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E
E OPERAZIO
I COMBI
ATE
di Virgilio Ilari
Dalla guerra di Troia alle Crociate fino alla guerra del Golfo la maggior parte dei conflitti
armati internazionali è stata caratterizzata dall’intervento di coalizioni di Stati contro un
determinato avversario e talora dallo scontro fra coalizioni contrapposte. Senza contare i conflitti,
soprattutto guerre civili, in cui, pur senza intervento diretto né comandi integrati, le missioni
militari straniere hanno comunque assunto di fatto la direzione strategica e operativa delle forze
assistite, come fecero, in questo secolo, i consiglieri sovietici in Spagna e nell’Ogaden e quelli
statunitensi in Laos, Cambogia e Centroamerica.
Malgrado ciò, “guerra di coalizione” e “operazioni combinate” condotte da “forze
multinazionali” sono argomenti alquanto trascurati dalla letteratura militare. Il lettore che non
abbia familiarità con questa particolare letteratura, può facilmente constatarlo consultando le
relative voci dell’International Military and Defense Encyclopaedia (curata dal colonnello
Trevor N. Dupuy e pubblicata dalla Brassey’s US nel 1993), redatte entrambe dal tenente
colonnello Albert D. McJoint (“Coalition Warfare” e “Combined Operations”, II, pp. 533-7 e
579-89). Entrambe hanno infatti un carattere quasi pionieristico, confermato dalla obbligata
genericità dei rinvii bibliografici. Altri autori assumono il problema dei comandi multinazionali
nel contesto tecnico della “guerra di teatro” (cfr. Thomas Gardner, Command Structure for
Theater Warfare, Government Printing Office, Washington, 1984).
Naturalmente gli studi analitici e propositivi riguardano essenzialmente l’esperienza della
NATO e delle forze di pace dell’ONU, mentre la storiografia ha svolto una funzione ancillare
occupandosi principalmente delle esperienze che hanno preceduto e direttamente influenzato
l’organizzazione nordatlantica, cioè la cooperazione e l’integrazione militare anglo-americana
durante le due guerre mondiali. Non mancano però contributi più recenti su altre vicende
storiche, ad esempio la cooperazione e l’integrazione fra le Potenze dell’Asse. Anzi l’analisi del
nuovo assetto militare italo-tedesco stabilito nel 1941 a seguito dell’intervento tedesco nei
Balcani e nel Mediterraneo è servita a comprendere e periodizzare la guerra italiana del 1940-43,
definendo più chiaramente il mutamento strategico e organizzativo che differenziò la fase della
“guerra parallela” dalla fase della “guerra dell’Asse”.
Per quale ragione lo studio delle coalizioni e delle operazioni combinate è stato così a
lungo trascurato? Anzitutto, a differenza delle alleanze permanenti - come il Sacro Romano
Impero, il Patto di Famiglia, la Santa Alleanza, la Confederazione Germanica, il Commonwealth,
l’ONU, la NATO, l’UEO, il Patto di Varsavia, la CSI - le coalizioni militari sono forme di
cooperazione internazionale per obiettivi limitati e contingenti.
Per questa ragione la documentazione relativa è quasi esclusivamente nazionale. Manca
infatti una burocrazia analoga a quella delle organizzazioni permanenti, preposte come vestali al
culto dello spirito fondatore e degli scopi comuni. Per quanto siano formate da rappresentanti
nazionali, queste burocrazie vigilano anche sulla tutela degli interessi comuni ed esprimono un
punto di vista autonomo e diverso. Invece, come osserva anche McJoint, le coalizioni
temporanee non producono un “patriottismo” multinazionale: piuttosto rinfocolano i pregiudizi
nazionali.
Nel loro caso la cooperazione è incentrata sulla condotta effettiva della guerra e consiste
in un continuo, laborioso e precario bilanciamento di interessi continuamente influenzati dalle
vicende belliche, e che perciò modifica l’originario equilibrio interalleato a favore di alcuni Stati
e a danno di altri.
Conclusa la guerra e cessato l’effetto della propaganda interna a favore dei partner,
riemergono tutti i rancori e le polemiche accumulate, amplificate dall’interesse ad appropriarsi
dei meriti e scaricare le colpe, sia in caso di vittoria che di sconfitta. Ciò si riflette sulle
storiografie nazionali. Le storie diplomatiche enfatizzano i contrasti, quelle militari minimizzano
il contributo alleato e le decisioni comuni, come avviene anche per le operazioni combinate
condotte da più forze armate di una stessa nazione (esercito o marina? regolari o partigiani?).
Patriottismo nazionale e spirito di corpo ostacolano non solo una corretta valutazione delle
operazioni combinate a carattere multinazionale o semplicemente interforze, ma anche la
capitalizzazione tecnica delle esperienze, rendendo più difficile analizzare e correggere difetti ed
errori.
Del resto, per quanto insufficiente, l’approccio nazionale al problema delle coalizioni non
tradisce la realtà. Poche guerre di coalizione hanno assunto, e soltanto temporaneamente, uno
spiccato carattere multinazionale. Sotto questo aspetto la guerra del Golfo e lo stesso intervento
delle Nazioni Unite in Somalia sono meno interessanti della “battaglia delle Nazioni” (Lipsia,
1813), degli interventi della Santa Alleanza, della guerra dei Boxer, della spedizione di Suez e
della guerra di Corea.
Molte guerre di coalizione sono state condotte anche mediante mere “cobelligeranze” o
guerre “parallele”, talora rimaste del tutto indipendenti non soltanto sotto il profilo militare, ma
anche sotto l’aspetto giuridico. Ad esempio guerre formalmente “bilaterali” come le aggressioni
sovietiche a Polonia e Finlandia e le cobelligeranze italiana e romena contro la Germania sono
rimaste giuridicamente distinte dalla seconda guerra mondiale combattuta tra le Nazioni Unite e
le Potenze dell’Asse, la quale ha invece riassorbito, almeno nell’ultima fase, il precedente
conflitto cino-giapponese.
Per analoghe ragioni formali la stessa storia militare non ha finora studiato in modo
unitario quella che fu probabilmente la più vasta coalizione della storia, e cioè quella del 1780-83
che vide l’Inghilterra sola contro tutti, non soltanto in guerra con le Tredici Colonie ribelli e con
la Francia, la Spagna e l’Olanda, ma aggredita anche dall’ostile neutralità armata della Lega
Nordica promossa da Caterina di Russia.
Dato che l’unico vero libro sull’essenza della guerra è il Vom Kriege, non deve
sorprendere che sia Clausewitz l’unico autore classico ad aver esaminato, sia pure in modo
incidentale ed ellittico, la questione dell’alto comando nelle guerre di coalizione, tema che
ovviamente è del tutto ignorato dal suo protodetrattore Jomini, benchè nel Précis de l’art de la
guerre (ed. 1855, ristampa anastatica 1973) compaia uno specifico capitolo sull’alto comando
(pp. 121 ss.). In quest’opera il tema è sfiorato appena a proposito delle guerre che Jomini
definisce “guerre di intervento” (pp. 49 ss.), limitandosi a due osservazioni abbastanza triviali.
Una è che conviene disporre di alleati (p. 48). L’altra che la maggior parte delle coalizioni fallì
per aver dimenticato tre precauzioni: scegliere un comandante in capo al tempo stesso politico e
militare; accordarsi bene con gli alleati sui rispettivi ruoli; determinare un obiettivo in armonia
con gli interessi comuni” (p. 54).
Anche l’autore del Vom Kriege intendeva dedicare all’alto comando uno specifico
capitolo, che annunziò nel suo testo incompiuto ma che la sorte avversa gli impedì di scrivere.
Con ogni probabilità in questo capitolo avrebbe analizzato anche la questione del comando
congiunto di forze coalizzate, dal momento che alcune brevi annotazioni in proposito si trovano
nell’ultimo capitolo (il ix del libro Ottavo, dedicato al “piano di guerra mirante all’atterramento
dell’avversario”), in particolare nel paragrafo “D) ripartizione dei compiti”. Per inciso, queste
brevissime osservazioni sono probabilmente il miglior commento finora mai scritto sulla
struttura militare delle sette Coalizioni antifrancesi del 1792-1815.
In rigorosa concatenazione logica con la sua fondamentale distinzione tra “obiettivo”
(Ziel) militare e “scopo” (Zweck) politico della guerra, Clausewitz scrive che la differenza tra le
Armate coalizzate e quelle ausiliarie sta nel fatto che le prime hanno tra loro scopi politici
(Zwecken) “indipendenti”. Un corollario implicito è che nel caso delle Armate ausiliarie lo scopo
politico non è “indipendente”, bensì subordinato a quello della potenza egemone.
Altro corollario implicito è che l’indipendenza degli scopi perseguiti dai singoli coalizzati
costituisce la particolare vulnerabilità delle coalizioni, come dimostra l’esperienza di quelle
antifrancesi, cinque delle quali vennero infrante dall’efficace strategia rivoluzionaria e poi dalle
magistrali campagne di Napoleone. Clausewitz ne trae la conseguenza che la struttura ottimale
delle Armate coalizzate consiste nello spingere l’integrazione multinazionale delle forze al minor
livello tecnicamente possibile, perchè ciò “rende molto più difficile ai governi l’isolare i
rispettivi interessi”. L’integrazione militare ha dunque soprattutto un obiettivo politico: è un
collaudato meccanismo “antidefezione”.
Clausewitz aggiunge però che assai di rado si verifica una tale “intimità e comunanza di
interessi” da consentire la soluzione ottimale. Probabilmente questa è una delle affermazioni
ellittiche e fuorvianti che l’autore intendeva modificare nella progettata revisione del manoscritto
incompiuto. Infatti è facile ribattere che tanto più gli interessi sono realmente “comuni”, tanto
meno vulnerabile è la coalizione e dunque tanto meno necessaria è l’integrazione multinazionale.
Ne consegue che i fattori determinanti dell’integrazione non sono la mera “intimità e comunanza
di interessi”. Quale altro, allora?
L’unico esempio concreto di integrazione multinazionale citato da Clausewitz è quello
della Sesta Coalizione (1813-14), quando i Corpi d’armata nazionali vennero riuniti in Armate
multinazionali. In quell’occasione il fattore determinante fu, secondo Clausewitz, “il pericolo”
che “spinse tutti” verso tale soluzione. L’autore non specifica la natura del “pericolo”.
Certamente era Napoleone. Ma per andare oltre la mera cobelligeranza non era sufficiente il
metus hostilis che aveva animato le precedenti coalizioni antifrancesi: occorreva anche una
comune percezione delle catastrofiche conseguenze di un ennesimo scollamento.
Ma una comune percezione del pericolo è in fondo un caso particolare di riconosciuta
“comunanza di interessi”. E se davvero “tutti” i coalizzati si rendevano conto nella stessa misura
del “pericolo”, perchè avrebbero dovuto assicurarsi reciprocamente con un meccanismo
antidefezione? Lo stesso Clausewitz, poche righe più avanti, suggerisce implicitamente che la
realtà fosse differente. Elogia infatti lo Zar, il quale, pur vantando il contingente più numeroso e
il maggior merito nell’aver determinato la situazione propizia alla definitiva sconfitta di
Napoleone, accettò di passare le proprie truppe al comando di generali austriaci e prussiani,
“rinunziando all’ambizione di entrare in guerra con un’Armata russa autonoma”.
Solo lo Zar poteva farlo, proprio perchè era più forte degli altri due sovrani suoi alleati.
Inoltre l’invasione subita nel 1812 rendeva più acuta la sua percezione del “pericolo”.
L’apparente eccezione del 1813 conferma dunque la regola delle coalizioni precedenti:
l’integrazione militare non si verificò perchè gli interessi, le percezioni e gli scopi dei singoli
coalizzati si fossero interamente identificati con quelli “comuni”; piuttosto perchè restavano
abbastanza differenti da consentire deleghe di sovranità non pienamente reciproche o paritarie.
Comunque sul sistema “ottimale” Clausewitz non si dilunga, proprio perchè ha constatato
che si tratta di un’eccezione. Quel che gli preme è invece individuare il criterio generale. La
storia militare gli dimostra infatti che “la peggiore delle combinazioni è sempre quella in cui due
generali in capo indipendenti, agenti a nome di potenze distinte, si trovano in un solo teatro di
guerra, come si verificò spesso nella guerra dei Sette anni con i Russi, gli Austriaci e l’esercito
dei Circoli” (formato dai contingenti tedeschi del Sacro Romano Impero). La ragione è che la
stretta cooperazione tra due forze non saldamente integrate al livello decisionale attenua la
reattività di entrambe. Ciascuna tende inevitabilmente a scaricare sull’altra “il peso di quanto gli
incombe”. Viene dunque a mancare lo “stimolo all’azione” esercitato “dalla forza degli
avvenimenti”. Inoltre “la cattiva volontà dell’uno paralizza le forze dell’altro”.
L’unico modo di evitarlo, è subordinare gerarchicamente una delle due Armate all’altra. I
piccoli contingenti ausiliari non possono restare indipendenti, ma debbono essere posti alle
dirette dipendenze del sovrano territoriale, tutt’al più assegnando loro “le province ricche ove
stiano più volentieri”. Se invece l’Armata ausiliaria è più importante e determinante di quella
locale, il sovrano territoriale deve trasferirle il controllo delle proprie truppe, “come fecero gli
austriaci alla fine della campagna del 1805 e i prussiani in quella del 1807”.
Nel caso delle coalizioni, se non è possibile raggiungere una effettiva integrazione dei
comandi operativi, è preferibile adottare una “separazione completa” delle responsabilità. Ciò
secondo Clausewitz “non presenta difficoltà ... poichè l’interesse naturale di ciascuna potenza
indica già, di solito, una direzione propria delle rispettive forze”. Dunque, secondo Clausewitz, il
fattore che rende efficace la separazione delle forze su distinti teatri di guerra è che essa
riconosce realisticamente l’originaria indipendenza e differenza degli interessi nazionali dei
coalizzati e la asseconda per sfruttarla a favore dello sforzo comune, anzichè tentare di forzarla
con misure necessariamente controproducenti.
Per interpretare correttamente questa affermazione, occorre tener conto che essa è
implicitamente riferita al particolare esempio delle Coalizioni antifrancesi del 1670-1815, le
uniche che si potessero ancora prendere in considerazione al tempo del Vom Kriege, prima delle
rivoluzioni nazionali, dell’unificazione tedesca, delle coalizioni antitedesche e della guerra
fredda. Inoltre il paragrafo successivo, la cui stesura risale al 1828, è dedicato ad un ipotetico
“piano di guerra” preventiva contro la Francia, basato su due attacchi autonomi ma convergenti
verso Parigi e oltre la Loira, uno a guida prussiana dall’Olanda e uno a guida austriaca dall’Alto
Reno, eventualmente integrati da “due imprese accessorie, quella degli austriaci in Italia e quella
delle truppe inglesi da sbarco”.
Questa è la ragione per cui l’autore non si dilunga sui rischi politici del “combattere divisi
per colpire uniti”. Il presupposto implicito è che non sia una scelta deliberata, ma soltanto l’unica
realistica alternativa alla desiderabile ma non possibile integrazione delle forze. Non v’è dubbio,
infatti che la separazione dei coalizzati, scaricando su ciascuno di loro “tutto il peso di quanto gli
incombe esclusivamente”, amplifichi “lo stimolo all’azione” determinato “dalla forza degli
avvenimenti”. Nulla però garantisce che proprio la maggior reattività agli avvenimenti non possa
volgersi a danno degli altri cobelligeranti.
Lasciando a ciascuno il controllo esclusivo delle proprie forze e di un teatro di guerra, la
separazione facilita eventuali defezioni o paci separate, ma anche l’insorgere di sospetti e nuove
rivalità in rapporto alle differenti visioni sullo scopo della guerra e sul nuovo equilibrio di forze
prodotto dall’eventuale vittoria. In ogni caso la coesione della coalizione resta affidata ad accordi
di contingenza e in sostanza alla sola determinazione, lealtà e fiducia reciproca dei coalizzati.
Elementi che raramente si rafforzano di fronte ad una prova effettiva e prolungata.
I sistemi anticoalizione
Come si è accennato a proposito delle guerre italiane del Settecento, la forma minima e
più antica di comando congiunto è quella a carattere collegiale. Tutti conoscono i versi
dell’Iliade sui consigli di guerra tenuti dai comandanti greci durante la guerra di Troia e le
pagine di Guerra e pace sul sonno dell’eroe Kutusov durante la brillante esposizione del geniale
piano austriaco per la battaglia di Austerlitz.
Altrettanto antico è il sistema di eleggere un unico comandante supremo. E’ però
caratteristico della struttura confederale, dal dictator latinus testimoniato nel IV secolo a. C. al
generale federale svizzero già previsto dal Defensional del 1647, e in qualche modo esprime un
certo grado di unità nazionale e precorre l’unione politica delle sovranità confederate.
Paradossalmente lo studio delle guerre dell’età moderna (XVI-XVIII secolo) dimostra che
l’integrazione multinazionale di forze terrestri o navali era raggiunta più facilmente di quella
interforze. Ad esempio, alla battaglia delle Dune avvenuta nel 1658, il maresciallo Turenne
comandava sia le truppe francesi che il contingente inglese, ma non aveva autorità sulla flotta
inglese cooperante. Durante la campagna di Yorktown, nel 1781, Washington e Rochambeau
esercitavano collegialmente il comando congiunto franco-americano, ma la squadra francerse era
sotto il comando indipendente di de Grasse. Soltanto l’Inghilterra raggiunse un accettabile
coordinamento tra guerra navale e guerra terrestre, due mondi che nell’esperienza militare
continentale tendevano ad ignorarsi vicendevolmente. Quanto alle operazioni anfibie, le
competenze terrestri e navali erano fissate dalla linea del bagnasciuga o dal raggio del cannone.
Come osserva McJoint, nell’epoca dell’antico regime la coesione dei comandi congiunti
faceva leva sulla “fraternità sociale” e sui frequenti legami di parentela fra i capi militari,
aristocratici e cosmopoliti e sulla scarsa incidenza dell’origine nazionale. Alcuni comandanti
nazionali vennero designati proprio perchè avevano un grado o un rango nell’esercito o
nell’aristocrazia del paese alleato. Senza contare che non pochi ufficiali, soprattutto generali,
servirono parecchi sovrani nel corso della loro carriera, il che facilitava l’eventuale integrazione
dei rispettivi eserciti. Anche Clausewitz fu tenente colonnello del Re di Prussia e colonnello
dello Zar, e il suo passaggio al servizio russo, assieme ad un quarto dell’ufficialità prussiana, non
fu specificamente autorizzato dal suo sovrano, che si era limitato ad accordargli il congedo.
All’epoca della guerra di Crimea cosmopolitismo e fraternità sociale erano già stati
soppiantati dal nazionalismo e dalla burocratizzazione delle carriere. Lord Raglan e la serie dei
suoi omologhi francesi (il sedicente Saint-Arnaud, poi Canrobert e infine Pellissier) non avevano
nulla in comune né sotto l’aspetto sociale e culturale né sotto l’aspetto professionale. Il
comandante ottomano, un croato proveniente dai sottufficiali austriaci, fu ben lieto di farsi
togliere le castagne dal fuoco mescolando i suoi battaglioni nelle brigate francesi. Ma, pur
avendo in linea appena un quarto delle forze francesi, gli inglesi non si rassegnarono a
riconoscere la supremazia gerarchica dei marescialli alleati. Proprio per sbloccare i contrasti che
paralizzavano le forze alleate più del colera e del coraggio russo, Napoleone III meditò di
assumere personalmente il comando. Ma il consiglio di guerra interalleato gli dette un segnale
negativo bocciando il piano elaborato dall’Imperatore. E si convinse ad archiviare
definitivamente il progetto quando un cavo telegrafico sottomarino steso fra Varna e la Crimea
gli consentì di tempestare Canrobert e Pellissier di ordini e raccomandazioni. Fu il primo segnale
del netto peggioramento determinato dalla moderna capacità tecnica di controllo a distanza in
tempo reale.
Anche la fortunata spedizione del famoso contingente sardo (Pier Giusto Jaeger, Le mura
di Sebastopoli, Mondadori, 1991) anticipa il modo italiano di mostrare bandiera. Concepito per
sostituire truppe francesi nell’Armata di riserva a Costantinopoli, finì invece in Crimea nel
settore inglese, per di più alle dipendenze di entrambi i contingenti. Nelle sue memorie
Lamarmora racconta di aver chiesto a Cavour, mentre già stava per imbarcarsi: “ma insomma, mi
volete dare queste benedette istruzioni?”. La risposta, accompagnata da un abbraccio, sarebbe
stata “ingégnati!”. Il biografo del ministro subalpino, Rosario Romeo, ha dimostrato che quel
colloquio non potè aver luogo. Ma l’aneddoto “se non è vero, è ben trovato”.
In seguito, però, l’esempio negativo della Crimea servì a sostenere l’assoluta necessità
dell’unità di comando e di chiare istruzioni. Generalmente questi criteri furono applicati durante
le spedizioni internazionali del tardo Ottocento e del primo Novecento. Il comando congiunto
delle forze navali fu spesso attribuito col criterio gerarchico, che in genere rifletteva la diversa
importanza dei contingenti. Durante l’assedio dei boxer alle Legazioni di Pechino, il comandante
in capo fu invece designato all’unanimità dai rappresentanti delle 13 nazioni (scelsero quello
inglese perchè aveva esperienza militare), mentre furono gli ufficiali degli 8 minuscoli
contingenti (400 uomini in tutto) ad eleggere il comandante militare (un ufficiale austriaco).
La questione del comando della successiva spedizione in Cina fu complicata dalla
disparità dei contributi nazionali (73.000 russi, 21.000 giapponesi, 20.000 inglesi, 12.000
tedeschi, 10.000 francesi, 5.700 americani, 2.000 austriaci e 2.000 italiani) e dai veti incrociati
(inglese contro l’Intesa, russo contro l’Inghilterra, russo e tedesco contro il Giappone). Abortita
l’iniziativa russo-americana di deferire la scelta ad uno speciale Consiglio di guerra interalleato,
fu il Kaiser a troncare la questione nominando comandante in capo congiunto il feldmaresciallo
tedesco von Waldersee. Ad eccezione degli Stati Uniti, e tra le deboli proteste della Francia, gli
alleati accettarono il fatto compiuto. Solo quando i contingenti raggiunsero la Cina il comando
tedesco fu trasformato formalmente in “Quartier Generale interalleato” integrandolo con 2
ufficiali russi, 2 inglesi, 2 giapponesi, 2 italiani e 1 austriaco (Amedeo Tosti, La spedizione
italiana in Cina 1900-1901, Ufficio storico del Corpo di S. M., Roma, 1926, pp. 55-56).
Già prima del 1914 tanto l’Intesa quanto la Triplice avevano avviato una embrionale
cooperazione militare. Ma la cooperazione più stretta ed efficace, benchè molto laboriosa, fu
invece quella anglo-francese, improvvisata durante la guerra sotto la spinta della necessità. Un
fatto addirittura epocale, tenuto conto del secolare antagonismo fra le due nazioni, rinfocolato
dalle perduranti rivalità coloniali. Tuttavia soltanto adesso si sta cominciando a scrivere la “storia
della coalizione sul fronte occidentale”, come osserva giustamente William Philpott in una
esaustiva rassegna delle future linee di ricerca (“Britain and France go to War: Anglo-French
Relations on the Western Front 1914-1918”, War in History, 1995, 2, pp. 43-64).
Naturalmente fu l’intervento americano a determinare la vittoria alleata. Tuttavia non vi
fu alcuna integrazione operativa, perchè inizialmente il presidente Wilson non accettò di porre la
forza di spedizione americana sotto comando interalleato. E quando i primi clamorosi fiaschi gli
fecero mutare opinione, fu il comandante in capo, generale Pershing, a pretendere di conservare
un autonomo teatro di guerra (David F. Trask, The AEF and Coalition Warmaking, 1917-1918,
University of Kansas Press, 1993).
Malgrado una laboriosa cooperazione con gli alleati (Luca Riccardi, Alleati non amici,
Morcelliana, Brescia, 1992), anche l’Italia condusse la guerra in modo sostanzialmente
autonomo. Peraltro vi fu uno scambio di contingenti non meramente simbolico e non paritario (2
divisioni italiane in Francia e 1 in Macedonia contro 11 alleate schierate in Italia dopo Caporetto)
e alla vigilia dell’offensiva di Vittorio Veneto il comando delle due Armate italiane (10a e 12a)
che includevano i contingenti alleati fu assunto rispettivamente da ufficiali britannici e francesi.
Alle dipendenze italiane operarono anche 2 divisioni czeco-slovacche reclutate fra i prigionieri di
guerra dell’esercito austro-ungarico.
All’inizio del 1943 il generale americano Eisenhower assunse il comando del Quartier
Generale Supremo della Forza di Spedizione Alleata (SHAEF). Aveva alle sue dirette
dipendenze un comandante aggiunto (deputy commander) inglese e le missioni militari e gli
uffici di collegamento nazionali. Era assistito da uno stato maggiore articolato in due branche,
una operativa (Informazioni, Operazioni, Pianificazione, Politica Militare e Comunicazioni) e
una di supporto (Logistica, Personale e Amministrazione). Da SHAEF dipendevano anche i
comandi congiunti dei Gruppi d’Armata e delle forze navali e aerotattiche. Alcuni comandi
d’Armata erano nazionali, altri combinati, mentre i Corpi d’Armata erano in genere nazionali. Le
forze strategiche americane e inglesi rimasero invece alle dirette dipendenze del CCS, tranne un
breve periodo dopo l’invasione del 1944 quando furono assegnate direttamente a SHAEF.
Malgrado le tensioni e le rivalità personali fra Eisenhower, Montgomery, Patton e altri famosi
generali, impietosamente raccontate da David Irving (La guerra tra i generali all’interno
dell’alto comando alleato, Mondadori, Milano, 1981), l’AEF raggiunse un livello di integrazione
senza precedenti nella storia militare.
La lezione del CCS e dell’AEF è che la migliore integrazione consiste nell’aggiungere
ufficiali alleati ad una efficiente struttura di comando nazionale già predisposta. Lo stato
maggiore internazionale previsto dalla Carta delle Nazioni Unite avrebbe dovuto perpetuare la
struttura interalleata forgiata dagli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale, allargandola a
Francia, Cina e Unione Sovietica. La guerra fredda spostò invece l’enfasi su una catena di
alleanze regionali a guida americana.
L’organizzazione integrata della NATO fu una ricostituzione e un perfezionamento del
CCS e dello SHAEF. Le altre alleanze regionali stabilite lungo la “mezzaluna interna” nel quadro
della strategia del containment (METO, CENTO, SEATO) furono poi soppiantate dalla
costituzione del Central Command (CENTCOM) americano, competente per le aree attualmente
critiche, dal Mediterraneo all’Oceano Indiano. La NATO e il CENTCOM hanno costituito
l’ossatura portante delle spedizioni internazionali, l’una in Bosnia, l’altro contro l’Iraq e in
Somalia e sono le uniche agenzie militari a disposizione delle organizzazioni internazionali di
sicurezza (ONU, OSCE, UEO).
L’esperienza italiana
Il miglior contributo italiano ad una teoria delle coalizioni e dell’integrazione militare nel
mondo post-bipolare è finora quello del generale Carlo Jean, in particolare nei due saggi più
recenti pubblicati per l’editore Laterza nel 1996 (L’uso della forza, pp. 75 ss.) e 1997 (Guerra,
strategia e sicurezza, pp. 256, 262 ss.).
A differenza di Clausewitz, e riferendosi alla particolare esperienza del Patto Atlantico,
Jean affronta soprattutto la questione della coesione. Il semplice metus hostilis, la “minaccia
potenziale”, non è sufficiente, date le differenti “percezioni, interessi e politiche” degli Stati
membri, specie se la coalizione è permanente. L’eccezionale vitalità della NATO, sopravvissuta
alla fine del suo antagonista, si fonda invece su altri due fattori: “una potenza leader e una serie
di meccanismi antidefezione che garantiscano gli Stati membri che, in caso di difficoltà, gli
alleati non violino gli accordi sottoscritti”.
Sul primo fattore, quello della potenza leader, Jean non si dilunga. Ma in effetti è questo
fattore che fa tutta la differenza tra “coalizione” in senso stretto e alleanza egemonica, due forme
storicamente assai diverse di cooperazione multinazionale. L’Inghilterra ebbe indubbiamente la
leadership di tutte le coalizioni antifrancesi del 1688-1815. Eppure non ne ebbe mai un controllo
politico e strategico paragonabile con quello assunto dagli Stati Uniti nei confronti della seconda
coalizione antitedesca e di quella antisovietica. Sopravvissuta alla guerra fredda, e allargata sin
quasi all’antico limes danubiano dell’Impero romano, la NATO sta in realtà sempre più
assomigliando all’esercito federale romano-italico impiegato nelle Guerre Puniche.
La storia dell’Alleanza Nordatlantica offre vari esempi di meccanismi antidefezione.
Quello più evidente è la creazione di una organizzazione militare permanente, con comandi e
aliquote integrati, fermo però restando il carattere non automatico della difesa collettiva, una
clausola imposta dagli Stati Uniti e che dette a de Gaulle un buon pretesto per giustificare l’uscita
della Francia dal sistema integrato e lo sviluppo del deterrente nazionale.
Proprio per questo i più importanti e decisivi meccanismi antidefezione erano
paradossalmente quelli diretti a garantire gli alleati europei contro la defezione della stessa
potenza leader in caso di attacco nucleare sovietico limitato al territorio europeo. In fondo
l’intera vicenda degli armamenti nucleari dal 1950 al 1989 è incentrata sulla questione del
coupling tra la difesa dell’Europa e quella del Nord America, che i sovietici tentarono invano di
spezzare.
Ma, secondo Jean, ancor più determinante delle armi nucleari fu lo spiegamento avanzato
di “consistenti aliquote delle forze aeroterrestri americane”, che “rendeva evidente e credibile
l’impegno di Washington alla difesa europea con l’impiego di tutti i mezzi disponibili”,
sull’implicito presupposto che consistenti perdite di vite americane siano il modo più sicuro di
scatenare l’auspicato “effetto Pearl Harbour”. Non a caso, nell’ultima decade della guerra fredda,
una delle ipotesi considerate dagli analisti occidentali era quella di un attacco sovietico
“chirurgico”, in grado di evitare le forze americane. Questo fu uno dei motivi, o almeno dei
pretesti, che indusse la NATO a spingere l’integrazione militare sul fronte centrale sino al livello
Corpo d’armata. Saddam Hussein fece invece un calcolo opposto, e cioè che un elevato numero
di perdite in una secondaria guerra coloniale avrebbe determinato l’”effetto Vietnam”,
mobilitando l’opinione pubblica americana contro l’intervento per la liberazione del Kuwait.
Secondo Jean le attuali tendenze verso una più stretta integrazione multinazionale in
ambito atlantico ed europeo sono in realtà bilanciate e frenate dall’opposta tendenza verso la
“rinazionalizzazione della difesa”. Ciò deriva dal fatto che “i conflitti non possono più essere
controllati in termini di equilibri globali, ma solo a livello regionale o addirittura subregionale”,
dove i differenti interessi nazionali tendono più facilmente a prevalere su quelli comuni.
Ma a sua volta anche questa tendenza è naturalmente frenata da vari fattori politici e
strutturali. Da un lato le resistenze delle istituzioni multinazionali e degli Stati che per varie
ragioni non vogliono o non possono dotarsi di autonome capacità militari e temono che
l’indebolimento dei sistemi di difesa collettivi accentui la loro dipendenza strategica dagli Stati
Uniti.
Dall’altro lato la diminuzione degli stanziamenti per la difesa che ostacola le economie di
scala, nonchè la sfida dell’innovazione tecnologica (la cosiddetta “rivoluzione negli affari
militari”). Entrambi questi fattori favoriscono una crescente integrazione multinazionale dei
complessi militari-industriali di livello inferiore a quello americano, obbligando anche potenze
come Germania e Giappone ad accrescere la cooperazione nel campo della difesa.
In concreto ne risulta una tendenza intermedia a rendere più flessibili le organizzazioni
permanenti, coordinandole secondo i criteri della delega e della sussidiarietà e modificandole col
criterio della “specializzazione” nazionale. Lo scopo è di poterle attivare solo in parte e per
interventi short of war anche a carattere preventivo, utilizzandole come nucleo di aggregazione
di coalizioni di contingenza e “a geometria variabile” (coalitions of the willing) basate su
interessi comuni più limitati e specifici.
Nel corso del dibattito che ha preceduto la recente riorganizzazione dei comandi regionali
della NATO, alcuni “esperti tedeschi” hanno proposto di adottare una “divisione geografica” dei
ruoli nazionali, “specializzando” le forze dei paesi del Centro Europa per la difesa ad Est e quelle
dei paesi del Sud Europa per la difesa a Sud. Una tesi condivisa dai sostenitori della “geopolitica
dei ruoli” o delle “aree di responsabilità”, che ricorda la preferenza “clausewitziana” per la netta
ripartizione nazionale dei differenti teatri operativi di una guerra di coalizione, e che ha avuto
una recente conferma con l’intervento di pace in Albania, il primo a guida italiana.
Secondo Jean il “frazionamento” dell’Alleanza “in insiemi subregionali di spiccata
individualità ... collegati unicamente dalla presenza statunitense” trasformerebbe l’Italia in “zona
cuscinetto a favore del Nord”. Inoltre accentuerebbe l’integrazione delle forze a livello
subregionale a scapito di quella complessiva e costringerebbe a diseconomiche ridondanze in
alcuni settori (intelligence, sorveglianza, acquisizione degli obiettivi e trasporto strategico).
L’autore scarta anche l’alternativa di una “specializzazione funzionale” delle forze
nazionali, in vista di una loro completa interdipendenza. Sotto il profilo meramente economico
sarebbe “ottimale”, ma è “inaccettabile sotto il profilo politico-strategico” in mancanza di una
politica estera e di sicurezza “realmente unica”. In ogni caso renderebbe troppo rigida la risposta
ad una aggressione, dal momento che una sola defezione priverebbe il sistema di una
componente militare essenziale.
Si stanno comunque affermando soluzioni intermedie, come la costituzione di comandi e
unità multinazionali terrestri, aerei e navali e di combined joint task forces (CJTF) le quali
consentono all’UEO di impiegare “assetti” NATO e dunque di avvalersi delle capacità
tecnologiche, operative e logistiche possedute esclusivamente dagli Stati Uniti, dando un minimo
di consistenza all’umbratile “identità europea della difesa”.
In passato la pianificazione alleata poteva essere integrata perchè il compito della NATO
era strettamente difensivo e la minaccia era quantificabile. Ciò non è più possibile, a causa della
relativa imprevedibilità dei compiti che potrebbero essere assegnati alle forze alleate nel nuovo
contesto internazionale. Tuttavia secondo Jean si potrebbe mantenere una certa
“complementarietà” fra le varie pianificazioni nazionali, in modo da conservare l’interoperabilità
degli armamenti e dei sistemi logistici e da evitare che nell’insieme delle forze alleate si
verifichino carenze in alcuni settori e ridondanze in altri.