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Limpero parla indietro Per unantropologia della traduzione nella cultura antica

Il giorno in cui Lucio Elio Stilone Preconino, grammatico e filologo romano vissuto fra II e I secolo a. c., si produsse in unetimologia sbagliata della parola lepus, lepre, vennero anche irrevocabilmente segnati i destini della traduzione in vari paesi europei. Ennesima applicazione del principio, caro alla teoria del caos, secondo cui il battito dali di una farfalla in Brasile pu provocare un uragano nel Texas? Non saprei dire, ma la storia merita comunque di essere raccontata. Dunque era avvenuto che Marco Terenzio Varrone, il celebre erudito che di Stilone fu allievo, aveva criticato il maestro per aver sostenuto che lepus, la lepre, era chiamata in questo modo perch disponeva di un levis pes piede leggero. Al contrario, secondo Varrone la parola lepus sarebbe stata non un termine indigeno, come tale derivato da radici latine, ma un prestito dal greco. Vediamo per il modo in cui si esprime Aulo Gellio, lerudito del II d. c. che ci riferisce questa vicenda: nel libro XIV delle sue Antichit divine Marco Varrone ha mostrato che Elio Stilone ... sbaglia quando prende per una parola latina originale un antico vocabolo greco introdotto (traductum) nella lingua dei Romani. Dunque secondo Varrone lepus sarebbe stato un vocabolo introdotto a Roma dalla lingua greca, un prestito. Cosa ha che fare questa antica polemica fra allievo e maestro con i destini della traduzione? Molto, o almeno cos parrebbe. Si sospetta infatti che Leonardo Bruni, il celebre umanista fiorentino, avesse frainteso quel traductum di Gellio come se volesse dire non introdotto prestato, ma tradotto. Forse aveva confuso traductum con translatum, un termine effettivamente usato dai Romani per dire tradotto? Sia come sia, nel suo proprio latino egli cominci a

Questo testo nasce come introduzione a un volume dedicato allantropologia della traduzione nel mondo antico che apparir lanno prossimo presso leditore Einaudi. Dato che in esso vengono affrontati problemi alquanto generali, ho pensato che Alberto Cirese ne avrebbe gradito la lettura: e che io avrei potuto trarre grande vantaggio dalle osservazioni, di Cirese in primo luogo e di altri antropologi, che le mie riflessioni potranno suscitare.

usare traducere nel senso di tradurre, attribuendo cio a tale verbo un significato che, nella lingua di Roma, non aveva mai avuto. Il successo di questa nuova accezione di traducere, assieme a quello del sostantivo traductio nel senso di traduzione, fu straordinario1. Sarebbe dunque questa lorigine dellitaliano tradurre, del francese traduir, dello spagnolo traducir e del portoghese traduzir? Se cos fosse, il gioco della sorte vorrebbe che la parola usata per tradurre in alcune delle principali lingue occidentali fosse nata da un errore di traduzione. Forse per non c bisogno di arrivare a tanto. Possiamo semplicemente supporre che il Bruni avesse bisogno di un termine nuovo per comunicare le idee, altrettanto nuove, che lumanesimo gli suggeriva in materia di traduzione e per questo non si fosse fatto scrupolo di commettere un solecismo2. In
Aulo Gellio, Noctes Atticae, 1, 18, 1: In XIV. rerum divinarum libro M. Varro doctissimum tunc civitatis hominem L. Aelium errasse ostendit, quod vocabulum Graecum vetus traductum in linguam Romanam proinde atque si primitus Latine fictum esset, resolverit in voces Latinas ratione etymologica falsa. Il primo esempio di traducere per tradurre nel latino del Bruni, assieme al sostantivo traductio, sembra essere costituito dalla Lettera del 5 settembre 1400 a Niccol Niccoli sulla traduzione del Fedone (Leonardi Bruni Arretini Epistolarum libri VIII, Recensente Lamberto Mehus, Florentiae 1741, I, 18): Illi enim a Platone discedentes, syllabas, atque tropos secuti sunt; ego autem Platoni adhaereo, quem ego ipse michi effinxi, et quidem latine scientem, ut iudicare possit, testemque eum adhibeo traductioni suae, atque ita traduco, ut illi maxime placere intelligo. Primo igitur sententias omnes ita conservo, ut ne vel minimum quidem ab illis discedam. Deinde si verbum verbo, sine ulla inconcinnitate, aut absurditate reddi potest, libentissime omnium id ago. Sin autem non potest, non equidem usque adeo timidus sum, ut putem me in crimen laesae maiestatis incidere, si servata sententia paulisper verbis recedo, ut declinem absurditatem. Hoc enim ipse Plato praesens me facere iubet, qui cum elegantissimi oris apud Graecos sit, non vult certe apud Latinos ineptus videri. Lipotesi del fraintendimento di Gellio da parte del Bruni fu formulata da R. Sabbadini, 'Maccheroni' e tradurre (per la Crusca) in Rendiconti dell'Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, s. II , n. XLIX, 1916, pp. 221-224. Il nuovo senso di traducere (traductio) e del volgare tradurre si diffuse rapidamente con Guarinio Veronese, Ermolao Barbaro, Domenico da Prato e cos via: cfr. G. Folena, Volgarizzare e tradurre, Torino Einaudi 1991, 56 75. Per la datazione della lettera del Bruni si rinvia ancora a F. P. Luiso, Commento a una lettera di Leonardo Bruni e cronologia di alcune sue opere, in Raccolta di studi critici dedicata ad Alessandro DAncona, Firenze 1901, 85 95 (cfr. P. Viti, Opere letterarie e politiche di Leonardo Bruni, Torino Utet 1996, 11 n. 6 e 23 n. 52) 2 Linterpretazione del Sabbadini, op. cit., suggestiva ma non dimostrabile. N va dimenticato che Bruni fu autore di un importante trattato De interpretatione recta (1417c.: in Viti, op. cit., 147 193) e che le sue idee sulla traduzione furono tanto innovative quanto influenti. Cfr. G. Folena, op. cit., 66 69. Ricordiamo anzi che Cicerone, De oratore 3, 167, dava il nome di traductio al procedimento retorico della metonimia, collocandolo nello stesso territorio della translatio, metafora, e definendolo in questo modo: scelto un termine di paragone si trasferiscono (transferuntur) ... le parole che gli sono proprie ad un altro oggetto ... questa modalit non si basa sulla singola parola, ma sul discorso (oratione), ossia su una sequenza di parole. Forse Bruni pensava che il testo di arrivo costituisse una sorta di metonimia di quello di
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ogni caso di questo possiamo esser sicuri: quando immaginiamo la traduzione come un condurre al di l (trans e ducere) un certo enunciato linguistico, noi siamo debitori di questa immagine non ai nostri padri romani, che non hanno mai usato traducere nel senso di tradurre, ma a un cancelliere di Cosimo de Medici. Per converso, dobbiamo aspettarci che i Romani, quando traducevano un enunciato da una lingua allaltra, non si immaginavano di condurlo al di l ma, come vedremo, avevano in mente qualcosa di diverso. Il fatto che i popoli e le culture, quando vogliono definire latto di tradurre da una lingua allaltra, pensano ci in modi anche molto diversi fra loro: e soprattutto formulano questa nozione secondo paradigmi linguistici e culturali estremamente specifici, legati appunto alla cultura che li produce. Proprio per questo limitarsi a tradurre le parole per tradurre con un semplice tradurre il bisticcio inevitabile porta inevitabilmente non solo a falsare il senso di queste singole parole ma, peggio ancora, a mistificare il contesto culturale in cui esse sono state generate. Gli esempi sono numerosi e gli studi post-coloniali, nel loro impegno a de-occidentalizzare la traduzione, ne hanno gi messi in evidenza parecchi3. Nelle lingue indiane i termini che ruotano attorno al processo della traduzione sono vari: in particolare anuvad, rupantar, chaya, vivartana4. Ciascuno di essi per fa
partenza? Oppure laffinit fra traductio metonimia e translatio metafora e traduzione nello stesso tempo, lo aveva spinto allo shift semantico? 3 Cfr. in particolare le ricerche di M. Tymoczco, Reconceptualizing Western Translation Theory. Integrating Non-Western Thought about Translation, in T. Hermans (ed.), Translating Others, I, S. Jerome Publishing Manchester UK and Kinderhook USA, 2006, ...; Enlarging Translation, Empowering Translators, S. Jerome Publishing Manchester UK and Kinderhook USA, 2007, 68 77, che mettono in evidenza the primacy of Eurocentric and North American conceptualizations of translation both practically and theoretically (cos Tymoczco, Enlarging Translation, op. cit., 6) 4 H. Trivedi, In Our Time, On Our Own Terms, in T. Hermans (ed.), Translating Others, I, op. cit., 102 119; M. Tymoczco, Enlarging Translation, op. cit., 68 77; ulteriori indicazioni in S. Ramakrishna, Cultural Transmission through Translation: An Indian Perspective, in S. Simon e P. St-Pierre, Changing the terms: Translating in Postcolonial Era, University of Ottawa Press, 2000, 87 100; S. Mukherjee, The Empire Talks Back: Orality, Eteronimy and the Cutural Turn in Interpretation Studies, in Translation as Recovery, Delhi Pencraft International 1994, 80. Per quanto riguarda lattenzione alle parole usate per designare la traduzione, il saggio di Folena, op. cit., che risale a una prima bozza del 1973, risulta davvero lungimirante: in un arco che va dallantichit allumanesimo, le riflessioni dellautore sviluppano infatti una continua interconnessione fra pratiche traduttive e termini usati per tradurre (si veda in particolare lo specchietto terminologico finale, 76 77)

appello a paradigmi culturali differenti. Anuvad significa propriamente ripetizione, anzi, una ripetizione fastidiosamente accurata di una cosa detta nella medesima lingua. Si tratta dunque di una pratica che, almeno secondo le nostre categorie, con il tradurre ha ben poco a che fare. Il legame di questo termine con la produzione testuale si spiega per se si tiene conto del fatto che, nella tradizione indiana, i testi sacri sono stati conservati, almeno per i primi mille anni della loro vita, in forma orale: ossia attraverso la loro accurata ripetizione. Ci detto si pu anche pensare che anuvad significhi traduzione, ma a patto di tener conto del paradigma culturale - la ripetizione, loralit, la parola - attraverso cui questo atto immaginato. In particolare vale la pena sottolineare che, se in relazione al nostro tra-durre noi immaginiamo la traduzione come un trasferimento nello spazio, in relazione ad anuvada questa pratica viene pensata come una ripetizione nel tempo. Un discorso analogo vale anche per gli altri termini indiani che abbiamo ricordato, a cominciare da rupantar. Dato che rup significa forma, rupantar indica un cambiamento di forma. Salvo per che rup significa anche bellezza, per cui la traduzione come rupantar implica un cambiamento di forma che, nello stesso tempo, produce bellezza ovvero mantiene la bellezza delloriginale. Il termine chaya invece significa propriamente ombra. Che cosa pu avere a che fare lombra con la traduzione? Per comprenderlo occorre nuovamente fare appello alle forme culturali cui questa parola legata, a cominciare dalle lingue parlate in India, il Sanscrito da un lato, i Pracriti dallaltro. Sanscrito e Pracriti infatti non erano sentiti come lingue differenti, ma come gradi diversi di una medesima lingua: se i maschi di condizione elevata parlavano Sanscrito, le donne e i maschi di condizione umile parlavano Pracrito, pur intendendosi fra loro. Vi erano anzi casi in cui le donne, se veniva loro richiesto, potevano parlare anchesse Sanscrito. Dato che queste forme linguistiche erano sentite come assai vicine, ancor oggi agli studenti di Sanscrito pu essere richiesta come prova, non particolarmente impegnativa, la traduzione in Sanscrito di un dialogo originariamente formulato in Pracrito. Questa traduzione viene appunto chiamata chaya ombra, come se una delle due lingue costituisse lombra

dellaltra. E possibile per che questa metafora alluda contemporaneamente al fatto che la traduzione, in qualche modo, segue passo passo loriginale, come fa lombra ma anche che essa pu mutare forma e dimensione a seconda del tipo di luce che la proietta incontrando loriginale5. Quanto a vivartana, questo modo di indicare la traduzione appare forse quello pi fortemente legato a specifici paradigmi culturali. La radice vivarta indica infatti un cambiamento di forma, anche nel senso, legato alla filosofia Vedanta, di unapparenza irreale, causata da un abbaglio delluomo: cos un serpente pu costituire un vivarta apparenza illusoria di una fune; cos il mondo costituisce un vivarta apparenza illusoria del Brahma. Un pezzo di fune che simula un serpente, insomma, equivale a una traduzione che simula il proprio originale: il metaforico viaggio dalla filosofia Vedanta alla traduzione letteraria quello che il termine vivartana sembra compiere .. da un universo culturale privo di traduzione a un mondo che contiene molti linguaggi differenti6. Considerazioni di questo tipo hanno ovviamente messo in seria discussione la possibilit che la traduzione, cos com intesa nella cultura occidentale, fosse nota in India prima della colonizzazione inglese. In ogni caso alla percezione di questa pratica sembra essere stata estranea la preoccupazione (tipicamente occidentale) per la fedelt alloriginale, che in India si manifestata solo con il cristianesimo: per converso, nella rappresentazione locale del tradurre confluiscono configurazioni culturali estranee alloccidente, come la concezione metafisica della rinascita continua - un concetto che gioca contro limportanza delloriginalit7.

G. Gobinathan, Ancient Indian Theories of Translation, in M. G. Rose, ed., Beyond the Western Tradition, Binghamton, Center for Research in Translation, 2000, 165 173 6 Trivedi, op. cit. 7 Tymoczcko, Enlarging Translation, op. cit., 69 70. Viene alla mente luso di transmutare e transmutazione in Dante che sia pur derivato dal mutare tradurre usato da Seneca e Quintiliano inserisce per la traduzione in una pi ampia prospettiva teologica (Folena op. cit. 35 36). La preoccupazione per la fedelt alloriginale sembra essere stata estranea anche alla concezione cinese della traduzione: si vedano le osservazioni comparative di A. Lefevere, Chinese and Western Thinking on Translation, in S. Bassnett e A. Lefevere (eds.), Constructing Cultures: Essays on Literary Translation, Philadelphia Clevedon , 1998, 14 sgg.
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Anche altre aree culturali offrono interessanti spunti di riflessione in questo senso. La parola araba corrente per traduzione tarjama, che per significa anche biografia e definizione. E possibile che la connessione col genere biografico sia dovuta al fatto che i primi traduttori siriaci della Bibbia, tra il III e il V secolo, traducevano anche vite dei santi; oppure che questa connessione sia motivata dal fatto che al traduttore viene attribuita una forte agency personale, che visto cio come un narratore, a tutti gli effetti, di ci che sta traducendo. Questa visione del tradurre come connesso al raccontare storie trova corrispondenza anche in altre culture. In Igbo, lingua parlata in Nigeria, le parole usate per traduzione sono tapia a kowa. Molto significativamente entrambe sono composte da un elemento che significa narrare e da un altro che significa rompere, decomporre. Nella percezione locale la traduzione consiste dunque in una pratica che decompone e ri-racconta una determinata serie di enunciati come accade nella locale versione della storia di Adamo ed Eva, in cui alla fine Adamo diventa un grande agricoltore8. Quanto al rapporto dellarabo tarjama con la definizione, invece possibile che esso sia motivato dal forte impegno dei primi traduttori siriaci nei confronti dei testi scientifici e matematici dei Greci. Essi si adoperarono infatti ad arricchire e chiarire i testi tradotti utilizzando la loro propria competenza da essi ci si aspettava che avessero almeno lo stesso livello di conoscenza posseduto dagli autori tradotti tanto che il testo tradotto risultava meglio articolato e meglio definito delloriginale9 Altrettanto interessante si presenta infine il termine pi comunemente usato in Cina per indicare la traduzione, fanyi. Questa parola evoca infatti diversi paradigmi culturali, dal voltare la pagina di un libro, alla interpretazione, allo scambio. In particolare il termine fanyi si richiama alla pratica del ricamo: secondo questa concezione il testo di partenza visto come il dritto del ricamo, mentre il testo di arrivo visto come il suo rovescio. Il che presuppone che la traduzione sia comunque

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Tymoczko, Enlarging Translation, op. cit., 71 Tymoczcko, Enlarging Translation, op. cit., 70 - 71

immaginata come differente rispetto al proprio originale, che faccia tuttuno con esso ma, nello stesso tempo, ne costituisca una faccia meno perfetta e cos via10. Le considerazioni che abbiamo svolto fin qui conducono inevitabilmente a formularne una di carattere pi generale, relativa non solo alla traduzione, ma a qualsiasi altra pratica: se si cerca veramente di comprendere una cultura, occorre prendere le mosse dalle categorie locali, quelle interne alla societ studiata, senza sovrapporre le nostre categorie a realt che non le condividono. Questo non significa che, per interpretare una cultura, si debba restarne contemporaneamente prigionieri: chiaro che le forme di pensiero proprie dellosservatore giocano comunque un ruolo in questo processo. Occorre per che categorie generali da un lato e categorie locali dallaltro trovino un giusto punto di articolazione, ossia che il livello etico, quello generale, si integri con il livello emico, quello locale, senza cancellarlo11. Ora, uno dei veicoli attraverso cui il livello emico cio locale, specifico e individuale - di una certa cultura si rende pi immediatamente visibile, costituito proprio dalle metafore culturali: quei costrutti linguistici attraverso cui determinate pratiche sociali sono espresse o descritte, come appunto abbiamo visto accadere con anuvada / ripetizione fastidiosamente accurata o vivartana / apparenza illusoria di qualcosaltro. Le metafore culturali, infatti, non costituiscono semplici accidenti linguistici o figure retoriche pi o meno eleganti. Tutto al contrario queste forme funzionano come idealized cognitive models, strumenti capaci di organizzare

Alla memoria letteraria delloccidente questa connessione fra la pratica del tradurre e quella del ricamo richiama immediatamente una celebre affermazione del Chisciotte riguardo al tradurre da lingue facili (nella fattispecie dallitaliano allo spagnolo): Mi pare che il tradurre da una lingua a unaltra (a meno che non si tratti della greca e della latina, regine di tutte le lingue), sia come guardare le tappezzerie fiamminghe da rovescio. Le figure si vedono sempre bene, ma attraverso tanti fili che le confondono, e non appaiono cos nitide e a vivi colori come da diritto (M. De Cervantes, Don Chisciotte, II parte, LXII, tr. it. di F. Carlesi, Roma Cremonese 1956, II, 461); sulla traduzione orizzontale da lingue simili cfr. Folena, 12 13 11 Si tratta di paradigmi consueti allantropologia, ma spesso ancora estranei agli studi storici e culturali. Per il mondo classico, e Roma in particolare, rinvio a M. Bettini, Comparare i Romani. Unantropologia del mondo antico, Studi Italiani di filologia classica, Supplemento al fasc. 1/2009, La stella sta compiendo il suo giro, Atti del Convegno Internazionale di Siracusa 21-23 maggio 2007, 1 47
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lesperienza sociale e di condizionare lagire degli uomini, alla maniera di veri e propri modelli culturali12. Se dunque un Cinese concettualizza la traduzione come rovescio di un ricamo o un Arabo come definizione, ignorare o cancellare queste differenze rispetto ai nostri modi di immaginare la traduzione significa non solo commettere ingiustizia verso queste culture, ma anche perdere unottima occasione per capire di pi e meglio ci di cui si sta parlando. Riflettere sulle diverse rappresentazioni culturali che la traduzione riceve nelle varie culture, infatti, permette di allargare enormemente lo spettro dei modi in cui questa pratica pu essere concepita o articolata. E siamo pronti a scommettere che, nellinvenzione culturale spontanea, c altrettanta fantasia e originalit di quanta se ne trova nelle innumerevoli teorie della traduzione che circolano oggi giorno. A questo punto, per, dobbiamo tornare allantichit classica.

The Empire talks back, limpero parla indietro: cos si intitola uno fra i molti studi che si sono occupati dei problemi non solo culturali, ma anche politici, provocati dai rapporti di traduzione fra Occidente e territori delle ex colonie13. Questo titolo ha evidentemente un sub-testo, tanto elegante quanto drammatico, nella frase the Empire strikes back, limpero restituisce il colpo: come se loccidente, dopo aver perso il dominio politico sulle terre una volta occupate, restituisse il colpo attraverso la parola. Adesso le armi a cui si fa ricorso non sono pi fucili e cannoni ma linguaggi, ugualmente imperialistici per, e come tali capaci di egemonizzare le culture dei paesi un d posseduti. Ed ecco la domanda che ci riguarda. Lantichit classica, Terenzio Cicerone Orazio e Gerolamo in primo luogo, sarebbero da annoverare fra i fondatori di questo impero concettuale e occidentale relativo alla traduzione? I classici avrebbero dato per cos dire il primo contributo alla creazione di un modo di pensare la traduzione che si perpetuato dentro, ma anche fuori, lOccidente? Certamente s, e lo si anche
G. Lakoff and M. Johnson, Metaphors We Live By, University of Chicago Press 1980; Philosophy in the Flesh: The Embodied Mind and Its Challenge to Western Thought, New York Basic Books1999; Z. Kvecses, Language, Mind and Culture, Oxford University Press 2006 13 Mukherjee, op. cit.
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affermato esplicitamente14: ma nello stesso tempo no. Abbastanza paradossalmente, infatti, quando limpero - la cultura occidentale - parla di traduzione, mostra una notevole inclinazione a parlare indietro anche il mondo classico. In altre parole siamo convinti che la traduzione dei Greci e dei Romani, o meglio i paradigmi culturali in base a cui essa veniva concepita, siano stati tranquillamente colonizzati dai moderni: i quali hanno pensato, pi o meno in buona fede, che la traduzione non possa che essere ci che noi immaginiamo che essa sia a maggior ragione quando si parla dei Greci e dei Romani, i nostri antenati culturali, il nostro modello (almeno in alcuni periodi della nostra storia), e comunque una parte inseparabile di noi. In questo modo la riflessione moderna sulla traduzione ha spesso cancellato le differenze che intercorrono fra antichit e modernit occidentale: invece di mettere in rilievo le differenze che intercorrono fra noi e loro, ha proceduto a una sorta di assimilazione forzata dei paradigmi antichi sotto il segno di quelli moderni. In questo modo non solo ci si spesso avviluppati in una serie di problemi e contraddizioni ma, peggio ancora, si perduto unottima occasione per vedere la traduzione antica con occhi diversi. Eppure non erano gli stessi Romani, i nostri padri, ad affermare che varietas delectat?15 Un motto che vale non solo nel mondo della poesia e della letteratura, ma anche e soprattutto in quello delle culture. Nei capitoli che seguiranno, dunque, cercheremo di mettere in evidenza le forme specifiche in base alle quali i Romani, e in parte anche i Greci, hanno immaginato e concettualizzato latto della traduzione. Prenderemo le mosse da un traduttore al lavoro Milfione, schiavo plautino alle prese con un vecchio signore che parla Punico. Unoccasione assai favorevole per vedere da dentro in che modo a Roma si poteva guardare a una lingua profondamente altra, come quella parlata dai Cartaginesi, e anche a coloro che la parlavano. Di seguito passeremo al mondo degli interpretes in generale, per scoprire per che la loro sfera culturale di riferimento era costituita pi dagli affari
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Tymozcko, Reconceptualizing Western Translation Theory, op. cit. Fedro, Fabulae, 2, Prologus 10; cfr. Cicerone, De natura deorum, 1, 9, 22 (varietate ... delectari putamus)

(non sempre limpidi) e dalla politica che non dalla traduzione linguistica. Ragion per cui a Roma la pratica della traduzione viene concettualizzata attraverso metafore culturali che rimandano alla sfera dello scambio, della moneta e delleconomia in genere. Le nostre riflessioni proseguiranno poi attraverso la pratica che i Romani definivano vertere, ossia un tipo di traduzione il cui paradigma culturale non aveva nulla a che fare con il mondo delleconomia e dello scambio ma, piuttosto, con quello della mutazione radicale e della metamorfosi. Tradurre nel senso di vertere presuppone che lenunciato e, spesso, anche colui che lo pronunzia, mutino la propria identit: allo stesso modo di Iuppiter che, nellAmphitruo di Plauto, si muta nellaspetto (vertit sese) di Anfitrione. Lungo la via ci soffermeremo sulla nascita di alcuni parametri della traduzione apparentemente eterni come quella della fedelt, del rapporto letterale con il testo di partenza, dellandare parola per parola e cos via che eterni per non sono: per il semplice fatto che i Romani o non li conoscevano, o comunque quando usavano certe espressioni avevano in mente paradigmi culturali diversi da quelli che vengono loro attribuiti. A questo punto ci sposteremo in Grecia, per occuparci pi da vicino del locale traduttore, detto hermenus, e della locale traduzione, detta hermenia: i cui paradigmi culturali collocano per entrambi in un territorio pi vicino a quello della riarticolazione di un messaggio in generale, della sua comunicazione, che non a quello della nostra traduzione, lungo una prospettiva che conduce a Herms, dio della parola, della comunicazione e dello scambio. Ma che dire, allora, di quei casi in cui una transazione commerciale, o uno scambio rituale, fra popoli stranieri e parlanti lingue diverse, avviene in assenza assoluta di traduttori, siano essi interpretes o hermenis? Anzi in assenza totale di parola? Eppure questi casi esistono, e si intrecciano fra loro per formare un mito dalla durata estremamente lunga (da Erodoto ai viaggiatori del cinquecento) e dalla distribuzione spaziale altrettanto ampia: dalla Libia allo Sri-Lanka, lantica Taprobane, dallArabia degli aromi al buio dellestremo nord e delle pellicce. E questa la pratica del commercio muto, un tipo di scambio fra partner silenziosi e assenti che sembra trovare il suo corrispettivo rituale nellofferta che il mitico popolo

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degli Iperborei ogni anno faceva avventurosamente giungere fino al santuario di Delo. Siamo di fronte al rovescio della traduzione, unassenza che permette di osservare ancora pi in profondit la natura di questa pratica. A questo punto torneremo nuovamente nei territori della parola tradotta, per concludere la nostra ricerca affrontando un altro mito, assai significativo questa volta per le fortune della traduzione nel seguito della nostra cultura: la versione greca della Bibbia che sarebbe stata compiuta ad Alessandria sotto il regno di Tolomeo Filadelfo, nel II secolo a. c. Attorno a questo testo, comunemente noto come la traduzione dei Settanta, vi fu una ricca fioritura di racconti mitologici, i quali si proponevano di affermare che, in quella occasione, era stata prodotta una traduzione assolutamente perfetta. Si narrava infatti che uno spirito divino avesse guidato i traduttori nelle loro scelte, facendo s che ciascuno di essi settanta o settantadue che fossero avesse tradotto il libro divino con le stesse identiche parole, senza che fra le diverse versioni prodotte vi fosse la bench minima differenza. Il fatto che quando si traduce la parola di Dio, ovvero un libro di cui Dio stesso lautore in prima persona, non ci si possono permettere libert, non ci si pu permettere di sbagliare o di fraintendere, non ci si pu permettere praticamente nulla. La grande frattura fra la cultura del mondo classico e quella successiva, ispirata dalebraismo, sta proprio qui. In Grecia e a Roma gli dei non avevano mai parlato per iscritto. La parola sulla divinit non apparteneva alla divinit stessa, ma agli uomini che li avevano fatti conoscere, come afferma Erodoto, o alle institutiones che avevano creato le cose divine, come afferma Varrone. Di conseguenza tradurre il discorso sulla divinit non poteva costituire alcun problema. Ma che accade allorch si ritiene che la parola da tradurre sia stata formulata direttamente da Dio? Se si pensa di aver di fronte un testo in cui, come dir Gerolamo, perfino lordine delle parole mysterium? Ecco affacciarsi immediatamente lo scrupolo per la fedelt e per lesattezza, lassillo della traduzione letterale o a senso, il timore del proprio fraintendimento o dellaltrui tradimento. Per questo Filone, Ireneo, Clemente, Agostino e tanti altri con loro, ritennero necessario

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sostenere che ad Alessandria Dio stesso si era autotradotto: e per dimostrarlo fecero ricorso agli strumenti del miracolo (lidentit assoluta fra tutte le versioni), affinch i lettori del libro tradotto ricevessero prova tangibile del fatto che, quella che avevano sotto gli occhi, era autenticamente la parola di Dio. Gerolamo non la penser cos, e considerer direttamente menzogna il racconto dei settanta di Alessandria. Ma il problema tradurre un testo composto direttamente da Dio - rimaneva: con quali strumenti intellettuali si sarebbe potuto sostituire il miracolo? E in questo vortice di domande e di risposte, di problemi e di soluzioni che nasce la configurazione culturale moderna della traduzione: con i propri scrupoli, le proprie metafore culturali, insomma tutto ci che ha parlato indietro anche le concezioni pi antiche di questa pratica. Maurizio Bettini

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