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Conversazione con Massimo Cacciari Ennio Galzenati

Questa intervista tratta dallEnciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, unopera realizzata da Rai-educational in collaborazione con lIstituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dellUnesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio dEuropa. L'obbiettivo quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme despressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea. Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it

Professor Cacciari, la nozione di "libert" costituisce uno dei grandi temi ispiratori dell'intera filosofia. Come si definisce il concetto di libert? E che cosa si intende quando si parla di "libero arbitrio"? Premetto che mia intenzione trattare il tema in questione non in termini di sedentaria erudizione, bens invitando ognuno di noi a pensare in proprio. Vorrei cio fare in modo che ciascuno compia autonomamente il lavoro della filosofia, che , essenzialmente, quello di arrestarsi a pensare. Quella sul libero arbitrio, una domanda fondamentale. C' chi ha sostenuto che la domanda fondamentale della filosofia sarebbe un'altra, e cio: "Perch qualcosa invece che nulla?". Io invece ritengo che chiedendosi: "Perch qualcosa invece che nulla?", l'uomo, in realt, intenda interrogarsi intorno a se stesso e alla propria libert. Tutte le altre domande fondamentali sono in qualche modo derivate da questioni come queste: "Chi siamo?", "Siamo liberi?", "A quali condizioni, su quali basi, per quali ragioni possiamo dirci liberi?", "Che cosa pu dirsi libero?". Partiamo dalla definizione di un grandissimo filosofo che si interroga con estrema radicalit su questo tema, Spinoza; egli, nella settima definizione del I libro dell'Ethica, afferma: "Diciamo libera quella cosa che esiste per sola necessit della sua natura, e si determina ad agire da s sola". Questa la definizione pi rigorosa che si possa dare del termine "libert". Ma, allora, sulla base di essa, nessuno di noi pu dirsi veramente libero, poich la nostra mente sempre determinata ad agire da una causa, la quale a sua volta condizionata da un'altra causa, e cos via all'infinito. Si tratta di una definizione assolutamente convincente che non ci consente, per, di attribuire a noi stessi la libert. Ci si chieder allora se, sulla base dell'affermazione spinoziana, vi possa mai essere qualcosa in questo mondo che possa dirsi libero. Si tratta di questioni che hanno sempre inquietato la riflessione, non soltanto dei filosofi, ma di ognuno di noi. Probabilmente, ci rivolgiamo questa domanda cos inquietante e radicale, perch non siamo contenti del nostro agire. Se fossimo soddisfatti della nostra azione, forse non ci chiederemmo se siamo liberi. Per quanto possiamo saperne, l'animale non si pone la domanda sulla propria libert perch esso contento della propria condotta, assolutamente determinato e dominato dalle cause che lo spingono ad agire. Noi, invece, ci interroghiamo sulla libert perch, nel nostro essere causati, non siamo mai contenti. L'inquietudine che ci spinge a tale interrogazione deriva dall'insoddisfazione che proviamo per il fatto che il nostro rgon, il nostro lavoro, non raggiunge mai ci che i greci chiamavano l'enrgheia, l'atto. L'rgon umano non mai perfettamente in pace con s, non mai vero atto, sempre qualcosa che manca, che soffre di una assenza, di una miseria, di una povert. Esso non sa mai "perficersi", ovvero non d mai vita a qualcosa di perfetto. Interrogandoci sulla nostra libert, quindi, ci chiediamo se non ci sia qualcosa di cattivo che ci determina ad agire e ci impedisce di essere in pace.

Il nostro interrogarci sulla libert scaturisce dall'inquietudine che accompagna il nostro agire, da noi sempre percepito come manchevole, incompleto. In che termini allora il tema della libert si collega a quello del male, che, secondo la visione neoplatonica, appunto privazione, in quanto connesso all'originaria limitazione delle cose umane rispetto alla perfezione di Dio? Il tema della libert, che si impone per le ragioni che ho indicato, si congiunge direttamente a quello del male. Noi ci interroghiamo sulla nostra libert perch agiamo male. Il nostro agire male non , ovviamente, soltanto la violenza, l'uccisione, il furto. Piuttosto, facciamo male perch qualsiasi nostra opera non ci soddisfa, perch non siamo mai enrgheia, bens sempre rgon imperfetto. Ci che ci induce a porre la domanda intorno alla libert , quindi, un fare male nel senso pi generale e, al contempo, pi radicale del termine: facciamo male - al di l di ogni accezione psicologico-moralistica - in un senso ontologico. La libert e il male formano un unico tema. La trattazione di questo tema che rimarr dominante lungo tutta la grande tradizione filosofica e teologica quella platonica. Platone dice che il Dio non pu essere ritenuto causa del male, perch Egli bene, immutabile, semplice, veritiero, ed , quindi, causa di tutti i beni: thes anatios, Dio innocente, come dice Platone nel mito di Er, narrato nel X libro della Repubblica. Tutta la riflessione teologica successiva si fonda sul presupposto platonico secondo cui, essendo Dio innocente rispetto ai mali del mondo, il fare male dell'uomo deriva dalla sua scelta, dal suo libero arbitrio. Non il divino a determinarci ad agire male, bens la nostra libert. Dio innocente: causa del male l'uomo. Secondo il grande mito di Er, l'uomo si sceglie il proprio damon - il carattere o demone - sulla base della propria storia personale, ricordando le vite che ha condotto. Platone sottolinea che l'uomo, nel momento della scelta, perfettamente libero, laddove, dopo aver scelto, rimane vincolato al suo damon da inesorabili catene. La scelta del damon, quindi, perfettamente libera, non determinata da nessun Dio. Dopo la scelta per, l'uomo rimarr incatenato ad esso in modo inesorabile. L'uomo libero soltanto nell'istante supremo della decisione. Si tratta di un tema che torna, in varie forme, nella cultura contemporanea. Per scorgere la libert, si deve guardare all'istante della decisione. Nella decisione ci si determina, si liberi; poi si determinati da quella scelta, non si pi liberi. Tuttavia, per la cultura classica greca, la libert dell'uomo non si esplica soltanto al momento della scelta del damon. Nel corso della sua vita, l'uomo pu essere libero attraverso la conoscenza. Egli libero, cio, di accumulare tutte le conoscenze necessarie affinch maturi la consapevolezza del destino che sta scegliendo nel momento supremo della decisione. caratteristica della cultura greca una prospettiva intellettualistica, nella quale la libert dell'uomo appare esplicarsi essenzialmente nella sua volont di conoscere. La salvezza riposa sulla possibilit, da parte dell'uomo, di conoscere il suo destino, ovvero ci che lo destina. Solo la conoscenza pu salvarmi - secondo un'immagine che ricorre in tutta la cultura ellenistica e latina - dal seguire il carro del destino in ceppi come uno schiavo oppresso. Ci che in mio potere - in questa prospettiva - non sfuggire al destino, bens conoscerlo, e, avendolo conosciuto, seguirlo volentieri e non in catene come gli schiavi che vanno dietro al carro dei vincitori. La libert consiste, quindi, nell'intelligere Deum, ovvero nel comprendere ci che necessario. La libert si esplica l dove ci si armonizza a ci che necessario, al lgos, alla ragione che pervade tutto il cosmo. Essendo conoscibile la necessit delle cose, si pu essere liberi formandosi una ragione del tutto. Se la libert consiste nel farsi una ragione del lgos che pervade tutto il cosmo, il male non ha pi una consistenza ontologica propria. Male e bene si riducono cos a due punti di vista soggettivi: il male ci che fa male a me, mentre il bene ci che mi aiuta a vivere, che determina il mio benessere; nessuno dei due, per, riguarda la ragione del tutto. Nell'orizzonte della totalit ha significato soltanto il necessario, il lgos onnipervadente: male e bene, di per se stessi, non significano niente. In questa prospettiva, le valutazioni circa il male e il bene si

mostrano prive di autentico sapere. Il sapere, infatti, concerne il necessario, non incontra n il male n il bene. Il male diventa, invece, la mancanza di sapere, il seguire il carro del destino come uno schiavo e non come un suo alleato e compagno consapevole. Il male viene in tal modo a coincidere con un vuoto, una mancanza, un niente. Esso un mero e fuggevolissimo punto di vista di uno schiavo ignorante, di quella che, per gli antichi, era res nullius, una "cosa di nessuno", che non ha rilievo n importanza. L'ultimo tono della cultura classica fa sparire il male riducendolo al punto di vista dell'ignorante, di colui che non vede la totalit del cosmo e la sua unica ragione. Il male proprio di colui che rimane appiccicato proprio come una mosca alla carta moschicida - alla sua personale e limitata prospettiva, la quale niente come niente lo schiavo. La nostra tradizione filosofica e teologica, avendo accolto e reso dominante in se stessa questo tratto della cultura classica, rimuove il problema del male. Essa annichilisce il male riducendolo al semplice punto di vista dell'ignoranza e dell'impotenza proprie dell'anima caduta.

Secondo la cultura greca la libert dell'uomo coincide con la comprensione e l'accettazione di ci che necessario, del destino. In tale prospettiva il male viene ad assumere una consistenza puramente soggettiva: esso non altro che mancanza di sapere. Quali sono i problemi connessi a questa concezione della libert e alla conseguente rimozione del problema del male? E in che modo la riflessione greca sul male si innesta nel tronco della tradizione giudaico-cristiana? Tutte le grandi contraddizioni in cui si imbatte la cultura teologica - sia essa cristiana, islamica o giudaica - derivano, consapevolmente o inconsapevolmente, dalla presupposizione secondo cui il male un niente, una mancanza, un vuoto. Cerchiamo di capire quali sono queste contraddizioni delineando quella che, a mio avviso, l'ultima posizione della gnosi classica. Si pone il seguente problema: la caduta dell'anima, a causa della quale essa viene resa ignorante, impotente, incapace di vedere il necessario, non a sua volta necessaria? necessaria la caduta nell'universo delle dissomiglianze e del molteplice? I grandi filosofi dell'antichit da Platone e Aristotele, e soprattutto la tradizione neoplatonica di Plotino e Proclo, affermano che la caduta dell'anima necessaria. Nel Fedro Platone racconta che l'anima, non potendo resistere al seguito del Dio, cio nella contemplazione del necessario, costretta a reincarnarsi ed a ritornare nell'universo delle dissomiglianze. La visione del Dio talmente accecante e faticosa che l'anima, non potendola pi sopportare, cade. Secondo il Timeo platonico, l'anima plasmata da un dio; e tuttavia, secondo il Fedro, essa cade necessariamente. necessario che l'anima cada perch essa non Dio. Anche se pu giungere alla contemplazione di Dio, non pu permanere eternamente in questo stato ma deve dar vita a nuove vite. Ci si chiede, allora: Dio innocente di questa caduta? Oppure la colpa della sofferenza prodotta dalla caduta da attribuirsi esclusivamente all'anima? evidente che se la caduta necessaria non si potr attribuirne la colpa all'anima. Per l'anima, il cadere, il cessare di contemplare Dio male. Per, essendo questo male necessario, l'anima non pu esserne colpevole. Allora, siamo costretti a pensare che Dio sia reo di questa caduta, non possiamo, cio, tenere ferma la concezione da cui siamo partiti secondo cui thes anatios, Dio in quanto innocente, non causa del male. Siamo giunti dinanzi alla aporia in cui si imbatte la concezione filosofica tardoantica e, da quel momento in poi, l'intera tradizione filosofica e teologica cristiano-europea. Le grandi domande che martellano, non soltanto il filosofo, o la professione della filosofia, ma la grande letteratura europea (basti pensare al nostro Leopardi o a Dostoevskij) sono queste: "Se l'anima cade necessariamente in questa valle di lacrime, come pu esserne colpevole?"; e poi: "Come non pensare che vi sia un male in Dio, se l'anima non colpevole della sua caduta?". Vediamo in che modo la teologia cristiana risponde a queste domande assillanti. Anche se i testi in cui le troviamo trattate danno l'impressione di procedere in modo canonico, scolastico, sistematico, tali questioni, in realt, sono state avvertite in modo drammatico dagli autori che se ne sono resi interpreti. La risposta canonica nella cristianit quella agostiniana, secondo la quale Dio non autore del male ma ne origine. Dio, poich ci vuole liberi, ci ha resi peccatori. Per

conseguire un bene maggiore - la libert, appunto - Egli ci messi in grado di fare il male. Dio non l'auctor del nostro peccato, bens ne l'origine perch ci ha resi liberi, concedendoci, in tal modo, un bene maggiore. Per Agostino, quindi, essendo soltanto noi gli autori dei nostri peccati, bestemmia chiunque li volesse attribuire a Dio.

Il grande dilemma in cui si imbatte la nostra tradizione filosofica rappresentato dalla giustificazione della provvidenza divina dinanzi al male fisico e morale. La questione si complica ulteriormente quando, sotto il nome di predestinazione, essa viene a investire il rapporto fra libert umana e divina. Emerge qui il problema teologico della salvezza e del rapporto tra libert e predestinazione, tra opere umane e grazia divina. Si pu soffermare su questo tema? La tesi agostiniana secondo cui Dio, volendoci liberi, ci ha resi capaci di compiere il male, conduce dinanzi al problema della salvezza. Se l'uomo peccatore - sostiene Agostino - non pu salvarsi da solo. La salvezza sta al di l della conoscenza umana. In questo punto, Agostino e, con lui, l'intera cristianit si separano nettamente dalla cultura classica. Per lui, la conoscenza non un mezzo di salvazione perch l'abisso del peccato tale che l'uomo non potr mai tirarsene fuori da solo. Soltanto l'azione della grazia divina pu salvarlo. Per Agostino, quindi, l'uomo capace di peccare ma non di salvarsi. Egli dice: "I peccati sono tuoi, i meriti sono di Dio". Il merito della salvezza non pu essere umano, bens solo divino, perch l'uomo non potr mai, con le sue sole forze, trarre fuori se stesso dall'abisso del peccato. Si pone, a questo punto, il grandissimo problema se Dio voglia o non voglia tutti salvi. Se si risponde positivamente a questa domanda, dicendo che Dio salva tutti, si rende del tutto inefficace la libert. Infatti, in tal caso, l'agire bene o male dell'uomo non pregiudica in alcun modo il suo destino di salvezza voluto da Dio. Come si vede, riemerge prepotentemente il problema della libert. Potremmo dire che, in questa prospettiva, l'unica libert la libert di peccare. Ma si tratta di una libert che conta ben poco, dal momento che il male dell'uomo, per quanto immenso possa essere, non scalfisce minimamente la necessit della salvazione divina. Qualora, invece, alla domanda se Dio voglia tutti salvi, si risponda negativamente, come fa Agostino e poi anche Tommaso, sorge un'altra questione: perch Dio salverebbe alcuni ed altri no? Risponde Agostino e ripete Tommaso: "Per grazia imperscrutabile. Nessun uomo si salver se non colui che Egli vuole che si salvi". Si tratta del grande tema della predestinazione che accende il dibattito tra Lutero ed Erasmo e conclude l'Umanesimo e il Rinascimento europeo. Il De libero arbitrio di Erasmo si oppone al De servo arbitrio di Lutero. Per Lutero, se leghiamo Dio alla necessit di salvarci tutti, ne facciamo un idolo ozioso e ne eliminiamo la forza predestinante. Ci significa che l'uomo fa il bene solo perch Dio lo ha eletto, ovvero ha costruito la sua anima in modo tale che sia capace di ci. La medesima forza predestinante efficace nel caso del peccatore, il quale pecca perch la sua natura lo costringe a comportarsi cos. In tal modo, Lutero viene a negare la tesi platonica dell'innocenza di Dio e, quindi, anche ogni possibile teodicea. La teodicea risulta impossibile perch Dio predestina in base a un imperscrutabile disegno. Alcune nature, anche se peccano, sono predestinate ad essere salvate. Se non ragionassimo cos - sostiene Lutero - faremmo di Dio un idolo ozioso, che ci ha fatti tutti per essere salvi a prescindere da ci che facciamo, da tutto ci che la nostra natura , esprime, significa, opera. Ma, allora, se Dio un Dio predestinante, non potr pi essere considerato innocente. Ogni discorso volto a giustificare Dio per il male del mondo condannato all'insensatezza. L'insensatezza della teodicea consegue direttamente dall'abbandono della tesi platonica, accolta anche da Agostino, secondo cui Dio innocente.

La concezione di Erasmo, che vede la condizione umana come una lotta fra bene e male, si contrappone nettamente alla radicale negazione luterana della libert dell'uomo. Professor Cacciari, qual la sua valutazione della disputa tra Erasmo e Lutero? Quale delle due posizioni pi vicina alla nostra cultura?

Il discorso luterano, pur sembrandoci cos lontano, determina la nostra cultura in modo pi profondo di quello erasmiano, anche se questo, difendendo il libero arbitrio, potrebbe apparirci pi vicino. In realt, assumendo una posizione che rientra nell'ambito della teodicea, Erasmo appartiene al mondo passato dell'Umanesimo e del Rinascimento. Lutero, invece, taglia il nodo gordiano. Egli tronca di netto, dichiarandola insensata e meramente scolastica, ogni questione relativa all'innocenza o alla colpevolezza di Dio. Nonostante il suo arbitrio sia servo, l'uomo deve agire nel mondo come se fosse perfettamente libero. Dal fatto che non sono assolutamente libero, che il mio arbitrio completamente servo, che sono interamente predestinato, non consegue affatto - sostiene Lutero - che devo stare immobile. Al contrario, la conseguenza del discorso luterano sulla predestinazione che l'ignoranza dell'uomo circa il proprio destino non deve influire sulle sue opere. L'operare intramondano deve avvenire a prescindere da qualsiasi teodicea, da qualsiasi discorso insensato inteso a giustificare Dio. L'uomo, gettato nel mondo, deve agire come se la sua salvezza dipendesse da lui. Proprio perch sa che la propria salvezza non dipende da se stessa, e che non pu minimamente influire n comprendere il disegno divino che la predestina, l'anima dell'uomo indotta ad agire come se tutto fosse nelle sue mani. Alcuni grandi umanisti - il Valla e, indirettamente, l'Alberti - avevano gi avvertito il carattere meramente consolatorio, irenico, di tesi vicine a quelle che poi saranno di Erasmo, e si chiedevano come fosse possibile concepire la propria libert. Nei confronti della libert ci si sente nella stessa condizione in cui si trovava Agostino dinanzi alla questione del tempo. Diceva Agostino: "Quando nessuno mi chiede che cosa il tempo mi pare di saperlo; appena qualcuno mi chiede: "ma che cosa il tempo?", non riesco a definirlo, non riesco pi a capirlo, non riesco pi a dare una risposta". La libert suscita la medesima inquietudine del tempo perch non riusciamo a comprenderla al modo in cui comprendiamo, dimostriamo e calcoliamo i fenomeni. impossibile, insomma, provare che siamo liberi: questa la vera origine del discorso luterano. Proviamo a compiere un esperimento di pensiero per dimostrare questa impossibilit. Io, in questo istante, potrei chiedermi: come posso provare che quanto sto dicendo dipende da una mia scelta? Come faccio a provare che per mia libert che ho detto le parole che ho appena pronunciate? L'unico modo per sperimentare tale libert consiste nel tornare indietro all'istante che precede immediatamente il momento in cui sto parlando. Per fare ci, per, occorrer che tutte le condizioni generali - nessuna esclusa - di un istante fa si ripetano insieme a ci che ho detto. Per dimostrare di esser libero dovrebbe ripetersi, quindi, non solo ci che ho detto nell'istante precedente, ma tutto ci che in quell'istante accaduto. Si tratta, a ben vedere, di un esperimento radicalmente impossibile: esso concepibile ma non pu realizzarsi. Dovr dunque necessariamente dubitare che quanto ho appena detto sia il frutto di una costrizione, che una catena concomitante di cause abbia fatto s che in quell'istante dicessi le cose che ho detto.

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