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Agrippa e la sua magia secondo Arturo Reghini
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Agrippa e la sua magia secondo Arturo Reghini

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«L’opera di Agrippa commentata da Arturo Reghini ripropone tutta la dottrina magico-sapienziale degli Arcani Vetusti, in cui si riverbera tutta la valenza simbolica del serpente ouroborico dell’Hecate Celeste, una primordiale origine intellettiva ed iniziatica, esplicitazione cosmogonica di un’unica realtà noetica. In tale prospettiva, le componenti sia filosofiche sia cultuali dell’evo antico già si connettevano direttamente ad una dimensione magico-teurgica così come rimanifestatasi nel platonismo rinascimentale, con cui costituivano un unicum sapienziale, che solo la miopia moderna ed accademica ha potuto sezionare analiticamente, smarrendo il senso comune della complementarietà delle parti. Nel rito segreto a cui allude Agrippa vi è la convergenza di un sapere filosofico ed intellettuale, rappresentato, per esempio, dai citati Plotino e Porfirio, con una propensione tipicamente ermetica con quella espressa sia da Giamblico che da Proclo, che si ritrovano nella Scuola Pitagorica e negli insegnamenti non scritti di Platone, άγράφα δόγματα» (Luca Valentini).
LanguageItaliano
Release dateJun 2, 2021
ISBN9791280130068
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    Agrippa e la sua magia secondo Arturo Reghini - Luca Valentini

    A cura di

    NICOLA BIZZI

    LORENZO DI CHIARA

    LUCA VALENTINI

    AGRIPPA E LA SUA MAGIA

    SECONDO ARTURO REGHINI

    LOGO EDIZIONI AURORA BOREALE
    Edizioni Aurora Boreale

    Titolo: Agrippa e la sua magia secondo Arturo Reghini

    A cura di: Nicola Bizzi - Lorenzo Di Chiara - Luca Valentini

    Collana: Telestèrion

    Editing e illustrazioni a cura di Nicola Bizzi

    ISBN versione e-book: 979-12-80130-06-8

    LOGO EDIZIONI AURORA BOREALE
    Edizioni Aurora Boreale

    © 2021 Edizioni Aurora Boreale

    Via del Fiordaliso 14 - 59100 Prato

    edizioniauroraboreale@gmail.com

    www.auroraboreale-edizioni.com

    Questa pubblicazione è soggetta a copyright. Tutti i diritti sono riservati, essendo estesi a tutto e a parte del materiale, riguardando specificatamente i diritti di ristampa, riutilizzo delle illustrazioni, citazione, diffusione radiotelevisiva, riproduzione su microfilm o su altro supporto, memorizzazione su banche dati. La duplicazione di questa pubblicazione, intera o di una sua parte, è pertanto permessa solo in conformità alla legge italiana sui diritti d’autore nella sua attuale versione, ed il permesso per il suo utilizzo deve essere sempre ottenuto dall’Editore. Qualsiasi violazione del copyright è soggetta a persecuzione giudiziaria in base alla vigente normativa italiana sui diritti d’autore.

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    Heinrich Cornelius Agrippa von Nettesheim in una incisione cinquecentesca

    Una rara fotografia di Arturo Reghini in uniforme militare

    durante la Prima Guerra Mondiale

    INTRODUZIONE AL MONDO MAGICO DEL DE OCCULTA PHILOSOPHIA di Lorenzo Di Chiara

    Per coloro i quali non rimangono insensibili all’argomento, quello di Cornelio Agrippa di Nettesheim (1486-1535) non può certo dirsi un nome sconosciuto. A prescindere dalla fama sospetta dovuta al discredito gettato sulla sua figura da alcuni superficiali, Agrippa fu esponente di prim’ordine di quella vena della cultura rinascimentale, che suole definirsi occulta. Continuatasi a fianco della propagazione di correnti razionalistiche e umanistiche in senso deteriore, correnti alle quali, peraltro, si deve il primo gran colpo vibrato contro il fronte europeo tradizionale ed aristocratico sussistito sino al limitare dell’epoca tardo-medievale, la riviviscenza di insegnamenti e dottrine a sfondo ermetico-alchemico ci appare, in tale contesto, come un fatto anomalo. Sotto vari riguardi, è come se, da dietro le quinte della storia, quella catena règia ed aurea discendente da un’epoca primordiale, fosse risorta o, per meglio dire, riaffiorata, sì da dar luogo ad un estremo ciclo che, giunto al suo vertice espressivo fra ‘600 e ‘700 (si pensi qui alle grandiose interpretazioni simboliche del Dorn, alla teosofia visionaria di un J. Böhme o di un J.G. Gichtel, alle correnti rosacruciane ecc.), avrebbe finito per estinguere il proprio potenziale all’alba dei tempi ultimi, senza quasi lasciar traccia ovvero riaffacciandosi, durante i secoli XVIII e XIX, in rari ed assai circoscritti ambienti.

    Come punto particolare – da altri sviluppato in questa sede – e, in qualche misura, originale, nei riguardi di Agrippa è anzitutto da segnalare la natura operativa che ne contrassegnò l’opera e che ne differenziò i caratteri basilari dalla linea, in fondo, speculativa e teorica incarnata, in tempi coevi, dal cristianesimo neoplatonizzante di un Marsilio Ficino o dallo stesso Pico della Mirandola. Ben più che speculativa, l’opera sua mirò dunque a rivestire di un alto prestigio la nozione di magia. Tale termine, infatti, Agrippa lo assunse meno alla stregua di una scienza naturale sui generis, che in quella di una precisa disciplina interna ed iniziatica, vòlta, in ultima istanza, al conseguimento di date dignità più che umane e alla reintegrazione spirituale. Sì che, per l’esempio costituito da essa soprattutto nella sua forma cerimoniale o divina, è legittimo chiamare in causa una alta magia: corpo di dottrine valide e affatto attuali, nei loro assunti essenziali, ad onta del tempo o del luogo in cui esse possono aver avuto applicazione. Ne è il caso, ad esempio, per nozioni autenticamente operative, quali quella connessa alla anima stante e non cadente, il nucleo incrollabile, virile ed olimpico della personalità spirituale che secondo l’istruzione data da Agrippa nella sua opera maggiore, il De Occulta Philosophia, ogni vero operatore è tenuto a risvegliare in sé là dove voglia condurre felicemente a segno l’azione magica.

    I più recenti studi condotti sul De Occulta Philosophia di Agrippa hanno dimostrato, in larga misura, come questa opera non possa essere ridotta al livello di una semplice rassegna di magia. Né da parte nostra pensiamo che l’opera possa limitarsi ad una sorta di enciclopedia erudita dalla quale però sarebbe problematico trarre un nucleo dottrinario, ossia un principio creativo agente di là dal mero dato compilativo. Se questa caratterizzazione può del resto possedere una propria legittimità in riferimento alla prima edizione giovanile del 1510, l’ultima edizione dell’opera, che vide la luce solo nel 1533, ossia nella piena maturità dell’autore, ci offre ben altro che una enciclopedia. Qui si assiste ad un potenziamento: si fa più forte la necessità, già peraltro palesatasi nella giovinezza dell’autore, di procedere ad una radicale opera di purificazione e di restaurazione del corpo di insegnamenti magici legati alla antica sapienza teurgica che Agrippa considerava funestamente obliata dietro le vesti di una conoscenza razionalistica dal carattere assolutamente profano e disanimato, conoscenza ben rappresentata dalle propaggini della scolastica crepuscolare e dalle correnti dell’umanesimo secolarizzato.

    Nel 1510, dunque, il giovane Agrippa – dominando già un ingente corpus di fonti cui attingere per il proprio lavoro – poteva presentare al suo maestro abate Tritemio una prima, germinale stesura del De Occulta Philosophia. Uno scambio fra i due si era peraltro già tenuto, molto probabilmente nell’inverno del 1509, nel monastero di San Giacomo, presso Würzburg. Qui allora risiedeva, in qualità di abate, l’autore della Steganographia: un colloquio assai fruttuoso – a quanto risulta dalla lettura di una nota epistola a Giovanni Tritemio – durante il quale Agrippa ebbe senz’altro modo di chiarire a sé stesso vari elementi circa il valore da conferire agli studi di ordine esoterico e magico: «Cum nuper tecum, reverende Pater, in coenobio tuo apud Herbipolim aliquandiu conversatus, multa de chymicis, multa de magicis, multa de cabalisticis caeterisque […]».

    Ora, proprio in tale documento è lo stesso Agrippa a presentarsi come personalità in possesso di una particolare, naturale inclinazione nei confronti di certi studi concernenti "misteriosissime operazioni: «ego […] qui ab ineunte aetate semper circa mirabilium effectuum et plenas mysteriorum operationes curiosus intrepidusque extiti explorator».

    Molto induce a pensare che quello fra Agrippa e Tritemio fu un vero e proprio rapporto di tipo iniziatico, nel cui quadro il maestro trasmise delle conoscenze e precise indicazioni al discepolo. Vi sono peraltro sufficienti prove – certificate da alcune lettere agrippiane comprese nel folto epistolario – che il giovane Agrippa, già prima di entrare in contatto con l’abate di Sponheim, ebbe a prender parte, in compagnia di figure con le quali aveva stretto un rapporto di amicizia durante un suo soggiorno parigino, ad una sorta di sodalizio esoterico-iniziatico, presso il quale lo studio e la messa in pratica di dottrine non escludenti attività a fondo alchemico e l’assimilazione rigorosa di testi ermetici e platonici, dovettero esser presi assai sul serio. Benché siano tutt’altro che numerosi gli elementi utili per il chiarimento della natura di detta fratellanza, resta a nostro parere da rilevare che l’esperienza giovanile non si lascia ridurre né al mero dato biografico, né alla banale curiosità letteraria non suscettibile di una più accurata valorizzazione generale.

    Ma, ritornando al De Occulta Philosophia, come accennavamo poco fa, sarà bene sgombrare il campo da un pregiudizio che, a dire il vero, si è mantenuto tenacemente fra vari studiosi: che, cioè, si possa considerare il De Occulta Philosophia come una mera enciclopedia erudita, opera peraltro a carattere essenzialmente centonistico e dotata di scarsa originalità: di ciò non è il caso, di là dal fatto che, già a limitarsi a tali caratteri, l’opera in questione non potrebbe ritenersi trascurabile, giacché costituisce l’unico esempio di una vera e propria sistematizzazione degli insegnamenti magici ed esoterici disponibili all’epoca. La verità è che il De Occulta Philosophia fu, fuori di ogni retorica, l’opera di una vita. Ciò traspare in modo vivido dalla epistola dedicatoria che nel Gennaio del 1531 da Mechlinia (Malines) Agrippa inviava a quello che fu il suo principale protettore, l’arcivescovo di Colonia e Principe Elettore del Sacro Romano Impero, Hermann Von Wied. Qui il nostro autore parla della propria come l’opera alla quale già da giovanissimo aveva messo mano e che, però, aveva poi trascurata e abbandonata per diversi anni. Aggiungeva, Agrippa, trattarsi di un’opera nuova ma, allo stesso tempo, di dottrina antichissima ed assai enigmatica: un lavoro, insomma, germinato da una curiosità giovanile. E tuttavia – continuava il Coloniense – nessuno, prima di lui, aveva avuto il coraggio di azzardarsi in una simile avventura intellettuale. Ora quest’opera veniva riproposta rinnovata, emendata da vari errori e integrata con capitoli nuovi.

    Il lungo processo di gestazione che portò Agrippa alla definitiva formulazione del suo capolavoro fu, senza dubbio, costellato di travagli e di rischi, anche a livello personale. Pensare che la mera curiositas erudita costituisse l’unico impulso alla ultimazione del lavoro, riesce dunque poco verosimile. Né ciò basta. Vi è infatti da tenere nella adeguata considerazione l’orizzonte ideale al quale tutto il progetto del De Occulta Philosophia fu inteso sin dalle origini; orizzonte esprimente una nobile volontà, rimasta peraltro invariata negli anni. Già nella lettera inviata (insieme al primo manoscritto dell’opera) al maestro Tritemio nel 1510, tale volontà traspariva con nettezza: mi riferisco, naturalmente, a quel progetto di riforma e di restauratio o vindicatio della originaria dignitas della magia. Scienza suprema, venerata e rispettata fin dai primordi da una tradizione di severe figure di sapienti e di sacerdoti, la magia ora languiva, precipitata in una voragine di sospetto, di onta ed oblio. Per Agrippa a porsi come essenziale era una questione di dignità: era la dignità della magia come scienza sacra e inestinguibile fonte di saggezza, ad esser fatalmente venuta meno. E tuttavia, se di indegnità occorreva parlare, essa non andava imputata alla magia in sé, bensì all’ignoranza, alla superstizione e alla inanità spirituale diffusasi come un cancro nel caos imperante dei tempi contemporanei.

    Le linee di una tale polemica contro il proprio tempo Agrippa le poté appunto svolgere, a parte e in modo più ampio, in opere come il De triplici ratione cognoscendi Deum (1515) e, soprattutto, nel De incertitudine et vanitate scientiarum et artium (1526), opere che valsero a preparare idealmente il terreno all’ultima edizione del De Occulta Philosophia. Che, ad esempio, nessuno più coltivasse la scienza magica; che perfino si temesse il nome di mago, sempre concepito nell’accezione peggiorativa di stregone; che, infine, non vi fossero che le fattucchiere di campagna a far credere di poter sconvolgere mari e monti coi loro incantesimi – ciò era quanto di più lesivo vi potesse essere nei riguardi dell’honestissimum nomen di magia. Si trattava di un tema già svolto da Tritemio, il quale conduceva nel frattempo una propria battaglia contro i contraffattori delle scienze occulte. In una importante epistola inviata al prelato de Ganay, l’abate poteva invocare d’altra parte una philosophia coelestis e non terrena dignificata dalla fede, dall’ardente ascesi e dalla gnosi; è probabile che pensasse ad essa quando, nella sua epistola di risposta ad Agrippa, pur con le necessarie esortazioni alla prudenza, esortava apertamente il giovane a proseguire nei suoi intenti di riforma.

    ☿☿☿

    Alla luce di quanto osservato in questo breve preambolo, è dunque senz’altro fuori luogo definire il De Occulta Philosophia nei termini di una mera enciclopedia. Nella sua ultima edizione, risalente, come già si è detto, al 1533, anno in cui uscì a Colonia (presso l’editore Johannes Soter) completa del suo terzo e ultimo libro, quest’opera si presentava nei termini di una trattazione assai complessa, eclettica e articolata. Varie erano le fonti alle quali Agrippa poté attingere nell’arco di un ventennio. Oltre ad una profonda erudizione in fatto di letteratura antica greca e latina e di testi enciclopedici volti a fornire il materiale di primo appoggio e a supportare le proprie conclusioni (Omero, Lucrezio, Ovidio, Plinio il Vecchio, Virgilio ecc.), l’autore raccoglieva e faceva creativamente convergere nella propria opera tutti i principali lavori di Marsilio Ficino e di Pico della Mirandola, autori riconducibili entrambi al circolo dei neoplatonici fiorentini, fautori della prisca theologia. Di Ficino Agrippa utilizzava, oltre alle opere originali (fra tutte, la Theologia Platonica e il De vita), tutte le traduzioni che il Fiorentino aveva approntato, a partire dal 1460, di antichi testi misterici (gli Hymni orfici), neoplatonici (Plotino, Proclo, Porfirio, Giamblico, Alcinoo), ermetici (i principali trattati del Corpus Hermeticum), teurgici (Oracula Chaldaica) e pitagorici (gli Aurea Carmina). In generale, a Ficino Agrippa doveva la principale fonte di accesso alla tradizione platonica. Quanto a Pico, la maggior parte dei riferimenti andava, naturalmente, alle Conclusiones; ma anche scritti già frequentati dalla gioventù, come l’Heptaplus e l’Oratio, trovavano il loro spazio presso ad una profonda rielaborazione dottrinale.

    Al De Verbo Mirifico di Johannes Reuchlin, altro importante umanista e principale seguace, in terra germanica, dell’Accademia fiorentina, Agrippa poteva accedere già nel 1510 (l’opera era uscita nel 1494 e, come sappiamo, Agrippa ne aveva data lettura a Dôle nel 1509). Al pari di Ficino, anche il De Verbo valse al nostro autore come essenziale fonte dalla quale attingere vario materiale di seconda mano (citazioni neoplatoniche, neopitagoriche ecc.).

    Nel 1533 era uscito da vari anni il De Arte Cabalistica (1517), fondamentale lavoro nel quale al neopitagorismo tipico dell’umanista di Pforzheim si univa una eccellente padronanza della letteratura cabalistica. Anche quest’ultimo lavoro fu, per Agrippa, fondamentale. Contestualmente, non mancavano poi ampi riferimenti ai cosiddetti cabalisti cristiani (conosciuti da Agrippa durante il suo soggiorno italiano), alcuni dei quali non immuni peraltro da una forte influenza ermetica, come l’ebreo convertito Paolo Ricci (traduttore dello Sha’are Orah di Joseph Gikatilla), Pietro Galatino (autore del De arcanis catholicae veritatis), Ludovico Lazzarelli (Crater Hermetis; da quest’opera Agrippa poté trarre peraltro le citazioni dall’opera cabalistica più importante, lo Zohar) o il francescano Francesco Giorgio Veneto. In particolare, l’opera di quest’ultimo, il De Harmonia Mundi (1525), eminente tentativo di sintetizzare cristianesimo, neoplatonismo, ermetismo e dottrina cabalistica, risultò essenziale ai fini della profonda rielaborazione in senso religioso e teologico del De Occulta Philosophia. A tale ambito teologico si ricollegano poi i numerosi riferimenti alla letteratura paolina (allo studio della quale Agrippa si era appositamente dedicato in vari momenti della propria esistenza); alla letteratura patristica (San Girolamo, Sant’Ambrogio); in special modo a Sant’Agostino e allo pseudo-Dionigi, ma anche ad un teologo come Guglielmo di Alvernia.

    Ampio credito riscuoteva infine la grande tradizione di magia naturale medievale che dal maestro Alberto Magno passava per Pietro d’Abano, per Picatrix, per Ruggero Bacone, per la letteratura araba (Alkindi, Algazel, Almadel, Avicenna e Averroè), e giungeva, infine, a Tritemio.

    Così accresciuta e approfondita, nel 1533 la struttura del De Occulta Philosophia appariva organizzata secondo una forma di suddivisione strutturale in tre libri, la quale corrisponde a sua volta ad una ripartizione del cosmo in tre livelli distinti, connessi a loro volta a tre rispettivi gradi di sviluppo magico individuale. Codesta costruzione, che Agrippa aveva già illustrato nel giovanile Dialogus de homine, derivò all’autore dallo studio e dall’adesione ad una concezione gerarchica e organica di origine in parte neoplatonica e in parte cabalistica, concezione che autori noti ad Agrippa come Pico della Mirandola (Heptaplus) e Reuchlin (De Arte Cabalistica), avevano già fatta propria nelle loro opere. Allo stesso tempo, Agrippa trascendeva in un sistema ben controllato gli stessi tentativi tritemiani di oltrepassare una magia a carattere puramente naturalistico mediante una estensione della scientia magica ad altri, più eminenti campi del sapere.

    Così, il primo libro s’incentra sulla disamina del livello più basso, quello legato alla sfera naturale e propriamente fisica, cui si riferisce in via analogica la magia naturale; essendo dedicato alla trattazione della sfera intermedia e celeste, il secondo libro si occupa invece della relativa forma di magia, astrale o matematica; infine, il terzo libro analizza quel grado di magia che investiga il piano sovraceleste e prettamente intellettuale, piano connesso appunto al regno delle essenze eterne e dei principi immateriali. Questa impostazione appare chiaramente fin dall’inizio dell’opera, nelle celebri espressioni ove Agrippa espone la ragione essenziale di ogni concezione magica in senso superiore e purificato:

    «Come v’hanno tre sorta di mondi, l’Elementale, il Celeste e l’intellettuale, e come ogni cosa inferiore è governata dalla sua superiore e ne riceve le influenze, in modo che l’Archetipo stesso e Operatore sovrano ci comunica le virtù della sua onnipotenza a mezzo degli angeli, dei cieli, delle stelle, degli elementi, degli animali, delle piante, dei metalli e delle pietre, cose tutte create per essere da noi usate; così, non senza fondamento, i Magi credono che noi possiamo agevolmente risalire gli stessi gradini, penetrare successivamente in ciascuno di tali mondi e giungere sino al mondo archetipo animatore, causa prima da cui dipendono e procedono tutte le cose, e godere non solo delle virtù possedute dalle cose più nobili, ma conquistarne nuove più efficaci. Perciò essi cercano scoprire le virtù del mondo elementale a mezzo della Medicina e della Filosofia naturale, servendosi dei differenti miscugli delle cose naturali e le connettono poi alle virtù celesti attraverso i raggi e le influenze astrali e mercé le discipline degli Astrologhi e dei Matematici. Fortificano infine e confermano tutte queste conoscenze con le sante cerimonie della Religione e con la potenza delle intelligenze superiori»¹.

    Tale la vastità del mondo magico. In questo passo è lecito ritenersi racchiuso in nuce tutto il significato dell’opera. Vi sono esposti, in termini essenziali e perentori, la concezione e il dogma propri alla visione ermetica del reale, così come statuito in origine dalla Tabula Smaragdina: «Quod est inferius, est sicut quod est superius, et quod est superius, est sicut quod est inferius: ad perpetranda miracula rei unius» e come ripreso in una tradizione immutabile dai testi ermetici, neoplatonici e anche cabalistici riscoperti e ampiamente valorizzati in età rinascimentale.

    Secondo Agrippa, nulla vi è nell’universo che, trovandosi ad un livello inferiore, non possegga un rigoroso rapporto di corrispondenza e di analogia con un ente superiore, e viceversa. Il mondo magico è dunque un cosmo vivente, trasparente; un cosmo nel quale ogni parte non deve esser conosciuta arrestandosi al suo modo di apparire più esteriore e tangibile, giacché esistono molteplici livelli di conoscenza di uno stesso essere.

    Siffatta qualificazione ‘vivente’ non è priva, naturalmente, di una sua giustificazione di tipo teoretico. Se Agrippa è pronto ad ammettere una legge di corrispondenza universale fra i vari esseri che costituiscono la realtà cosmica, e non solo, ciò può avvenire solo nella misura in cui ci si faccia portatori di una interpretazione antimaterialistica del mondo. Così, l’idea di influenze o di virtutes, dalle quali i vari livelli e gradi (cieli, corpi astrali, elementi, piante, animali, pietre, metalli ecc.) sono reciprocamente interessati e compenetrati, non potrà che procedere da una concezione animata del cosmo. È il principio dell’anima mundi, che in Agrippa fonda tanto la veduta speculativa, quanto l’applicazione magico-operativa della dottrina. Pertanto, in genere, l’autore non ha difficoltà a stabilire il seguente assunto:

    «Il Cielo e i corpi celesti necessariamente debbono possedere un’anima, dato che son dotati di potere e d’influenza e che operano in modo manifesto sui corpi di questo basso mondo e che un atto non può essere causato semplicemente da un corpo»².

    La nozione di anima mundi Agrippa la poteva desumere in primo luogo dalla tradizione platonica; ma essa, come è noto, fu fatta altresì propria dal neoplatonismo fiorentino, e, in particolare nella Theologia Platonica, Ficino poteva offrirne una magistrale interpretazione. Ed è appunto a Platone che l’autore fa riferimento, riprendendone la dottrina secondo cui il mondo è stato creato dal Bene e, in virtù di esso, dovrà essere connotato non solo dal senso e dalla vita, ma anche dall’intelligenza e dalla mente. Costituendo la perfezione (perfectio) del corpo universale – corpus mundi – l’anima mundi configura per Agrippa una sorta di principio celeste animatore e datore di intelligenza universale e ubiqua ad ogni essere, principio unitario in virtù del quale, peraltro, ogni operazione magica diviene possibile:

    «L’anima del mondo per conseguenza è una certa vita unica, che tutto riempie e nutrisce, che raccoglie e lega insieme tutte le cose, in modo che il tutto non costituisca che un solo organismo e meccanismo. Ed è come un istrumento monocorde, che risuona per l’intervento di tre specie di creature, ossia l’intellettuale il celeste e il corruttibile, animate da un soffio unico e da un’unica vita»³.

    Degna di nota, in tale contesto, è poi l’accezione data dall’autore al Principio primo e onnipotente, a Dio, nonché al rapporto fra tale Principio e il mondo. Neoplatonicamente, Agrippa definisce la divinità come archetypus e come opifex. Ora, se di azione creatrice devesi parlare, è necessario aggiungere che, il cosmo essendo appunto dotato di un carattere vivente, esso non andrà percepito alla stregua di un oggetto muto, di un puro non-Io che sussiste anodino e irrigidito, secondo un rapporto di tipo dualistico fra creatore e creatura. Esso costituirà, invece, una vera e propria immagine di Colui che lo ha tratto a vita (imago Dei). La divinità, poi, qui è sì creatrice, ma lo è in quanto elargitrice di poteri, di forze, di virtutes. Queste ultime penetrano e percorrono in guisa verticale – dall’abbacinante splendore archetipale alla finitudine e alla relatività individuata del piano manifestato – i vari livelli dell’essere, secondo un eterno e vicendevole svolgimento di animazione universale. Donde la pregnante immagine – tratta da Ficino – che Agrippa impiega in un punto, del mondo come grande strumento musicale. Essa contribuisce senz’altro a trasmettere quel senso di universale συμπάθεια, o di continuitas e di colligantia – così si esprime l’autore – stabilentesi fra i vari livelli della manifestazione:

    «Vi è un tale legame e una tale continuità nella natura, che ogni virtù superiore, diffondendo i suoi raggi con una sequela congrua e continua su tutte le cose inferiori, colà sino alle ultime e le inferiori attraverso alle singole loro superiori pervengono alle superiori. Poiché le cose inferiori pervengono mutuamente alle superiori, in modo che le influenze che provengono dalla prima causa vanno sino alle infime come per una corda tesa, di cui toccando un’estremità subito freme tutta, dimodoché questo toccamento si propaga sino all’altra estremità e muovendo una cosa inferiore, anche la superiore, a cui essa risponde, si muove come le corde in uno strumento bene accordato»⁴.

    Seppur attraverso sensi ‘sottili’, i quali non corrispondono a quelli ordinari e che fanno riferimento ad una ‘saggezza’ del tutto impenetrabile da parte della mentalità scientista moderna, una tale corrispondenza fra mondi superiori e mondi inferiori deve avvertirsi, secondo Agrippa, come qualcosa di assai reale e percepibile. Trattasi insomma della traduzione di una precisa, efficace esperienza del mondo. In base ad essa, pur nella logica varietà delle sue manifestazioni, risulterà che la realtà procede da una sola ed unica scaturigine sovrana ed è sorretta da un potere, la cui impronta o signatura qualifica tanto gli esseri superiori e disincarnati, quanto quelli condizionati dal mondo della natura e obbedienti alle leggi di esso. Dotato di un carattere, per così dire, di trascendenza immanente, il mondo magico delineato da Agrippa può dunque dirsi un vero e proprio simbolo mediante cui il divino, causa prima di ogni cosa, annuncia ovunque la propria presenza.

    Da ultimo, e unitamente a quanto or ora detto, vi è da insistere sul rapporto gerarchico dal quale i livelli di realtà sono ordinati. Lungi dal porre ad un eguale grado di dignità gli esseri, il Coloniense propugna l’idea di una disuguaglianza essenziale; disuguaglianza improntata alla legge generale secondo la quale è il superiore che ha la preminenza sull’inferiore. L’autore sostiene infatti che sono le influenze dall’alto ad informare e a governare secondo una stabilità maggiore quelle collocate immediatamente più in basso. Ciò dà luogo ad una articolata progressione di enti, che Agrippa descrive nei termini di uno snodarsi di immagini; esse lampeggiano e ardono in prodigiosa fiamma sino al punto dell’estremo valore, là dove fiorisce la calma sorgente dell’immortalità e riluce una chiarità senza fine. In una dinamica speculare, le figurazioni animali, vegetali e cosmiche convengono, in virtù d’una speciale congruità, le une alle altre, prolungandosi nella immane catena cosmica:

    «Perché le pietre e i metalli convengono alle erbe, le erbe agli animali, gli animali al cielo, il cielo alle intelligenze, le intelligenze alle proprietà divine e agli attributi della divinità, nonché alla stessa divinità, a immagine e somiglianza della quale tutte le cose sono state create. Ora la prima immagine della divinità è il mondo, quella del mondo è l’uomo quella dell’uomo l’animale, quella dell’animale il zoofito, quella del zoofito la pianta, quella della pianta i metalli, quella dei metalli le pietre. La pianta si accomuna all’ani-male per la vegetazione, l’animale all’uomo pei sensi, l’uomo ai geni per l’intelletto, i geni alla divinità per l’immortalità»⁵.

    Qui trova approfondimento ciò che si accennava circa la rappresentazione ermetica e magica del mondo come qualcosa di qualitativo e di vivente, concezione opponentesi nel modo più drastico a quella di segno meccanicistico, materialistico e tendenzialmente livellatore venuta in genere a prevalere con l’affermarsi dell’età moderna secolarizzata. Si è detto infatti che, lungi dal concepire la realtà nella sua accezione univocamente materiale e corporea, Agrippa crede che l’inferiore sia, in realtà, l’immagine o il simbolo di un ente superiore che ne determina la natura e il genere ad un piano più alto. Ma se ciò è vero, è parimenti concepibile che, secondo la veduta magica, ogni elemento il quale, ad esempio, partecipi del mondo naturale (mondo, dunque, sottoposto alla legge del divenire e della corruzione), possa essere gradualmente ridotto al suo atto primo e assoluto: possa, dunque, passare dal grado terrestre al grado prima celeste, poi intellettuale e, al limite, totalmente trascendente, convergendo così nella perfezione dell’Archetypum stesso:

    «Dicono gli Accademici con Trismegisto e con Iarchas il bramano, e confermano i Mecubali ebraici tutto quanto si trova in questo mondo sublunare e inferiore è soggetto alla generazione e alla corruzione e lo stesso avviene nel mondo celeste, ma in un certo modo celeste e anche nel mondo intellettuale, sebbene in modo più perfetto, e finalmente in modo perfettissimo nell’archetipo. E dicono che ogni cosa inferiore corrisponde secondo il proprio genere alla sua superiore e riceve da esso e dai cieli quella forza celeste che si chiama quintaessenza o Spirito del mondo, o natura mediana, e dal mondo intellettuale il vigore spirituale e vivente, che supera ogni virtù proveniente da qualsivoglia qualità e infine dall’archetipo, attraverso i suoi intermediari e secondo il suo grado, la virtù originale di ogni perfezione. In questo modo ogni cosa può essere ridotta dalle cose inferiori agli astri, dagli astri alle loro intelligenze e di là qualsiasi cosa può in modo acconcio essere ridotta al suo archetipo; dalla serie delle quali cose ogni magia e ogni più occulta filosofia procede poiché quotidianamente si forma alcunché di naturale mercé l’arte e alcunché di divino a mezzo del naturale»⁶.

    Per concludere, può dirsi che la filosofia occulta propugnata da Agrippa va a fissare, per così dire, una dottrina degli stati molteplici dell’essere. In base alla differenziazione della realtà in un mondo triplice, ogni singolo elemento si trova a partecipare non di una, ma di molteplici ‘perfezioni’. Ciò che dunque assume una data caratteristica sulla terra, conserverà prima fra le nature cosmiche e sideree dei cieli, poi nel regno olimpico costituito da pure forme enucleate e autosussistenti, e, infine, nel pieno ed indifferenziato vigore proprio al mondo archetipale, il proprio genere essenziale, ma ad un grado sempre più eminente, quintessenziato e compiuto.

    Posta tale veduta di fondo,

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