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CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

CAPITOLO 3
IL MEDIOEVO

3.1Le vicende storiche dalla decadenza dell’Impero Romano


al Medioevo.
Le strutture economiche e sociali del Basso Impero, già in difficoltà a
causa della crescita del latifondo scarsamente produttivo a scapito della
piccola proprietà terriera, furono colpite, a partire dal V sec. d.C., dalle
invasioni barbariche, dei Goti prima (V-VI sec.) e dei Longobardi poi (VI-
VIII sec.), cioè popolazioni provenienti dal nord dell’Europa. Queste
contribuirono a disgregare il sistema economico e a mutare in modo
irreversibile le strutture paesaggistiche soprattutto dell’area falisca.
La discesa dei Visigoti di Alarico (410) creò una situazione precaria e
di distruzione della zona limitrofa alle principali arterie stradali come
l’Aurelia e la Flaminia e alle minori come l’Amerina. Decaddero numerose
città e stazioni come Veio, Lucus Feroniae, Capena, Falerii Novi.
Il Regno di Teoderico segnò un periodo di relativa calma e tranquillità
nella vita del Lazio e lo spostamento della capitale a Ravenna servì a
consolidare indirettamente il potere del Papato e dei vescovi e a stringere
sempre di più i legami di questi con le città e le campagne di tutto l’Agro. 1

1
Con la conversione al cristianesimo dell’Imperatore Costantino (IV secolo a.C.) e la
creazione di due regni con sede rispettivamente a Bisanzio e a Ravenna, Roma rimase la
sede del papato che di fatto controllava l’economia del territorio circostante.

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La guerra greco-gotica (535-553), tra le armate gotiche e quelle


bizantine, ebbe come asse portante la via Flaminia, teatro dei maggiori
avvenimenti bellici. E fu in questo arco di tempo che strutture produttive di
origine romana iniziarono una lenta, anche se inarrestabile decadenza.
L’Agro Falisco assiste al passaggio dai siti sparsi a quelli accentrati,
come pure a uno spostamento degli insediamenti agricoli lontano dalle vie di
transito.
Con la sconfitta gota e la riorganizzazione amministrativa della
penisola sotto lo stretto controllo bizantino, si ebbe un relativo periodo di
pace, sino all’invasione longobarda d’Italia e all’assedio di Roma da parte di
Agilulfo nel 593.
Nel 440 Leone Magno determinò il ruolo della Chiesa e l’unità
dogmatica mediante la dottrina della chiesa e Leone I fondò la “monarchia”
papale in occidente. La Chiesa da questo periodo diffuse la dottrina cristiana,
che caratterizzò quindi la cultura occidentale fino ai nostri giorni.
Nel V secolo, con la conversione al cristianesimo di Clodoveo2 re dei
Franchi, si rafforzò da un lato la cultura cattolica in Europa, dall’altro il
potere temporale del Papato nell’Italia centrale.
Dal III al VI secolo molti vescovati si erano formati intorno a Roma, i
quali successivamente scomparvero non solo per la calata dei Longobardi, ma
anche e forse per il mutamento del clima, che divenendo più caldo, contribuì
alla recrudescenza dei fenomeni malarici. Certo, la malaria fu favorita

2
Nel recente viaggio in Francia (1996), Papa Wojtyla, Giovanni Paolo II, in occasione
della celebrazione al cattolicesimo del Re Clodoveo, ha sottolineato gli aspetti positivi di
tale conversione per la diffusione della cultura cristiana in Europa, anche se da tale periodo
inizia il potere temporale del papato.

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dall’espansione del gran numero di stagni e paludi nelle campagne; al


contrario, dopo il VI secolo, una riduzione del fenomeno malarico si
accompagna ad una ripresa della vita agricola, sicché ricompaiono anche
alcune sedi vescovili che erano state soppresse come Caere e Tres Tabernae.3
L’invasione longobarda contribuì a modificare, ancor più delle
precedenti, il sistema economico ed insediativo e quindi le condizioni di vita
nelle terre occupate. Le vicende legate alla conquista longobarda furono
segnate da aspre scorrerie e saccheggi in tutti i territori attraversati.
La progressiva dissoluzione dell’impero fu la causa principale della
decadenza dell’agricoltura, la quale cessò quasi di essere praticata verso la
fine del VI secolo con l’arrivo dei Longobardi: furono incendiate le case dei
coltivatori ed i campi abbandonati. Nessuno si curava più di coltivare
nell’incertezza poi di raccoglierne i frutti, e solo in determinati periodi i
possessori di terreni si ridussero a farvi pascolare gli armenti per la facilità di
poterli sottrarre alle scorrerie, che di frequente accadevano.4
La reazione bizantina fu di arrocco all’interno di città fortificate
mettendo in atto un’organizzazione di castra difesi anche da eserciti locali.
I possedimenti longobardi comprendevano buona parte della Tuscia,
mentre il ducato romano bizantino si estendeva in tutto l’Agro Falisco, la cui
via Amerina fu il teatro principale dei maggiori scontri. Roma infatti, si trovò
a essere circondata dal ducato di Spoleto a nord e dal ducato di Benevento a
sud. La difesa romana si concentrò nell’area di Nepi, fino a quando l’esarca
Romano intraprese la riconquista della fascia di collegamento con Ravenna,
3
TOMASSETTI G., La Campagna Romana antica, medievale e moderna. I-III, nuova
edizione a cura di Chiumenti L. e Bilancia F. Firenze, Olschki 1979.
4
MILELLA N., I Papi e l’agricoltura nei domini della Santa Sede. Roma, Pallotta 1880.

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riprendendosi Sutri, Orte, Bomarzo, Narni, Amelia, Todi, Perugia, vale a dire
quel territorio simboleggiato dalla via Amerina e che costituirà il canale
bizantino di collegamento tra l’Impero d’Oriente e il ducato di Roma.
Questo continuo stato di guerra tra bizantini e longobardi portò allo
sconvolgimento dei territori lungo l’asse stradale e influì sul precoce processo
di incastellamento delle terre prossime al confine.
Fu in relazione alla campagna longobarda del 592-593 che
probabilmente fu creata nell’Agro Falisco una catena di insediamenti
fortificati nei centri di Sutri, Nepi, Civita Castellana e Ponte Nepesino, per il
controllo delle vie Cassia, Amerina e Flaminia.
Alla nuova offensiva longobarda con Liutprando (712-744) il papato
svolse un ruolo preminente nella doppia direzione di contrasto
dell’espansionismo longobardo e nello stesso tempo di autonomia da
Bisanzio, che fu sancita con la condanna dell’iconoclastia (731) da parte di
papa Gregorio III. Dopo aver respinto le truppe bizantine alle porte di Roma
(725) e dopo alterne vicende, la sconfitta definitiva dei longobardi per mano
di Carlo Magno, il cui intervento era stato invocato dal papa Adriano I, sancì
l’affermazione politica della Chiesa di Roma in Italia, con le donazioni al
papato delle terre conquistate dai Franchi e con l’atto di sottomissione dei
longobardi di Spoleto al papa e ai suoi successori.
Nel 790, con l’incoronazione di Carlo Magno, nipote di Clodoveo,
quale imperatore del Sacro Romano Impero, crebbe il potere papale e
l’organizzazione dell’Europa vide nascere il Feudalesimo, in principio come
organizzazione in territori retti da “Vassalli”. Ai Vassalli si univano i Vescovi
come coadiuvanti spirituali talvolta, ma spesso come diretti reggenti.

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Questo tipo di organizzazione statale si rafforza anche nello Stato


Pontificio e l’involuzione del sistema feudale, che si rivelò deleteria ai fini
dello sviluppo del territorio, si manifestò soprattutto negli anni successivi
nello Stato Pontificio e nell’Italia meridionale.5

3.2 L’organizzazione del patrimonio della Chiesa.

Il complesso patrimoniale della Chiesa Romana, costituitosi a partire


dal III secolo, fu oggetto di una serie di riorganizzazioni, le quali, pur se
documentate con sicurezza solo in un periodo tardo, tuttavia sono state fatte
risalire almeno al IV secolo.
Nel VI secolo, anche se non erano note le dimensioni dei patrimoni, si
conoscono però il numero e la localizzazione di questi stessi, che risultano
distribuiti nell’Italia centrale e centro-meridionale.
Nel Lazio nord, per quanto attiene i territori in esame, delle vaste aree
costituivano il Patrimonium Tusciae, che comprendeva le aree della riva
destra del Tevere fino al Tirreno, lungo le vie Aurelia, Cornelia, Clodia e
Flaminia.
L’invasione dei Longobardi (568) non riuscì a penetrare completamente
nel Lazio. Nella regione quindi, dal secolo VI all’VIII, si contrapposero un
ducato longobardo ed un ducato romano, quest’ultimo sotto l’autorità di
Bisanzio e del Papato.
5
AA. VV., Atlante storico-politico del Lazio. Assessorato alla cultura ed al coordinamento
degli Istituti Culturali del Lazio,. Ed. Laterza, 1996.

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Nella Tuscia longobarda, dopo la conversione dei Longobardi al


Cattolicesimo, esercitarono una notevole influenza i monasteri di Farfa e del
Salvatore sul Monte Amiata. Il confine era segnato dai territori delle diocesi
longobarde di Tuscania, Ferento e Bagnoregio, e comprendeva quindi una
buona parte dell’odierna provincia di Viterbo. Il ducato romano, con le
diocesi di Civitavecchia, Blera e Bomarzo, rimase in contatto con l’esercito
ravennate grazie ad un corridoio di città fortificate lungo la via Amerina, quali
Narni, Amelia, Todi e Perugia. E’ da questa divisione del Lazio in ducato
romano e ducato longobardo che probabilmente nasce la diversa
strutturazione degli insediamenti anche nei secoli seguenti. Il territorio più
vicino a Roma, ove sorsero numerosi piccoli centri, vedrà dapprima la grande
influenza dei monasteri romani, proprietari di grandi latifondi,
successivamente divenne sede di feudi delle principali famiglie baronali
romane.
Un fenomeno tipico di frontiera tra i territori bizantini e quelli
longobardi fu quello degli abbandoni dei centri abitati. Le popolazioni in
queste zone cercarono soluzioni più sicure sotto il profilo strategico.
Tra i centri abitati di questo periodo sono Volsinii e Ferento, che furono
abbandonati per costruire Orvieto e Bomarzo. A Faleri si sostituì l’odierna
Civita Castellana e, nella Sabina, Forum Novum e Cures Sabini furono
abbandonati senza che le popolazioni compatte riformassero nuovi centri.
Fino alla definitiva sconfitta dei Longobardi ad opera dei Franchi (774),
i territori della Chiesa subirono diverse variazioni nelle forme organizzative.
In questo periodo (VII-VIII sec.) il termine Patrimonium Sancti Petri
venne assumendo un carattere politico, diverso da quello amministrativo-

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patrimoniale precedente. Infatti all’inizio il Patrimonium era solo una


vastissima somma di latifondi di proprietà della Chiesa con un carattere
prevalentemente economico. Durante il regno longobardo, il termine
Patrimonium si ridusse per quanto riguarda i territori, ma venne assumendo
un carattere politico- regionale, che stava ad indicare la potenza anche politica
del Papato, contrapposta a quella di Bisanzio e a quella di longobarda.
Proprio durante la dominazione longobarda in Italia, la donazione di
Sutri del 727 fece della Chiesa di Roma, una potenza territoriale a tutti gli
effetti.
Il Patrimonium Sancti Petri, per ciò che riguarda il Lazio era diviso in
sei parti: Patrimonium Urbanum, Appiae, Tusciae, Sabinense, Labicanum,
Tiburtinum.
Le prime notizie del Patrimonium Sancti Petri in Tuscia risalgono
all’epoca dei Papi Zaccaria (741 - 742) ed Adriano I (772 – 795).
Un fenomeno collaterale che influenzò la vita sociale fu il
monachesimo. A partire dal secolo VI il monachesimo occidentale diede
luogo alla fioritura di monasteri, culminata con la fondazione di
Montecassino. Nel secolo VIII, convertitisi gli stessi Longobardi al
cattolicesimo, si accrebbe ancora, non solo nel Lazio, ma in tutta Italia, il
numero dei conventi destinati ad esercitare molta importanza sulla vita sociale
ed economica del tempo. La trasformazione agricola di buona parte del
territorio, sia a nord che a sud di Roma si deve in particolare a queste
iniziative monastiche.
Come sopra detto, nel 790 sotto l’impero di Carlo Magno, anche i
vescovi divennero reggenti diretti di feudi o coadiuvanti spirituali dei Vassalli.

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Nei territori circostanti Roma, uno dei canali principali d’influenza da


parte dei Papi era rappresentato dalle Diocesi suburbicarie, sottoposte al
controllo diretto della Santa Sede ed i cui titolari erano del rango di Cardinali.
La funzione delle diocesi si alterna tra quelle di semplice organizzazione
ecclesiastica a forme di vero e proprio potere temporale.

3.3 Il Feudalesimo.

Il regime feudale, introdotto nel secolo IX da Carlo Magno, regime che


di per sé rappresenta una distribuzione di poteri finalizzati ad un controllo
capillare del territorio, in realtà si è manifestato deleterio per l’introduzione di
elementi di autonomia di gestione dei feudi stessi e per la degenerazione del
sistema economico e sociale.
Tra gli effetti negativi del feudalesimo infatti sono da annoverare il
sistema “curtense”, ossia il ridottissimo scambio monetario che diveniva
funzionale al pieno asservimento del contadino o del pastore alla terra del
Signore, la privatizzazione delle funzioni pubbliche e l’ereditarietà del feudo.
La privatizzazione del diritto provocava, inoltre, abusi ed incrementava
lo sviluppo di guardie asservite al feudo, che spesso finivano per lottare con le
guardie di altri feudi in un sistema generalizzato di abusi, fino a determinare
forme di brigantaggio occulto, con il duplice scopo di controllare sia le classi
asservite che i feudi limitrofi.
Il territorio laziale con i Franchi aveva assunto una centralità nuova. I
patrimoni esistenti nel Lazio erano divenuti l’unico sostentamento della

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Chiesa e del clero, con importanti ricadute dell’economia cittadina. Era quindi
necessario che i patrimoni fossero riorganizzati, impostando una nuova forma
di produzione dei beni ed una riorganizzazione delle forze lavoro.
Fu Papa Zaccaria ad impostare per primo questo problema che fu poi
ripreso dai successivi Papi Adriano I e Leone II.
Al Papa Zaccaria si deve, come verrà illustrato in seguito, la creazione
delle prime 5 domuscultae ed al Papa Adriano I le altre sette domuscultae, tra
le quali nell’alto Lazio quelle di Sutri, Capracorum e Falerii.
Nel periodo do tempo tra VIII e IX secolo i Pontefici, tra cui Leone III
(795 – 816) e Giovanni VIII (872 – 882), adottarono una gestione del
territorio laziale secondo una strategia suddivisa in quattro direttrici
principali, che garantivano, mediante deleghe, il controllo diretto delle Chiesa
Romana:
1. sostegno e controllo diretto degli enti ecclesiastici in
posizione strategica;
2. creazione delle “domuscultae”;
3. ampliamento della rete delle “diaconie”; ossia la costituzione
di servizi di assistenza alla città, con cui la Chiesa Romana si
era sostituita alla struttura imperiale. Tale struttura
interessava prevalentemente Roma;
4. fondazione e ricolonizzazione delle città.
Le prime tre erano forme di deleghe di potere che mantenevano però il
potere al centro.

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3.4Il decadimento del paesaggio romano e le strutture


paesaggistiche della cristianità: le domuscultae.

Le vicende della guerra greco-gotica, le lotte tra bizantini e longobardi


e il successivo assestamento territoriale sotto il dominio franco, furono la
causa della radicale modifica della struttura insediativa romana.
La formazione di nuove strutture insediative non fu repentina ma
diluita nel tempo e nei territori a seconda che avvenisse nei territori di
frontiera, in quelli sotto il controllo longobardo o del ducato romano.
Nel corso del periodo classico il paesaggio dell’Agro Falisco fu
caratterizzato da un insediamento sparso. Una percentuale molto alta della
popolazione viveva in ville rustiche e fattorie disseminate nelle zone più
remote della regione. Si svilupparono numerosi villaggi, specialmenti intorno
ai più importanti raccordi stradali, ma le città prosperarono solo in quanto
centri amministrativi e di servizio. La fisionomia di tale modello insediativo
era adeguamente completata da una vasta rete di strade primarie e secondarie
che davano accesso ad ogni parte della campagna.
Il processo ebbe inizio come un lento declino della vita rurale
accompagnato dal graduale abbandono di molti centri urbani, per trasformarsi
poi in una migrazione di imponenti proporzioni, connessa alla vistosa
decrescita della popolazione, che portò all’incuria e al totale abbandono di
quasi tutte le proprietà agricole. Nello stesso tempo molte città, soprattutto
quelle situate sulle strade principali e quindi vulnerabili, furono pian piano
spopolate. Al loro posto emerse un tipo di insediamento che riflette le

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incertezze del tempo. La sua base era il villaggio o la piccola città, arroccati
su alture inespugnabili o su creste o speroni montuosi.
La forza naturale di tali posizioni era ulteriormente accresciuta da
difese artificiali, usualmente costituite da fossati, mura e torri, sicché molti di
tali siti divennero poderose fortezze. Si ricercavano luoghi lontani dalle strade
principali, preferibilmente nascosti e inaccessibili; molti villaggi medievali
furono impiantati su bassi speroni protesi in valli fluviali, in modo da risultare
quasi del tutto invisibili dalla pianura circostante.
Sicurezza e protezione sono dunque i caratteri distintivi di questi siti e
tali rimasero per tutto il periodo medievale.
Eloquente a questo proposito è la rioccupazione dell’acropoli naturale
di Falerii Veteres, ora chiamato Civita Castellana, e il corrispondente
abbandono di Falerii Novi. Analogamente, nella campagna dell’Ager Faliscus
si può individuare una stretta connessione tra le ville occupate nel periodo
tardoromano e i villaggi medievali.
Castel Paterno fornisce un esempio eccellente, il cui castello si trova
sulla sommità di una lingua tufacea che si estende a sud, verso l’altopiano che
circonda Faleria. In epoca altoimperiale quest’altura era stata occupata da
almeno cinque piccole fattorie che gradualmente decaddero nel basso Impero,
sicché nel V sec. c’era solo un’ampia villa situata a circa 250 m.
dall’estremità del rilievo. Facile è immaginare quindi che, nel tormentato
periodo tra il VI e il VII secolo, gli occupanti della villa decisero di
abbandonare tali edifici privi di protezione e di spostarsi nel luogo più sicuro
fornito dallo sperone terminale del promontorio di Paterno.

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Ruderi del castello sul promontorio di Paterno: la foto di destra è


probabilmente una delle entrate.

La ricognizione dell’Etruria meridionale: siti medievali

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Legenda: 1) Castel Paterno; 2) Castel Porciano; 3) Mazzano R.; 4) Torre Busson


Fonte: SEBASTI R., Storia degli insediamenti nella zona del Parco suburbano del
Treja. Regione Lazio, Comuni di Mazzano R. e Calcata 1999.

Tale fenomeno di spostamento interessò molto probabilmente tutto


l’Ager Faliscus, dal momento che quasi tutti i villaggi medievali sorgono
vicino ai resti di una villa o fattoria tardoromana. Il villaggio difeso di

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Porciano, ad esempio, rappresenta il logico riparo per gli abitanti di una


grande villa, occupata fino al VI secolo, a Casale L’Umiltà, costruita in aperta
campagna presso la via Amerina e a poche centinaia di metri da Porciano.6
Nell’Ager Faliscus, quindi, tutti gli indizi suggeriscono un processo di
migrazione delle ville alle posizioni fortificate tipiche dei villaggi medievali
tra il VI e l’VIII secolo.
A fronte di una contrazione nel numero degli insediamenti nelle
campagne, tuttavia non vi fu uno spopolamento del territorio. Troviamo, sia a
Falerii Novi che a Nepi, impianti funerari cristiani del IV e V secolo. Le
stesse località sono sedi di diocesi già attestate nel V e VI secolo. Questa
precoce cristianizzazione della zona di Nepi testimonia anche l’esistenza di
sedi in funzione di servizio alle comunità rurali.
La perdita di controllo del territorio da parte delle civitates romane, con
il conseguente disfacimento delle relazioni economiche e sociali, condusse
alla disgregazione del sistema agricolo.
Le comunità rurali che ancora occupavano i luoghi più marginali della
campagna, nei siti delle villae tardoimperiali dove il latifondo aveva ormai
abbandonato il sistema del maggese biennale, si indirizzarono verso
un’economia pastorale, di caccia e di allevamento brado, con il ritorno alla
pratica del debbio e del paesaggio del ‘campo aperto’. L’abbandono delle
coltivazioni avrebbe condotto prima o poi, in tale territorio, alla
predominanza di aree boschive, sterpete e cespuglieti, dove sarebbe prevalso
il paesaggio dell’incultum su quello del cultum.7

6
T.W. POTTER, Storia del paesaggio dell’Etruria meridionale. NIS, Urbino 1985.
7
E. SERENI, Storia del paesaggio agrario..., op. cit.

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A contrastare la “selva selvaggia” dell’alto medioevo restavano le


comunità rurali di origine tardoromana e il papato nella costruzione
progressiva dei Patrimonia Sancte Romanae Ecclesiae. Già dal VI secolo
facevano la comparsa citazioni di fundi, siti nella Tuscia Romana, che da
mere proprietà fondiarie avrebbero assunto progressivamente “…valenza di
circoscrizioni entro le quali si articola la nuova signoria pontificia sul Lazio”
soprattutto nella fase di distacco e di autonomia da Bisanzio.
Il Patrimonium sarebbe divenuto inalienabile, perpetuo e privilegiato e
perciò, come quello imperiale, esente da tassazioni. I piccoli proprietari
terrieri, pur di sottrarsi alla forte pressione fiscale, sarebbero stati costretti a
effettuare una doppia operazione di donazione alla Chiesa delle proprietà e di
concessione in enfiteusi da parte di questa.
Alla costituzione del Patrimonio di San Pietro diede un forte impulso la
formazione delle domuscultae (VIII-IX secolo), tenute agricole gestite
direttamente dalla Chiesa con personale alle proprie dipendenze senza ausilio
di affittuari, le quali svolsero un ruolo fondamentale tra il dissolvimento delle
fattorie di carattere romano e l’insediamento nei villaggi fortificati. I fondi di
proprietà ecclesiastica godevano di particolari privilegi ed esenzioni, che
permettevano agli abitanti dei fondi di condurre una vita abbastanza agevole.
Grazie a questi insediamenti rurali il territorio dell’Agro Falisco iniziò a
ripopolarsi.
La domusculta è un ampio territorio, in gran parte coltivato (cereali,
leguminose, ortaggi, vigneto, oliveto), distinto in fondi a ognuno dei quali
corrispondeva un casale, dove risiedevano più famiglie, che godevano della
proprietà della terra. E’ importante sottolineare che la funzione principale

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delle domuscultae era ancora quella di garantire la distribuzione caritativa di


quanto prodotto. In generale le derrate venivano trasferite a Roma,
immagazzinate negli horrea Ecclesiae, e quindi ripartite tra i poveri.
Infatti, ad esempio, il centro di convergenza amministrativa economica
ed amministrativa degli abitanti delle domuscultae di Capracorum e di S.
Edisto era la chiesa con annesso convento di S.Cornelio per Capracorum, di
S.Edisto per la domusculta omonima.8
Sembra, tuttavia, che compito non del tutto secondario di queste
domuscultae fosse quello di garantire il funzionamento non solo del Laterano,
ma anche delle curie di almeno alcune delle diocesi suburbicarie.
L’attività prevalente era quella agricola, ma accanto ad essa vi era
quella pastorale. La prevalenza dell’agricoltura contribuì alla conservazione
geo-idrologica dei terreni, poiché molte campagne, dopo le invasioni
barbariche, erano venute a trovarsi in condizioni precarie, facendo riaffiorare
il pericolo della malaria e quindi dello spopolamento dei campi.
Nel Medioevo sono attestate con indiscutibile veridicità l’esistenza di
febbri assidua, tertiana, quartana presso vigne, case abitate e chiese.
Tornando alle domuscultae, sappiamo che le prime furono fondate da
Papa Zaccaria (741- 752) intorno a Roma, altre quattro furono fondate da
Adriano I (772- 795). Tra queste quella di Capracorum nel 780, con sede a
Santa Cornelia nei pressi di Veio. La domusculta di Capracorum aveva
possedimenti fino al territorio della via Amerina, con un’estensione di circa
9 km di larghezza per 24 di lunghezza. Essa era divisa in vari fundi ai quali

8
S. CONTI, Le sedi umane abbandonate nel Patrimonio di San Pietro. Olschki, Firenze
1980.

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corrispondeva, generalmente in funzione di centro rurale, un casale dove


risiedevano diverse famiglie, una chiesa e dei magazzini.
Tomassetti presenta una lista di fundi che rientravano nel territorio della
domusculta di Capracorum: Campanius (= Campagnano di Roma), Calcata,
Mazanus, Stabia (Faleria), Porcianus e Roncilanus, tutti identificabili con
abitati medievali esistenti e abbandonati.9
Sembra quindi che questi siano i nomi delle fattorie e delle ville
tardoromane situate in prossimità dei villaggi fortificati e che vennero
attribuiti a questi ultimi in seguito allo spostamento. Sembra probabile che i
poderi settentrionali della domusculta di Capracorum fossero occupati non
dalle ville romane ma dagli incipienti villaggi medievali.
Un sito di particolare interesse, non citato nei più antichi documenti
medievali, e quindi da aggiungere alle liste, è quello di Mola di Monte Gelato
lungo il corso del fiume Treja, 3 km a sud-ovest di Mazzano Romano. Sopra
una ripida prominenza della sponda meridionale del Treja sorgeva un piccolo
abitato falisco, mentre in epoca repubblicana venne edificata un’ampia villa
romana su una piattaforma presso il fondo della valle. Un castello medievale,
il Castellaccio, arroccato su una bassa collina a sud della Mola, sovrastava la
villa e l’intera.
Secondo la teoria elaborata da Tomassetti, il sito della Mola di Monte
Gelato era il Castrum Capracorum che, con una bolla papale del 1053 fu
donato al capitolo di San Pietro.

9
G. TOMASSETTI, La campagna romana antica, medievale e moderna, III. Firenze,
Olschki 1979.

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Queste strutture insomma, ebbero il pregio di frenare la fuga dalle


campagne e di evitare il completo abbandono dei terreni agricoli. Costituirono
anche il primo nucleo d’esercizio del potere temporale del papa, in un
momento in cui il pontefice non esercitava ancora un controllo assoluto su
Roma come nel ducato; e vi mostrò i due principali elementi di sovranità: la
moneta e la milizia.10
La moneta, ora divenuta rarissima, e che si trova solo in campagna, è
quadrata e di rame e non è altro che una tessera patrimoniale, cioè ristretta al
commercio rustico degli enti ecclesiastici. Gli addetti a queste proprietà erano
detti homines S.Petri e rustici e familiares ecclesiae; nel 1115 erano anche
chiamati milites heredarii. Insomma i Papi non ebbero che soldati di
campagna per tutto il medioevo, e da queste popolazioni. La milizia era
obbligatoria nei detti fondi, a piedi e a cavallo, e formava quelle masnadae
beati Petri, che vennero talvolta a combattere in difesa della città Leonina alla
cui costruzione avevano anche contribuito.
La localizzazione delle tenute, situate a controllo delle vie di accesso a
Roma, aveva anche il significato di contrastare le pretese di nuovi proprietari,
soprattutto dei comandanti militari locali che miravano al controllo di Roma
tramite l’elezione del papa.
Se non fossero sopraggiunte le tristi vicende della lotta feudale, o delle
investiture, nel secolo XI, le domusculte avrebbero prodotto effetti economici
straordinari; ma le guerre civili e le invasioni straniere, come le scorrerie
saracene che in quel periodo devastavano la campagna a nord di Roma e nella
zona di Nepi, ne impedirono il progresso ed anzi, ne causarono la decadenza.
10
G. TOMASSETTI, La Campagna Romana…, op. cit.

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Questa si manifesta nella serie successiva delle notizie che le


riguardano, poiché si restringono col tempo, e divengono curtes, e finalmente
ne rimane il nome ad un fondo qualunque.
La scomparsa delle domuscultae sancì la trasformazione nel paesaggio
dei castra con una funzione prioritaria di difesa del fundus da parte delle
comunità rurali.
Oltre alle domuscultae esistevano altri tipi d’insediamento nell’agro
Falisco, come la massa e il casale, che si sarebbero evolute in forme più
elaborate: la massa a costituire nuclei urbani di riorganizzazione territoriale a
carattere prevalentemente agricolo; il casale per secoli a caratterizzare il
paesaggio agrario della campagna con la sua forma compatta, spesso
fortificata, a servizio del fondo.
La massa è un insieme di fondi contigui riuniti amministrativamente; è
una formazione di origine latina che prende il nome da un privato (il
proprietario che dà il nome a tutta la massa) o dal fondo più importante. La
massa proprio per la sua ampiezza dette vita nel corso dei secoli a vari centri,
derivati dai fondi principali, divenuti in seguito autosufficienti ed autonomi.
Così dalla Massa Cesana, una delle più importanti che dalla via Clodia si
estendeva fino alla via Cassia, nacquero i centri di Cesano, Martignano,
Stracciacappe e Baccano.
Il casale significava invece un insieme di fondi rustici di minore
estensione ed importanza della domusculta, e soprattutto di diversa matrice:
mentre quella era di fondazione religiosa, il casale era dovuto all’iniziativa
privata, e spesso il territorio era munito di una cinta muraria. Esso
comprendeva la casa, l’orto, i campi, vigneto e bosco.

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La colonia, come la massa di derivazione latina, un insediamento


agricolo, che la maggior parte delle volte sorse sul luogo delle antiche ville
patrizie disseminate nella Campagna Romana. Anche la colonia era di
formazione ecclesiastica e mirava a riattivare la vita nelle campagne.
Infine troviamo la sala, contrariamente alle precedenti, è un
insediamento di origine longobarda, che sta ad indicare un raggruppamento
stabile di persone con prevalente attività pastorale; dapprima significò un
fondo con diverse dimore pastorali accentrate e successivamente
l’insediamento vero e proprio.
La strategia di gestione del territorio da parte dei pontefici, tra i secoli
VIII e IX, si conclude con altri due aspetti: l’ampliamento della rete delle
diaconie e con la fondazione - e ricolonizzazione – delle città.
Le diaconie avevano la funzione di assicurare alla città quei servizi di
assistenza – ospedali, ospizi, distribuzione di derrate alimentari – mediante i
quali sin dal tempo di Gregorio Magno la Chiesa romana aveva sostituito la
struttura annonaria imperiale.
Anche la fondazione di città nuove – o la ricolonizzazione di centri già
esistenti – costituisce un momento fondamentale del processo di affermazione
da parte dei papi della propria autorità.
Si ha in sostanza l’impressione che la “costruzione” di un territorio,
all’interno del quale la Chiesa romana esprimesse realmente un’autorità
sovrana, fosse ancora agli inizi. Sembra infatti che i pontefici continuassero a
trovarsi nella necessità di assicurare la sopravvivenza di strutture di potere
centrate essenzialmente su Roma.

68
CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

Le descrizioni del Lazio settentrionale redatte dai viaggiatori dal sec.


XVI in poi, forniscono l’impressione di una terra desolata, utilizzata per il
pascolo e per un’agricoltura di sopravvivenza, ma tale descrizione non può
riferirsi a tutto il periodo medievale, posteriore alle invasioni barbariche.
Indubbiamente queste portarono ad un notevole calo di natalità che spopolò in
parte l’agro, ad eccezione dei luoghi più protetti verso i quali la popolazione
si rifugiò. E non si può neanche parlare di un’agricoltura di sopravvivenza, di
territorio coperto da macchia e boschi ed allagato dagli stagni formatisi per
l’impaludamento delle vie d’acqua. Dai documenti consultati si ricava che era
molto estesa la coltura della vite, la quale non aveva bisogno di spazi visto
che spesso accanto ad essa si trova il triticum (frumento), l’ordeum,
l’olivetum, i cultis vel incultis ed i pascuis.11

11
S. CONTI, Le sedi abbandonate nel patrimonio di S. Pietro, op. cit.

69
CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

3.5L’assetto territoriale medievale come struttura fondante del


paesaggio attuale: il fenomeno dell’incastellamento.

Il processo d’incastellamento iniziato nel VI secolo, sulla linea di


frontiera bizantino-longobarda, arrivò a maturazione nel XIII secolo,
soprattutto dopo le incursioni ungare e saracene del X secolo, coinvolgendo
tutti i centri del territorio. Si tratta di una vero e proprio cambiamento nel tipo
d’insediamento, che non è spiegabile solo con le conseguenze delle ultime
invasioni esterne, ma è senza dubbio da mettere in relazione con la diffusione
del feudalesimo.
Sul fenomeno dell’incastellamento gli studiosi italiani avevano
orientato le ricerche soprattutto su aspetti istituzionali e giuridici, a differenza
di altri studiosi, che invece avevano sottolineato aspetti economici e sociali.
Perciò nei documenti sempre più spesso ci si trova di fronte ai termini
castrum e curtis.
Il castrum, infatti, è stato visto come una forma di istituzionalizzazione
della curtis, in un momento di crisi dell’autorità pubblica. L’incastellamento
aveva funzioni di difesa militare da un lato, ma rappresentava anche la forma
apparente di un’organizzazione amministrativa, ove i possessori erano
obbligati a contribuire all’organizzazione militare del castrum.
Nel nord del Lazio, come nell’agro falisco stesso, il fenomeno
dell’incastellamento aveva invece funzioni prevalentemente di
riorganizzazione territoriale dei centri abitati e della produzione, anche in
relazione alla presenza sempre più forte dei possessori.

70
CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

Il sistema a ville sparse, instaurato dai Romani, era rimasto nel tempo
avulso dai poteri locali quasi inesistenti nei primi secoli dopo Cristo. Con il
rafforzamento di forme di decentramento e con la creazione di poteri locali,
rappresentati dai possessori dei terreni e dei beni di produzione, siano essi
ecclesiastici o laici, il sistema d’insediamento sparso ed aperto si modificò
lentamente fino ad arrivare a forme vere e proprie d’incastellamento.

Borgo Medievale di Corchiano, situato alla confluenza del Rio Fratta e costruito tra
XI e XII secolo sopra i resti dell’antica Fescennia, distrutta circa un millennio prima
dai Romani.

71
CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

Il villaggio fortificato, posto nel punto terminale e meno visibile dei


pianori, a picco sulla confluenza dei torrenti e cinto da mura, avrebbe
costituito, dal XIII secolo fino ai nostri anni ’50, l’immagine caratteristica del
paesaggio delle forre.
Le comunità agricole, quando a seguito della dispersione romana
rioccuparono o fondarono ex novo i siti acropolici, operarono una
riappropriazione del territorio, ri-creando un paesaggio che, come nelle
origini, era garanzia di memoria e sicurezza, nonché di rapporto col divino in
un periodo di incertezza e di paura.
Sintomatica fu la ricerca di spazi e di luoghi chiusi, protetti e
controllabili, come le mura di un villaggio o gli antri di un insediamento
rupestre, nei quali la struttura diveniva una celebrazione della sicurezza e
della potenza divina.12
L’insediamento, isolato dal territorio circostante, fatta eccezione per
l’unico accesso, aveva la sua fortificazione proprio nel punto più debole con
la costruzione prima della torre e poi del castello.
La forma a fuso d’acropoli dei villaggi, sottolineata dalle mura e
separata dal resto con un fossato in prossimità del castello (una sorta di forra
artificiale), sarebbe stata progressivamente strutturata dapprima con abitazioni
lignee e poi con ricorso al tufo.
L’edificazione avveniva con un’operazione che al tempo stesso era di
sottrazione e di successiva addizione di materiali. Lo scavo dei magazzini,
delle cisterne e delle stalle poste al di sotto delle abitazioni sarebbe servito a

12
E. TURRI, Il paesaggio come teatro. Marsilio, Venezia 1998

72
CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

recuperare materiale per l’elevazione delle strutture murarie sovrastanti,


determinando unità edilizie composte di locali fuori e dentro terra.
Il Castrum Insulae13, sul percorso della via Amerina, rappresentava un
esempio di tale tipologia insediativa. Si ergeva su di un baluardo tufaceo
lungo circa 300 m e separato dal plateau vulcanico retrostante da un
avvallamento del terreno. Sicuramente partecipava come fortezza bizantina
nel VII-VIII secolo alla teoria di castra messi in atto per la difesa del ducato
romano, funzione che rivestivano anche i siti più meridionali di Castel
Porciano e Ponte Nepesino.
L’accesso al villaggio avveniva di lato rispetto all’asse longitudinale
del sito e tramite una porta con chiusura a saracinesca che immetteva
direttamente nel vallo. Il fossato divideva l’insediamento in due parti: sul lato
ovest il castello, con la torre centrale; sul lato est la chiesa e le abitazioni
realizzate in tufo con le loro cantine, magazzini e cisterne sotterranee.
Lungo il percorso stradale troviamo anche altri luoghi con qualità
analoghe: alcuni di essi prossimi al tracciato stradale, altri rinserrati sui
pianori e a breve distanza: Ponte Nepesino, Castel Porciano e Castel d’Ischia.
Questi formano, con quelli più ad est di Castel Paterno e Fogliano,
un’immaginaria linea difensiva tra l’Amerina e la Flaminia.

13
Del sito nei pressi di Nepi si hanno notizie fin dal 989, quando il castrum era in locazione
al monastero dei SS. Cosma e Damiano; è annoverato come feudo nepesino con il nome di
Castrum Insula Conversina; nel 1427 era già abbandonato.

73
CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

Più a nord si situa Pizzo Iella e, verso Corchiano, il Castellaccio di


Castiglione.

Castello di Castiglione detto Castellaccio (Corchiano).

Poco oltre Casale Santa Bruna che, anche nel nome, ricorda la funzione
difensiva agricola degli originari castra.

74
CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

Casale di Santa Bruna in località Aliano (tra Corchiano, Vignanello e Gallese).

Tra un sito e l’altro un numero considerevole di segni minori costituiti


da torri isolate o casali fortificati: Castellaccio, nei pressi di Faleri; il sito
detto La Torre, prima della tagliata del Soccorso a Corchiano; la torre di
Resano, sul Rio Paranza. Segni che s’infittiscono nella piana del Tevere con le
torri di San Masseo e le due sul promontorio di Castiglioni allo sbocco del
Rio Grande.14
Il fenomeno dell’incastellamento si manifesta con molta evidenza
anche nella zona di Capracorum, che era stata la sede di una di quelle

14
G.CERRI, P.ROSSI, La via Amerina e il suo paesaggio, op. cit.

75
CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

domuscultae che avevano caratterizzato il paesaggio della Campagna romana


nell’VIII secolo. Dalla disgregazione di Capracorum sorgeranno molti castra
indipendenti fra loro e fortificati, che sopravviveranno la maggior parte alla
domusculta iniziale. Di questi castra quattro sorsero nel X secolo e due
nell’XI, mentre per altri, ora distrutti, manca la data dell’incastellamento.
Nel X secolo sorsero Mazzano Romano (945), Calcata (974), Sorbo
(996), Faleria o Stabia (998); nell’XI secolo Formello (1073), Campagnano
(1076). Ronciliano è molto tardo in quanto le prime notizie risalgono al 1295,
mentre mancano quelle di Porciano. Questi castra non sono solo dei castelli
ma dei veri e propri centri abitati fortificati.
Tra i centri presi in esame e oggi non più esistenti, il 6% risale a
fondazione etrusca, il 3% a quella romana, il 5% a fondazione compresa tra il
V e L’VIII secolo, il 6% al XI secolo. Le percentuali salgono nei secoli
caratterizzati dal fenomeno dell’incastellanto sino a divenire pari al 16% nel
X secolo, al 14% nell’XI secolo, al 20% nel XII secolo e al 19% nel XIII
secolo. Infine per l’11% dei centri non si conosce la data di fondazione. Con il
XIII secolo cessa la nascita di nuove sedi e cominciano gli abbandoni.15
Comunque la tipologia insediativa del villaggio non avrebbe subito
alcuna modifica rilevante nei secoli successivi: le addizioni edilizie, le
rettifiche dei percorsi viari, la realizzazione di eventuali ponti sulle forre,
avrebbero consolidato il carattere compatto dell’insediamento senza nuocere
all’immagine originaria della città. Soltanto nel XV secolo le fortificazioni
dello Stato Pontificio effettuate dai Borgia, rafforzando l’area urbana dei

15
S.CONTI, Le sedi abbandonate nel Patrimonio di San Pietro, op.cit.

76
CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

primi castelli, avrebbero determinato un ulteriore assetto difensivo dei


villaggi come Nepi e Civita Castellana.

3.6Le politiche dei Papi riformatori.

Nei secoli attorno all’anno mille si riscontrano situazioni fluttuanti di


contrapposizione dei laici possessori (Baroni) contro il Papato. Le grandi
famiglie tendevano al controllo del territorio approfittando delle fortune
alterne del Papato nei confronti di altri sovrani presenti in Italia.
Distinguendosi dalla società laica, il papato si trovò nella necessità
quasi automatica di formulare nuove soluzioni per ciò che riguardava le basi
territoriali della Santa Sede.
Dopo la riforma,tra la fine del secolo XI e i primi decenni di quello
successivo, le famiglie baronali continuarono a mantenere i loro centri di
potere e ad essere l’elemento principale dell’autorità locale.
Nella spartizione delle influenze dei Baroni nei territori della Chiesa,
nell’alto Lazio dal Tevere al Tirreno forte era la presenza delle grandi famiglie
feudali facenti capo ai Colonna, di antica origine senatoria romana,
discendente dai Conti di Tuscolo; agli Orsini, ai Normanni-Alberteschi e ai
Vico (tutte di origine germanica).
Nel XII secolo il Papato continuò nella politica delle acquisizioni,
poiché mirava al controllo dei collegamenti tra l’Urbe ed il territorio
circostante. Tuttavia alcune delle casate più importanti – gli Anguillara e i di
Vico – mantennero il proprio potere, ed Eugenio III poté di conseguenza dare

77
CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

l’avvio a una serie di acquisti che gli consentirono, tra il 1146 e il 1153, di
raggiungere una posizione di grande importanza nella Tuscia romana. Nel
giro di qualche anno egli acquisì i castra di Petrignano (presso Vetralla);
Piansano e Mazzano (a sud di Sutri) e Vetralla (nel 1151).
Nel tentativo di affermare il proprio ruolo politico-militare in Italia
centrale, Adriano IV rafforzò il potere della Chiesa sempre mediante le
acquisizioni di centri abitati e di territori. Tra il 1157 e il 1159 il pontefice
acquistò Corchiano, Orcla (a 4 km da Vetralla), Raminiano e Rocca
S.Silvestro (alle pendici e sulla sommità del Soratte), Castiglione e Canepina.
La strategia che egli adottò fu quella della conquista di punti di forza da
utilizzare come nuclei di autorità papale nelle terre patrimoniali. Il papa
infatti, sfruttando da un lato i problemi economici di alcuni lignaggi baronali
e dall’altro, una maggiore prosperità delle casse pontificie, acquistò più di
venti castra, che vennero posti alle dirette dipendenze della Santa Sede
(castra specialia) e la cui difesa fu affidata agli stessi proprietari di un tempo,
legati al papa da un patto di fidelitatis Ecclesiae.
Con Innocenzo III la Chiesa riprese il sopravvento sui proprietari
terreni e, nella riorganizzazione dei territori, alle provincie di Campania e
Sabina, si aggiunsero dei Patrimoni tra cui quello di S. Pietro in Tuscia.
Proprio con il suo pontificato vennero gettate le basi di uno stato
territoriale della Chiesa. In questo periodo furono definivamente affermate le
fondamenta politiche e giuridiche dell’unificazione dei poteri spirituale e
temporale nelle mani del vescovo di Roma. Innocenzo III, consacrato nel
1198, può essere considerato se non proprio il fondatore dello Stato della

78
CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

Chiesa, quanto meno il papa che più di altri seppe ottenere risultati duraturi
nel corso dei tre secoli successivi.
Proprio il Patrimonio di S. Pietro in Tuscia fu una creazione di
Innocenzo III, all’inizio del suo pontificato. Aveva la funzione di controllare
le terre a nord di Roma. Il confine meridionale era stabilito, anche se in forma
indefinita, dalla sfera di influenza di Roma. Ad est era sostanzialmente
delimitato dal fiume Tevere, ad ovest dalla costa tirrenica. A nord includeva i
centri di Orvieto, Bagnoregio, Viterbo, Montefiascone e comprendeva al suo
interno Civita Castellana, Vetralla, Sutri e Nepi, con Civitavecchia e Corneto
verso il mare.
Le Provincie e i Patrimoni erano governati da un rettore di nomina
pontificia e normalmente decadeva con la morte del Papa e poteva essere
riconfermato dal successore del Papa.
Con il pontificato di Gregorio IX (1227 – 1241), il governo del
territorio del Lazio assunse una particolare importanza per una serie di misure
legislative e azioni amministrative, vista la necessità di una profonda
riorganizzazione. Con un decreto del 1234, il pontefice proclamò
l’inalienabilità di un complesso di centri abitati (castra) di evidente
importanza strategica che venivano dichiarati demanio speciale della Chiesa
di Roma. In questo periodo, dunque, il diritto di fondare un castrum, di
ripopolare un sito abbandonato o di fortificare un centro preesistente era
appannaggio esclusivo della Santa Sede. A differenza dei castra specialia
della fase di Eugenio III e Adriano IV, gli insediamenti posti ora alle strette
dipendenze del potere centrale venivano controllati e amministrati da

79
CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

rappresentanti del Papa, che si riservava il diritto di sostituirli e di revocarne i


poteri.

3.7Oltre il papato: forme di potere nell’Agro Falisco del Tardo


Medioevo.

Fino a buona parte dell’XI secolo, l’esercizio del dominatus loci da


parte di laici ed enti ecclesiastici rappresentò il sistema di aggregazione
prevalente del territorio rurale.
I castra continuarono a essere, nei secoli XIII e XIV, punti di
riferimento essenziali per il popolamento delle campagne non mancando di
fungere, in qualche caso, da veri e propri centri propulsori dell’iniziativa
economica.
I domini di queste comunità erano gli esponenti dei maggiori lignaggi
capitolini, cui i castelli dovevano assicurare una solida base di potere, non
solo politico ed economico, ma anche militare.
Le spartizioni delle influenze delle grandi famiglie romane, sempre in
questo periodo non sembrano interessare queste aree, per le quali continua, a
livello produttivo, una dipendenza piena dallo Stato della Chiesa. Ma fu
proprio a spese di questi domìni che si realizzò l’espansione dei lignaggi
baronali romani nel territorio falisco.16

16
P. DELOGU, Castelli e palazzi. La nobiltà duecentesca nel territorio laziale, in Roma
anno 1300 cit., pp. 705 – 713.

80
CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

Mentre in alcune zone di confine e di particolare importanza strategica


l’insediamento di un lignaggio era stato non solo favorito ma addirittura
proposto dal papa, in altre aree invece, la spinta espansionistica dei grandi
casati romani fu condizionata dalla situazione preesistente. Essa fu infatti
limitata, o quasi nulla, laddove esisteva già una concentrazione di potere da
parte di un altro casato o di un ente ecclesiastico, prendendo eventualmente
quota solo successivamente, in conseguenza del declino politico – economico
dell’antico proprietario.
Per ciò che riguarda l’assetto dei possessi, è stata ribadita più volte
l’importanza delle vie di comunicazione nella configurazione dei domìni
familiari.
I Colonna di Palestrina, ad esempio, furono chiaramente guidati, nella
loro politica di espansione nel territorio, dalla volontà di controllare i
principali percorsi che conducevano a Roma. Così essi, verso la fine del
Duecento, conquistarono Nepi e Ponte Nepesino, prossimi alla via
Francigena.
Anche se, come già detto, il territorio falisco aveva una piena
dipendenza dallo Stato della Chiesa, oltre alla presenza dei Colonna,
possiamo registrare la presenza degli Orsini (che occupavano, con i loro
possedimenti, la valle del Tevere fino a Monterotondo),17 e degli Anguillara
(Capranica, Ronciglione, Stabia, Calcata).

17
S. CAROCCI, Baroni di Roma. Dominazioni signorili e lignaggi aristocratici nel
Duecento e nel primo Trecento, “Nuovi studi storici”,23, Istituto storico italiano per il
Medioevo, Roma, 1993.
A. CORTONESI, Terre e signori nel Lazio medioevale. Liguori editore, Napoli 1988.

81
CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

La potentissima famiglia degli Anguillara possedeva molte terre


nell’Agro falisco, terre passate successivamente in terze mani o per via di
doti, ovvero per alienazioni, o per vendite.
L’origine della famiglia degli Anguillara avvenuta intorno al 950 con
Raimone, è avvolta nel mistero. Nonostante la leggenda, che parla della
donazione da parte del papa di questo territorio in seguito alla sconfitta di un
drago in riva al lago che terrorizzava gli abitanti, il drago-serpente potrebbe
essere accostato ad una banda di predoni che terrorizzavano gli abitanti locali,
fino a quando non vennero sconfitti da forze guerriere. Non a caso infatti, lo
stemma della famiglia degli Anguillara rappresenta due serpenti incrociati.
Le fonti ci dicono che a Capranica, dove gli Anguillara si erano
trasferiti all’inizio del XIV secolo col trasferimento della sede papale da
Roma ad Avignone, Orso di Anguillara, figlio di Francesco e Costanza Orsini,
ospitò Petrarca nel 1336 e nel 1341 lo premiò a Roma per la sua opera
chiamata “De Africa”. Con Orso si realizza l’ingresso ufficiale degli
Anguillara nel panorama delle famiglie nobili romane, visto che era figlio di
una Orsini e marito di una Colonna, reggendo sempre più le sorti di Roma in
assenza del papa e trascurando sempre più il territorio di Anguillara.
Successori di Orso furono Pietro, Dolce ed Everso II, marito di Francesca
Orsini. A causa della disonestà e della tirannia di quest’ultimo i territori
ritornarono sotto il diretto controllo della camera Apostolica.
Solo nel 1493, dopo la morte di Innocenzo VIII, i possedimenti
passarono dal papa a Virginio Orsini, donde discesero i conti d’Anguillara,
mercé l’esborso di 55 mila scudi, per il quale prezzo fu poi acquistata dal

82
CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

pontefice Alessandro VI Borgia. Solo con l’arrivo di papa Giulio II i territori


tornarono sotto il controllo degli Orsini.

3.8Pascolo e colture alla fine del Medioevo.18

Si afferma agli inizi del Quattrocento, nel quadro di una globale


ristrutturazione della finanza pontificia, il monopolio statale sulle terre pascue
laziali appartenenti al demanio. I neocostituiti uffici delle Dogane peducum
chiamati ad amministrare i pascoli del Patrimonio, non tardano a divenire uno
dei principali cespiti d’entrata del fisco pontificio. La dogana da un lato
disciplinava l’entrata, la permanenza e l’uscita delle bestie, garantiva la
sicurezza loro e delle persone che le conducevano e provvedeva i pascoli a
prezzo indeterminato; dall’altro percepiva i diritti di “fida” o “securitas” su
ogni 100 capi di bestiame, che prendeva in consegna per assicurargli il
pascolo.
Incoraggiata dalle condizioni di maggior sicurezza offerte alla
transumanza dalla nuova organizzazione, la calata autunnale delle greggi dalle
regioni appenniniche acquista consistenza sempre maggiore e determina da
parte delle autorità doganali una costante pressione per ridurre, nella vasta
zona di loro competenza, l’estensione dei seminativi. Nell’ambito della
proprietà demaniale si assiste così su tutti i fronti alla capitolazione del

AA. VV., Pascolo e colture nel Lazio alla fine del Medioevo in “Lunario Romano VIII –
18

Fatti e Figure del Lazio Medievale”. F.lli Palombi Editore, Roma 1978.

83
CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

coltivo, né ha sorte diversa la monocultura cerealicola dei grandi latifondi


laici ed ecclesiastici.
I vantaggi dell’esportazione granaria oltre i confini dello stato
svaniscono e sono per di più ostacolati all’interno gli stessi traffici interzonali;
dunque non vi è interesse per i grandi proprietari all’incremento della
produzione, che anzi, porta il rischio di un calo eccessivo dei prezzi sulle
piazze locali e, in ogni caso, rende più incerti gli esiti delle manovre
speculative.
Ne risulta oggettivamente incoraggiata la già pronunciata vocazione di
questo ceto ad una gestione assenteista della proprietà; tanto più che la rendita
dall’affitto del pascolo offre, nel contesto politico-economico cui ci riferiamo,
le migliori garanzie di stabilità e tocca, grazie in primo luogo alla
minimizzazione dei costi di gestione e degli investimenti, livelli difficilmente
raggiungibili per altra via.
I provvedimenti di Paolo II (1464-1471) e soprattutto di Sisto IV (1471-
1484) in tema di politica agraria puntarono sia al rilancio della produzione,
che richiedeva un’inversione di tendenza nella conduzione dei patrimoni
fondiari vista la precarietà storica dell’approvvigionamento granario romano,
nella quale non si mancò d’individuare la causa prima delle molte angosce di
quegli anni, sia sulla razionalizzazione del sistema annonario.
Il documento prende avvio con la constatazione che da diversi anni
nella zona intorno a Roma si lamentano scarsi raccolti sia per il grano che per
altri cereali: i proprietari, ricavandone un utile maggiore, preferivano
destinare la terra al pascolo piuttosto che all’alimentazione e al sostentamento
degli uomini.

84
CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

Allo scopo, dunque, di porre rimedio a questo errore, si dispone che nel
territorio di Roma e in tutte le province, chiunque intenda coltivare possa
utilizzare la terza parte di ciascun fondo, sia che appartenga ad enti
ecclesiastici che a privati. Per i coltivatori esiste sì l’obbligo di chiedere
licenza ai proprietari della terra, quand’anche, però, non l’ottengano, è
prevista come sufficiente l’autorizzazione di alcuno dei menbri della
commissione che viene appositamente costituita. È a questa commissione che
spetterà decidere, qualora nascano questioni sul tempo della messa a coltura,
sul “terzo” da scegliere, sulla corresponsione “pro arata et culta parte” ai
proprietari, nonché sui danni che questi dicano di aver subito, limitatamente al
primo anno, in seguito a tali nuove misure.
Gli effetti prodotti dalla legislazione esaminata potranno, forse, essere
evidenziati dall’esame dei numerosi registri notarili pervenuti per lo stesso
periodo. Di certo, il fatto che in un breve arco di anni siano emanate più
costituzioni di contenuto analogo (si pensi a quelle di Giulio II del 1508, di
Leone X del 1519, di Clemente VII del 1523) non può non suscitare seri
dubbi sulla loro reale incidenza. In particolare, la bolla di Giulio II, che pur
muove dalla constatazione di una considerevole ripresa dell’agricoltura
verificatasi in seguito alle disposizioni sistine, rivela l’intransigente
opposizione dei latifondisti ai provvedimenti ricordati: impedendone il
trasporto del grano e facendone incetta, essi puntavano a scoraggiare
l’iniziativa dei coltivatori e, dunque, a svuotare di ogni reale contenuto la
nuova legislazione.
Procedendo ad un censimento dei cereali presenti sul coltivo medievale,
è anzitutto da osservare come i documenti indichino nettamente dominante la

85
CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

presenza del grano (granum, frumentum), suggerendo al tempo stesso per


diverse altre specie un ruolo non trascurabile.
Delle infinite menzioni del frumento, ricorrono riferimenti alla
coltivazione di due sottospecie, la spelta (spelta) e il farro (far), rappresentanti
dei cosiddetti grani vestiti.19 Negli statuti la spelta spesso è il solo cereale la
cui menzione venga associata a quelle dell’orzo e del frumento.
Regolarmente attestata dalle fonti è anche la semina dell’orzo
(ordeum), coltivato nella varietà invernale, la cui importanza risulta seconda
solo a quella del grano. Venendo ai grani primaverili, è da rilevare come
miglio (milium), panico (panicum) e sorgo (sagina, sagena, suricum) siano
piuttosto uniformemente testimoniati.
Attraverso l’esame delle registrazioni camerali relative alle riscossioni
dei terratici e ad altre operazioni di minor rilievo, si ha modo di riscontrare,
una volta di più, nel Patrimonio di S.Pietro, l’incontrastato dominio della
frumenticoltura, anche se la segale si inserisce nel novero delle presenze
cerealicole significative. Nella stessa Campagna Romana, ai confini con
l’Agro Falisco, le coltivazioni sembrano esaurirsi in quelle del trinomio
frumento, orzo e spelta, segnando al solito frumento una netta prevalenza
sugli altri cereali.
La supremazia dei cereali d’inverno, ovunque chiaramente attestata,
non deve peraltro indurre a minimizzare il ruolo dei grani primaverili: piante
fra meno esigenti sotto il profilo pedologico come il miglio, panico e sorgo,
potevano infatti attenuare, data la rapidità del ciclo vegetativo, il rischio di

19
La denominazione è motivata dal tegumento che protegge la carosside e rende
necessaria la brillatura del seme.

86
CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

condizioni atmosferiche avverse, consentendo di disporre a breve termine di


un raccolto talora indispensabile a garantire il minimo vitale.20
Ma solo il frumento e la segale – fra i cereali minori il più adatto alla
panificazione – dovevano trovare impiego esclusivo nell’alimentazione
umana, mentre si può indicare per l’avena, l’orzo e la spelta una destinazione
esclusiva all’alimentazione animale (in primo luogo equina). Il prezzo
dell’orzo si attesta di solito intorno alla metà di quello del frumento (17/18
soldi a staio), come inferiore ad esso risulti, senza eccezione, il prezzo della
spelta (circa 6 soldi).
Per quanto riguarda la lavorazione dei suoli e strumenti agricoli,
l’elevato numero di lavorazioni (più di 3 o 4 annue ma si arriva a volte a 6/7)
induce a pensare una volta di più all’impiego di quell’aratro simmetrico e
leggero, con vomeri in acciaio e ferro, di antica tradizione mediterranea, con
il quale, il rovesciamento delle zolle poteva ottenersi soltanto praticando
arature rapide ed incrociate. Quanto al tiro risulta in netta prevalenza bovino,
mentre nessuna traccia è stata reperita dell’impiego del cavallo. Statuti
duecenteschi lasciano intravedere per i buoi da aratro un mercato piuttosto
ampio e un commercio vivace: la compravendita si svolge il sabato e la
domenica e all’acquirente si dà la facoltà di provare l’animale per tutta la
giornata di lunedì.21
3.9Gli orti e le tecniche colturali.22
20
Può ricordarsi come, anteriormente all’introduzione del mais, la polenta di miglio o di
sorgo abbia costituito l’alimento base delle classi povere.
21
CORTONESI A., Terre e signori nel Lazio medioevale: un’economia rurale nei secoli
XIII – XIV. Liguori editore, Napoli 1988.
22
CORTONESI A., Il lavoro del contadino: uomini, tecniche, colture nella Tuscia
tardomedievale. Bologna, Clueb 1988.

87
CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

Segnato per larghi tratti da seminativi ed estese pasture, l’agro falisco


mostra in realtà anche un volto diverso: quello dei quartieri agricoli a
coltivazione intensiva che, soprattutto in prossimità dei centri urbani, lo
sforzo tenace di più generazioni di orticoltori seppe ‘costruire’, conferendo ad
essi nettezza di connotati tecnico colturali e chiara fisionomia d’insieme.
È noto come i centri medievali fossero di solito fittamente punteggiati
di orti, giardini e vigne, spesso impiantati fra le abitazioni entro minuscoli
fazzoletti di terra, talora disposti più comodamente in aree marginali di una
certa ampiezza.
Proiezione esterna dello spazio domestico e, dunque, per solito
addossati alle case, essi risultano presenti in ogni angolo della città. Sembra
trattarsi in genere di modeste superfici, impiegate talora, oltre che per la
pratica orticola, per lavori di artigianato domestico e come deposito di attrezzi
e prodotti agricoli.23
Alberi da frutto e viti allevate a pergola vi sono non di rado impiantati
sia per creare zone d’ombra che per sovvenire alle necessità della mensa
familiare.
Gli appezzamenti che le fonti indicano come orti costituiscono una
realtà tanto articolata sotto il profilo colturale che, almeno a muovere dalla
seconda metà del Duecento, sembra di poter dubitare della complessiva
prevalenza, al loro interno, delle colture propriamente ortive.
Se la produzione attestata non eccelle per varietà e ricchezza, è
comunque in grado di soddisfare le necessità sostanziali della nutrizione:

23
La varia destinazione sembra riflettersi, fra l’altro, nell’incerta designazione di questi
terreni quali ortus sive claustrum, claustrum seu ortulus, orticellus sive casalinum.

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CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

cavoli (caules), cipolle (cepae), agli (alea), porri (porri), rape (rapae), lattuga
(lactuca), finocchi (feniculi), spinaci (spinaci), ravanelli (radices), scalogni
(scalogna), carota (carotae), portulaca (portulaca), sono, con le diverse
cucurbitacee (zucche, cucurbitae; meloni, melones; cetrioli, citrioli) e lo
zafferano (zafferanum, crocum), ospiti più o meno assidui delle clausurae
ortive.
Né mancano menzioni di erbe aromatiche quali la rucola (ruca), la
senape (sinapis), il prezzemolo (petrosillum), il comino (cuminum), il
coriandolo (pitartima).
A dominare largamente il panorama delle colture sono i cavoli, le
cipolle e le zucche; porri, agli e lattuga segnano, tuttavia, pure essi una
presenza diffusa. Del cavolo – da identificare prevalentemente per il
medioevo con la varietà ‘bianco’ e ‘cappuccio’, essendo successiva la
diffusione in Europa del cavolfiore - è stato anche di recente sottolineato il
ruolo di primo piano assunto nell’alimentazione medievale.
Accanto al cavolo, trovano frequente menzione nei registri delle spese
cipolle e agli, prodotti cui la facile conservazione conferiva una particolare
utilità. Per l’importante ruolo rivestito nella farmacopea, oltre che per il vario
uso in cucina, non sorprende che anche l’aglio goda di buona fortuna.
Una certa frequenza dei riferimenti documentari motiva anche per il
porro una particolare menzione: la sua coltivazione, certamente non diffusa
come quella della cipolla e dell’aglio, è oggetto, comunque, di non minore
attenzione.
Il quadro delineato per le liliacee conferma, dunque, quanto per linee
generali è conosciuto sulla loro importanza nel regime alimentare delle

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CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

popolazioni medievali. Lo stesso non accade per le rape, cui la


documentazione non riconosce certo quel ruolo di primo piano che sembra
spettare loro fra gli ortaggi di tanta parte del Lazio: a giudicare dalle rare
menzioni reperite, dovevano comparire sulla tavola non più, ad esempio, che i
finocchi e gli spinaci, presenze, a loro volta, di secondo piano.
Quanto poi, alle erbe d’insalata, è la lattuga a godere di una preminenza
incontrastata. Di diverso peso anche il contributo di zucche e cetrioli:
sporadicamente menzionati quest’ultimi, apprezzate e di largo consumo le
prime.
Qualche parola resta da spendere per lo zafferano, che poteva trovare
posto sia nell’orto accanto alle altre piante, sia in terreni ad esso riservati. Fra
le spezie sembra essere con il pepe quella di più diffuso consumo nel Lazio
medievale.
Non rara, come è stato già rilevato, all’interno delle parcelle, anche la
presenza di alberi da frutto.
Limitati a ciò, i connotati colturali dell’ortus falisco e viterbese
risulterebbero comodamente iscrivibili nel più tradizionale dei quadri di
produzione. In realtà, alle piante fin qui menzionate altre si tratta di
aggiungerne, la cui presenza non solo assume un indiscutibile rilievo, ma
sembra finanche segnare il tratto economicamente più importante
dell’orticoltura locale.
In primo luogo il lino, che certo già nel XIII secolo costituisce per gli
ortolani della zona una presenza familiare.24 La destinazione linicola di molte

24
È tuttavia da ricordare come non manchino per il Patrimonio testimonianze di vaste
coltivazioni di lino in campo aperto.

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CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

fra le clausurae ortive appare, d’altronde, un punto fermo nella vicenda


medievale di queste campagne: alla fine del Quattrocento, la nuova redazione
degli statuti degli ortolani mostra chiaramente come la macerazione degli steli
rappresenti per l’arte un momento di generale mobilitazione.
Accanto al lino, ad arricchire ulteriormente il profilo colturale delle più
estese parcelle ortive, l’inarresa presenza del frumento, che al primo talora si
avvicenda nel contesto di cicli produttivi attuti verosimilmente in rotazione
non serrata. Sui terreni assistiti con pratiche assidue di concimazione e
sovescio ed estesi, è da credere, ben oltre la consueta dimensione di un orto,
la semina del grano doveva trovare efficace motivazione sia nella resa unitaria
insolitamente alta che nell’orientamento commerciale della produzione, tale
da incentivare la coltivazione delle piante in grado di garantire il maggior
reddito.
Nel quadro delle testimonianze relative alle tecniche di coltivazione,
sono i riferimenti alla linicoltura quelli che assumono il maggior interesse.
Il ricorso ad abbondanti concimazioni e ad altre pratiche fertilizzanti consente
di avvicendare entro le più vaste particelle ortive il lino ed il grano. Seminato
in primavera e raccolto tra la fine di maggio e gli inizi di giugno, il lino non
impedisce, peraltro, in tutto la preparazione del terreno in vista delle semine
autunnali.
Il ricorso alla concimazione, essenziale per la preparazione del suolo
alla semina del lino e, più in generale, al fine di preservare la fertilità delle
particelle ortive, è diffusamente testimoniato. Come si è potuto constatare, nel
caso di terreni concessi in locazione il proprietario del fondo si fa solitamente
carico di fornire la metà dello stabbio necessario: una stipula prevede,

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CAPITOLO 3

IL MEDIOEVO

tuttavia, che debba essere l’affittuario ad operare in stabulo, per ammassare il


letame.
Non di rado le criptae scavate nel tufo ai margini degli orti dovevano
essere utilizzate proprio come riparo, oltre che degli attrezzi, del concime.
Oltre le pratiche volte a garantire la buona nutrizione dei terreni,
risultano ovviamente determinati ai fini di una produzione soddisfacente
quelle intese a realizzare un buon letto di coltura e ad assistere le piante nella
crescita. L’uso dello zappone è da ritenersi preferito all’aratro in quanto
consente di smuovere la terra alla profondità voluta e con maggiore regolarità;
l’uso dell’aratro è indicativo, in alcuni casi, dell’insolita ampiezza dei terreni
ortivi votati all’avvicendamento lino-grano.

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