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IL MEDIOEVO
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Con la conversione al cristianesimo dell’Imperatore Costantino (IV secolo a.C.) e la
creazione di due regni con sede rispettivamente a Bisanzio e a Ravenna, Roma rimase la
sede del papato che di fatto controllava l’economia del territorio circostante.
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Nel recente viaggio in Francia (1996), Papa Wojtyla, Giovanni Paolo II, in occasione
della celebrazione al cattolicesimo del Re Clodoveo, ha sottolineato gli aspetti positivi di
tale conversione per la diffusione della cultura cristiana in Europa, anche se da tale periodo
inizia il potere temporale del papato.
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riprendendosi Sutri, Orte, Bomarzo, Narni, Amelia, Todi, Perugia, vale a dire
quel territorio simboleggiato dalla via Amerina e che costituirà il canale
bizantino di collegamento tra l’Impero d’Oriente e il ducato di Roma.
Questo continuo stato di guerra tra bizantini e longobardi portò allo
sconvolgimento dei territori lungo l’asse stradale e influì sul precoce processo
di incastellamento delle terre prossime al confine.
Fu in relazione alla campagna longobarda del 592-593 che
probabilmente fu creata nell’Agro Falisco una catena di insediamenti
fortificati nei centri di Sutri, Nepi, Civita Castellana e Ponte Nepesino, per il
controllo delle vie Cassia, Amerina e Flaminia.
Alla nuova offensiva longobarda con Liutprando (712-744) il papato
svolse un ruolo preminente nella doppia direzione di contrasto
dell’espansionismo longobardo e nello stesso tempo di autonomia da
Bisanzio, che fu sancita con la condanna dell’iconoclastia (731) da parte di
papa Gregorio III. Dopo aver respinto le truppe bizantine alle porte di Roma
(725) e dopo alterne vicende, la sconfitta definitiva dei longobardi per mano
di Carlo Magno, il cui intervento era stato invocato dal papa Adriano I, sancì
l’affermazione politica della Chiesa di Roma in Italia, con le donazioni al
papato delle terre conquistate dai Franchi e con l’atto di sottomissione dei
longobardi di Spoleto al papa e ai suoi successori.
Nel 790, con l’incoronazione di Carlo Magno, nipote di Clodoveo,
quale imperatore del Sacro Romano Impero, crebbe il potere papale e
l’organizzazione dell’Europa vide nascere il Feudalesimo, in principio come
organizzazione in territori retti da “Vassalli”. Ai Vassalli si univano i Vescovi
come coadiuvanti spirituali talvolta, ma spesso come diretti reggenti.
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3.3 Il Feudalesimo.
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Chiesa e del clero, con importanti ricadute dell’economia cittadina. Era quindi
necessario che i patrimoni fossero riorganizzati, impostando una nuova forma
di produzione dei beni ed una riorganizzazione delle forze lavoro.
Fu Papa Zaccaria ad impostare per primo questo problema che fu poi
ripreso dai successivi Papi Adriano I e Leone II.
Al Papa Zaccaria si deve, come verrà illustrato in seguito, la creazione
delle prime 5 domuscultae ed al Papa Adriano I le altre sette domuscultae, tra
le quali nell’alto Lazio quelle di Sutri, Capracorum e Falerii.
Nel periodo do tempo tra VIII e IX secolo i Pontefici, tra cui Leone III
(795 – 816) e Giovanni VIII (872 – 882), adottarono una gestione del
territorio laziale secondo una strategia suddivisa in quattro direttrici
principali, che garantivano, mediante deleghe, il controllo diretto delle Chiesa
Romana:
1. sostegno e controllo diretto degli enti ecclesiastici in
posizione strategica;
2. creazione delle “domuscultae”;
3. ampliamento della rete delle “diaconie”; ossia la costituzione
di servizi di assistenza alla città, con cui la Chiesa Romana si
era sostituita alla struttura imperiale. Tale struttura
interessava prevalentemente Roma;
4. fondazione e ricolonizzazione delle città.
Le prime tre erano forme di deleghe di potere che mantenevano però il
potere al centro.
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incertezze del tempo. La sua base era il villaggio o la piccola città, arroccati
su alture inespugnabili o su creste o speroni montuosi.
La forza naturale di tali posizioni era ulteriormente accresciuta da
difese artificiali, usualmente costituite da fossati, mura e torri, sicché molti di
tali siti divennero poderose fortezze. Si ricercavano luoghi lontani dalle strade
principali, preferibilmente nascosti e inaccessibili; molti villaggi medievali
furono impiantati su bassi speroni protesi in valli fluviali, in modo da risultare
quasi del tutto invisibili dalla pianura circostante.
Sicurezza e protezione sono dunque i caratteri distintivi di questi siti e
tali rimasero per tutto il periodo medievale.
Eloquente a questo proposito è la rioccupazione dell’acropoli naturale
di Falerii Veteres, ora chiamato Civita Castellana, e il corrispondente
abbandono di Falerii Novi. Analogamente, nella campagna dell’Ager Faliscus
si può individuare una stretta connessione tra le ville occupate nel periodo
tardoromano e i villaggi medievali.
Castel Paterno fornisce un esempio eccellente, il cui castello si trova
sulla sommità di una lingua tufacea che si estende a sud, verso l’altopiano che
circonda Faleria. In epoca altoimperiale quest’altura era stata occupata da
almeno cinque piccole fattorie che gradualmente decaddero nel basso Impero,
sicché nel V sec. c’era solo un’ampia villa situata a circa 250 m.
dall’estremità del rilievo. Facile è immaginare quindi che, nel tormentato
periodo tra il VI e il VII secolo, gli occupanti della villa decisero di
abbandonare tali edifici privi di protezione e di spostarsi nel luogo più sicuro
fornito dallo sperone terminale del promontorio di Paterno.
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T.W. POTTER, Storia del paesaggio dell’Etruria meridionale. NIS, Urbino 1985.
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E. SERENI, Storia del paesaggio agrario..., op. cit.
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S. CONTI, Le sedi umane abbandonate nel Patrimonio di San Pietro. Olschki, Firenze
1980.
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G. TOMASSETTI, La campagna romana antica, medievale e moderna, III. Firenze,
Olschki 1979.
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S. CONTI, Le sedi abbandonate nel patrimonio di S. Pietro, op. cit.
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Il sistema a ville sparse, instaurato dai Romani, era rimasto nel tempo
avulso dai poteri locali quasi inesistenti nei primi secoli dopo Cristo. Con il
rafforzamento di forme di decentramento e con la creazione di poteri locali,
rappresentati dai possessori dei terreni e dei beni di produzione, siano essi
ecclesiastici o laici, il sistema d’insediamento sparso ed aperto si modificò
lentamente fino ad arrivare a forme vere e proprie d’incastellamento.
Borgo Medievale di Corchiano, situato alla confluenza del Rio Fratta e costruito tra
XI e XII secolo sopra i resti dell’antica Fescennia, distrutta circa un millennio prima
dai Romani.
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E. TURRI, Il paesaggio come teatro. Marsilio, Venezia 1998
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Del sito nei pressi di Nepi si hanno notizie fin dal 989, quando il castrum era in locazione
al monastero dei SS. Cosma e Damiano; è annoverato come feudo nepesino con il nome di
Castrum Insula Conversina; nel 1427 era già abbandonato.
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Poco oltre Casale Santa Bruna che, anche nel nome, ricorda la funzione
difensiva agricola degli originari castra.
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G.CERRI, P.ROSSI, La via Amerina e il suo paesaggio, op. cit.
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S.CONTI, Le sedi abbandonate nel Patrimonio di San Pietro, op.cit.
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l’avvio a una serie di acquisti che gli consentirono, tra il 1146 e il 1153, di
raggiungere una posizione di grande importanza nella Tuscia romana. Nel
giro di qualche anno egli acquisì i castra di Petrignano (presso Vetralla);
Piansano e Mazzano (a sud di Sutri) e Vetralla (nel 1151).
Nel tentativo di affermare il proprio ruolo politico-militare in Italia
centrale, Adriano IV rafforzò il potere della Chiesa sempre mediante le
acquisizioni di centri abitati e di territori. Tra il 1157 e il 1159 il pontefice
acquistò Corchiano, Orcla (a 4 km da Vetralla), Raminiano e Rocca
S.Silvestro (alle pendici e sulla sommità del Soratte), Castiglione e Canepina.
La strategia che egli adottò fu quella della conquista di punti di forza da
utilizzare come nuclei di autorità papale nelle terre patrimoniali. Il papa
infatti, sfruttando da un lato i problemi economici di alcuni lignaggi baronali
e dall’altro, una maggiore prosperità delle casse pontificie, acquistò più di
venti castra, che vennero posti alle dirette dipendenze della Santa Sede
(castra specialia) e la cui difesa fu affidata agli stessi proprietari di un tempo,
legati al papa da un patto di fidelitatis Ecclesiae.
Con Innocenzo III la Chiesa riprese il sopravvento sui proprietari
terreni e, nella riorganizzazione dei territori, alle provincie di Campania e
Sabina, si aggiunsero dei Patrimoni tra cui quello di S. Pietro in Tuscia.
Proprio con il suo pontificato vennero gettate le basi di uno stato
territoriale della Chiesa. In questo periodo furono definivamente affermate le
fondamenta politiche e giuridiche dell’unificazione dei poteri spirituale e
temporale nelle mani del vescovo di Roma. Innocenzo III, consacrato nel
1198, può essere considerato se non proprio il fondatore dello Stato della
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Chiesa, quanto meno il papa che più di altri seppe ottenere risultati duraturi
nel corso dei tre secoli successivi.
Proprio il Patrimonio di S. Pietro in Tuscia fu una creazione di
Innocenzo III, all’inizio del suo pontificato. Aveva la funzione di controllare
le terre a nord di Roma. Il confine meridionale era stabilito, anche se in forma
indefinita, dalla sfera di influenza di Roma. Ad est era sostanzialmente
delimitato dal fiume Tevere, ad ovest dalla costa tirrenica. A nord includeva i
centri di Orvieto, Bagnoregio, Viterbo, Montefiascone e comprendeva al suo
interno Civita Castellana, Vetralla, Sutri e Nepi, con Civitavecchia e Corneto
verso il mare.
Le Provincie e i Patrimoni erano governati da un rettore di nomina
pontificia e normalmente decadeva con la morte del Papa e poteva essere
riconfermato dal successore del Papa.
Con il pontificato di Gregorio IX (1227 – 1241), il governo del
territorio del Lazio assunse una particolare importanza per una serie di misure
legislative e azioni amministrative, vista la necessità di una profonda
riorganizzazione. Con un decreto del 1234, il pontefice proclamò
l’inalienabilità di un complesso di centri abitati (castra) di evidente
importanza strategica che venivano dichiarati demanio speciale della Chiesa
di Roma. In questo periodo, dunque, il diritto di fondare un castrum, di
ripopolare un sito abbandonato o di fortificare un centro preesistente era
appannaggio esclusivo della Santa Sede. A differenza dei castra specialia
della fase di Eugenio III e Adriano IV, gli insediamenti posti ora alle strette
dipendenze del potere centrale venivano controllati e amministrati da
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P. DELOGU, Castelli e palazzi. La nobiltà duecentesca nel territorio laziale, in Roma
anno 1300 cit., pp. 705 – 713.
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S. CAROCCI, Baroni di Roma. Dominazioni signorili e lignaggi aristocratici nel
Duecento e nel primo Trecento, “Nuovi studi storici”,23, Istituto storico italiano per il
Medioevo, Roma, 1993.
A. CORTONESI, Terre e signori nel Lazio medioevale. Liguori editore, Napoli 1988.
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AA. VV., Pascolo e colture nel Lazio alla fine del Medioevo in “Lunario Romano VIII –
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Fatti e Figure del Lazio Medievale”. F.lli Palombi Editore, Roma 1978.
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Allo scopo, dunque, di porre rimedio a questo errore, si dispone che nel
territorio di Roma e in tutte le province, chiunque intenda coltivare possa
utilizzare la terza parte di ciascun fondo, sia che appartenga ad enti
ecclesiastici che a privati. Per i coltivatori esiste sì l’obbligo di chiedere
licenza ai proprietari della terra, quand’anche, però, non l’ottengano, è
prevista come sufficiente l’autorizzazione di alcuno dei menbri della
commissione che viene appositamente costituita. È a questa commissione che
spetterà decidere, qualora nascano questioni sul tempo della messa a coltura,
sul “terzo” da scegliere, sulla corresponsione “pro arata et culta parte” ai
proprietari, nonché sui danni che questi dicano di aver subito, limitatamente al
primo anno, in seguito a tali nuove misure.
Gli effetti prodotti dalla legislazione esaminata potranno, forse, essere
evidenziati dall’esame dei numerosi registri notarili pervenuti per lo stesso
periodo. Di certo, il fatto che in un breve arco di anni siano emanate più
costituzioni di contenuto analogo (si pensi a quelle di Giulio II del 1508, di
Leone X del 1519, di Clemente VII del 1523) non può non suscitare seri
dubbi sulla loro reale incidenza. In particolare, la bolla di Giulio II, che pur
muove dalla constatazione di una considerevole ripresa dell’agricoltura
verificatasi in seguito alle disposizioni sistine, rivela l’intransigente
opposizione dei latifondisti ai provvedimenti ricordati: impedendone il
trasporto del grano e facendone incetta, essi puntavano a scoraggiare
l’iniziativa dei coltivatori e, dunque, a svuotare di ogni reale contenuto la
nuova legislazione.
Procedendo ad un censimento dei cereali presenti sul coltivo medievale,
è anzitutto da osservare come i documenti indichino nettamente dominante la
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La denominazione è motivata dal tegumento che protegge la carosside e rende
necessaria la brillatura del seme.
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La varia destinazione sembra riflettersi, fra l’altro, nell’incerta designazione di questi
terreni quali ortus sive claustrum, claustrum seu ortulus, orticellus sive casalinum.
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cavoli (caules), cipolle (cepae), agli (alea), porri (porri), rape (rapae), lattuga
(lactuca), finocchi (feniculi), spinaci (spinaci), ravanelli (radices), scalogni
(scalogna), carota (carotae), portulaca (portulaca), sono, con le diverse
cucurbitacee (zucche, cucurbitae; meloni, melones; cetrioli, citrioli) e lo
zafferano (zafferanum, crocum), ospiti più o meno assidui delle clausurae
ortive.
Né mancano menzioni di erbe aromatiche quali la rucola (ruca), la
senape (sinapis), il prezzemolo (petrosillum), il comino (cuminum), il
coriandolo (pitartima).
A dominare largamente il panorama delle colture sono i cavoli, le
cipolle e le zucche; porri, agli e lattuga segnano, tuttavia, pure essi una
presenza diffusa. Del cavolo – da identificare prevalentemente per il
medioevo con la varietà ‘bianco’ e ‘cappuccio’, essendo successiva la
diffusione in Europa del cavolfiore - è stato anche di recente sottolineato il
ruolo di primo piano assunto nell’alimentazione medievale.
Accanto al cavolo, trovano frequente menzione nei registri delle spese
cipolle e agli, prodotti cui la facile conservazione conferiva una particolare
utilità. Per l’importante ruolo rivestito nella farmacopea, oltre che per il vario
uso in cucina, non sorprende che anche l’aglio goda di buona fortuna.
Una certa frequenza dei riferimenti documentari motiva anche per il
porro una particolare menzione: la sua coltivazione, certamente non diffusa
come quella della cipolla e dell’aglio, è oggetto, comunque, di non minore
attenzione.
Il quadro delineato per le liliacee conferma, dunque, quanto per linee
generali è conosciuto sulla loro importanza nel regime alimentare delle
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È tuttavia da ricordare come non manchino per il Patrimonio testimonianze di vaste
coltivazioni di lino in campo aperto.
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