Vous êtes sur la page 1sur 27

VITTORIA COLONNA

Scrivo sol per sfogar l'interna doglia ch'al cor mandar le luci al mondo sole, e non per giunger lume al mio bel Sole, al chiaro spirto e a l'onorata spoglia. Giusta cagion a lamentar m'invoglia; ch'io scemi la sua gloria assai mi dole; per altra tromba e pi sagge parole convien ch'a morte il gran nome si toglia. La pura fe', l'ardor, l'intensa pena mi scusi appo ciascun; ch 'l grave pianto tal che tempo n ragion l'affrena. Amaro lacrimar, non dolce canto, foschi sospiri e non voce serena, di stil no ma di duol mi danno vanto.

II

Perch del tauro l'infiammato corno mandi virt che con novei colori orni la terra di suoi vaghi fiori e pi bello rimeni Apollo il giorno; e perch'io veggia fonte o prato adorno di leggiadre alme, o pargoletti amori, o dotti spirti a pie' di sacri allori con chiare note aprir l'aere d'intorno; non s'allegra il cor tristo, o punto sgombra de la cura mortal che sempre il preme, s le mie pene son tenaci e sole; ch quanta gioia i lieti amanti ingombra, e quanto qui diletta, il mio bel Sole con l'alma luce sua m'ascose inseme.

III

Quando Morte fra noi disciolse il nodo che primo avinse il Ciel, Natura e Amore, tolse agli occhi l'obietto e 'l cibo al core; l'alme ristrinse in pi congiunto modo. Quest' 'l legame bel ch'io prezzo e lodo, dal qual sol nasce eterna gloria e onore; non pu il frutto marcir, n langue il fiore del bel giardino ov'io piangendo godo. Sterili i corpi fur, l'alme feconde;

il suo valor qui col mio nome unito mi fan pur madre di sua chiara prole, la qual vive immortal, ed io ne l'onde del pianto son, perch'ei nel Ciel salito, vinse il duol la vittoria ed egli il sole.

IV

Prima nei chiari or negli oscuri panni dimostra Amor nel cor dominio intero; io pur col tempo mitigarlo spero, ed ei s'avanza col girar degli anni. Parmi che i lunghi mie' gravosi danni li ricompensi un dolce alto pensero che solo ombrando il bel sembiante altero rinforza in me l'ardor, sgombra gli affanni. Imaginata luce arde e consuma, sostiene e pasce l'alma, e 'l foco antico con vigor novo soffia, aviva e 'ncende; il chiaro suo valor, che 'l mondo alluma di veri exempi, mi fa il duol s amico ch'assai mi giova pi che non m'offende.

Questo nodo gentil che l'alma stringe, poi che l'alta cagion fatt' immortale, discaccia dal mio cor tutto quel male che gli amanti a furor spesso constringe. Tante imagini false or non dipinge Amor ne la mia mente, n m'assale timor, n l'aureo o l'impiombato strale tra freno e sproni or mi ritiene, or spinge. Con salda fede in quell'immobil stato me l'appresenta un fiso e bel pensero sovra le stelle, la fortuna e 'l fato. N men sdegnoso un giorno o pi altero l'altro, ma sempre stabile e beato, quest'amor d'ora 'l fermo, il buono e 'l vero.

VI

Quando il gran lume appar ne l'oriente, che 'l nero manto de la notte sgombra, e 'l freddo gel ch'alor la terra ingombra dissolve e scaccia col suo raggio ardente, de l'usate mie pene, alquanto lente per l'inganno del sonno, me ringombra;

ond'ogni mio piacer risolve in ombra, alor che 'n ciascun lato ha l'altre spente. Oh viver mio noioso, oh aversa sorte! cerco l'oscurit, fuggo la luce, odio la vita, ognor bramo la morte. Quel ch'agli altri occhi offende ai miei riluce, perch chiudendo lor s'apron le porte a la cagion ch'al mio Sol mi conduce.

VII

Ne la dolce stagion non s'incolora dei nati fior o ver frondi novelle la terra, n sparir fra tante stelle nel pi sereno ciel la vaga aurora con quanti alti pensier s'erge ed onora l'anima accesa, ricca ancor di quelle grazie del lume mio ch'altere e belle mostra ardente memoria d'ora in ora. Tal potess'io ritrarle in queste carte qual l'ho impresse nel cor, ch mille amanti infiammerei di casti fochi ardenti; ma chi potria narrar l'alme consparte luci del mortal velo, e quelli intenti raggi de la virt s vivi e santi?

VIII

Di gioia in gioia e d'una in altra schiera di dolci e bei pensier l'Amor superno mi guida fuor del freddo arido verno a la Sua verde e calda primavera. Forse il Signor, finch di molle cera mi vegga il petto, onde 'l sigillo eterno m'imprima dentro nel pi vivo interno del cor la fede Sua fondata e vera, non vuol con l'aspra croce al sentier erto ma col giogo soave e peso leve condurmi al porto per la via men dura; o forse ancor come benigno esperto Padre e Maestro in questa pace breve a longa guerra m'arma e m'assicura.

IX

Se per serbar la notte il vivo ardore dei carboni da noi la sera accensi nel legno incenerito arso conviensi

coprirli, s che non si mostrin fore, quanto pi si conviene a tutte l'ore chiuder in modo d'ogn'intorno i sensi, che sian ministri a serbar vivi e intensi i bei spirti divini entro nel core? Se s'apre in questa fredda notte oscura per noi la porta a l'inimico vento le scintille del cor dureran poco; ordinar ne convien con sottil cura il senso, onde non sia da l'alma spento, per le insidie di fuor, l'interno foco.

Se guarda il picciol spazio de la terra l'alma, merc del Ciel, grande e immortale, non scorge obietto al suo desire equale, n trova pace in s continua guerra; del vero albergo a se medesma serra la porta, e tanto scende quanto sale mentre fra le fallaci inutil scale del labirinto uman vaneggia ed erra. Non ha del fil di questa vita il fine, e pur trama ed ordisce, apre e raccoglie, tira e rallenta la sua fragil tela; ma solo il voler nostro erge e ritoglie da la nebbia mortal, ch'intorno il vela, la fede de le cose alte e divine.

XI

Forse il Foco divino in lingue accese venne per dar silenzio a l'intelletto, s che l'alte Sue voci in vivo affetto d'ardente amor fosser dal mondo intese; onde i Suoi servi in quelle ardite imprese non di saper ma sol di fede il petto armaro, intenti al grande eterno Obietto che quanto aveano a dir lor fea palese. Simil vorrei che i nostri egri desiri, tacendo, non spargesser pur di errore quel seme che non mai frutto raccoglie, ma, formando con lacrime e sospiri di fede e speme bei pensieri e voglie, lasciasser sol parlar sempre a l'amore.

VERONICA GAMBARA

Occhi lucenti e belli: come esser pu ch'in un medesmo instante nascan da voi s nove forme e tante? Lieti, mesti, superbi, umili, alteri vi mostrate in un punto, onde di speme e di timor m'empiete, e tanti effetti dolci, acerbi, e feri nel cor arso per voi vengono insieme ad ogn'or che volete. Or poich voi mia vita e morte sete, occhi felici, occhi beati e cari, siate sempre sereni, allegri, e chiari.

II

Sciogli le trecce d'oro e d'ogni intorno cingi le tempie de' tuoi mirti e allori, Venere bella, e teco i santi Amori faccian concordi un dolce almo soggiorno; e tu, sacro Imeneo, cantando intorno di vaghe rose e di purpurei fiori, col plettro d'oro in versi alti e sonori rendi onorato questo altero giorno. E voi tutti, o gran dei, che de' mortali sete al governo, a man piena spargete gioia, pace, dolcezza, amore, e fede, acci che i casti baci e l'ore liete spese tra due siano felici, e tali che dar non possa il Cielo altra mercede.

III

Altri boschi, altri prati, ed altri monti, felice e lieto Bardo, or godi e miri, ed altre ninfe vedi, in vaghi giri danzar cantando intorno a fresche fonti, e ad altri ch'a mortali ora racconti i moderati tuoi santi desiri, n pi fuor del tuo petto escon sospiri, di dolor segni manifesti e conti, ma, beato nel Ciel, nascer l'aurora e sotto i piedi tuoi vedi le stelle produr girando i vari effetti suoi, e vedi che i pastor d'erbe novelle sacrificio ti fanno, e dicon poi: "Sii propizio a chi t'ama e a chi t'onora!"

IV

Ombroso colle, amene e verdi piante, liete piagge profonde e grate valli, correnti freschi e lucidi cristalli, conforto spesso a le mie pene tante; segrete selve reverende e sante, folti boschetti e solitari calli, soavi fiori persi, bianchi, e gialli, oppressi da celesti e sacre piante: a voi, piangendo, gi miei duri stenti narrai pi volte; or a voi tutti insieme voglio parte scoprir de' miei contenti. Dopo lunghe fatiche e doglie estreme vidi del mio bel sole i raggi ardenti quando di veder lor manch'ebbi speme.

GASPARA STAMPA

Se di rozzo pastor di gregge e folle il giogo ascreo fe' diventar poeta lui, che poi salse a s lodata meta, che quasi a tutti gli altri fama tolle, che meraviglia fia s'alza ed estolle me bassa e vile a scriver tanta pita, quel che pu pi che studio e che pianeta, il mio verde, pregiato ed alto colle? La cui sacra, onorata e fatal ombra dal mio cor, quasi sbita tempesta, ogni ignoranza, ogni bassezza sgombra. Questa da basso luogo m'erge, e questa mi rinova lo stil, la vena adombra; tanta virt nell'alma ognor mi desta!

II

Io assimiglio il mio signor al cielo meco sovente. Il suo bel viso 'l sole; gli occhi, le stelle; e 'l suon de le parole l'armonia, che fa 'l signor di Delo. Le tempeste, le piogge, i tuoni e 'l gelo son i suoi sdegni, quando irar si suole; le bonacce e 'l sereno quando vuole squarciar de l'ire sue benigno il velo. La primavera e 'l germogliar de' fiori quando ei fa fiorir la mia speranza, promettendo tenermi in questo stato. L'orrido verno poi, quando cangiato

minaccia di mutar pensieri e stanza, spogliata me de' miei pi ricchi onori.

III

S come provo ognor novi diletti, ne l'amor mio, e gioie non usate, e veggio in quell'angelica beltate sempre novi miracoli ed effetti, cos vorrei aver concetti e detti e parole a tant'opra appropriate, s che fosser da me scritte e cantate, e fatte cnte a mille alti intelletti. Et udissero l'altre che verranno con quanta invidia lor sia gita altera de l'amoroso mio felice danno; e vedesse anche la mia gloria vera quanta i begli occhi suoi luce e forza hanno di far beata altrui, bench si pra.

IV

Quando i' veggio apparir il mio bel raggio, parmi veder il sol, quand'esce fra; quando fa meco poi dolce dimora, assembra il sol che faccia suo viaggio. E tanta nel cor gioia e vigor aggio, tanta ne mostro nel sembiante allora, quanto l'erba, che pinge il sol ancora a mezzo giorno nel pi vago maggio. Quando poi parte il mio sol finalmente, parmi l'altro veder, che scolorita lasci la terra andando in occidente. Ma l'altro torna, e rende luce e vita; e del mio chiaro e lucido oriente 'l tornar dubbio e certa la partita.

Rivolgete talor pietoso gli occhi da le vostre bellezze a le mie pene, s che quanta alterezza indi vi viene, tanta quindi pietate il cor vi tocchi. Vedrete qual martr indi mi fiocchi, vedrete vte le faretre e piene, che preste a' danni miei sempre Amor tiene, quando avien che ver' me l'arco suo scocchi. E forse la piet del mio tormento

vi mover, dov'or ne gite altero, non lo vedendo voi, qual io lo sento; cos penosa io meno, e men voi fiero ritornerete, e cento volte e cento benedirete i ciel, che mi vi diro.

VI

Arsi, piansi, cantai; piango, ardo e canto; pianger, arder, canter sempre (fin che Morte o Fortuna o tempo stempre a l'ingegno, occhi e cor, stil, foco e pianto) la bellezza, il valor e 'l senno a canto, che 'n vaghe, sagge ed onorate tempre Amor, natura e studio par che tempre nel volto, petto e cor del lume santo; che, quando viene, e quando parte il sole, la notte e 'l giorno ognor, la state e 'l verno, tenebre e luce darmi e trmi suole, tanto con l'occhio fuor, con l'occhio interno, agli atti suoi, ai modi, a le parole, splendor, dolcezza e grazia ivi discerno.

VII

Fra quell'illustre e nobil compagnia di grazie, che vi fan, conte, immortale, s'erge pi d'altra e vaga stende l'ale del canto la dolcissima armonia. Quella in noi ogni acerba cura e ria pu render dolce, e far lieve ogni male; quella, quand' Euro pi fiero l'assale, pu render queto il mar turbato pria. Il giuoco, il riso, Venere e gli Amori si veggon l'aere far sereno intorno, ovunque suoni il dolce accento fuori. Ed io, potendo far con voi soggiorno, a l'armonia di quei celesti cori poco mi curerei di far ritorno.

VIII

Altero nido, ove 'l mio vivo sole prese da prima il suo terreno incarco; onde per va pi leggero e scarco di quel che da tutt'altri andar si suole; i' vorrei dir, ma non so far parole di tanti e tanti pregi, onde sei carco;

perch lo stil a l'alta impresa parco, e via pi a chi t'onora entro e ti cole. Perci mi taccio, e prego 'l ciel che sempre ti serbi in questo lieto e vago stato, in queste care e graziose tempre; e renda ognor pi chiaro e pi lodato il tuo signor e mio, e chi'i' mi stempre sempre nel mio bel foco alto e pregiato.

IX

Onde, che questo mar turbate spesso, come turba anco me la gelosia, venite a starvi meco in compagnia, poi che mi ste s care e s presso: cos fiero Austro ed Aquilon con esso men importuno e men crudo vi sia; cos triegua talor Eolo vi dia, quel ch'a me da l'amor non m' concesso. Lassa, ch' io ho da pianger tanto e tanto, che l'umor, che per gli occhi verso fore, poco o nulla, se fosse altrettanto. Voi mi darete voi del vostro umore quanto mi basti a disfogar il pianto, che si conviene a l'alto mio dolore.

Io son da l'aspettar omai s stanca, s vinta dal dolor e dal disio, per la s poca fede e molto oblio di chi del suo tornar, lassa, mi manca, che lei, che 'l mondo impalidisce e 'mbianca con la sua falce e d l'ultimo fio, chiamo talor per refrigerio mio, s 'l dolor nel mio petto si rinfranca. Ed ella si fa sorda al mio chiamare, schernendo i miei pensier fallaci e folli, come sta sordo anch'egli al suo tornare. Cos col pianto, ond' ho gli occhi miei molli, fo pietose quest'onde e questo mare; ed ei si vive lieto ne' suoi colli.

XI

Se d'arder e d'amar io non mi stanco, anzi crescermi ognor questo e quel sento, e di questo e di quello io non mi pento,

come Amor sa, che mi sta sempre al fianco, onde avien che la speme ognor vien manco, da me sparendo come nebbia al vento, la speme, che 'l mio cor pu far contento, senza cui non si vive, e non vissi anco? Nel mezzo del mio cor spesso mi dice un' incognita tma: - O miserella, non fia 'l tuo stato gran tempo felice; ch fra non molto pora sparir quella luce degli occhi tuoi vera beatrice, ed ogni gioia tua sparir con ella.

XII

Voi, che 'n marmi, in colori, in bronzo, in cera imitate e vincete la natura, formando questa e quell'altra figura, che poi somigli a la sua forma vera, venite tutti in graziosa schiera a formar la pi bella creatura, che facesse giamai la prima cura, poi che con le sue man fe' la primiera. Ritraggete il mio conte, e siavi a mente qual dentro ritrarlo, e qual fore; s che a tanta opra non manchi niente. Fategli solamente doppio il core, come vedrete ch'egli ha veramente il suo e 'l mio, che gli ha donato Amore.

XIII

Ritraggete poi me da l'altra parte, come vedrete ch'io sono in effetto: viva senz'alma e senza cor nel petto per miracol d'Amor raro e nov'arte; quasi nave che vada senza sarte, senza timon, senza vele e trinchetto, mirando sempre al lume benedetto de la sua tramontana, ovunque parte. Ed avertite che sia 'l mio sembiante da la parte sinistra afflitto e mesto, e da la destra allegro e trionfante: il mio stato felice vuol dir questo, or che mi trovo il mio signor davante; quello, il timor che sar d'altra presto.

XIV

Or che torna la dolce primavera a tutto il mondo, a me sola si parte; e va da noi lontana in quella parte, ov' del sol pi fredda assai la sfera. E que' vermigli e bianchi fior, che 'n schiera Amor nel viso di sua man comparte del mio signor, del gran figlio di Marte, daranno agli occhi miei l'ultima sera, e fioriranno a gente, ove non fia chi spiri e viva sol del lor odore, come fa la penosa vita mia. O troppo iniquo, e troppo ingiusto Amore,. a comportar che degli amanti stia s lontano l'un l'altro il corpo e 'l core

XV

Voi che novellamente, donne, entrate in questo pien di tma e pien d'errore largo e profondo pelago d'Amore, ove gi tante navi son spezzate, siate accorte, e tant'oltra non passate, che non possiate infine uscirne fore, n fidate in bonacce o 'n second're; ch come a me vi fian tosto cangiate. Sia dal mio essempio il vostro legno scorto, cui ria fortuna allor diede di piglio, che pi sperai esser vicina al porto. Sovra tutto vi do questo consiglio: prendete amanti nobili; e conforto questo vi fia in ogni aspro periglio.

XVI

La mia vita un mar: l'acqua 'l mio pianto, i venti sono l'aure de' sospiri, la speranza la nave, i miei desiri la vela e i remi, che la caccian tanto. La tramontana mia il lume santo de' miei duo chiari, duo stellanti giri, a' quai convien ch'ancor lontana i' miri senza timon, senza nocchier a canto. Le perigliose e sbite tempeste son le teme e le fredde gelosie, al dipartirsi tarde, al venir preste. Bonacce non vi son, perch dal die che voi, conte, da me lontan vi feste, partr con voi l'ore serene mie.

XVII

Qui, dove avien che 'l nostro mar ristagne, conte, la vostra misera Anassilla, quando la luna agghiaccia e 'l sol favilla, pur voi chiamando, si lamenta ed agne. Voi, dove avien che l'Oceano bagne, la notte, il giorno, a l'alba ed a la squilla, menando vita libera e tranquilla, mirate lieto il mar e le campagne. E s l'assenzia e 'l poco amor v'invola la memoria di lei, la vostra fede, che pur non le scrivete una parola. O fra tutt'altre mia miseria sola! o pena mia, ch'ogn'altra pena eccede! Ci si comporta, Amor, ne la tua scola?

XVIII

Quando talvolta il mio soverchio ardore m'assale e stringe oltra ogni stil umano, userei contra me la propria mano, per finir tanti omai con un dolore. Se non che dentro mi ragiona Amore, il qual giamai da me non lontano: - Non por la falce tua ne l'altrui grano: tu non sei tua, tu sei del tuo signore, perch dal d, ch'a lui ti diedi in preda, l'anima e 'l corpo, e la morte e la vita divenne sua, e a lui conven che ceda. S ch'a far da te stessa dipartita, senza ch'egli tel dica o tel conceda, troppo ingiusta cosa e troppo ardita.

XIX

Lassa, chi turba la mia lunga pace? chi rompe il sonno e l'alta mia quiete? chi mi stilla nel cor novella sete di gir seguendo quel che pi mi sface? Tu, Amore, il cui strale e la cui face ogni contento uman recide e miete, tu ber mi desti del tuo fiume Lete, che pi mi nce, quanto pi mi piace. Ahi, quando fia giamai ch'un giorno possa voler col mio voler, resa a me stessa, del grave giogo periglioso scossa? Quando fia mai che la sembianza impressa dentro a le mie midolle e dentro a l'ossa mi smaghi Amor, e' miei martr con essa?

XX

Novo e raro miracol di natura, ma non novo n raro a quel signore, che 'l mondo tutto va chiamando Amore, che 'l tutto adopra fuor d'ogni misura: il valor, che degli altri il pregio fura, del mio signor, che vince ogni valore, vinto, lassa, sol dal mio dolore, dolor, a petto a cui null'altro dura. Quant'ei tutt'altri cavalieri eccede in esser bello, nobile ed ardito, tanto vinto da me, da la mia fede. Miracol fuor d'amor mai non udito! Dolor, che chi nol prova non lo crede! Lassa, ch' io sola vinco l'infinito!

XXI

Con quai degne accoglienze o quai parole raccorr io il mio gradito amante, che torna a me con tante glorie e tante, quante in un sol non vide forse il sole? Qual color or di rose, or di viole fia 'l mio? qual cor or saldo ed or tremante, condotta innanzi a quel divin sembiante, ch'ardir e tma insieme dar mi suole? Osar io con queste fide braccia cingerli il caro collo, ed accostare la mia tremante a la sua viva faccia? Lassa, che pur a tanto ben penare temo che 'l cor di gioia non si sfaccia: chi l'ha provato se lo pu pensare.

XXII

O notte, a me pi chiara e pi beata che i pi beati giorni ed i pi chiari, notte degna da' primi e da' pi rari ingegni esser, non pur da me, lodata; tu de le gioie mie sola sei stata fida ministra; tu tutti gli amari de la mia vita hai fatto dolci e cari, resomi in braccio lui che m'ha legata. Sol mi manc che non divenni allora la fortunata Alcmena, a cui st tanto pi de l'usato a ritornar l'aurora. Pur cos bene io non potr mai tanto dir di te, notte candida, ch'ancora

da la materia non sia vinto il canto.

XXIII

Chi mi dar di lagrime un gran fonte, ch'io sfoghi a pieno il mio dolor immenso, che m'assale e trafige, quando io penso al poco amor del mio spietato conte? Tosto che 'l sol degli occhi suoi tramonte agli occhi miei, a' quali raro accenso, tanto ha di me non pi memoria o senso, quanto una tigre del pi aspro monte. Ben 'l mio stato e 'l destn crudo e fero, ch tosto che da me vi dipartite, voi cangiate, signor, luogo e pensiero. - Io ti scriver subito - mi dite ch'io sar giunto al loco ove andar chero; e poi la vostra fede a me tradite.

XXIV

Liete campagne, dolci colli ameni, verdi prati, alte selve, erbose rive, serrata valle, ov'or soggiorna e vive chi pu far i miei d foschi e sereni, antri d'ombre amorose e fresche pieni, ove raggio di sol non ch'arrive, vaghi augei, chiari fiumi ed aure estive, vezzose ninfe, Pan, fauni e sileni, o rendetemi tosto il mio signore, voi che l'avete, o fategli almen cnta la mia pena e l'acerbo aspro dolore: ditegli che la vita mia tramonta, s'omai fra pochi giorni, anzi poch'ore il suo raggio a quest'occhi non sormonta.

XXV

Se poteste, signor, non l'occhio interno penetrar i segreti del mio core, come vedete queste ombre di fuore apertamente con questo occhio esterno, vi vedreste le pene de l'inferno, un abisso infinito di dolore, quanta mai gelosia, quanto timore Amor ha dato o pu dar in eterno. E vedreste voi stesso seder donno in mezzo a l'alma, cui tanti tormenti

non han potuto mai cavarvi, o ponno; e tutti altri disir vedreste spenti, od oppressi da grave ed alto sonno, e sol quei d'aver voi desti ed ardenti.

XXVI

Voi potete, signor, ben trmi voi con quel cor d'indurato diamante, e farvi d'altra donna novo amante: di che cosa non , che pi m'annoi; ma non potete gi ritrmi poi l'imagin vostra, il vostro almo sembiante, che giorno e notte mi sta sempre innante, poi che mi fece Amor de' servi suoi; non potete ritrmi quei desiri, che m'acceser di voi s caldamente, il foco, il pianto, che per gli occhi verso. Questi mi fien ne' miei gravi martri dolce sostegno, e la memoria ardente del diletto provato, c' han disperso.

XXVII

Quasi uom che rimaner de' tosto senza il cibo, onde nudrir suol la sua vita, pi dell'usato a prenderne s'aita, fin che gli presso posto in sua presenza; convien ch'innanzi a l'aspra dipartenza ch'a s crudi digiuni l'alma invita, ella pi de l'usato sia nodrita, per poter poi soffrir s dura assenza. Per, vaghi occhi miei, mirate fiso pi de l'usato, anzi bevete il bene e 'l bel del vostro amato e caro viso. E voi, orecchie, oltra l'usato piene restate del parlar, ch 'l paradiso certo armonia pi dolce non contiene.

XXVIII

Deh consolate il cor co' vostri rai questo almen poco spazio, che m'avanza de la vostra vicina lontananza, ch'io non vedr con gli occhi asciutti mai. Lasciate i vostri amati colli e gai, a voi s cara e a me nemica stanza, colli, c'hanno imparato per usanza

a farmi oltraggio s sovente omai. Gi senza voi non fia manco fiorita la chioma de' bei colli, dov'io forsi rester, senza voi, senza la vita. Che cosa , conte, a la pietate opporsi, se non negare a chi dimanda aita i suoi pietosi, i suoi dolci soccorsi?

XXIX

Amor, lo stato tuo proprio quale una ruota, che mai sempre gira, e chi v' suso or canta ed or sospira, e senza mai fermarsi or scende or sale. Or ti chiama fedele, or disleale; or fa pace con teco, ed or s'adira; ora ti si d in preda, or si ritira; or nel ben teme, ed or spera nel male; or s'alza al cielo, or cade ne l'inferno; or lunge dal lido, or giunge in porto; or trema a mezza state, or suda il verno. Io, lassa me, nel mio maggior conforto sono assalita d'un sospetto interno, che mi tien sempre il cor fra vivo e morto.

XXX

Signor, ite felice ove 'l disio ad or ad or pi chiaro vi richiama a far volar al ciel la vostra fama, secura da la morte e da l'oblio; ricordatevi sol come rest'io, solinga tortorella in secca rama, che senza lui, che sol sospira e brama, fugge ogni verde pianta e chiaro rio. Al mio cor fate cara compagnia, il vostro ad altra donna non donate, poi che a me s fedel nol deste pria. Sopra tutto tornar vi ricordate, e, s'avien che fia quando estinta io sia, de la mia rara f non vi scordate.

XXXI

Amor m'ha fatto tal ch'io vivo in foco, qual nova salamandra al mondo, e quale l'altro di lei non men stranio animale, che vive e spira nel medesmo loco.

Le mie delizie son tutte e 'l mio gioco viver ardendo e non sentire il male, e non curar ch'ei che m'induce a tale abbia di me piet molto n poco. A pena era anche estinto il primo ardore, che accese l'altro Amore, a quel ch'io sento fin qui per prova, pi vivo e maggiore. Ed io d'arder amando non mi pento, pur che chi m'ha di novo tolto il core resti de l'arder mio pago e contento.

XXXII

L'empio tuo strale, Amore, pi crudo e pi forte assai che quel di Morte; ch per Morte una volta sol si more, e tu col tuo colpire uccidi mille, e non si pu morire. Dunque, Amore, men male la morte che 'l tuo strale.

XXXIII

Sapete voi perch ognun non accende, e non empie d'amore, l'infinita belt del mio signore? Per ch'ognun, com'io, non la comprende, a cui per sorte dato vedervi quel, ch'a tant'altri vietato; ch, se non fosse ci, le pietre e l'erbe spirerebbeno ardore, e girian di tal fiamma alte e superbe.

XXXIV

Il cor verrebbe teco, nel tuo partir, signore, s'egli fosse pi meco, poi che con gli occhi tuoi mi prese Amore. Dunque verranno teco i sospir miei, che sol mi son restati fidi compagni e grati, e le voci e gli omei; e, se vedi mancarti la lor scorta, pensa ch'io sar morta.

XXXV

Le pene de l'inferno insieme insieme, appresso il mio gran foco, tutte son nulla o poco; perch'ove non speme l'anima risoluta al patir sempre s'avezza al duol, che mai non cangia tempre. La mia maggior noia, perch gusto talor ombra di gioia merc de la speranza; e questa varia usanza di gioir e patire fa maggior il martre.

XXXVI

Se 'l cibo, onde i suoi servi nutre Amore, 'l dolore e 'l martre, come poss'io morire nodrita dal dolore? Il semplicetto pesce, che solo ne l'umor vive e respira, in un momento spira tosto che de l'acqua esce; e l'animal, che vive in fiamma e 'n foco, muor, come cangia loco. Or, se tu vi ch'io moia, Amor, trammi di guai e pommi in gioia; perch col pianto, mio cibo vitale, tu non mi puoi far male.

XXXVII

Voi, che di vari campi e prati vari con la penna metendo biade e fiori, mostrate ognor fra i pi saggi scrittori ond'uomo si diletti ed onde impari; o degli ingegni al mondo eletti e rari, di mille edere degno e mille allori, il cui splendor non fia che discolori l'invido oblio o gli anni empi ed avari, quante grazie vi rendo, Ortensio, poi che senza merto mio, per vostri scritti, n'andr famosa dagl'Indi agli Eoi con tant'altre lodate e chiari invitti, che per la vostra penna e pregi suoi di morte o tempo non temon despitti.

XXXVIII

Mesta e pentita de' miei gravi errori e del mio vaneggiar tanto e s lieve, e d'aver speso questo tempo breve de la vita fugace in vani amori, a te, Signor, ch'intenerisci i cori, e rendi calda la gelata neve, e fai soave ogn'aspro peso e greve a chiunque accendi di tuoi santi ardori, ricorro; e prego che mi porghi mano a trarmi fuor del pelago, onde uscire, s'io tentassi da me, sarebbe vano. Tu volesti per noi, Signor, morire, tu ricomprasti tutto il seme umano; dolce Signor, non mi lasciar perire

VERONICA FRANCO

Questa la tua fedel Franca ti scrive, dolce, gentil, suo valoroso amante; la qual, lunge da te, misera vive. Non cos tosto, oim, volsi le piante da la donzella d'Adria, ove 'l mio core abita, ch'io mutai voglia e sembiante: perduto de la vita ogni vigore, pallida e lagrimosa ne l'aspetto, mi fei grave soggiorno di dolore; e, di languir lo spirito costretto, de lo sparger gravosi afflitti lai, e del pianger sol trassi alto diletto. Oim, ch'io 'l dico e 'l dir sempre mai che 'l viver senza voi m' crudel morte, e i piaceri mi son tormenti e guai. Spesso, chiamando il caro nome forte, Eco, mossa a piet del mio lamento, con voci tronche mi rispose e corte; talor fermossi a mezzo corso intento il sole e 'l cielo, e s' la terra ancora piegata al mio s flebile concento; da le loro spelunche uscite fuora, piansero fin le tigri del mio pianto e del martr che m'ancide e m'accora; e Progne e Filomena il tristo canto accompagnaron de le mie parole, facendomi tenor d e notte intanto. Le fresche rose, i gigli e le viole arse ha 'l vento de' caldi miei sospiri, e impallidir pietoso ho visto il sole; nel mover gli occhi in lagrimosi giri

fermarsi i fiumi, e 'l mar depose l'ire per la dolce piet de' miei martri. Oh quante volte le mie pene dire l'aura e le mobil foglie ad ascoltare si fermar queste e lasci quella d'ire! E finalmente non m'avien passare per luogo ov'io non veggia apertamente del mio duol fin le pietre lagrimare. Vivo, se si pu dir che quel ch'assente da l'anima si trova viver possa; vivo, ma in vita misera e dolente: e l'ora piango e 'l d ch'io fui rimossa da la mia patria e dal mio amato bene, per cui riduco in cenere quest'ossa. Fortunato 'l mio nido, che ritiene quello a cui sempre torno col pensiero, da cui lunge mi vivo in tante pene! Ben prego il picciol dio, bendato arciero, che m'ha ferito 'l cor, tolto la vita, mostrargli quanto amandolo ne pro. Oh quanto maledico la partita ch'io feci, oim, da voi, anima mia, bench'a la mente ognor mi ste unita, ma poi congiunta con la gelosia, che, da voi lontan, m'arde a poco a poco con la gelida sua fiamma atra e ria! Le lagrime, ch'io verso, in parte il foco spengono; e vivo sol de la speranza di tosto rivedervi al dolce loco. Subito giunta a la bramata stanza, m'inchiner con le ginocchia in terra al mio Apollo in scienzia ed in sembianza; e da lui vinta in amorosa guerra, seguirl di timor con alma cassa per la via del valor ond'ei non erra. Quest' l'amante mio, ch'ogni altro passa in sopportar gli affanni, e in fedeltate ogni altro pi fedel dietro si lassa. Ben vi ristorer de le passate noie, signor, per quanto 'l poter mio, giungendo a voi piacer, a me bontate, troncando a me 'l martr, a voi 'l desio.

II

Non pi parole: ai fatti, in campo, a l'armi, ch'io voglio, risoluta di morire, da s grave molestia liberarmi. Non so se 'l mio "cartel" si debba dire, in quanto do risposta provocata: ma perch in rissa de' nomi venire? Se vuoi, da te mi chiamo disfidata; e se non, ti disfido; o in ogni via la prendo, ed ogni occasion m' grata. Il campo o l'armi elegger a te stia, ch'io prender quel che tu lascerai; anzi pur ambo nel tuo arbitrio sia. Tosto son certa che t'accorgerai

quanto ingrato e di fede mancatore fosti, e quanto tradito a torto m'hai. E se non cede l'ira al troppo amore, con queste proprie mani, arditamente ti trarr fuor del petto il vivo core. La falsa lingua, ch'in mio danno mente, sterper da radice, pria ben morsa dentro 'l palato dal suo proprio dente; e se mia vita in ci non fia soccorsa, pur disperata prender in diletto d'esser al sangue in vendetta ricorsa; poi col coltel medesmo il proprio petto, de la tua occision sazia e contenta, forse aprir, pentita de l'effetto. Or, mentre sono al vendicarmi intenta, entra in steccato, amante empio e rubello, e qualunque armi vuoi tosto appresenta. Vuoi per campo il segreto albergo, quello che de l'amare mie dolcezze tante mi fu ministro insidioso e fello? Or mi si para il mio letto davante, ov'in grembo t'accolsi, e ch'ancor l'orme serba dei corpi in sen l'un l'altro stante. Per me in lui non si gode e non si dorme, ma 'l lagrimar de la notte e del giorno vien che in fiume di pianto mi trasforme. Ma pur questo medesimo soggiorno, che fu de le mie gioie amato nido, dov'or sola in tormento e 'n duol soggiorno, per campo eleggi, accioch'altrove il grido non giunga, ma qui teco resti spento, del tuo inganno ver'me, crudele infido: qui vieni, e pien di pessimo talento, accomodato al tristo officio porta ferro acuto e da man ch'abbia ardimento. Quell'arme, che da te mi sar prta, prender volontier, ma pi, se molto tagli, e da offender sia ben salda e corta. Dal petto ignodo ogni arnese sia tolto, al fin ch'ei, disarmato a le ferite, possa 'l valor mostrar dentro a s accolto. Altri non s'impedisca in questa lite, ma da noi soli due, ad uscio chiuso, rimosso ogni padrin, sia diffinita. Quest' d'arditi cavalier buon uso, ch'attendon senza strepito a purgarsi, se si senton l'onor di macchie infuso: cos o vengon soli ad accordarsi, o se strada non trovano di pace, pn del sangue a vicenda saziarsi. Di tal modo combatter a me piace, e d'acerba vendetta al desir mio questa maniera serve e sodisface. Bench far del tuo sangue un largo rio spero senz'alcun dubbio, anzi son certa, senza una stilla spargerne sol io; ma se da te mi sia la pace offerta? se la via prendi, l'armi poste in terra, a le risse d'amor del letto aperta? Debbo continuar teco anco in guerra, poi che chi non perdona altrui richiesto, con nota di vilt trascorre ed erra? Quando tu meco pur venissi a questo,

per aventura io non mi partirei da quel ch' convenevole ed onesto. Forse nel letto ancor ti seguirei, e quivi, teco guerreggiando stesa, in alcun modo non ti cederei: per soverchiar la tua s indegna offesa ti verrei sopra, e nel contrasto ardita, scaldandoti ancor tu ne la difesa, teco morrei d'egual colpo ferita. O mie vane speranze, onde la sorte crudel a pianger pi sempre m'invita! Ma pur sostienti, cor sicuro e forte, e con l'ultimo strazio di quell'empio vendica mille tue con la sua morte; poi con quel ferro ancor tronca il tuo scempio.

CHIARA MATRAINI

Quant'ho pi da lontan l'aspetto vostro, pi lo sento ne l'alma a parte a parte scolpito e vivo, e 'n ciascheduna parte insignorirsi del mortal suo chiostro; n poggio, sasso, o valle Amor m'ha mstro fin dove il Serchio arriva o donde parte, ch'io non vi veda con mirabil arte scritto il nome ch'adorna il secol nostro. Cos potesse del mio amor far fede il cor che nel partir vi lassai in pegno, ond'ugual fosse amor sempre tra noi; ch s nel petto il bel nodo mi sede ch'unqua nol canger tempo n sdegno, ma sempre v'amer viva e dapoi.

II

Viva mia bella e dolce calamita, che partendo con s mirabil modo stringeste l'alma in quel tenace nodo ch'a voi sol la terr pi sempre unita, non la mente mia da voi smarrita, se ben lontana a voi, di voi non godo l'amata vista; anzi via pi sempr'odo da voi chiamarmi ove il desio m'invita. Per voi s ricco laccio Amor m'avinse di salda e pura fede al collo intorno, ch'ogn'altra umil catena sdegna il core. Sciols'ogni nodo quando questo strinse, e ruppe l'arco con vittoria il giorno ch'in me fe' eterno l'ultimo suo ardore.

III

Fera son io di questo ombroso loco, che vo con la saetta in mezzo al core, fuggendo, lassa, il fin del mio dolore, e cerco chi mi strugge a poco a poco; e, come augel che fra le penne il foco si sente acceso, onde volando fuore dal dolce nido suo, mentre l'ardore fugge, con l'ale pi raccende il foco, tal io, fra queste fronde a l'aura estiva, con l'ali del desio volando in alto, cerco il foco fuggir, che meco porto. Ma, quanto vado pi di riva in riva per fuggire 'l mio mal, con fiero assalto lunga morte procaccio al viver corto.

IV

Questi venti contrar e cos fieri, che sospingon qui l'onde in questi scogli, sembran de' miei nemici i grandi orgogli contra a gli alti miei stabili pensieri. E quegli orridi nembi e cos neri l 've pi 'l tempo rio par che si accogli, sembran li spessi miei gravi cordogli contra ad ogni mia pace emp guerrieri. E quella stanca e debol navicella a cui si vede trnco arbore e sarte, senza nocchiero in fra l'orribil onde, sembra l'alma mia affitta, e di sua stella priva, e di tutte sue speranze sparte, poich l'alma sua luce il Ciel gli asconde.

Com'esser pu ch'in tanta doglia i' viva, rimasta senza te, dolce mia vita, e fra s perigliose ombre smarrita, quest'alma stanca omai non giunga a riva? O mia scorta celeste, eterna e diva, puot'esser ver che sia da te sbandita su in Ciel quella piet che mi die' aita e 'l cor nel pianto a' dolent'occhi apriva? I' fui pur tua, n Morte unqua m'ha tolto de' miei cari pensier, de la mia fede n canger Fortuna, il Tempo, o Morte. Deh, perch almen da la tua stabil sede

quel dolce suon che dentro a l'alma ascolto, per pi certi sentier non m'apri e porte?

VI

Vago augelletto puro, almo e gentile, che dolcemente canti e sfoghi il core merc sperando aver del tuo dolore, non longe assai dal bel fiorito Aprile, ma io gi mai col mio dolente stile, in ch'io piango e mi doglio, a pi liet'ore giugner non spero, o 'ntepidir l'ardore ch'io sento, o m'oda la bell'alma umile. Tu la tua dolce, amata compagnia troverai forsi in aere, in ramo, o in terra; io la mia dove o quando, i' non saprei. Te la tua sente; ma chi dolce apria mio cuore e speme, spento oggi sotterra, n le mie voci ascolta o' pianti miei.

ISABELLA DI MORRA

Poscia che al bel desir troncate hai l'ale, che nel mio cor sorgea, crudel Fortuna, s che d'ogni tuo ben vivo digiuna, dir con questo stil ruvido e frale alcuna parte de l'interno male causato sol da te fra questi dumi, fra questi aspri costumi di gente irrazional, priva d'ingegno, ove senza sostegno son costretta a menare il viver mio, qui posta da ciascuno in cieco oblio. Tu, crudel, de l'infanzia in quei pochi anni del caro genitor mi festi priva, che, se non gi pur ne l'altra riva, per me sente di morte i grevi affanni. ch 'l mio penar raddoppia gli suoi danni. Cesar gli vieta il poter darmi aita. O cosa non pi udita, privar il padre di giovar la figlia! Cos, a disciolta briglia seguitata m'hai sempre, empia Fortuna. cominciando dal latte e da la cuna. Quella ch' detta la fiorita etade, secca ed oscura, solitaria ed erma tutta ho passata qui cieca ed inferma, senza saper mai pregio di beltade. stata per me morta in te pietade, e spenta l'hai in altrui, che potea sciorre

e in altra parte porre dal carcer duro il vel de l'alma stanca, che, come neve bianca dal sol, cos da te si strugge ogni ora e struggerassi infin che qui dimora. Qui non provo io di donna il proprio stato per te, che posta m'hai in s ria sorte che dolce vita mi saria la morte. I cari pegni del mio padre amato piangon d'intorno. Ahi, ahi, misero fato, mangiare il frutto, ch'altri colse, amaro quei che mai non peccaro, la cui semplicit faria clemente una tigre, un serpente, ma non gi te, ver noi pi fiera e rea. ch'al figlio Progne ed al fratel Medea. Dei ben, che ingiustamente la tua mano dispensa, fatta m'hai tanto mendica, che mostri ben quanto mi sei nemica, in questo inferno solitario e strano ogni disegno mio facendo vano. S'io mi doglio di te s giustamente per isfogar la mente, da chi non son per ignoranza intesa i' son, lassa, ripresa: ch, se nodrita gi fossi in cittade, avresti tu pi biasmo, io pi pietade. Baston i figli de la fral vecchiezza esser dovean di mia misera madre; ma per le tue procelle inique ed adre sono in estrema ed orrida fiacchezza: e spenta in lor sar la gentilezza dagli antichi lasciata a questi giorni, se dagli alti soggiorni piet non giunge al cor del Re di Francia, che, con giusta bilancia pesando il danno, agguaglie la mercede secondo il merto di mia pura fede. Ogni mal ti perdono, n l'alma si dorr di te giamai se questo sol farai (ahi, ahi, Fortuna, e perch far no 'l di?) che giungano al gran Re gli sospir miei.

II

Se a la propinqua speme nuovo impaccio o Fortuna crudele o l'empia Morte, com'han soluto, ahi lassa, non m'apporte, rotta avr la prigione e sciolto il laccio. Ma, pensando a quel d, ardo ed agghiaccio, ch 'l timore e 'l desio son le mie scorte: a questo or chiudo, or apro a quel le porte e, in forse, di dolor mi struggo e sfaccio. Con ragione il desio dispiega i vanni ed al suo porto appresso il bel pensiero per trar quest'alma da perpetui affanni. Ma Fortuna al timor mostra il sentiero

erto ed angusto e pien di tanti inganni, che nel pi bel sperar poi mi dispero.

III

Ecco ch'una altra volta, o valle inferna, o fiume alpestre, o ruinati sassi, o ignudi spirti di virtute e cassi, udrete il pianto e la mia doglia eterna. Ogni monte udirammi, ogni caverna. ovunqu'io arresti, ovunqu'io mova i passi; ch Fortuna, che mai salda non stassi. cresce ogn'or il mio mal, ogn'or l'eterna. Deh, mentre ch'io mi lagno e giorno e notte, o fere, o sassi, o orride ruine, o selve incolte, o solitarie grotte, ulule, e voi del mal nostro indovine, piangete meco a voci alte interrotte il mio pi d'altro miserando fine.

IV

Torbido Siri, del mio mal superbo, or ch'io sento da presso il fin amaro, fa' tu noto il mio duolo al Padre caro, se mai qui 'l torna il suo destino acerbo. Dilli come, morendo, disacerbo l'aspra Fortuna e lo mio fato avaro e, con esempio miserando e raro, nome infelice a le tue onde serbo. Tosto ch'ei giunga a la sassosa riva (a che pensar m'adduci, o fiera stella, come d'ogni mio ben son cassa e priva!), inqueta l'onde con crudel procella e di': - Me accreber s, mentre fu viva, non gli occhi no, ma i fiumi d'Isabella.

LAURA TERRACINA

Veggio il mondo fallir, veggiolo stolto, e veggio la virtute in abandono, e che le Muse a vil tenute sono, tal che l'ingegno mio quasi sepolto. Veggio in odio ed invidia tutto involto il pensier degli amici, e in falso tuono;

veggio tradito il malvagio dal buono, e tutto a' nostri danni il ciel rivolto. Nessun al ben comun tien fermo il segno, anzi al suo proprio ognun discorre seco, mentre ha di vari affetti il petto pregno. Io veggio e nel veder tengo odio meco, tal che vorrei vedermi per disdegno o me senz'occhi o tutto 'l mondo cieco.

II

Ove sei, vita mia, dove il tuo loco? Ove sei gita, ohim, chi mi t'ha tolta? Chi t'ha dal petto mio s tosto sciolta e chiusa tal bellezza in spazio poco? Chi mi dar mai pi sollazzo e gioco, poi che la mia speranza in nebbia volta e non aspetto pi che pena molta, dagli occhi umor, dal petto ardente foco? Come sei stato, o ciel, come sei fero! Come giungesti in un voler due cori, se 'l proposto era falso e non sincero? Finisse almeno e la vita e i dolori: ma non posso morir, questo pur vero, perch col viver mio, donna, io v'onori.

III

Tu sei signora mia bella e gentile, tu di natura sei mostro s caro, tu pregio, tu splendor, tu lume chiaro, tu sei cagion d'ogni amoroso stile. Tu l'onor sei del sesso femminile, tu sei nel mondo un suon s dolce e raro, tu fai nomar il ciel crudo e avaro, poich'a te non trovo io cosa simile. Tu sei l'arco d'Amor, tu la saetta, tu il fuoco pur, tu il ghiaccio e tu i martiri, tu il pianto, tu la gioia e tu l'aita. Tu sei del nostro cor triegua e vendetta, tu il gioco, tu il penar, tu i fier sospiri, tu ancor la morte e tu la dolce vita.

Vous aimerez peut-être aussi