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Vardanega – 3 aprile 2008

Sociologia e sviluppo locale:


formazione e ruolo del sociologo nel territorio
Agnese Vardanega
Teramo, 3 aprile 2008

1. Il ruolo di una sociologia in crisi

Non c’è dubbio che in questi anni la sociologia abbia vissuto una fase di ripiegamento su se stessa,
che mostra pienamente il suo carattere paradossale nel fatto che il momento di forte crisi paradigmati-
ca, la messa in questione cioè delle categorie tradizionalmente utilizzate per rappresentare il moderno, è
stata di stimolo ad una riflessione su questa stessa crisi, piuttosto che l’occasione di una revisione di
quelle categorie e di un tentativo di dire qualcosa di sostantivo sui cambiamenti in atto.
In questo ha giocato un ruolo anche il vecchio argomento “sociologia scienza giovane e poliparadig-
matica”, che segnala la difficoltà di vedere gli elementi in comune che hanno avuto le teorie classiche.
Se elementi in comune non ve ne fossero stati, se un paradigma o un meta-paradigma non vi fosse stato
… come avrebbe fatto la sociologia ad entrare in crisi?
Un secondo aspetto di questa crisi mi riguarda più direttamente, coinvolgendo il versante più pretta-
mente metodologico. Partecipando recentemente ad seminario sugli indicatori mi sono resa conto che
molta parte della mia relazione era stata dedicata a dimostrare che gli indicatori devono dire qualcosa a
proposito della realtà. Il rapporto di indicazione continua ad essere rappresentato – negli ambienti so-
ciologici accademici, ovviamente – in quanto rapporto fra indicatori e concetto, piuttosto che rapporto
fra indicatori e realtà empirica, in cui i concetti svolgono una funzione di mediazione; tanto da arrivare
a sostenere che la validità dell’indicatore riguarda la sua capacità di rappresentare un concetto!
Quanto sin qui detto non intende alimentare il dibattito sulla crisi della sociologia, ma segnalare
come questo ripiegamento abbia a che fare con la scarsa capacità della disciplina di riferirsi alla realtà

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A. Vardanega – 3 aprile 2008

esterna, ed evidenzi in primo luogo una difficoltà di interpretazione e di lettura della realtà. Un elemen-
to per tutti valga a sostenere questa mia posizione: il successo di pubblico di una letteratura che dice
qualcosa sulla realtà dicono – giusto o sbagliato che sia – come quella sul postmoderno, e sulla globa-
lizzazione in particolare. Al di là dei contenuti espressi, questo successo mostra le potenzialità di una
sociologia che si proponga di interpretare le dinamiche sociali in atto, invece che riflettere su se stessa e
sul proprio stato di salute – cose interessanti fintantoché ne parliamo fra di noi, ma che giustamente (e
sottolineo giustamente) riguardano poco il vasto pubblico, i decisori, gli accademici delle altre discipli-
ne.

Il rapporto con il territorio da questo punto di vista può rappresentare senz’altro uno stimolo, a patto
che non si trasformi in un andare dietro a sollecitazioni esterne che sono per loro natura frammentarie,
e soprattutto purché gli accademici riescano a custodire gelosamente il tempo di un’adeguata riflessio-
ne teorica sulle stesse sollecitazioni, tanto dal punto di vista della didattica che da quello della ricerca.
La sociologia, e più in generale l’Università, devono essere in grado di fare proposte e di dare un
senso ed un’identità alla propria offerta, non chiudendosi in se stesse, ma interpretando e rielaborando
le sollecitazioni esterne in maniera da riuscire ad offrire un contributo originale. Del resto il territorio
della sola provincia di Teramo presenta – nel suo piccolo – tutti i problemi sul tavolo del dibattito na-
zionale: immigrazione, crisi della domanda, rapporto con la globalizzazione, turismo, pari opportunità e
servizi alla famiglia, e via dicendo.

2. La domanda di formazione sociologica: puntare sulla domanda “implicita ”

Che ci sia bisogno di una proposta forte, direi di un riposizionamento della disciplina, lo si vede ad
esempio dalla domanda di formazione che io definirei implicita proveniente dall’esterno. Cercherò di
chiarire cosa intendo per domanda implicita.
La domanda esplicita è quella che possiamo desumere: dal numero di iscritti; dalle sollecitazioni del
territorio per quanto riguarda le professionalità richieste (ed anche la capacità di assorbimento di queste
professionalità); dalle dinamiche del mercato del lavoro. Tralascio in questa sede la domanda di ricerca,

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sulla quale varrebbe la pena riflettere semmai più avanti.


Su questo fronte, la situazione generale appare alquanto contraddittoria. Infatti, se da una parte si ri-
chiede al sociologo la capacità di comprendere e gestire processi complessi, dall’altra vanno sempre
più di moda i modelli e i numeri, presi magari a prestito da altre discipline, ed il cui senso è difficil-
mente decifrabile soprattutto in funzione del decision making o meglio – per usare un termine nostrano
che forse rende di più l’idea – del processo decisionale. Si afferma cioè prepontentemente un modello
di razionalità che Weber avrebbe definito puramente formale, in cui è facile perdere il senso ultimo del-
l’analisi e dell’azione: finché i conti tornano, tutto va bene. A che servano poi questi conti, è questione
secondaria.
In pratica però, la realtà non funziona così: i sociologi professionisti svolgono mansioni e funzioni
tutto sommato polivalenti, anche se la domanda esplicita è quella di una preparazione settoriale e tecni-
ca. Così, molte persone che lavorano, o che si sono laureate e stanno cercando lavoro, si imbarcano in
percorsi formativi “fai-da-te” sfruttando le opportunità che l’università della riforma sotto questo profi-
lo certamente offre – e che peraltro a mio avviso non sono sfruttate a pieno.
Analizzando questi percorsi, riusciamo ad individuare la domanda implicita – che forse è anche un
po’ più vicina alle pratiche ed alle esigenze del mondo del lavoro: domanda ambivalente e frammenta-
ria – “liquida”, volendo usare i termini dei sociologi à la page – ma che, con il suo richiamo alla consa-
pevolezza della complessità che spesso le professioni incontrano nella loro quotidianità, interroga l’ac-
cademia e la sua tendenza a produrre specialisti che non trovano lavoro.
Le offerte di lavoro per i sociologi non abbondano: diciamo pure chiaramente che, in questo mo-
mento di crisi economica, esse scarseggiano tanto nel privato quanto nel pubblico. In generale, inoltre,
il livello della domanda dipende non solo dal livello di sviluppo di un territorio, ma anche dal modello
di sviluppo, dalla quantità e dalla qualità dei servizi presenti, ovvero dalle risorse pubbliche messe a di-
sposizione per i servizi ai cittadini e per il welfare.
Inoltre, dalla recente indagine di Alma Laurea, ed anche dalla nostra esperienza diretta, i laureati
vengono inseriti con retribuzioni che vanno dagli 800 ai 1.100 euro – ad indicare la loro debolezza sul
mercato del lavoro. È vero che medici ed ingegneri guadagnano parecchio di più – ma anche loro do-
vranno aspettare qualche anno per potersi comprare la Porsche.
Senza contare che un settore così femminilizzato viene ulteriormente penalizzato: le neolaureate

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guadagnano infatti in media dal 13 al 40% in meno dei neolaureati. Ed il peggio è che la differenza non
la fa tanto il settore di inserimento professionale, ma l’aver iniziato a lavorare durante gli studi: in prati-
ca, conviene inserirsi nel lavoro prima di laurearsi, in quanto gli stipendi aumentano principalmente
con l’anzianità di servizio! Ci vogliono anni prima che la laurea faccia qualche differenza da questo
punto di vista, il che certo non è incoraggiante.
Anche questo aspetto incoraggia a puntare – in questo momento – più sui lavoratori che sui datori di
lavoro, per capire cosa effettivamente serve per lavorare, per fare carriera, e comunque per svolgere la
propria professione con la dignità della qualità.
Altro è chiedere: “Quali professionalità servono o servirebbero all’azienda?”, altro è chiedere: “In
quali professionalità l’azienda è disposta ad investire concretamente?” o – ancora più realisticamente –
“si può permettere di investire, pensando di averne un ritorno?”. Ancora diverso è infine chiedere “Sa-
rebbe pronto ad assumere un laureato con queste caratteristiche nei prossimi 6 mesi?”
Personalmente, vedo una risorsa nella capacità degli studenti – soprattutto di quelli che già lavorano
– di organizzarsi i propri percorsi formativi. Una risorsa che l’università deve essere in grado di utiliz-
zare proficuamente, interpretando la domanda implicita senza limitarsi a quella esplicita. Particolar-
mente significativi mi sembrano quei Master che riescono ad attrarre risorse per la formazione di perso-
ne che già lavorano, soprattutto in quanto non possiamo fare troppo affidamento sui dati prodotti da
una situazione di crisi che oramai non è più possibile considerare congiunturale. I giovani laureati non
trovano lavoro, o trovano un lavoro che è “precario” in quanto oltre ad essere flessibile è anche mal pa-
gato e poco protetto – come dimostra il dato relativo al lavoro femminile. Diventa difficile dunque “ca-
pire” quali titoli di studio funzionano, quali percorsi formativi trovano uno sbocco adeguato.
In conclusione, per puntare verso il futuro, l’università dovrebbe soffermarsi a riflettere sulla do-
manda implicita di formazione, perché al momento quella esplicita appare piuttosto debole e confusa
per le ragioni che ho esposto, e che sintetizzerei così:
• la crisi economica, che determina una difficoltà di inserimento dei giovani e dei giovani laurea-
ti, in particolare nei settori tradizionalmente “deboli”;
• il modello economico di sviluppo caratterizzato da una riduzione al minimo della spesa pubbli-
ca e dunque da una riduzione consistente dell’investimento in nuove risorse e nuove professio-
nalità nel settore dei servizi alla persona e al territorio, in cui i sociologi trovano il loro sbocco

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naturale;
• una debole identità della disciplina, che si riflette – in termini di marketing – in una difficoltà
oggettiva di posizionamento, tanto sul mercato del lavoro e delle professioni quanto su quella
della ricerca, dove la concorrenza di altre discipline “sorelle” o “cugine” è certamente agguerri-
ta.

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