venture capitalist, ha iniziato a lavorare come analista azionario in Goldman Sachs e in breve tempo, passato in Lehman negli anni Novanta, è diventato responsabile di 110 equity analyst. Sa quindi di cosa parla quando dice che gli analisti azionari fanno un buon lavoro tre quarti del tempo e un cattivo lavoro nel restante quarto. Questo quarto, dice, va poi diviso in due ottavi. Il primo ottavo è quando il ciclo economico raggiunge il top e inizia a peggiorare. E’ una fase in cui gli analisti, inerzialmente, continuano a pensare in rosa. L’altro ottavo del tempo Hitchhiking Businessman. Fotografia di Kim Steele. Getty Images. è quando il ciclo tocca il punto più basso. Qui gli analisti, proprio perché sono stati troppo ottimisti durante la discesa, tendono a restare troppo a lungo negativi durante la prima fase della ripresa. In pratica, dice Fraenkel, in una fase come questa gli analisti tendono a sottovalutare l’impatto positivo del cambio (il dollaro si è svalutato in questi mesi, rivalutando gli utili fatti all’estero dalle multinazionali americane) e quello dell’esplosione della produttività. Spesso, conclude, gli analisti sottovalutano questi aspetti positivi perché sono le società stesse a non rendersi pienamente conto in tempo reale di quello che stanno facendo. Questa situazione di sottostima dei miglioramenti si prolunga poi per due e spesso tre trimestri. Gli utili sorprendentemente positivi che stanno uscendo in queste ore ricordano in grande la sorpresa positiva di tre mesi fa e sono in sostanza il frutto del terrore che ha pervaso i consigli d’amministrazione di tutto il mondo tra ottobre e marzo. Ora il terrore non c’è più, ma ha lasciato il posto a una robustissima diffidenza verso chiunque parli di germogli o di ripresa. Il portafoglio delle imprese rimane cucito e sigillato verso assunzioni, investimenti e ricostituzione di scorte. Il terrore sembra essere un elemento indispensabile per indurre le imprese a tagliare i costi. Le imprese amano pensare a sé stesse come modelli di efficienza, ma come tutte le organizzazioni umane sono lente, inerziali e burocratiche. Se c’è una recessione ma manca il terrore le imprese iniziano a tagliare la produzione parecchio tempo dopo che il mercato ha cominciato a mostrare segni di stanchezza. Il risultato è che si riempiono i piazzali di auto invendute e i magazzini di scorte. Passa poi dell’altro tempo, in recessioni normali, tra il momento in cui si decide di produrre di meno e quello in cui si decide di licenziare. Si tende ad aspettare perché ristrutturare è oneroso e faticoso e anche, a volte, per mantenere relazioni sindacali decenti, per immagine o per rispetto verso i dipendenti. Nelle ultime due recessioni il terrore ha prodotto un’accelerazione formidabile di questi processi. Nel 2001 la reazione ai primi due trimestri di rallentamento è stata normale, ma l’11 settembre ha comportato il congelamento completo di investimenti e soprattutto assunzioni e un’accelerazione dei licenziamenti. Questa volta il terrore è stato duplice. In ottobre si è verificato contemporaneamente il collasso della spesa per consumi e il quasi collasso del sistema bancario. Le imprese, oltre a vedersi cancellati gli ordini uno dopo l’altro, hanno ricevuto la visita del funzionario della loro banca che chiedeva di ridurre o cancellare le linee di credito, non solo quelle lunghe ma anche quelle di breve, destinate a finanziare le scorte. Vedendosi sfilare i finanziamenti da sotto i piedi le imprese non solo hanno Johnny Depp in Edward Scissorhands ridotto la produzione in linea con la di Tim Burton. 1990 domanda, ma molto di più. Le auto sul piazzale o presso i concessionari infatti mangiano capitale circolante e, per restituire soldi alla banca, vanno ridotte drasticamente. Si badi che decisioni di questo tipo non vengono prese a cuor leggero. Se il compratore di un auto non trova il modello che cerca dopo avere girato per qualche concessionario di una casa andrà a cercarsi un modello simile di una casa concorrente. Il cliente, a quel punto, è perso per qualche anno o forse per sempre. Si è affermato spesso, in questi mesi, che le imprese che tagliano la produzione e licenziano risparmiano individualmente e perdono collettivamente. Il licenziato da un centro commerciale compra, tra l’altro, meno auto e il licenziato da un produttore di auto spende meno, tra l’altro, al centro commerciale. Il gioco, però, non è a somma zero. Una parte degli oneri viene infatti esternalizzata verso lo stato (ammortizzatori sociali, meno imposte da pagare), una parte verso i paesi emergenti (siamo noi ad avere fabbriche da loro e non loro da noi) e una parte verso le famiglie, che intaccano il loro patrimonio per tenere i consumi al di sopra del reddito azzerato dei nuovi disoccupati. Oltre a licenziare, naturalmente, le mani di forbice delle imprese terrorizzate azzerano i bonus, rinegoziano (in America) le polizze sanitarie e partono all’attacco di tutti i costi. Dal volo in business class si passa a quello in economy e da qui, se non proprio all’autostop, alla teleconferenza. Un’altra tesi degli scettici è che questi risparmi sono una tantum, che sono già finiti e che quindi sono già riflessi negli utili e quindi nelle quotazioni di borsa. Questo non è vero. In primo luogo il calo delle scorte continuerà ancora per tutto quest’anno e i licenziamenti andranno avanti anche per buona parte del prossimo. In secondo luogo la ripresa della domanda non verrà accompagnata da assunzioni ancora per un altro anno. Ieri con 100 persone producevo 100 pezzi. Oggi con 85 persone produco 90 pezzi. Domani con 85 persone produrrò di nuovo 100 pezzi. I dati macro confermano l’esplosione della produttività, come e di più del dopo 11 settembre. Negli esempi che abbiamo fatto abbiamo parlato molto di auto e di scorte perché nei prossimi mesi tutto ruoterà intorno ad auto e scorte. Il crollo della produzione industriale globale tra ottobre e marzo è partito da lì e da lì è iniziata la ripresa. Gli analisti del settore auto di Merrill Lynch ritengono che negli Stati Uniti nel terzo trimestre vedremo un balzo delle vendite (entrano in vigore domani i nuovi incentivi alla rottamazione) e che nel quarto, smaltite le scorte, ci sarà un balzo della produzione del 30 per cento, cui ne seguirà uno del 50 per cento nel primo trimestre dell’anno prossimo. JP Morgan, dal canto suo, parla di una produzione industriale americana già adesso in crescita del 10 per cento annualizzato. Martin Feldstein, che è l’unico scettico di cui in questo momento abbiamo sacro rispetto, ha ribadito ieri Rabbitscissors che avremo ancora altri tre mesi buoni, aggiungendo però ch la recessione non è finita. Anche Summers, del resto, dice che il 2010 è tutto da scrivere. Bernanke ci sembra più ottimista. Interrogato oggi sul secondo pacchetto fiscale ha detto infatti che al momento non ce n’è bisogno. Diamo un’occhiata al calendario. Agosto si avvicina e, volendo essere prudenti, possiamo contare con relativa certezza su agosto, settembre e probabilmente ottobre. I dati arrivano con un mese di ritardo e possiamo quindi arrivare a novembre. Tra ottobre e novembre dovremo stare con gli occhi aperti. Se Bernanke chiederà al Congresso un pacchetto fiscale vorrà dire che la Fed sarà di nuovo preoccupata. Al momento lo staff della Fed, che numerosi studi indicano come più bravo del Fomc a fare previsioni, è piuttosto ottimista sul 2010. In questo momento sarebbe bene essere sovrapesati di azionario. Chi aspetta la certificazione di fine recessione da parte del notaio dovrà aspettare a lungo. L’occupazione continuerà a scendere. Alcune delle imprese che finora hanno bruciato cassa continueranno a bruciare cassa. Lo faranno più lentamente, ma a un certo punto la cassa finirà e dovranno chiudere. Chi lavora in quelle imprese o chi siede nei loro consigli non riuscirà a credere alla ripresa del ciclo e tanto meno a quella delle borse, ma la ripresa ci sarà. Probabilmente l’azionario non salirà molto da qui a fine anno, ma il 5 per cento degli indici vorrà dire il 10 o il 15 per i ciclici. Chi proprio non ce la fa a mettersi sovrapesato sui massimi dell’anno potrà stare a benchmark e vendere delle put leggermente out of the money. Chi preferisce in ogni caso rimanere sottopesato potrà comprare qualche call distribuita tra settembre e novembre. Chi è ancora più diffidente su questi livelli dovrà approfittare di qualsiasi debolezza. Finora i corporate bond sono stati un’alternativa confortevole e sicura all’investimento azionario. Questi bond, da qui a fine anno, continueranno ad andare bene, anche perché gli emittenti hanno fatto il pieno in questi mesi e non faranno nessuna emissione netta nei prossimi. La carta corporate assumerà dunque un valore di rarità e continuerà ad apprezzarsi, ma sempre più lentamente e in misura non paragonabile a quella che immaginiamo per l’azionario. In generale, ci pare che il momento di farsi un minimo di coraggio sia quando si ha la ragionevole certezza che il rischio di una crisi con avvitamenti e circoli viziosi feroci appare superato. Il rischio che si può intravvedere oggi per fine anno o inizio 2010 è semmai quello di una fine precoce del ciclo positivo delle scorte. Il ritorno a una vera situazione di grave pericolo lo vediamo semmai più in là nel tempo. Il double dip del 1929-32 fu nel 1937 e quello giapponese degli anni Novanta fu un dip multiplo che si produsse grosso modo a intervalli di due anni. Un exit strategy prematura o troppo aggressiva e il marcire dei titoli e degli impieghi tossici nei portafogli delle banche ci sembrano i veri grandi rischi a medio termine, anche di più delle ipotesi di crisi fiscale che i mercati non mancheranno di fabbricarsi periodicamente. Alessandro Fugnoli ++39 02 77426.1
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