumenti rassicuranti e generalizzabili. L'approccio tipologico classico però, 
se da un verso sembra fornire interessanti informazioni sui soggetti scoperti come responsabili di 
crimine,   mostra   la   sua   notevole   inadeguatezza   criminologica   nel   momento   in   cui   si   osservano 
soggetti con analoghe caratteristiche di quelli che hanno commesso il reato, che scelgono viceversa 
un comportamento legale. Gli studi tipologici, inoltre, nulla possono dire su coloro che commettono 
i crimini ma che non vengono scoperti. Questo genere di approccio appare poi a nostro avviso 
notevolmente pericoloso nel momento in cui, in fase applicativa, si lancia in ipotesi predittive che 
possono condurre, oltre che a posizioni scientifiche di difficile verificazione, anche a produzione di 
stereotipi che conducono a disagi di tipo etico e morale. L'attenzione degli studiosi, soprattutto nel 
caso di forme di criminalità nuove, dovrebbe viceversa concentrarsi sulle caratteristiche del reato e 
cercare  poi  di spiegare il comportamento criminale  degli autori non perdendo mai di vista  "...i 

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moventi e le disposizioni che affiorano nel corso dell'esperienza..."[1]. Una spiegazione del crimine 
informatico   ovvero,   in   cui   gli   aspetti   psicologici,   culturali   e   motivazionali   degli   attori   sociali 
assumono   significato  all’interno  di un processo interattivo  nel cui  ambito  si costruisce  l'azione 
deviante.   Il   comportamento   umano,   compreso   quindi   il   comportamento   criminale,   viene 
programmato, orientato ed interpretato attraverso un complesso processo di interazione con la realtà 
circostante   e   in   tale   processo   entrano   evidentemente   in   gioco   le   esperienze   del   soggetto,   la 
conoscenza delle norme penali e sociali, la percezione della gravità dell’atto e della vittima, la paura 
della   cattura,   eccetera.  In  quest’ottica   l’unica   possibile   unità  di  analisi   in Criminologia   diviene 
l’azione criminale ed in essa assume quindi significato non solo il soggetto e le sue caratteristiche 
ma l’ambiente simbolico che circonda tale azione oltre che l’opera di attribuzione e definizione del 
significato operata dall’attore/criminale[2]. Un uomo quindi non più completamente in balia dei 
condizionamenti sociali (visione tipica dei sociologi deterministi) o di quelli inconsci (psicoanalisti) 
ma in grado di organizzare una buona parte della propria realtà attraverso continue interazioni e 
mediazioni con il reale. La previsione comportamentale, in quest’ottica, si indirizza verso la natura 
e l’intensità  di tali processi interattivi più che su caratteristiche stabili, antecedenti  all’ipotetico 
fatto,   insite   nell’ambiente   sociale   o   nella   personalità   dell’attore.   In   altre   parole,   tutti   i 
comportamenti   umani,   compreso   quindi   quello   criminale,   sono   posti   su   piani   di   maggiore 
complessità e contemplano, parallelamente agli stimoli orientanti (biologici, personologici, sociali) 
un’attività di costruzione circolare (agente e retroagente) da parte dell’attore sociale e del controllo 
sociale,   non   leggibile   nei   soli   fattori   preesistenti   ma   ascrivibile   all’attività   di   interpretazione, 
significazione e riorganizzazione compiuta dalla mente umana. La devianza,  non è un’entità  di 
fatto,   iscritta   nell’ordine   naturale   del  mondo  o rigidamente   determinata  da  strutture   interne   del 
soggetto ma è il frutto di un processo di costruzione sociale mediato da un’attività peculiare del 
genere umano: il pensiero[3]. 

Alterazione percettiva del crimine e della vittima In un quadro teorico dove appare determinante 
l’attribuzione   di   significato   ai   contesti   ed   agli   eventi,   un   elemento   di   indagine   importante   è 
costituito dalla percezione sociale del crimine. Da alcune ricerche condotte in Europa e negli Stati 
Uniti è emerso come la percezione sociale di alcuni crimini informatici può risultare a tal punto 
distorta da non far considerare reato, ad alcuni individui, ciò che è considerato tale dalle norme 
penali o civili. Queste indagini vengono solitamente condotte somministrando questionari anonimi 
a campioni  di soggetti ai quali vengono presentati  i più comuni atti illeciti  in tema di uso  del 
computer.   Talvolta   tali   illeciti   vengono   posti   in  comparazione   con   altre   forme   criminali   o   con 
comportamenti   ritenuti   socialmente   riprovevoli.   Molti   individui,   pur   consapevoli   che   alcuni 
comportamenti sono un atto illegale, si giustificano dal farne uso in quanto percepiscono tali azioni 
come impersonali, che non producono danni economici diretti e non causano danni evidenti alla 
collettività.   Le   caratteristiche   delle   vittime   elettive   del   computer   crime   (organizzazioni), 
spersonificate e strutturate, sembrano facilitare tale atteggiamento. L’azione criminale, eseguita ai 
danni di una vittima spersonificata e non presente nella scena del delitto (grazie alla mediazione del 
computer) sembra infatti facilitare l’insorgenza/applicazione delle tecniche di neutralizzazione del 
senso di colpa[4]. 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Responsabilità penale minorile e processo di digitalizzazione sociale. Le valutazioni sugli aspetti 
percettivi del computer crime assumono grande rilevanza scientifica, a nostro avviso, nell’ambito 
delle   ricerche   sulla   responsabilità   penale,   in   special   modo   minorile.   Il   processo   di 
deresponsabilizzazione individuale nell’ambito della devianza giovanile, contrapposto all’univoca 
tendenza   verso   una   maggiore   attribuzione   di   responsabilità   ai   giovani   in   svariati   settori 
dell’organizzazione sociale, sembra definire ancora in larga parte il quadro attuale della politica 
penale minorile, fatta salva una certa controtendenza, di natura neoclassicistica, che verso la metà 
degli anni 80’ ha costituito una sorta di risposta ad alcune fenomenologie emergenti portatrici di 
notevole allarme sociale (criminalità organizzata ed altro) ma che ha rappresentato anche una nuova 
tendenza,   da   parte   di   una   porzione   della   comunità   scientifica,   in   direzione   di   una   rinnovata 
attribuzione di valore e significato alla responsabilità individuale.[5] Si delinea insomma, in ambito 
minorile ma anche in relazione agli adulti, un attore sociale non più completamente in balia degli 
eventi  e  dei  condizionamenti ambientali ma capace dell’attribuzione  valoriale  e simbolica  nelle 
proprie condotte di vita[6]. Tale approccio, per la sua complessificazione analitica, se da un verso 
offre notevoli garanzie in termini di equilibrio scientifico (ma anche morale) legate proprio alla 
complessità della sua struttura, impone delle analisi di notevole difficoltà, per l’esigenza di dover 
cogliere situazioni statiche preesistenti ma anche fattori dinamici ed interattivi, e talvolta retroattivi. 
Tra questi fattori, una componente forse ancora lontana in termini di penetrazione antropologica nel 
tessuto   socio­culturale   italiano   ma  di  certa  rilevanza   nel  prossimo  futuro,  è  costituita,  a  nostro 
avviso, dal processo di alfabetizzazione informatica e dalla digitalizzazione sociale in corso in vaste 
aree   del   pianeta.   L’impatto   delle   tecnologie   informatiche   e   telematiche   su   alcune   dinamiche 
criminologiche sta infatti delineando l’avvicinarsi di una fase storica, in un imminente futuro, in cui 
la   Criminologia   dovrà   fare   i   conti,   anche   in   tema   di   valutazione   della   responsabilità,   con   un 
elemento   nuovo:   la   digitalizzazione   della   maggior   parte   delle   interazioni   interpersonali   ed 
interorganizzative con la conseguente formazione diffusa ­ specie in ambito minorile ­ di schemi 
cognitivi nuovi, indotti dall’onnipotenza virtuale e dalle nuove modalità comunicative e in grado di 
filtrare ed orientare pensieri, giudizi morali e progetti di azione. Il tentativo di indagare questo 
nuovo   ambito   emergente   si   articola   attraverso   percorsi   di   ricerca   diversificati,   e   si   trova, 
attualmente,   nella   comunità   scientifica   internazionale,   in   una   fase   preliminare   di   valutazione 
soprattutto   epistemologica.   In   un’ottica   psicodinamica   molto   semplificata,   ad   esempio,   si 
potrebbero   delineare   alcune   ipotesi   grezze   sulle   conseguenze   che   la   rivoluzione   digitale   può 
provocare   sulla   strutturazione   dell’IO   in   ambito   minorile   e,   in   particolare,   su   una   sua   parziale 
dissonanza   con   quel   modello   socializzativo   industriale   e   postindustriale   in   cui   trova   ancora 
legittimazione il corpo normativo attuale in tema di minori. Secondo tali ipotesi si scorgerebbero le 
premesse   per   la   formazione   di   alcuni   tratti   della   personalità,   in   larghe   aree   della   popolazione 
giovanile, fortemente condizionati dalla logica digitale e tali tratti, essendo indirettamente in grado 
di   influenzare   il   comportamento,   potrebbero   mettere   in   discussione   alcuni   assunti   attuali   sulla 
responsabilità   offrendo   spunto   per   approfondimenti   scientifici   oltre   che   per   un   ampio   dibattito 
critico.  Le variabili indotte dalla digitalizzazione sociale, di cui sarebbe opportuno verificare la 
rilevanza e la loro capacità di influenzare l’agire sociale, affonderebbero in pratica le loro radici in 
caratteristiche  personologiche  acquisite   e  in  un  universo  valoriale,  una  cui  porzione   è  prodotta 
artificialmente   dagli   algoritmi   matematici   della   realtà   virtuale   e   che   si   discosta   dall’universo 
valoriale non­digitale (e dagli stereotipi di personalità giovanile), ancora in corso di trasmissione da 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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parte degli istituti di socializzazione primaria e secondaria. Altri possibili percorsi di ricerca, con 
approccio maggiormente sistemico e relazionale, sembrano poi offrirsi nel campo della valutazione 
della   percezione   sociale   del   crimine   ed   in   vari   ambiti   vittimologici   laddove,   secondo   quanto 
suggeriscono   le   ricerche   in   corso   di   svolgimento[7],   le   variabili   tecnologiche   indotte   dalla 
digitalizzazione  troverebbero   fattori   di interessante  significatività.   Da  tali   considerazioni   appare 
così   facilmente   ipotizzabile   come   la   Criminologia   e   la   Psicologia   debbano   trovare   una   via   di 
attualizzazione del suo paradigma di conoscenze attraverso esperienze e relative concettualizzazioni 
maturate in ottica digitale, con particolare attenzione proprio alla questione responsabilità, nel cui 
ambito,  probabilmente, si delinea, con notevole forza determinativa, l’efficacia di questo «filtro 
tecnologico» all’interno delle interazioni circolari, ma anche in contesti maggiormente individuali 
come, ad esempio, nei processi di costruzione della personalità. 

Gli adolescenti e il crimine su internet 

La   rete   telematica,   con   la   sua   capacità   di   travalicare   i   limiti   spaziali   e   temporali   consente 
connessioni sociali e culturali un tempo neppure immaginabili. Ma alcune di queste connessioni 
trasferiscono, in termini unidirezionali o bidirezionali (interattivi), anche informazioni su attività 
illegali. Come si è visto, la semplice esposizione a modelli criminali non è di per sé criminogenetica 
se   non   integrata   con   alcuni   sofisticati   processi   psicologici   che   conducono   l’individuo   alla 
commissione di un atto illecito. La paura di essere punito, il significato che si attribuisce all’azione 
illegale,   l’interazione   con   altri   individui   ed   in   ultima   analisi   la   valutazione   razionale   della 
situazione, costituiscono fattori altrettanto importanti nella commissione dei crimini. Ma in questo 
quadro  un  elemento di maggior rischio si può configurare nel caso di giovane età dei soggetti 
esposti a modelli di comportamento deviante veicolato dalla rete sovente con genitori avulsi dalla 
tecnologia digitale e di fatto impossibilitati a comprendere e percepire eventuali contesti di illegalità 
a cui si è accostato il proprio figlio. In primo luogo, per molti adolescenti, la fruizione di tale 
materiale avviene talvolta in solitudine[8], senza quindi la possibilità di un confronto immediato 
con altri soggetti al di fuori del web (che potrebbero però anche rinforzare il significato piacevole 
dell’illegalità). In secondo luogo, la condizione psicologicamente inquieta degli adolescenti e la loro 
notoria   ricerca   di   modelli   di   identificazione,   può   facilmente   percepire   alcune   comunità   virtuali 
devianti   (es.   gli   hackers)   come   particolarmente   affascinanti   specie   per   la   loro   capacità   di 
interloquire, attraverso il crimine, con la comunità degli adulti a livello paritetico. La produzione di 
subculture devianti[9], infine, può divenire svincolata dal luogo fisico delle gangs di strada e dai 
contatti face to face, mettendo rapidamente in crisi il paradigma di indagine scientifica tradizionale 
oltre che le usuali strategie di controllo e prevenzione da parte degli organi istituzionali. Uno degli 
aspetti di maggior interesse per i criminologi che studiano le reti telematiche è rappresentato dal 
notevole volume di informazioni di contenuto illegale o dannoso veicolate da internet e che possono 
essere “acquisite” da soggetti a rischio (ad esempio minori). Il fenomeno delle informazioni illegali 
circolanti sul web, pur avendo delle dimensioni limitate in termini statistici, rispetto alla stragrande 
maggioranza   di   informazioni   legali   immesse   nella   rete,   rappresenta   un   ambito   di   ricerca 
decisamente stimolante comprendendo, infatti, fenomenologie criminali anche di notevole gravità. 
La tipologia di siti di interesse si articola infatti in diversificati settori e comprende istruzioni su 
come   confezionare   ordigni   esplosivi,   tecniche   per   la   produzione   e   raffinazione   di   droghe, 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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comunicazioni   di   gruppi   terroristici,   tecniche   per   la   realizzazione   di   frodi   telematiche,   hacking 


eccetera. Tali fonti, evidentemente, costituiscono un notevole interesse di studio per la Criminologia 
e vengono usualmente analizzate nella letteratura specifica (specie statunitense) utilizzando alcuni 
contributi teorici che, nella storia del pensiero criminologico, hanno soffermato l’attenzione sulle 
conseguenze dell’esposizione (da parte degli individui) a modelli di comportamento illegale e, più 
in generale, sull’apprendimento del crimine. In particolare, già Sutherland, nella terza edizione del 
manuale "Principles of Criminology" del 1947 formula una versione articolata della famosa teoria 
delle   associazioni   differenziali[10]  secondo   la   quale   il   comportamento   criminale   non   è 
geneticamente determinato ma è appreso in associazione con altri. In altri termini, secondo tale 
approccio teorico, l’esposizione a modelli devianti può condurre un soggetto ad azioni illegali. Lo 
studioso   intendeva   naturalmente   un’esposizione   diretta   ed   intensa   (non   mediata   da   una   rete 
telematica) ma già poneva le basi, a nostro avviso, per un possibile quadro di interpretazione in 
ottica telematica. Le persone acquisiscono le definizioni favorevoli al crimine attraverso il contatto 
con   i   criminali,   i   quali   trasmettono   atteggiamenti   e   motivi   che   giustificano   le   attività   illegali. 
L’esposizione   a   tali   “elementi   simbolici”   (atteggiamenti,   motivi,   impulsi)   conduce   ad   una 
prospettiva criminale e ad un successivo coinvolgimento nel crimine, in modo particolare attraverso 
le   associazioni   con   coetanei   devianti.   Un   contributo   maggiormente   sfruttabile   (per   il   computer 
crime) appare quello di D. Glaser, che nel 1960, sviluppando gli studi di Sutherland, formula la più 
articolata   teoria   dell’identificazione   differenziale[11],   maggiormente   utilizzabile,   probabilmente, 
per le moderne ricerche sul computer crime. Per Glaser, infatti, ai fini dell'apprendimento della 
delinquenza è importante l'identificazione con modelli criminali più che l’esposizione diretta ad 
essi.   In   altri   termini,   il   fattore   determinante   per   la   criminogenesi   è   rappresentato   dal   processo 
psichico mediante il quale l’autore del crimine tende incosciamente a rendersi simile a certi modelli 
ideali assumendo, come propri, anche i valori normativi ed etici associati a tali modelli. Nel caso in 
cui tale identificazione  avviene con modelli  di tipo illegale  (es. un hacker) il soggetto assume, 
conseguenzialmente, oltre che il modo di fare, gli interessi, il linguaggio, anche i valori normativi 
(illegali)   ad   essi   associati.   In   quest’ottica   appare   evidente   come   l'identificazione   non   richieda 
necessariamente   un   contatto   interpersonale   poiché   può   realizzarsi   anche   verso   modelli   (reali   o 
immaginari) con i quali non vi è stato un rapporto diretto con palese possibilità di trasferimento del 
concetto alla fruizione di informazioni illegali su internet. Tra i contributi scientifici più recenti 
riportiamo   quello   forse   un   po’   catastrofico   di   G.R.   Wynn   (Cyberculture   and   Differential 
Association:   the   Net   effect   on   juvenile   delinquency,   Georgia   State   University,   1998).   Secondo 
l’autore statunitense internet ospiterebbe una vera e propria “cybercultura deviante mondiale” che 
recluta, indottrina, istruisce e prepara tecnicamente individui, specie adolescenti, alla commissione 
di svariati crimini. 

Verso un approccio costruzionistico 

In effetti, considerare la semplice esposizione a modelli devianti come causa lineare del crimine può 
rappresentare   un  approccio   riduttivo   poiché,   in  realtà,   l’individuo   mantiene   fortunatamente   una 
cospicua capacità decisionale e valutativa nei confronti del proprio comportamento pur sottoposto a 
stimolazioni e ad accattivanti identificazioni con contesti illegali. Il più delle volte infatti, l’azione 
criminale è frutto di un complesso processo di attribuzione di significato da parte dell’autore[12] 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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che non si può considerare, anche se in giovane età, una sorta di burattino. In quest’ottica per la 
spiegazione del crimine rappresentano dei fattori rilevanti i significati sociali dell’azione deviante 
(percepiti dall’autore), la paura della sanzione, la conoscenza delle norme sociali e penali, mediati 
ed organizzati dall’azione determinativa della mente dell’autore. Ad ogni modo, tali considerazioni 
non   limitano   la   pericolosità   intrinseca   di   talune   informazioni   illegali   reperibili   su   internet   che, 
acquisite   da   soggetti   “a   rischio”   possono   rappresentare   una   base   di   partenza   importante   per 
eventuali percorsi comportamentali illegali o pericolosi per l’incolumità fisica di tali soggetti. 

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[1]MATZA D., Come si diventa devianti, Il Mulino, Bologna, 1976, pag. 174. 

[2] Teoria dell’azione (Von Cranach, Harre’ 1982). 

[3] Mario Von Cranach e Rom Harré «The analysis of action», Cambridge University Press, 1982. 

[4]  Matza,e   Sykes   hanno   affermato,   con   notevoli   verifiche   empiriche,   che   anche   i   peggiori 
delinquenti, avendo avuto comunque una socializzazione più o meno simile a quella degli altri, 
sentono delle spinte contrarie alla commissione del crimine. Questi individui riescono a portarlo 
avanti, al contrario dei non delinquenti, poiché riescono ad utilizzare con efficacia delle tecniche di 
neutralizzazione della loro responsabilità e del relativo senso di colpa (es. negazione della vittima, 
ideale superiore ecc). 

[5] PONTI G., (a cura di), Giovani, responsabilità e giustizia, Giuffrè editore, Milano, 1985. 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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[6]  La questione della maggior attribuzione di responsabilità ai minori trova specifica conferma 
proprio   nella   disponibilità,   offerta   dal   mezzo   telematico,   di   sistemi   comunicativi   potenti   e 
transnazionali e della concreta opportunità di produrre informazione efficace da parte di soggetti 
anche molto giovani che, navigando su internet ed immettendo opinioni in rete, trovano di fatto una 
dignità sociale sovrapponibile in tutto a quella di un adulto. 

[7] Università Cattolica del Sacro Cuore, Istituto di Psichiatria e Psicologia (Prof. Sergio De Risio), 
Gruppo di Ricerca sul computer crime 

[8]  La   sera  invece  di uscire  con gli  amici,  l’hacker  preferisce  rimanere  a casa,  compiacendo   i 
genitori   preoccupati   dei   pericoli   esterni,   della   droga,   dello   street­crime   e   recuperando 
l’approvazione emotiva ed affettiva genitoriale che può rappresentare un’inconsapevole rinforzo 
alla sua devianza. 

[9] Choen, nel 1955 formula la teoria delle subculture devianti come prodotto del conflitto tra classi 
alte  e  classi basse. I giovani della  classe proletaria  pur aspirando alle stesse mete culturali   dei 
giovani   della   classe  agiata  sono svantaggiati.   Si sviluppa  una  reazione   negativistica   verso   quei 
valori che non possono raggiungere con lo sviluppo di una cultura edonistica e non utilitaristica 
(spiegazione   degli   atti   vandalici   teppismo,   atteggiamenti   distruttivi).   Si   tratta   di   una   sorta   di 
formazione reattiva, non un conflitto reale verso la cultura dominante ma una sua distorsione. In 
generale,  una subcultura deviante contempla  definizioni  di ciò che è lecito  diverse rispetto  alla 
cultura dominante. 

[10] Per Sutherland il comportamento criminale è appreso in interazione con altre persone mediante 
un   processo   di   comunicazione,   che   può   essere   sia   verbale   che   non   verbale.   Il   processo   di 
apprendimento   del   crimine   avviene   apprende   soprattutto   all'interno   di   un   gruppo   ristretto   di 
relazioni interpersonali. I mezzi di comunicazione impersonale (cinema e giornali) sembrano a tal 
fine meno efficaci. Nel processo di apprendimento sono incluse le tecniche idonee alla commissione 
di un crimine e l’orientamento degli atteggiamenti del soggetto. Il soggetto in seguito orienterà 
impulsi e atteggiamenti in base alle interpretazioni (apprese) favorevoli o sfavorevoli dei codici 
legali. Secondo Sutherland, in pratica, un soggetto diviene criminale quando all’interno del gruppo 
dove vive le definizioni favorevoli alla violazione della legge sono in eccesso rispetto a quelle 
sfavorevoli.   Una persona quindi diventa  un criminale  non solo a causa di contatti  con modelli 
criminali,   ma   anche   a   causa   di   un   isolamento   dai   modelli   “anticriminali”.   L’efficacia   delle 
associazioni differenziali nel determinare il crimine dipende dalla loro frequenza, durata, priorità (il 
comportamento criminale sviluppato nella prima infanzia può influire nel corso di tutta la vita) ed 
intensità. 

[11] Glaser, nel 1960, riformula la teoria delle associazioni differenziali di Sutherland rifacendosi 
alla   teoria   dei   ruoli,   secondo   l'esposizione   di   George   H.   Mead,   che   consente   di   tradurre 
l'associazione   differenziale   in   termini   di   "identificazione   differenziata".   Glaser,   nella   sua 
riformulazione,   afferma   che   ai   fini   dell'apprendimento   della   delinquenza   è   importante 
l'identificazione con modelli criminali, più che l'associazione con essi. Il fattore determinante per la 

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criminogenesi è quindi il processo di identificazione, inteso come processo psichico mediante il 
quale si tende incosciamente a rendersi simili a certi modelli scelti come ideale del proprio Io. Nel 
corso di tale processo il soggetto assume conseguentemente come propri anche i valori normativi ed 
etici   associati   a   tale   modello   ideale   introiettato.   L'identificazione   non   richiede   un   contatto 
interpersonale poiché può realizzarsi anche verso modelli (reali o immaginari) con i quali non vi è 
stato un rapporto diretto. L'identificazione con soggetti delinquenti può verificarsi in diversi modi: a 
seguito di esperienze dirette con associazioni di delinquenti, attraverso una valutazione positiva dei 
ruoli delinquenziali rappresentati dai mass media oppure a seguito di una reazione negativa a forze 
che si oppongono alla criminalità. La teoria di Glaser permette così di spiegare le azioni criminali 
commesse da parte soggetti che sono abitualmente inseriti in gruppi sociali non criminali. 

[12]  Nel modello in esame le dinamiche intrapsichiche dell’individuo e le sue rappresentazioni 
cognitive entrano quindi in interazione con i significati e le regole sociali e tale dinamica complessa 
determina il suo agire 

CRIMINOLOGIA, SETTE SATANICHE E CONTROLLO DELLA MENTE 

Secondo numerose indagini condotte in ambienti scientifici ed istituzionali in Italia e nel resto del 
mondo industrializzato si assiste ad una notevole proliferazione di sette di vario genere. Questa 
situazione assume rilevanza in Criminologia qualora taluni crimini vengano progettati ed eseguiti 
all’interno di tali organizzazioni. Il particolare clima psicologico che si rileva all’interno delle sette 
e la capacità di alcuni santoni di ingerire pesantemente sui processi decisionali degli adepti, implica 
a nostro avviso la necessità di dotarsi di specifici strumenti conoscitivi per cercare di interpretare i 
crimini che si verificano negli ambienti esoterici. Tale processo di studio dovrà preliminarmente 
orientarsi sugli aspetti antropologici ed organizzativi delle sette nonché sugli aspetti sociologici e 
psicologici che favoriscono l’avvicinamento degli individui a tali realtà. 

L’ingresso degli individui nelle sette 

Elenchiamo una lista di variabili sociali e psicologiche che possono essere significative nel processo 
di avvicinamento di un soggetto a tali organizzazioni: 

Variabili sociali: 

1. Processo di secolarizzazione della Chiesa Cattolica e conseguente apertura di spazio di culto per 
movimenti religiosi alternativi; 

2. Diffusione di ideologie ecologiste e antitecnologiche nel tessuto sociale e pronta acquisizione di 
tali connotazioni ideali da parte di sette di varia estrazione, soprattutto di matrice new age; 

3.   Progressivo   slittamento   culturale   dal   collettivismo   all’individualismo,   dovuto   alla   crisi   delle 
grandi   ideologie   di   matrice   socialista,   con   conseguente   maggiore   richiesta   di   culti   e   pacchetti 
valoriali riferiti alla sfera intima, emotiva e psicologica dell’individuo; 

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4.   Disagio   generalizzato   dovuto   all’impatto   aggressivo   del   progresso,   talvolta   di   difficile 


inserimento   nella   sfera   antropologica   degli   individui,   con   conseguente   nascita   di   simpatia   nei 
confronti   di   poteri   magici   e   di   segrete   conoscenze   che   permettano   di   governare   la 
sovrastimolazione, la frenesia sociale e la generica incertezza per il futuro. 

5. Diffusa ricerca di esclusività in antagonismo schizofrenico alla ricerca di standardizzazione e 
conformità. 

Variabili psicologiche: 

1. Antagonismo alla frustrazione di inadeguatezza sociale attraverso l’appartenenza ad un gruppo 
(la   setta)   che   volutamente   ingenera   negli   adepti   la   convinzione   di   essere   viceversa   importanti, 
naturalmente solo all’interno della setta stessa; 

2. Carisma dei capi e complementare richiesta di potere carismatico da parte di soggetti insicuri; 

3.   Riduzione   dell’ansia   (es.   della   morte)   attraverso   il   convincimento   acquisito   di   esistenze 


ultraterrene, immortalità eccetera; 

4.   Aumento   dell’autostima   a   seguito   dell’apprendimento   di   poteri   magici   che   consentono   una 


rinnovata capacità di determinare eventi e controllare l’ambiente esterno; 

5. Soddisfazione di bisogni di dipendenza e sottomissione da parte di soggetti con particolari profili 
di personalità; 

6.   Opportunità  di  relazioni  interpersonali   (anche  sessuali)  per  soggetti   con particolari   difficoltà 
relazionali; 

7. Solitudine e disgregazione familiare; 

8.   Particolare   sensibilità   alle   tecniche   di   suggestione   e   di   condizionamento   operante   (rinforzo 


sistematico di comportamenti utili da parte del leader carismatico). 

ASPETTI CRIMINOLOGICI DELLE SETTE 

Gli   aspetti   specificatamente   criminologici   nell’ambito   dell’attività   delle   sette   si   riferiscono   a 


comportamenti criminali posti in essere dai leader o da adepti della setta a danno di altri adepti o di 
soggetti   non   appartenenti   alla   setta.   In   altri   termini,   la   natura   religiosa   delle   organizzazioni 
pseudoreligiose non costituisce di per sé un elemento criminogenetico anche se, ovviamente, viene 
studiata dal criminologo come situazione di “contesto” che serve per interpretare la criminogenesi e 
la   criminodinamica.   (lo   stesso   brainwashing,   a   se   stante,   svincolato   cioè   dall’induzione   a 
comportamenti autolesionistici o illegali è di difficile valutazione criminologica). L’interesse della 
criminologia è così focalizzato sui comportamenti illegali dei soggetti coinvolti. Tali azioni possono 
essere  assai   diversificate  e sono attinenti  alla natura  della specifica  setta analizzata.  Gli aspetti 

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culturali ed antropologici dei nuovi movimenti religiosi rappresentano quindi fattori che interessano 
il criminologo solo “marginalmente”, nella misura in cui costituiscono l’ambiente dove il crimine 
matura e viene commesso. Lo stesso condizionamento psichico degli adepti, al centro di un acceso 
dibattito   giuridico   e   sociologico,   rappresenta   una   variabile   significativa   dal   punto   di   vista 
criminologico quando ad esso è correlata una forma di illegalità (es. l’acquisizione di ricchezze da 
parte del santone o l’alterata percezione del crimine da parte dell’adepto). In effetti alla base della 
ragione di esistere di molte sette italiane ed estere sembra manifestarsi un interesse pratico da parte 
del capo carismatico o, in casi di organizzazioni molto strutturate, da parte del gruppo che detiene la 
leadership. Tale interesse, che in alcuni casi può assumere connotazioni di illegalità, varia in base 
alla tipologia della setta ma solitamente riguarda: 

∙ acquisizione di ricchezze attraverso le quote di adesione degli adepti o, in alcuni casi, attraverso 
l’espoliazione dell’intero patrimonio degli adepti; 

∙ acquisizione di ricchezze attraverso la vendita agli adepti di materiale bibliografico e rituale e 
l’organizzazione di corsi e seminari; 

∙ soddisfazione di desideri sessuali e perversioni; 

∙ acquisizione di vantaggi provenienti dalle singole attività professionali degli adepti; 

∙   acquisizione   di   informazioni   sensibili   in   campo   industriale,   finanziario/mobiliare,   e 


politico/istituzionale, dagli adepti che ricoprono incarichi professionali e istituzionali elevati. Tali 
informazioni possono essere in seguito utilizzate dalla setta per speculazioni, ricatti eccetera. 

Generalmente ogni tipo di setta presenta dei reati ricorrenti. Esempi di reati legati alle sette: 

∙ sette transnazionali: truffe, spoliazione economica degli adepti, acquisizione di informazioni ecc. 

∙   sette   sataniche:   violenza   sessuale,   pedofilia,   lesioni,   detenzione   e   spaccio   di   stupefacenti, 


maltrattamento di animali, azioni contro il buon gusto (sanzionate penalmente), profanazione di 
cimiteri, spaccio e detenzione di stupefacenti, minacce ecc. 

∙ psicosette:, esercizio abusivo professione medico/psicologo, truffe. 

CONDIZIONAMENTO PSICHICO E CRIMINI 

Alla base della maggior parte dei comportamenti illegali che avvengono nell’ambito delle sette 
(truffe, violenze sessuali, spaccio ed uso di stupefacenti, appropriazioni, eccetera) si ritrovano forme 
più o meno sofisticate di condizionamento psicologico e di tecniche di coercizione, attuate con 
metodi sottili, spesso di tipo suggestivo. In altri termini, i reati che coinvolgono a vario titolo gli 
adepti   (come   autori   o   come   vittime),   sembrano   essere   associati   ad   una   modifica   della   loro 
percezione della gravità di tali reati. La partecipazione a riti illegali (ad esempio che coinvolgono 
minori in attività sessuali) o la donazione dei propri averi all’organizzazione, possono apparire ad 

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un’osservazione superficiale come assolutamente spontanei e non legati ad una pressione specifica 
da parte del leader carismatico. Tale situazione, che rappresenta una grossa difficoltà in ambito 
processuale, risulta viceversa soltanto apparente essendo infatti gli adepti sottoposti ad una serie di 
tecniche di convincimento di vario genere. Nella maggior parte dei casi, l’uso della violenza per 
indurre i soggetti a comportamenti conformi alle istanze del gruppo sembra essere abbastanza raro e 
solitamente  riservato a casi di particolare  resistenza. Lo scenario proposto rappresenta a livello 
giudiziario una notevole difficoltà in ambito probatorio. Le tecniche predilette dai leader delle sette 
per ottenere il controllo degli adepti sono infatti di tipo prevalentemente psicologico e tale capacità 
di manipolazione costituisce, di fatto, il requisito fondamentale dei vari capi carismatici e santoni 
che sono al vertice delle sette di ogni genere. Spesso, questa dinamica, costituisce la forza primaria 
del gruppo e una notevole tutela per il leader carismatico dagli attacchi delle agenzie di controllo 
istituzionale che stentano a trovare testimonianze. Nel corso dei processi penali, pur abbondanti in 
ogni   parte   del   mondo   a   carico   di   santoni   accusati   di   vari   reati,   risulta   infatti   sempre   assai 
difficoltoso,   in   termini   probatori,   dimostrare   (da   parte   dell’accusa)   il   plagio   e   l’induzione   al 
comportamento, essendo tale dinamica sovente in contrasto con l’universale tendenza, nel processo 
penale, verso l’attribuzione di responsabilità e il riconoscimento del libero arbitrio nelle condotte di 
vita degli individui, soprattutto, in mancanza di un accertato di vizio totale o parziale di mente 
dell’individuo che è stato “indotto” ad una determinata azione. 

LE TECNICHE DI COMUNICAZIONE DELLE SETTE 

Una interessante ottica di studio criminologico delle sette è costituita a nostro avviso dall’analisi 
delle   modalità   comunicative   intragruppo   ed   intergruppo.   Distinguiamo   a   tal   proposito   delle 
dinamiche di comunicazione interna e delle dinamiche di comunicazione esterna. La comunicazione 
interna ha funzione soprattutto coesiva per il gruppo ed è caratterizzata da un linguaggio specifico, 
sovente criptico, che è comprensibile integralmente solo dagli adepti. Si tratta di una fraseologia che 
attribuisce un significato ad un oggetto o ad un evento utilizzando parole solitamente estranee al 
vocabolario   corrente   (parole   appositamente   confezionate)   o   che   hanno   nella   consuetudine   un 
significato  diverso. Il linguaggio  specifico  rappresenta così la base dell’interazione  tra il leader 
carismatico   e   gli   adepti   di   una   setta.   E’   importante   sottolineare   che   secondo   numerosi   studi 
psicologici (Piaget, Kuenne, Whorf, Osgood) il linguaggio possiede delle capacità di orientare la 
percezione degli eventi, il comportamento ed il pensiero degli individui e comunque costituisce un 
elemento fondamentale per l’attribuzione simbolica del proprio sé, della realtà circostante e degli 
altri individui. In ambito criminologico lo studio del linguaggio degli adepti costituisce un fattore 
importante   per   stabilire   il   livello   di   complessità   dei   rapporti   intragruppo   ed   il   livello   di 
introiettamento della cultura della setta da parte dei soggetti che giungono all’osservazione clinica. 
La quasi totalità delle sette esplica dinamiche comunicative anche attraverso una ricca simbologia 
(numeri, oggetti, segni grafici, animali eccetera), come documentato dai rapporti criminalistici sulle 
sedi   e   sui   luoghi   abitualmente   frequentati   dai   gruppi   esoterici   e   satanici.   La   comunicazione 
all’esterno rappresenta invece la modalità espressiva attraverso la quale la setta svolge azione di 
proselitismo   e   giustificazione   comportamentale   (legittimazione)   in   ambito   sociale.   I   canali 
impiegati   vanno   dalla   tradizionale   produzione   di   letteratura   specifica   fino   alla   semplice 
divulgazione   face­to­face   nella   sfera   parentale­amicale   degli   adepti.   Con   l’avvento   di   internet 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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numerose pagine web vengono impiegate dalle sette per diffondere le loro dottrine e tale dinamica 
costituisce motivo di particolare allarme vista la diffusione e la difficoltà oggettiva di controllo del 
mezzo   telematico.   In   termini   di   studio,   la   diffusione   delle   sette   sul   web   consente   però   nuove 
opportunità di comprensione attraverso l’osservazione anche da parte di scienziati esterni ai gruppi, 
ad esempio con l’analisi dei newsgroup e dei forum dedicati. 

TEORIA DELLA DISSONANZA COGNITIVA 

La teoria formulata da Festinger nel 1957 rappresenta uno spunto assai utile per comprendere i 
meccanismi   di   mantenimento   del   consenso   all’interno   delle   sette,   anche   in   circostanze   in   cui 
l’evidenza percettiva mette a dura prova le credenze esoteriche degli adepti. Per l’autore infatti, la 
fatica di dover ristrutturare continuamente l’esperienza indotta dalla percezione implica nell’uomo 
una certa abitudine a crearsi dei “punti fermi” (credenze e schemi di significato) che dopo essere 
stati appresi non vengono più messi in discussione anche se non trovano verifiche successive. Ogni 
incoerenza percepita tra i vari aspetti della conoscenza, dei sentimenti e del comportamento instaura 
quindi un sentimento interiore di disagio (dissonanza cognitiva) che la gente cerca di ridurre tutte le 
volte che le è possibile negando le nuove percezioni che contrastano con quelle precedentemente 
apprese. La teoria di Festinger può farci capire come un qualsiasi soggetto, dopo esser diventato 
"preda" degli adescatori delle sette ed aver quindi subito un condizionamento mentale, non si renda 
conto delle evidenti incongruenze tra i dettami indicati dal leader della setta e gli accadimenti reali. 
La   dissonanza   cognitiva   costituirebbe   così   un   “aiuto”   all’abilità   di   convincimento   del   santone 
rendendo doloroso il riconfezionamento di credenze precedentemente radicate nel soggetto. In linea 
teorica, ad esempio, le sette millenariste che annunciano la fine del mondo ad intervalli regolari, 
dovrebbero svuotarsi dagli adepti nel momento in cui avviene la constatazione razionale che la fine 
del mondo non è avvenuta alla scadenza prefissata. In realtà, la maggior parte degli adepti (quando 
non   accadono   tragedie   tipo   suicidi   collettivi)   accetta   supinamente   nuovi   “step”   di   calendario   e 
giustificazioni spesso improbabili. 

SETTE PSEUDORELIGIOSE COME ORGANIZZAZIONI CRIMINALI 

Un interessante approccio allo studio delle sette è rappresentato da quello che considera tali gruppi 
come organizzazioni criminali. In tale dimensione assumono rilevanza i seguenti elementi: 

Valutazione delle caratteristiche del leader e della leadership: L’analisi delle modalità di approccio 
e di strutturazione del gruppo da parte del leader costituisce un ambito di studio mutuabile dalla 
Psicologia del lavoro e delle organizzazioni che può fornire un valido apporto nello studio delle 
sette. In effetti, non tutti i leader delle sette sono dei truffatori anche se molti di essi hanno nel loro 
vissuto   un’attività   lavorativa   che   li   ha   dotati   di   abilità   di   comunicazione   e   convincimento   (es. 
imbonitori   di   fiere)   nonché   di   capacità   nell’instaurare   rapidamente   legami   empatici   nella   sfera 
intima dell’interlocutore. 

Flusso di potere organizzativo: L’analisi delle caratteristiche della struttura organizzativa (spesso 
piramidale)   rappresenta   un   importante   ottica   di   ricerca.   Importante   è   ad   esempio   la   figura   dei 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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luogotenenti (con potere o “burattini”) che denota le modalità di trasmissione del potere e delle 
comunicazioni   intragruppo   oltre   che   fornire   importanti   indicatori   sulla   complessità 
dell’organizzazione. 

ASPETTI CRIMINOLOGICI DELLE SETTE 

Nell’ambito di alcuni gruppi pseudoreligiosi (specie in quelli definiti come culti distruttivi), sono 
configurabili sostanzialmente due categorie di crimini: i crimini commessi ai danni degli adepti e i 
crimini commessi dagli adepti (ai danni di altri adepti o di soggetti esterni alla setta) sotto l’influsso 
di condizionamenti da parte del gruppo a cui appartengono. 

Nella prima categoria rientrano le azioni illegali eseguite dai leader carismatici ai danni dei loro 
accoliti, i quali subiscono tali azioni con vari livelli di consapevolezza. 

Questi crimini si riferiscono normalmente a : 

§ truffe e frodi; 

§ minacce; 

§ estorsioni; 

§ sequestri di persona (di durata variabile); 

§ sfruttamento (del lavoro e della prostituzione); 

§ lesioni (procurate nel corso di rituali); 

§ violenze fisiche di vario tipo; 

§ spaccio di stupefacenti; 

§ pedofilia; 

§ abusi sessuali; 

§ induzione al suicidio 

§ omicidi. 

Alla seconda categoria sono viceversa ascrivibili quelle azioni illegali eseguite da adepti di sette, ai 
danni   di   altri   adepti   o  di  soggetti   esterni   alla   setta,   in  un  generico  quadro  di   alterazione   della 
coscienza. 

Questi crimini sono rappresentati da: 

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§ reati familiari (es. mancato sostentamento, abbandono eccetera); 

§ violenze e lesioni ad altri adepti nel corso di rituali; 

§ detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti; 

§ abusi sessuali 

§ pedofilia 

§ profanazione di cimiteri 

§ maltrattamento di animali 

§ furti (es. ostie nelle chiese) 

§ concorso in truffe e frodi 

§ furto di informazioni 

§ danneggiamenti (chiese e locali) 

I costrutti teorici di base utili all’interpretazione dei crimini commessi dai leader carismatici ai 
danni degli adepti sono quelli usuali della Scienza criminologica nell’ambito dei reati appropriativi, 
degli abusi e delle organizzazioni criminali. In altre parole l’approccio più verosimile allo studio del 
comportamento di santoni e capi carismatici che commettono crimini è quello che si utilizza per i 
comuni delinquenti, cercando di isolare e localizzare i vari reati “terreni” all’interno di un involucro 
simbolico di tipo esoterico, creato appositamente per meglio eseguire le varie azioni criminali. Per 
tali soggetti, in alcuni casi, potrebbe forse essere ipotizzata (e poi verificata con idonee ricerche) la 
presenza   di   alcuni   specifici   tratti   di   personalità,   funzionali   ad   esempio   al   mantenimento   di 
atteggiamenti artificiali (per lungo tempo) nel corso dell’interazione con gli adepti o all’esecuzione 
di tecniche di condizionamento psichico. 

Per   quanto   attiene   all’interpretazione   criminologica   dei   crimini   commessi   dagli   adepti   appare 
invece necessaria l’adozione di un paradigma interpretativo specifico in grado di evidenziare la 
duplice   dimensione   dell’autore   (criminale/vittima)   e   le   complesse   dinamiche   di   alterazione 
percettiva, indotte dall’appartenenza alla setta, che possono entrare in gioco in fase di progettazione 
ed esecuzione del crimine. 

Su questa base un possibile quadro teorico fondato sulla Teoria dell’azione e sul costruzionismo 
complesso dovrebbe tenere in debita considerazione la capacità dei contesti di condizionamento 
psichico di intervenire nel processo di significazione presente in ogni azione criminale, alterando 
alcuni significati “chiave” di tale processo. 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Secondo gli approcci criminologici più moderni gli individui elaborano ed interpretano socialmente 
le regole sociali e orientano il proprio comportamento anticipandone gli effetti (mentalmente) con 
una  sorta  di  monitoraggio  che definisce lo svolgimento  dell’azione.  In tale  ottica  le dinamiche 
intrapsichiche   dell’individuo   e   le   sue   rappresentazioni   cognitive   entrano   in   interazione   con   i 
significati e le regole sociali e tale dinamica complessa determina il loro agire. 

La percezione del crimine e della vittima, le norme sociali di riferimento, le aspettative di reazione 
sociale e altre componenti del complesso percorso di attribuzione di significato che conduce gli 
individui alla commissione (o meno) di un crimine possono risultare notevolmente alterate in un 
adepto di una setta, “immerso” in un contesto simbolico frastornante. 

In   alcune   specifiche   circostanze,   come   ad   esempio   in   situazioni   di   trance   nel   corso   di   rituali 
particolari,  è   ipotizzabile  addirittura  uno  stato   di  alterazione  assoluto   della   coscienza   che   pone 
l’adepto in condizione di “gestione totale” da parte del leader carismatico e quindi potenzialmente 
in grado di commettere crimini, anche efferati, con modestissima consapevolezza. 

A tal proposito potrebbero risultare utili ricerche effettuate su adepti che hanno eseguito azioni 
criminali, attraverso la somministrazione di strumenti di valutazione criminologica centrati sulla 
percezione del crimine e sui livelli di consapevolezza. Le risultanze potrebbero infatti assumere 
notevole valenza per comprendere le correlazioni tra condizionamento e crimini e, in Criminologia 
clinica, soprattutto per quanto riguarda le valutazioni di responsabilità. 

L’investigazione nell’ambito delle sette sataniche 

L’attività   investigativa   nell’ambito   dei   crimini   legati   alle   sette,   così   come   del   resto   la   ricerca 
criminologica   su   tale   argomento,   implica   l’esigenza   di   una   notevole   padronanza   da   parte 
dell’investigatore/ricercatore, della complessa simbologia rituale che permea tali organizzazioni. 

Tale   simbologia   (ad   esempio   quella   numerologica   nel   satanismo)   può   infatti   rappresentare   un 
elemento   fondamentale   per   la   comprensione   di   alcune   dinamiche   delittuose   altrimenti 
particolarmente intricate. 

Anche i simboli grafici, come le scritte murali ritrovate sovente nei luoghi dove vengono svolti 
rituali satanici, o particolari oggetti o reperti anatomici, possono assumere significati importanti per 
la comprensione delle dinamiche e della valenza criminogenetica del gruppo che le ha eseguite. 

Interessante a tal proposito il caso dell’omicidio di Suor Laura avvenuto a Chiavenna nell’estate del 
2000.   Le   presunte   autrici,   tre   giovani   ragazze   insospettabili,   appartenenti   al   ceto   medio,   con 
famiglie tranquille e normali come migliaia di altre hanno ucciso brutalmente la religiosa in un 
luogo isolato. 

Le   ipotesi   sulla   correlazione   tra   il   delitto   e   il   mondo   del   satanismo   sono   supportate   da   alcuni 
riscontri criminalistici: 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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§   rinvenimento,   nel   corso   di   sopralluoghi,   poco   lontano   dalla   scena   criminis,   di   alcune   scritte 
riconducibili a riti e sette sataniche; 

§   presenza   su   3   quaderni,   sequestrati   nelle   abitazioni   delle   tre   giovani,   di   scritte   e   simbologie 
sataniche   nonché   di   brani   di   scrittura   contenenti   linguaggi   e   contenuti   riferibili   al   mondo   del 
satanismo; 

§  la  data in  cui si e' consumato l'omicidio  e' il 6 giugno (il 6­6) che costituisce una sequenza 


numerica simboleggiante il demonio nell’ambito dei gruppi satanici. 

La ritualità satanica contempla l’utilizzo di oggetti e sostanze di varia natura, spesso ricorrenti nei 
vari   gruppi   poiché   risalenti   alle   medesime   tradizioni   antiche   tramandate   oralmente   o   più 
semplicemente acquisiti dalla medesima letteratura specialistica che, secondo quanto documentato 
dalla ricerca sociologica, sembra essere in grande espansione e reperibile in molte librerie (anche 
“prestigiose”). 

Riportiamo   a   titolo   esemplificativo   una   lista   di   questi   oggetti   rinvenuti   e   sequestrati   (sotto   un 
albero) dai Carabinieri nel corso di un’operazione di polizia nel settembre del 2000 a Roma: 

§ tre candele consumate; 

§ alcuni cuori di pezza trafitti da spilloni; 

§ una ciotola con uova; 

§ della polvere bianca; 

§ materiale cerebrale proveniente da un animale (una pecora). 

Per quanto attiene ai reperti criminalistici grafici, rinvenuti sovente sui muri di chiese sconsacrate 
utilizzate   per   riti   satanici   o   all’esterno   di   chiese   consacrate   o   in   documentazione   personale 
sequestrata ad adepti (quaderni, diari), i segni ricorrenti sono: 

§ croci rovesciate; 

§ varie sequenze numeriche tra cui 666 (la grande bestia, il demonio); 

§ stelle a cinque punte. 

Talvolta  importanti  indicatori  della  presenza di rituali  satanici  possono talvolta  essere osservati 


nelle mutilazioni subite da animali domestici. Nel giugno del 2000, ad Albano in Provincia di Roma 
sono stati rinvenuti, a più riprese, dei gattini che presentavano tutti le stesse mutilazioni, eseguite, a 
detta di un Veterinario, con un colpo netto e preciso (escludendo quindi strappamenti accidentali). 
Gli animali avevano subito il taglio di una zampa posteriore all’altezza del femore e della coda. 
Nell’area di rinvenimento risulta attività rituale satanica. 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Le competenze necessarie al riconoscimento e all’interpretazione della simbologia satanica e di altri 
gruppi pseudoreligiosi sono acquisibili attraverso i testi scientifici specialistici e dalla letteratura 
subculturale diffusa dalle librerie specializzate. 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE 

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Movimenti Religiosi, testi della Chiesa Cattolica/ 1986­1994, Roma, Città Nuova Ed., 1995. 

AMATULLI,   La   Chiesa  Cattolica  e  le  Sette  Protestanti,  Castellana  Grotte  (Ba),  Apostoli   della 
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A. USAI, Profili Penali dei Condizionamenti Psichici, Milano, Giuffrè Ed., 1996. 

Capitolo 5

I CRIMINI NELLA FAMIGLIA 

Introduzione generale 

I numerosi casi di violenza che si verificano quotidianamente tra le mura domestiche ci dimostrano 
drammaticamente come l’idea di un luogo familiare basato su vincoli di amore e solidarietà, che 
protegge i suoi membri permettendo loro di svilupparsi, socializzare e realizzarsi, sia in realtà una 
visione in parte idealizzata e mistificante della famiglia. Tra individui legati da vincoli di parentela 
si verificano abusi sessuali, maltrattamenti fisici, violenze psicologiche e assassinii. Evidentemente 
anche nella famiglia, come in ogni gruppo sociale, esiste un certo grado di conflittualità; ma diversa 
e   patologica   risulta   la   situazione   familiare   dove   la   conflittualità   si   trasforma   in   aggressione   e 
violenza. 

La famiglia non produce solo vittime di violenza, in prevalenza donne e bambini. 

E’ anche un luogo dove la violenza viene insegnata e appresa tramite modelli comportamentali e 
relazionali che tendono a perpetuarsi generazione dopo generazione. 

In alcuni casi la famiglia può diventare addirittura una vera e propria organizzazione criminale, 
come possiamo osservare nei casi di clan mafiosi di tipo tradizionale. 

“La violenza domestica  si riferisce alla violenza che si verifica nei confini della famiglia ed include 
tutte le forme di violenza legalmente sanzionate che un membro della famiglia può infliggere ad un 
altro”[1] 

La famiglia quindi costituisce, un “habitat” particolare in cui si possono sviluppare tipiche condotte 
criminose[2], che il nostro sistema penale contempla attraverso i seguenti articoli: 

L’art. 570 c.p. ( “violazione degli obblighi di assistenza”): 

“Chiunque,  abbandonando il domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria 
all’ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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genitori o alla qualità di coniuge, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa da lire 
duecentomila   a   due   milioni.   Le   dette   pene   si   applicano   congiuntamente   a   chi:   1)   malversa   o 
dilapidai beni del figlio minore o del coniuge 2)  fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di 
età   minore,   ovvero   inabili   al   lavoro,   agli   ascendenti   o   al   coniuge,   il   quale   non   sia   separato 
legalmente per sua colpa” 

Con questo articolo vengono puniti i reati familiari a motivazione economica, così come quelli 
relativi ai casi di incuria dove i genitori sono colpevoli di non prestare le cure di cui i figli hanno 
bisogno; similmente, in caso di abbandono, interviene l’art.591 (“abbandono di persone minori o 
incapaci”)che recita: 

“Chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per 
malattia di mente o di corpo, per vecchiaia o altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale 
abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Alla 
stessa pena soggiace chi abbandona all’estero un cittadino italiano minore di anni diciotto, a lui 
affidato nel territorio dello Stato per ragioni di lavoro. 

La pena è di reclusione da uno a sei anni se dal fatto deriva una lesione personale, ed è da tre a otto 
anni se ne deriva la morte. Le pene sono aumentate se il fatto è commesso da un genitore, dal figlio, 
dal tutore o dal coniuge ovvero dall’adottante o dall’adottato.” 

I reati nell’ambito della famiglia che riguardano invece la violenza fisica e morale, ovvero i casi di 
maltrattamento  sia fisico che psicologico,  vengono contemplati  dagli art. 571 c.p.   (“abuso  dei 
mezzi di correzione”): 

“chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua 
autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per 
l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito, se dal fatto deriva pericolo di una malattia nel 
corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei mesi. Se dal fatto deriva una lesione personale, si 
applicano le pene stabilite negli art.582 e 583, ridotte a un terzo; se ne deriva la morte, si applica la 
reclusione da tre a otto anni. 

e dall’art.  572 c.p. (“ maltrattamenti in famiglia”): 

“Chiunque fuori dei casi indicati dall’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un 
minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione 
di   educazione,   istruzione,   cura,   vigilanza   o   custodia,   o   per   l’esercizio   di   una   professione   o   di 
un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Se dal fatto deriva una lesione personale, si 
applica la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da 
sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a venti anni.” 

Infine per i reati di natura sessuale che avvengono in famiglia si fa riferimento alla stessa normativa 
che regola le violenze sessuali in genere, ovvero la recente legge del 15 febbraio,19996, n 66 che ha 
avuto   il   merito   di   introdurre   due  grosse  novità   in   materia:   l’unificazione   del   reato   di   violenza 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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carnale e quello di atti di libidine violenta in una unica fattispecie criminosa, cioè la “violenza 
sessuale”, comprendente qualunque atteggiamento contro la libera determinazione sessuale della 
persona; e, soprattutto, il riconoscimento, dopo tanti anni di attesa, della violenza sessuale come un 
reato non più contro la morale ma contro la persona.  

Gulotta[3]   preferisce distinguere le condotte delittuose all’interno della famiglia, utilizzando come 
criterio il tipo di vittima coinvolta: 

­ coniuge (maltrattamento, violenza sessuale, uxoricidio) 

­ figli (maltrattamento, violenza psicologica, patologia delle cure, abuso sessuale) 

­ genitori (maltrattamento, parenticidio, parricidio, matricidio) 

1. 1.  La violenza tra i coniugi 

La violenza tra coniugi è un fenomeno più diffuso di quanto non si creda. E’ vero che in questo 
caso, rispetto alla violenza sui figli, la vittima essendo un adulto possiede maggiori strumenti e 
possibilità   di  sottrarsi  alle   sevizie   attraverso   la  denuncia  oppure   la  separazione,   il  divorzio   dal 
coniuge violento; ma è pur vero che anche in questo caso la violenza avviene all’interno di un 
rapporto affettivo significativo tra abusante e vittima che non può essere privo di conseguenze. 
Anche in questo caso per esempio l’omertà familiare gioca un ruolo importante nella possibilità di 
effettuare   una   rilevazione   quantitativa   del   fenomeno   appropriata.     Secondi   i   dati   ISTAT[4]   il 
numero di denunce per maltrattamento in base all’art. 572 si aggira ai 5000 l’anno; di queste la 
maggior parte proviene dai rapporti delle forze di pubblica sicurezza e solo una piccola percentuale 
è attribuibile a privati o deriva da querela di parte. Ciò ci da un’idea di quanta consistente sia il 
fenomeno   sommerso   dei   maltrattamenti   che   non   vengono   segnalati   e   che   vengono   invece 
giustificati ai controlli medici come “incidenti”. E’ importante ricordare, a tal proposito, che uno tra 
i principali motivi di separazione della coppia coniugale risulta essere proprio la violenza fisica e la 
violenza   verbale   espresse   dai   partner,   ancor   prima   dei   problemi   di   natura   finanziaria,   della 
trascuratezza della casa e dei bambini, della conflittualità con i suoceri; ancor prima dell’infedeltà, 
della   mancanza  d’amore   o  dell’incompatibilità  sessuale[5].  Le   lagnanze  per  queste   prime   voci, 
quelle relative agli episodi di violenza provengono in prevalenza dal coniuge femminile, ma non 
esclude totalmente la possibilità che la vittima di maltrattamenti domestici possa essere il marito o il 
convivente, come vedremo più avanti. E’ evidente però che è la donna la vittima prevalente del 
maltrattamento coniugale, come risulta da una ricerca riportata da Gulotta[6], in cui su un totale di 
1872 donne intervistate il 48% afferma di essere stata oggetto di violenza fisica operata solo in 
piccola parte da estranei; nella maggioranza dei casi la violenza è stata infatti subita in ambito 
familiare:   famiglia   di   origine   (padre,   madre,   fratelli),   oppure   dal   marito,   dal   fidanzato,   dal 
convivente. Si tratta anche di episodi gravi di violenza che ha lasciato tracce fisiche nel 12% dei 
casi, determinato ricoveri ospedalieri nel 2% e tentativi di suicidio nel 4% delle vittime. Anche la 
violenza sessuale avviene in buona parte tra le mura domestiche e non solo a danno dei minori; una 
buona percentuale  degli stupri sulle donne viene compiuto da conoscenti e parenti e questi spesso 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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sono coniugi o fidanzati. Anche in questi casi le conseguenze sono gravi (depressione, difficoltà 
sessuali,   etc)   ma   anche   in   questi   casi   le   denunce   sono   scarse   e   il   segreto   familiare   viene 
generalmente   mantenuto.   Si   verifica     prevalentemente   durante   il   fine   settimana,   quando   c’è 
maggiore probabilità di incontro della coppia, e in orario pomeridiano e serale; la cucina sembra 
essere, nella casa il luogo dove avvengono più frequentemente le aggressioni[7] 

Ma che cosa determina il fenomeno cosiddetto del “wife beating”? 

Come è prevedibile gli studi si sono concentrati principalmente sulla personalità dell’uomo che 
picchia   la   propria   moglie   suggrendo   un’immagine   un   po’   stereotipata   e   quindi   riduttiva   e 
insufficiente, del marito violento come di un malato di mente, di un alcolizzato o tossicodipendente 
E’ evidente che tale connotazione si basa su dati reali ma parziali. Appare evidente invece che una 
simile attribuzione ha anche un valore rassicurante e difensivo perché stigmatizzante e perché da 
l’illusione di poter più facilmente controllare un fenomeno violento (che è temuto proprio perché 
trasversale)   e   di   poterlo   relegare   al   di   fuori   della   nostra   esperienza   e   del   nostro   contesto   di 
appartenenza. Sono stati descritti in tal senso alcuni tratti di personalità del marito violento quali la 
dipendenza,   la   passività,   la   sospettosità   paranoide;   inoltre   sono   state   delineate   anche   alcune 
sindromi[8] del marito che picchia la moglie: esse si baserebbero su alcuni bisogni fondamentali 
che l’uomo si sforzerebbe di soddisfare anche tramite il ricorso alla violenza fisica. Ad esempio 
nella sindrome di colui che “ricerca l’approvazione”il   bisogno di base sarebbe   la ricerca della 
conferma del proprio valore e la moglie assumerebbe il ruolo di rinforzare la sua autostima. Per 
questo   motivo  qualsiasi dissenso o scelta  autonoma  della compagna  è vissuta dal  marito  come 
inaccettabile   attacco   al   suo   valore   narcisistico   e   dato   il   ruolo   che   le   attribuisce,   diventa   vitale 
evitare, anche con la violenza, ogni minaccia che metta in crisi la propria precaria stima di sé.  Sono 
state evidenziate anche alcune modalità di interagire tipiche della coppia in cui si verifica il “wife 
beating[9]”: rigida osservanza dei ruoli familiari e coniugali; i tentativi di cambiamento o le scelte 
di autonomia della moglie vengono percepite minacciosamente dal marito che teme una rottura 
dell’omeostasi familiare che è in grado di garantire la sopravvivenza dei rapporti e dei ruoli in 
famiglia. La violenza è ovviamente una espressione del potere all’interno di un gruppo o di una 
relazione ed è uno strumento per esercitare il potere e mantenerlo. Il marito può sentirsi minacciato 
nel riconoscimento del proprio potere decisionale in famiglia dato che non gli viene più garantito 
automaticamente dalla società e dalla cultura il ruolo di capo famiglia; inoltre può sentirsi incapace 
di competere sul piano intellettuale, professionale ed economico con la partner e può utilizzare la 
forza  fisica  come unico  mezzo  per recuperare  o preservare un potere  ed un ruolo che teme  di 
perdere. In un periodo in cui i ruoli maschili e femminili si sono profondamente trasformati anche 
in famiglia può esserci maggiore lotta per il potere tra i coniugi. I litigi infatti avvengono perché 
non vengono rispettate le regole (esplicite ed implicite) della famiglia vengono messe in discussione 
le “meta­regole” cioè le regole che stabiliscono chi ha il diritto di porle. La tendenza ad attribuire 
automaticamente la responsabilità del conflitto familiare alla coniuge spesso percepita in maniera 
poco realistica e in base ad aspettative che ricalcano una coppia ideale, come quella dei propri 
genitori. Molti litigi tra i membri di una coppia avvengono non tanto perché essi possiedono un 
opinione diversa sulla realtà, cioè su ciò che avviene quanto per una diverso modo di attribuire la 
causa e la responsabilità di quello che accade. Ogni persona, infatti, attribuisce intenzioni, scopi, 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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motivazioni   e   responsabilità   per   giustificare   il   comportamento   proprio   e   altrui;   si   tratta   di 


meccanismi di attribuzione che ognuno di noi mette in atto nel tentativo di interpretare le cause del 
comportamento   osservato.Ora,   quando   siamo   gli   agenti   stessi   del   comportamento   tendiamo   a 
considerare   particolarmente   incidenti   le   pressioni   dell’ambiente;   quando   invece   siamo   nella 
posizione   di   spettatore,   tendiamo   ad   attribuire   maggiore   responsabilità   del   comportamento 
osservato, all’agente. E’ a questo punto che nasce il conflitto “di attribuzione”, quando ognuno dei 
coniugi cioè attribuisce all’altro scopi e responsabilità che questi non riconosce come propri e che 
non accetta che gli vengano attribuiti. La reazione violenta può nascere infatti più che in seguito alla 
semplice trasgressione di una regola familiare, dalla percezione che questa sia stata trasgredita in 
modo intenzionale: è l’intenzionalità a rendere l’azione altrui carica di responsabilità e viene vissuta 
come l’espressione di un attacco al quale è più probabile che si risponda con un contrattacco, anche 
fisico. Difficoltà comunicative nella coppia, in particolar modo scarsa capacità di gestire il conflitto 
e di mentalizzare e comunicare le proprie emozioni, senza doverle agire immediatamente. Si ritiene 
che i modelli di gestione del conflitto si apprendano soprattutto in famiglia e che l’esposizione 
precoce   e   sistematica   a   modelli   violenti   di   soluzione   dei   problemi   e   di   gestione   dei   rapporti 
influenzi   in   modo   considerevole   il   modo   di   comportarsi   in   famiglia   da   adulti.   Ad   esempio,   i 
bambini maltrattati hanno maggiori probabilità di diventare genitori maltrattanti, così come risulta 
importante quanto la cultura della famiglia di origine consideri “accettabile” o apprezzi modalità 
violente di comportamento tra i membri o verso l’esterno. Secondo le teorie dell’apprendimento 
sociale,   il   comportamento   violento   viene   appreso   in   base   all’osservazione   e   all’imitazione   di 
modelli;   è   probabile   che   il   coniuge   violento   non   possegga   un   repertorio   comportamentale   e 
comunicativo in grado di fornire, in una situazione critica o conflittuale, risposte alternative all’atto 
violento   che   al   contrario   può   essere   già   stato   collaudato   e   sperimentato,   per   certi   versi,   come 
efficace nel risolvere molti momenti di tensione. Ciò non significa che le coppie che verbalizzano di 
più la loro aggressività hanno minori probabilità di incorrere nella violenza: la violenza verbale 
infatti è correlata positivamente con l’aggressività fisica e, alimentandosi reciprocamente, favorisce 
l’escalation drammatica della violenza[10]. 

1.1.2. Le vittime[11] 

Come le altre vittime degli abusi domestici, anche la donna vittima di maltrattamento coniugale 
colpisce per la condizione di passività nella quale si trova. Il fatto che spesso non denunci il suo 
aggressore o che, non interrompendo la relazione con lui, si esponga ai reiterati episodi di violenza 
dimostra quanto sia complicato per la moglie picchiata, reagire in termini autoconservativi alla sua 
situazione.   In   genere   le   donne   maltrattate   presentano   “contusioni,   spesso   associate   a   lesioni 
traumatiche   ossee   o   a   ferite   lacero­contuse,   più   frequenti   nel   caso   di   utilizzo   di   mezzi   di 
offesa”[12], che si concentrano soprattutto sul viso (naso, mandibola, denti) e sul torace. Per di più 
che   oltre   ai   danni   direttamente   provocati   dalle   percosse   queste   donne   tendono   a   soffrire 
secondariamente di disturbi d’ansia, di depressione, di insonnia; tendono ad abusare di sostanze 
alcoliche e tentano spesso il suicidio. Sono portate a somatizzare le proprie difficoltà (ma di testa, 
allergie, etc.) e a reagire alle situazioni improvvise e inaspettate con manifestazioni di agitazione, 
pianto e paura paralizzante. Si mostrano passive e rassegnate anche se possono esprimere la propria 
aggressività verbalmente o tramite fantasie (di morte o di sparizione del proprio convivente per 

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esempio). Quello che temono è di perdere il controllo sulla propria aggressività, ad esempio temono 
di spostarla su altri membri famigliari, soprattutto i bambini e non a caso molte madri a questo 
punto denunciano il marito maltrattante al fine di tutelare almeno i propri figli; oppure l’aggressività 
e la rabbia provata da queste donne possono venire dirottate verso se stesse ed allora i tentativi di 
suicidio   o   le   condotte   autodistruttive   possono   assumere   il   valore   espressivo   di   comunicare   un 
disagio e l’estremo tentativo di uscire da una situazione percepita senza scampo. Molti sono i motivi 
infatti che rendono difficile alla moglie percossa di sottrarsi alla relazione violenta. La dipendenza 
economica e materiale dal marito soprattutto se : 

 la donna non lavora 
 non può disporre di una rete sociale di sostegno formale e informale 
 ci sono dei bambini; 
 la fiducia che il marito possa cambiare e la determinazione a recuperare il rapporto; 
 la dipendena affettiva dalla relazione e la paura a vivere da sola; 
 aver  sviluppato  un’immagine  negativa  di   sé,  fortemente  svalutata   che  legittimerebbe 
l’uso   della   violenza   nei   propri   confronti   e   l’accettazione   rassegnata   e   passiva   della 
propria condizione. 

Gelles[13] ha individuato alcuni fattori che invece faciliterebbero la reazione della vittima e/o la sua 
richiesta di aiuto. In particolare inciderebbero: 

 la natura e l’intensità della violenza inflitta 
 la frequenza con cui viene inflitta 
 l’età dei figli 

Tanto maggiore e grave è il grado di violenza subito, tanto maggiore è la probabilità che la moglie 
si sottragga al maltrattamento. La frequenza degli episodi violenti invece inciderebbe sul tipo di 
reazione   della   vittima:   se   hanno   cadenza   giornaliera   o   settimanale,   per   esempio   ricorrerebbe 
all’intervento   della   polizia;   se   gli   episodi   sono   più   rari   il   comportamento   più   prevedibile   è   la 
separazione. Se i figli invece sono adolescenti la risoluzione della coppia viene ricercata perché 
ritenuti autosufficienti o perché, al contrario, si ritiene vi sia il rischio di coinvolgimento di questi 
negli episodi violenti. La violenza nella coppia non si manifesta però a senso unico; esistono casi di 
maltrattamenti  da parte  del coniuge femminile  verso il marito,  anche se meno numerosi e  non 
perché esista una differenza tra i sessi nella tendenza a risolvere una tensione conflittuale con la 
violenza: ad esempio non esiste differenza statistica tra i casi di uxoricidio di provenienza maschile 
o femminile. Esiste una differenza solo nei mezzi utilizzati (le donne utilizzano molto di più le armi, 
il tiro di oggetti) e nella forza fisica che determina una differente produzione di effetti sulla vittima 
e una preferenziale designazione femminile del ruolo di vittima nei casi di conflitto violento tra due 
membri della coppia. 

1. 2. L’uxoricidio 

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L’omicidio del coniuge è un crimine domestico drammaticamente diffuso. Si pensi che negli Stati 
Uniti,   dove   il   numero   delle   vittime   della   violenza   domestica   supera   quello   delle   vittime   degli 
incidenti automobilistici, degli stupri e della piccola criminalità messi insieme; durante la guerra del 
Vietnam, quando morirono 39000 soldati in battaglia, ci furono 17500 morti tra donne e bambini a 
causa della violenza domestica[14]. In Italia, nel biennio 1993­1994 si sono registrati oltre 400 casi 
di   omicidio   e di  tentato  omicidio  fra parenti  e  partner[15]. In pratica  un omicidio  su 5 risulta 
trattarsi di un “omicidio domestico”; inoltre si è calcolato che dal 1993 al 1996 vi sia stato un 
incremento  dei casi di omicidi del coniuge del 13%. Nello stesso arco di tempo il numero dei 
figlicidi è raddoppiato[16]. Se analizziamo gli omicidi di donne, inoltre, notiamo che il delitto viene 
compiuto dal coniuge o dal convivente della vittima nel 40% dei casi, con una fascia di età a rischio 
tra i 25 i 44 anni[17]. E’ anche interessante osservare come si distribuisce l’incidenza degli omicidi 
domestici per area geografica[18]: il 33% (percentuale degli omicidi domestici sul tot degli omicidi) 
avviene nel nord Italia, in particolare in Lombardia,  Liguria e Toscana; il 17,5% al centro mentre il 
6,5% al sud. 

Ma quali sono i motivi per cui viene assassinato il coniuge? 

Si tratta prevalentemente di moventi di natura passionale, quale ad esempio la gelosia oppure di 
omicidi   incorsi in  seguito a  lite  violenta.[19]  Seguono i  casi in  cui l’omicida  presenta  disturbi 
psichici gravi che possono averlo indotto a commettere il delitto e i casi in cui il movente è più 
strettamente strumentale: l’assassino ha agito per motivi di interesse e di denaro. In alcuni casi sono 
le separazioni e i divorzi burrascosi a generare un esito drammatico quale l’uxoricidio, soprattutto 
se la coppia è coinvolta in un conflitto per l’affidamento dei figli. 

2 La violenza sui figli 

La violenza intrafamiliare che coinvolge come vittime i figli può manifestarsi sotto forma di: 

 maltrattamento fisico 
 violenza psicologica 
 abuso sessuale 
 patologia della somministrazione delle cure 

 2.1. Il maltrattamento fisico: 

Il maltrattamento fisico del bambino è stato riconosciuto sul piano clinico e sociale solo di recente. 
Risale alla seconda metà del 1800 lo studio medico­legale di Ambroise Tardieu sulle sevizie e i 
maltrattamenti infantili; mentre solo dopo il 1950 in ambito medico–pediatrico di area statunitense 
(in particolare Silverman, Caffey ed altri) altri viene accettata l’ipotesi che in certi casi le lesioni 
riscontrate nei bambini possano essere attribuiti alle percosse inflitte volontariamente dai  i genitori; 
fino ad arrivare al 1962 alla consacrazione finale tramite Henry Kempe e il suo articolo in cui viene 
formalmente descritta la “battered child syndrome”, cioè la sindrome del bambino maltrattato[20]. 

Che cosa si intende per bambino maltrattato? 
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Si   parla   di   abuso   fisico   o   di   maltrattamento   fisico   quando   i   genitori   o   le   persone   legalmente 


responsabili   del  bambino  eseguono  o permettono  che  si  eseguano  lesioni  fisiche  ,  o mettono   i 
bambini in condizioni di rischiare lesioni fisiche[21]. Ovviamente queste lesioni possono essere di 
natura e gravità diversa e in base alla necessità o meno di un ricovero in ospedale o in reparto di 
rianimazione, possono essere distinte in lievi, moderate, severe. 

Come si riconosce un caso di maltrattamento fisico? 

Il   bambino   maltrattato   può   presentare   sul   corpo     lesioni     di   vario   tipi:   cutanee,   scheletriche, 
craniche. Tra le lesioni cutanee vengono riscontrate ecchimosi, ematomi (alle labbra, agli occhi); 
tagli e ferite; cicatrici (spesso in diverse parti del corpo e in diverso stadio di cicatrizzazione); 
ustioni (difficile distinguere quelle intenzionali da quelle accidentali tranne nel caso di bruciatura di 
sigaretta); segni di morsi. Le lesioni scheletriche sono quelle più tipiche e consistono soprattutto in 
fratture delle braccia e delle gambe che difficilmente un bambino piccolo, non ancora capace di 
camminare, è in grado di procurarsi da solo. 

I traumi cranici consistono invece soprattutto in : 

ematomi subdurali, cioè emorragie cerebrali, spesso gravi che conducono alla morte del bambino 

fratture craniche che producono danni neurologici post­traumatici permanenti , ad esempio a scapito 
dello sviluppo del linguaggio o della motricità. 

I   traumi   cranici   vengono   prodotti   soprattutto   tramite   oggetti   contundenti   o   tramite   scuotimenti 
violenti   del   bambino   che   subisce   un   forte   contraccolpo   al   capo.   Il   primo   passo   è   quello   di 
distinguere   il   maltrattamento   da   una   condizione   patologica   o   da   una   condizione   accidentale. 
Nonostante la presenza di segni piuttosto evidenti,   produrre una diagnosi di maltrattamento può 
generare però incertezze e resistenze da parte dei medici, degli operatori sociali o da chiunque 
venga coinvolto in  simili casi. Questo spiegherebbe anche perché il numero di casi riconosciuti di 
maltrattamento risulta così esiguo rispetto al fenomeno sommerso. 

I motivi di tale difficoltà sono molteplici: 

 l’operatore che diagnostica l’abuso può temere di rimanere coinvolto in prima persona 
dalle conseguenze della propria denuncia: ad esempio può rischiare che venga inoltrata 
una azione legale nei suoi confronti proprio dai genitori denunciati.
 può   temere   di   mettere     a   repentaglio   il   rapporto   professionale   con   i   genitori   che 
ovviamente si mostreranno ostili nei suoi confronti. 
 può ritenere che non sia necessario un intervento in quanto non crede che possa portare 
giovamenti o  addirittura  ritiene possa risultare dannoso. 

E’ legittimo confermare un sospetto di maltrattamento quando , accanto ai segni fisici riscontarti, 
possiamo anche verificare che: 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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 le lesioni non sono molto recenti, quindi è intercorso un discreto lasso di tempo tra il 
momento in cui si è verificato il danno e la prima osservazione medica 
 il bambino  è  portato  all’osservazione  del  medico  per motivi  diversi  dalle  lesioni 
(febbre, otite, broncopolmonite, pianto inconsolabile) 
 frequenti visite ospedaliere precedenti 
 la reazione dei genitori è inappropriata rispetto la gravità delle lesioni ed inoltre non 
si mostrano collaborativi. 

I   genitori   maltrattanti   risultano   essere,   generalmente,   i   genitori   biologici,   soprattutto   la   madre; 


inoltre, si tratta prevalentemente di  famiglie caratterizzate da: 

Insoddisfazione coniugale. 

Disgregazione del nucleo familiare con assenza di uno dei coniugi.

Matrimonio successivo ad una gravidanza indesiderata. 

In alcuni casi il genitore abusante è sofferente di un disturbo o di un disagio (psicosi, depressione, 
tossicodipendenza,   alcolismo),   ma   non   è   una   condizione   indispensabile   al   verificarsi   del 
maltrattamento.   Più   comunemente   il   maltrattante   è   stato   a   sua   volta,   da   bambino,   vittima   di 
maltrattamento.[22] 

Il bambino maltrattato invece è generalmente molto giovane (in prevalenza tra i 0 e i 3 anni) e 
spesso soffre od ha sofferto al momento della nascita di varie patologie più o meno gravi e più o 
meno croniche. 

Perché avviene il maltrattamento? 

Analizzando le circostanze in cui si manifesta l’episodio violento si constata che il 90% degli abusi 
fisici avviene tra le mura domestiche, in orario serale e preservale e per motivi apparentemente 
banali quali ad esempio il pianto incessante e inconsolabile del bambino, l’ostinazione del bambino 
a non voler mangiare, una lite tra i genitori che sfocia nella violenza sul figlio, ecc.[23] Esistono 
alcune ipotesi interpretative[24] che tentano di spiegare quali sono i motivi che portano un genitore 
a infliggere violenze fisiche al proprio figlio. 

Ipotesi psichiatrica

Secondo questo approccio la causa principale del maltrattamento è da ricercare nelle caratteristiche 
di personalità o disturbi psicopatologici  dei genitori. La psicopatologia di questi adulti non sarebbe 
diagnosticata e curata in quanto non chiedono o non accettano la terapia. Il fattore   che genera 
violenza non è tanto la patologia in sé ma l’effetto  che essa produce nelle relazioni intrafamiliari 
sui bisogni di cura fisica e psicologico­affettiva dei figli. 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Ipotesi socio ­ ambientale 

Ricerca   le   cause   del   maltrattamento   nei   fattori   demografici,   culturali,   economici,   sociali   della 
famiglia. In particolare viene attribuita importanza al basso livello economico, alle condizioni di 
isolamento   e  mancanza  di un adeguato  supporto da parte  di membri  della  famiglia  estesa,   alle 
condizione abitative disagiate, all’elevato numero di figli. 

Ipotesi della violenza ciclica 

Secondo questa prospettiva il genitore abusante è stato a sua volta abusato. L’esperienza familiare 
violenta   crea   le   basi   per   un   atteggiamento   di   sfiducia,   diffidenza   negli   altri   che   inciderà 
sfavorevolmente sulle capacità  relazioni e l’apprendimento di modelli parentali violenti  porteranno 
ad attuare sui propri figli il medesimo comportamento violento subito. 

Ipotesi della vittima particolare 

Le caratteristiche peculiari del bambino designata come vittima suscitano nei genitori sentimenti di 
inadeguatezza e di rifiuto, frustrazione e rabbia che diventa violenza poiché   richiedono molto in 
termini di risorse personali ad adulti evidentemente immaturi, impreparati ad affrontare le difficoltà 
del ruolo genitoriale. Secondo H. Kempe il maltrattamento sul bambino avviene per la presenza di 
quattro fattori: 

a)I genitori devono avere dei precedenti di carenza affettiva o fisica e forse anche di abuso 

b)il bambino deve essere visto come non attraente o spiacevole 

c)ci deve essere una crisi 

d) non esiste nessuna effettiva “lifeline” o possibilità di fere ricorso a fonti di aiuto immediato al 
momento della crisi[25] 

2.2. La violenza psicologica 

E’ probabilmente la più diffusa, poiché presente, ad esempio  contemporaneamente anche alle altre 
forme di abuso; ma è al più difficile da individuare poiché meno visibile. Di solito è piuttosto 
precoce e viene inflitta i modo regolare  e sistematico sul figlio  che potrà esprimere il suo disagio 
attraverso sintomi quali: 

1. disturbi psicomotori, disturbi alimentari e del sonno; 
2. ritardi del linguaggio; 
3. difficoltà nei rapporti coi coetanei; 
4. difficoltà scolastiche. 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Oppure i segni del maltrattamento psicologico verranno alla luce durante l’adolescenza attraverso: 

1. psicosi 
2. anoressia  mentale 
3. tossicomanie 
4. tentati suicidi 

La   violenza   psicologica   consiste   in   “pratiche   o   atteggiamenti   che   compromettono   in   modo 


immediato o a lungo termine il comportamento, lo sviluppo affettivo, le capacità cognitive o le 
funzioni   psichiche   del   bambino”.[26]   Forme   di   maltrattamento   psicologico   sono   ad   esempio 
“atteggiamenti di rifiuto, svalutazione, minaccia, isolamento, corruzione, indifferenza e in generale 
tutti quegli atteggiamenti che negano e non soddisfano i bisogni affettivi evolutivi del bambino.
[27]” 

2.3  La patologia della somministrazione delle cure 

Questa categoria di abusi riguarda quei casi in cui “i genitori, o le persone legalmente responsabili 
del   bambino,   non   provvedono   adeguatamente   ai   suoi   bisogni,   fisici   e   psichici   ,   in   rapporto   al 
momento evolutivo e all’età”[28] Quando un genitore non è in grado di cogliere empaticamente e 
rispondere adeguatamente alle esigenze specifiche che il bambino presenta in un dato momento 
della sua crescita , potranno manifestarsi tre categorie cliniche: 

 Incuria quando le cure sono insufficienti;
 Discuria quando le cure vengono fornite ma in modo non adeguato e anacronistico; 
 Ipercura quando vengono somministrate cure eccessive o sproporzionate ai bisogni. 

Nell’ipercura vengono incluse: 

La   Sindrome   di   Munchausen   per   procura   in   cui   la   madre,   psicotica,   considera   il   figlio   come 
estensione   del   proprio   corpo   e   lo   sottopone   a   interminabili   cure   e   ricoveri   nella   convinzione 
delirante   che   sia   affetto   da   qualche   patologia   fisica.   Il   medical   shopping     che   consiste   in   una 
versione meno grave della sindrome precedente poiché il genitore in questo caso soffre di disturbi 
nevrotici, soprattutto ipocondriaci che vengono spostati sul corpo del figlio che viene condotto da 
un medico all’altro, da un ospedale all’altro per controllo medici e analisi senza fine. Il chemical 
abuse   che   consiste   nella   tendenza     del   genitore   a   somministrare   al   figlio   sostanze   chimiche, 
farmacologiche     e   di   altro   tipo   nella   convinzione   errata   e   delirante   che   ne   abbia   bisogno, 
provocando effetti molto nocivi alla sua salute. 

2.4.  La violenza sessuale 

La violenza sessuale all’interno della famiglia è più diffusa di quanto si creda. Secondo dati Censis 
per il ‘98 vi è 1 caso di abuso circa ogni anno ogni 400 bambini; per due terzi si tratta di abusi 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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sessuali che avvengono   tra le mura domestiche ad opera di famigliari o conoscenti; incide sulla 
possibilità di un rilevamento attendibile di tali reati,   la tendenza della vittima a nascondere la 
violenza.  Il particolare contesto in cui la violenza  si consuma, infatti,  condiziona fortemente le 
possibilità della vittima di ribellarsi o di denunciare l’aggressore:  l’omertà familiare, la vergogna, i 
sensi di colpa e più o meno impliciti ricatti affettivi,  favoriscono il segreto e, così,  l’accrescere del 
numero oscuro. Se la vittima di abuso sessuale è il coniuge o comunque un adulto, la legge punisce 
tali reati attraverso la legge n°66 del 1996,  art.609­bis (Violenza sessuale): 

“Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o 
subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.” 

Anche in assenza di violenza, viene considerata illecita, dal nostro codice penale, la congiunzione 
carnale tra consanguinei, considerando una aggravante la relazione incestuosa; infatti l’ art. 564 
(“Incesto”) recita: 

“Chiunque in modo che ne derivi pubblico scandalo, commette incesto con un discendente o un 
ascendente, o un affine in linea retta, ovvero con una sorella o un fratello, è punito con la reclusione 
da uno a cinque anni. La pena della reclusione da due a otto anni nel caso di relazione incestuosa. 
Nei   casi  preveduti  dalle  disposizioni  precedenti,  se l’incesto  è commesso  da persona maggiore 
d’età, con persona minore degli anni diciotto, la pena è aumentata per la persona maggiorenne. La 
condanna pronunciata contro il genitore comporta la perdita della potestà dei genitori.” E’ utile 
ricordare che il reato di incesto fa parte dei “Delitti contro la famiglia” (Titolo XI) e in particolare 
dei “Delitti contro la morale familiare”, cioè non si reprime il comportamento incestuoso di per sé, 
ma solo in quanto fonte di pubblico scandalo che si “determina quando la realazione incestuosa 
viene   conosciuta   da   un   numero   imprecisato   di   persone   a   causa   di   comportamenti   incauti   o 
addirittura   ostentati   oppure   per   la   manifestazione   di   segni   palesi   incontrovertibili   quali   la 
gravidanza  o  il parto”[29]. Oltre a questa condizione, deve esserci   volontarietà del rapporto  e 
consapevolezza del vincolo di consanguineità, in caso contrario si configurerebbe incesto innocente.
[30] Se l’abuso sessuale     coinvolge come vittime i minori, il reato presenta maggiore gravità in 
quanto la condizione di dipendenza fisica e psicologica del bambino nei confronti dei suoi genitori 
o dell’ascendente lo pone in una condizione di maggiore vulnerabilità di cui l’adulto può facilmente 
approfittare grazie al ruolo privilegiato che ricopre nei suoi confronti; infatti la violenza sessuale sui 
minori  viola non solo la libertà di determinazione dell’individuo, nelle sue scelte sessuali, ma viola 
anche la fiducia e le naturali aspettative di attenzione cura ed affetto che il bambino nutre nei 
genitori,   creando in lui una confusione di ruoli e di limiti  che potranno avere delle  importanti 
ripercussioni sul suo futuro sviluppo psicoaffettivo . Questo anche in assenza di uso esplicito di 
violenza o coercizione; in molti casi infatti l’abusante, proprio in virtù del suo ruolo di genitore o di 
adulto di riferimento per il bambino, riesce ad ottenere con facilità il consenso (o “pseudoassenso” 
sarebbe più corretto dire) da parte della sua vittima, tramite l’uso di lusinghe, promesse, ricatti o 
velate minacce. Malacrea e Vassalli riportano la descrizione di Sgroi, Blick e Porter[31]  delle varie 
fasi dello sviluppo dell’incesto in cui fanno precedere al momento dell’interazione sessuale vera e 
propria, la fase detta appunto dell’adescamento in cui “il genitore incestuoso ricerca attivamente le 
condizioni per mettere in atto la seduzione , costruisce un rapporto privilegiato con la vittima e crea 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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le   circostanze   che   gli   consentono   un   contatto   con   la   stessa,   al   riparo   dagli   altri   membri   della 
famiglia. [….]I mezzi di convincimento variano da un approccio ludico e subdolo, accompagnato da 
regali o altro, fino alla violenza fisica, alle minacce e alla coercizione” Anche per questi motivi la 
nostra legislazione prevede una serie di articoli, appositamente formulati per i   casi in cui venga 
coinvolto un minore, ad es la succitata L 66 del ’96 include: 

l’art.609­ter     (Circostanze   aggravanti   del   reato   di   violenza   sessuale)   che   prevede   la   pena   di 
reclusione dai sei ai dodici anni quando, tra gli altri casi, la violenza sessuale viene compiuta su 
a)minore di quattordici anni b)minore di sedici anni quando il colpevole sia l’ascendente, il genitore 
anche adottivo, il tutore; mentre la reclusione diventa da sette a quattordici anni se la vittima non ha 
compiuto dieci anni; 

L’art. 609­quater (Atti sessuali con minorenne) che punisce con una reclusione da cinque a dieci 
anni: 

“..chiunque   compia   atti   sessuali   con   persona   che,   al   momento   del   fatto   1)non   ha   compiuti 
quattordici anni 2)non ha compiuto sedici anni quando il colpevole sia l’ascendente, il genitore 
anche adottivo, il tutore ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione , di istruzione, 
di vigilanza o di custodia, il minore è affidato,  o che abbia con quest’ultimo,  una relazione  di 
convivenza…”. 

La pena è aumentata se il minore non ha compiuto dieci anni. 

Infine all’art. 690­quinques (Corruzione di minorenne) si prevede anche che: 

“Chiunque compie atti sessuali in presenza di persona minore di anni quattordici, al fine di farla 
assistere, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”. 

Infine la stessa legge introduce un’altra novità importantissima perché prevede con l’art. 609­decies 
(Comunicazione al tribunale per i minorenni) che il Procuratore della Repubblica nel caso in cui 
proceda per i reati descritti, ne debba dare notizia al Tribunale dei Minorenni in modo da attivare 
tempestivamente gli interventi di tutela del minore contemporaneamente e in accordo con quelli 
rivolti al perseguimento penale del colpevole. 

Infine è previsto (art.398, comma 5­bis) che , ove tra le persone interessate all’assunzione della 
prova vi siano minori di anni sedici, il giudice stabilisce il luogo, il tempo e le modalità particolari 
attraverso   cui   procedere   all’incidente   probatorio,   quando   le   esigenze   del   minore   lo   rendono 
necessario e opportuno.. A tal fine l’udienza può svolgersi anche in un luogo diverso dal tribunale, 
avvalendosi il giudice, ove esistano, di strutture specializzate di assistenza o, in mancanza, presso 
l’abitazione   dello   stesso   minore.Le   dichiarazioni   testimoniali   devono   essere   documentate 
integralmente   con   mezzi   di   riproduzione   fotografica   o   audiovisiva.   Quando   si   verifica   una 
indisponibilità di strumenti di riproduzione o di personale tecnico, si provede con le forme della 
perizia ovvero della consulenza tecnica. 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Riassumendo, le diverse condotte delittuose riconducibili all’abuso sessuale intrafamiliare punite 
dalla Legge italiana sono: 

Violenza sessuale 

 Incesto (congiunzione carnale/relazione tra consanguinei) 
 Esibizionismo (art.609 quinquies “corruzione di minorenne) 
 Sfruttamento della prostituzione minorile 
 Pornografia minorile 

Questi   ultimi   due   reati,   accanto   al   fenomeno   del   turismo   sessuale,   rappresentano   tre   forme   di 
sfruttamento sessuale dei minori che in realtà, avvengono in maggioranza all’esterno della famiglia; 
lo   sfruttamento   Lo   sfruttamento   a   fini   pornografici   del   bambino   si   correla   però   spesso   con 
condizioni di degrado culturale ed economiche sfavorevoli della famiglia, cosicché  ci può essere la 
complicità     dei genitori stessi in questo tipo di reato Ma, sia nel caso dello sfruttamento della 
prostituzione che in quello pornografico, difficilmente si tratta di casi singoli e d isolati; per la 
maggior parte essi sono espressione di un vero “mercato “ degli abusi, in cui sono soprattutto delle 
organizzazioni criminali, locali, di importazione o internazionali che regolano il traffico sessuale. 
Con   il   famoso   “Affaire   Dutroix”,   l’opinione   pubblica   europea   ha   acquisito   consapevolezza,   in 
maniera traumatica, di un fenomeno fino ad allora poco conosciuto: l’esistenza di vere e proprie reti 
criminali attraverso le quali il “consumo” dei bambini è promosso e organizzato. Si è poi realizzato 
che non si trattava soltanto di consumo “carnale” ma di un fenomeno se possibile più grave, di 
sequestro ed eliminazione fisica dei bambini,   e ancor più il coinvolgimento di nomi eccellenti, di 
complicità importanti che ha reso anche dubbia la reale efficacia punitiva di questi reati.[32] Anche 
il turismo sessuale da qualche anno è diventato un’attività “imprenditoriale” redditizia per alcune 
organizzazioni criminali che organizzano viaggi verso paesi sudamericani e asiatici per “turisti del 
sesso” che, una volta rientrati nel proprio luogo di residenza, potranno voler ripetere l’esperienza, 
slatentizzando   quindi   comportamenti   pedofili   e   instaurando   una   consuetudine   illecita   con   altri 
bambini. 

Quali sono i motivi dell’incesto? 

Non è possibile identificare un’unica causa alla base dell’incesto. Più verosimilmente possiamo 
ritenere che diversi fattori concorrano a sviluppare una dinamica incestuosa, fattori che possiamo 
distinguere in: fattori interni, ambientali, socio­culturali, familiari [33] I fattori interni sono quelli 
attribuibili essenzialmente alle caratteristiche dell’aggressore, soprattutto in termini di personalità, 
di psicopatologia o devianza. Una tipologia del padre incestuoso distingue in ( Barry, 1985): “Il 
tiranno”:   autoritario   e   dominatore,   controlla   i   figli   impedendo   loro   di   frequentare   il   “mondo 
esterno”, gelosissimo della figlia tanto da isolarsi e isolarla. Il razionalizzatore prova sensi di colpa 
par il proprio comportamento incestuoso, per cui cerca delle giustificazioni razionali che lo possano 
spiegare, come il fatto che esso esprime l’affetto che prova verso la figlia e l’intento di fornirle una 
educazione sentimentale/sessuale. L’introvertito è colui che cerca nella famiglia la soddisfazione 
per tutti i suoi bisogni. Il suo mondo è la propria casa nel quale si isola e che vive come un rifugio 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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rispetto le pressioni e le responsabilità che i rapporti interpersonali comportano. L’alcolizzato cerca 
conforto   nell’alcol   per   le   proprie   frustrazioni,   ha   una   personalità   dipendente   e   i   momenti   di 
intossicazione diventano un alibi per soddisfare i propri desideri sessuali con la figlia. 

Fattori ambientali 

Condizioni   di   trascuratezza,   isolamento   e   sovraffollamento   sono   elementi   che   incidono   sulla 


probabilità di incesto. Soprattutto  la coabitazione in un ambiente  stretto di tutti i membri  della 
famiglia, l’annullamento della “privacy” e della possibilità della riservatezza tra i membri che può 
essere forzata (come nei casi di stato di indigenza della famiglia stessa) ma anche scelta dai genitori 
come nel caso della cosiddetta “sindrome delle porte aperte” in cui tutti possono guardare gli spazi 
altrui ed è sostenuta spesso da una ideologia di “apertura” nei confronti la sessualità. 

Fattori socio­culturali 

E’ uno stereotipo poco verosimile quello per cui la famiglia incestuosa sia svantaggiata sul piano 
sociale ed economico. Molti padri incestuosi sono dei professionisti affermati, cittadini rispettabili e 
perfettamente integrate nella comunità. Una bassa condizione sociale e una bassa possono al limite 
incidere   sulla   probabilità   di   incorrere   nelle   maglie   del   controllo   istituzionale   e   di   offrire   una 
maggiore   visibilità   sociale.   Per   Merzagora[34]   è   l’elemento   culturale   ad   essere   maggiormente 
significativo, soprattutto l’appartenenza ad una sottocultura, dove la violenza è usata correntemente 
e quindi accettata e perseguita anche in ambito familiare. 

Fattori familiari 

Sarebbe   inutile   considerare   i   fattori   precedenti   se   si   escludessero   quelli   relativi   alle   dinamiche 
familiari; si tratterebbe di una famiglia “patologica”, o “disfunzionale” dove l’incesto è utilizzato al 
fine di gestire il conflitto, di mantenere l’unità familiare, soddisfare in maniera contorta i bisogni 
affettivi,   pratici   e  sessuali   dei   membri;   una   famiglia   “endogamica”   che   tende   scoraggiare   ogni 
rapporto con l’esterno nella convinzione che costituisca una minaccia o una fonte di frustrazione e 
che il gruppo famigliare soddisfi tutti i bisogni al suo interno. 

2.5  L’infanticidio e il  figlicidio 

La violenza sui figli a volte può raggiungere gradi estremi e trasformarsi in omicidio. Avremmo 
allora un figlicidio o, se il bambino è un neonato, un infanticidio. L’infanticidio e l’abbandono sono 
pratiche esistite da sempre e ancor oggi drammaticamente diffuse. Spesso sono state utilizzate come 
forma di controllo demografico delle nascite. Nella Grecia antica ad esempio i bambini deformi 
venivano gettati dalla Rupe ; oppure nella Roma imperiale esisteva un luogo (Columna Lactaria) 
dove si raccoglievano le balie per allattare i bambini che venivano abbandonati. Per quanto riguardo 
l’infanticidio esso rimane ancora oggi un modo per evitare una maternità indesiderata, basti pensare 
ai frequenti casi di neonati nel “cassonetto” della spazzatura. D’altra parte anche il mito abbonda di 
casi di neonati abbandonati e sacrificati; pensiamo alla strage degli innocenti ordinata da Erode, al 
mito di Romolo e Remo, o quello di Kronos che divora i suoi figli. Non a caso viene utilizzato 
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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proprio il riferimento ad un personaggio della mitologia greca per indicare un fenomeno particolare 
di figlicidio. Si indica con il nome di “complesso di Medea” una particolare situazione in cui la 
madre uccide i propri figli per nuocere al  coniuge, ricalcando le gesta del personaggio mitico che 
uccise appunto le sue due figliolette per vendicarsi del tradimento di Giasone. Si tratta di casi in cui 
si   riscontra   sempre   una   situazione   di   coppia   conflittuale;   a   volte   la   donna   è   vittima   dei 
maltrattamenti del marito, ma quasi sempre i loro dissapori riguardano i figli, quest’ultimo diventa 
l’oggetto della violenza della madre che non riesce a riversare sul marito; inoltre l’eliminazione del 
figlio   ha  l’obiettivo   di  produrre  sofferenza   al  coniuge  oppure  di  evitare   sofferenze   al  bambino 
affinché non ripercorra le stesse vicende esistenziali della madre[35]. E’ interessante notare come 
nell’omicidio in genere si può rilevare una prevalenza maschile nel sesso dell’autore dei delitti, nei 
casi   di   omicidio   di   familiari   non   legati   da   vincoli   sessuali,   come   i   figli,   la   donna   prevale   in 
frequenza numerica tra gli assassini. Emergerebbe cioè che tra le donne risultano elevati i reati 
relativi al figlicidio e all’infanticidio caratterizzati da un forte vincolo affettivo primario tra autore e 
vittima, mentre sono molto   scarsi quelli relativi al parricidio, al parenticidio e al matricidio[36]. 
Non solo.  In base all’applicazione dell’art. 88, in buona parte gli autori di questo tipo di reati 
(infanticidio e figlicidio) vengono giudicati infermi di mente e quindi incapaci di intendere e di 
volere.[37] Dal punto di vista giuridico l’infanticidio viene considerato con maggiore indulgenza 
rispetto ad altre forme di reato, anche rispetto al figlicidio. Vengono previste attenuanti nei casi in 
cui l’omicidio del bambino avvenga “immediatamente dopo il parto” ritenendo la fase puerperale 
una particolare condizione  della donna , fisica e psichica, transitoriamente alterata[38]. Alcuni studi 
descrivono   la   personalità   della   donna   infanticida   come   caratterizzata   da   depressione,   distacco 
affettivo,   tendenza  all’acting­out, alterazione  della realtà,  ecc.  ma riconoscono anche il peso  in 
questi   reati   di   particolari   condizionamenti   ambientali   che   può   subire   la   donna   in   determinate 
condizioni sociali, culturali ed economiche in cui viene a trovarsi. Soprattutto quando vivono in 
condizioni economicamente disagiate o devono affrontare da sole il parto e il puerperio, quando 
hanno   conflitti   con   il   partner   o   hanno   tenuto   celata   la   gravidanza   o   ancora   sono   state   colte 
inaspettatamente   dalle   doglie   e   partoriscono   senza   assistenza.   Molte   infanticide   infatti   tengono 
nascosta la gravidanza, per diversi motivi, la gestiscono   in maniera spesso inconsapevole, quasi 
negandola alla coscienza; poi partoriscono fuori casa, in solitudine e abbandonano il neonato che 
muore per i traumi, per il freddo o per mancata assistenza; il ricovero delle madri in ospedale per le 
conseguenze del parto consentono spesso la scoperta del reato. 

La violenza sui genitori 

4. 1.Il parenticidio[39] 

Il parenticidio consiste nell’omicidio di entrambi i genitori da parte di un figlio. Si differenzia in tal 
senso dal semplice parricidio o matricidio ma la nostra legislazione non prevede una fattispecie 
criminosa   specifica   come  invece   altri  paesi  europei   quale  ad  esempio  la  Francia,   e viene   fatto 
rientrare   nel   reato   di   omicidio   multiplo,   quindi   viene   considerata   una   circostanza   aggravante 
dell’omicidio. Negli ultimi venti anni i casi di parricidio sono aumentati sensibilmente; c’è stata una 
flessione nella seconda metà degli anni 80 ma poi il numero di parricidi è addirittura raddoppiato. 
Quest’andamento   non   ha   riguardato   omogeneamente   tutta   l’Italia:   nel   Nord   si   concentrano   la 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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maggior   parte   dei   casi   (soprattutto   Lombardia   ,   Liguria   e   Veneto),   seguono   poi   le   regioni 
meridionali e quelle centrali. IL parenticida è generalmente di sesso maschile e di giovane età (età 
media   di   29   anni).   Anche   in   questo   caso   varia   la   distribuzione   geografica   relativa   all’età 
dell’omicida: al Nord prevarrebbe il parricida al di sotto dei 25 anni mentre al Sud la maggior parte 
degli   omicidi   viene   commessa   da   adulti.   La   vita   affettiva   e   relazionale   del   parenticida   è 
generalmente scarsa, non ha una vita di coppia o una situazione familiare stabile. E’ interessante 
notare   che  si  tratta  di soggetti prevalentemente  disoccupati  o con un lavoro precario:  solo   una 
piccola percentuale (il 20% circa) infatti può godere di una certa autonomia economica, svolgendo 
una   regolare   professione.   Questo   dato   ci   introduce   al   problema   del   movente   e   mette   in   luce 
l’importanza dell’interesse economico tra le ragioni che muovono tale delitto. Pensiamo al famoso 
caso di Pietro Maso del 1991, e quanto proprio l’aspetto strumentale e materiale di tale omicidio 
abbia sconvolto l’opinione pubblica. Pensiamo anche alla situazione di dipendenza in cui  i giovani 
adulti si trovano attualmente dato che si sono socialmente allungati i tempi in cui è data loro la 
possibilità di rendersi autonomi dalla famiglia: frustrazioni e miti di benessere economico elevati 
possono aumentare in questa convivenza forzata, le possibilità di tensione e conflitto familiare, e 
l’eliminazione fisica dei genitori può rappresentare un “giusto” mezzo per ottenere ciò che si vuole 
ottenere senza troppi sacrifici. C’è da precisare, a tale proposito, che i parenticidi avvengono in 
famiglie appartenenti sia ad un livello economico medio­basso: padri pensionati, operai o impiegati 
con madre casalinga; sia ad un livello medio­alto, dove i genitori generalmente lavorano entrambi, 
specie con un lavoro autonomo di tipo imprenditoriale. Le motivazioni di un parricidio però non si 
esauriscono   nell’interesse   economico;   possono   esserci   infatti   motivi   di   litigiosità   familiare 
“cronica”, dove prevalgono i parenticidi compiuti da adolescenti e giovani al di sotto dei 25 anni ; e 
motivi   legati   alla   presenza   di   patologie   psichiatriche   gravi   presenti   nell’omicida.   Si   tratta 
principalmente di sindromi schizofreniche e più raramente di depressioni gravi; può trattarsi a volte 
anche di tossicodipendenza o alcolismo cronico. Questa categoria di moventi, quella in cui si può 
rinvenire   un   disturbo   patologico   nell’omicida,   è   quella   maggiormente   rappresentata   in   termini 
percentuali (30% circa). Però non si deve credere che l’omicidio avvenga in modo improvviso e 
incontrollato; la dinamica dei parenticidi spesso mette in luce una lunga e attenta preparazione, 
tentativi di occultamento dei cadaveri e l’utilizzo di armi ben poco casuali quali   rivoltelle e armi 
da punta e taglio e in minor misura corpi contundenti come martelli, bastoni ,e pietre. Le vittime 
solitamente sono solo i due genitori; capita però che l’omicidio venga esteso anche ad altri membri 
della   famiglia,   ad   esempio   i   fratelli   minori   (vedi   il   caso   Carretta),   anche   perché   spesso   il 
parenticida, quando non è figlio unico, e un primogenito. Questo dato vittimologico ci introduce ad 
un'altra forma di omicidio domestico che si differenzia sia dall’uxoricidio che dal parenticidio. Si 
tratta   di   quei   casi   in   cui   un   familiare   uccide   tutti   i   membri   della   propria   famiglia,   nucleare   o 
allargata in una unica occasione. Si potrebbe parlare “omicidio di massa familiare” che spesso si 
conclude con il suicidio dell’omicida. Questi, per la maggior parte, risulta essere di sesso maschile, 
ha un’età compresa tra i 29­54 anni e può soffrire spesso  di sindromi depressive anche gravi. Il suo 
gesto   può   avere   un   significato   rivendicativo,   oppure   rappresentare   un   tentativo   delirante   di 
preservare le sue vittime (quasi sempre moglie e figli) dalle sofferenze di una esistenza e di un 
mondo vissuti come minacciosi e senza vie di scampo. In Italia queste stragi familiari si verificano 
in prevalenza nel mezzogiorno, soprattutto nella provincia e si intensificano a partire dal 1995. 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­ 

[1]   Ferracuti F. (a cura di) “Trattato di criminologia, medicina e psichiatria forense” , Giuffrè, 
Milano,1988, vol VIII. 

[2] Ponti G., “Compendio di criminologia”, Cortina, Milano, 1990 

[3] Gulotta G., “Famiglia e violenza. Aspetti psicosociali”, Giuffrè, Milano, 1983 

[4] Ibidem 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
148

[5] Ibidem 

[6] Ibidem 

[7] Ferracuti F., (a cura di), 1988, op. cit., pag 112 

[8] Gulotta  G., 1983, op. cit 

[9] Gulotta G., 1983, Op. cit. 

[10] Gulotta G., 1983, Op. cit 

[11] Ibidem 

[12] Ferracuti F. (a cura di), 1988, op. cit, pag111 

[13] Gelles R. J., « Abused Wives », cit in Gulotta G., op. cit., pag 93­94 

[14] Minuchin S., “Quando la famiglia guarisce”, Rizzoli, Milano, 1993, pag 77 

[15] AA.VV. “Vivere per Uccidere. Anatomia del serial killer”, Calusca Edizioni, Padova,1997, 
pag 112 

[16] Da  “La Repubblica”, Luglio 1998 

[17] Ibidem 

[18] A. V. “Vivere per uccidere. Anatomia di un serial killer”, Calusca edizioni, Padova, 1997, pag 
118­119 

[19] Ibidem 

[20] Ammaniti M. et Al., “Il bambino maltrattato”, il Pensiero Scientifico, Roma, 1981 

[21] Montecchi F., “I maltrattamenti e gli abusi sui bambini”, FrancoAngeli, Milano, 1998, pag 23 

[22] Kempe H., Kempe R.S., “ Le violenze sul bambino”, Sovera Multimedia, Roma, 1980 

[23] Ibidem 

[24] Cesa – Bianchi M. (a cura di): “La violenza sui bambini”, Franco Angeli, Milano, 1993; 

[25] Kempe H, Kempe R.S., 1980, op. cit., pag 42 

[26] Cesa­Bianchi M., Scabini E. (a cura di) 1993, op. cit pag157 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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[27] Ibidem 

[28] Montecchi F., 1998, op. cit., pag 74 

[29] Montecchi F., 1998, op. cit., pag 207 

[30] Ibidem 

[31]   Malacrea   M.,  Vassalli   A.,  “Segreti   di  famiglia.   L’intervento   nei  casi   di  incesto”,  Cortina, 
Milano, 1990, pag33 

[32] Atti del Convegno “pedofilia e internet”, Roma 27 Ottobre 1998 

[33] F. Ferracuti, (a cura di) “Trattato di criminologia, medicina e psichiatria forense” , Giuffrè, 
Milano,1988. 

[34] Merzagora I., “L’incesto. Aggressori e vittime, diagnosi e terapia”, Giuffrè, Milano,1986 

[35]   De   Cataldo   NeuburgerL   (a   cura   di):   “La   criminalità   femminile   tra   stereotipi   culturali   e 
malintese realtà”, Cepam, Padova,1996 

[36] Ibidem, pag244 

[37] Capri P., Lanotte A. in De cataldo Neuberger L., 1996, Op. cit., pag143­150 

[38] Ibidem 

[39] I dati riportati in questo paragrafo sono state tratte da una ricerca riportata in Piacentini F. “Il 
parenticidio. Quando la famiglia produce morte”, in AA.VV “Vivere per uccidere”, Calusca Ed., 
Padova 1997, pag109­119 

LE DROGHE SINTETICHE 

Introduzione 

Le nuove droghe di sintesi rappresentano, in questo breve saggio, il terreno di incontro ­ in un’ottica 
tipicamente multidisciplinare ­ di competenze scientifiche diversificate, criminologiche, giuridiche, 
farmacologiche ed epidemiologiche. Questa area tematica, relativamente nuova poiché attinente a 
fenomenologie emerse nel mondo da poco più di un ventennio (e in Italia dalla seconda metà degli 
anni ’80), trova una grande attualità in tempi recenti, sia in termini di evidenza “da parte dei media” 
e   sia   in   termini   di   preoccupazione   da   parte   della   comunità   scientifica   internazionale   a   causa 
dell’andamento   esponenziale   del   trend   di   diffusione   e   del   modesto   timore   nei   confronti   della 
sostanza  che la maggior parte dei consumatori  sembra manifestare.  Tale  contesto sembra  poter 
autorizzare, per un futuro prossimo, previsioni abbastanza allarmistiche in termini quantitativi e 
impone una maggior attenzione nei confronti di strategie preventive mirate, attuate anche mediante 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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percorsi di ricerca scientifica nei confronti delle aree sociali ­ quelle giovanili ­ maggiormente a 
rischio. Molto probabilmente, il settore delle droghe di sintesi costituirà, nell’ambito del “pianeta 
droga” quello a maggior espansione nel terzo millennio. 

Aspetti criminologici 

1. Generalità. 

L’estasy (o MDMA) costituisce la sostanza più nota di una nuova classe di droghe sintetiche[1] 
definite "entactogene" o "empatiche" in quanto, tra i vari effetti, inducono una certa facilità ed 
empatia nei rapporti sociali riducendo le inibizioni culturali e provocando artificialmente una certa 
intimità e un'accresciuta capacità di comunicazione. Inventata nel 1913 nei laboratori tedeschi della 
Merk per ridurre l'appetito e la fatica fu successivamente sperimentata dall'esercito USA nel 1953 
come   stimolante   ma  fu  rapidamente  abbandonata   per  i "bizzarri"  effetti  collaterali   allucinogeni 
imprevedibili   e   talvolta   estremamente   pericolosi.   Il   suo   uso,   prevalentemente   ricreazionale,   nel 
nostro Paese si osserva a partire dalla seconda metà degli anni 80', soprattutto tra i frequentatori di 
discoteche e, tale diffusione, sembra essere in notevole incremento nonostante sia stata classificata 
come   sostanza   illegale   e   nonostante   la   conclamata   neurotossicità   della   molecola.   L'elevata 
pericolosità   socio­sanitaria   dell’ecstasy,   così   come   documentato   da   numerose   ricerche,   sembra 
essere legata proprio all'espansione rapida e difficilmente controllabile (se non attraverso indicatori 
secondari come ad esempio il numero degli incidenti di macchina in certi orari e in certi luoghi) del 
fenomeno in diversificate aree sociali con una certa prevalenza di consumatori di età molto giovane. 
Infatti,   secondo   qualificate   fonti   scientifiche,   le   alterazioni   psico­comportamentali   indotte 
dall'assunzione di sostanze psicotrope sintetiche possono determinare autolesioni di tipo accidentale 
di varia natura (incidenti stradali, infortuni sul lavoro ecc.) dovute principalmente al comportamento 
bizzarro ed alle anomalie percettive che tali molecole inducono[2]. 

2. Il consumo 

Il   problema   delle   cosiddette   droghe   chimiche   o   stimolanti   di   sintesi   si   sta   proponendo   come 
preoccupante   ed attuale  cosi come si può anche evincere  dal notevole interesse che viene  loro 
rivolto da molteplici organi di stampa nazionali ed esteri. Il consumo di ecstasy ed altre droghe 
sintetiche a base amfetaminica, in svariate aree del mondo, è infatti pressoché raddoppiato dal 1991 
ad oggi[3], pur non avvicinandosi, quantitativamente, ad altre sostanze psicotrope con diffusione 
maggiore  e  più strutturata (eroina, cocaina e derivati  della  marijuana).  Tale  incremento  sembra 
essere correlato, oltre che a naturali tendenze subculturali e di mercato illegale, anche al notevole 
calo del consumo di eroina ­ specie negli USA ­ dovuto alla levitazione del prezzo di vendita al 
minuto   e   al   timore   generalizzato   del   contagio   da   AIDS   che   sempre   più   è   ascritto   alle   droghe 
iniettabili.  Secondo il Ministero della Sanità[4], infatti, la percentuale di consumo di ecstasy in 
Italia sembra salire in modo vertiginoso a giudicare dai sequestri di sostanza e, in diversi ambiti 
scientifici, è stato più volte affermato che, in generale, l'aumento delle droghe di sintesi sul mercato 
internazionale,  è stato oggetto di una notevole sottovalutazione  che ha portato ad uno sviluppo 
incontrollato del fenomeno, combattuto poco e male dal punto di vista sia della repressione che 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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della ricerca. L'attuale fortuna delle droghe di sintesi sembra quindi essere correlata a numerosi 
fattori interagenti tra loro. In primo luogo hanno un costo contenuto rispetto alle altre sostanze più 
tradizionali   (una   pasticca   viene   venduta   per   poche   decine   di   migliaia   di   lire)   e   si   pongono   in 
competizione addirittura con sostanze psicoattive di tipo legale come ad esempio i superalcolici. In 
secondo luogo gli effetti dell’ecstasy sono molto evidenti, al contrario di quelli della marijuana, e 
possono quindi essere percepiti anche da consumatori occasionali ed inesperti. La maggior parte 
delle droghe sintetiche, infine, consentono una "trasgressione" ben limitata nel tempo con minori 
rischi sociali di individuazione avendo degli effetti temporalmente definiti, fatto salvo per alcuni 
effetti   di "flash back" (riattivazione  della sostanza  con allucinazioni  a distanza  di molto tempo 
dall'assunzione)[5]  e   riducendo,   di   conseguenza,   i   rischi   di   stigmatizzazione[6].   Alcuni   tra   i 
principali effetti descritti nell’ambito delle droghe sintetiche a base anfetaminica, come ad esempio 
la “sensazione di vicinanza agli altri, l’euforia, la fiducia in se stessi, l’aumento della percezione 
sensoriale e altro ancora, sembrano sposarsi con le pressanti richieste dell’attuale social system, in 
special  modo  per ciò che attiene  alle rappresentazioni  sociali  diffuse in termini  di adeguatezza 
comunicazionale   e   in   termini   di   continuo   aggiornamento   del   sé   alle   stimolazioni   culturali. 
L’efficienza psico fisica e l’abilità nelle relazioni interpersonali costituiscono due peculiarità che 
nell’immaginario collettivo corrente (occidentale e postindustriale) vengono ascritte all’uomo e alla 
donna   di   successo   e   connotate,   in   genere,   positivamente.   E   tale   contesto,   secondo   quanto 
documentato   dai   maggior   esperti   ed   osservatori   del   mutamento   sociale,   appare   in   una   fase   di 
ulteriore   definizione   ed esasperazione,   in  tutti   i comparti  della  vita   umana  organizzata  (lavoro, 
studio, cultura, svago ecc.). In termini meramente ipotetico­previsionali, quindi, essendo il successo 
dell'ecstasi ­ specie nel mondo notturno delle discoteche ­ riconducibile in primo luogo alla sua 
capacità di rispondere alle esigenze di molti giovani che vivono una certa difficoltà di rapporti 
sociali prodotta dal nostro tempo ed essendo tale difficoltà di "comunicazione diretta" uno degli 
elementi   maggiormente   ipotizzati   per   il   futuro   dagli   scienziati   sociali   internazionali,   si   può 
agevolmente  presupporre che la questione delle droghe di sintesi possa rappresentare  una  delle 
emergenze   socio­sanitarie   di   punta   nel   decennio   prossimo.   La   capacità   di   comunicazione   e 
l’efficienza, in base alle tendenze delle principali strutture e dinamiche sociali, sembrano infatti 
proporsi   per   il   prossimo   futuro   in   condizione   di   sempre   maggior   valorizzazione   e   con   esse, 
probabilmente,   anche   tutto   ciò   che   a   vario   titolo   sembra   facilitarle,   compresa   l’illusione   degli 
stimolanti  di  sintesi. Aspetto di notevole importanza,  in quest’ottica,  è costituito  dalla notevole 
differenza, in termini psicologici, che, a nostro avviso, è individuabile tra i consumatori di ecstasy e 
tra i consumatori di oppiacei e di derivati della cannabis. La differenza fondamentale è riferibile al 
diverso modo di porsi nei confronti del mondo, dell’altro generalizzato, del proprio sé. Chi assume 
anfetaminici di sintesi, infatti, cerca di, procurarsi una valida interfaccia con una realtà ritenuta 
probabilmente   irraggiungibile   con   le   proprie   forze,   ma   la   sua   trasgressione   è   reversibile   e 
temporizzata e, al termine dello sballo, c’è ancora il vecchio e caro mondo in cui si può rientrare 
senza troppi guai. Assumere ecstasy (detto anche nel gergo delle discoteche giuggiola, vanessa, 
bicicletta) fornisce, a basso costo, un’illusione di onnipotenza e contrasta i deficit di autostima assai 
diffusi   tra   le   fasce  giovanili   europee.   Tale   comportamento   sembra  andare  in  direzione   opposta 
rispetto al consumo di droghe “di fuga”, come gli oppiacei e, in misura minore, i derivati della 
cannabis, il cui consumo ­ vista anche la maggiore riconoscibilità sociale che inducono ­ in un certo 
senso implica una sorta di rinuncia alla competitività sociale e l’auto­confinazione in un recinto 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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subculturale   nella   cui   direzione,   la   maggior   parte   delle   anticipazioni   mentali   più   o   meno 
consapevoli degli effetti dell’azione, configurano scenari di stigmatizzazione e criminalizzazione e, 
in generale, di esclusione. Altro fattore di diversificazione importante è rappresentato dal fatto che 
l’approccio   agli   anfetaminici   di   sintesi   è   solitamente   collettivo,   al   contrario   degli   oppiacei 
iniettabili, il cui consumo è, viceversa, di solito individuale o al massimo di piccoli gruppi. Già 
negli anni ‘80 infatti, dall’inizio della sua diffusione in Europa, il carattere aggregativo dell’ecstasy 
appare evidente e la sua immagine si diffonde attraverso delle circostanze ricreative collettive. E’ il 
caso dei RAVE PARTY assai famosi in USA e successivamente importati in Gran Bretagna che si 
tenevano, e si tengono, in fabbriche abbandonate e in altri luoghi non elettivamente destinati alla 
socialità,   attraverso   uno   specifico   sistema   di   inviti   (volantini,   annunci   di   radio   private,   “passa 
parola”).   Nell’ambito  dei   RAVE  PARTY   si  definiscono   anche  dei  generi   musicali  in   grado   di 
fornire   spinte   sinergiche   alle   nuove   droghe   sintetiche,   come   la   HOUSE   MUSIC   e   la   TECNO 
MUSIC, che contengono ritmi di circa 200 battute per minuto e, con la loro “ossessiva” frequenza, 
orientano la percezione degli effetti di tali sostanze. Non si vuole affermare che una qualsivoglia 
produzione artistico­musicale sia in qualche modo studiata in direzione dell’assunzione di ecstasy 
ma   certi   ritmi   ossessivi,   espressione   artistica   della   moderna   società   informatizzata,   di   fatto 
assumono il carattere di uno sfondo “ad hoc” per il consumo di tali sostanze. Rispetto alle aree 
sociali tradizionalmente interessate al consumo di droghe, sufficientemente conosciute nel contesto 
scientifico e in quello istituzionale preposto alla prevenzione, per le droghe sintetiche sembra quindi 
delinearsi un nuovo pubblico di assuntori le cui caratteristiche, viceversa, sembrano sfuggire ai 
tentativi di classificazione e localizzazione statistica consueta ed alla consequenziale definizione 
dell'oggetto   delle   campagne   preventive   e   repressive.   Quelle   infatti   che   normalmente   vengono 
definite le "concause" che concorrono ­ insieme a quelle psicologiche e relazionali ­ a favorire 
l'accostamento   di   un   individuo   alla   droga   (emarginazione,   insoddisfazione,   noia,   inadeguatezza 
sociale ecc.) sembrano essere soppiantate da fattori più sfumati e talvolta occasionali costituendo un 
quadro che ha preso alla sprovvista le strutture preposte alla prevenzione e alla repressione del 
fenomeno. 

3. I fattori di rischio 

Secondo il parere di una cospicua parte della comunità scientifica internazionale, l'ecstasi non porta 
ad   un   uso   frequente   e   regolare   dato   che   il   desiderio   della   sostanza   (craving)   sembra   essere 
principalmente legato all'insorgere di effetti "positivi" (buon umore, intimità, energia ecc.) e tali 
effetti positivi o piacevoli diminuiscono con l'uso frequente o massivo di questa droga. Tale quadro 
potrebbe indurci consequenzialmente ad ipotizzare un incremento futuro del trend di consumo di 
tipo orizzontale, limitato nella quantità e frequenza da parte dei consumatori che per così dire si 
autolimitano per mantenere un piacevole rapporto con la sostanza ma implementato, per ciò che 
attiene all'area dei nuovi consumatori, dall'inserimento di individui che vengono in contatto con 
l’area   subculturale   degli   “abituali”   e   da   loro   apprendono   come   soddisfare   il   loro   bisogno   di 
trasgressione assumendo un rischio minore rispetto all’uso di altre droghe. In realtà, infatti, anche se 
i media sono stati, specie negli ultimi tempi, prodighi di notizie sulle reazioni negative dell'ecstasi, 
di fatto queste reazioni sono molto rare. Le manifestazioni estreme degli effetti collaterali (morte, 
psicosi tossica, cardiopatie), sono spesso scatenate dal precipitare di alcuni fattori come malattie 

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preesistenti   o   insorgono   per   l'assunzione   di   dosi   eccessivamente   elevate   o   combinate   con   altre 
droghe o sono correlate alle condizioni particolari di alcune discoteche (temperatura eccessiva)[7]. 
Particolarmente diffuso sembra infatti essere, tra i consumatori di droghe sintetiche, quello che è 
stato   definito   fenomeno   di   “autocura”,   l’abitudine,   ovvero,  di   assumere,   nel   corso   di   un  breve 
intervallo di tempo (di solito da quando la sera si giunge in discoteca fino alle prime luci dell’alba) 
una serie di sostanze psicotrope in modo da accentuare gli effetti gradevoli e per diminuire gli 
effetti   collaterali  sgraditi.  Si può  ad esempio assumere alcool  ed ecstasy per “sballare”  e  dopo 
qualche ora cocaina per limitare il senso di prostrazione che solitamente insorge dopo qualche ora 
dall’assunzione delle prime due droghe e altro ancora. Nella maggior parte dei casi, i maggiori 
rischi di patologie acute sembrano essere correlati proprio a queste assunzioni di più droghe in 
contemporanea   o   in   progressione,   definite   dagli   addetti   ai   lavori   come   “cocktails”.   Per   quanto 
riguarda viceversa le conseguenze a lungo termine (che rappresentano il fattore di rischio sanitario 
maggiore), soprattutto per ciò che attiene al deterioramento di organi ed apparati nel caso di un uso 
prolungato nel tempo di ecstasi, le valutazioni scientifiche sono assai più caute ma tendono a una 
generale preoccupazione anche in considerazione della scarsezza ­ vista la giovinezza del fenomeno 
­ di precisi e qualificati riscontri empirici[8]. Una parte della tossicità delle droghe di sintesi sembra 
inoltre   essere   correlata   anche   alla   spesso   approssimativa   competenza   di   chi   effettua 
clandestinamente le operazioni di laboratorio, sovente in condizioni igieniche precarie e con poca 
accortezza nell’identificazione ed eliminazione delle sostanze di scarto e di quelle necessarie al 
processo   di   raffinazione   (solventi,   reagenti   chimici   ecc.)   che   frequentemente   sono   presenti   nel 
prodotto finale fornendogli un’elevata pericolosità “aggiuntiva”. Tra gli elementi estranei altamente 
tossici, che sono stati segnalati specie dai laboratori statunitensi all’interno delle dosi di ecstasy, 
quello maggiormente significativo risulta essere il piombo che è responsabile di numerose e gravi 
patologie   a   sintomatologia   diversificata.   In   tale   ottica,   quindi,   il   fattore   di   rischio   principale 
dell’ecstasy (a breve e medio termine), più che per l’overdose o l’incremento di psicopatologie nelle 
fasce   giovanili,   sembra   configurarsi   soprattutto   in   termini   di   diffusione   quantitativa   di   stati 
temporizzati di alterazione percettiva e della coscienza in sempre più individui, localizzati nelle aree 
più giovani della popolazione con intuibili ripercussioni sull'aumento statistico di fatti accidentali 
traumatici. 

4. La dimensione criminale 

La configurazione del mercato illegale delle droghe di sintesi mostra uno scenario diversificato e 
complesso al cui interno orbitano sia le grandi organizzazioni criminali internazionali[9] ­ anche se 
in   misura   ancora  minore   rispetto  al  traffico  di  altre   droghe ­  e  sia gruppi  meno  importanti,   la 
maggior parte dei quali orientati al procacciamento di piccole partite per il consumo personale o per 
lo spaccio localizzato in aree di ridotte dimensioni. Sembra opportuno sottolineare, in tal senso, che, 
mentre per coltivare, trasportare e raffinare le droghe tradizionali di derivazione vegetale (eroina, 
cocaina, marijuana) sono necessari molti ettari di terreno e organizzazioni strutturate e composte da 
molte persone, per quanto riguarda le droghe sintetiche, viceversa, sono sufficienti poche nozioni di 
chimica, materie prime legali e facilmente reperibili e laboratori di ridotte dimensioni (basta una 
cucina di casa) rendendo il tutto notevolmente più sfuggente all'attività di investigazione. La facilità 
di   produzione   offre   quindi   larghi   spazi   anche   per   le   organizzazioni   minori   e,   finora,   ha 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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probabilmente determinato un interesse modesto da parte delle grandi compagini delinquenziali di 
matrice   mafiosa[10],   abituate   ad   agire   in   regime   di   monopolio   o   al   massimo   di   oligopolio,   e 
consequenzialmente   in   difficoltà   per   ciò   che   attiene   il   controllo   di   questo   mercato   illegale.   Il 
principale luogo di produzione e distribuzione è l'Olanda seguita dalla Germania e dalla Svizzera, 
ma una notevole fetta del mercato viene coperta anche da paesi dell'ex­URSS (Polonia, Estonia, 
Repubblica Ceca) le cui fabbriche chimiche stanno attraversando una fase di notevole difficoltà 
dovuta   al   processo   di   riconversione   all'economia   di   mercato   e   dove   alcune   di   esse   cercano 
probabilmente, in tal modo, di acquisire capitali, anche attraverso tale l'attività illegale. La grande 
diffusione di sostanze prodotte artigianalmente di pessima qualità ha indotto i grandi produttori 
(specie olandesi) ad apporre una specie di marchio di identificazione come garanzia del prodotto e a 
diffondere una sorta di catalogo clandestino che contiene indicazioni su centinaia di tipi di ecstasy 
disponibili sul mercato con marchi, forme e colori diversi in base al dosaggio e alle caratteristiche 
del prodotto, che consentono ai consumatori più esperti di programmare in anticipo i tipi di effetti 
desiderati. Alcuni laboratori, di modesta capacità operativa, sono stati scoperti negli ultimi anni 
anche in Italia (anche se la maggior parte dell'ecstasy è ancora di importazione) e si ha motivo di 
ritenere che alcuni consumatori abituali, vista anche la relativamente facile sintetizzazione delle 
sostanze,   producano   "in   casa"   piccoli   quantitativi   di   molecole   simili   all’ecstasy   per   consumo 
personale. Esemplificativo in tal senso appare il caso di alcuni studenti liceali, scoperti qualche 
anno fa in Emilia Romagna, mentre, in possesso di elementari nozioni di chimica e con semplici 
attrezzature sottratte al laboratorio di fisica della loro scuola, erano riusciti a creare delle anfetamine 
rudimentali ma efficaci distribuite poi ai loro compagni di classe. Particolarmente interessante, in 
termini   criminologici,   appare   il   sistema,   che   sembra   diffondersi   rapidamente   tra   i   produttori 
artigianali di droghe sintetiche, di realizzare una produzione dinamica, in continua evoluzione per 
quanto riguarda le caratteristiche molecolari delle sostanze. Tale sistema, osservato dai laboratori 
che analizzano, per conto dell’Autorità Giudiziaria, i quantitativi di droga oggetto di sequestro nel 
corso delle operazioni di polizia, consiste in una vera e propria tecnica elusiva nei confronti della 
legge   penale   in   vigore   in   tema   di   stupefacenti.   Il   meccanismo   giuridico   attraverso   il   quale   si 
determina l'azione legale in caso di reati concernenti le droghe è infatti costituito, de facto, dalla 
presenza o meno della sostanza in esame (sequestrata) sulla tabella posta in appendice alla vigente 
legge in materia di stupefacenti. La contestazione del reato avviene in tal senso quando si riscontra 
una pressoché identità molecolare tra la sostanza in esame[11] e quella riportata in tabella e quindi 
classificata   come  droga dalla  legge  italiana.  Nel  caso di identificazione  di nuove  droghe  viene 
avviato   un   procedimento   di   modifica   normativa   tendente   all'inserimento   in   tabella   della   nuova 
sostanza a cui vengono attribuite peculiarità ed effetti pericolosi e questo procedimento ha dei tempi 
tecnici rilevanti. Nella fase che intercorre tra la proposta di inserimento e l'effettiva annotazione, 
ogni sequestro di sostanze (analoghe a quella che ha determinato la proposta), presenta quindi ben 
poche   possibilità   di   essere   perseguito   in   termini   formali   se   non   per   tipologie   di   reato   diverse 
(produzione   e   somministrazione   abusiva   di   farmaci,   professione   abusiva   di   farmacista   ecc.)   e 
comunque di inferiore gravità. Le droghe sintetiche, in quest'ottica, offrono la possibilità, attraverso 
piccole modifiche del processo di sintesi che influiscono in maniera modesta sugli effetti ma che 
apportano variazioni decisive alla struttura molecolare, di impedire un'assimilazione formale con le 
droghe inserite in tabella e sembrano aver suggerito l'adozione di una vera e propria strategia di 
dinamica produttiva (in continua modificazione) alle organizzazioni criminali interessate al mercato 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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italiano   che   possono   attualmente   smerciare   grossi   quantitativi   di   sostanze   stupefacenti 


neutralizzando o limitando l'impatto dell'azione penale. 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE 

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­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­

[1]insieme all'MDMA sono presenti sul mercato clandestino l'MDEA e l'MDA e molti altri prodotti 
derivati. 

[2]queste alterazioni, che talvolta si manifestano a distanza di molto tempo dall'assunzione (flash 
back) consistono principalmente in attacchi di panico, paranoia, depressione, aggressività nonché in 
modifiche delle percezioni acustiche e visive (allucinazioni) e del senso di realtà; 

[3]secondo dati della DCSA dal 1994 al 1995 si rileva un incremento del 110,88% dei sequestri di 
MDMA; 

[4]  Ministero  della Sanità, Bollettino  per le farmacodipendenze e l’alcoolismo, 1, Anno XVIII, 


1995. 

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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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[5] F. J.CREIGHTON et. al., (Senior Registrar, Brindle House, Cheshire, U.K.), “Ecstasy psychosis 
and flashbacks”, in: The British Journal of Psychiatry, 159: 713­715, 1991. 

[6] H. S. BECKER, “Outsiders”, Ed. Gruppo Abele, Torino, 1987. 

[7] N. SOLOWIJ, W. HALL, N. LEE (National Drug and Alcohol Centre, University of New South 
Wales, Kensington, Australia), “Recreational MDMA use in Sidney: a profile of “ecstasy” users 
and their experience with the drug” in: British Journal of Addiction, 87:1161­1172, 1992. 

[8]  J.   A.   HENRY   et.al.,  (National  Poison  Unit,  Guy’s   Hospital,  London,   U.K.),  “Toxicity   and 
deaths from 3,4 methylenedioxymethamphetamine (ecstasy)”, in: The Lancet, 340: 384­387, 1992. 

[9]che hanno registrato notevoli perdite nel mercato dell'eroina da quando è iniziata la diffusione 
dell'ecstasy e sembra abbiano dovuto ribassare il prezzo degli oppiacei per rimanere competitivi; 

[10]  Il traffico dell'ecstasy prodotto in Olanda offre apparentemente dei margini inferiori rispetto 
alle droghe tradizionali. Una pasticca di media qualità si può infatti acquistare "all'ingrosso" in 
Olanda per circa 7000 lire e può essere venduta al dettaglio in Italia per circa 40­60 mila lire. Tale 
livello di guadagno è probabilmente responsabile del fatto che una vasta area di questo mercato 
clandestino   è   ancora   occupata   da   piccoli   gruppi   di   trafficanti   o   da   singoli   consumatori   che   si 
procurano direttamente le pasticche di ecstasy nelle nazioni produttrici senza intermediazioni. Si 
può facilmente presumere però che l'attenzione della grande criminalità organizzata non può non 
essere orientata  verso un così appetibile  affare  visto anche  il notevole  incremento  dei consumi 
avvenuto   negli   ultimi   anni.   Com'è   noto,   infatti,   le   grandi   compagini   criminali   di   tipo   mafioso 
tendono ad esercitare un controllo prevalente se non assoluto su specifiche attività illegali (droga, 
racket, estorsioni ecc.) in determinate aree territoriali e, comunque, ad indurre eventuali concorrenti 
minori a giungere ad una sorta di compromesso. Proprio in base all'attuale modesto margine di 
guadagno   che   deriva   dall'ecstasy   di   importazione   si   può   inoltre   ipotizzare   che   la   criminalità 
organizzata possa cercare di produrre autonomamente la droga sintetica in laboratori direttamente 
controllati oppure che possa rivolgersi a fornitori più competitivi (e con pregressi accordi criminali) 
quali, ad esempio, quelli dell'ex blocco sovietico. 

[11]che viene analizzata da un laboratorio abilitato di farmacologia; 

  

  

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