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Francesco Lamendola

Nulla sappiamo del mondo esterno, mentre ci morde il cuore la nostalgia dell'Essere
A volte ci capita di pensare a quella casa in Via Aonez, quartiere di Chiavris, all'estrema periferia nord-occidentale della nostra citt natale: dove, tra le fronde dei platani e oltre le cime degli abeti, si stendeva lo spettacolo meraviglioso dell'anfiteatro alpino, ripido e severo sotto il cielo vasto di primavera. Era la casa dove un gruppo di amici si trovavano, nella bella stagione, quasi ogni giorno, abbeverandosi del piacere di stare insieme; dove si parlava., si scherzava e si fantasticava; dove si confrontavano esperienze e si condividevano sogni; dove si facevano progetti, si organizzavano gite. Era il quartier generale da cui partivano forsennate spedizioni in bicicletta, nella verde campagna e tra i boschi annidati nelle pieghe delle colline: sempre in cerca di avventure, di torrenti nascosti tra il fogliame, di fabbriche abbandonate da esplorare, di vecchi edifici cadenti, abitati forse - dai fantasmi; perfino di grotte e gallerie sotterranee, dalle volte oscure e sgocciolanti d'acqua, che mettevano un delizioso brivido di paura al solo pensiero di penetrare al loro interno, nel buio Per noi, quella via tranquilla e fuori mano, dove passavano rarissime automobili; quella sedia a dondolo foderata di tela azzurra, nel giardino, che ha cigolato sotto il peso di lunghi pomeriggi d'estate, mentre le voci gioiose di quattro o cinque ragazzini riempivano l'aria della loro risata argentina, non era soltanto un luogo fisico, ma anche e soprattutto un luogo dell'anima. Era il luogo dell'adolescenza; il luogo dell'amicizia; il luogo dei sogni ad occhi aperti; dove tutto, dentro e fuori, parlava un linguaggio arcano e misterioso, impregnato del sapore pungente di un mondo aurorale: il grande mondo che un ragazzino di dieci, undici anni, viene scoprendo, poco a poco, con stupore infinito e con una sorta di trepidazione. Questi ricordi e queste riflessioni ci rimandano a una questione filosofica di notevole portata: che cos' la realt? Che cos' il cosiddetto mondo esterno? qualche cosa di oggettivo, di univoco, oppure una realt in perenne movimento, che dipende dalla mente che lo osserva, nonch dai diversi momenti in cui viene osservato? Nessun dubbio che la vecchia, cara villetta di via Aonez, circondata dai biondi campi di grano che oggi, quasi certamente, hanno ceduto il posto a nuovi edifici e nuove strade sopraelevate, sul nostro animo giovanile produceva un effetto completamente diverso da quello che aveva, poniamo, su un residente, che vi era sempre vissuto; o su un uomo anziano, che non vedeva pi il mondo con la freschezza della meraviglia e della scoperta; o, infine, che produrrebbe su noi stessi, se vi tornassimo oggi, a tanti anni di distanza, anche nel caso - improbabile - che quei luoghi siano cambiati di poco, e che quella villetta esista ancora, col medesimo aspetto con cui l'abbiamo gelosamente conservata nello scrigno della memoria. Secondo una filosofia realista, le cose esterne esistono davvero; e il fatto che noi le percepiamo in modo diverso gli uni dagli altri, o rispetto a diversi momenti della nostra stessa esperienza, dimostrerebbe soltanto che noi non possiamo fare a meno di porci davanti ad esse con gli strumenti percettivi offerti dal nostro sistema nervoso centrale, che rielabora soggettivamente le impressioni comunicate al cervello dalla vista, dal tatto, dall'udito, eccetera. Nessuno, per, riuscito a confutare efficacemente Berkeley, il quale sottolineava la semplice, ma innegabile verit che tutto ci che del mondo esterno noi conosciamo, lo conosciamo attraverso i
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nostri sensi, e, quindi, all'interno e non all'esterno della nostra mente. L'albero che noi vediamo, l'albero che vedono nostri occhi e che si rappresenta la nostra mente: non qualche cosa che esista fuori di noi, della quale nulla sappiamo e nulla potremmo sapere. Certo, una forma moderata di realismo disposta ad ammettere che le cose esterne esistono, anche se noi non possiamo conoscerle se non all'interno della nostra mente; ma anche questo realismo moderato, messo alle strette, deve poi riconoscere, con Kant, che le cose in se stesse, se pure sono qualcosa, sfuggono totalmente alla nostra possibilit di conoscenza. Infatti, noi dobbiamo accontentarci del loro apparire entro la nostra mente, ossia del fenomeno; e rinunciare a esprimere il bench minimo giudizio sulla loro essenza, ossia sul noumeno. Oppure l'albero che vediamo, che tocchiamo, e il cui profumo di resina ci inebria le narici, altra cosa dal nostro vederlo, dal nostro toccarlo, dal nostro annusarlo? No, non altra cosa: esso , in tutto e per tutto, questo nostro vederlo, toccarlo e annusarlo. Si esaurisce completamente nelle nostre percezioni; e, se c' qualche cosa d'altro, che a noi sfugge - una qualche misteriosa essenza che ne fa un soggetto esistente in s e per s -, ebbene: di quell'altro albero esterno noi non sappiamo nulla, non possiamo dire nulla e mai saremo in grado di conoscere nulla. A rigore, noi non avremmo alcun diritto di affermare che qui, davanti a noi, c' un albero. Potremmo dire soltanto che i nostri occhi, le nostre mani, le nostre narici, bi attestano la presenza di una certa forma, di una certa durezza, di un certo profumo: tutte cose che sono dentro la mia mente, elaborate dalla mia mente. stato un oggetto esterno a suggerircele? Impossibile dirlo: non esistono mezzi per dimostrarlo; cos come impossibile dire se, in nostra assenza, l'albero di cui parlavamo esiste ancora, oppure no. Certo, le necessit della vita pratica suggeriscono l'utilit di una convenzione: che tutti credano di s. Ma si tratta di una forma di realismo assai ingenua, perch la verit che ciascuno, e specialmente colui il quale faccia professione di realismo, dovrebbe astenersi dal testimoniare su qualcosa che non sia in grado di garantire con grado di assoluta certezza, derivante dall'esperienza diretta e immediata delle cose. Il mondo nozionale, fondato sulle idee astratte e sulle deduzioni derivanti dall'esperienza, un mondo puramente ipotetico; o meglio, puramente ipotetica la sua coincidenza con quel mondo fenomenico che noi siamo soliti chiamare reale, anche se l'unica cosa reale, per noi, il mondo delle rappresentazioni, che dentro la mente e non fuori di essa. Cos, ad esempio, del nostro mondo nozionale fa parte il concetto di Polo Nord: posto che la Terra un corpo celeste di forma sferica, un po' schiacciata ai Poli, e che la linea immaginaria passante per essi si chiama asse terrestre, noi sappiamo che deve esistere un punto matematico chiamato Polo Nord, posto agli antipodi di un altro punto matematico denominato Polo Sud, nel quale l'asse terrestre incontra la superficie della Terra. Possiamo poi recarci al centro dell'Artide e, mediante appositi strumenti, determinare il punto esatto in cui giace il Polo Nord: questo sarebbe il dato sensibile, che si colloca sul piano del mondo esperienziale. Per, tutto quello che l'esperienza ci pu dire che la bussola smette di indicare il Nord in un certo punto della calotta polare artica: i nostri occhi non possono dire altro, non possono testimoniare altro. A questo punto, sembrerebbe che il piano della conoscenza riceva una conferma da quello dell'esperienza, e che i due piani, in effetti, coincidano. Tuttavia, anche se controllassimo l'esatta indicazione degli strumenti cento volte di seguito, ancora non saremmo in grado di affermare una cosa del genere: dovremmo limitarci a registrare una sovrapposizione empirica, fattuale, dei due piani. Ma tutto ci che empirico e fattuale, esprime solo e unicamente una verit contingente; non una verit assoluta, mai. Inoltre, una verit empirica e fattuale pu essere interpretata in molti modi. Dove gli altri vedono un certo colore, poniamo il rosso, il daltonico ne vede un altro, poniamo il verde; mentre, al buio, nessuno pi in grado di precisare il colore di un determinato oggetto. Ma c' di pi. Non solo le strutture sensibili delle cose esterne sono tutto ci che a noi, menti finite, dato percepire e conoscere; il che vuol dire che, dietro quelle strutture percepite, potrebbe anche esservi
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il nulla (qualcuno ha ipotizzato che tutto l'universo non sia altro che un immenso ologramma, ossia una specie di rappresentazione virtuale di un mondo che, in realt, non esiste affatto). C' dell'altro: si pu aggiungere che le stesse categorie della conoscenza, ossia le modalit attraverso le quali si organizzano le reti, estremamente complesse, che trasformano la percezione sensoriale in conoscenza di un determinato oggetto - e nelle quali entrano fattori quali l'affettivit, la memoria, la creativit individuale -, le stesse categorie della conoscenza, dicevamo, sono parte di un sistema di valori che proprio di ciascun soggetto pensante. Un filosofo contemporaneo che ha particolarmente insistito su questo aspetto del problema, ossia sull'importanza dei nostri valori nella costruzione dell'immagine del mondo esterno, stato Hilary Putnam, sostenitore di un realismo interno, polemicamente contrapposto al realismo metafisico, sul modello platonico. Nel suo libro Ragione, verit e storia (titolo originale: Reason, Truth and History, Cambridge University Press, 1981; traduzione italiana di A. N. Radicato di Brozolo, Milano, Il Saggiatore, 1985, pp. 146-47): Naturalmente, se avesse ragione il realismo metafisico e lo scopo della scienza si potesse considerare soltanto quello di far "combaciare" il nostro mondo nozionale con il mondo reale, allora si potrebbe sostenere che la coerenza, la comprensivit, la semplicit funzionale e l'efficacia strumentale ci interessano semplicemente in quanto sono mezzi che servono allo scopo di perseguire quella corrispondenza: invece, il concetto stesso di quella corrispondenza trascendentale della nostra rappresentazione con il mondo reale non altro che un nonsenso. Negare che vogliamo questo tipo di corrispondenza metafisica con il mondo noumenico non equivale affatto a negare che vogliamo l'usuale tipo di congruenza empirica con il mondo empirico (come la stabiliscono i nostri criteri di accettabilit razionale (e viceversa, ovviamente). Noi ci serviamo dei criteri di accettabilit razionale per costruire una raffigurazione del "mondo empirico" e poi, mano a man che si completala raffigurazione, rivediamo i criteri stessi che abbiamo per l'accettabilit razionale alla luce della raffigurazione, e cos via all'infinito. In altri miei libri ho gi posto l'accento sulla dipendenza dei nostri metodi dall'immagine che abbiamo del mondo. In questa sede voglio invece mettere in evidenza soprattutto l'altro aspetto di quella dipendenza, cio la dipendenza del mondo empirico dai nostri criteri di accettabilit razionale. Intendo, insomma, far notare che per avere un mondo empirico dobbiamo in primo luogo avere criteri di accettabilit razionale e che questi rivelano parte della nostra nozione di intelligenza speculativa ottimale. Sostengo, in breve, che il "mondo reale" dipende dai nostri stessi valori (e, ancora una volta, viceversa). Queste osservazioni, che possiamo condividere in parte, ci forniscono alcuni spunti per tentare di delineare una sorta di mappa della cosiddetta realt. Il mondo esterno dipende dai nostri valori: cio, noi non possiamo non percepirlo attraverso il diaframma della nostra struttura assiologica, che funziona come un filtro per separare ci che a nostro avviso possibile, e quindi reale, da ci che non lo . Se qualcuno ci dicesse, ora, di aver incontrato per la strada un uomo con tre gambe (l'esempio tratto da un intenso colloquio del romanzo di Graham Greene The End of the Affair, noi, forse, rimarremmo turbati, almeno sul momento; ma se quel qualcuno soggiungesse, subito dopo, che erano coperte da scaglie di pesce, capiremmo all'istante che si trattava di uno scherzo, non per altra ragione che per l'incompatibilit di quella situazione con la nostra rappresentazione del mondo, e, pi ancora, con i nostri criteri di accettabilit del reale: ci che una questione di valori, e non di fatti. Quindi, la nostra concezione della realt presuppone la razionalit: noi non possiamo concepire un mondo logicamente contraddittorio, ove siano vere cose opposte e inconciliabili. E non possiamo farlo non gi per motivi logici (non si pu dimostrare razionalmente la verit della ragione), ma perch facciamo istintivamente riferimento a un qualche sistema di valori. In questo caso, noi sentiamo che un mondo coerente e razionale un bene in se stesso, mentre un mondo intrinsecamente contraddittorio e irrazionale, sarebbe un male.
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Ricapitolando. Esiste un mondo dei valori, cui tende ad adeguarsi il nostro mondo nozionale, e che si colloca al livello della razionalit; e si crede che vi sia un mondo empirico, un mondo dei fatti, che si colloca al livello dell'esperienza; bench l'esperienza, a guardar bene, non ci dica nulla sui fatti, ma descriva degli stati interni della nostra mente (forme, numeri, colori, odori, sapori, ecc.) e rifletta un insieme di criteri razionali e di valori del singolo soggetto pensante. Che relazione esiste fra il mondo dei valori e il mondo nozionale, e fra quest'ultimo ed il mondo reale (nel senso di esterno e oggettivo? La relazione fra il mondo dei valori e il mondo nozionale una relazione di tipo logico (noi consideriamo vera una determinata cosa, in base a criteri di accettabilit razionale), ma anche di tipo trascendentale: noi, mediante un atto di fede, vogliamo credere che esista una verit al di l delle molteplici apparenze del mondo; e riconduciamo questo atto d fede all'idea del Bene, che diviene normativa per ogni altra cosa. Come abbiamo visto, infatti, noi giudichiamo buona - nel senso pi ampio del termine - una cosa, una persona o una situazione, se riusciamo a scorgervi una coerenza interna e una razionalit; cattiva, se non vi riusciamo. Ancora pi in generale, noi giudichiamo un bene il fatto che le cose esistano, quindi l'essere; e un male il fatto che non esistano o che (apparentemente) cessino di esistere, quindi il non-essere. Perfino i pessimisti pi radicali, come Leopardi e Schopenhauer, mentre denigrano l'essere e sostengono che l'unica cosa buona il non essere, si servono di idee, parole, immagini, per esprimere tali concetti: si servono, dunque, dell'essere, di quell'essere che dicono consistere in un male, ma che offre loro il bene del ragionamento e della comunicazione. La relazione fra il mondo nozionale e il cosiddetto mondo reale, poi, una relazione di secondo grado, un po' come nel mito platonico della caverna. Come abbiamo visto, i fatti non parlano da se stessi; anzi, non possiamo dire nemmeno che siano qualcosa al di fuori di noi: perch tutto quello che possiamo dire, riguarda la realt della nostra percezione, della nostra mente, e - in ultima analisi - dei nostri valori. Vi una scala, tuttavia, che rende possibile una comunicazione tra il mondo di quelli che, per pura comodit, chiamiamo i fatti, e quello dei valori: e i suoi gradini sono, in senso ascendente: l'idea della razionalit, l'idea della verit, l'idea del Bene. Mediante l'idea della razionalit, noi operiamo, per cos dire, una selezione fra le possibili, molteplici verit del mondo dei fatti, o, meglio, dei fenomeni, e separiamo ci che possibile, e quindi vero in senso forte, da ci che non lo . (Altro discorso che noi siamo sovente troppo restrittivi nell'adoperare il criterio di accettabilit razionale, perch un pregiudizio razionalista ci porta a considerare possibile solo ci che lo in senso fisico: cosa, evidentemente, inadeguata a rendere conto della verit di tutta una serie di altri fatti o fenomeni, a cominciare da quelli dell'affettivit e dell'immaginazione.) Mediante l'idea della verit, noi ci innalziamo di livello, dalla dimensione del contingente verso quella dell'assoluto. Incominciamo a comprendere che le single verit parziali, confermate dall'accordo fra il giudizio dei sensi, quello della ragione e quello dei valori, non sono che menzogne, se non riusciamo a vederle cos come esse sono realmente: fasci di luce che abbiamo gettato, qua e l, su alcuni lembi di un tutto unitario e meravigliosamente coeso, di un'unica verit totale, cosmica, il cui fulgore sarebbe per noi insostenibile, se potessimo vederla direttamente nella sua interezza. Mediante l'idea del Bene, infine, noi facciamo felicemente ritorno a quel mondo dei valori dal quale eravamo partiti, dato che il mondo dei fenomeni, come si visto, ci appare come ci appare non solo e non tanto in virt di una percezione fisica o razionale, ma in virt di una idea innata in ogni mente pensante: l'idea che l'essere un bene, e che tutto ci che promuove l'essere un bene; e che non esistono fatti che non siano da noi percepiti attraverso la mediazione dei valori, da cui sono come permeati.

Putnam e altri filosofi pensano che si debba considerare superata questa teoria della conoscenza, perch presupporrebbe il punto di vista di Dio: un punto di vista, cio, superiore ala cose e superiore al nostro orizzonte esperienziale, razionale e valoriale. La logica conseguenza delle loro affermazioni che vi sono numerose descrizioni vere del mondo, tutte egualmente legittime e giustificate; e che la verit non altro che una sorta di idealizzazione dell'accettabilit razionale, dato che non sempre una verit empirica (e quindi verificabile). Noi non lo crediamo; ci sembra che il ragionamento di codesti realisti interni sia viziato dal fatto che le premesse sono maggiori delle conclusioni. La premessa fondamentale che la verit delle cose, non essendo determinabile sempre per via empirica, rimanda a una verit ideale (che solo per un puntiglio linguistico essi non osano chiamare metafisica). La conseguenza sproporzionata che essi traggono, che la verit deve essere, quindi, una costruzione pi o meno arbitraria dei singoli soggetti, tutt'al pi verificabile attraverso criteri razionali di giudizio, stabiliti rigorosamente in precedenza. Esiste, invece, un'altra possibilit, pi semplice sul piano logico, anche se richiede un notevole atto di umilt da parte della logica stessa: che esista una verit in se stessa, la quale coincide con l'idea del Bene e con l'Essere con la iniziale maiuscola; che da questa verit noumenica traggano esistenza e consistenza tutte le verit parziali; che da essa, e solo da essa, noi abbiamo ricevuto questa spinta misteriosa che non ci d tregua, e sempre ci sprona a cercare il vero, come l'assetato cerca l'acqua nel deserto e come il minatore, che emerge di notte dall'oscura galleria, cerca il fulgore stupendo del cielo stellato. Si obietter che avevamo negato, in precedenza, la possibilit, per noi menti finite, di conoscere il noumeno, la cosa in s. Qui, per, non si tratta della cosa in s dei singoli enti, ma della Cosa in s totale, ossia dell'Essere; e non si tratta di conoscerla, ma di ammetterne la necessit sia logica, sia etica. Logica, perch senza quel fondamento, qualunque forma di conoscenza risulterebbe impossibile; etica, perch senza di esso non avremmo che gruppi di valori eterogenei, in lotta perpetua fra loro, e il mondo sarebbe assurdo ed autocontraddittorio. Ma il mondo esiste (se in senso esterno e fisico oppure no, questa un'altra questione); e il solo fatto che esista dimostra che non assurdo e autocontraddittorio: perch, se lo fosse, non potrebbe esistere; o, se potesse esistere, non potrebbe conservarsi. Il mondo esiste, ed un bene che esista; un bene che noi esistiamo; un bene che noi ci interroghiamo. Noi, per, non potremmo porlo da soli, per il semplice fatto che non potremmo porre da soli neppure noi stessi. Noi abbiamo ricevuto l'esistenza, non ce la siamo data. Al tempo stesso, avvertiamo dolorosamente la ferita del non-essere: vediamo che alle cose tutte, ed a noi per primi, manca qualcosa; e questa mancanza ci fa soffrire, e ci pungola continuamente ad andarne alla ricerca. E che cosa ci manca - a noi che esistiamo, ma non ci siamo dati da noi stessi l'esistenza - se non l'essere, che dia pienezza, splendore e gioia al nostro esistere, talora cos palesemente stentato e doloroso? Ma se avvertiamo la ferita del non-essere, vuol dire che qualcosa ce la fa sentire: se non esistesse l'acqua, nessuno ne avrebbe sete; se non esistesse il cielo stellato, il minatore non uscirebbe con esultanza dalla buia caverna, nel cuore della notte. Questa forza potente non altri che l'Essere: fondamento del mondo, garanzia del nostro conoscere, testimone del nostro aspro cammino verso la verit.

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