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Poich non esiste solo la carta e i pensieri restano eterni anche nelletere oltre che nel lettore

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Il presente Ebook inteso ad onorare lautore e impedire che scelte editoriali o commerciali lo possano relegare nel limbo. Se stimi un autore, sostienilo sempre con lacquisto, con la divulgazione, con impegno. Scansione, edit, impaginazione: Jinn Grafica: Dodies e Arkeyos Ringraziamo: chi ha scritto, tradotto, pubblicato il presente testo in cartaceo (lebook nasce dalla carta e ad essa nulla toglie), chi condivider il presente libro e chi proseguir nel diondere e difendere la cultura.

Gruppo LAM Liber a Mente

Liberarsi dalla mentalit del ghetto 1 Come ogni luce crea delle ombre, cos anche il grande contributo portato dagli ebrei alla civilt nel corso della loro lunga storia accompagnato da zone oscure. Io credo che gli ebrei debbano riflettere su tutti gli aspetti della loro eredit e, bench in queste pagine mi rivolga da ebreo ai confratelli ebrei, sono convinto che i problemi qui sollevati rivestano un interesse pi generale, in considerazione delle orribili conseguenze che l'Olocausto comporta per tutta l'umanit. Come psicoanalista, sono profondamente convinto che ci che nascosto, negato e rimosso continui a turbare la nostra vita cosciente finch non lo riportiamo alla luce del sole e non lo guardiamo spassionatamente, per potercene infine liberare per sempre. Senn, continueremo a portarcelo dentro, come una segreta vergogna. La storia del popolo ebraico una strana mistura di universalismo e di settarismo, di massima tensione verso la libert spirituale e di angusto bigottismo. Gli ebrei fanno la loro prima apparizione sulla scena della storia come i portatori della pi alta conquista umana agli albori della civilt, come gli scopritori del monoteismo e i campioni di una vita soggetta alla legge. Tuttavia la storia del popolo ebraico parla anche di ristrettezza mentale e di nazionalismo a volte fanatico. Ancora, fu tra gli ebrei che, come nella storia di Giobbe, per la prima volta l'uomo tenne testa a un Dio arbitrario; in epoca moderna questo tema stato magistralmente riproposto da Archibald MacLeish nel suo dramma JB. Ma ecco, quasi nella stessa epoca in cui Giobbe afferm la dignit umana di fronte a Dio, sorgere, ad esempio tra i Farisei, l'intransigenza religiosa: con questo non voglio denigrare l'importantissimo movimento che va sotto questo nome; mi riferisco al vuoto formalismo che ne rappresent una degenerazione e a cui ci si richiama generalmente quando si parla di atteggiamenti farisaici. Molti secoli dopo il grande filosofo Spinoza verr sconfessato dalla comunit ebraica, e Uriel Acosta perseguitato da parte del giudaismo ufficiale. Anche se gli ebrei preferirebbero ignorarlo, esiste nella loro storia questa tenace dicotomia. Gli ebrei vanno cos fieri dei grandi cambiamenti portati alla liberazione dello spirito, che tendono a dimenticare come non tutto,
1 Questo saggio si basa su una conferenza del ciclo Lessing Rosenwald Lectures, tenuta nel 1962 e su un articolo apparso su "Midstream" nella primavera dello stesso anno. Il pubblico a cui mi rivolgevo in entrambe le occasioni era un pubblico di ebrei. Nella forma attuale non mai stato pubblicato. (Contiene anche parti del mio Survival of theJews e Their Specialty was Murder.)

nella loro storia, sia purezza e luce. Essendo convinto che per il loro stesso bene dovrebbero liberarsi da ogni residuo della vena di angusto settarismo che spesso riaffiora, mi soffermer su questo aspetto. Non vi dubbio che, a causa di Hitler e di quanto avvenne sotto di lui e in seguito, l'immagine che gli ebrei hanno di s si sia radicalmente modificata. Ora vi un senso di ansia circa quello che sar il futuro degli ebrei e su quale dovr essere il loro ruolo nel mondo. Con la creazione dello Stato di Israele, ai vecchi problemi se ne aggiunto uno nuovo: il problema di quale debba essere la posizione politica degli ebrei, nello Stato d'Israele e nel resto del mondo. Gli ebrei americani hanno per lo pi respinto una posizione angustamente sionistica e nazionalistica. Ma, se non sono sionisti, il problema che si presenta loro, che incontrano inevitabilmente nell'educare i figli, diventa: che cosa significa, oggi, essere ebrei? Quando ero bambino nella Vienna antisemita, l'invocazione della festa del Passaggio, la Pasqua ebraica, "l'anno venturo a Gerusalemme", rivestiva per me un profondo significato emotivo. Non perch avessi propensioni nazionalistiche (l'ondata di pangermanismo e il concomitante antisemitismo mi provocavano troppa sofferenza perch potessi trovare attraente qualunque forma di nazionalismo), bens perch quell'invocazione esprimeva la speranza nella fine della persecuzione degli ebrei. Ci che allora pi di ogni altra cosa mi faceva sentire vicino all'ebraismo era il profondo legame che avvertivo con tutti coloro che, come gli ebrei, erano oppressi e perseguitati. Ma in America gli ebrei non subiscono persecuzioni. Che cosa, allora, li terr uniti in futuro? Saranno in grado di farlo un credo religioso, una tradizione e una storia comuni, o un concetto vago come l'etnicit giudaica? La maggior parte sembra ritenere che gli ebrei dovrebbero continuare a esistere come gruppo separato, perch convinta che abbiano un contributo specifico e tutto particolare da offrire all'umanit. Ma, a parte questo, sulla ragione e sulla natura di tale specificit non esiste molto consenso. Gli ebrei non sono l'unico gruppo che viva il problema di come conservare intatta la propria identit etnica negli Stati Uniti. Qualche tempo fa fui invitato da un gruppo di nippoamericani a parlare delle difficolt che incontrano nell'educare i figli, i quali si trovano a doversi confrontare con le profonde contraddizioni esistenti tra la loro eredit culturale giapponese e l'adesione ai valori della cultura americana. Nel 4

chiedermi consiglio, un esponente della comunit nippoamericana cos riassunse il problema: via via che la generazione degli issei (i giapponesi che emigrarono negli Stati Uniti) invecchia, si fa sempre pi acuto il problema della loro immagine di s e del conflitto tra la loro identit culturale e quella dei figli, soprattutto considerando quelli che vedono come limiti culturali della societ contemporanea. A sua volta, la prima generazione di giapponesi nati negli Stati Uniti, i nisei, pare trovarsi in una situazione sempre pi conflittuale riguardo al problema di mantenere un'identit coerente in quanto americani di origine giapponese, e questo disorientamento si trasmette ai figli, i sansei. L'ansia di molti genitori nisei e il diffuso timore che la generazione pi giovane perda la propria identit giapponese si riflettono in dichiarazioni del tipo: "Dobbiamo conservare il meglio della nostra origine," o "I nostri figli devono imparare a essere orgogliosi della loro eredit culturale." Al pari dei nisei, i figli degli immigrati ebrei avvertono acutamente il dovere di conservare il meglio del loro patrimonio ereditario e di insegnare ai figli ad andarne fieri. Questo, dunque, un problema che si pone a qualunque gruppo di immigrati che vada giustamente orgoglioso della specificit della propria tradizione. Nel caso degli ebrei, una tradizione di illuminismo, compassione per gli altri, responsabilit civile e sociale, e cos via. Come si esprime questa tradizione nella comunit ebraica americana di oggi? Lo studio forse pi interessante e completo sugli atteggiamenti degli ebrei americani nei confronti di questo problema quello condotto a Rivertown dall'American Jewish Committee.2 Da quello studio emerse che, contrariamente all'opinione diffusa, non il comune credo religioso, bens l'insieme di pratiche rituali comuni che tiene unita la comunit ebraica. Sotto tutti gli altri aspetti, esistono differenze minime tra la maggioranza degli ebrei americani e i non ebrei di condizioni socioeconomiche paragonabili. Ma queste minime differenze acquistano importanza, si consolidano e si dilatano per le fortissime spinte all'autoidentificazione. Si direbbe che sia il senso di essere una comunit, il desiderio di incontrarsi, di vivere accanto ad altri della propria razza, pi che la fede religiosa, a tenere uniti gli ebrei americani.

2 Marshall Sklare, The Chaneing Profile of the American Jew: A preli- minary report ori a Study of a Miawestem Jewish Community.

Tra coloro che risposero al questionario, mentre era unanime la convinzione che gli ebrei dovessero continuare a porsi come gruppo separato, c'era pochissimo accordo sul perch dovesse essere cos. Si notava in generale, a causa della forte autoidentificazione, un senso di superiorit, sia pure temperato da una certa umilt. C'era insomma la sensazione che gli ebrei fossero migliori come persone, ma essenzialmente perch si consideravano pi filantropi di altri gruppi, pi interessati al benessere del prossimo, e pi disposti a fare sacrifici per il bene di tutti. Qual era la qualit "essenziale" di un buon ebreo? La risposta pi frequentemente scelta era: "Condurre un vita etica e morale" (il 93 per cento delle risposte). Subito dopo venivano, in ordine di frequenza: Accettare di essere ebrei e non cercare di nasconderlo Dare il proprio sostegno a tutte le cause umanitarie Promuovere il miglioramento civile in generale e della propria comunit in particolare Guadagnarsi il rispetto dei vicini cristiani 85% 67% 67% 59%

Non so che giudizio si possa dare su questi risultati, ma, analizzandoli, ho avuto l'impressione che sia in atto una ridefinizione dell'ebraicit, o forse, pi precisamente, una ridefinizione dei criteri in base ai quali misurarne la qualit nel singolo. Bench la vita etica abbia sempre occupato un posto di rilievo nella religione ebraica, parallelamente altrettanta attenzione veniva dedicata a un codice altamente elaborato di doveri e pratiche devozionali personali. Le due cose si intrecciavano strettamente; anzi, l'idea era che l'individuo venisse condotto a una vita etica attraverso l'osservanza rigorosa dei riti. L'accento sull'osservanza dei riti manca completamente nell'elenco citato. Certo, la risposta "accettare di essere ebrei e non cercare di nasconderlo" rivela, se non un orientamento ritualistico, un forte senso di appartenenza; ma ricorda anche uno dei pi comuni principi della psicologia popolare, l'importanza di una condizione di salute psichica basata su un adeguato rispetto di s. Dalle dichiarazioni citate, si direbbe che per gli ebrei americani essere un buon ebreo ed essere un uomo buono sia equivalente. Il ritualismo ebraico, lo studio della Torah e l'ubbidienza alle sue leggi viene, cio, 6

sostituito da una pi generica moralit; le qualit pi importanti del buon ebreo sono la condotta etica, lo spirito umanitario e un attivo senso civico. Questo ulteriormente confermato dal fatto che solo il 24 per cento degli interpellati riteneva importante per un buon ebreo frequentare la sinagoga, anche nelle festivit maggiori. Dunque l'adesione a precetti pi generali di moralit e di etica viene vista come un requisito pi essenziale, per essere un buon ebreo, che non l'adesione ai particolari precetti dell'ebraismo. come se gli interpellati rispondessero: "Il fatto di essere un uomo buono ti fa essere un buon ebreo." Mentre per le generazioni precedenti una risposta pi tipica sarebbe stata: "Il fatto di essere un buon ebreo ti fa essere un uomo buono." Mentre per gli ebrei di oggi vivere da buon ebreo significa condurre una vita etica all'insegna della ragione e della tolleranza, se si guarda alla storia e alla tradizione ebraiche, si nota che ragione e tolleranza non furono affatto gli elementi caratteristici della vita di molti dei loro antenati nei ghetti d'Europa. Al contrario, la loro fu per molti versi una religiosit che denotava una mentalit ristretta, cos come il movimento sionista odierno rappresenta, io temo, una forma onorevole ma pur sempre angusta di nazionalismo. Pertanto, da un punto di vista storico, le qualit e i valori che gli ebrei americani vogliono soprattutto vedere preservati e sviluppati nell'ebraismo non fanno propriamente parte dell'eredit giudaica tradizionale. Sono piuttosto, in grande misura, il portato del periodo illuministico, o dell'assimilazione. E evidente per esempio la contraddizione tra l'esigenza di parit e uguaglianza sociale e la pratica diffusa di isolarsi socialmente all'interno di comunit esclusivamente ebraiche. Nonostante l'affermazione che non dovrebbero esistere barriere residenziali e che tutti i cittadini dovrebbero vivere su un piano di uguaglianza, l'analisi delle scelte abitative degli ebrei rivela ambiguit al tempo stesso sottili e lampanti. Si direbbe che i desideri degli ebrei riguardo al luogo di residenza siano decisamente ambivalenti. Da un lato vogliono risiedere in comunit non segregate. Dall'altro, si sentono a loro agio solo quando vivono a stretto contatto con altri ebrei. Questo, per lo pi, richiede che nella comunit gli ebrei costituiscano la maggioranza. In sostanza gli ebrei desiderano, s, avere per vicini dei gentili, ma solo come minoranza. E come se volessero capovolgere la situazione: per tanto tempo sono stati costretti a vivere tra i cristiani come minoranza, e ora vogliono che siano i cristiani a vivere in mezzo a loro come gruppo minoritario. In presenza di una simile tendenza 7

a rinchiudersi in una forma sia pure moderna e americanizzata di isolamento etnico o religioso, non facile sfuggire alla sensazione che le tradizioni del ghetto siano ancora vive tra noi; in fondo, i ghetti medievali non furono del tutto e soltanto imposti agli ebrei, ma sovente anche scelti da loro per preservare la propria identit. Il resto di questo saggio verter appunto sull'individuazione di eventuali residui della mentalit del ghetto, per capire se tali atteggiamenti siano ancora presenti e in che cosa consistano. Molti ebrei americani se ne sono liberati, ma lo stesso non si pu dire della comunit ebraica nel suo insieme, e questo, a mio avviso, preoccupante. Molti autori che hanno scritto dell'Olocausto si richiamano alla storia ebraica per spiegare come mai gli ebrei dei ghetti non siano stati capaci di interpretare correttamente la situazione politica del ventesimo secolo. Lo storico Raul Hilberg scrive in The Destruction of the European Jews:3 Molto stato detto e scritto sui Judenraele, gli informatori, la polizia ebraica, i Kapo: insomma su tutte quelle persone che volontariamente e per motivi tattici collaborarono con i tedeschi. Ma questi collaborazionisti ci interessano meno delle masse di ebrei che reagirono a ogni imposizione dei tedeschi adeguandovisi automaticamente. Per comprendere il significato politico di tale acquiescenza dobbiamo vedere il processo di sterminio come composto di due diversi tipi di misure da parte dei tedeschi: quelle in cui veniva fatto qualcosa agli ebrei... come fucilarli, mandarli nella camere a gas; e quelle che richiedevano che gli ebrei facessero qualcosa, per esempio, i decreti che imponevano che essi registrassero i loro beni... si presentassero in un posto stabilito per svolgere lavori forzati o per essere deportati o fucilati o per sottoporre elenchi di altri ebrei... per consegnare i propri beni... per scavare la propria fossa, e cos via. La riuscita di questo secondo tipo di misure dipendeva dalla loro esecuzione da parte degli ebrei. Solo quando ci si rende conto di come il processo di distruzione sia dipeso in gran parte dall'adempimento di simili ordini si pu incominciare a valutare il ruolo che gli ebrei hanno avuto nel proprio sterminio. Se dunque esaminiamo globalmente il modello di risposta degli ebrei, notiamo che si trattato, nei suoi aspetti pi salienti, di un tentativo di
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Pubblicato a New York da Quadrangle, 1985.

evitare l'azione e, se questo non era possibile, di un'acquiescenza automatica agli ordini. Perch successo questo? Perch gli ebrei si sono comportati in questo modo? Hilberg ritiene che la ragione vada ricercata nella "bimillenaria esperienza" del popolo ebraico: "Lungo l'arco di molti secoli gli ebrei avevano imparato che, per sopravvivere, dovevano astenersi dall'opporre resistenza... In fondo non erano mai stati del tutto sterminati. Fatta una stima dei danni, i sopravvissuti avevano sempre ripetuto, a sostegno della loro tragedia, il trionfale annuncio: 'Israele vive.' Questa esperienza era cos connaturata nella coscienza ebraica da acquistare la forza di una legge." Ma, se il popolo di Israele vive, gli abitanti del ghetto, con la loro religione e la loro cultura, che erano sopravvissuti intatte fin dal Medio Evo, furono invece sterminati da Hitler, insieme agli zingari e a innumerevoli altri gruppi. Solo gli ebrei che avevano rotto con il ghetto resistettero, come i ragazzi del Hashomer Hatzair e quelli di Poale Zoin, gli ebrei del Bund e i comunisti, che insieme formarono la resistenza armata e che, anzi, solo accidentalmente si trovavano ancora in Polonia. Come disse un sionista catturato a Vilna: "La nostra vita intera rivolta verso la terra d'Israele; solo un caso se siamo ancora in esilio. L'ebraismo europeo sta attraversando un momento tragico, ma noi abbiamo rotto i ponti con esso il giorno che siamo entrati nel movimento." All'inizio del diciannovesimo secolo, o forse anche prima, e soprattutto agli inizi del nostro secolo, i ghetti dell'Europa orientale erano ormai un anacronismo. Dopo la prima Prima guerra mondiale, Martin Buber si mise a raccogliere le leggende della tradizione chassidica, al modo in cui gli antropologi raccolgono le leggende di una popolazione primitiva prima che si estingua o che abbandoni le usanze tradizionali per occidentalizzarsi. Molto prima che Chagall immortalasse nei suoi dipinti le patetiche scene di vita nel ghetto, e che II violinista sul tetto diventasse una commedia musicale di successo dal fascino nostalgico, Sholom Aleichem, Isaac Bashevis Singer e molti altri avevano descritto con nostalgia la pittoresca e remota vita del ghetto. In ciascuno di questi casi si trattava di un modo di vita con il quale l'artista stesso aveva rotto e che non avrebbe pi potuto accettare per s, per quanto amorevolmente lo descrivesse. Chagall, prima di poter dipingere le sue commoventi scene di vita nel ghetto, dovette intraprendere il processo di assimilazione, prima a 9

Monaco, poi a Parigi. E la sua odissea tipica di tutti gli spiriti liberi nati nel ghetto. Per almeno tre generazioni, tutti coloro che non erano pi disposti a sottomettersi a condizioni di vita che non consentivano quel minimo di rispetto di s necessario per confrontarsi con il mondo moderno, se ne andarono dal ghetto. Cos come se ne andarono tutti coloro che di quel mondo volevano fare parte e tutti coloro che volevano combattere per la libert, propria e altrui. Di questi, molti entrarono nel partito socialista e nel partito comunista, diventandone in molti casi i capi e gli ispiratori, sia in Russia che nei paesi occidentali, oppure aderirono al movimento sionista. Finch la fuga nel mondo circostante aveva presentato difficolt insormontabili, molti, che pure trovavano opprimente la vita del ghetto, erano stati costretti a rimanervi, riuscendo per a imporre alcune riforme pi in armonia con il mutare dei tempi; le ultime riforme interne furono quelle introdotte dal movimento chassidico intorno al 1750. Da quel momento in poi, il fatto stesso che la societ circostante aprisse loro le porte, fece s che gran parte degli ebrei dell'Europa orientale si irrigidissero nella mentalit del ghetto. Da allora rimasero fermi, fissati nelle loro tradizioni antiquate e poco funzionali. Il dogma religioso regolamentava la vita quotidiana fin nei pi minuti particolari, rendendo difficile anche il pi lieve adattamento ai tempi nuovi. E non fu solo la vita religiosa degli ebrei del ghetto a fermarsi: tutto il loro modo di vedere, persino riguardo all'abbigliamento, all'educazione e alla lingua, rimase fermo al Medio Evo. Fu una triplice tirannia quella che spinse molti ad andarsene: i pogrom del mondo cristiano, le discriminazioni (politiche, economiche e sociali) imposte dai vari Stati e l'intima tirannia di una tradizione religiosa soffocante. difficile valutare quali effetti abbia su un popolo il fatto che per tre generazioni i suoi membri pi attivi, quelli il cui ideale era combattere per la libert, se ne siano andati; il fatto che siano rimasti soltanto quelli a cui manca il coraggio e l'immaginazione per concepire un modo di vivere diverso. Il piccolo gruppo di ebrei che tanto si distingue nella vita culturale americana, per esempio, si era allontanato da almeno un secolo dalle comunit ebraiche dell'Europa orientale. Fu un ebreo viennese totalmente assimilato, Herzl, che, dopo avere dapprima auspicato la totale assimilazione (compreso il battesimo), diede poi vita al movimento per dare una patria agli ebrei, dal quale nato 10

l'attuale Stato di Israele. Israele vive perch, molto prima dell'Olocausto, gli elementi attivi dell'antico giudaismo avevano rotto con quella cultura medievale per creare una nuova nazione, una nazione dove la religione del ghetto non trovava posto, salvo che in poche frange anacronistiche, accolte e tollerate per ragioni affettive e sentimentali. Gli ebrei di Israele non hanno nulla in comune con gli ebrei dei ghetti, se non il nome. Nessun dato pu meglio illustrare la differenza di mentalit tra gli ebrei orientali e quelli occidentali quanto il fatto che, sotto Hitler, dalla Germania, dall'Austria e dalla Cecoslovacchia fuggirono circa trecentocinquantamila ebrei, decine di migliaia ne fuggirono dal Belgio e dalla Francia e dalla Russia comunista, dopo l'invasione tedesca, ne fugg o fu evacuata la maggioranza. Mentre invece in Polonia, pur disponendo di una via di fuga sguarnita attraverso le paludi del Pripjat, solo poche migliaia di ebrei ne approfittarono. Agli ebrei del ghetto di Varsavia, la fuga sembrava priva di senso: da troppo tempo avevano perduto il gruppo dirigente capace di iniziativa di cui un popolo di vittime ha bisogno per dare vita con qualche successo alla resistenza o alla rivolta. Sono appunto l'assenza di elementi militanti e i molti secoli di "acquiescenza" che spiegano la mentalit del ghetto, e non una presunta eredit razziale degli ebrei. Sia pure in modo oscuro, i nazisti, che sulle prime rimasero sorpresi dall'acquiescenza degli ebrei verso la loro distruzione, misero in conto questo dato. Il 2 aprile del 1942, durante una cena, Hitler osserv: "Non si deve avere piet di un popolo che destinato dal fato a perire." Pu avvenire, ed avvenuto, che un popolo si estingua. Ma non fa mai parte del destino di un popolo essere sterminato, si tratti degli Incas, dei pellerossa o degli ebrei. Per sopravvivere, tuttavia, sarebbero occorsi una lucida visione di quanto stava accadendo e un piano accurato di resistenza, prima che fosse troppo tardi per muoversi, prima che si fosse oltrepassato il punto dal quale tornare indietro non pi possibile. La storia di tutta l'umanit, e non solo del mondo occidentale, abbonda di persecuzioni religiose o politiche. Altri secoli, oltre al nostro, videro pi di uno sterminio di massa. La Germania stessa fu ridotta a un deserto dalla Guerra dei Trentanni, nel corso della quale morirono milioni di civili. E se non fossero state sufficienti due bombe atomiche, forse anche in Giappone ci sarebbe stato lo stesso numero di vittime dei campi di concentramento nazisti. La guerra atroce, e l'inumanit dell'uomo verso l'uomo lo 11

ancora di pi. Tuttavia l'importanza dei resoconti sui campi di sterminio non risiede nella storia anche troppo familiare che narrano, bens in qualcosa di ben pi insolito e terrificante: in una nuova dimensione dell'uomo che l emersa; un aspetto che tutti vorremmo dimenticare ma che possiamo dimenticare solo a nostro rischio. Per strano che possa apparire, l'elemento dei campi di sterminio che non trova riscontro in nessun altro tempo e in nessun altro luogo non il fatto che i tedeschi abbiano sterminato milioni di persone (che questo sia possibile ormai un dato acquisito nell'immagine che abbiamo dell'uomo, anche se da secoli non si realizzava su cos vasta scala e mai, forse, con un tale cinismo). La cosa nuova e terrificante fu che milioni di persone, come i lemming, marciassero consenzienti verso la propria morte. questo che incredibile, e che dobbiamo cercare di capire. Cosa curiosa, stato un austriaco a forgiare gli strumenti che ci permettono di capire, ed stato ancora un austriaco che, con le sue azioni, ci ha imposto l'ineludibile necessit di capire. Ben prima che Hitler inviasse milioni di persone nelle camere a gas, Freud insegnava che la vita umana una lunga, incessante lotta contro quella che chiam la pulsione di morte, e diceva che dobbiamo imparare a contenere le nostre tendenze distruttive, se non vogliamo che ci distruggano. Il ventesimo secolo ha spazzato via le antiche barriere che un tempo impedivano alle nostre tendenze distruttive di scatenarsi, sia dentro di noi che nella societ. Lo stato, la famiglia, la chiesa, la societ: tutte queste istituzioni sono state messe in discussione, e trovate carenti. Perci la loro capacit di contenere o di incanalare le tendenze distruttive ne uscita indebolita. Quel ripensamento di tutti i valori che, come prediceva Nietzsche (il profeta di Hitler, da Hitler, come da molti altri, immensamente travisato), l'uomo occidentale avrebbe dovuto compiere se voleva sopravvivere nell'et delle macchine, ancora non avvenuto. Ecco dunque che i vecchi sistemi per controllare la pulsione di morte hanno perduto gran parte della loro presa, mentre la nuova pi elevata moralit, che dovrebbe sostituirli, non ancora stata raggiunta. In questo interregno tra la vecchia e la nuova organizzazione sociale, tra la decaduta organizzazione psichica dell'uomo e la nuova struttura non ancora emersa, rimane ben poco a contenere le tendenze distruttive dell'essere umano. In quest'epoca, solo la personale capacit di dominare la propria pulsione di morte pu offrire protezione all'individuo quando si scatenano le forze distruttive di altri, come nello Stato nazista di Hitler. 12

L'incapacit di dominare la propria pulsione di morte pu assumere molteplici forme. La forma che assunse nei prigionieri dei campi di sterminio che marciarono consenzienti verso le camere a gas si era manifestata gi prima nella loro adesione al principio che "il lavoro il lavoro". Quelli che prestarono i propri servigi ai carnefici nella veste professionale che ricoprivano da civili, per esempio i medici, continuarono, s, a vivere, se non a lavorare, come se nulla fosse cambiato, ma con ci stesso spalancarono la porta alla morte. Ben diversa fu la reazione di coloro che non accolsero quel principio e si rifiutarono di collaborare con le SS negli esperimenti e nello sterminio. Quanti vissero abbastanza da raccontare la loro esperienza sono perseguitati dalla domanda: come stato possibile che i prigionieri negassero l'esistenza delle camere a gas, quando per tutto il giorno vedevano uscire il fumo dai forni e sentivano il puzzo della carne bruciata? Come hanno potuto preferire non credere allo sterminio solo per non dover lottare per difendere la propria vita? Per esempio, Olga Lengyel, in Five Chimneys: The Story of Auschwitz (Chicago, 1947), racconta che, bench lei e le sue compagne fossero alloggiate a poche centinaia di metri dai crematoi e dalle camere a gas e sapessero a che cosa servivano, la maggior parte delle prigioniere negava di esserne al corrente. Anche i civili tedeschi negavano l'esistenza delle camere a gas, ma nel loro caso la negazione non aveva lo stesso significato. Per i civili, guardare in faccia la realt e ribellarsi significava invitare la morte. I prigionieri dei campi di sterminio erano gi condannati, non avevano nulla da perdere; la ribellione, semmai, avrebbe potuto salvar loro la vita, o salvare la vita di altri. I molti altri prigionieri scelti con Olga Lengyel per essere mandati nelle camere a gas non cercarono di scappare, come fece lei. Peggio ancora, al suo primo tentativo di fuga le compagne chiamarono i guardiani, avvisandoli. Lengyel non sa spiegare questo comportamento, se non dicendo che i prigionieri provavano risentimento contro i compagni che cercavano di sottrarsi al destino comune, perch non avevano il coraggio di rischiare a loro volta. Secondo me, si comportavano cos perch avevano rinunciato alla volont di vivere e si erano lasciati invadere dalle loro tendenze distruttive. Di conseguenza, ormai si identificavano con le SS, che si erano poste al servizio di tali tendenze, pi che con i compagni che ancora rimanevano attaccati alla vita, e che per questo riuscirono a eludere la morte. 13

Ma fu soltanto l'ultimo passo della rinuncia alla vita, della resa all'istinto di morte, o a quello che, in termini scientifici, viene definito principio di inerzia. Il primo passo era stato compiuto molto prima che alcuno mettesse piede nei campi della morte. Era stata l'inerzia a far s che centinaia di migliaia di ebrei rimanessero chiusi in casa, in attesa dei loro carnefici, quando le leggi razziali li confinarono entro le mura domestiche. Quelli che non permisero all'inerzia di prendere il sopravvento considerarono l'imposizione di quelle restrizioni il segnale che era giunto il momento di entrare nella clandestinit, di unirsi ai movimenti di resistenza, di procurarsi, se ancora non l'avevano fatto, dei documenti falsi, e cos via. E nella maggior parte costoro sopravvissero. Anche in questo caso, tra i non ebrei, l'inerzia non aveva il medesimo significato. Davanti a s non vedevano la morte, ma l'oppressione politica. La sottomissione al regime e la negazione dei crimini della Gestapo, nel loro caso, rappresentavano dei disperati tentativi per sopravvivere. Il margine di esistenza umana che restava loro si era enormemente ridotto, ma pure rimaneva. Perci uno stesso e identico modello di comportamento nell'un caso contribuiva alla sopravvivenza, nell'altro no; per i tedeschi era un comportamento realistico, per gli ebrei e per i prigionieri dei campi di sterminio, in maggioranza ebrei, era delirio, autoinganno. Quando poi i prigionieri incominciarono ad aiutare i loro carnefici ad affrettare la morte dei loro fratelli, ormai la situazione era degenerata ben oltre la semplice inerzia. Ormai aveva preso il sopravvento l'istinto di morte. Olga Lengyel cita il dottor Mengele, una delle figure di primo piano di Auschwitz, come un tipico esempio dell'atteggiamento ispirato al principio che "il lavoro il lavoro", che consentiva ad alcuni prigionieri, e certamente alle SS, di conservare un minimo di equilibrio psichico, nonostante le atrocit che compivano. Il dottor Mengele, quando assisteva a un parto, era molto scrupoloso nell'applicare tutte le misure preventive necessarie, osservava tutte le norme igieniche, tagliava il cordone ombelicale nel momento giusto e con la massima cura. Per inviare, mezz'ora dopo, madre e bambino nel forno crematorio. Tutto questo sarebbe storia passata, se non si riscontrasse quel medesimo atteggiamento, "il lavoro il lavoro", dietro molti tentativi attuali di dimenticare, o addirittura di negare completamente che furono uomini del nostro secolo a mandare milioni di persone nelle camere a gas, e che furono milioni di persone come noi a marciare incontro alla loro morte senza 14

opporre resistenza. A Buchenwald parlai con centinaia di ebrei tedeschi che vi erano stati deportati nell'autunno del 1938, chiedendo loro perch non avevano abbandonato per tempo la Germania, viste le condizioni degradanti e discriminatorie a cui erano sottoposti. La loro risposta fu: "Come avremmo potuto andarcene? Avrebbe voluto dire abbandonare la casa, il lavoro." Erano talmente posseduti dai loro beni materiali da non potersi muovere; invece di usarli ai loro fini, se ne facevano dominare. Lo stesso atteggiamento, "il lavoro il lavoro", fece s che milioni di ebrei accettassero di vivere nei ghetti, dove non solo lavoravano per i nazisti, ma compilavano gli elenchi dei loro fratelli ebrei da inviare alle camere a gas. La maggior parte degli ebrei polacchi che non avevano creduto che "il lavoro e il lavoro" riusc a sopravvivere alla guerra. All'avvicinarsi delle truppe tedesche, abbandonarono ogni cosa e fuggirono in Russia, per quanto i pi diffidassero del sistema sovietico. Ma l, almeno, bench forse fossero considerati cittadini di seconda classe, venivano accettati come esseri umani. Quelli che rimasero in Polonia, perch "il lavoro il lavoro", si avviarono alla propria distruzione e perirono. Perci, nel senso pi profondo, l'incamminarsi verso le camere a gas fu solo l'estrema conseguenza di tutta una filosofia di vita. Il loro comportamento suicida ha anche, vero, un altro significato. Significa che c' un limite, oltre il quale l'essere umano non pu essere spinto; che oltre un certo punto l'uomo preferisce la morte a un'esistenza disumana. Ma il primo passo verso questa terribile scelta era stata l'inerzia che l'aveva preceduta. Ho conosciuto molti ebrei, e molti cristiani antinazisti, che sono sopravvissuti, in Germania e nei paesi occupati dai nazisti. Ma erano tutte persone che avevano capito che, quando tutto un mondo crolla, quando la disumanit regna sovrana, non si pu pensare al lavoro, come se nulla fosse cambiato. A quel punto bisogna rivedere radicalmente tutto quello che si fatto, in cui si creduto, per cui si combattuto. In altre parole, bisogna prendere posizione in base alla nuova realt, crearsi uno spazio in essa, e non ritirarsi ancor pi nel privato. Sembrerebbe di voler ribadire un'ovviet, quando si sottolinea che gli ebrei d'Europa avrebbero facilmente potuto prevedere la sorte che li attendeva, visto che Hitler non faceva che preannunciargliela. Ma quando ne ho parlato nei miei scritti mi sono state mosse cos tante obiezioni da chi sostiene che non potevano prevederla, che ritengo necessario passare nuovamente in rassegna alcuni dati di fatto. 15

Harry Golden, per esempio, in una benevola recensione dei miei scritti al riguardo, obietta che il motivo per cui gli ebrei non opposero resistenza che "una cosa del genere non era mai accaduta in tutta la storia. Gli antinazisti, i sacerdoti cristiani, i progressisti, coloro che trovavano ridicolo Hitler, gli ambiziosi che volevano a propria volta il potere: tutti avevano capito che non si trattava di un gioco da ragazzi, che era questione di vita o di morte; e di conseguenza erano moralmente preparati a opporre resistenza. Ma gli ebrei no, non se ne resero mai pienamente conto; non potevano credere di dover essere uccisi per il solo fatto di essere ebrei". Proprio questo il punto. Perch gli ebrei non si resero mai pienamente conto di una cosa che invece appariva chiara agli antinazisti e ai sacerdoti cristiani? Perch non potevano credere che un tale esito fosse possibile, anzi probabile? La risposta va ricercata nella mentalit di chi ignora la storia al di fuori di quella del ghetto, di chi crede che ci che non mai accaduto agli ebrei non sia mai accaduto in assoluto. Ma un breve sguardo alla storia mostra che genocidi simili si sono gi verificati molte volte, anche nella nostra epoca. Per saperlo, e dunque per esservi preparati, occorreva una sola cosa: che il mondo di l dalle mura del ghetto venisse preso seriamente, venisse considerato degno di attenta considerazione. Il processo a Eichmann e i continui processi ai criminali di guerra nazisti che vengono via via catturati, l'affare Kaster, un'intera biblioteca di opere che vanno dal livello artistico di L'ultimo dei giusti alla declamazione isterica di Perfidy, sono tutti segnali che l'attuale generazione di ebrei continua a essere tormentata dal problema di come siano potuti morire quei sei milioni di persone. Perch non siamo corsi a fermare il massacro? Questi interrogativi continueranno ad assillarmi, cos come assillano tutti gli ebrei e anche molti non ebrei. Ed per la nostra stessa protezione, oggi come nel futuro, che noi ebrei dobbiamo cercare di trovarvi una risposta; anche se, quando pure ci riuscissimo, noi sopravvissuti non riacquisteremo mai del tutto la pace dell'anima. Questo scritto vuole dunque essere un ulteriore tentativo in questa direzione, bench non mi illuda che possa rappresentare la risposta. Tempo fa scrissi un articolo nel quale mi domandavo le ragioni dell'unanime ammirazione suscitata dal Diario di Anna Frank. Molti mi scrissero al riguardo, esprimendo reazioni positive e negative, ma, che fossero o meno d'accordo con me, tutti i miei interlocutori avevano un tratto in comune: una profonda compassione per quelle che chiamavano le vittime "innocenti" del nazismo. 16

Occorre che ripeta che anch'io condivido la loro compassione e la loro indignazione morale? Tuttavia, sulla questione dell'innocenza delle vittime non li posso seguire. "Innocenza" una parola con connotazioni precise, che non possiamo permetterci di ignorare. La prima definizione che il Webster d di "innocente" "esente da colpa o da peccato". Ma questa definizione non fa al caso nostro: chi, infatti, mai del tutto esente da colpa o da peccato? La seconda definizione, "che non ha commesso un determinato reato" forse pi pertinente, per neppure i nazisti sostenevano che gli ebrei avessero commesso reati nel senso comune del termine. I nazisti individuavano negli ebrei una minoranza indesiderabile, come gli zingari o i testimoni di Geova, la cui sopravvivenza non rientrava nei piani della razza dominante. Un altro aspetto che mi colp, nelle molte comunicazioni ricevute, era che l'aggettivo "innocente" venisse applicato esclusivamente dagli interlocutori ebrei a proposito delle vittime ebree. Nessuno parlava di zingari innocenti o di testimoni di Geova innocenti, bench anch'essi, come gli ebrei, fossero minoranze e bench una di esse, gli zingari, fosse stata sterminata in toto. Forse una mia distrazione, ma non ricordo di aver mai sentito parlare, per esempio, delle "innocenti" vittime norvegesi, bench ne venissero uccise in grande numero dai nazisti. Che sia perch i norvegesi si difesero, e chi contrattacca per autodifesa sa quello che fa e dunque l'aggettivo "innocente" non gli si addice? Questo ci porta alla terza definizione del Webster: "che non conosce il male; privo di malizia; schietto, ignaro, semplice, ingenuo, sprovveduto; da cui, stoltamente ignorante e fiducioso, credulone". dunque questa l'impressione che gli ebrei hanno degli ebrei: che, come gruppo, siano ingenui e sprovveduti? Se non cos, ed escludendo che si considerino esenti da colpa e da peccato, perch allora un tale reiterato uso di questo aggettivo? Senza colpa le vittime ebree certamente lo furono, in senso giuridico, ma, come si detto, il problema non fu mai neppure posto in questi termini. Che cosa intendono allora gli ebrei quando applicano agli ebrei l'aggettivo "innocente"? Io credo che, in realt, implicitamente si voglia dire che quanti di noi, fuori della Germania, non si levarono a combattere in difesa delle vittime sono esenti da colpa; anche se, in fondo, ci sentiamo colpevoli, colpevoli di non aver partecipato, di non aver fatto tutto quello che avremmo potuto, anzi tutto quello che avremmo dovuto fare. Perci non parliamo di zingari o di polacchi innocenti: perch verso di loro non ci sentiamo obbligati 17

nello stesso modo, non sentiamo che avremmo avuto il dovere di salvarli dallo sterminio. Il ragionamento sottinteso e, a mio avviso, inconscio pressappoco il seguente: se quegli ebrei, che vivevano sotto il diretto dominio nazista, poterono essere cos innocenti, cos inconsapevoli delle intenzioni dei nazisti, se poterono non dare importanza a quello che Hitler ripeteva di voler fare (e che fece), allora noi, che eravamo tanto pi lontani dal teatro degli avvenimenti, non siamo imputabili per esserci mantenuti in uno stato di analoga "innocente" ignoranza. Ci che mi importa, qui, capire perch gli ebrei, in Germania e altrove, pensassero di potersi permettere di rimanere "innocenti", mentre dilagava l'assassinio di massa. Quando la gente viene massacrata a milioni, nessuno, se non il bambino pi sprovveduto, innocente. Tutti ne portiamo la macchia. Come fu che essi (come noi) non sapevano, e neppure volevano sapere? Noi (e loro) non eravamo innocenti, bens preoccupati di rimanere ignari. Perch? Quando un individuo intelligente e maturo conserva un'innocenza che sconfina nell'ignoranza su questioni di vita e di morte, lo psicoanalista non pu liquidare questo comportamento senza analizzarlo. Inoltre, se l'innocenza spiegasse tutto, ci sentiremmo soddisfatti e cesseremmo di interrogarci; non continueremmo all'infinito a domandarci: "Come stato possibile?" Dopo aver affrontato nei miei scritti questo problema e altri ad esso connessi, ricevetti la lettera della vedova di un rabbino progressista di una delle pi antiche comunit ebraiche tedesche, che ora vive in America con i figli. Quella donna mi scrisse: "Mi ha emozionato, e in qualche misura sollevato, leggere le sue parole sul tragico errore commesso da noi ebrei tedeschi. Ho perduto mio marito a causa di quello che sofferse in campo di concentramento. Non sono mai riuscita a capire perch gli ebrei abbiano opposto cos scarsa resistenza, e ricordo che arrossivo di vergogna nel vedere la passivit con cui i miei correligionari accettarono le vessazioni dei nazisti. Non posso darmi pace al pensiero di come noi ebrei abbiamo accettato senza opporci l'operato dei tedeschi e non abbiamo fatto abbastanza per salvare quelli che avremmo potuto salvare. Io stessa avrei potuto dare di pi per salvare i miei parenti." Accusare di "perfidia" questo o quel gruppo o organizzazione, ebraica o non ebraica, non risolve il problema della loro innocenza e della nostra: la loro innocenza, che nascondeva una voluta ignoranza, e la nostra, che era un'ignoranza tutt'altro che innocente. Questa ignoranza "innocente" 18

rientra, a mio avviso, in un fenomeno che in mancanza di un termine migliore chiamer mentalit del ghetto. La mentalit del ghetto appartiene all'ebreo del ghetto, che , non scordiamolo, l'ebreo in esilio, l'ebreo della diaspora. L'altro ebreo, l'ebreo israeliano, che ha la sua patria in Palestina, ha una tradizione tutta diversa; non acquiescente, sa difendersi, come vediamo oggi in Israele. La mentalit del ghetto si manifesta in molte forme, ciascuna con i suoi aspetti positivi e negativi. Alcuni di tali aspetti sono giustamente apprezzati: il forte senso dei legami familiari, il calore umano e la comprensione umana, la comunicazione personale con Dio, l'umilt, la capacit di accettare con umorismo e flessibilit le pi dure privazioni: questi e molti altri aspetti della vita del ghetto sono diventati parte dell'eredit ebraica, e vorremmo vederli preservati nella nostra vita. Ma queste qualit non sono in discussione; esse non mettono in pericolo la nostra esistenza e quindi non sono quelle che qui mi interessano. Ci che mi interessa capire in che modo secoli di vita nei ghetti d'Europa abbiano reso tanti ebrei ciechi di fronte alla realt. Per legittimare un'esistenza, dentro o fuori del ghetto, che era incompatibile con l'umana dignit, gli ebrei si crearono tutta una serie di giustificazioni psicologiche, che consentirono loro di tollerare l'intollerabile, di vivere in condizioni fondamentalmente invivibili. L'ebreo si rese insensibile alle umiliazioni inflittegli dall'oppressore perch gli fosse concessa la possibilit di sopravvivere. Siccome nel mondo del ghetto prima o poi l'oppressore smetteva di infierire, e siccome la degradazione aveva annientato gli ebrei come esseri umani autonomi, veniva loro concesso di sopravvivere, e persino di prosperare materialmente. Insomma, per poter sopportare quella loro specifica condizione, il ghetto, gli ebrei si abituarono a non vedere la condizione umana universale. Questa era la realt della vita del ghetto. Il credere che la situazione fosse la stessa anche sotto il nazismo signific trasferire la mentalit del ghetto nel mondo del ventesimo secolo, dove non aveva pi alcuna validit. Da giovane lessi un libro, allora molto popolare, scritto da un ebreo viennese: I quaranta giorni di Mussa Dagh, di Franz Werfel, in cui veniva descritto lo sterminio degli armeni da parte dei turchi. Werfel, che si era liberato dalla mentalit del ghetto, sapeva che lo sterminio di un intero popolo era un'eventualit perfettamente realistica nella nostra epoca. Occorre che aggiunga che Werfel, non avendo chiuso gli occhi davanti alla 19

realt, si mise in salvo in tempo? Tutti, del resto, abbiamo potuto leggere le notizie sulle purghe staliniste, in cui Stalin stermin milioni di persone del suo stesso popolo perch non si inserivano nel nuovo ordine delle cose. Milioni di kulaki furono uccisi direttamente e altrettanti fatti morire di fame, come avvenne agli ebrei nei campi nazisti. Di fronte a questi esempi contemporanei di sterminio in massa delle minoranze interne, decine di migliaia di ebrei, che non erano paralizzati dalla mentalit del ghetto, credettero a Hitler quando annunciava che in Europa, dopo la guerra, non sarebbe rimasto un solo ebreo; e si misero in salvo in tempo. Quelli che rimasero attaccati alla mentalit del ghetto morirono quasi tutti. N si pu dire che tale mentalit sia scomparsa con Hitler e con l'abolizione dei ghetti. Mi capita di imbattermi continuamente nelle sue manifestazioni. Quando rammento agli ebrei americani un dato, di cui pure dovrebbero essere al corrente, e cio che Hitler stermin anche milioni di russi e di polacchi, nonch tutti gli zingari d'Europa, le mie affermazioni vengono accolte con sorpresa e incredulit, la stessa incredulit che incontravo nei miei amici ebrei, quando dicevo che a Dachau e a Buchenwald nel 1938 e nel 1939 la maggior parte dei prigionieri non erano ebrei, ma tedeschi cristiani. Per questo tipo di ebrei, fissati nella mentalit del ghetto, soltanto ci che accadeva agli ebrei contava; di quello che accadeva agli altri non si accorgevano neppure. Poich non gli interessava, l'esperienza altrui non poteva insegnare loro niente. Ma gli ebrei a cui interessava e che sapevano trarne insegnamento, quelli si salvarono. Cos, a mio avviso, un tragico esempio di mentalit del ghetto il fatto che molti ebrei continuino a guardare a questa immane tragedia della storia del popolo ebraico esclusivamente dall'ottica della storia degli ebrei, e non da quella della storia mondiale, a cui invece appartiene. Altrettanto infondata l'idea che gli ebrei d'Europa non sapessero quale sorte li attendeva. Ricordo ancora con estrema chiarezza, come sono sicuro che fanno tutti coloro che vissero in quel periodo, lo spettacolo degli ebrei che, derisi e umiliati da tutti, lavavano le strade di Vienna, dopo l'annessione dell'Austria. Ma non ha senso recitare sempre la vergognosa litania. I fatti sono noti a tutti e venivano regolarmente riportati, all'epoca, dalla stampa austriaca e tedesca nonch nelle ultime pagine dei quotidiani all'estero. I giornali tedeschi erano inoltre pieni di riferimenti pi o meno espliciti al fatto che non c'era spazio per gli ebrei nel Terzo Reich. Altri articoli 20

riferivano trionfalmente che gi molti ebrei erano stati costretti a emigrare e che il resto li avrebbe seguiti di l a poco. Ignorare questi avvertimenti, rimanere "innocenti" nelle fauci della belva, equivaleva a corteggiare la morte. In realt, prima che scoppiasse la guerra, gli ebrei avevano pi probabilit di essere rilasciati dai campi di concentramento di quante ne avessero i tedeschi non ebrei. Quando ero a Dachau e a Buchenwald, nel 1938, di tanto in tanto serpeggiavano dei sentimenti antisemitici per la rabbia provocata negli altri prigionieri dal fatto che agli ebrei, per essere liberati, bastava dimostrare che avrebbero lasciato immediatamente la Germania. A Buchenwald, nel 1939, correva il detto: "Ci sono solo due modi per uscire dal campo: da morto e da ebreo." Ma gli ebrei tedeschi (e anche gli ebrei polacchi) vollero rimanere innocenti, non vollero assaggiare il frutto dell'albero della conoscenza, e si mantennero nell'ignoranza circa la natura del nemico. E questo perch temevano che sapere avrebbe significato dover reagire attivamente. Questa, dunque, la mia tesi: un certo tipo di mentalit del ghetto ha come scopo di evitare ogni reazione attiva. una sorta di ottundimento dei sensi e delle emozioni, perch, cos, ti riesce pi facile inchinarti davanti al muzik che ti tira la barba, ridere con il signorotto locale alle sue storielle antisemite, degradarti perch ti permettano di sopravvivere. Fu espressione della mentalit del ghetto il fatto che, dopo il boicottaggio dei negozi e delle imprese di propriet di ebrei, privati e associazioni ebraiche dichiarassero pubblicamente, mentendo, di non aver ricevuto molestie. Fu espressione della mentalit del ghetto che gli ebrei tedeschi si opponessero a che venissero resi pubblici i maltrattamenti subiti e che in Germania le organizzazioni ebraiche si opponessero al boicottaggio per rappresaglia delle merci tedesche da parte degli ebrei americani. Dissero di essere motivati dal desiderio di non esasperare le autorit. Ma in questo appunto consiste la mentalit del ghetto: nel credere che ci si possa ingraziare un mortale nemico negando che le sue frustate fanno male, negando la propria umiliazione in cambio di una tregua, dando il proprio sostegno a chi poi user quella forza per meglio annientarti. Tutto questo fa parte della filosofia di vita del ghetto. Non vero, come dicono alcuni, che gli ebrei tedeschi erano troppo ben integrati, e che fu questa la loro rovina; gli ebrei realmente assimilati, vale a dire coloro che si sentivano cittadini del mondo, e non solo della Germania, emigrarono quasi tutti dalla Germania molto prima delle leggi 21

di Norimberga, prima ancora che i nazisti concepissero l'idea di chiudere gli ebrei nei campi di concentramento, se non come dissidenti politici. E vero che molti avrebbero potuto emigrare soltanto in paesi che non erano per loro una meta desiderabile. Vidi io stesso degli ebrei rifiutare il permesso di emigrazione per le Filippine, perch preferivano aspettare che fossero nuovamente disponibili i visti di ingresso negli Stati Uniti. Per parecchio tempo, chiunque lo volesse e avesse il denaro per pagarsi il viaggio avrebbe potuto andare a Shanghai o ottenere il visto per Cuba. Diversi altri posti venivano considerati indesiderabili come paesi verso cui emigrare, e venivano rifiutati semplicemente perch molti ebrei non volevano rendersi conto della natura del nazismo. Se non avessero voluto serbare la loro "innocenza", nessun paese della terra sarebbe sembrato loro indesiderabile a confronto con Buchenwald, per non parlare di Auschwitz; anche se i campi di sterminio appartengono a una fase successiva, quando ormai sapere non sarebbe pi servito a nulla. Fu questo continuo procrastinare l'azione davanti alla progressiva erosione del rispetto di s, che diede ai nazisti il tempo di elaborare una strategia di sterminio totale. Oggi possiamo ripercorrere i vari gradini di questo processo. I documenti resi pubblici in occasione dei processi di Norimberga e del processo contro Eichmann dimostrano in modo convincente come gli ebrei si mantenessero ignoranti quando le informazioni erano facilmente accessibili. Sicuramente a partire dal 1937, era gi chiaro che il governo nazista sarebbe stato pronto a tutto pur di allontanare gli ebrei dal Terzo Reich. Gi nel 1935 esisteva una sezione apposita della Gestapo, la cui unica funzione era di costringere gli ebrei a emigrare. Nel 1937, in un colloquio con il portavoce di un'organizzazione ebraica, Eichmann espresse senza mezzi termini l'insoddisfazione del governo perch fino a quel momento solo il venti per cento degli ebrei erano emigrati, ribadendo che l'emigrazione doveva essere totale. Alcuni altri ufficiali nazisti avevano proposto di trattenere gli ebrei come ostaggi in caso di guerra, ma la proposta fu respinta, perch evidentemente era pi forte il desiderio di vederli tutti partire. Non li volevano neppure come ostaggi. Fino all'invasione dell'Austria, nel 1938, le misure terroristiche volte a sollecitare l'emigrazione ebraica si mantennero sporadiche e non sistematiche: la situazione cambi con l'istituzione di un ufficio centrale per l'emigrazione. Divennero pi frequenti gli atti di terrorismo compiuti da privati, ai quali veniva data la maggior risonanza possibile; un numero 22

sempre crescente di ebrei veniva mandato in carcere o nei campi di concentramento, e in generale furono adottate misure pi drastiche per obbligare gli ebrei a lasciare la Germania. Nell'ottobre del 1938 circa cinquantamila ebrei, con il pretesto che in passato erano cittadini polacchi, furono privati della cittadinanza tedesca e avviati alla frontiera, dove furono consegnati alle autorit polacche. Tra le famiglie espulse c'era quella di Grynszpan, che decise di vendicare il sopruso uccidendo un membro dell'ambasciata tedesca a Parigi. La rappresaglia per l'uccisione di vom Rath, con la devastazione delle sinagoghe, delle abitazioni, dei negozi e delle imprese degli ebrei, fu solo l'ultima e pi vistosa dimostrazione della volont del governo tedesco di perseguire fino in fondo l'intento di eliminare dalla Germania tutti gli ebrei. Ne vennero inviati a decine di migliaia nei campi di concentramento, ma anche allora con il chiaro sottinteso che, se avessero consentito a emigrare, sarebbero stati rilasciati immediatamente. Abbiamo il verbale di un incontro tra Heydrich e Goering, il 12 novembre del 1938, dal quale risulta evidente che il fine a cui mirava il governo nazista rimaneva ancora semplicemente quello di costringere gli ebrei a emigrare. Heydrich rifer con orgoglio di essere riuscito a cacciare dall'Austria cinquantamila ebrei e che altri se ne potevano aggiungere. Il difficile, per, era indurre gli ebrei ricchi a devolvere parte del loro denaro per finanziare l'emigrazione di quelli pi poveri. Sicch non furono soltanto gli ebrei dei paesi liberi a non fare abbastanza per aiutare i loro fratelli dei paesi sottoposti al domino nazista. Negli uffici della Kultur Gemeinde di Vienna fui io stesso testimone delle insistenze e delle contraddizioni dei funzionari per indurre gli ebrei ricchi a destinare parte del loro denaro (che comunque avrebbero dovuto lasciare) per finanziare l'emigrazione dei correligionari privi di mezzi. Ci fu un gran mercanteggiare, ed enormi somme di denaro finirono per rimanere in Austria, per la proibizione agli ebrei di esportare valuta. Ci nonostante, molti ebrei ricchi o agiati accettarono di devolvere solo una minima parte del loro patrimonio alle organizzazioni ebraiche che raccoglievano fondi per pagare le spese di emigrazione ai pi poveri. Ma questo atteggiamento degli ebrei benestanti non era spietato egoismo; era deliberata ignoranza della sorte che sarebbe potuta toccare agli ebrei rimasti in patria, nonch del fatto che le loro ricchezze, cos faticosamente guadagnate, erano ormai definitivamente perdute. Perci, per essere rimasti ostinatamente "innocenti" nei confronti del proprio 23

destino e di quello di quanti sarebbero stati costretti a restare, quegli ebrei diventavano disumani, non perch fossero cattivi, ma perch volevano continuare a non sapere. Ho dedicato quasi tutta la vita a cercare di capire perch alcune persone accettano la schiavit della malattia mentale anzich battersi per la libert della salute. Mi sono inoltre occupato a lungo e approfonditamente dei possibili motivi per cui milioni di ebrei non si sottrassero alla morte, ma anzi si rifiutarono di battersi per la propria vita. Su questo tema ho scritto un libro, che ho intitolato II cuore vigile, per indicare come anche il cuore pi generoso possa essere tragicamente disinformato. Sulle conseguenze dell'ignoranza Hillel ebbe a dire, duemila anni or sono: "Colui che non accresce la propria conoscenza la diminuisce; colui che non impara merita la morte." Ma non stata solo la mancanza di conoscenza a condurre quei milioni di uomini alla loro rovina; stata anche la riluttanza a battersi per la propria vita e per quella dei loro cari. Quella riluttanza a combattere era una diretta conseguenza di un'innocenza fatta di ignoranza: della mentalit del ghetto. Nel ghetto si sopportava tutto, in attesa che la tempesta si placasse, e gli ebrei del ghetto non si erano preoccupati di imparare che le cose erano cambiate: perci non potevano sapere che la tempesta che si stava scatenando allora era di un genere totalmente nuovo. Se non ci battiamo per noi stessi, nessuno si batter per noi. Gli ebrei che sotto Hitler non combatterono per se stessi, perirono: quelli che lo fecero, per la maggior parte si salvarono, persino sotto Hitler. Giacch gli ebrei, in cos grande numero, non vollero combattere, nessuno combatt per loro. Infatti, come dice Hillel: "Se non sto io dalla mia parte, chi ci star?" Se qualcuno pu dubitare di questa verit, non lo potranno certo i sopravvissuti del ghetto di Varsavia. A Varsavia, un manipolo di ebrei liberi dalla mentalit del ghetto cerc disperatamente, fin quasi dall'inizio, di mobilitare un'opposizione. Incontrarono cieco rifiuto all'interno e ostilit o indifferenza all'esterno. Perci tanto pi istruttivo e degno di riflessione il fatto che l'aiuto dei polacchi fuori delle mura del ghetto giungesse immediato, non appena si sparse la notizia dei tentativi di resistenza e di autodifesa compiuti dentro le mura da quei pochi superstiti ridotti alla fame. Tuttavia, secondo l'autorevole testo di Raul Hilberg, The Destruction of European Jews, se viene "misurata in base alle perdite subite dai tedeschi, 24

l'opposizione ebraica risulta pressoch insignificante. Gli scontri pi importanti si ebbero nel ghetto di Varsavia", da dove centinaia di migliaia di ebrei furono mandati a morte. All'epoca della rivolta, erano rimasti nel ghetto circa settantamila ebrei, di cui solo millecinquecento erano armati. La potenza complessiva delle forze tedesche, incomparabilmente meglio equipaggiate, era di due-tremila soldati. Alla fine, da parte tedesca si contarono "sedici morti e ottantacinque feriti, compresi i collaborazionisti. In Galizia le sporadiche rivolte causarono alle SS e alla polizia le seguenti perdite, otto morti, dodici feriti. dubbio che tedeschi e collaborazionisti abbiano perduto pi di un centinaio di uomini, tra morti e feriti, durante tutto il processo di sterminio". Meno di un centinaio di tedeschi per oltre quattro milioni di ebrei: queste sono le vere proporzioni di ci che accaduto. Contro la mia tesi stato sostenuto che la passivit di fronte alle persecuzioni una virt fondamentale degli ebrei. E sin troppo facile rispondere a questa obiezione citando tutte le guerre combattute per la Palestina nell'antichit e quelle combattute oggi da Israele. Altri hanno aggiunto: vero, nell'antichit gli ebrei erano un popolo di guerrieri, ma nel corso dei secoli la moralit ebraica si affinata; ora la nostra tradizione quella della resistenza passiva alla violenza, che sul piano morale si situa a un livello pi elevato che non il rispondere alla violenza con la violenza: sottomettersi alla morte anzich infliggerla rappresenta una forma di moralit pi evoluta. La condotta degli ebrei, tuttavia, d scarsa credibilit a questa tesi, che non pu costituire un criterio per spiegare il comportamento di milioni di ebrei d'Europa di fronte al nazismo. In molti casi coloro che accettarono passivamente di essere sterminati (e che, secondo questa tesi, l'avrebbero fatto in ossequio alla convinzione che sia meglio essere uccisi che uccidere) erano gli stessi che solo un paio di decenni prima avevano bravamente combattuto e ucciso al seguito degli eserciti imperiali del Kaiser o dello zar. Se milioni di ebrei non si opposero al proprio sterminio perch preferivano subire la violenza piuttosto che infliggerla, dov'erano i milioni di ebrei obiettori di coscienza durante la Prima guerra mondiale? A mio avviso non il rifiuto della violenza che pu spiegare la passivit degli ebrei sotto il nazismo, bens l'incapacit di agire di propria iniziativa in quanto ebrei. Quelle stesse persone si dimostrarono capaci di agire con violenza e aggressivit quando lo ordinava l'autorit statale. Ma la 25

sottomissione a uno Stato - uccidere quando lo decreta e farsi uccidere quando cos richiede - tutt'altra cosa dalla nonviolenza. La contraddizione di fondo tra queste due diverse reazioni da parte degli ebrei emerge con evidenza nel libro di Jean-Franois Steiner sulla rivolta di Treblinka,4 senza per venire mai esplicitamente riconosciuta dall'autore. E tuttavia essa invalida fin dall'inizio la tesi di questa cronaca romanzata. Da un lato Steiner ammira, identificando con essi la totalit dell'ebraismo, gli ebrei che accettavano le condizioni di vita del ghetto, dove "essi non si difesero mai, non si ribellarono mai. I pi pii vedevano nei [pogrom] un castigo mandato da Dio, gli altri li consideravano un fenomeno naturale, paragonabile alla grandine che si abbatte su un vigneto... Una cosa avevano imparato: che il cristiano pi forte, e resistergli non fa che alimentare la sua collera... Il diritto del cristiano al linciaggio era una sorta di legge non scritta, che nessuno si sognava di contestare". Al tempo stesso Steiner ammira anche coloro che invece contestarono, come suo padre, quella legge non scritta, esprimendo la loro opposizione con l'andarsene dal ghetto. Pi avanti Steiner contrappone direttamente i due tipi di ebrei: quelli che avevano accettato le leggi del ghetto e gli altri, che le avevano rifiutate, attraverso l'assimilazione o attraverso l'adesione al sionismo o al comunismo sovietico. Quanto fossero diverse le reazioni dei due tipi risalta nella commovente descrizione del tradimento da parte degli ebrei di Vilna del capo della resistenza, il comunista Wittenberg. Temendo per la propria vita, anche se ormai avrebbero dovuto sapere che nessun gesto di sottomissione sarebbe valso a salvarla, gli ebrei del ghetto consegnarono Wittenberg alla Gestapo, come era stato loro comandato. Steiner descrive anche la vicenda del primo contingente di migliaia di ebrei deportati da Vilna per essere sterminati. Faceva parte del gruppo un ufficiale ebreo dell'Armata Rossa, che si era trattenuto a Vilna per organizzare la guerriglia, dopo la ritirata delle forze sovietiche, ed era stato catturato. Mentre marciavano verso la morte, l'ufficiale comprese che erano arrivati al punto di non ritorno e, atterrata e disarmata la guardia pi vicina, incit i compagni alla rivolta, gridando: "Ora o mai pi!" Ma gli altri chinarono il capo mormorando il Sh'ma Yisroel: "Perch se Dio esiste, nulla pu avvenire che sia contro la sua volont." Nessuno contrast

Treblinka, New York, 1967.

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le poche guardie che accompagnavano la colonna di prigionieri, e l'ufficiale dell'Armata Rossa venne abbattuto. Sia prima dell'invasione tedesca, sia dopo, solo coloro che, come lui, avevano da tempo rotto ogni legame con la vita e le abitudini del ghetto poterono scegliere di non sottomettersi passivamente alla "volont di Dio" e di battersi attivamente per una nuova vita. Steiner, essendo stato educato in base ai nuovi valori, non pu fare a meno di aderirvi suo malgrado, sicch i veri protagonisti del suo racconto sono coloro che combattono e che muoiono combattendo. Tutti i militanti della resistenza a Vilna e quasi tutti i protagonisti della rivolta di Treblinka furono ebrei che avevano da tempo abbandonato il ghetto. Kleiman, che a Treblinka comandava la squadra di mimetizzazione e che sconfisse i tedeschi nel primo scontro a fuoco, "si era formato alla dura scuola del Hashomer Hatzair, uno dei pi aggressivi gruppi giovanili sionisti". Djielo, un altro eroe della rivolta, era stato "il capitano Adolf Bloch dell'esercito ceco". Era scappato di casa a sedici anni, era entrato nella Legione straniera ed era tornato a Lodz per indurre la famiglia a rifugiarsi in Russia. Non riuscendo a persuadere il padre, rimase a sua volta per organizzare un movimento di resistenza, e alla fine fu catturato. Meir Berliner, che nel campo di Treblinka uccise una SS, aveva lasciato Varsavia e la famiglia all'et di tredici anni diretto in Argentina. Fu arrestato nel ghetto di Varsavia, dove era tornato alla ricerca dei genitori. Uccise con un coltello sacrificale la guardia che aveva percosso suo padre mentre marciava con la moglie verso la camera a gas. E fu, ancora una volta, un ebreo assimilato, un ex ufficiale della riserva che, quando gli fu chiesto di fungere da comandante ebreo del campo, ebbe la forza di rifiutare, dicendo che avrebbe preferito suicidarsi piuttosto che fare l'aguzzino per i nazisti. Fu immediatamente fucilato, come furono fucilati Berliner e tutti gli altri che si ribellarono individualmente. Ma, del resto, tutti gli ebrei furono uccisi, una volta presi dentro l'ingranaggio nazista. Perch la resistenza avesse successo sarebbe occorso che gli ebrei si sollevassero in massa, e subito, prima delle deportazioni. Il libro di Steiner fu molto lodato da Simone de Beauvoir, che nell'introduzione scrive che la storia di quella rivolta isolata davanti allo sterminio di massa una storia "di orgoglio". Ma per me non motivo sufficiente di orgoglio pensare che degli ottocentomila prigionieri che marciarono passivamente verso la propria morte a Treblinka solo gli ultimi 27

mille, e solo quando la morte era imminente, cercarono finalmente di fuggire da quel mattatoio umano. Secondo quanto disse David Ben-Gurion, uno degli scopi per cui Eichmann venne fatto uscire clandestinamente dall'Argentina e sottoposto a processo nello Stato di Israele era di dare alla generazione nata dopo l'Olocausto la possibilit di capire la tragedia degli ebrei e di promuovere una forma di identificazione con le vittime. In realt, di fronte alla storia dello sterminio di milioni di ebrei per mano di Hitler, i giovani israeliani reagirono con un senso di incredulit. La loro risposta fu: "Non pu essersi trattato di ebrei. Un ebreo non si lascia sterminare; un ebreo non avrebbe mai marciato passivamente verso la propria morte." Questo l'atteggiamento di una generazione, i cui genitori rischiarono la vita nella lotta per la vita e per la libert; di una generazione che non toccata dalla mentalit del ghetto. E non questione di mancanza di coraggio. Negli eserciti delle varie nazioni d'Europa e in quello americano, i soldati ebrei hanno combattuto come tutti gli altri; nell'esercito israeliano, meglio degli altri. Perch, allora, gli ebrei d'Europa non hanno combattuto contro Hitler? Io credo che la ragione fosse dentro di loro, nascesse dall'immagine che avevano di s, che era un'immagine dettata dal ghetto: si vedevano come una minoranza impotente circondata da un nemico schiacciante. Ed erano, s, una minoranza, e circondata dal nemico. Ma non erano n inermi n impotenti a resistere. La ragione per cui non poterono difendersi lottando va ricercata nel loro intimo senso di rassegnazione, nella minuziosa cancellazione, nel corso dei secoli, di ogni impulso alla ribellione, nella connaturata abitudine di credere che chi si piega non si spezza. Ma prendiamo gli eroi del ghetto di Varsavia, le poche migliaia che, seppure tardivamente, combatterono e morirono combattendo (ma alcuni riuscirono a salvarsi): il loro eroismo dimostra che la rinuncia a combattere non dipendeva da un calcolo delle probabilit a sfavore. Gli insorti del ghetto di Varsavia si batterono quando le probabilit di vincere e di sopravvivere erano nulle, mentre centinaia di migliaia di altri non avevano opposto resistenza quando le probabilit di riuscita erano di gran lunga pi alte. Anche quegli eroici combattenti erano ebrei, ma ebrei che si erano scrollati di dosso il ghetto interiore. Cos come avevano fatto quegli ebrei che, non appena il nazismo minacci di intaccare la loro dignit di uomini, avevano lasciato l'Europa, abbandonando i loro beni materiali pur di 28

salvare la vita e il rispetto di s. Dunque era possibile liberarsi dalla mentalit del ghetto. Purtroppo, i pi restarono e trovarono la morte, per essere rimasti attaccati a un'idea anacronistica di realt. Convinti che prima o poi il persecutore finisce sempre per placarsi, si lasciarono dominare da angosce secondarie; ignorando la vicinanza della morte, temettero sopra ogni altra cosa l'incertezza di un sole straniero. L'attaccamento agli agi della vita in Egitto fu l'espressione della mentalit del ghetto che precedette quel primo esilio, ma a noi moderni non stato dato un Mos. Senza profeti a guidarci per mano, dobbiamo combattere, ciascuno individualmente, le tendenze alla mentalit del ghetto che albergano dentro di noi. Di qui l'urgenza della mia preoccupazione per ogni traccia che di quella mentalit sopravviva ancora tra noi. la stessa preoccupazione che indusse il procuratore generale di Israele, Gideon Hausner, a domandare ogni volta, a ciascun sopravvissuto dei campi di sterminio che saliva sul banco dei testimoni nel processo a Eichmann: "Perch non vi siete ribellati?" Come in tante altre udienze, il procuratore generale rivolse la medesima domanda anche al dottor Moshe Bejski, che aveva narrato come quindicimila ebrei fossero stati costretti ad assistere all'impiccagione di un ragazzo di quindici anni, colpevole di aver cantato un inno sovietico. "Perch," domand il procuratore generale, "se eravate in quindicimila contro dieci, diciamo pure cento guardie, perch non le avete assalite? Perch non vi siete ribellati?" I giornali riferiscono che il teste fu sconvolto dalla domanda e dovette sedersi. Anche noi siamo sconvolti, e vorremmo dimenticare. Ma non possiamo. Lo stesso giorno fu interrogato un altro testimone, Yaacov Gurfein. Era scappato da un convoglio di ebrei che venivano inviati alle camere a gas. Il giudice Benjamin Halevi gli domand come mai non c'era stata alcuna resistenza, e il teste rispose che non avevano pi la volont di resistere. "Allora come mai lei si butt fuori dal treno?" domand il giudice. E Gurfein rispose: "Neppure io mi sarei buttato, se mia madre non mi avesse dato la spinta." La domanda che ci tormenta appunto questa: perch quegli ebrei non furono capaci di buttarsi da soli? L'ultimo esempio lo devo a Hannah Arendt. Diverse migliaia di donne ebree erano state radunate in un campo francese di recente costruzione, prima di essere consegnate ai tedeschi. Il secondo giorno alcuni membri della resistenza francese si introdussero nel campo non ancora completamente recintato, offrendo a chiunque volesse documenti falsi e la 29

possibilit di fuggire. Bench fosse stata data loro una descrizione realistica della sorte che le attendeva, la stragrande maggioranza delle donne rimase incredula e non mostr alcun interesse per quella possibilit di salvezza. Solo un piccolo gruppo, meno del cinque per cento, approfitt dell'occasione; tra esse Hannah Arendt. Le altre dissero che volevano rifletterci sopra, che non erano sicure che la fuga fosse la soluzione migliore, e cos via. Il giorno dopo era gi troppo tardi; il campo fu completamente recintato. Tutte quelle che avevano esitato ad agire finirono nelle camere a gas. Tutti coloro, ebrei e non, che non osano difendersi pur sapendo di averne il diritto, che accettano passivamente di essere puniti non per un delitto commesso, ma per ci che sono, sono gi morti nel momento in cui compiono quella scelta; che poi sopravvivano o meno fisicamente dipende dal caso. Se le circostanze non sono favorevoli, finiscono nelle camere a gas. Come un atteggiamento di assoluta sottomissione di fronte alla pi brutale violenza significhi morte, anche se continuiamo a respirare ancora per lungo tempo, stato descritto nel modo pi incisivo da Simone Weil, un'ebrea che conosceva bene sia la persecuzione sia il valore della vita. In un bellissimo saggio, L'Iliade, o il poema della forza, composto dopo la capitolazione della Francia, nel 1940, Simone Weil parla di ci che anche Omero aveva capito; spiega come la forza che non uccide, cio che non uccide ancora, [che] rimane sospesa, pronta, sopra il capo della creatura che potr uccidere in qualunque momento, trasforma l'uomo in pietra, trasforma l'essere umano in una cosa mentre ancora in vita. Un uomo sta disarmato e nudo con un'arma puntata contro: quell'uomo gi cadavere prima che alcuno o alcunch lo sfiori. Se uno straniero invalido, disarmalo, inerme, si getta ai piedi di un guerriero invocando la sua misericordia, non , per quel gesto in s, condannato a morte; ma baster un attimo di impazienza da parte del guerriero a privarlo della vita... Unico tra tutte le creature, il supplice ora descritto non trema n rabbrividisce. Ha perduto il diritto a tremare. Sicch, quando Priamo entr nella tenda di Achille, e "si ferm, gli abbracci le ginocchia, gli baci la mano", si era ridotto a oggetto da gettare senza rimpianto. Achille lo capisce, e "sollevatolo per il braccio, spinse via il vecchio". Finche gli stava abbraccialo alle ginocchia, Priamo 30

era un oggetto senz'anima; solo rimettendolo in piedi Achille poteva restituirgli la sua essenza di uomo. appunto questo aspetto del problema che mi ha indotto a biasimare non gi la famiglia Frank, n Anna Frank, bens l'accoglienza universalmente positiva tributata al diario di Anna nel mondo occidentale. Mi preme sottolineare ancora una volta che non ho nulla contro i Frank e ancor meno contro l'infelice piccola Anna. Ma sono contrario alla filosofia di vita del ghetto, che sembra essersi diffusa non solo tra gli intellettuali ebrei, ma anche in vasti settori del mondo libero. Si direbbe che nella sottomissione passiva alla spada, nel porgere il collo al carnefice ora vediamo un segno della grandezza dell'uomo, invece di considerarli, come dice Simone Weil, gesti che degradano l'essere umano a oggetto senz'anima. In quelle stanze sul retro, nella Hinter Haus, la famiglia Frank aveva creato un ghetto; un ghetto ricco di stimoli intellettuali ed emotivi, ma pur sempre un ghetto. Dovremmo confrontare la loro vicenda con quella di altre famiglie ebree che vissero nascoste in Olanda e che, nel momento stesso in cui entravano nel loro nascondiglio, incominciavano a preparare piani di fuga per il giorno in cui la polizia fosse venuta a cercarli. A differenza dei Frank, non si barricarono in stanze senza uscita; non volevano essere chiusi in trappola. Nell'attesa, provavano e riprovavano l'esecuzione del piano previsto nell'eventualit di un'irruzione della polizia; per esempio, il padre avrebbe cercato di trattenere gli agenti, discutendo e opponendo resistenza, per dare alla moglie e ai figli il tempo di fuggire. In alcuni casi, quando arriv la polizia, i genitori si gettarono sui poliziotti, sapendo che sarebbero stati uccisi ma salvando cos la vita a un figlio. In almeno un caso, sappiamo di una drammatica variante. I genitori si erano adattati a rimanere nascosti all'infinito, convinti che "non potesse succedere a loro". Solo la figlia, poco pi che bambina, ebbe abbastanza spirito di iniziativa da fuggire, bench la fuga non rientrasse nei piani iniziali. la storia di Marga Minco, che visse abbastanza da raccontarla nel suo libro, Bitter Herbs (New York, 1960). La glorificazione di cui sono stati fatti oggetto i Frank rientra nella mentalit del ghetto che nega una realt che altrimenti ci costringerebbe a intraprendere un'azione. Ed un segno di come la tendenza a negare la realt sia diffusa nel mondo occidentale, tra gli ebrei e i non ebrei allo stesso modo, bench la vicenda stessa di Anna dimostri come tale negazione possa affrettare la nostra rovina. 31

Se l'ebreo dei ghetti morto, e a Israele nato un ebreo capace di difendersi, il resto del mondo ebraico si trova nel mezzo della corrente. Questi ebrei, che non appartengono n al ghetto n a Israele, stanno a met strada, non si sentono veramente a proprio agio n dall'una n dall'altra parte. Sono, come chi scrive, interiormente lacerati. stata una benedizione che i settori pi vitali del popolo ebraico avessero preparato la nascita di una nuova e diversa nazione. Ma la grande vitalit di Israele non cancella il fatto che gli ebrei del ghetto furono sterminati da Hitler. Le disgraziate vittime ora sono morte; nulla che noi possiamo fare canceller la vergogna del secolo, di cui tutti siamo partecipi. Non era mia intenzione, in queste pagine, dare giudizi, n su Anna Frank n sugli altri sei milioni di ebrei vittime del nazismo. Non voglio n criticare n assolvere tutti, voglio solo capire e imparare. La mia preghiera che non disprezziamo la lezione che quei sei milioni di vittime ci hanno involontariamente insegnato, a prezzo della vita. La mentalit del ghetto non una colpa: un errore fatale. Forse giunto il nuovo tempo in cui gli ebrei, per la particolare esperienza vissuta, hanno qualcosa della massima importanza da insegnare. Per molti versi, il mondo occidentale stesso sembra avviato ad abbracciare la filosofia di vita del ghetto: non voler sapere, non voler capire che cosa accade nel resto del mondo. Se non stiamo attenti, l'Occidente dei bianchi, che gi costituisce una minoranza, si murer in un ghetto di sua stessa creazione, fatto dei cosiddetti deterrenti nucleari. Molti, dentro tale cintura di protezione, che anche una cintura di costrizione, gi si preparano a scavarsi i loro rifugi. Come per gli ebrei che restarono nei ghetti d'Europa anche dopo l'arrivo dei nazisti, si direbbe che per noi conti soltanto poter continuare il lavoro nel nostro enorme shtetl, e che importa ci che succede nel resto del mondo? Se riusciremo a liberarci dagli ultimi residui della mentalit del ghetto, forse toccher a noi ebrei insegnare al mondo occidentale che si deve, che tutti dobbiamo, estendere l'idea di comunit al di l del nostro gruppo, al di l delle cortine di ferro: non perch tutti gli uomini siano fondamentalmente buoni, bens perch la violenza altrettanto connaturata nell'uomo della tendenza verso l'ordine.

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La mentalit del Ghetto la mentalit di chi pur di fronte all'evidenza di problemi che mettono a rischio la propria vita, preferisce nasconderli per non affrontarli. E la mentalit di chi preferisce rimandare l'esame di problemi fondamentali per rimanere legato ad una quotidianit passiva e abitudinaria. E l'incapacit di difendersi, di reagire, di chiamare i problemi con il loro nome, di dare a loro la priorit che permette di risolvere prima i pi importanti poi i pi banali. E la mentalit di chi ama farsi ingannare, e sfruttare pur di continuare a vivere in una temporanea tranquillit. Con questa mentalit si apre la porta ai soprusi, alla sopraffazione da parte dei violenti, alle ingiustizie. Vivere con questa mentalit non un vantaggio, la premessa per perdere tutto, anche la propria vita.

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