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Il decreto legislativo n. 231/01 dedica la sezione IV del capo III al sistema cautelare,
che già era stato previsto dalla legge delega con lo spirito di anticipare ad una fase
preliminare del procedimento l’applicazione delle “sanzioni di cui alla lettera l)”, ossia
quelle interdittive. A tal proposito la relazione al decreto legislativo spiega che “le
misure cautelari si caratterizzano per la loro strumentalità e provvisorietà, in quanto
destinate a servire la decisione definitiva”.
In quest’ottica la legge varata ha introdotto un impianto strutturato su due tipi di misure
cautelari: quelle interdittive di cui all’articolo 9 comma 2 del decreto e quelle di natura
reale, vale a dire il sequestro preventivo e il sequestro conservativo. Com’è ovvio le
prime incidono sul soggetto, limitandone l’attività o l’accesso a determinate risorse
economiche, mentre le seconde incidono sul suo patrimonio, aggredendolo in vista di
un’eventuale confisca del profitto o per evitare la dispersione delle garanzie
patrimoniali necessarie al pagamento delle sanzioni pecuniarie, delle spese del
procedimento o di altre somme dovute all’erario.
In entrambi i casi l’esigenza è quella di “paralizzare o ridurre l’attività dell’ente
quando la prosecuzione dell’attività stessa possa aggravare o protrarre le conseguenze
del reato ovvero agevolare la commissione di altri reati”, come viene chiarito nella
Relazione. Questa, nel soffermarsi ad illustrare le finalità perseguite dal legislatore
attraverso la previsione di un sistema cautelare nei confronti delle società, aggiunge che
“la sanzione pecuniaria non deve infatti rappresentare l’unica arma da utilizzare
contro la criminalità d’impresa, atteso che per quanto possa essere adeguata al
patrimonio dell’ente, finirà comunque per essere annoverata tra i rischi patrimoniali
inerenti alla gestione. E’ un bene, dunque, che essa sia affiancata da sanzioni
interdittive, che possiedono in misura superiore la forza di distogliere le società dal
compimento di operazioni illecite e da preoccupanti atteggiamenti di disorganizzazione
operativa”.
L’articolo 9 individua le sanzioni interdittive nella:
1. interdizione dall’esercizio dell’attività;
2. sospensione e revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla
commissione dell’illecito;
3. divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le
prestazioni di un pubblico servizio,
4. esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi ed eventuale revoca
di quelli già concessi;
5. divieto di pubblicizzare beni o servizi.
Le norme che riguardano le garanzie reali sono invece contenute negli articoli 53 e 54.
Il primo – in evidente parallelismo con la norma dell’articolo 321, comma 2 bis, che
richiama il 322 ter per i reati commessi contro la pubblica amministrazione - prevede il
sequestro delle cose di cui è consentita la confisca, ossia del prezzo o del profitto del
reato, anche nella forma per equivalente. Il secondo introduce una norma
sostanzialmente corrispondente a quella del primo comma dell’articolo 316 c.p.p.
preservando le garanzie patrimoniali in vista del pagamento delle sanzioni pecuniarie o
delle spese del procedimento.
I presupposti applicativi
Passando, invece, alla figura del sottoposto (articolo7) parrebbe, in astratto, che essa
non presenti particolari problemi interpretativi, ma l’esperienza induce a misurarci con
figure formalmente estranee alla società e tuttavia sempre più utilizzate per compiere
operazioni al limite e anche oltre il limite della legalità.
Si allude al c.d. procacciatore di affari che sempre più spesso viene impiegato non per il
compito che gli è proprio – ad onor del vero non ve ne sarebbe neppure bisogno
nell’ordinario, visto che normalmente le procedure per l’aggiudicazione di appalti e
forniture sono ad evidenza pubblica e quindi non ci sarebbe nulla da “procacciare” - ma
per trattare questioni “delicate”. Pare comunque evidente che egli rientri tra le “persone
sottoposte alla direzione o alla vigilanza” del vertice della società, essendo stato da
questa incaricato e retribuito, e quindi l’ente difficilmente potrà difendersi sostenendo
di non aver seguito il suo operato, né potrà limitarsi ad ipotizzare che l’eventuale costo
della corruzione è stato sopportato direttamente dal procacciatore, attingendo alla sua
provvigione.
Il discorso è identico con riferimento ad un’altra figura a rischio: quella del consulente.
Sempre più frequentemente si assiste a patti corruttivi stipulati per conto della società da
apparenti consulenti che mascherano il prezzo della corruzione con il loro compenso.
In base alla disposizione dell’articolo 7 del d.lgs 231/01, quando il reato è stato
commesso da soggetti sottoposti, spetterà al pubblico ministero dimostrare che “la
commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di
direzione o vigilanza”.
Anche per il sottoposto, quindi, la legge delinea profili di colpevolezza dell’ente, ma
rovescia l’onere probatorio rispetto alle figure apicali. Nel caso dei soggetti subordinati,
infatti, spetterà all’organo dell’accusa dimostrare in positivo che essi hanno potuto
realizzare l’illecito in quanto i modelli di organizzazione erano tali da non impedire loro
il ricorso a metodi vietati dalla legge. Insomma il dipendente ( o il consulente o il
procacciatore) ha potuto approfittare di un modello inidoneo o di controlli inadeguati, e
proprio muovendosi in queste maglie larghe, ha commesso il reato.
Si ritiene di dover a questo punto sottolineare tutta l’importanza della legge che stiamo
commentando, poiché proprio in situazioni del genere essa si dimostra particolarmente
efficace per risolvere impasse processuali più volte verificatesi in passato. Spesso
accade infatti, nella prassi operativa delle imprese, che il dominus di una società lasci
carta bianca ai suoi funzionari e magari metta a loro disposizione dei fondi, senza
neppure voler sapere con quali sistemi abbiano agito per realizzare un certo risultato.
Può accadere, al contrario, che egli sia al corrente del metodo illecito seguito dal
funzionario, ma confida nel fatto che, nell’evenienza di un’indagine penale,
quest’ultimo dica che il dominus era all’oscuro del suo operato. In entrambi i casi il
pubblico ministero non ha altra carta che quella di sostenere che il dominus “non poteva
non sapere”, con risultati quasi sempre deludenti. Come uscirne? La legge di cui stiamo
parlando viene a colmare esattamente questa lacuna, perché è vero che quel dominus
non subirà una sanzione come persona fisica, ma la subirà come titolare dell’impresa
tutte le volte in cui ha colposamente consentito al suo sottoposto di ricorrere a metodi
antigiuridici. E allora il p.m. non dovrà più dimostrare che non poteva non sapere, ma
gli basterà provare che un omesso o un blando controllo sull’operato del suo funzionario
ha consentito a questi di commettere un reato nell’interesse o a vantaggio della società,
la quale per questo andrà incontro a sanzione.
La domanda cautelare.
La fase decisoria
Diversi possono essere i destini di una misura interdittiva una volta che questa sia stata
applicata. La legge, all’articolo 49, prevede anzi tutto l’ipotesi della sospensione che è
possibile tutte le volte in cui l’ente chiede di poter realizzare gli adempimenti cui la
legge condiziona l’esclusione di sanzioni interdittive a norma dell’articolo 17. In tal
caso il giudice, sentito il pubblico ministero, può disporre la sospensione della misura
previa determinazione di una somma da pagare a titolo di cauzione e indicando un
termine entro cui l’ente può realizzare le condotte riparatorie. Non è questa la sede per
soffermarsi sulle prescrizioni dell’articolo 17, ma in sintesi può dirsi che esse
consistono nel risarcimento integrale del danno, nella eliminazione delle conseguenze
dannose o pericolose del reato e soprattutto nella eliminazione delle carenze
organizzative che hanno determinato il reato, mediante l’adozione e l’attuazione di
modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi, nonché
nel mettere a disposizione il profitto conseguito allo scopo di consentirne la confisca.
Trattasi di adempimenti che devono tutti essere congiuntamente realizzati e che
richiedono uno sforzo valutativo da parte del giudice il quale dovrà formulare un
giudizio prognostico di idoneità del modello organizzativo a prevenire la commissione
di nuovi reati.
Il giudice potrà inoltre autorizzare l’ente a prestare, in via alternativa al deposito della
cauzione, idonea garanzia mediante ipoteca o fidejussione solidale.
Avendo il giudice fissato nella propria ordinanza di sospensione un termine per la
realizzazione degli adempimenti ex art. 17, dovrà egli decidere la permanenza o meno
dell’originaria misura una volta scaduto tale termine.
Se prima della scadenza l’ente avrà adempiuto a tutti gli oneri posti a suo carico, il
giudice potrà revocare la misura cautelare, disponendo la restituzione della cauzione o
la cancellazione dell’ipoteca, con estinzione della fidejussione. In caso contrario, o
anche solo in caso in cui l’adempimento sia inefficace o incompleto, la misura cautelare
dovrà essere ripristinata e la somma depositata devoluta alla cassa delle ammende.
Cosa accade se l’ente adempie oltre il termine fissato?
I primi commentatori pervengono unanimemente alla soluzione più favorevole all’ente,
poiché la legge non ricollega alcuna decadenza allo spirare del termine fissato dal
giudice e più in generale prevede la possibilità per l’ente di dare concreta attuazione agli
adempimenti dell’art. 17 sia prima dell’apertura del dibattimento che dopo la sentenza
di condanna, con l’effetto rispettivamente di sospendere o evitare la misura interdittiva.
Sulla base di questi argomenti è facile ritenere che anche in caso di adempimento
tardivo l’ente possa chiedere la revoca di una misura cautelare interdittiva, tanto nel
caso in cui il giudice l’abbia già ripristinata, quanto in quello in cui non vi abbia ancora
provveduto.
L’articolo 50 prevede due casi di revoca della misura: il primo si ha quando risultano
mancanti, anche per fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità previste
dall’articolo 45; il secondo quando ricorrono le ipotesi previste dall’articolo 17. Si è già
accennato a queste ultime, mentre per le prime è difficile fare esemplificazioni per la
varietà delle ipotesi di fatto che possono determinare il venir meno delle condizioni di
applicabilità. Sotto il profilo procedurale, può dirsi che questo articolo prevede
espressamente che la revoca possa essere disposta anche d’ufficio, al di fuori di una
sollecitazione delle parti. Per il resto, in parallelo alla disciplina dettata dall’articolo 299
c.p.p., esso impone al giudice un costante adeguamento della misura e delle sue
modalità esecutive alle reali condizioni di fatto che si riflettono sui presupposti e
sull’intensità delle esigenze cautelari.
Le ipotesi in cui è possibile pervenire alla sostituzione della misura sono due: quando le
esigenze cautelari risultano attenuate ovvero la misura applicata non appare più
proporzionata all’entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere applicata in
via definitiva.
Al contrario della revoca, per la sostituzione è prevista un’istanza di parte per cui,
qualora sia l’ente a chiederla, il giudice dovrà decidere entro cinque giorni dall’istanza,
previa acquisizione del parere del p.m. che avrà due giorni di tempo per formularlo.
Nel silenzio normativo, alla domanda se sia possibile la sostituzione in peius della
misura applicata si può dare risposta positiva in assenza di elementi che facciano
ritenere incompatibile con questa speciale disciplina quella generale dell’articolo 299
comma 4 e seguenti c.p.p., pur con gli opportuni adattamenti. A proposito comunque
dell’aggravamento delle esigenze in rapporto alla misura applicata, va ricordata la
norma dell’articolo 23 comma 1 che punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni
chiunque nell’esercizio dell’attività dell’ente viola gli obblighi o i divieti inerenti a una
misura cautelare interdittiva.
Tra le cause di estinzione di una misura cautelare la prima è rappresentata dal decorso
del tempo, per cui alla scadenza del termine la misura cessa di produrre i suoi effetti.
L’ordinanza applicativa della misura interdittiva contiene infatti l’indicazione della sua
durata che, ai sensi dell’art. 51 comma 1, non può superare la metà del termine massimo
indicato dall’art. 13, comma 2, ossia un anno. Il termine decorre dal giorno della
notifica dell’ordinanza al rappresentante dell’ente e non è previsto un nuovo decorso
con l’inizio di una nuova fase processuale, eventualmente nel frattempo intervenuta. In
altri termini non sono previsti i termini di fase con conseguente inapplicabilità delle
norme degli articoli 303 e 308 c.p.p. . Sono altrettanto inapplicabili gli articoli 304, 305,
e 307 c.p.p. che hanno specifico riferimento alla custodia cautelare personale. Se la
misura viene irrogata dopo la sentenza di primo grado, essa potrà avere una durata
corrispondente alla sanzione applicata, ma non superiore ai due terzi del termine
massimo indicato nell’articolo 13 comma 2 e quindi non più un anno e quattro mesi.
In analogia alla disciplina codicistica è previsto che la durata delle misure cautelari è
computata nella durata delle sanzioni applicate in via definitiva.
Una misura cautelare si estingue anche per altre cause. In primo luogo quando l’ente
viene “assolto” e cioè quando viene pronunciata sentenza di esclusione della
responsabilità ai sensi dell’articolo 66 o affermativa di una causa di improcedibilità ai
sensi dell’articolo 67. Stesso destino la misura incontra nel caso di archiviazione
dell’illecito amministrativo dell’ente o quando le sentenze favorevoli sopra citate siano
pronunciate all’esito dell’udienza preliminare o del giudizio abbreviato.
Le impugnazioni
Francesco Prete