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Treccani, il portale del sapere

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Kant
Enciclopedia Italiana - stampa KANT, Immanuel. - Filosofo tedesco, nato in Knigsberg (Prussia orientale) il 22 aprile 1724, quarto tra i nove nati in un ventennio dal matrimonio del sellaio Giovanni Giorgio di origine scozzese con Anna Regina Reuterin, pietisti entrambi, fervente la madre. Quindi l'educazione religiosa del piccolo Immanuel fu a carattere rigorosamente moralistico sotto l'alta guida del pastore Schultz, pietista e wolfiano, al cui saggio consiglio si dovette l'entrata del novenne Kant nel Collegium Fridericianum, diretto dallo stesso Schultz, a compiervi gli stud med, dai quali K. riport specialmente sicuro possesso della lingua e letteratura latina. Nel 1740 fu immatricolato nella patria universit e iscritto, si crede, alla facolt teologica; attese, per, pi che a quelli teologici, agli stud matematici, fisici e filosofici, specialmente sotto la guida di Martin Knutzen, insegnante di logica e metafisica. Gi da studente alleviava le sue misere condizioni economiche con ripetizioni; a 22 anni per la prima e l'unica volta si allontan da Knigsberg, non uscendo per dalla Prussia, per recarsi come precettore in nobili famiglie, il che gli procur un certo saper vivere mondano che mal poteva ripetere dalla famiglia d'origine o dagli stud. Nel 1755 torn definitivamente in patria e cominci la sua carriera d'insegnante come magister legens, fino a che nel 1770 non ebbe la cattedra ordinaria di logica e metafisica, inaugurata con la famosa dissertazione. Ebbe poi, acquistata fama, chiamate dalle universit di Halle, di Jena, di Erlangen, di Mitau; le rifiut. Concorse invece, senza successo, ad un premio accademico; per un altro prepar il lavoro, ma non lo present n lo fin. La vita di Kant si riassume tutta nell'insegnare e nello scrivere. Come insegnante di filosofia, gi prima che maturasse quella Critica che a tal concetto dell'insegnamento filosofico conduce, ritenne di dover insegnare non filosofia, giacch perfetta filosofia trovava gi d'allora (1765-66) che non esisteva, ma a filosofare, e, attraverso questo, a vivere umanamente. Questa sua concezione dell'insegnamento, a stare alla testimonianza di Herder che l'ebbe maestro, egli tradusse nobilmente in pratica nella scuola e fuori col fascino della sua profonda umanit e del multiforme suo sapere, fino al 1797. Non ebbe, come uomo, avvenimenti entro i quali si fosse provata e svolta in dinamici processi la sua personalit, tranne uno notevole. A Federico il Grande, presso il cui ministro Zedlitz Kant era in grande favore, era succeduto il debole Federico Guglielmo II, e, a Zedlitz, Wllner, al quale, come a "prete impostore e

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intrigante", Federico il Grande non aveva voluto concedere la dignit nobiliare. K. pubblic (1792) in una rivista un articolo, riguardante il problema religioso, Sul male radicale. Fu vietato al direttore della rivista il proseguimento dell'articolo: Kant insistette pubblicando in volume (Religione entro i limiti della ragione) l'articolo stesso e la sua continuazione. Un rescritto reale (i ottobre 1794), ispirato da Wllner, deplora il fatto e minaccia ulteriori provvedimenti. K. annota per s: "il ritrattare sarebbe una vilt, ma il tacere, in un caso come questo, dovere di suddito", e risponde promettendo di astenersi dallo scrivere ancora di filosofia religiosa. Proverbiale la metodicit della sua vita. Gli ultimi suoi anni trascorse tentando e ritentando una nuova vasta sintesi metafisica, senza riuscirvi. Mor il 12 febbraio 1804, quando gi la sua dottrina si era diffusa e imposta e dava le prime notevoli filiazioni. Il pensatore nelle sue opere. Una vita di uomo, dunque, senza un processo di sviluppo in avvenimenti storici di cui sia stato parte, in eventi familiari tragici o lieti, che abbiano deciso del suo vivere e della sua attivit, in lotte che gli abbian dato vittorie o gli abbiano imposto sconfitte o rinunzie: si potrebbe dire un uomo senza storia. Gli che il processo in cui questa vita di uomo si concentra e si sviluppa delineandosi con forti linee il processo di pensiero che egli, in una riflessione assidua, profonda, vive intimamente, non turbato, quantunque sempre ad essi attento, dai grandiosi moti storici che si preparano e si svolgono nel suo tempo. Sale da questo all'eterno. Processo del quale si possono distinguere sette diversi momenti ideali, che non sono quindi periodi contraddistinti ciascuno dal carattere di una scuola o di un indirizzo filosofico cui K. abbia aderito, ma solo momenti successivi dell'intima formazione spirituale kantiana. Momento Scientifico. - K. comincia scienziato: fisico pi che altro (1747-1756). Scienziato conseguente ed audace. L'opera principale di questo periodo l'Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels (1755), pubblicata anonima, con la quale K. completa l'ipotesi newtoniana dell'origine del mondo, escludendo nella macchina dell'universo un intervento immediato di Dio, in quanto anche i fenomeni da Newton inesplicati per la loro apparente irregolarit vengono riportati alla stessa origine meccanica: cos K. precorreva di quarant'anni l'ipotesi di Laplace e stabiliva gi sin d'allora, il concetto filosofico del manifestarsi di Dio pi che nei contingenti eventi naturali che della natura neghino la meccanica regolarit, in questa stessa regolarit che ha sempre riempito l'animo di K. di inesauribile stupore. Questo stupore appunto mena la mente kantiana da quei freddi non vivi eserciz di metafisica dogmatica apparsi negli scritti schiettamente filosofici di quel primo periodo, con uno dei quali (Principiorum primorum cognitionis metaphysicae nova dilucidatio, 1755) ottenne la venia docendi (l'attuale libera docenza). mentre poco prima nello stesso anno aveva

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ottenuta la promozione a maestro (l'attuale laurea) con una dissertazione De igne; questo stupore lo mena alla metafisica come sentito bisogno dell'animo suo. Passaggio alla metafisica. - Questo passaggio dalla scienza newtoniana, che egli vive con ardore, all'esigenza metafisica, costituisce il secondo momento dell'attivit spirituale di K. (1756-1764), ed determinato non da quella metafisica, di cui ha dato gi saggio, ma proprio dalla scienza stessa naturale che l'ha posto di fronte alla viva esigenza filosofica in cui la scienza natur2le sfocia quando riconosce, e deve riconoscere, i suoi confini. Sul limite tra la viva esigenza scientifica e il deciso bisogno metafisico, cui essa mena, pu porsi quella Monadologia physica (1756) che voleva essere uno specimen dell'uso della metafisica congiunta con la geometria. Siamo, vero, con essa ancora in pieno terreno leibniziano, anzi wolfiano, ma non passer gran tempo, e Kant nel Neuer Lehrbegriff der Bewegung und Ruhe (1758) denunzier i propr pensieri come "non ammucchiati al mulino del sistema wolfiano o di altro sistema celebre": ma l'indagine pur sempre ancora pi scientifica che filosofica. L'esigenza metafisica invece si afferma netta e prevalente nell'operetta che costituisce certo lo scritto principale non solo di questo momento del pensiero kantiano, ma di tutta la sua speculazione precritica: Der einzig mgliche Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes (1763). Quel concetto del manifestarsi di Dio pi nella regolarit della natura che in eventuali straordinar suoi interventi immediati, che abbiamo visto gi accennato nella Teoria del cielo, qui porta senz'altro alla trasformazione dell'argomento fisico-teologico. Questo nella sua forma tradizionale si fonda sull'elemento artificiale e volontaristico della natura, e quindi "tutte le armonie necessarie delle cose del mondo divengono obiezioni pericolose" contro di esso; per K. invece esso deve fondarsi proprio sull'ordine necessario, che riempie pur sempre di viva ammirazione l'animo di K. per le inattese e meravigliose armonie che di esso fannti testimonianza e che si scoprono specialmente col sapere geometrico. E l'argomento fisico-teologico cos trasformato, mentre per s non riesce, neppure cos, ad avere un necessario valore probativo, acquista quello di conferma sperimentale dell'unico argomento possibile, che deve essere a priori, e che, anch'esso, non se non la trasformazione dell'argomento ontologico tradizionale. Questo, al dire di K., parte dalla possibilit (concetto) di Dio come principio per dedurne l'esistenza come conseguenza: procedimento assurdo fondato sullo scambio del fieri idealiter col fieri realiter; bisogna invece dal possibile come conseguenza salire all'esistenza come principio. E il possibile dal quale si deve risalire, non pi soltanto quella idea di Dio che era il principio dell'argomento ontologico per Anselmo e per Cartesio, ma tutto il possibile cio tutto il pensabile, che sarebbe indeducibile e cio impossibile e impensabile se non si presupponesse esistente e non soltanto possibile l'Essere realissimo spirituale che Dio. Quel bisogno di una soddisfacente fondamentale soluzione del problema del principio delle cose, pur quando si affermi in queste cose un'essenziale necessit costitutiva dell'ordine che legge dell'universo, quel bisogno,

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che abbiam visto affacciarsi nella Teoria del cielo, qui soddisfatto in pieno. K. ha ed espone la sua metafisica teologica, che confermata nelle Untersuchungen ber die Deutlichkeit der Grndstze der natrlichen Theologie und der Moral (1764). E non lontano da questo atteggiamento spirituale quasi di soddisfazione per il raggiunto appagamento delle proprie esigenze di pensiero anche l'altro scritto di questo stesso anno, Beobachtungen ber das Gefhl des Schnen und Erhabenen, un insieme di finissime osservazioni nel campo della morale, dell'estetica, della psicologia, dell'etnologia, attraverso le quali caratteristica la fondazione della morale sul "sentimento della bellezza e dignit della natura umana". Ma gi nell'Unico argomento K. protesta continuamente che egli per ora non d che il materiale, che attende l'opera dell'artista che con esso costruisca il saldo organismo metafisico. La costruzione egli stesso per ora non fa, ma spera che sia fatta. Frattanto egli si viene sempre pi profondamente persuadendo che tutte le gi fatte costruzioni, gi anche per il solo fatto che son tante, non soddisfano l'esigenza di assolutezza che la metafisica richiede e perci non dnno una metafisica. Sfiducia verso la metafisica. - Cos, attraverso questo maturarsi della persuasione d'inesistenza della metafisica fino a lui, K. passa dal momento, direi, di esultanza nella e per la conquista di un proprio saldo sapere metafisico, a quello in cui egli manifesta piena la sfiducia sulla possibilit che mai ci sia stato o possa esserci, fisso e oggettivo, un tale sapere (1764-1766). E appartiene a questo momento quel Nachricht von der Einrichtung seiner Vorlesungen in dem Winterhalbenjahre 1765-66, nel quale proprio da questa inesistenza di un'oggettiva metafisica K. deduce quella che sar poi una dimostrata verit critica, che cio insegnare filosofia si pu solo insegnando a filosofare. La sfiducia circa l'esistenza della metafisica non genera sfiducia circa la necessit del cercarla e dell'avviare altri a cercarla. E si spiega cos quella curiosa e insieme vivace operetta nella quale non si sa bene fino a qual punto K. faccia dello spirito o parli sul serio: Trume eines Geistersehers, erlutert durch Trume der Metaphysik (1766). Operetta interessante, forse finora non valutata abbastanza perch coloro che vi vogliono trovare l'orientamento speculativo che K. ha in essa, si trovano disorientati dai diversi indirizzi che tutti si presentano insieme: empirismo tra materialistico e spiritualistico, dogmatismo, scetticismo. Il vero che K., come gi nell'Unico argomento aveva posto il problema metafisico di Dio, qui pone esplicitamente il problema metafisico dell'anima. E, nonostante la forma scherzosa e le riserve, gli d una soluzione. Prendendo lo spunto dal commercio con gli spiriti che gi da un ventennio lo spiritista Swedenborg professava di avere, ed evitando di prendere, di fronte a questa professione, un deciso orientamento di credenza o meno, pone il problema metafisico dell'anima nella sua immortalit, mostrando come si fosse soliti risolvere tal problema non sapendo neppure quel che per anima o spirito si dovesse intendere. Di vero, di fronte a tal problema, non v'ha che questo: "La bilancia dell'intelletto non del tutto imparziale, e un braccio di essa, che porta la soprascritta,

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Speranza del futuro, ha un vantaggio meccanico. questa l'unica inesattezza ch'io certo non posso togliere e che nel fatto non voglio neppure togliere mai". Ma non per questo deve tale speranza farsi norma del mio agire morale. "Pu forse dirsi onesto colui che volentieri si darebbe ai viz favoriti, se mai non lo spaventasse una pena futura?... Pare perci pi conforme all'umana natura e alla purezza dei costumi fondare l'aspettazione del mondo futuro sulle sensazioni di un'anima ben fatta, anzich inversamente fondare il suo ben operare sulla speranza dell'altro mondo". C', in germe, quella che sar la soluzione del problema dell'anima da una parte, del problema morale dall'altra. Incubazione della critica. - Questo stesso momento adunque di aperta insofferenza di tutto che si spacciava per filosofia, per assoluta scienza, ed era, per K., soltanto sogno, se vero che "quando di diversi uomini ciascuno ha il suo proprio mondo, da presumere che essi sognino"; questa stessa insofferenza non affatto schietta negazione, aperta dichiarazione di scetticismo. Il bisogno soggettivo di filosofare resta vivo insopprimibile: soltanto cerca la sua strada. Si ha quindi un lungo periodo in cui lo spirito di K. quasi si chiude in s, per questa ricerca (1767-1780). , direi, l'incubazione di quel che sar la critica. Prima manifestazione di questo serio tornare in s del pensiero kantiano, l'interessante, per quanto brevissimo, saggio Von dem ersten Grunde des Unterschiedes der Gegenden im Raume (1768): difesa l'assolutezza newtoniana dello spazio, non si vede ancora di questo la natura schiettamente soggettiva e sensibile, ma, anche quando questa si vedr, lo spazio rimarr sempre qualcosa di un valore molto diverso da quello di tutto il rimanente sentito. K. dai problemi di Dio e dell'anima pare torni a scrutare la natura: ma ritrova anche in questa un assoluto di cui dar ragione. Lo scienziato K. scomparso per sempre. K., tornando alla natura. si travaglia pur sempre col problema dell'essenza intima delle cose, che vive implicito nello stesso Argomento del '63, quando si vuol trarre dall'intelligenza, che riluce nell'ordine necessario delle cose dell'universo, la dimostrazione di Dio. E pi che altro risposta a questo problema la famosa dissertazione De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis (1770), discutendo la quale K. ottenne e inaugur la cattedra di logica e metafisica. In questa dissertazione si suole vedere il primo esplicito cenno della critica, perch chiaramente esposta quella dottrina del senso che sar l'estetica trascendentale kantiana, e per la quale lo spazio e il tempo sono entrambi considerati come intuizioni a priori che costituiscono il sentire e non appartengono alle cose nella loro intima essenza: lo spazio assoluto newtoniano diventato la forma necessaria che ogni cosa del mondo esterno deve assumere perch sia sentita: un'esigenza dunque del senso, un costitutivo essenziale della cosa solo in quanto sentita, non della cosa in quanto reale in s. Adombrata vi anche la dottrina delle categorie, senza per che i concetti puri si risolvano nella loro funzionalit conoscitiva. La Critica. - Questa, con la sua esigenza, preparata se mai dalla soluzione del problema conoscitivo che K. viene maturando, come ci manifestano i predetti due scritti, ma

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inconfondibile con tal soluzione, viene alla luce con la Kritik der reinen Vernunft (1781), la cui preparazione costrinse K. a un silenzio di quasi dodici anni, e che costituisce, senza alcun dubbio, il culmine del pensiero kantiano; il precedente prepara, il seguente sviluppa. La scoperta per cui K. rimane, nella storia del pensiero umano, a segnare un nuovo modo pi che solo d'indagare il vero, di vivere ed attuare tutti i valori spirituali, sta, nelle sue linee essenziali, in detta critica, composta di una prefazione e due parti: 1. Dottrina trascendentale degli elementi; 2. Dottrina trascendentale del metodo. Ma quest'ultima parte, lungi dall'avere la stessa mole ed importanza della prima, costituisce come la copertura del grandioso edificio kantiano, il cui suggestivo ingresso la prefazione. La prefazione: il problema della sintesi a priori. - La conoscenza pura non conoscenza empirica, e si attua con certezza per lo meno nella matematica e nella fisica. C' anche come metafisica? La risposta pu darla solo "una scienza che determini possibilit, princip e ambito di tutte le conoscenze a priori". Questa nuova scienza la critica, la quale perci, a differenza di tutte le altre scienze, trascendentale, in quanto le conoscenze, che la costituiscono, "non solo di oggetti (Gegenstnde) si occupano in generale, ma del nostro modo di conoscere gli oggetti in quanto esso deve essere possibile a priori"; e si chiama critica della ragione pura, in quanto "la ragione la facolt che fornisce i princip della conoscenza a priori". Conoscenza a priori, che, solo perch tale, non pu rimanere puramente analitica: in tal caso infatti il pensiero che la possiede, non conquisterebbe la realt, condannato ad analizzare soltanto questo suo interiore possesso. Laddove la scienza, se da una parte, perch sia necessaria e universale, deve essere a priori e non prodotta dall'esperienza, dall'altra deve riguardare la realt perch sia veramente conoscenza. Le scienze dunque son fatte di giudiz sintetici a priori. Questo raggiungimento del reale la sinteticit kantiana, che per K. si ha senza difficolt nell'esperienza, ma costituisce un problema nella scienza, in quanto deve essere ottenuta dal pensiero puro. Questo problema quello che la critica deve risolvere. L'estetica trascendentale: il problema dell'intuizione pura (spazio e tempo). - Perci la sintesi a priori conoscitiva il motivo che ordina e regge tutto l'edificio kantiano. Il quale si presenta con due grandi divisioni della dottrina degli elementi: 1. Estetica trascendentale; 2. Logica trascendentale. Le fonti infatti della conoscenza umana per K. sono due: il senso e l'intelletto. Fonti eterogenee fra loro per quanto anche nel senso possa e debba aversi un sapere puro, come dell'intelletto debba anche aversi un sapere empirico. Non si deve quindi identificare la distinzione sapere puro e sapere empirico, con la distinzione senso e intelletto: l'empiricit bens portata dal senso nell'intelletto; ma questa empiricit intellettiva non tutto il senso, ma quanto vi di empirico nel senso stesso, giacch v'ha anche un sapere sensibile puro. Il sentire intuire: e vi sono intuizioni pure

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(spazio e tempo) e intuizioni empiriche (qualit sensibili), dalla cui sintesi risulta l'intuizione concreta. Il sentire quindi, per K., anch'esso sintetico, quantunque a suo modo: a suo modo, perch rimane pur sempre ricettivo e non spontaneo. La sinteticit quindi non da confondere con la spontaneit. La ricettivit del senso inoltre non vuol dire assoluta passivit; il senso, pur non essendo spontaneo, a suo modo attivo. Ecco quindi una terza confusione da evitare, quella di spontaneit con attivit. Le intuizioni schiettamente empiriche costituiscono la materia del sentire (di queste K. non si occupa affatto); laddove quelle pure ne costituiscono la forma. Si trova quindi gi anche nel senso la distinzione di forma e materia; il senso non assolutamente informe. E siccome il senso singolare, il concetto di forma in generale non pu ridursi a quello di universale. La forma del senso proprio la singolarit che assoluta e quindi unicit nella forma, laddove relativa nella materia la quale fraziona quella assoluta singolarit della forma. Quindi un solo spazio e un solo tempo, le due intuizioni pure. Intuizioni pure e cio costitutive della nostra umana ricettivit e non della cosa in s, di cui questa nostra ricettivit testimonianza. In questo la famosa scoperta kantiana dell'idealit dello spazio e del tempo, la quale non vuol dire soggettivit nel senso che il soggetto crei lo spazio e il tempo per ordinarvi le cose. Se questo dicesse, il senso non sarebbe pi ricettivit. E le intuizioni pure sono due: perch questa ricettivit da una parte ricettivit del "fuori di noi", del mondo esterno, ed esige quindi come sua forma lo spazio che costituisce questa esteriorit, ma dall'altra anche ricettivit del "dentro di noi", cio ricettivit del soggetto da parte di s stesso e perci, richiedendo il precedente s da intuire, ha come sua forma il tempo. La sensitivit quindi interiormente tempo, esteriormente spazio. Questo per, pur essendo intuizione pura e cio sentire puro, deve esser rivissuto nell'interiorit. L'intuizione spaziale quindi, pur costituendo un essenziale momento del sentire, non vive mai da sola, ma vive soltanto fusa con l'intuizione temporale, la quale quindi la forma riassuntiva del sentire; il che da aver presente per rendersi conto della dottrina kantiana dello schematismo. Prove dirette di questa non appartenenza alle cose di queste che erano ritenute propriet primarie e costitutive delle cose stesse, K. non ne d e non ne pu dare. D soltanto una prova indiretta: se spazio e tempo fossero qualit delle cose e non solo intuizioni costitutive del sentire, la matematica sarebbe inesplicabile e come geometria (scienza dello spazio) e come aritmetica (scienza del tempo, perch scienza del numero), giacch queste scienze, appunto perch tali, sono a priori. Questo render conto di quella conoscenza sintetica a priori che si dice matematica quella che K. dice "spiegazione trascendentale dei concetti di spazio e di tempo". L'analitica trascendentale: 1. Il problema dei concetti puri (categorie). - Il grosso dell'edificio kantiano sta, dicemmo, nella seconda parte della dottrina degli elementi: La logica trascendentale. Come per il senso si sono ricercate e trovate le intuizioni pure che lo costituiscono, cos per l'altra fonte dell'umano conoscere, l'intelletto, che

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concepire, si devono ricercare e trovare i concetti puri che lo costituiscano, cio i concetti che, come atti di puro pensiero, si riferiscano a priori ad oggetti. Tali atti costituiranno anche il conoscere vero e proprio, giacch questo richiede quella universalit e necessit che sono caratteri dei concetti, per i quali la soggettivit singolare del conoscente superata nell'oggettivit del conosciuto. Perci i concetti puri dell'intelletto, e questi soltamto, sono le vere e proprie categorie dell'essere conosciuto. Perci, per K., non la conoscenza a priori come tale trascendentale, ma la conoscenza che d ragione di tale apriorit: in breve la conoscenza critica. La logica trascendentale si divide in due grandi parti che sono i due grandi piani dell'edificio critico kantiano: l'Analitica trascendentale e la Dialettica trascendentale. L'analitica la "scomposizione di tutta la nostra conoscenza a priori negli elementi della conoscenza intellettiva"; scomposizione che mette capo da una parte ai detti concetti e dall'altra ai princip (Grundstze) dell'intelletto puro. Donde la sua suddivisione in Analitica dei concetti e Analitica dei princip. Con questa distinzione pare che K. voglia quasi separare, nell'intelletto puro, quelli che sono gli elementi suoi costitutivi, diremmo il suo materiale di conoscenza che sarebbe dato dai concetti, da quella che potremmo dire la dinamica dell'intelletto stesso, i veri e propr suoi atti fondamentali, che sarebbero dati invece dai princip. Nonostante questa apparenza dovuta, pi che ad altro, all'architettura dell'opera, vedremo come tutta l'intima logica kantiana d proprio questa dinamicit dei princip ai concetti, elevandoli a forma, e porta poi il contenuto concettuale nella schietta forma giudicativa dei princip. Infatti lo stesso "filo conduttore per scoprire i concetti puri dell'intelletto" K. lo trova proprio nella funzione logica dei giudiz, il che gli permette anche di avere la guida di un principio e non cadere cos, nella determinazione di tali concetti, in quella rapsodia che egli rimprovera ad Aristotele. Ora, quando si prescinda dal contenuto dei giudiz, questi, secondo K. si possono raggruppare sotto quattro "titoli" (quantit, qualit, relazione, modalit), sotto ciascuno dei quali ogni giudizio pu conformarsi a uno di tre "momenti" (1, universalit, 2, particolarit,3, singolarit, per la quantit, 4, affermazione, 5, negazione, 6, infinit, per la qualit; 7, categoricit, 8, ipoteticit, 9, disgiunzione per la relazione; 10, problematicit, 11, asserzione, 12, apoditticit, per la modalit). Ora proprio ciascuno di questi momenti formali del giudicare costituisce un concetto puro, cio il contenuto dell'intelletto puro dato proprio da questa sua funzione giudicativa. Questi concetti puri, che K. dice aristotelicamente categorie in quanto costituiscono i predicamenti comuni, sono i seguenti nell'ordine di rispondenza al proprio momento giudicativo: 1, unit, 2, pluralit, 3, totalitd, 4, realt, 5, negaztone, 6, limitazione, 7, sostanza, 8, causa, 9, reciprocit, 10, possibilit, 11, esistenza, 12, necessit. Ma, nonostante questa molteplicit di momenti e di categorie, si badi che il carattere costitutivo dell'intelletto in questo suo agire spontaneo l'unit, la quale l'essenza stessa di ogni giudizio. Unit, che in tanto si pu riscontrare

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nell'analisi che ne facciamo col giudizio analitico, in quanto c' gi un giudizio sintetico che la pone e che perci l'assoluto prius del conoscere. Sintesi, che non l'atto proprio dell'intelletto, come determinata facolt conoscitiva (l'intelletto presuppone la sintesi), ma invece propria della unit sintetica appercettiva, che il principio primo costitutivo della coscienza e della personalit umana: "la categoria presuppone gi il nesso; si deve quindi cercare pi in alto l'unit". Questo primo principio rende possibile quella "deduzione trascendentale dei concetti intellettivi puri", la quale affronta la difficolt fondamentale della scienza. Questa, per essere, come vuole e deve, la vera e propria conoscenza, deve essere a priori e cio non derivare dall'esperienza. Ora come possibile che "concetti a priori si riferiscano ad oggetti"? Perch si abbia il riferimento ad oggelti, bisogna che "o l'oggetto renda possibile la rappresentazione, o questa l'oggetto". Ora la prima condizione non ha certo luogo per quanto riguarda le categorie che sono a priori: rimane dunque sola possibile la seconda condizione "cio che le categorie contengano i princip della possibilit di ogni esperienza in generale". Solo cos sono per noi possibili a priori conoscenze di oggetti di esperienza possibile e soltanto di questi. La natura dunque, di cui con l'esperienza constatiamo le leggi, la natura della nostra conoscenza, le cui leggi quindi sono le leggi stesse fondamentali della natura. Natura dunque oggettivit conosciuta, e reciprocamente l'oggettivit conosciuta quell'insieme di leggi che diciamo natura, leggi alle quali il contenuto dato dal senso, giacch l'a priori intellettivo non che possibilit di esperienza, e cio non vale che per quel contenuto che l'intuire sensibile gli procura. L'intelletto vuoto senza l'intuizione sensibile e non pu esser riempito che di questa; e reciprocamente l'intuizione sensibile cieca senza l'intelletto, e non pu vedere se non con gli occhi dell'intelligenza. Questa intima unione a priori di senso puro e intelletto puro l'io penso kantiano che si concretizza nella vissuta realt dell'esperienza, la quale quindi resa possibile da quell'io penso, e non pu che confermarlo. Di questa unit sintetica appercettiva, dunque, di questo io penso sono attuazioni quei momenti del giudicare intellettivo. La determinazione delle categorie cos riportata, attraverso la caratteristica essenziale di ogni giudicare e cio la unit, all'unit sintetica appercettiva, la quale non che il giudicare stesso nella sua attivit di unificazione, non che la coscienza umana nell'attivo conoscere. Attivit che si risolve nella discorsivit unificatrice (giudizio), e perci incapace cos di darsi un contenuto che deve ripetere dalla fenomenica molteplicit sentita, come di creare s stessa in quanto stabilmente e necessariamente costituita da una parte dalla ricettivit del senso nell'assoluta singolarit delle due intuizioni fondamentali e dall'altra dalla spontaneit dell'intelletto negl'imprescindibili momenti universali (categorie) della necessaria unit di coscienza, i quali per la loro stessa natura giudicativa e cio puramente formale ripetono il loro contenuto dal fenomenico mondo intuito col senso. Questa conoscenza umana dunque incapace di creare s e quindi determinata nei suoi atti fondamentali, e incapace quindi come di creare s come potere conoscitivo, cos di

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dare a questo un suo proprio contenuto; ma pur sempre agente nei suoi atti fondamentali e cio attivamente unificatrice. questa la coscienza in generale di K., questa unit unificatrice di coscienza, che costituisce l'oggettivit del conoscere. cos da K. spiegata l'esperienza con le sue due facce di fenomenicit soggettiva e necessit costrittiva del soggetto: ha cos K. trovato il diritto (quid iuris) che i concetti intellettivi puri hanno alla conoscenza oggettiva: li ha dedotti. L'analitica trascendentale: 2. Il problema del giudizio sintetico puro (schematismo). Ma "come mai possibile la sussunzione delle intuizioni empiriche sotto i concetti puri", dai quali esse sono affatto eterogenee? A questa domanda K. risponde con la dottrina trascendentale del giudizio che costituisce tutta l'analitica dei princip. "Ci deve essere egli dice, una terza cosa che deve da un lato essere omogenea con le categorie e dall'altro col fenomeno, e che rende possibile l'applicazione di quelle a questo". lo schema trascendentale: anch'esso puro, perch il vero fondamento dell'esperienza, se vero che questa, come vedemmo, condizionata proprio dalla sinteticit dei concetti puri, senza la quale l'esperienza, ridotta al puro senso, mancherebbe di ogni oggettivit. Lo schema un prodotto dell'immaginazione, ma non per questo un'immagine. Se tale fosse, non avrebbe pi l'aspetto concettuale, non sarebbe pi schema. "Schema di un concetto invece la rappresentazione di un processo universale con cui l'immaginazione procura a detto concetto la sua immagine". Perci ci sono schemi di tutti i concetti puri. Per tutti quelli di quantit schema il numero, per la qualit invece il grado come passaggio dalla realt alla negazione; per la categoria di relazione schemi sono rispettivamente il sostrato, la successione e la contemporaneit; per la modalit un qualche tempo, un determinato tempo, ogni tempo. "Le categorie senza schemi sono soltanto funzioni dell'intelletto per concetti, ma non rappresentano un oggetto. Questa significazione oggettiva viene loro dalla sensibilit, che realizza l'intelletto pur restringendolo". Questi schemi costituiscono dunque "la condizione sensibile sotto la quale soltanto i concetti intellettivi puri possono essere adoperati". "Cos scaturiscono dai concetti intellettivi puri dei giudiz sintetici che stanno a fondamento di tutte le altre conoscenze a priori". Principio supremo ne resta sempre l'unit sintetica appercettiva che rende possibile concretizzare nella forma del senso interno (il tempo) la sinteticit intellettiva dei concetti puri. Donde l'affermazione kantiana che "la possibilit dell'esperienza ci che d realt oggettiva a tutte le nostre conoscenze a priori". Il tempo quindi il nesso intimo del senso con l'intelletto: l'eternit del mondo intelligibile vive concretamente nel senso. Si ha cos, in conformit degli schemi corrispondenti ai titoli e momenti del giudizio, la "tavola fisiologica pura dei princip universali della scienza della natura" e cio: 1. per il numero, gli assiomi dell'intuizione (principio: "tutte le intuizioni sono quantit estensive"); 2. per il grado, le anticipazioni della percezione (principio: "in tutti i fenomeni il reale, che oggetto della sensazione, ha una quantit intensiva cio un grado"). Assiomi e anticipazioni

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sono princip matematici o costitutivi. Laddove dinamici o regolativi sono i princip dei due titoli seguenti: 3. le analogie dell'esperienza (principio: "l'esperienza possibile soltanto mediante la rappresentazione di un nesso necessario delle percezioni"), che sono, per il sostrato, l'analogia della permanenza della sostanza; per la successione, quella della serie temporale secondo la legge causale, e finalmente, per la contemporaneit, quella della reciprocit o comunanza; 4. i postulati del pensiero empirico in generale, che, secondo i suaccennati schemi del tempo, si determinano in possibilit (accordo con le condizioni formali dell'esperienza), realt (nesso con le condizioni materiali dell'esperienza), necessit (nesso col reale secondo le condizioni universali dell'esperienza). Al postulato della realt K. fa seguire, nella 2 edizione (1787), un'appassionata confutazione dell'idealismo inteso come dubbio (Cartesio) o negazione (Berkeley) delle cose fuori di noi. Per, se anche a K. riesce di confutare Cartesio e Berkeley, non pu riuscirgli la dimostrazione del realismo: avendo ridotto lo spazio a forma del fenomeno, ogni esteriorit sar fenomenica. Quindi la confusione, in cui K. cade, del "fuori di noi" con l'"in s": ammessa l'identificazione, soltanto il fuori di noi sarebbe in s. Il ricorso all'in s come causa attiva della nostra ricettivit sensitiva non lo dimostra fuori di noi, se non si toglie anche la fenomenicit dello spazio, non essendovi reciproca esteriorit senza spazio. L'analitica dei princip chiusa con un interessante capitolo sulla "distinzione di tutti gli oggetti in generale in fenomeni e noumeni"; nel quale si dimostra che ogni applicazione delle categorie alle cose in s vana e impossibile, giacch il contenuto della conoscenza non pu essere dato che dall'intuizione del senso. Il che per non toglie che si debbano pensare le cose in loro stesse, incapaci di divenire oggetto conosciuto. Tali cose debbono essere pensate (noumeni), perch limitino le pretese della sensibilit, e non ci facciano scambiare il fenomeno con l'essere in s. Con questo valore K. dice il concetto di noumeno concetto limite e lo dichiara valido e non contraddittorio: concetto limite, dunque, solo perch limita la pretesa del senso. La dialettica trascendentale: 1. Il problema dell'illusione metafisica. All'analitica, come seconda parte della logica, segue ma le si contrappone la dialettica trascendentale, il cui oggetto trascendentale la ragione pura come il senso era l'oggetto dell'estetica e l'intelletto dell'analitica. Intelletto e ragione costituiscono entrambi l'umano logo, e fanno perci entrambi parte della logica distanziandosi dal senso per la loro omogeneit fra loro ed eterogeneit dal senso. Tuttavia l'intelletto puro pu, sotto un certo aspetto, dirsi pi saldamente legato al senso che alla ragione pura. La ragione pura la facolt dei princip, laddove l'intelletto si limita ad essere facolt delle regole. Questo legifera o meglio attua la sua legge, e perci con la sua spontaneit, nel campo del senso. quindi puramente discorsivo: non conosce conclusione assoluta: il campo empirico apre sempre nuovi orizzonti all'attuazione della sua legge. La ragione invece, se nel suo uso logico non fa che discorrere col concreto intelletto, nel suo uso puro, non potendo

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contentarsi di questo infinito discorrere senza un'assoluta conclusione, essa che la facolt del concludere, balza di botto dalla legge discorsiva dell'intelletto, di cui deve essere semplice seguace per avere un contenuto concreto, all'assolutezza della legge che essa crede di trarre dalla propria assoluta intimit: facolt dell'assoluto in quanto facolt del principio, pone l'assoluto salendo dalla catena delle cognizioni all'incondizionato. Si libera dall'intelletto puro, mentre in verit se ne fatta la schiava, in quanto non ha fatto altro che sostantivare la forma intellettiva: si impossessata del regno dell'intelletto, ma spoglio di sostentamento. Ecco perch la logica della ragione nel suo uso puro, dialettica, cio logica dell'apparenza (Schein, non Erscheinung), cio non la logica che d la legge a cui deve sottostare il fenomeno (realt sentita), ma logica che appare come tale ma non , e perci illusoria. La dialettica dunque illusione, non realt logica. Di questa illusione che ha la sua buona ragione d'essere e perci ineliminabile dalla mente umana ed ha in essa la sua realt, K. d conto in questa che abbiamo detta la seconda parte fondamentale del grandioso edificio kantiano. E secondo la valutazione che si fa del kantismo ciascuna delle due parti della logica si contende il primato. Sull'analitica fondato l'indirizzo positivo scientificista del criticismo; sulla dialettica quello idealista-metafisico. In Kant, come vedremo, le due tendenze sono fuse nello sforzo della conquista critica: si scindono nel successivo adagiarsi su questa critica. E come l'analitica era analitica dei concetti e dei princip, cos anche la dialettica dialettica dei concetti della ragione pura, cio delle idee, e dei suoi raziocin. Anche per questa divisione per si deve ripetere quanto si detto per quella dell'analitica: il raziocinio non qualcosa che sopraggiunge e si aggiunge all'idea. Questa non il presupposto di quello, n viceversa: l'idea nasce nel raziocinio e il raziocinio nell'idea, come la categoria nel giudizio e il giudizio nella categoria. E l'idea in s non che il concetto intellettivo raziocinato: il concetto intellettivo dunque il precedente logico dell'idea. Spogliata della sua dialettica ogni idea pura della ragione si manifesta schietto concetto intellettivo puro. Non cos certo pu dirsi del concetto intellettivo puro, che, se ha bisogno di uno schema per darsi un corpo sensibile, non ha certo alcun precedente logico nel mondo dei sensi: la categoria quindi qualcosa di assolutamente nuovo ed eterogeneo di fronte all'intuizione: tale non invece l'idea di fronte al concetto puro. Di nuovo non c', in tal passaggio dall'intelletto alla ragione, che questa esigenza dell'assoluta costituzione della ragione: la quale perci ha tutti i motivi di dirsi l'assoluto conoscere, anche se, riflettendo su s stessa, scopre l'illusoriet della determinazione data all'assoluto. Le idee pure della ragione sono tre nella loro sistematicit, in quanto si sale all'incondizionato o nel riferire le nostre rappresentazioni al soggetto e si ha l'idea pura di anima, o nel riferirle agli oggetti o come fenomeni, e si ha l'idea pura di mondo, o come termini del pensiero in generale e si ha l'idea pura di Dio. Or di queste tre idee non c' possibilit di deduzione oggettiva: pu bens e deve tentarsi la deduzione soggettiva, ed questa appunto che K. si propone di fare nella dialettica dei raziocin

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(2 libro della Dialettica). Come tre le idee, tre sono i raziocin dialettici: paralogismo trascendentale; antinomia della ragion pura; ideale della ragion pura. Sono, questi, raziocin puri cio raziocin in cui la ragione non si limita al suo uso logico, ma si d proprio come ragion pura un contenuto. Non sono dunque sofismi, pur essendo illusor: se ne pu quindi scoprire l'illusoriet come raziocin sostantivi, ma non li si corregger mai perch errore non contengono. Scoprirne l'illusione non abolirli: trarre esplicitamente da loro il vantaggio che trarre se ne deve. E tale vantaggio sta nella scoperta della cosa in s non raggiunta come conoscenza in queste idee, ma affermata come assoluta esigenza, senza la quale svanisce il mondo dello spirito e quello della realt tutta. La dialettica: 2. Il problema dell'anima (paralogismo). - Perch un paralogismo quel sillogismo categorico da cui risulta l'idea dell'anima? Si premetta che la deduzione di ciascuna idea triplice: deriva dal riferimento della ragione () al soggetto o all'oggetto, dalla diversa forma () di sillogismo ciascuna delle quali nel suo uso puro incarna un'idea, e finalmente dall'elevazione ad assoluto che la ragione in questo suo raziocinare fa di () uno dei tre momenti della relazione giudicativa. L'anima quindi riferimento delle rappresentazioni () al soggetto () nel sillogismo categorico come espressione assoluta () della categoria di sostanza. Giacch per K. dire anima dire anima immortale e dire sostanza dire permanenza. un paralogismo affermare la sostanzialit e quindi l'immortalit dell'anima, perch la sostanza risulta a noi soltanto come categoria, come rapporto di inerenza. Il sostanziale come tale non risulta; perch risultasse dovrebbe la conoscenza essere conoscenza di cose in s. Un semplice equivoco d origine alla psicologia razionale: l'unit della coscienza, che sta a fondamento delle categorie, presa qui per intuizione del soggetto come oggetto, ed a questa applicata la categoria di sostanza". La dialettica: 3. Il problema del mondo (le antinomie). - Il mondo invece riferimento delle rappresentazioni () all'oggetto fenomenico () nel sillogismo ipotetico come espressione assoluta della categoria () di causa. , pi che un'idea, un "sistema di idee cosmologiche": il mondo totalit assoluta che si presenta, secondo i quattro titoli delle categorie, come totalit assoluta della composizione (quantit), delle divisioni (qualit), dell'origine (relazione) e della dipendenza (modalit). Ora la ragione pura in ognuna di queste idee necessariamente non tetica, come presentata in tutte le dottrine dogmatiche, ma antitetica. Cio la ragione, quando determina ciascuna di esse, cade in ineliminabili antinomie, potendo e dovendo per ciascuna idea cosmologica dimostrare proposizioni del tutto antitetiche tra loro. Il mondo infatti, essa dimostra, per la sua composizione ha un cominciamento nel tempo e limiti nello spazio, giacch altrimenti sarebbe un inammissibile infinito in atto; eppure deve essere infinito cio non avere cominciamento e limiti, giacch altrimenti il mondo avrebbe rapporto con un vuoto temporale e spaziale, cio rapporto col nulla. E cos, per la divisione, inconcepibile il mondo se non ridotto ad elementi semplici, laddove non

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v' esperienza possibile che del composto, cio non ammissibile semplicit. Per l'origine, deve ammettersi una origine libera del mondo, giacch l'elevazione della causalit determinata in leggi ad assoluto prius originario in s stessa contraddittoria; eppure tutto nel mondo accade secondo determinazione causale, non v'ha adunque libert. Per la dipendenza, il mondo richiede un essere necessario, dal quale cominci la serie di cose e di eventi in cui esso si risolve, richiede un condizionante incondizionato; eppure contraddittorio un essere assolutamente necessario, che cio sia senza essere effetto condizionato. Sono queste le famose antinomie in cui K. vede continuamente dibattersi il pensiero dogmatico dando cos origine alla negazione scettica. Di esse solo il pensiero critico, col suo idealismo trascendentale, pu e deve dare una soluzione, giacch "nella filosofia trascendentale solo alle questioni cosmologiche si pu esigere a ragione una risposta sufficiente". Pare cos che per K. la dialetticit della ragione nell'idea del mondo sia eliminabile, giacch eliminabile l'antinomia che la costituisce. Questa infatti si fonda su un equivoco per le prime due antinomie, le matematiche; su una mancata distinzione per le altre due, le dinamiche. La matematica richiede omogeneit e non si pu un problema matematico impostare per due entit eterogenee. Ora nelle antinomie matematiche si suppone il mondo spaziale e temporale come cosa in s, per la quale soltanto si pu domandare se sia finita o infinita, semplice o composta: per quel fenoVeno, invece, che il mondo sentito, tal domanda non significa nulla, e le due risposte, perci, sono entrambe false. Non sono esse che si contraddicono, ma il concetto che presuppongono, il mondo fenomenico, come in s. Nell'elevazione invece delle categorie dinamiche di relazione e modalit all'assolutezza l'omogeneit non pi necessaria. Si pu e si deve quindi distinguere tra il mondo fenomenico e quello in s: l'una proposizione (causalit, contingenza) vale per l'uno; l'altra (libert, necessit) vale per l'altro. Le due proposizioni non sono pi antinomiche, perch non regolano lo stesso mondo. La dialettica: 4. Il problema di Dio (l'Ideale). - Dio, finalmente, riferimento delle rappresentazioni () all'oggetto, in quanto termine del pensiero, nel sillogismo () disgiuntivo, come espressione assoluta della categoria () di comunanza o reciprocit. Il concetto di Dio resta, per K. critico, quello che gi era per K. precritico; "l'idea dell'insieme di ogni possibilit", idea che diviene concetto di un oggetto singolo e quindi ideale della ragion pura; ideale, che, pur essendo pi dell'idea lontano dalla realt oggettiva, pretende per s questa realt oggettiva "non semplicemente in concreto ma in individuo, cio come una cosa particolare determinabile o addirittura determinata dall'idea". Questa determinazione di una concreta realt individua dalla stessa idea individuata il raziocinio dialettico, che si dice ideale della ragion pura, e che K. scopre e giustifica come processo per cui nasce l'idea di Dio, ma di cui mette in evidenza l'incapacit a dimostrare ci che nel suo assunto: l'esistenza di questo Essere dagli esseri determinato con questa somma unitaria del possibile del pensiero.

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l'aperta ritrattazione dell'unico argomento che egli aveva offerto (1763) per la dimostrazione dell'esistenza di Dio. Non gli restava che ripetere la confutazione che degli altri tre argomenti tradizionali egli aveva gi data sin dal '63. N fu molto pi profondo in tale confutazione. noto, per la confutazione della prova ontologica, l'esempio della idea dei cento talleri, dalla quale sola vano e assurdo risalire alla loro effettiva esistenza. L'argomento sempre quello: l'esistenza non importa alcunch nel concetto di un ente e quindi pu anche il miscredente aver l'idea dell'ente sommo e realissimo della quale l'esistenza non fa parte neppure per il credente: aggiungergliela uscire dall'idea per passare alla realt, non arricchire l'idea, che resta sempre la stessa, sia che il suo oggetto esista sia che no. L'argomento fisico teleologico perde anche quel che di immanentistico aveva conseguito nell'operetta del '63, e resta, se mai, valido a dimostrare un Dio ordinatore, non un Dio creatore. L'argomento cosmologico per K. non ha mai provato gran che; una ignoratio elenchi, in quanto non sa che la sostanza del suo argomentare tutta ontologica; provata la fallacia di questa, esso resta senz'altro privo d'ogni valore. L'ideale dunque raggiungibile e da raggiungersi dal pensiero, ma dal pensiero come tale senza pretesa di affermare una realt esistente che ad esso non potrebbe essere data che dal senso. "Esso non ha da fornire altra garanzia della propria realt che l'esigenza della ragione di compiere, per mezzo di esso, tutta l'unit sintetica". Alla dogmatica adeguatezza delle idee affermata da Cartesio e Spinoza, K. dunque contrappone "l'impossibilit che possa mai darsi esperienza che sia adeguata all'idea". E l'idea per eccellenza questa sublime idea dell'assoluto incondizionato Essere originario necessario ed onnisufficiente. Se di tale idea l'adeguatezza cerchiamo nella sua reale sinteticit, non faremo che demolire l'idea, annullarne il valore. "L'Essere supremo resta dunque un ideale cui nulla manca, un concetto che chiude e corona l'integrit della conoscenza umana". La dialettica: 5. Il valore oggettivo dell'idea. - S'intende, quindi, il valore regolativo e non costitutivo di ogni idea trascendentale e, prima fra tutte, di questa idea di Dio: valore regolativo che pone l'idea al di l di ogni esigenza di empirica dimostrazione. Della dialettica naturale della ragione umana adunque la critica intende ed addita il valore profondo, lo scopo finale: solo l'inconsideratezza dogmatica d alle idee pure della ragione un valore realistico. Tal valore queste non hanno, in quanto "la ragione pura non s'occupa che di s... e l'unit razionale unit sistematica... che serve a farla spaziare al di l di ogni empirica conoscenza possibile degli oggetti". Tutto che intellettivo, costituendo la conoscenza, trover la sua conferma nell'esperienza: non la si cerchi per tutto ci che puramente razionale e cio esigenza dell'assolutezza di coscienza nel puro pensiero al di l di ogni conoscenza. dunque fondamentale per K. la distinzione tra pensare e conoscere: pensare l'intima forma vitale di ogni conoscere; ridurlo al conoscere non elevare il conoscere, sopprimere anche questo insieme al pensare. L'oggetto puro dunque pensato, non conosciuto: e perci nella

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conoscenza esso assume il valore di principio regolativo. Ed questo il compito della ragione per K.: mostrare con la propria esigenza di assolutezza che l'oggettivit non si esaurisce nei determinati oggetti che l'intelletto costituisce o scopre soltanto nel campo del fenomenico sentito nello spazio e vissuto nel tempo. S'intende cos e si spiega la distinzione da una parte e l'identificazione dall'altra del noumeno con la cosa in s: l'uno, espressione pura di pensiero del soggetto, accenna all'altra con una oggettivit vaga ("il principio della unit sistematica della ragione anche oggettivo, ma in modo indeterminato, principium vagum") che la promotrice dell'indefinito progresso del conoscere sperimentale dell'intelletto. L'altra, la cosa in s, espressione pura di realt dell'oggetto, pur esigenza del pensiero: senza questa esigenza il conoscere umano si disperderebbe in un'inconcludente relativit; senza contenuto, non sarebbe conoscere. La dottrina trascendentale del metodo. - Questa, coronando l'edificio kantiano, vuole anche mettere in evidenza i motivi architettonici fondamentali della critica come costruzione sistematica, in quanto vuol essere "la determinazione delle condizioni formali di un sistema completo della ragione pura". Anche se questa determinazione K. veramente non raggiunge, in ciascuno dei quattro capitoli che la compongono c' pur sempre un rilevante motivo critico. Nel primo (La disciplina della ragion pura), determinato il procedere della filosofia di fronte al procedere matematico, ed escluso dalla ragion pura come tale un uso sia dogmatico sia polemico, si dimostra per anche l'impossibilit di un appagamento scettico della ragione, la quale quindi non trova la sua soddisfazione che nella critica, con la quale, commisurando s stessa e i suoi poteri, determina natura e limiti del conoscere, e dichiara quindi negativa "la grandissima eppure unica utilit di ogni filosofia della ragion pura... il merito silenzioso di impedire gli errori". Il secondo (Il canone della ragion pura), che certamente il pi importante di tale metodica, apre decisamente un nuovo campo positivo alla ragion pura che si deve, nel campo della conoscenza, contentare di un'utilit negativa. Quei noumeni che la ragion pura deve, nel campo conoscitivo, limitarsi ad affermare senza conoscere, dnno invece alla ragione il suo ineliminabile uso volitivo. Cos K., mentre non vuole che fissare un metodo per ricostruire in sistema la sviluppata dottrina critica della conoscenza, apre a quella ragione, che egli ha trovato al vertice e al limite della conoscenza, un nuovo campo. Nuovo campo sul quale ancora la critica eserciter il suo esame, dar il suo giudizio. la volont morale lo scopo ultimo dell'uso puro della nostra ragione. Se non fossimo volitivi oltre che conoscitivi, se non dovessimo agire secondo gli assoluti valori dell'essere, non ci sarebbe stato bisogno che noi fossimo ragionevoli: la nostra conoscenza sarebbe stata falsa, non oggettiva, ma poteva anche esaurirsi nel mondo fenomenico in cui attua sua legge l'intelletto. Quindi "il fine ultimo della ragion pura nell'ideale del sommo bene". Questo motivo pu dirsi la nota conclusiva della Critica della ragion pura. Gli ultimi due capitoli della metodica (Architettonica della ragion pura, Storia della ragion pura), nei loro motivi validi e vitali non fanno che confermarlo: il primo apre

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esplicitamente il varco, nell'architettonica filosofica, alla morale come metafisica della libert; il secondo riconferma in genere, che, dopo il dogmatismo e il conseguente scetticismo, soltanto la via critica ancora aperta alla ragion pura. I Prolegomeni. - Pur a questo stesso periodo di schietta manifestazione della critica come critica appartengono ancora i Prolegomena zu einer jeden knftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten knnen (1783), che volevano insieme rappresentare una divulgazione pi schematica e pi semplice di tutta la dottrina trascendentale sviluppata nella Critica e la difesa dell'idealismo trascendentale in essa sostenuto contro l'incomprensione e la falsificazione fattane in una recensione apparsa mentre K. attendeva a tale opera divulgativa. L'idealismo trascendentale chiarito come sostanziale realismo. Motivo questo, sul quale K. insister poi anche nella seconda edizione della Critica (1787): l'idealismo trascendentale non riduce, come fa Berkeley, la cosa a rappresentazioni, n, come fa Cartesio, ne pone in dubbio l'accertamento. Nei Prolegomeni il filo logico conduttore della Critica messo in chiara luce; ma appunto perci forse risulta pi evidente la mancata risposta all'ultimo dei seguenti quattro quesiti che K. chiaramente formula come contenuto e della Critica e di questi Prolegomeni: la possibilit 1) della matematica, 2) della fisica pura, 3) della metafisica in generale, 4) della metafisica come scienza. Criticismo metafisico. - Dopo i Prolegomeni K. per un paio d'anni pubblic solo qualche recensione (notevole quella sulla Filosofia della storia dell'umanit di Herder) e articoli d'indole antropologica o scientifica. Abbiamo visto che motivo conclusivo della Critica della ragion pura l'ideale del sommo bene. Quell'ideale che Dio, gi nella Metodica di detta Critica, comincia a non essere pi schiettamente dialettico. Appurare questa cessazione, inaugurare questo nuovo valore dell'ideale, deve per sempre la ragione con una nuova critica di s stessa: di s nel suo uso pratico. Ecco aperta la via a quella che sar la Critica della ragion pratica ed ecco insieme spostarsi l'asse ideale della speculazione kantiana. Quella critica della ragion pura che pareva non potesse essere che unica, gi nel voler sistemare quella limitazione della conoscenza cui si era messo capo, si duplica, diventa critica della ragion pura conoscitiva da una parte nella gi fissata delimitazione, della ragion pura pratica dall'altra nel nuovo campo che oltre questa delimitazione si apre. La critica non pi la schietta critica che indaga la possibilit della metafisica come assoluta scienza; questa indagine ci ha posti dinnanzi al problema morale che esige una soluzione anch'esso, anzi esso prima di ogni altro e al di l di ogni possibilit o meno di metafisica, anzi come il preambolo all'esame di tale possihilit. Questo periodo, in cui la Critica non pi quella filosofia trascendentale che pone oggetto del conoscere il conoscere stesso per vederne la possibilit, ma trae le prime conclusioni da questa gi riconosciuta ed esplicata possibilit, si potrebbe dire periodo del criticismo metafisico (1785-1790).

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Fondamento della moralit: il problema dell'imperativo. - Primo scritto, col quale si pu far cominciare questo momento critico-metafisico del pensiero kantiano la Grundlegung zur Metaphysik der Sitten (1785). La moralit ha il suo principio a priori nella ragion pura, e perci l'agire morale non ha bisogno n, da una parte, di scienza che esplichi quel principio nella conoscenza, n, dall'altra, di esperienza morale dalla quale esso debba essere dedotto. Il concetto del dovere tal principio di moralit, e quindi il costitutivo di quella volont buona che nell'agire morale si realizza. Il dovere dunque forma del volere razionale: chiunque pu razionalmente volere, pu anche e quindi deve volere eticamente. Per, accanto a questa forma pura del volere razionale, c' una forma volitiva che pu dirsi pi concreta, quella della prudenza, la quale, pur portando nell'azione l'universalit e necessit formale della ragione, trae il contenuto dell'azione che essa determina, dall'inclinazione del sentimento e e perci da oggetti fenomenici, cadendo cos, con tutta la razionalit del proprio agire, in una condotta patologica che non procura merito. Quindi, di fronte a questa possibilit di una motivazione patologica della volont, il trasformarsi della forma doverosa dell'agire in legge imperativa, e il distinguersi di tal imperativo, che veramente ed assolutamente tale, imperativo categorico (necessit) da quello che tale solo a certe condizioni imperativo ipotetico, che pu a sua volta essere o soltanto problematico (possibilit) o assertorio (realt). Di questi ultimi pseudo-imperativi la volont morale come tale non sa che farsi, se anche la volont in concreto deve utilizzarli. Il categorico il solo imperativo morale e non ammette quindi n condizioni, n limitazioni, n incapacit. Nella sua purezza questo imperativo morale ineffabile: la stessa ragione nella praticit doverosa: quel che sia in genere e quel che in ispecie imponga, ciascuno sa. Pur dal carattere fondamentale della ragione (assoluta universalit e necessit) pu trarsi una sua determinazione che si presenta triplice, ma si fonde, infine, nell'ineffabile unit del dovere. Ed ecco le tre famose formule dell'imperativo categorico: 1) agisci come se la massima della tua azione debba diventare per la tua volont legge universale; 2) agisci in modo da trattare l'umanit, tanto nella tua come nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come fine, giammai soltanto come mezzo; 3) la volont di ogni essere ragionevole sia considerata come volont che istituisce una legislazione universale. Universalit, finalit, autonomia ecco dunque i caratteri che l'imperativo categorico richiede nella volont buona, e che si riassumono tutti in questo ultimo, autonomia della volont, che esclude quindi ogni eteronomia. Quest'ultima rende sempre la volont patologicamente agente e cio sospinta o tratta nelle sue azioni, e quindi non libera, e cio veramente non agente, giacch attivit libert e cos reciprocamente. Ogni sistema di morale, sia edonistico sia religioso, che rinneghi alla volont questa capacit di darsi la legge, secondo K., rinnega la morale, perch rinnega la libert. La metafisica della natura. - Alla fondazione della metafisica dei costumi K. non fa seguire la stessa metafisica dei costumi. Pubblica invece (1786) i Metaphysische

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Anfangsgrnde der Naturwssenschaft, che vogliono essere la metafisica della natura, e non sono che quella fisica pura che egli riteneva si potesse e si dovesse costruire a priori come la matematica. Critica della ragion pratica: l'agire morale e i suoi postulati. - Non era per la scienza della natura quella che urgeva all'anima di K., e perci, dopo alcuni scritti di secondaria importanza (notevole quello ber den Gebrauch teleologischer Prinzipien in der Philosophie, 1788) egli torna in pieno al problema morale, ma non ancora per costruire sulle gi poste fondazioni la metafisica dei costumi, bens per ripresentarlo come problema critico, cio per guardare anche di tal problema, come di quello conoscitivo, il se e il come della possibilit di una soluzione, prima di presentarla. Nella fondazione abbiamo visto la ragione legiferante come volont nella spiritualit umana. Ma siamo autorizzati a questa soluzione del problema morale, o non essa per avventura simile a quella soluzione che del problema conoscitivo dava, prima della critica, la metafisica dogmatica? Quindi, prima di ogni sviluppo metafisico della moralit, la necessit di vedere la ragion pura nel suo uso pratico, per esaminare se essa pu, in tal uso, veramente rompere quei limiti che le precludono la conoscenza, e la rendono, in questa, mancipia dell'intelletto. Costruire una metafisica della natura K. ha gi potuto, perch questa non supera nei limiti: la natura di cui si fa la metafisica sempre ancora quella natura intellettualmente conosciuta e quindi non superante la legalit del fenomeno. Non pu essere tale quella libert che il principio della moralit. S'investe in pieno cos quel problema della metafisica come scienza dell'essere in s, che era rimasto senza risposta nei Prolegomeni. Nasce cos la seconda critica: La Kritik der praktischen Vernunft (1788), che conserva l'architettura della prima critica sopprimendo per l'estetica e invertendo l'ordine dell'analitica (la trattazione dei princip prima, quella dei concetti dopo). E tutta l'analitica dei princip sta nella dimostrazione (che giustifica tale inversione), che per la praticit della ragione non solo non necessario che siano presupposti oggetti determinanti l'azione, ma invece necessario che non siano presupposti: si sarebbe infatti nell'inferiore forma del desiderare e non nella volont razionale (1 e 2 teorema). Solo escludendo questi oggetti determinanti, l'essere ragionevole pu pensare le sue massime come leggi pratiche, il che necessario per la razionalit pura del volere: la determinazione del volere cio deve essere puramente formale (teorema 3). Questa forma e solo questa deve essere l'assoluto prius, al contrario di quanto avviene nella conoscenza: questa, perch sia giudizio e quindi concetto, ha bisogno di un'intuizione, e quindi presuppone l'oggetto, e perci non mai puramente razionale; l'azione morale invece deve essere assolutamente razionale, non deve quindi presupporre l'oggetto. Questa determinazione formale per non si esaurisce nell'aspetto negativo per il quale ci dice soltanto che l'atto morale non pu essere determinato dall'oggetto sentito o conosciuto, ma positiva come libert dell'atto morale, cio come capacit che la volont agente ha di determinarsi da s non in quanto avente una determinata natura

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(che in tal caso sarebbe la vera determinante), ma in quanto puramente e semplicemente capace di agire, cio volont pura. Il principio quindi quello che noi gi conosciamo come prima formula dell'imperativo categorico, e in questo K. esplicitamente riconosce come carattere distintivo l'autonomia. Esclusione, adunque, di ogni oggetto presupposto, priorit del principio, formalit del motivo determinante, libert dell'azione morale, autonomia della volont sono lo sviluppo di uno stesso motivo: la praticit della ragione nella sua assolutezza. La ragione cos viene a riconoscere a s stessa, nella sua assolutezza razionale, quel carattere di libert, che, in contrapposto alla causalit fenomenica, K., risolvendo le antinomie, ci aveva gi detto che pu e deve essere di quelle cose in s che ci risulta impossibile conoscere. E riconosce in s stessa tal carattere, perch si riconosce pratica, cio principio primo di azione e come tale quindi in s. Questo riconoscimento della praticit della ragione assolutamente originario; non si va al di l di esso: l'essere ragionevole agisce anche come ragionevole. Questa l'unica deduzione (giustificazione oggettiva) possibile del principio: voler andare al di l di essa e voler spiegare il come di questo agire libero dell'essere ragionevole, voler conoscere quest'essere ragionevole e quindi portarlo in quel meccanismo categorico intellettivo che non pi libert ma necessit. Fermarsi a quella deduzione pratica e non conoscitiva del principio morale giustificare quel passaggio dal sensibile al soprasensibile, dal risolversi di questo in concreta conoscenza. L'attivit spirituale nella sua caratteristica etica soddisfa invece tale esigenza e cos non annulla ma completa la soluzione, che, del problema spirituale della coscienza, la conoscenza comincia soltanto a dare. Conosciamo la natura in quanto sensibilmente in essa viviamo, realizziamo il mondo soprasensibile in quanto la soprasensibile ragione che ci costituisce, si fa pratica, agisce come tale. Lo scetticismo comincia ad essere superato nella conoscenza; definitivamente disfatto nella moralit. Pare adunque, a stare all'analitica dei princip, che del volere morale non debba esserci un oggetto. il problema che K. si propone di esaminare nell'analitica dei concetti, la quale un'oggettivit presuppone. Perci egli l'intitola: "Del concetto di un oggetto della ragion pura pratica". Il problema profondo e pu andare molto al di l dell'impostazione e soluzione datagli da K., che questa: Si deve distinguere il bene dal gradevole, il male dal dannoso. L'oggetto che si esclude e come presupposto e come conseguente dell'azione morale, il gradevole, non il bene. Questo, come oggetto del volere, deve esserci. Soltanto ci troviamo di fronte "al paradosso del metodo di una critica della ragion pratica; che cio il concetto del bene e del male non dev'essere determinato prima della legge morale (a cui in apparenza dovrebbe esser posto persino a fondamento), ma soltanto (come qui anche avviene) dopo e mediante essa". La piena soluzione del paradosso si avr, vedremo, nella dialettica. Il paradosso nasce dalla duplice natura umana: sensitiva e razionale cio soprasensibile. Il bene secondo K. oggettivo; ma non pu nella sua oggettivit porsi come motivo determinante della

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volont, perch in tale oggettivit non e non pu essere conosciuto dall'uomo. Chi conosca il bene come tale, non soggetto a moralit: il bene, per lui, puramente e semplicemente ; per l'uomo invece deve essere. Presupponete come conoscitivamente concettuale l'oggettivo bene, presupponetelo al dover essere che il principio dell'azione morale, e avrete tolto questo dover essere, avrete tolta la moralit. V'ha dunque l'oggettivit del bene, e in questa sublime costrizione che il dovere, l'uomo la sente. La sente nel sentimento morale, che il sentimento di rispetto per la legge, un sentimento che ben pu dirsi razionale in quanto non patologico, cio determinato, attraverso l'intuizione, dagli oggetti empirici cui si riferisce, ma prodotto praticamente cio lo stesso soggettivarsi della legge. Sentimento di rispetto, del quale la volont morale non pu fare a meno, perch non pu fare a meno di un movente, ed esso sentimento " l'unico e nello stesso tempo indubitato movente morale". Il rispetto pu dirsi quindi l'analogo dello schema nel campo della volont; in esso la legge acquista la sua capacit attiva, come nello schema la categoria acquista la sua capacit giudicatrice. La dialettica nella critica della ragion pratica non pu pi essere quale era nella critica della conoscenza: non si infatti a una praticit spirituale dell'apparenza; la ragione, nella sua praticit, assoluta. E perci nella dialettica pratica K. non fa che risolvere quel paradosso cui sopra si accennato. Ed ecco come: Nell'assolutezza della ragione il bene non pu non presentarsi come sommo bene, che, come tale, ricomprende in s, sotto forma di felicit, quel gradevole, che nell'analitica si era tenuto separato dal buono, e supera lo schietto formalismo morale ridando alla ragione pratica la sua oggettivit. E perch questa sia possibile, bisogna ammettere come postulati due proposizioni che non risultano alla volont morale con la sua libert: e tanto meno alla conoscenza razionale; l'esistenza di Dio e l'immortalit dell'anima. Senza quella infatti la felicit non pu far parte del sommo bene: l'essere in s non sarebbe preordinato ad un acquisto della felicit di cui si sia degni, non sarebbe sommo bene, se non ci fosse una mente creatrice di tale ordine. E cos senza l'immortalit dell'anima mancherebbe la condizione del conseguimento di tale felicit, il rendersene degno con una attivit virtuosa che non ha fine. Le tre idee della ragione (mondo in s, anima immortale, Dio esistente) che la conoscenza non riusciva a giustificare se non traendo la ragione in una logica illusoria, sono, a suo modo, dimostrate dalla spiritualit morale, la prima col suo stesso esserci come libert; le altre come condizioni imprescindibili del suo esserci. Quindi l'esplicita dichiarazione kantiana del primato della ragion pratica. La ragione ragione nella sua assolutezza, senza parvenze che la rendano illusoria e limiti che la rinneghino, soltanto nella sua praticit. Tutto questo primato egli esprime anche nella commozione della famosa apostrofe al dovere, nome santo e sublime.

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La critica del giudizio: il problema del conoscere nel sentire (bellezza e finalit). Neppure alla critica della ragion pratica segue la promessa metafisica della libert, ma tien dietro ancora una critica: la Kritik der Urteilskraft (1790). K. s'accorge - ce lo dice in un'ampia Introduzione dell'opera pubblicata soltanto in parte con l'opera e resa nota solo recentemente (1927) nella sua integrit - che siccome tre sono le facolt dello spirito umano: conoscenza, sentimento e desiderio, bisogna che quella che la facolt fondamentale, la conoscenza, si triplichi per soddisfare l'esigenza di ciascuna: diviene cos intelletto (Verstand) per soddisfare s stessa, facolt giudicante (Urteilskraft) per soddisfare il sentimento, ragione (Vernunft) per soddisfare il desiderio. Ora dell'intelletto stata fatta la critica nella Critica della ragion pura; della ragione, nella Critica della ragion pratica; resta da fare quella del giudizio. Ma questo terzo tronco della via critica non sfocia in una nuova metafisica oltre quella della natura (metafisica dell'intelletto) e quella della libert (metafisica della ragione). Giacch, oltre l'essere fenomenico e l'essere in s, non possibile altra forma di essere. La critica del giudizio dunque rimane e deve rimanere senza una corrispettiva metafisica, perch proprio dovr servire a raccordare le due critiche che menano alle due metafisiche e quindi a procurare la definitiva superiore unit, direttamente, della critica, indirettamente, della metafisica. Il giudizio, di cui s' vista, nella Critica della ragion pura, l'importante funzione conoscitiva, giudizio determinante; sussume il fenomeno naturale alle leggi dell'intelletto, e rimanendo quindi schiettamente chiuso nel conoscere, non soddisfa alcun'altra facolt dello spirito. Il giudizio riflettente invece, non presupponendo l'universalit formale del concetto e pur dovendo portare nella sua universalit il particolare, d a s stesso come legge il principio trascendentale che lo costituisce. quindi schietto giudizio e non soltanto giudizio intellettivo; giudizio del sentimento, che non presuppone concetti puri che siano sua forma. Il sentimento non ha oggetto n fenomenico n in s, schietta soggettivit; induce quindi questa sua forma nella conoscenza, che, soddisfacendone l'esigenza, diviene cos finalit pura. Questa quindi il principio trascendentale a priori del giudizio riflettente, che, accanto alla sintesi a priori conoscitiva dell'intelletto, accanto all'autonomia volitiva della ragione, prende posto nella concezione kantiana della spiritualit conoscitiva. Questo principio schiettamente soggettivo serve a mediare il conoscere col volere, la pura e semplice legalit intellettiva della natura fenomenica con la libert dell'essere in s raggiunto nella volont morale. Ma per arrivare a questa critica del giudizio teleologico, in cui la natura finalisticamente rivalutata e il giudizio ha un contenuto morale, K. ritiene che bisogna prima esaminare il giudizio finale per s stesso nella sua pura forma senza contenuto reale: questo il giudizio estetico cio il giudizio puro del sentimento. Ecco cos le due parti della Critica del giudizio: 1. Critica del giudizio estetico; 2. Critica del giudizio teleologico. L'intima unit che K. d a queste due parti fa intendere di leggieri che da una parte il giudizio estetico, sol perch puramente tale, non manca affatto di

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quella finalit che invece lo costituisce, e cos dall'altra il giudizio teleologico non per questo non estetico, essendo invece sempre sentimentale la sua natura. Cos K. ha agio di dare uno stesso principio di soluzione ai due problemi della bellezza, irriducibile nel suo valore universale all'interessato e momentaneo piacere del singolo, e della finalit, insoddisfatta dalle leggi causali in cui risoluto, anche se eventualmente senza residui, il fatto natura. E il principio di soluzione sta proprio in quel sentire, di cui invece che la natura intuitiva datagli o impostagli, diremo, dalla necessit di dare un contenuto alla conoscenza, si vede la natura sentimentale, cio schiettamente soggettiva; si vede, diremmo, l'essenza saputa del sentire, che nella sua affermazione si dice piacere, e nella sua negazione dolore. In ciascuna di queste due parti della Critica del giudizio, se quasi soppressa la metodologia, conservata la distinzione in analitica e dialettica, che, se gi nella Critica della ragion pratica non aveva pi la sua originaria ragion d'essere, tanto meno l'ha in questi due nuovi rami della Critica. Per questa nuova valutazione del sentire l'esteticit, senza perdere il valore che aveva nell'estetica trascendentale della Critica della ragion pura, assume anche il significato che l'uso comune del linguaggio le attribuisce di bellezza. Il giudizio estetico relativo al bello, proprio perch estetico cio schietto sentire. Giacch questo il bello per K. E quindi il bello piacere, ma non di un'esistenza la quale crea l'interesse (e il bello disinteressato); soggettivo e quindi esclude l'oggettivo concetto, ma pur universale (" ci che piace universalmente senza concetto"); sensazione pura, ma tale che in essa non si abbia la determinata intuizione di un oggetto ma si senta soltanto la sua conformit al fine; giudizio di gusto, ma richiede accordo universale in quanto riconosciuto "oggetto di un piacere necessario". La deduzione di questi giudiz estetici puri sta, in fondo, nella concezione finalistica del sentire puro, e nel "presupporre universalmente in ogni uomo quelle stesse condizioni soggettive del giudizio che troviamo in noi". E s'intende quindi perch K., dopo aver risoluta nella dialettica l'antinomia propria del giudizio estetico, pu concludere dicendo che "il bello simbolo del bene morale". Si ricordi il regno dei fini, che, secondo K., con l'agire morale si costituisce, lo si ravvicini all'essenza finalistica della esteticit, si veda il necessario non difettare d'intuizioni fenomeniche nel sentire concreto; e si avr quasi intuitiva la dimostrazione di tale affermazione. Questo necessario riempirsi esistenziale e finire in intuizioni del giudizio estetico fa s che noi possiamo guardare la natura nei suoi particolari oggetti in cui si determina, anche sotto questo aspetto finalistico ("attribuire al concetto di un oggetto una causalit rispetto all'oggetto stesso") senza per questo eliminare o svalutare la conoscenza concettuale di essa. Dalla constatazione della finalit intrinseca agli esseri organizzati "in cui tutto reciprocamente scopo e mezzo", facile salire all'"idea dell'intera natura come un sistema secondo le regole dei fini", e allora sar doveroso ammettere la Mente prima

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cui appartenga quel concetto che ha causalit rispetto al suo oggetto. Quindi la rivalutazione da una parte dell'argomento fisico-teleologico dell'esistenza di Dio, visto non pi soltanto nell'emendamento proposto da K. nel 1763, ma in pieno nella sua forma tradizionale che va al di l anche della necessit intrinseca all'essenza delle cose; e dall'altra della prova morale della necessit di un autore morale del mondo, senza il quale non avrebbe alcun valore quella finalit, che il soggetto, constatandola in s stesso nel giudizio estetico, porta nel suo agire morale. Quindi la necessit di quella fede pratica che sempre l'ultima parola di ogni investigazione kantiana, e che, se pareva, ma non era, debole nella prima critica, venuta poi mano mano svolgendosi fino a capolvogere il valore della Critica: pareva che questo dovesse consistere nella determinazione dei limiti della conoscenza, perch questa si volgesse a quei fenomeni entro i quali compiuta conoscenza poteva dirsi, svolgendosi unicamente tra essi, e invece si venuto a poco a poco chiarendo come la possibilit finalmente riconosciuta alla stessa umana coscienza di scoprire da s stessa e in s stessa ci che eternamente vale. Con la pubblicazione della Critica del giudizio, si chiude il secondo periodo costruttivo della mente kantiana (Critica e Criticismo metafisico), e si chiude insieme l'ininterrotto salire di un pensiero, che, non volendo avere presupposti, dinnanzi ad ognuno nuovo che ne scopre, sale pi alto o va pi profondo. E la Critica del giudizio una potente manifestazione della consapevolezza, che K. ha, che, nonostante tutta la spiegazione critica della scienza da una parte con le sue leggi, dell'azione umana dall'altra con la sua libert, l'esperienza con i suoi giudiz esistenziali e quindi la natura con i suoi fatti rimangono di l da quella spiegazione. E cos lo spregiato senso, che fenomenizza l'essere e si pone ostacolo alla libert, rivendica anch'esso la propria concretezza spirituale e diventa addirittura giudizio, il vero, l'unico fondamentale sintetico giudizio d'esperienza: quel giudizio sintetico d'esperienza, che K., al primo suo muoversi sulla via critica, escludeva da tale via, come non bisognoso da una parte, non capace dall'altra, di alcuna deduzione. La difesa contro il dogmatismo religioso e filosofico. - Dopo tale potentissimo sforzo finale della Critica, il quale poneva i germi di una totale rivalutazione di essa, il pensiero kantiano stanco, ma non per questo si adagia (adagiarsi a menti critiche impossibile), bens rivolge la sua mira a difendere le gi fatte conquiste contro la tradizione filosofica e religiosa. Questo atteggiamento polemico sembra costituire l'ultimo motivo dominante dell'attivit speculativa di Kant (1790-1803), nella sua produzione originale, che egli integrava da una parte con lavori di sistemazione scientifica e metafisica, dall'altra con ripetuti tentativi di una nuova costruzione della metafisica, della vera metafisica critica. Notevoli, per la difesa della Critica, due scritti, tra gli altri minori: la famosa Risposta a Eberhard (1790) un leibniziano che riteneva la critica kantiana gi fatta da Leibniz, e al quale K. mette in evidenza la natura del giudizio sintetico a priori che il fondamento della filosofia trascendentale, e che

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ignoto a Leibniz. Mentre con questo scritto K. ribadisce la soluzione del problema della conoscenza nella sintesi a priori del senso con l'intelletto, la quale garantisce l'oggettivit reale della nostra conoscenza, nell'altro lavoro, che K. prepar per un concorso a premio dell'Accademia delle scienze di Berlino, ma non present n men a termine, ber die Fortschritte der Metaphysik seit Leibniz und Wolf (1793-1795), affront ancora una volta il problema della metafisica in campo critico, riuscendo a una pi profonda e pi esplicita coscienza della difficolt, dinnanzi alla quale si trova una metafisica che abbia a base la critica. Pi importante per la ripercussione personale e pubblica fu la sua difesa della concezione critica della religione, che agli occhi dei dogmatici ortodossi e cattolici e protestanti, si risolveva in un attacco alla religione rivelata nella sua specifica essenza soprarazionale. Nel ricordato volume, sulla Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft (1793), insistendo sulla dualit umana di senso e ragione e ponendo nel primo l'ineliminabile radice del male, predica la necessit della salvezza e la possibilit di un regno di Dio, attraverso la vittoria da ottenersi sul senso mediante l'azione morale, la quale soltanto ha valore meritorio e quindi il vero e l'unico culto razionale di Dio: ogni altro culto feticistico. Con quest'opera sulla religione e con l'altra sui progressi della metafisica pu dirsi compiuta l'indagine speculativa di K. Pure, egli ci d ancora l'applicazione morale e politica della sua dottrina col progetto filosofico Zum ewigen Frieden (1795) e con quell'attesa Metaphysik der Sitten (1797), nelle cui due parti K. tratta i princip metafisici della dottrina del diritto e quelli della dottrina della virt, distinguendo, come doveri del diritto, quelli "per i quali possibile una legislazione esterna" da quelli per i quali tale legislazione non possibile" e che costituiscono i doveri di virt. Questa dottrina del diritto, col detto saggio sulla pace perpetua, e con uno studio ber den Gemeinspruch: Das mag in der Theorie richtigsein, stimmt aber nicht fr die Praxis (1793) costituisce la filosofia politica di K., che, stato rilevato (Solari), deve essere intesa in rapporto alle correnti di pensiero giuridico anteriore, soprattutto in rapporto al Hobbes, al Locke, al Rousseau, al Leibniz. Anche nella dottrina politica K. si sforza "di superare empirismo e razionalismo per intendere il diritto come sintesi di libert e coazione". K. rinnega la volgare opinione che ritiene che qualcosa possa essere giusta e vera in teoria ma non in pratica, e conclude la trattazione del diritto pubblico (diritto politico, diritto delle genti, diritto cosmopolitico) con l'affermare che "l'idea razionale di un'associazione perpetua pacifica non tanto un principio filantropico quanto un principio giuridico". Nella Dottrina della virt, K., trattando dei doveri verso s stesso e di quelli verso gli altri, lontano dalla profondit e arditezza dei concetti etici del periodo critico; ma con un grande tesoro di sagge considerazioni pratiche, ci d una trattazione normativa del vivere umano con i mille piccoli e grandi interrogativi che ci pone davanti, ed a cui urge sempre dare una risposta. I motivi della filosofia kantiana.

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Questa vita intima di pensiero continuamente ritornante su s stesso e sviluppante i motivi che vi sente risonare la vera vita di K. Con lui la filosofia, come somma riflessione umana, inizia una nuova, pi ampia via, perch prende spiegata coscienza del suo essere. 1. Il conoscere come attivit. - La filosofia, fattasi critica, pone in primo piano i problemi dell'umana attivit e primo fra questi quello dell'umana conoscenza, di cui, con la sinteticit, afferma il carattere attivo. L'attivismo non pu essere dimostrato senza il sintetismo, la cui mancanza rende difettosa e razionalistica ed empiristica la soluzione del problema dell'origine della conoscenza. Superata la conclusione scettica humiana, K. dimostra insieme la possibilit del conoscere come attivit sintetica oggettiva dei soggetti conoscenti, l'origine sua nella stessa spiritualit proprio in quanto sintesi di oggettivit e di soggettivit, e il suo valore proprio per questa sua esigenza di chiudersi nella coscienza in cui e da cui essa generata. La realt conosciuta, per quanto non ci consti come lo stesso essere in s, la natura stessa nella quale l'uomo vive, e della quale leggi fondamentali sono le leggi stesse del suo conoscere. La natura la natura conosciuta; e perci se ne pu fare quella scienza, che ce ne indispensabile. 2. Il volere come essere in s. - Se per il conoscere pu contentarsi delle leggi del fenomeno e limitarsi ad essere intellettivo, subordinando all'intelletto la ragione, come attivit puramente sistematica, il volere non pu altrettanto, se ha da essere morale, cio assoluto proprio in quanto razionale. L'assoluto essere in s, quindi, che sfugge alla conoscenza, direttamente investito dall'azione volitiva morale. Questa, per, non pu prescindere dalla conoscenza: la quale, quindi, viene, da parte della volont, investita del potere di cogliere l'in s, ma a puro servizio dell'agire. Questo il valore dei postulati kantiani della moralit: che sono conoscenza in campo volitivo, teoria in campo pratico. E come i postulati, cos l'imperativo categorico dipende anch'esso da questa inseit dell'essere oggettivo del volere morale. Questa spiega l'assolutezza intransigente dell'imperativo, l'assoluta sua incondizionalit. Questa kantianamente si risolve in quei postulati che riguardano proprio quelle idee pure della ragione (Dio, anima, mondo) che sono la stessa categoricit di relazione, e che qui si chiariscono, in quanto oggetti presupposti dall'agire morale, come reali in s, con le determinazioni stesse che gi la metafisica precritica aveva dimostrate in campo conoscitivo. Le difficolt che sono nei termini estremi dell'azione morale kantiana (vuotezza assoluta dell'imperativo, determinatezza empirica necessariamente interessata dell'azione conforme a dovere) devono essere superate e risolute mediante l'unificazione della dottrina dei postulati con quella dell'imperativo. 3. Finalismo estetico del sentire. - In tal modo il senso, pretesa fonte del male, gi nella stessa rigoristica concezione etica kantiana riuscirebbe a far sentire l'ineliminabilit della propria esigenza positiva nello stesso campo del soprasensibile col postulato di Dio e col sentimento di rispetto. Ma questa positiva esigenza del senso nell'essere in s,

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che pur sempre per K., soprasensibile, si afferma decisamente nella proposizione e nella soluzione che K. d del problema estetico proprio come problema del sentimento: viene riconosciuto nel bello il carattere di universalit, che supera l'empiricit fenomenica e la patologicit del sentire e trascende la schietta soggettivit. E la stessa sensazione, in quanto non esclude il giudizio sentimentale, non pi l'esteso fenomeno sentito nel tempo, ma il fenomeno da cui traluce la finalit come, anch'essa, idea pura della ragione. Il sentito in tal giudizio, cos, la natura non pi meccanica legge afinale, ma la natura che si fa argomento fisico-teleologico dell'esistenza di Dio. In tal modo l'intellettualistica distinzione kantiana dell'essere o in s assolutamente, o soltanto apparente, viene ad essere radicalmente sconvolta da questo nuovo valore che K. d al senso, il quale, nella soggettivit del sentimento, si fa simbolo dell'oggettivo essere in s, e, nell'oggettivit della sensazione, fa valere sotto il fenomeno la soggettiva finalit. 4. La cosa in s e la sua negazione idealistica. - Cos, con la critica del giudizio, K. pare abbia superato la critica e sia entrato nella metafisica. Ma non si fa una metafisica come conoscenza, ponendo inconoscibile l'oggetto stesso da conoscere metafisicamente: la cosa in s. Da tale impossibilit l'idealismo post-kantiano non vide altra via di uscita che quella che Jacobi indic al kantismo proprio per metterlo alle strette: la negazione pura e semplice della cosa in s come tale. Donde la riduzione dell'oggettivit a negativit, e la derivazione come della forma cos del contenuto e della conoscenza e della volont dalla stessa unica fonte: lo spirito soggettivo nella sua attivit negatrice dell'essere oggettivo. 5. Lo specifico problema critico. - Tale interpretazione idealistica del kantismo, a chi ben guardi, non che elevare a metafisica la stessa critica. Questa elevazione trasforma il "prescindere dall'oggetto", in "negare l'oggetto", e toglie la critica che invece ineliminabile proprio come tale. La Critica come filosofia trascendentale, distinta dalla metafisica che su di essa si basi, il centro vitale del processo speculativo di K., e il punto di partenza del rinnovamento filosofico da K. promosso. L'essenza della critica infatti sta nell'implicito prendere coscienza di s che fa la filosofia e quindi nel porre dinnanzi alla filosofia il problema stesso della filosofia. Questa la trascendentalit della filosofia in quanto critica, ed momento introduttivo a tutti gli altri. La metafisica, come filosofia prima, scienza dell'essere, quale , in s. Ora la costituzione della scienza con giudiz sintetici a priori ci presentata nelle sue scienze di fatto esistenti: la matematica e la fisica. Ma queste non sono l'assoluta scienza; e quindi, dispensate, esse, dal raggiungere l'essere in s, postulano per un altro sapere, che, raggiungendo tale essere, dia un fondamento alla loro scientificit. La possibilit dunque della metafisica non qualcosa che possa non risultare; la sua impossibilit toglierebbe la possibilit di ogni altra scienza. Ora il giudizio sintetico a priori costitutivo dell'umana scienza, richiedendo l'intuizione, non raggiunge l'essere in s. O dunque la metafisica da negare come scienza dell'essere in s, e quindi da escludere

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ogni scienza; o da intendere il giudizio sintetico a priori della metafisica in modo tale che includa l'essere in s, anche se, diventando poi giudizio matematico o fisico, di esso costituisca soltanto l'apparenza. K. non vide con chiarezza che la sintesi a priori naturalistica della matematica e della fisica non poteva costituire la sintesi a priori metafisica, se la metafisica rimaneva scienza dell'essere in s. 6. La metafisica critica kantiana.- Ora, quando si veda la detta specifica natura del problema critico, si pu forse trovare anche in K. stesso la via per cui egli, uscendo dalla contraddizione in cui si era chiuso, possa metter capo a quella metafisica critica, la cui possibilit egli aveva sempre affermato e riconquistare cos, una volta fatta la critica, quell'oggettivit, dalla quale nel muovere alla critica doveva prescindere. La metafisica critica kantiana virtualmente contenuta proprio nelle critiche. proprio per questo che quei problemi, in cui par che la critica si esaurisca, circa i poteri dell'attivit spirituale, sono tutt'altro che problemi schiettamente psicologici ed hanno, nelle soluzioni che consentono, una decisa importanza metafisica: non si esauriscono nella spiritualit umana conoscente, ma investono la realt conosciuta. Risultato della critica kantiana non l'inconoscibilit della cosa in s, ma invece l'immanenza dell'essere in s, proprio come positivo oggetto, nello stesso spirito soggettivo, sia quando conosce sia quando vuole. K. non poteva vedere ci fino a che non avesse visto e abbandonato il motivo da cui si sentiva necessitato a concludere all'inconoscibilit, e che sta nel pregiudizio realistico e forse anche atomistico insieme, per il quale si contrappone l'essere in quanto , allo spirito in quanto conosce, e l'uno si dice cosa e l'altro si dice soggetto. L'inconoscibilit della cosa in s l'esigenza intima di un tal pregiudizio. Quando con occhi non offuscati da tal pregiudizio si voglia ritrovare quale sia o possa essere la metafisica critica gi implicita nelle stesse critiche kantiane, si vedr che tra quelle idee, con cui la ragione cerca di far noumeni propr la cosa in s, che, come pensiero in genere, essa afferma, ha un posto primario e fondamentale (nello stesso riconoscimento di K., che per non arriva mai a farne l'unica idea) l'idea di Dio, cio il risultare Dio come idea pura e proprio nell'esplicita affermazione che si fa di Lui come cosa in s. Questo il valore della noumenicit, che quindi sempre da una parte esplicazione della cosa in s come oggetto puro di coscienza e quindi idea pura, e dall'altra la stessa cosa in s in quanto implicita in tale idea pura. L'idea di K., quindi, non , o almeno pu non essere, n il concetto esplicito n il vuoto essere eguale al nulla: estremi questi tra i quali si dibatte l'idea hegeliana. L'essere vuoto quindi non il principio, il concetto non il culmine della filosofia e della realt, se si vuole accettare - e non accettarla non si pu - la scoperta che il pensiero kantiano rappresenta nella storia della speculazione, e cio la sinteticit (individuazione soggettiva dell'oggettivit) riconosciuta come la stessa realt concreta. Ediz.: Le principali edizioni delle opere complete di K. sono: Werke, a cura di G. Hartenstein, voll. 10, Lipsia 1838-39; Smtl. Werke, a cura di K. Rosenkranz e F.W. Schubert, voll. 12, Lipsia 1838-42,Smtl. Werke, in ordine cronologico, a cura di G.

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16/10/2012

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Hartenstein, voll. 8, Lipsia 1867-69. Le pi recenti sono quelle di E. Cassirer, voll. 10, Berlino 1912-22 e della Preuss. Akademie der Wissensch. in 21 volumi (in corso di pubblicazione dal 1902). Traduzioni italiane. - Le pi notevoli sono: Critica della ragion pura, trad. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, voll. 2, Bari 1909-10; 2 ed., ivi 1920-21; Critica della ragion pratica, trad. di F. Capra, 3 ed., Bari 1924; Critica del giudizio, trad. di A. Gargiulo, Bari 1907; Fondazione della metafisica dei costumi, trad. di A. Volpicelli, Firenze 1926; La metafisica dei costumi, trad. di G. Vidari, Milano 1911-16 e Torino 1923; Prolegomeni, trad. di P. Carabellese, Bari 1925; trad. di P. Martinetti, Torino 1926; Antropologia, trad. di G. Vidari, Torino 1921; Scritti minori, trad. di P. Carabellese, Bari 1923. Bibl.: K. Fischer, I. K. und seine Lehre, in Geschichte der neueren Philosophie, Heidelberg, IV e V; E. Caird, The critical philosophy of K., Londra 1889, 2 ed., Glasgow 1909; M. Kronenberg, K. Sein Leben u. seine Werke, Monaco 1896; 5 ed., 1918; T. Ruyssen, K., Parigi 1900; O. Klpe, I. K., Lipsia 1907; 5 ed., 1921; G. Simmel, K., Lipsia 1904; 5 ed., Monaco 1921; V. Delbos, La philosophie pratique de Kant, Parigi 1905; C. Renouvier, Critique de la doctrine de K., Parigi 1906; B. Bauch, K., Lipsia 1911; 3 ed., 1923; E. Cassirer, Kants Leben und Lehre, Berlino 1918; F. Paulsen, K. Sein Leben u. seine Lehre, Stoccarda 1898; 6 ed., 1920; R. Brckmann, I. K., voll. 2, Knigsberg 1918-19; A. D. Lindsay, The philosophy of I. K., Londra 1919; E. Khnemann, K., voll. 2, Monaco 1923-24; H. Rickert, K. als Philosoph der modernern Kultur, Tubinga 1924; K. Vorlnder, I. K., der Mann und das Werk, voll. 2, Lipsia 1924; C. Cantoni, K., voll. 3, Milano 1884; F. Tocco, Studi kantiani, Palermo 1909; A. Guzzo, K. precritico, Torino 1924; P. Carabellese, Il concetto della filosofia kantiana, Palermo 1928; id., Il problema della filosofia da K. a Fichte, Palermo 1929; Universit Cattolica, I. K., vol. comm. del II centenario della nascita, a cura di p. A. Gemelli, Milano 1924. Per la bibliografia di K. cfr.: E. Adickes, Bibliography of writings by and on K. which have appeared in Germany up to the end of 1887, in Phil. Rev., 1895; F. Ueberweg, Grundriss der Gesch. der Philosophie, III, 12 ed., Berlino 1924, pp. 488-620, 709758; e la rivista Kantstudien, Berlino 1897 segg. Cfr. inoltre R. Eisler, Kantlexikon, Berlino 1930.

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