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Francesco Barbagallo MEZZOGIORNO e QUESTIONE MERIDIONALE ( 1860/ 1980). GUIDA EDITORI. INDICE. 1. La societ meridionale prima dell'unit.

' Pag. 6 2. I contraccolpi dell'unificazione. ' 9 a) La struttura economica. ' 9 b) Problemi politici e sociali: il brigantaggio. " 12 c) L'ex-capitale. " 14 ' 3. Nascita del meridionalismo. " 16 a) I modelli egemonici di Villari. " 16 b) Le analisi strutturali di Franchetti e Sonnino. 18 c) Il radicale realismo di Fortunato. " 21 4. Il Mezzogiorno tra crisi agraria e svolta protezionista. 25 5. Il meridionalismo di fine secolo. " 30 a) La polemica antirazzista di Colajanni e i Fasci siciliani. " 30 b) Il liberismo di de Viti de Marco. " 34 .;c) L'industrialismo di Nitti. " 36 d) Il marxismo economicista di Ciccotti. " 39 e) Salvemini tra socialismo e democrazia. " 40 6. Il Sud tra disgregazione e trasformazione." 43 ' 7. Leggi speciali, guerra e dopoguerra. " 52 8. I nuovi programmi di Sturzo, Dorso, Gramsci. " p 55 9. Cenni sulla societ meridionale durante il fascismo. " 63 10. La guerra, la repubblica, le lotte sociali. " 67 11. Le nuove strategie meridionaliste : le campagne di Rossi Doria e di Sereni, la SVIMEZ di Morandi e di Saraceno. 72. 12. La politica dell'intervento straordinario: la Cassa per il Mezzogiorno. 78. 13. Le riviste meridionaliste: "Cronache meridionali, "Nord e Sud'. 82. 14. La formazione di un nuovo blocco urbano. ' 84. 15. Trasformazioni sociali e permanente divario. " 87. a) Gli uomini e il lavoro.87. b) Gli squilibri e il ritardo. 92. c) La politica speciale come sistema di potere. " 95. Bibliografia 101. Sono passati 120 anni dall'unificazione italiana. Il paese si trasformato radicalmente. Anche il Mezzogiorno profondamente cambiato, non solo rispetto a un secolo fa, ma a un ventennio, a un decennio addietro. Eppure si continua a parlare del Mezzogiorno come di un'area complessivamente arretrata, sottosviluppata, dipendente all'interno dell'unitario modello di sviluppo capitalistico messo in moto, appunto, oltre un secolo fa. Da sempre e ripetutamente negata, superata, accantonata la questione meridionale risorge periodicamente dalle ceneri, come araba fenice, e si ripropone al centro o ai margini del dibattito nazionale, a seconda dei momenti; ma sempre presente, sempre irrisolta, sempre sostanzialmente innegabile pur nelle forme diverse, mutate, anche rinnovate. E' un fatto che, ad oltre un secolo dall'unit, il termine Mezzogiorno conservi un preciso significato politico e so-

ciale, pur nella sempre pi accentuata diversificazione delle sue interne realt che, trasformandosi e rinnovandosi, non sono per ancora riuscite a far considerare come finalmente superata la considerazione unitaria della vasta area meridionale dei paese. E cosi il Mezzogiorno d'Italia appare ancora definito da caratteri strutturali pi arretrati, da un pi lento ritmo di sviluppo, da una complessiva condizione di dipendenza rispetto al processo nazionale di sviluppo capitalistico, che presenta sempre le sue strutture trainanti in zone, pure in trasformazione, dell'area centro-settentrionale del paese. Il Mezzogiorno continua ad essere un termine che va ben oltre la determinazione geografica per caratterizzarsi come complesso fatto problematico, come questione dalle mutevoli,caratteristiche ma dalla lunga permanenza. Una costante basilare dello sviluppo storico italiano, un carattere fondamentale nella storia dell'Italia unita, un aspetto essenziale del particolare tipo di processo economico, sociale e politico finora realizzato nel nostro paese. La storia della questione meridionale la storia del Mezzogiorno nello Stato italiano e della riflessione sul particolare tipo di rapporto realizzatosi tra il Mezzogiorno e lo Stato, tra diverse strutture economiche e ceti sociali. La questione meridionale nasce quindi al momento dell'unit, come problema del Mezzogiorno all'interno dello Stato italiano, come forma particolare dell'espansione meridionale rapportata al modello unitario di sviluppo capitalistico messo in moto nei decenni successivi al 1860. *1. La societ meridionale prima dell'unit. Ma qual era la condizione economica, sociale, politica del Sud negli anni precedenti l'unit? Va subito detto che il divario con le aree pi avanzate del Nord era gi notevole. La pianura padana, ad esempio, era gi caratterizzata, da oltre due secoli, da un paesaggio agrario pienamente capitalistico: quindi pieno di miseria contadina ma anche ricco di colture intensive, elevate produzioni, avanzate tecnologie. questa moderna agricoltura capitalistica dava il segno a tutta la societ circostante, definendone gli elevati livelli, per l'epoca, di sviluppo civile; a cominciare dalla diffusa istruzione di base. La societ meridionale invece, lungi dall'aver imboccato la strada dello sviluppo capitalistico, appariva ancora immersa nella fase intermedia del passaggio dal feudalesimo al capitalismo. E' vero che la feudalit era stata abolita al principio dell'Ottocento, nel decennio francese. E l'eliminazione dei poteri giuridizionali dell'aristocrazia, con la liberalizzazione della compravendita delle terre, aveva favorito il trasferimento di numerosi appezzamenti fondiari dalla nobilt e dalla propriet ecclesiastica ad una nuova classe di borghesia terriera. Ma questi proprietari borghesi del Sud apparivano meglio disposti ad imitare i comportamenti della nobilt che ad assumere le moderne funzioni degli imprenditori capitalistici; in questo pienamente assecondati e stimolati dalla monarchia borbonica, che punt fino all'ultimo sul mantenimento di una societ agricola di tipo patriarcale e tradizionalista, timorosa dei miglioramenti produttivi come delle innovazioni tecniche. L'incremento della produzione agricola meridionale nella prima met dell'Ottocento si realizzava cos attraverso la so-

la estensione delle colture e non attraverso la diffusione dell'investimento di capitali nella terra. Si restava cos al di qua di una forma moderna di organizzazione capitalistica della produzione agricola e dei rapporti sociali nelle campagne. Molto di rado, quindi, i proprietari terrieri si trasformavano in imprenditori capitalistici, puntando all'intensificazione delle colture, all'introduzione di rotazioni pi razionali, all'ammodernamento delle tecniche agrarie. L'economia tradizionale del latifondo cerealicolo-pastorale dominava largamente la scena. Durissime, a livello bestiale, rimanevano le condizioni di vita delle masse contadine, che in certe province superano il 90 % della popolazione, e che vedevano addirittura peggiorare la loro situazione per l'abolizione dei diritti feudali (gli usi civici di semina, di pascolo, di legnatico). Non meno duri per i contadini erano i contratti agrari, che si configuravano come semplici modificazioni formali dei tradizionali rapporti feudali. La scarsa propensione della borghesia fondiaria meridionale ad investire capitali

nella terra si rovesciava nella diffusa attitudine a ricavare la semplice rendita dai latifondi come dai minori appezzamenti, ad usurpare le terre demaniali servendosi del controllo delle amministrazioni locali e ad esercitare largamente l'usura. "Nelle relazioni tra il contadino e il proprietario - scriver Sidney Son nell'inchiesta sulla Sicilia del 1876 molto rimasto ancora dei contenuti feudali. Quella che era stata fino allora potenza legale, rimase come potenza prepotenza di fatto, e il contadino dichiarato cittadino dalla legge, rimase servo ed oppresso. Il latifondista rest sempre barone, e non soltanto di nome: e nel sentimento generale la posizione generale del proprietario di fronte al contadino, rest quella di feudatario di fronte a vassallo. Vi poi la classe della borghesia, non molto numerosa, e l come dappertutto avida di guadagno e imitatrice della classe aristocratica soltanto nelle sue stolte vanit e nella sua mania di prepotenza." Il paesaggio agrario del Mezzogiorno borbonico appariva quindi ben lontano dai livelli di moderno sviluppo capitalistico gi acquisiti nelle aziende della pianura irrigua lombarda e nei terreni piemontesi solcati dalle opere di canalizzazione realizzate dalla trasformatrice direzione politica cavouriana. E, nell'Ottocento, i caratteri fondamentali di una societ sono ancora pienamente segnati dai livelli conseguiti da quella ch' l'attivit di gran lunga preminente, l'agricoltura. Questo era vero in generale, con l'eccezione dell'Inghilterra, e tanto pi in una societ come quella meridionale, sempre dominata dal problema della terra, della propriet fondiaria, dei rapporti sociali nelle campagne. La struttura dell'economia meridionale era quindi largamnte precapitalistica. E non potevano incidere su questo quadro precisamente definito i pur considerevoli insediamenti che il diretto intervento statale e il capitale straniero svizzero-tedesco avevano impiantato soprattutto in Campania. I cantieri metalmeccanici del Napoletano e le aziende tessili del Casertano e del Salernitano f'ortemente protetti dagli alti dazi doganali - costituivano degli impianti isolati in una societ arretrata e stagnante, segnata dall'analfabetismo della quasi totalit della popolazione. Poche fabbriche, pur moderne ed efficienti, non significavano sviluppo industriale e non bastavano da sole a prepararlo. Cosi i dieci chilometri della prima ferrovia italiana consentivano al re Borbone di raggiungere pi celermente la reggia di Portici, ma rimasero i soli attivati nel regno; mentre gli altri stati italiani ebbero presto una rete ferroviaria ben pi consistente. Con gli stessi criteri lo stato borbonico si era preoccupato del sistema delle comunicazioni. Sicch le uniche strade collegavano la capitale alle residenze e ai luoghi di caccia reali: Portici, Caserta, Venafro, l'ersano. I centri urbani del Mezzogiorno erano praticamente isolati; le campagne prive di strade; solo i tratturi dalle Puglie agli Abruzzi consentivano il passaggio stagionale delle pecore. Isolato, per scelta politica della dinastia, "tra l'acqua santa e l'acqua salata" (lo stato pontificio e il mare), il regno borbonico viveva lontano dalle correnti di traffico e di movimnto internazionale. Lo scarso impegno della dinastia in qualsiasi genere di spesa statale, oltre quelle amministrative, militari e rappresentative consentiva di tenere basso il

livello dell'imposizione fiscale. Per cui la forte quantit di denaro improduttivamente accumulato e le felici condizioni metereologiche dei centri costieri avevano contribuito a diffondere la leggenda di un Mezzogiorno favorito dalla natura, fertile e ferace, che attendeva soltanto un regime pi liberale per dar libero corso a queste sue naturali virt. *2. I contraccolpi dell'unificazione. a) La struttura economica. L'unificazione nazionale, invece, lungi dal risolvere automaticamente i gravi problemi del Sud, li pose drammatica-

mente in piena luce. "Lo sviluppo capitalistico, - scriver Emilio Sereni - unificando il mercato nazionale, trasforma in un contrasto quella che era una semplice disparit, una differenza nel grado di sviluppo tra Nord e Sud... I residui feudali nell'economia dell'Italia centrale e meridionale, in particolare, ostacoleranno assai gravemente in queste regioni la separazione dell'agricoltura dall'industria, lo sviluppo mercantile e capitalistico dell'agricoltura, la formazione del mercato interno per la grande industria; daranno a tutta l'economia la loro impronta di arretratezza e di primitivit; faranno dell'economia italiana un'economia tipicamente ritardataria. Certo, questi residui feudali non varranno ad arrestare la marcia del capitalismo italiano; ma questo si presenter per lungo tempo in una forma ibrida e spuria, intricandosi in sempre nuove contraddizioni interne, che si inacerbiranno, innestandosi nel vecchio tronco feudale. Dell'Italia si potr, per molti decenni, dire quel che Marx diceva della Germania del suo tempo: che essa soffriva ad un tempo del capitalismo e del suo deficiente sviluppo". L'unificazione normativa adottata immediatamente dal nuovo Stato italiano, attraverso l'estensione automatica al! le altre regioni della legislazione gi vigente nel Piemonte, ebbe conseguenze particolarmente rilevanti nl Mezzogior, no, soprattutto sul piano della politica doganale e del regime fiscale. L'applicazione della nuova tariffa liberistica determin il crollo dei dazi protettivi prima vigenti nelle province meridionali per una misura di circa l'80 %, sicch ne usc completamente travolta l'industria sorta e cresciuta sotto l'ampio mantello della protezione statale. Altrettanto pesanti furono gli effetti dell'estensione del sistema tributario piemontese che accresceva notevolmente, in confronto al regime borbonico, la pressione fiscale sulle campagne. E questa pressione era destinata ad accrescere ulteriormente sia per effetto dell'unificazione del debito pubblico, che si accollava le spese di guerra del Piemonte, sia in vista degli stanziamenti necessari per la costruzione di una rete ferroviaria e di un sistema di comunicazioni stradali che erano ! requisiti indispensabili per una effettiva unificazione del mercato nazionale. Obiettivo essenziale dei primi governi unitari era infatti, accanto all'organizzazione della struttura amministrativa del nuovo Stato, l'unificazione economica del paese mediante l'abbattimento delle barriere doganali che dividevano gli antichi Stati. La creazione di un efficiente sistema di comunicazioni stradali e ferroviarie rappresentava la condizion "infrastrutturale" per la formazione di un ampio mercato nazionale che congiungesse definitivamente i diversi, ristretti mercati locali e regionali e conducesse quindi ad un forte sviluppo dei trafici, avviando un processo di accelerata commercializzazione dell'economia italiana, di separazione dell'agricoltura dall'industria, di accentuata espansione capitalistica. Questo processo avveniva in diretto contatto con l economie europee pi sviluppate, per l'avvenuto inserimento, grazie all'intensificazione dei traffici internazionali, facilitati dal libero scambio, nel movimento del mercato mondiale. L'adozione del libero scambio, nel primo ventennio unitario, favori in qualche modo l'agricoltura meridionale promuovendo l'espansione del settore delle colture pregiate rivolte all'espansione (vite, agrumi, olivo, ecc.). Ma questi ri-

sultati rimanevano limitati per la complessiva permanenza di rapporti agrari e sociali pi arretrati. Lo stesso processo di appropriazione borghese della propriet fondiaria meridionale, messo in moto dalla vendita del milione di ettari di terre demaniali ed ecclesiastiche, non comport la diffusione del modo di produzione capitalistico nelle campagne del Sud. Accanto alla scarsa propensione capitalistica della borghesia terriera meridionale va peraltro sottolineata la difficolt di reperire ulteriori mezzi finanziari per investimenti diretti alla trasformazione agricola, dopo le forti spese sostenute per l'acquisto delle terre demaniali ed ec, clesiastiche dallo Stato, che in tal modo, si disse, aveva finito per "drenare" la gran parte della massa monetaria esistente al Sud. b) Problemi politici e sociali: il brigantaggio. L'unificazione portava anche gravi problemi politici determinati prima dallo scontro tra garibaldini e cavouriani e quindi dallo scioglimento dell'esercito meridionale e dall'eliminazione degli elementi democratici di nomina garibaldina. Insieme a questo progressivo distacco dalla piccola borghesia provinciale, le luogotenenze generali per il Mezzogiorno finirono per isolarsi anche rispetto all'alta borghesia e aristocrazia cittadina di orientamento autonomista, e in parte borbonizzante. La nomina nel Consiglio di luogotenenza di eminenti liberali, gi esiliati dai Borboni (Spaventa, Bonghi, Pisanelli, Scialoja) fin per accentuare questo distacco tra il governo centrale e la societ meridionale. E fu proprio il prorompere, gi nei primi mesi dell'unit, di una questione delle province meridionali che fren un possibile progetto di organizzazione dello Stato secondo i principi del decentramento amministrativo e favor lo sviluppo di forme particolarmente accentrate sul piano istituzionale e di carattere sostanzialmente oligarchico sul terreno dei rapporti politici. Intanto la disperata condizione delle masse contadine esplodeva, a pochi mesi dall'unit, nel vasto moto sociale del "brigantaggio" che, in forme di diffusa guerriglia, scnvolse le province meridionali per un lungo quinquennio. Espressione della profonda crisi della societ meridionale, acuita sul piano politico dal crollo del regime borbonico ed esasperata da una delle ricorrenti crisi economiche che, per la scarsit del raccolto, inaspriva ulteriormente il carovita, la pur violenta rivolta dei contadini meridionali si configurava come un esteso movimento di massa alimentato dalla profonda solidariet della gran parte della popolazione rurale. La caduta delle illusioni legate ai primi momenti dell'avanzata garibaldina e la miope politica del governo moderato, che puntava tutto sul rafforzamento della propriet terriera e niente aveva da promettere ai contadini, contribuivano decisamente ad aggravare una situazione sociale gi resa precaria dallo sbandamento delle truppe borboniche e dalla renitenza di massa alla nuova leva obbligatoria. Questa forma estrema di protesta sociale contro il perpetuarsi di un antico sfruttamento era peraltro usata e stimolata sul piano politico dalle ambizioni restauratrici del sovrano spodestato, dagli interessi temporali del governo pontificio e dalla propaganda reazionaria del clero meridionale colpito dai decreti di soppressione degli ordini religiosi. Il legittimismo borbonico - fondato in quegli anni su alcuni appoggi e connivenze internazionali, dell'Austria innanzitutto, ma

anche della Francia - e una credenza religiosa sconfinante per lo pi nella superstizione e nel misoneismo costituivano l'ideologia che stava dietro e dava forza e fiducia alla lotta dei briganti. Ma non bastano a spiegare il carattere di massa che assunsero presto le insorgenze contadine, la diffusa solidariet e il lungo persistere nonostante la repressione organizzata dall'esercito italiano, impegnato duramente per circa la met dei suoi effettivi, sulla base di una legge speciale che sanciva lo stato d'assedio e sospendeva le libert costituzionali, in una guerra che produsse pi morti di tutte le precedenti battaglie risorgimentali. Anche il brigantaggio non pu essere compreso se non in relazione al problema fondamentale del Mezzogiorno: il problema della terra e del rapporto precario che con essa avevano le masse contadine. In questo senso coglieva nel segno Giustino Fortunato quando vedeva nel brigantaggio "l'ultimo atto" della questione demaniale, da intendere, per, non tanto nel suo carattere particolare, quanto piuttosto come momento rappresentativo della pi generale questione agraria del Sud. Ben oltre le continue usurpazioni della propriet terriera, prima aristocratica e poi borghese, e le deluse aspettative di ripartizione delle quote demaniali tra i contadini, che il regime unitario si guardava bene dall'affrontare in modo nuovo, il centro del problema rimaneva l'ordinamento della propriet, che restava quasi immutato nel passaggio dalla feudalit alla borghesia, e continuava ad escludere le masse contadine da un rapporto pi stabile con la terra. Il brigantaggio - riconoscer qualche anno pi tardi Pasquale Villari - "pu dirsi la conseguenza di una questione agraria e sociale, che travaglia quasi tutte le province meridionali". c) L'ex-capitale. Accanto e all'interno della questione meridionale nasceva con l'unit, la questione di Napoli: non pi capitale, citt regia, sede di numerosissima burocrazia, forti dislocamenti militari, diffuse presenze diplomatiche, fastosa vita di corte. L'apparente opulenza di Napoli capitale era fondata sullo sfruttamento bestiale delle masse contadine delle province. Luogo di residenza della maggiore aristocrazia fondiaria, Napoli era abituata ad assorbire e consumare nelle spese di rappresentanza di questa classe le risorse prodotte dalle province. Con l'unit inizi il lento processo di trasformazione in citt borghese che rimase a mezz'aria per la difficolt di riuscire a caratterizzarsi come centro regionale capace d'irradiare iniziative economiche e culturali sulla nuova scala territoriale, come gi stava accadendo per Milano e Torino, Genova e Firenze. "Prima del 1860 - avrebbe scritto Nitti - Napoli era dunque la pi grande citt di consumo d'Italia. Anche altre citt erano capitali: ma erano capitali di piccoli regni e, tranne Roma e, limitatamente, Venezia, rappresentavano centri di piccola importanza. Cos quando Firenze, Torino, Modena, Parma, ecc., cessarono di essere capitali pochissimo danno risentirono: Napoli risent danno enorme." Con quasi mezzo milione di abitanti, Napoli era ancora la pi popolosa citt d'Italia e la quinta d'Europa (dopo Londra, Parigi, Vienna e Pietroburgo). Ma questa eccessiva popolazione si era addensata nei secoli per sfuggire alle imposizioni fiscali e godere delle elargizioni sovrane e aristo-

cratiche, e solo in parte svolgeva direttamente quelle funzioni di servizio in cui risultava occupato, nella prima met dell'Ottocento, circa un quarto di tutta la popolazione attiva professionalmente nella capitale. La fondamentale contraddizione tra le enormi dimensioni fisiche e le scarse strutture produttive sarebbe esplosa, dopo l'unit, con l'emergere in piena luce della miseria dilagante gi intorno alle splendide dimore aristocratiche. I bassi malsani, i fondaci sudici, le luride spelonche descritte da Villari e da Mastriani avrebbero offerto un quadro ben diverso da quello che s'era abituati a godere dalle "ville di delizie" situate nell'ancor verde collina di Posillipo. La decadenza dell'ex-capitale era quindi accentuata dalla progressiva emancipazione delle province meridionali, che s'andavano orientando su diverse direttrici di espansione e di scambi economici. Lo sviluppo delle comunicazioni ferroviarie e stradali sull'asse Nord-Sud porter le citt meridionali a gravitare non pi esclusivamente su Napoli, ma verso le citt settentrionali. La rapida costruzione della nuova direttrice adriatica Lecce-Bari-Ancona-Bologna-Milano indirizzer, longitudinalmente, verso il Nord gli interessi della ricca agricoltura pugliese, da secoli tributaria del mercato napoletano. Ben pi lenta sarebbe stata la costruzione della linea ferroviaria trasversale al Mezzogiorno che potesse servire a rilanciare i rapporti di scambio interni all'economia meridionale, come denunciava la pubblicistica napoletana dell'epoca fortemente colpita dalle mutate condizioni del mercato nazionale. L'inarrestabile declino della splendente capitale produrr il decadente mito della napoletanit, travestimento ideologico della svelata improduttivit parassitaria della grande citt; espressione di ceti aristocratici e borghesi strutturalmente disgregati e subalterni, storicamente in. capaci di aggregazione e di egemonia politica; lenimento di intellettuali e poeti con lo sguardo rivolto nostalgicamente al passato, timorosi del presente e, ancor pi, del futuro. *3. Nascita del meridionalismo. Lo stato italiano, formato dall'unione di due formazioni economico-sociali con gradi qualitativamente diversi di sviluppo, si mostra fin dal principio incapace di esercitare un'azione di forte egemonia anche nella parte meridiona! le del paese. Per il Mezzogiorno valgono, invece, gli strumenti del dominio politico e della repressione sociale Inaugurati dalla direzione oligarchica delle luogotenenze dalla lotta armata al brigantaggio. Ma gli anni Settanta dell'Ottocento si aprono coi fiammanti bagliori delle Comune di Parigi, che rilancia in Europa lo "spettro" del socialismo e rende i pi sensibili tra gli intellettuali borghesi timorosi di nuove fiammate sociali e preoccupati di cercare strade diverse dal binomio oppressione-repressione. I modelli della liberale Inghilterra vittoriana e dell'autoritaria Germania bismarckiana, che percorrono entrambe la strada delle riforme sociali, appaiono la terza via tra socialismo e reazione, indirizzano verso una societ fondata non sul dominio repressivo ma su un largo consenso di massa allo Stato liberale e borghese. a) I modelli egemonici di Villari. Dopo l'attentato di Passannante al re Umberto, Pasquale Villari - antico allievo di De Sanctis e ora storico positivista

a Firenze, con lo sguardo volto alle pi avanzate esperienze europee - sottolineava come "necessaria una cosa: che la classe la quale ha adesso in mano la forza, si persuada che essa deve governare a vantaggio non solo proprio, ma anche degli altri, assai pi che non ha fatto finora. Se vuole conservarsi i mezzi di dirigere e moderare il movimento, cui non potr opporsi alla lunga, necessario che si preoccupi molto degli interessi diversi dai suoi...' Era la strada dell'egemonia, del pi avanzato livello di direzione borghese, che proponeva di applicare anche al caso italiano la formula inglese del "riformare per conservare. L'ampliamento delle esigue basi di consenso alle istituzioni fondate dal liberalismo italiano passava innanzitutto per il Mezzogiorno, per la trasformazione delle condizioni delle sue masse contadine, per la completa rimozione dei funesti ricordi della recente, feroce guerra per bande. In tal senso le Lettere meridionali, inviate nel marzo del 1875 da Pasquale Villari al giornale moderato L'Opi. nione, segnano la nascita del meridionalismo liberale,, - ' . l'inizio della riflessione critica sulle condizioni del Mezzogiorno all'interno dello Stato italiano. L'analisi della societ meridionale dopo l'unificazione, guardata soprattutto nel rapporto tra le nuove istituzioni e le masse, rappresenta una realt drammatica indagata coraggiosamente nelle piaghe della camorra, la mafia, il brigantaggio. Ne vengono fuori un Mezzogiorno e una Napoli completamente diverse dall'oleografia tradizionale: brutali rapporti di classe invece che plaghe feraci e ridenti, non ville di delizie ma fondaci, bassi e grotte "in cui vivono ammonticchiate parecchie migliaia di persone, talmente avvilite dalla miseria che somigliano pi a bruti che ad uomini." L'acuta spregiudicatezza dell'indagine si accompagna per ad una insoddisfacente genericit dei rimedi, che rimanevano auspici destinati a rimanere inattuati per la strada diversa imboccata dallo sviluppo capitalistico del paese e per la totale impermeabilit della borghesia meridionale a qualsiasi idea di riforma dei rapporti di classe nella societ da essa dominata. Primo meridionalista, sar Villari l'iniziatore di quella corrente culturale e politica che porr, in tempi e forme diverse, il Mezzogiorno al centro della propria riflessione e soprattutto al centro della politica nazionale. Il Mezzogiorno, quindi, come questione nazionale, come luogo centrale dove precipitano ed emergono nelle forme pi drammatiche le contraddizioni e i limiti del processo di unificazione nazionale. Limite fondamentale di Villari appare la sostanziale incomprensione del complessivo processo di sviluppo capitalistico, gi da tempo avviato nel paese, e dell'importanza crescente che andava assumendo il problema dell'industrializzazione. Ancora vivo, peraltro, rimane il valore di una spietata denuncia che, proponendosi la formazione di una classe dirigente borghese pi sensibile alla "questione sociale", colpiva alla radice il carattere conservatore del rapporto instauratosi tra lo Stato e il Mezzogiorno, lasciato e aggravato nella tradizionale condizione di arretratezza economica, sociale e civile. "Il- governo costituzionale - affermava Villari - in sostanza il regno della borghesia. La classe dei proprietari, in mancanza d'altro, divenne la classe governante, e i municipi, le province, le opere pie, la polizia rurale furono

nelle sue mani. Chi circnda il prefetto, chi illumina i ministri, su chi si appoggiano essi col? E se il dominio che quella classe esercitava era dispotico, e se esso restato illimitato, senza alcun nuovo freno, ma con l'aggiunta di nuove forze, quali debbono esserne le conseguenze?". b) Le analisi strutturali di Franchetti e Sonnino. Una fase pi avanzata nell'analisi della realt economicosociale del Mezzogiorno costituita dalla Inchiesta in Sicilia compiuta nel 1876 dagli intellettuali e proprietari toscani Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, che l'anno precedente avevno pubblicato, rispettivamente, un lavoro sulle Condizioni economiche ed amministrative delle Provincie Napoletane e un saggio sulla Mezzeria in Toscana. Comune al Villari il timore di un dilagare del socialismo e quindi la convinzione della necessit di porre un solido argine, rafforzando i rapporti tra le masse contadine e l'organizzazione dello Stato liberale. Comune a tutta la tradizione del meridionalismo conservatore e liberale anche la concezione unitaria della questione meridionale, considerata come problema nazionale, strettamente connesso ai modi dell'unificazione del successivo sviluppo economico e sociale del paese, e non isolabile come particolare aspetto di arretratezza in un contesto nazionale che trovava sue forme di espansione e di progresso. L'originalit dell'approccio di Franchetti e, soprattutto, di Sonnino ai problemi del Sud consiste nella preminente attenzione ai caratteri basilari della struttura economica, nella centralit dei rapporti di propriet e di produzione all'interno di un'acuta indagine della societ meridionale e, in particolare, siciliana. Dall'inchiesta siciliana vengono in piena luce i caratteri fondamentali dell'ordinamento fondiario, i particolari rapporti di classe che vedono la societ ancora sostanzialmente dominata dalla grande propriet latifondistica di origine feudale, che mantiene i tradizionali rapporti di produzione, rendendo difficile qualsiasi processo di trasformazione dell'agricoltura in senso moderno. Infatti, sottolineava Sonnino, "l'abolizione di diritto del sistema feudale non produsse nessuna rivoluzione sociale, appunto perch i feudi furono lasciati in libera propriet agli antichi Baroni: onde al legame tra il coltivatore e il suolo che prima era costituito dalla stessa servit feudale, non si sostitu come altrove l'altro vincolo della propriet, ma invece quel legame fu semplicemente rotto, e il contadino si trov libero in diritto, senza doveri ma anche senza diritti, e quindi ridotto di fatto a maggiore schiavit di prima per effetto della propria miseria." L'indicazione che ne scaturiva era quindi nel senso di una modifica, di una riforma dei patti agrari, che riscisse a dar una soluzione pi moderna, e quindi pi giusta ma anche pi efficiente, all'essenziale problema dei rapporti tra proprietari _contadini. Il modello sonniniano erala mezadria toscana, coi suoi caratteri di tradizionalismo produttivo e di paternalismo sociale; ma le proposte concrete per l'agricoltura siciliana erano ancora pi limitate e particolari, riducendosi a colpire le forme pi gravi di usura e le clausole pi vessatorie dei contratti agrari. Comunque l'intera impostazione dell'inchiesta fu pesantemente criticata dalla grande propriet siciliana, che meglio si riconosceva nelle conclusioni tratte da una coeva Giunta

parlamentare d'inchiesta, secondo la quale "le ossa di quella razza robusta e vivace, non erano rose, malgrado le avversit del passato, n da una questione politica n da una questione sociale ". Il rifiuto globale degli agrari meridionali di porre in discussion lo stato dei rapporti sociali nelle campagne fu espresso quindi da Antonio S, per il quale le difficolt dell'agricoltura meridionale dipendevano esclusivamente dalla mancanza di capitali, e pertanto l'unica possibilit di soluzione era nella "massima accumulazione del capitale", nell'ulteriore rafforzamento del potere economico della borghesia terriera. Questa linea di intransigente resistenza della propriet meridionale sulle posizioni pi tradizionali si sarebbe dimostrata vincente lungo tutta la storia del regno d'Italia, nel periodo liberale come nel regime fascista, configurandosi come elemento essenziale, pur se subalterno proprio per la sua arretratezza, del blocco di potere che, nell'egemonia del capitale pi avanzato, dirigeva la politica del paese. Su questa linea si sarebbero ritrovati in definitiva il conservatorismo gretto degli agrari meridionali e il riformismo conservatore di Franchetti e di Sonnino nei momenti decisivi di scelta politica, quando le esigenze della conservazione e della reazione diventavano preminenti. La direzione oligarchica dello Stato liberale si fondava egualmente sul conservatorismo di Sonnino come della propriet meridionale, bench il primo - aristocratico e colto proprietario toscano abituato a "paterni" rapporti con i suoi contadini - mostrasse di disdegnare i sistemi violentemente oppressivi della classe dominante nel Sud. Ma questo atteggiamento di Sonnino, che pure sintomo di una potenziale articolazione interna al fronte degli agrari, non si concret in conseguenti posizioni politiche che avrebbero incrinato il blocco di forze al potere in Italia. Rimane per l'acutezza di una denuncia che ci tramanda una ricognizione profondamente realistica dello stretto intreccio realizzatosi tra l'autorit dello Stato liberale e l'arbitrio degli agrari nella societ meridionale. "Colle nostre istituzioni - rilevava lucidamente Sonnino - modellate spesso sopra un formalismo liberale anzich informate a un vero spirito di libert, noi abbiamo fornito un mezzo alla classe opprimente per meglio rivestire di forme legali l'oppressione di fatto che gi prima esisteva, coll'accaparrarsi tutti i poteri mediante l'uso e l'abuso della forza che tutta era ed in mano sua; ed ora le prestiamo man forte per assicurarla che a qualunque eccesso spinga la sua oppressione, noi non permetteremo alcuna specie di reazione illegale, mentre di reazione legale non ve ne pu essere, poich la legalit l'ha in mano la classe che domina". c) Il radicale realismo di Fortunato. Pronipote dell'omonimo primo ministro di Ferdinando Il, fratello di uno dei rari imprenditori capitalistici operanti nell'agricoltura meridionale, Giustino Fortunato rappresenta uno dei momenti pi alti sul terreno della direzione politica di pi lungo respiro e della costruzione di una prospettiva egemonica per le province meridionali, costrette da sempre nei confini del mero. dominio. "Se ho avutoscriveva al principio del secolo - per tutta quanta la mia vita, una sola preoccupazione, questa stata di sapere con tutta sincerit, se io avessi o no diritto di dirmi un galantuo-

mo, possedendo terre. Ormai sono tranquillo. Ma tutta la mia vita interiore stata fatta e rifatta da quelle lunghe meditazioni". Fortemente legato alle tradizioni risorgimentali e 'unitario' fino in fondo, fu spinto dalla lettura delle analisi di Villari a collaborare alla Rassegna settimanale,l'importante rivista di Sonnino e Franchetti apparsa a Firenze nel 1878, con una serie di corrispondenze dal Mezzogiorno. I suoi scritti segnano un momento decisivo nella conoscenza della realt economico-sociale del Meridione, interamente percorso "lungo l'Appennino, dagli Abruzzi alla Calabria, pedestremente". Carattere essenziale della sua indagine il forte realismo di stampo positivistico, attento a considerare innanzitutto l'ambiente naturale, e quindi la terra: la particolare composizione del suolo, l'influenza del clima, l configurazione topografica, la collocazione geografica. Il costante rilievo attribuito agli aspetti tipici della "inferiorit" del Meridione era destinato a controbattere le correnti opinioni di una presente opulenza del Sud: le terre aride e montuose della lunga dorsale appenninica erano cosi visitate e descritte in contrapposizione alle "splendide riviere di Napoli e Palermo, i fiorenti litorali di Bari e di Catania". Non si trattava quindi di mero naturalismo deterministico, perch ben presente in Fortunato era una cospicua dose di realismo storico, che si esprimeva nell'attenzione sempre portata alla condizione degli uomini, ai rapporti di classe, alla struttura economica che definivano, ben oltre i pur condizionanti fattori naturali, i caratteri della societ meridionale. Significativo di un approccio metodologico di stampo economico-sociale era, ad esempio, il rapido schizzo di questa societ intorno al 1860: essa viveva di una economia primitiva, in cui quasi non esisteva la divisione del lavoro, e gli scambi erano ridotti al minimo: si lavorava pi spesso per il proprio sostentamento, anzich produrre valori di scambio e procurarsi, con la vendita dei prodotti, quello di cui si aveva bisogno. In moltissimi comuni ben pi della met della popolazione non mangiava mai pane di grano, e "i contadini vivevano lavorando come bruti", poi che il sostentamento di ognun di loro costava meno del mantenimento di un asino': questo ha lasciato scritto Ludovico Bianchini, uno dei ministri di Ferdinando Il." Una diversit profonda isolava nel Mezzogiorno ottonovecentesco quei rari rappresentanti di un borghesia imprenditrice e colta, che si mostrava capace di porsi sul terreno del pi avanzato sviluppo produttivo e di una direzione politica tendente ad ottenere il consenso delle masse attraverso forme di egemonia e non di mero dominio. E per questa sua capacit di prospettiva pi alta Fortunato, non per caso con Croce, ebbe a meritarsi il giudizio gramscin di "pi operoso reazionario"; non certo nel senso inappropriato e banale di retrivo ma in quello ben pi pregnante di maggiore avversario di una radicale trasformazione socialista della societ italiana. Durissimi furono, quindi, i giudizi sempre espressi dall'intellettuale lucano sulla borghesia terriera meridionale e sulla borghesia urbana napoletana. Nelle campagne era "l'unica classe dominante, dalla quale provengono i guai mggiori che hanno afflitto i nostri contadini: la gravezza dei patti agrari, il socialismo alla rovescia delle imposte

comunali, lo sperpero dei beni demaniali e delle vendite delle opere pie; insomma i soprusi e le angherie". A Napo; li, poi, "nella grande maggioranza degli onesti immutata la tendenza alla noncuranza di tutto e di tutti; fiacca, disgregata, indifferente, pettegola sospettosa; vuol vivere in pace, oziosamente, di rendite; non ha fede n carattere, non ha sdegno n amori; rifugge tuttora dagli obblighi di coltura e socievolezza, imposti dai nuovi ordini politici." Il nuovo ordine politico, appunto, lo stato unitario e liberale, con il "buongoverno", avrebbe dovuto realizzre, posto com'era ritenuto al di sopra delle classi, questo compito fondamentale di rinnovamento della societ italiana e, particolarmente, meridionale. Questo, nello scorcio dell'Ottocento, fu vero per Fortunato e per gli altri rappresentanti di quell'ala riformista del meridionalismo liberalconservatore, che alle masse contadine guard sempre come oggetto e non possibile soggetto di storia: da considerare con paterno affetto e da redimere dall'abiezione delle condizioni materiali di vita, ma ritenute ancora incapaci di poter pensare e operare da s Ma questo Stato si sarebbe presto dimostrato incapace di modificare la realt meridionale con l'orientare l'intera politica nazionale su un diverso asse; per il quale obiettivo sembrava sufficiente e possibile al Fortunato impostare una nuova politica economica nei diversi settori fIscale, commerciale e finanziario. Anzi nel nuovo secolo, proprio quando sembrava aprirsi una diversa fase politica con caratteri pi liberali della precedente,l'intervento dello Stato nel Mezzogiorno avrebbe assunto la forma della legislazione speciale, che Fortunato contrast sempre ritenendola errata e insufficiente ad avviare a soluzione le profonde difficolt delle regioni meridionali. Cadeva cos, definitivamente, il "mito" dello Stato; e avrebbe riconosciuto Fortunato, "assai penoso mi stato il dovermi convincere, che quello era un sogno e nulla pi". Scomparsa questa ultima illusione, al liberalismo politico dell'intellettuale lucano rimaneva soltanto la fede nel liberismo economico. Ma se la prospettiva economica per il Sud veniva individuata in uno sviluppo moderno dell'agricoltura fondato sulle colture intensive e la zootecnia e sulla riduzione della cerealicoltura estensiVa, la prospettiva politica era molto pi incerta dopo il fallimento della politica statale e la riconosciuta ben scarsa tendenza della borghesia meridionale alla iniziativa imprenditoriale. Alla disillusa stanchezza dei primi anni del secolo subentr, a,cavallo del primo decennio, una rinnovata capacit d'iniziativa e di organizzazione dell'impegnO meridionalista. L'incontro con SalveMini, nell'iniziativa di fondare la nuova rivista L 'Unit, ridiede slancio ad una delle migliori qualit di Fortunato: la capacit di aggregazione e organizzazione culturale, dimostratasi ora nell'organizzazione della fitta rete di autorevoli corrispondenti della rivista dalle province meridionali. Le drammatiche vicende della guerra mondiale avrebbero finito per esacerbare il naturale pessimismo dell'ormai anziano intellettuale, fermamente neutralista. Ma il pessimismo e il moralismo gli sarebbero serviti, qualche anno dopo, a rimanere tra i pochissimi della vecchia classe dirigente liberale ad opporsi immediatamente al fascismo che andava al potere tra il coro entusiasta dei benpensanti

e dei lungimiranti. "Son rimasto letteralmente solo - scriveva il 7 novembre del 22 - in tutta Napoli, posso dire - non dico a dar conto alla inimmaginabile tragicommedia avvenuta - ma a deplorare, che noi si fosse cosi gi da doverla spiegare, se non addirittura giustificare. E quante bassezze quante vilt, quante sconcezze! Questo il frutto della novella Italia?". *4. Il Mezzogiorno tra crisi agraria e svolta protezionista. Nel primo ventennio unitario il divario strutturale tra il Nord e il Sud del paese non si era particolarmente aggravato perch l'agricoltura meridionale, seppur lentamente, aveva visto progredire la sua produzione sul piano quantitativo, qualitativo e degli scambi internazionali. Forti limiti erano rimasti nell'arretratezza dei rapporti sociali e nella deficienza degli investimenti; aggravati dalla vendita dei beni ecclesiastici e demaniali, che aveva contemporaneamente rastrellato tutti i potenziali capitali del Sud e concentrato la propriet terriera nelle mani di una grande e media borghesia largamente assenteista. D'altra parte l'industria non aveva ancora un ruolo molto importante nell'economia italiana e le differenze tr le de parti del paese non erano, peraltro, molto pronunciate in questo settore. Dopo le prime, gravi difficolt l'indstria meridionale, specie quella tessile, aveva mostrato una buona capacit di ripresa, che si fondava contemporaneamente s una moderna tecnologia e sulla pratica dei bassi salari. Saranno gli anni Ottanta a costituire un fondamentale

momento di passaggio nella definizione del ruolo che al Mezzogiorno spetter nel processo dello sviluppo capitalistico italiano. La crisi agraria, che in questo periodo si svolge a livello europeo un aspetto della pi generale "grande depressione" degli anni 1873 - 1896 e trae origine della forte caduta dei prezzi agricoli, che in Italia calano dall'indice 1 nel 1877 all'indice 98 dieci anni dopo. E' questa una conseguenza, ritardata nel nostro paese,dell'avvenuta unificazione del mercato mondiale, resa possibile dalla discesa dei costi di trasporto per lo sviluppo delle comunicazioni ferroviarie e della navigazione a vapore. Accade cos che il grano prodotto nelle vastissime pianure americane, messe a coltura per la prima volta, con impiego minimo di capitali e mano d'opera, invade i mercati europei determinando il crollo dei prezzi dei cereali e di molte altre derrate. In Italia la crisi dell'agricoltura acquista un significato particolare perch colpisce la struttura economica del paese in un delicato momento di transizione dal tradizionale predominio del settore primario ad un nuovo equilibrio segnato dalla formazione e dall'espansione di un moderno settore industriale. La scarsa produttivit dell'investimento di capitali nell'agricoltura render inattuabili le proposte del senatore Jacini, capitalista agrario lombardo, presidente della Giunta parlamentare per la Inchiesta agraria, che, nella relazione conclusiva del 1884, indicava una linea di sviluppo capitalistico per l'agricoltura italiana, fondata sulle bonifiche,l'irrigazione, la produzione di foraggi e le colture intensive. La crisi favorir invece il trasferimento di capitali dall'agricoltura alle speculazioni finanziarie e all'industria, la cui espansione verr fondata quindi sulla tariffa del 1887, che allineer l'Italia alla tendenza mondiale verso il protezionismo e l'imperialismo. Le trasformazioni strutturali avviate negli anni Ottanta, con la riduzione del ruolo centrale e predominante tenuto finora dall'agricoltura e con la crescita di un settore industriale moderno, segneranno profondamente e positivamente i caratteri della societ italiana che s'incamminer decisamente sulla strada della trasformazione industriale, grazie proprio all'introduzione del protezionismo e al ruolo proplsivo svolto, sul finire del secolo, da altri fattori come le grandi banche d'investimento. Questo processo d'industrializzazione si sarebbe quindi concentrato in quelle aree del Settentrione caratterizzate dai pi avanzati rapporti di produzione capitalistici nell'agricoltura e nella societ e avvantaggiate dai pi facili e frequenti contatti con i mercati europei pi sviluppati. I dazi elevati a sostegno dell'industria, tessile e siderurgica soprattutto, trovavano peraltro riscontro nel dazio sul grano, che serviva a fare uscire dalla crisi una parte dell'agricoltura italiana: la cerealicoltura capitalistica diffusa nel Nord e la propriet meridionale, per lo pi assenteista, che produceva grano per il mercato. Grandi vittime del protezionismo furono le colture di esportazione e soprattutto la viticoltura, che si era diffusa, nelle Puglie specialmente durante gli anni della crisi agraria e in connessione con la forte domanda del mercato francese. Il blocco dell'esportazione del vino, per la "guerra doganale" con la Francia, e in genere delle colture pregiate, specie prodotti ortofrutticoli, seguiva cosi la crisi dell'olivicoltura, colpita negli anni

precedenti dal forte calo del prezzo dell'olio, e apriva un periodo di grandi difficolt per tutto il settore pi moderno dell'agricoltura meridionale. Pi complessi problemi suscitava quindi la soluzione protezionistica per l'agricoltura, dove questa scelta non aveva effetti soltanto propulsivi, come nell'industria, ma si limitava a fornire la strada pi semplice per uscire dalla crisi, tutelando la produzione cerealicola sia dell aziende capitalistiche del Nord, che traevano dal dazio il maggior profitto, sia , della propriet assenteista meridionale, che sul dazio fondava la sua sopravvivenza economica e il rafforzamento del suo potere nella societ. La scelta doganale, in effetti, non era stata sollecitata dai rappresentanti del capitalismo agrario che richiedevano in= vece, come emergeva dlle conclusioni della Inchiesta Agraria e dai dibattiti parlamentari, una politica di investimenti e di crediti per le trasformazioni colturali, e nel dazio vedevano un ostacolo per il pieno dispiegarsi delle forze produttive e un elemento di aggravio dei costi di produzione, essendo i salari nominali strettamente connessi al prezzo del grano. I ceti pi avanzati dell'agricoltura italiana - agrari capitalisti e grandi affittuari - puntavano a una diversa soluzione della crisi, fondata su sgravi fiscali e riduzione dei salari nominali; mentre l'orientamento dei riformisti conservatori alla Sonnino era, anche in questa occasione, di rafforzare complessivamente il mondo delle campagne - come base di massa dello Stato liberale e come centro d'influenza e potere politico - accompagnando misure di sostegno per gli agrari con una riforma dei contratti a favore dei contadini. La soluzione adottata costituiva cos un compromesso tra la prospettiva di modernizzazione collegata allo sviluppo industriale concentrato al Nord e la scelta di continuit per le strutture pi arretrate dell'agricoltura meridionale. La tariffa protezionistica si definiva in tal modo come stimolo all'industrializzazione settentrionale e come estrema difesa dell'ordinamento prevalentemente latifondistico e della conduzione prevalentemnte assenteista dell'agricoltura meridionale. Cos lo sviluppo industriale del Nord si fondava sulla persistente arretratezza del Sud, e i caratteri del primo processo non potevano non risentire del peso del secondo fenomeno. Il rafforzamento della propriet terriera e la stasi del tradizionale assetto nelle campagne era dunque il corrispettivo nel Sud dell'accelerata espansione capitalistica nell'industria e nell'agricoltura settentrionale. Il processo di sviluppo capitalistico, che avrebbe progressivamente trasformato l'Italia in un paese definito da una moderna industrializzazione assumeva quindi, fin dal principio, caratteri che non avrebbe pi sostanzialmente mutati. Erano caratteri che accostavano il rapido sviluppo alla permanente arretratezza che, legata ormai in vario modo l processo trainante, assumeva la forma del sottosviluppo capitalistico. Si trattava di un,processo dinamico che legava in uno stretto rapporto di interdipendenza le aree avanzate e le aree arretrate del paese. Pi che di riStagno si tratta ora di una diversa velocit che tende sempre pi ad allontanare le due fondamentali aree del paese. S'intrecciano in questi anni scelte di politica economica e schieramenti sociali che troveranno un equilibrio in quel complesso di forze che gi la polemica liberista di fine secolo definiva "blocco industriale=agrario". Era questa una

schematizzazione utile per comprendere la risultante di un processo complesso e di forma pi varia nei particolari, ma che sarebbe durato a lungo. Un processo di sviluppo storico del nostro paese diretto appunto dalle pi avanzate forze del capitalismo agrario e industriale del Nord alleate con le rappresentanze meridionali della propriet terriera assenteista. Alle prime andava la direzione politica dello Stato e la guida economica dello sviluppo capitalistico; alle seconde rimaneva la garanzia della sopravvivenza negli arretrati equilibri di una societ meridionale congelata nelle precise regole del dominio, sociale e politico. E' dagli anni Ottanta che il divario tra Nord e Sud non cesser pi di accrescersi. Lo sviluppo industriale nell'rea settentrionale sar legato da uno stretto rapporto di mterdipendenza al particolare sottosviluppo del Mezzogiorno; che insieme assumeranno quelle forme proprie del modello italiano di sviluppo capitalistico: intreccio di vecchio e nuovo, avanzato e arretrato, moderno e tradizionale, produttivo e parassitario. La secolare storia successiva confermer, pur attraverso notevoli trasformazioni, la correlazione tra i rapidi processi di industrializzazione e di sviluppo del Nord e l'avanzamento molto pi lento e contorto del Mezzogiorno sulla strada dell'espansione e della modernit. L'interdipendenza contraddittoria e squilibrata tra le due parti del paese sar la costnte fondamentale della storia dell'Italia unita e del suo particolare modo di sviluppo. Noter con acutezza, nel carcere fascista, Antonio Gramsci: "L'egemonia del Nord sarebbe stata "normale" e storicamente benefica, se l'industrialismo avesse avuto la capacit di ampliare con un certo ritmo i suoi quadri per incorporare sempre nuove zone economiche assimilate. Sarebbe allora stata questa egemonia l'espressione di una lotta tra il vecchio e il nuovo, tra il progressivo e l'arretrato, tra il pi produttivo e il meno produttivo; si sarebbe avuta una rivoluzione economica di carattere nazionale (e di ampiezza nazionale) anche se il suo motore fosse stato temporaneamente e funzionalmente regionale. Tutte le forze economiche sarebbero state stimolate e al contrasto sarebbe successa una superiore unit. Ma invece non fu cos. L'egemonia si present come permanente; il contrasto si present come una condizione storica necessria per un tempo indeterminato e quindi apparentemente "perpetua" per l'esistenza di una industria settentrionale." *5. Il meridionalismo di fne secolo.. a) La polemica antirazzista di Colajanni e i Fasci siciliani. Verso la fine del secolo ebbe larga diffusione una tesi che legava l'inferiorit del Mezzogiorno ai particolari caratteri razziali che avrebbero contraddistinto le popolazioni del Sud. Sostenitori di questa interpretazione in chiave razzista della questione meridionale furono i rappresentanti della scuola antropologica (Lombroso, Ferri, Niceforo, Orano, Sergi), ch a questa attivit "scientifica" accompagnavano anche una, pi o meno, intensa milizia politica di tendenza socialista. In tal modo la convinzione di un Nord razzialmente superiore e di un Sud inferiore trovava largo seguito oltre che nella borghesia anche nel proletariato settentrionale, contribuendo ad approfondire il fossato tra le forze lavoratrici del Nord e le masse contadine del Sud. Un autorevole esponnte del socialismo padano, in fama quasi di apostolo

nelle sue contrade, Prampolini, poteva cosi coniare l'infelice formula di un'Italia divisa tra "nordici e "sudici". E in definitiva, com'ebbe a denunciare in seguito Gramsci, "il partito socialista fu in gran parte il veicolo di questa ideologia borghese nel proletariato settentrionale"; col risultato di rafforzare le basi ideologiche del dominio della borghesia settentrionale e di giustificare "scientificamente" lo sfruttamento delle masse contadine del Sud. Contro questa deleteria impostazione insorsero i pi rappresentativi esponenti della democrazia e del socialismo meridionale. Esemplare rimane un passo di Salvemini che coglieva acutamente l'essenza del problema nel momento economico-sociale, e quindi nel rapporto di tipo coloniale che tendeva quasi sempre ad instaurarsi tra zone di sviluppo industriale ed aree agricole all'interno di un organismo economico e politico unitario. "L'Italia meridionale oggi di fronte all'Italia settentrionale, quello che era prima del 1859 il Lombardo-Veneto di fronte agli altri paesi dell'impero austriaco. L'Austria assorbiva imposte dall'Italia e le versava al di l delle Alpi; considerava il Lombardo-Veneto come il mercato naturale delle industrie boeme; con un sistema doganale ferreamente protezionista impediva lo sviluppo industriale dei domini italiani. E i Lombardi erano allora ritenuti fiacchi e privi di iniziativa, ed era ormai ammesso da tutti che il popolo lombardo era "nullo". Cristina Belgioioso pubblicava degli Studi su la storia di lombardia, nei quali cercava di spiegare "il difetto di energia nei Lombardi"; e gli scrittori d'oltralpe spiegavano le condizioni arretrate dell'Italia con l'inferiorit della razza. Non altrimenti oggi degli sciocconi camuffati da antropologi, vanno nel Sud, misurano un centinaio di nasi, contano le rughe dei polpastrelli delle dita destre, studiano le forme dei coccigi e ne ricavano la inferiorit della razza meridionale di fronte alla settentrionale. La Lombardia, messa in condizioni favorevoli, ha fatto stupire il mondo per i suoi progressi; lo stesso sar del Mezzogiorno, appena le condizioni generali del paese si saranno cambiate in meglio". Primo fra tutti, Napoleone.Colajanni aveva rigettato la tesi antropologica della razza come "causa unica" dell'arretratezza meridionale, e nel saggio intitolato significativamente Per la razza maledetta aveva indicato la realt dello sfruttamento sociale che stava dietro l'apparenza "scientifica" del razzismo antropologico. "Coloro che vogliono trovare un'elevata giustificazione al brigantaggio collettivo, cio alla politica coloniale, parlano con grande sicumera delle razze inferiori e delle razze superiori, proprio come i Rapagnetta d'Annunzio parlano dei superuomini, che hanno il diritto di vivere e scialare alle spalle del gregge vile dei lavoratori". Di formazione positivista, democratico di ascendenza mazziniana e cattaneiana, il deputato siciliano f deciso sostenitore del protezionismo, ritenuto essenziale per la trasformazione industriale del paese, che gli apparivain accesa polemica col de Viti de Marco - obiettivo centrale di sviluppo, quasi raggiunto nel primo decennio del secolo, periodo di "prodigioso risveglio economico". Unico meridionalista protezionista, Colajanni espresse posizioni molto avanzate sul ruolo dello Stato e della spesa pubblica ai fini dell'accelerazione di un processo di sviluppo fondato sulla espansione industriale. Sostenne posizioni molto aspre contro la politica del

governo e della corona in fondamentali momenti di svolta politica, come la crisi di fine secolo e la lotta dei Fasci siciliani. Di questo vasto movimento contadino` Colajanni f tra i primi e i pochi a comprendere e a chiarire il profondo carattere e significato sociale : "La prepotenza feudale, la iniquit sistematica in ogni momento ed in ogni lato della vita e della amministrazione comunale, che si esplicano sotto l'egida delle autorit governative - prefetti, delegati, carabinieri - spiegano pi che sufficientemente come l'odio delle classi lavoratrici contro i galantuomini debba essere profondo e generale, e tanto pi pericolosa la sua esplosione violenta in quanto che lungamente represso e non attenuato da alcuno sfogo nelle vie legali, a loro non consentito dalle stesse leggi, che del diritto elettorale hanno fatto un privilegio di alcune classi". I Fasci dei lavoratori, organizzati dal partito socialista siciliano sorto nel 1893, rappresentavano un vasto movimento di braccianti, mezzadri, piccli proprietari di ttte le provincie siciliane, scesi in lotta per il crescente disagio economico e sociale, aggravato dalla crisi agraria. Alle diffuse agitazioni - fondate sulla richiesta di nuovi patti agrari, rivendicazioni demaniali, esproprio di latifondi, sgravi fiscali e doganali, inchieste sulle amministrazioni comunali - il governo di Crispi rispose con lo stato di assedio e la repressione militare che caus la morte, in vari scontri, di un centinaio di contadini. Seguiranno poi il processo e le dure condanne dei dirigenti socialisti del movimento (Bosco, Barbato, Verro, De Felice). E sullonda del timore della rivoluzione, accresciuto nella borghesia dai moti anarchici della Lunigiana, vennero le leggi eccezionali che portarono tra l'altro, allo scioglimento del Partito socialista dei lavoratori italiani. Peraltro il movimento socialista diffuso nelle regioni settentrionali, a carattere largamente proletario e di connotati ancora fortemente economicistici, non si era mostrato particolarmente aperto a comprendere i caratteri di classe della lotta dei contadini siciliani, liquidata per lo pi come rivolta della fame e forma ricorrente e antica di jacquerie contadina. Tra i pochi che intesero il significato rivoluzionario della lotta di classe espressa dalle masse contadine siciliane furono Antonio Labriola e Anna Kuliscioff, come emerge dalla corrispondenza con F. Engels, e Filippo Turati che aferm con decisione: "La guerra civile scoppiata in Sicilia uno schietto fenomeno della lotta di classe da noi riconosciuta e predica- ; ta..... Guai, dunque, al partito socialista se, appartandosi in un criticismo sistematico e dottrinario quale si conviene alla cattedra e, stando alla finestra in attesa della evoluzionecompiuta, non sapr prendere per tempo il suo posto in mezzo ai ribelli dell'oggi - rivoluzionari di domani". La freddezza e l'incomprensione dimostrata in questa occasione dal proletariato settentrionale verso la lotta dei contadini siciliani va inquadrata peraltro nella generale strategia del movimento socialista internazionale, in cui non si era ancora aperto il dibattito sulla questione agraria e le masse contadine erano ancora lontane dall'essere considerate un alleato della classe operaia. Su questo terreno, anzi, il partito socialista italiano avrebbe avviato presto, nella pianura padana, i primi tentativi di alleanza con le masse bracciantili .

b) Il liberismo di de Viti de Marco. "="= Antonio de Viti de Marco, grande proprietario pugliese di vigneti e gelseti, economista di fede liberista e deputato radicale, fu tra i pi tenaci avversari della politica protezionistica. La svolta del 1887 aveva ridotto, a suo giudizio, il Mezzogiorno ad una sorta di 'mercato coloniale", cui veniva aggravata o impedita sia la possibilit di vendere sul mercato internazionale i prodotti della sua agricoltura intensiva che di acquistare dall'estero manufatti industriali a minor costo. Esponente di una scuola economica - il liberismo - superata dagli svluppi protezionistici del sistema capitalistico, decisamente avviato sulla strada dell'imperialismo, de Viti de Marco legava in modo corretto l'avvio dell'industrializzazione italiana con la definizione del ruolo subalterno attribuito, in questo determinato meccanismo capitalistico, al Mezzogiorno. Ma lo studioso liberista come tutti gli esponenti di questa scuola, da Giretti a Einaudi - si limitava a criticare l'intero processo di industrializzazione, condannato come "artificiale e "patologico" perch non rispondeva ai canoni "classici del liberismo, che non prevedeva alcun tipo d'intervento o sostituzione dello Stato all'iniziativa dei privati. E finiva quindi per prospettare al Mezzogiorno e all'intero paese un futuro di solo sviluppo agricolo: una societ fondata sull'esportazione di derrate agricole e sull'importazione di manufatti industriali. Nella ferrea realt degli scambi internazionali si sarebbe trattato, in definitiva, di scegliere volontariamente la strada del sottosviluppo. Chiaramente eccessivo era quindi il deciso antiindustrialismo di de Viti, mentre appare poco fondata la proposta - comune a tutto il movimento antiprotezionista - di un blocco degli agricoltori esportatori e dei consumatori da sostituire al blocco degli industriali e degli operai del Nord, per invertire la direzione della politica economica italiana. E questo sia per il ruolo subalterno dei proprietari di colture pregiate - che nel Sud de Viti avrebbe invano tentato di unificare al tempo del rinnovo dei trattati commerciali, nei primi anni del secolo - sia, soprattutto, per la tendenza irreversibile del capitale italiano ad intraprendere la strada dell'industrializzazione. Era, invece, opportuna la sottolineatura della stretta connessione tra l'avvio dell'espansione industriale al Nord e l'aggravamento della condizione economico-sociale del Sud. Parziale e insufficiente appariva quindi la richiesta comune a Fortunato e de Viti de Marco - di una nuova politica commerciale e tributaria dello Stato italiano per affrontare e modificare, in modo complessivo, le difficolt

delle regioni meridionali. Ma certamente corretta appariva la considerazione unitaria della questione meridionale come aspetto non casuale ma fondamentale della generale politica dello Stato unitario. "E', secondo me, un errore - avrebbe replicato de Viti al discorso programmatico del presidente Giolitti nel 1903 - di considerare il Mezzogiorno come un paese isolato, di considerare il problema meridionale in se stesso, staccandolo dall'insieme della politica italiana, perch i mali del Mezzogiorno sono anzitutto il risultato della politica generale dello Stato; quindi non posso ada-"giarmi al facile concetto che questi mali vadano studiati

in se stessi, e che possano trovare adeguati rimedi in specifici , regionali". Era la polemica, comune a tutto il fronte liberista contro la politica delle leggi speciali avviata nel nuovo secolo con una serie di provvedimenti, prima a favore di Napoli e della Basilicata e poi di altre regioni ed aree meridionali. Si trattava per lo pi di esecuzione di opere pubbliche, con l'eccezione della legge per lo sviluppo industriale di Napoli che per lo meno, produsse l'impianto siderurgico tecnologicamente all'avanguardia, dell'Ilva di Bagnoli. L'interpretazione politica del significato delle leggi speciali per il Mezzogiorno fu comune a tutta l'ala militante del liberismo radicale e individu il fine ultimo di questo parziale, seppur moderno, intervento dello Stato rivolto piuttosto al controllo politico e sociale dell'area meridionale che non ad un complessivo progetto di trasformazione strutturale. "Una legislazione speciale, diversificata secondo le regioni, - avrebbe scritto de Viti de Marco - e fatta dal potere centrale e da questi regalata ed imposta a quelle, un raffinamento di arte politica per cui si conserva l'accentramento antico e lo si rafforza aggiungendogli un sistema di leggi speciali, che suonano concessioni di favori o minacce di esclusioni, a singole regioni e a singoli gruppi di interessi". c) L'industrialismo di Nitti. Francesco Saverio Nitti, svolse un'intensa e feconda attivit scientifica di ricerca" e di documentazione sulla realt economico-sociale del Mezzogiorno e sul rapporto, giudicato essenziale, di questa realt con l'orientamento della politica economica dello Stato italiano. Sulla base di una valutazione di matrice mercantilistica circa il valore economico della ricchezza in denaro accumulata nel periodo borbonico, il professore di scienza delle finanze poneva quasi la nascita dell'arretratezza meridionale all'atto :dell'unificazione. Il giudizio positivo sul sistema finanzia: rio borbonico, fatto di leggere imposte ma di ancor pi esigua spesa pubblica, faceva velo a Nitti, come gli replicava Fortunato, di cogliere la gi definita arretratezza economica del paese, dimostrata proprio dalla gran quantit di moneta che veniva conservata invece di essere investita in iniziative economiche, e cio trasformata in capitale. Ma il centro della polemica nittiana era nel ribaltamento della tesi di un Settentrione attardato dal peso del Sud e nell'affermazione del sacrificio del Mezzogiorno posto a base dell'espansione del Nord. Dal 1860 ad oggi vi stato un drenaggio continuo di capitali dal Sud al Nord, per opera della politica dello Stato"; e, dal 1887, il Mezzogiorno "ha funzionato come una colonia di consumo e ha permesso lo svolgersi della grande industria del Nord". L'unificazione del debito pubblico; la vendita dei beni demaniali ed ecclesiastici; la collocazione di rendita pubblica; le imposte che gravavano pi sulla terra che sulla ricchezza mobiliare e, con l'imposta sui fabbricati, colpivano addirittura le masse contadine dei grossi centri agricoli del Sud; le forti spese militari localizzate necessariamente al Nord per la difesa dei confini; e infine il protezionismo rappresentavano gli aspetti pi noti di una politica economica dello Stato fondata sull'attribuzione alle regioni meridionali di un carico tributario molto pi consistente della

relativa quota di spesa pubblica. La dettagliata indagine regionale del bilancio dello Stato consentiva all'acuto intellettuale lucano di documentare un giudizio da tempo corrente nel Mezzogiorno: che, cio, dall'unit si fosse determinata

un continuo 'drenaggio' di capitali meridionali verso il Nord, attraverso la mediazione del bilancio dello Stato. La maggiore novit dell'acuta e vasta indagine scientifica di Nitti nel ruolo centrale affidato all'industria come motore fondamentale della trasformazione e modernizzazione del paese intero e del Mezzogiorno. Esponente tra i pi lucidi e conseguenti di una coerente linea di sviluppo produttivo fondato essenzialmente sull'industrializzazione, Nitti sar tra i principali artefici del progetto di trasformazione industriale di Napoli, messo a punto con la legge speciale del 1904. L'obiettivo era particolarmente ambizioso, perch tendeva alla definizione di un preminente ruolo produttivo della decaduta capitale e contemporaneamente alla messa in moto di un meccanismo di trasformazione economica e sociale del Sud, stimolato proprio dalla nuova funzione propulsiva di Napoli industriale. In effetti l'industrializzazione napoletana favorita dalla legge speciale, redatta praticamente da Nitti, rappresent un indubbio fatto positivo con il grande impianto dell'Ilva e con la costituzione della zona industriale orientale. Ma rimase parziale e limitata, e non riusci affatto a ribaltare il tradizionale rapporto tra l'ex-capitale e le province, che di questa parziale industrializzazione non risentirono effetto alcuno. Indagatore tra i pi acuti della societ meridionale come avrebbe confermato nella Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini in Basilicata e in Calabria - Nitti si rivelava meno agguerrito nell'indicazione delle forze sociali e dei programmi politici che potessero realizzare gli originali e moderni progetti di trasformazione economica ch'era perfettamente in grado di elaborare per il paese, per il Mezzogiorno, per Napoli. Si sarebbe cosi dimostrata ottimistica la sua convinzione di una futura, progressiva espansione del processo d'industrializzazione all'area meridionale, ritenuta immanente al carattere stesso dello sviluppo capitalistico. Pi realistico, al riguardo, appariva il giudizio espresso da Arturo Labriola quando gi appariva conclusa la fase internazionale di alta congiuntura economica che aveva consentito la rapida espansione dell'industria settentrionale e la molto limitata industrializzazione napoletana. "Oggi non si pu pi realizzare l'impossibile. Il grande centro produttore e commerciale a Nord. Chi s'illudesse o di poterlo spostare o di poterlo emulare si proporrebbe un problema impossibile. Il vantaggio che ha sul mezzogiorno il settentrione ormai troppo grande.... Quando in un paese si formato un centro industriale le forze elementari e spontanee della economia tendono ad accrescerlo. Ed oltrech naturale, anche estremamente utile." d) Il marxismo economicista di Ciccotti. Gi sul finire del secolo, peraltro, Ettore Ciccotti, storico marxista e primo deputato socialista del Sud, cominciava a porre la questione meridionale all'interno del processo di sviluppo capitalistico italiano. Richiamandosi a un famoso giudizio di Marx sulla Germania del suo tempo, lo studioso lucano fonda la sua acuta analisi della societ meridionale alla fine dell'Ottocento sulla considerazione che "il Mezzogiorno, pi che tutto il resto d'Italia soffre, a un tmpo, dello sviluppo delleconomia capitalistica e dell'insufficienza di questo sviluppo... Il Mezzogiorno ha le condizioni che l'eco-

nomia capitalistica fa a` vinti nella lotta della concorrenza." L'economicismo diffuso tra i marxisti della Seconda Internazionale portava anche Ciccotti a privilegiare lo sviluppo produttivo rispetto alle lotte sociali che, peraltro, d'accordo con gli orientamenti correnti allora nel movimento socialista internazionale, gli apparivano caratteristiche del proletariato urbano e non delle masse contadine. La scarsa fiducia nella possibilit che una societ arretrata potesse esprimere elevati livelli di lotta di classe conduce-

va il socialista meridionale a condividere il giudizio del riformismo turatiano che solo agli operai del Nord affidava il compito di lottare per l'affermazione del socialismo nel paese. Nel Mezzogiorno erano dunque possibili soltanto battaglie democratiche contro la corruzione politica e a favore dell'espansione produttiva, mentre la lotta di classe doveva attendere che fosse compiuto prima il ciclo dello sviluppo capitalistico: "Il suo destino perci si decide, dove si combatte la grande battaglia pel socialismo, se anche le sue stesse condizioni gl'impediscono d'intenderlo e di cooperarvi" . La costante sottolineatura del ruolo delle forze produttive rispetto alla trasformazione dei rapporti sociali di produzione - che emerge chiaramente da tutta l'attivit politica svolta da Ciccotti come socialista e come meridionalista - spinge a considerare piuttosto meccanicistica la pur significativa affermazione che "col tramonto dell'era capitalistica scompariranno anche i caratteri degenerativi del Mezzogiorno". Ben oltre e pi che la stretta dipendenza della questione meridionale dai caratteri assunti dallo sviluppo capitalistico italiano, Ciccotti sembra cos ribadire una visione economicistica dello sviluppo storico e condividere, in sostanza, la teoria dell'inevitabile crollo del sistema capitalistico, di cui il socialismo avrebbe assunto la successione piuttosto per lo sviluppo estremo e pacifico delle forze produttive che per una rottura rivoluzionaria dei rapporti sociali. e) Salvemini tra socialismo e democrazia. Influenzato dalle letture storiche di Marx, pur filtrato nel corrente positivismo, Gaetano Salvemini elabora, negli ultimi anni dell'Ottocento, un'acuta analisi politica dei rapporti sociali dominanti nelle regioni meridionali. Un preminente impegno politico e una matura capacit d'indagine sociale produrranno il quadro pi preciso e originale delle relazioni tra le classi e delle forme del potere politico caratteristiche della societ meridionale a cavallo del secolo. Decisa l'individuazione delle differenze strutturali tra il Nord e il Sud del paese, lucida la radiografia dei diversi ceti sociali, del loro ruolo, delle alleanze attuali e delle possibili alleanze future per una trasformazione socialista e democratica del Mezzogiorno e della societ italiana . Nel Meridione, scriveva" " la struttura sociale semifeudale, che di fronte a quella borghese dell'Italia settentrionale un anacronismo; che mantiene il latifondo con tutte le sue disastrose conseguenze economiche morali, politiche;,, che impedisce la formazione di una borghesia con idee e intendimenti moderni; che permette solo la esistenza di una nobilt fondiaria ingorda, violenta, prepotente, assenteista;,, di una piccola borghesia affamata, desiderosa di imitare le classi superiori, assillata dai nuovi bisogni... e finalmente di un enorme proletariato, oppresso, disprezzato da tutti, privo di qualunque diritto, servo nella sostanza se non nella forma. Nelle cause di questa malattia non c'entrano n il clima n la razza; le cause sono esclusivamente sociali". Nell'alleanza tra la classe dominante dei latifondisti e la numerosa piccola borghesia fornita di diritti politici il socialista pugliese individua "la chiave di volta di tutta la vita pubblica meridionale". E nella iniziativa delle masse

contadine meridionali Salvemini indica, in questa fase, l'elemento centrale per la trasformazione della societ meridionale . A differenza di Ciccotti, che affidava questo compito al proletariato industriale del Nord, il giovane Salveminianche sotto l'impressione dei fatti del '98 - indica per la prima volta nei contadini i protagonisti della questione meridionale, i necessari artefici del riscatto del Mezzogiorno. Al blocco dominante della borghesia settentrionale e dei lati-

fondisti meridionali viene ora contrapposto un blocco sociale di forze antagonistiche fondato sull'alleanza del proletariato industriale del Nord e delle masse contadine del Sud. Il Mezzogiorno quindi non visto come una realt unitaria da opporre in blocco al Settentrione, perch non esiste "un Sud astratto, come se la popolazione meridionale sia un blocco omogeneo e compatto e come se tutti i meridionali siano egualmente oppressi dall'attuale ordinamento politico". Salvemini polemizza con la schematica contrapposizione nittiana tra Nord e Sud, e indica, coerentemente con le originarie premesse marxiste, nella lotta di classe l'elemento decisivo per avviare a soluzione la questione meridionale, e nell'alleanza tra gli operai del Nord e i contadini del Sud il fulcro centrale di un rinnovamento democratico dell'intero assetto - sociale, economico e politico - dello Stato italiano. ' Non vi lotta fra Nord e Sud: vi lotta fra le masse del Sud e i reazionari del Sud; vi lotta fra le masse del Nord e i reazionari del Nord; e come i reazionari del Nord e del Sud si uniscono insieme per opprimere le masse del Nord e del Sud cosi le masse delle due sezioni nel nostro paese debbono unirsi per sconfiggere a fuochi incrociati la reazione, sia essa delinquente con la camorra e con la mafia, sia ipocritamente onesta con Colombo e con Negri". Ma questa prospettiva di un'alleanza del proletariato rurale e dei piccoli coltivatori del Sud al fianco della classe operaia del Nord per il rinnovamento democratico del paese non sarebbe stata raccolta dal Partito socialista italiano. Proprio al principio del secolo il rapporto del PSI con il Mezzogiorno era espresso da Turati nella formula della "egemonia della parte pi avanzata del paese sulla pi arretrata, non per opprimerla, ma anzi per sollevarla e per emanciparla". Alla proposta salveminiana di stimolare e unificare la lotta di classe nel Nord e nel Sud, il riformismo settentrionale opponeva l'unificazione territoriale e politica degli interessi del capitale industriale e del proletariato urbano. All'organizzazione della lotta di classe qual era espressa dalle diverse condizioni del paese si sostituiva quello che Gramsci avrebbe definito "il blocc industriale capitalistico-operaio", che bene si inseriva nel processo di sviluppo dell'area settentrionale, ma non rispondeva ad un disegno di trasformazione economica e di rinnovamento sociale che giungesse a toccare tutto il paese. Nel nuovo secolo s'accresce, in Salvemini, l'influenza del pensiero di Cattaneo e si definiscono cosi le battaglie democratiche per un ordinamento federalistico dello Stato, per la tutela della piccola propriet coltivatrice, per il suffragio universale rivolto soprattutto alle masse contadine. Man mano che si allenteranno i legami col Partito socialista aumenter pure l'influsso delle teorie litistiche elaborate da Gaetano Mosca. All'iniziativa delle masse si sostituir cos l'azione delle minoranze dirigenti e degli intellettuali illuminati. Abbandonato il movimento socialista, Salvemini fonda, alla fine del 1911, una rivista L'Unit--che sarespressione di un cospicuo gruppo di intellettuali liberali e radicali - da Fortunato a de Viti de Marco, da Einaudi ai Mondolfo - uniti dalla comune fede liberista, da un acceso anti-

giolittismo e da un profondo interesse per i problemi della agricoltura meridionale. E' l'approdo al 'problemismo' e al 'concretismo' e l'avvio di un'importante opera di riflessione e analisi della societ meridionale. Proprio quando i contadini meridionali ottenevano il voto dal governo dell'aborrito Giolitti, lo storico pugliese, ch'era stato il primo a porre in termini nettamente politici il problema della trasformazione del Mezzogiorno, riaffidava agli esperti e ai grandi intellettuali il compito di approfondire la conoscenza della societ meridionale e di elaborare concrete proposte d'intervento. *6. Il Sud tra disgregazione e trasformazione. Il Mezzogiorno, all'aprirsi del Novecento, ci appare nelle forme secche e precise del quadro sociale rapidamente schizzato da Gramsci, poco prima d'entrare nel carcere fascista. "Il Mezzogiorno pu essere definito una grande disgregazione sociale. La societ meridionale un grande

blocco agrario costituito di tre strati sociali: la grande massa contadina amorfa e disgregata, gli intellettuali della piccola e media borghesia rurale, i grandi proprietari terrieri e i grandi intellettuali. I contadini meridionali sono in perpetuo fermento, ma come massa essi sono incapaci di dare una espressione centralizzata alle loro aspirazioni e ai loro bisogni. Lo strato medio degli intellettuali riceve dalla base contadina le impulsioni per la sua attivit politica e ideologica. I grandi proprietari nel campo politico e i grandi intellettuali nel campo ideologico centralizzano e dominano, in ultima analisi, tutto questo complesso di manifestazioni" . Si tratta. com chiaro, d una schematizzazione per grandi linee, che va approfondita e articolata al suo interno. Ma non c' dubbio che costituisce un'acuta fotografia d'una situazione sociale che, pur attraverso significative modificazioni, si prolunga sostanzialmente per tutto l'itinerario del regno d'Italia, fino alla catastrofe del paese e della monarchia nella seconda guerra mondiale. Fondamento e pilastro del blocco agrario era il latifondo cerealicolo-pastorale. La coltivazione estensiva del grano e l'allevamento specialmente bovino erano diffusi nelle pianure, spesso ancora malariche, dove s'andava estendendo l'azienda capitalistica, definita dalla presenza di una forzalavoro salariata piuttosto che dalla ridotta quota di capitali investiti nel miglioramento delle colture. E dominava, il latifondo, nella vasta area interna e collinare, per tutta la dorsale appenninica, dove l'azienda cedeva il posto ai pi vari rapporti precari tra proprietari e contadini. Caratteristica del Meridione era la diffusione delle forme estreme di possesso: la grande propriet e la polverizzazione dei minimi appezzamenti, che produceva un'ulteriore caratteristica, la diffusione delle figure miste legate da molteplici rapporti con la terra di tipo largamente precario. Il contadino meridionale era cosi spesso, contemporaneamente, piccolissimo proprietario e salariato, affittuario e compartecipante. Indubbiamente la cerealicoltura estensiva e l'allevamento ovino costituivano un sistema funzionale di utilizzazione del suolo in un ambiente dominato, per un lungo periodo estivo, dalla siccit che bloccava la vegetazione e dalla malaria che ostacolava il lavoro. Questo sistema rispondeva anche alle esigenze di un mercato in cui oscillavano continuamente i prezzi dei cereali e i prezzi dei prodotti dell'allevamento (lana e formaggi), per cui la primitivit di questa organizzazione, priva di grossi investimenti, consentiva un rapido spostamento d'interesse dall'una all'altra produzione . Ma non era nelle avversit naturali che andava cercato il motivo della permanenza di tale sistema, bens nella convenienza economica che ne derivava alla propriet fondiaria. "Se il latifondo interno - sottolineava Manlio Rossi-Doria ancora nel 1944 - non si trasforma, lo si deve principalmente al fatto che il vigente sistema di rapporti rende non conveniente qualsiasi investimento, qualsiasi trasformazione. La difficolt delle condizioni naturali riduce, certo, i limiti di convenienza della trasformazione, ma chi li annulla del tutto e costringe alla immobilit, il fatto che la propriet fondiaria, con l'attuale sistema di rapporti, in grado di ricavar rendite superiori a quelle che si otterrebbero con qualsiasi altro sistema di conduzione

dei terreni". Questo primitivo ordinamento colturale era quindi funzionale ad una determinata struttura dei rapporti di propriet e di produzione. Economia latifondistica e rapporti sociali arretrati andavano di pari passo. La scelta proprietaria della rendita piuttosto che del profitto aveva pure una sua convenienza, che risultava per frenante riguardo alla sperimentazione di pi moderne forme produttive e pi aggiornati rapporti di classe. Come riconosceva, gi al principio del secolo, il geografo Maranelli "la granicoltura estensiva resiste per ragioni demografiche e economiche soprattutto, che determinano il tornaconto a mantenerla; ma da questo all'asserire che l'imponga la natura- ci corre lo stesso abisso che c' tra il tornaconto del latifondista a mantenerla e quello della societ a cercare di distruggerla". Il blocco dell'arretratezza meridionale correva lungo la dorsale appenninica e permeava intere regioni gli Abruzzi e Molise, la Basilicata, la Calabria penetrando largamente in altre, come la Campania. Ma gi al principio del Novecento il Mezzogiorno non si presentava come unica realt indifferenziata, tutta segnata dall'arretratezza e dalla primitivit. L'inserimento nel mercato capitalistico nazionale e i rapporti di scambio mantenuti, fra alterne vicende a livello internazionale definivano per molte zone una situazione economica che sarebbe fuorviante ritenere immobile e stagnante. La diversa incidenza dello sviluppo capitalistico e del mercato mondiale metteva in evidenza le trasformazioni indotte in determinate aree regionali, caratterizzate da prevalenti forme di sviluppo o da uno stretto intreccio di sviluppo e sottosviluppo capitalistico. Il pi ampio processo di trasformazione capitalistica dell'agricoltura meridionale si era determinato, proprio al principio del secolo, nell'area pugliese compresa fra il Tavoliere foggiano, l'area interna della Terra di Bari e il circondario di Taranto. S'era qui diffusa la grande azienda granifera - gestita dall'imprenditore capitalistico nella forma diretta del proprietario oppure del fittavolo che veniva ad affiancarsi al pi antico processo di coltivazione intensiva di vite, olivo e altre colture pregiate diffuso lungo tutta la fascia costiera che dalla Terra di Bari giungeva fino alla punta della Terra d'Otranto. Era questa un'area tra le pi progredite dell'agricoltura meridionale, ma le condizioni materiali di vita delle masse contadine non erano qui pi felici che nelle zone arretrate e permanevano a livelli bassissimi, com'era ampiamente documentato dall'Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali del 1909. "Il contadino fa in genere tre pasti al giorno: mangia una parte del pane la mattina quando giunto sul lavoro; un'altra parte la mangia verso il mezzogiorno: la sera, quando si ritira a casa, mangia una minestra di legumi, di regola di fave o di piselli secchi, condita con pochissimo olio". Caratteristica dell'area pugliese, per la diffusione dell'zienda capitalistica, era l'accelerato processo di polarizzazione sociale che vedeva la popolazione addetta all'agricoltura composta per tre quarti di braccianti. La concentrazione di oltre trecentomila salariati maschi poneva questa regione all'avanguardia della lotta di classe nelle campagne del Sud.

Le leghe contadine del Foggiano e del Barese avrebbero organizzato, nel primo quindicennio del secolo, decine di migliaia di lavoratori. Gli scioperi agrari del 1901-1902, del 1907-1908, del 1912-1913 rappresentano l'espressione pi elevata del malessere delle masse contadine del Sud, in vario modo escluse dagli accenni di liberalizzazione della politica nazionale. La forma dura delle lotte agrarie pugliesi, pi che corrispondere a una presunta primitivit politica delle masse braccianti e dei loro intransigenti organizzatori sindacali, era la naturale risposta al pesante dominio esercitato dalla gretta classe degli agrari pugliesi con il diretto sostegno dell'esercito, dislocato con forti contingenti nelle aree 'calde per garantire un controllo sociale che non si era in grado di assicurare altrimenti. Sviluppo e sottosviluppo erano presenti nella Campania delle disgregate zone interne tra il Sannio e il Cilento e della progredita area costiera, tra Pozzuoli e Salerno. Dappertutto possesso polverizzato e diffusione delle figure miste; grano e pascolo nell'interno, giardini, orti irrigui e seminativi arborati lungo la costa. Le grandi tenute dei proprietari assenteisti, con l'allevamento dei bufali, si stendevano nelle pianure ancora malariche ai confini settentrionale e meridionale dell'area pi fertile. Caratteristica della Campania era la consistente presenza industriale accentuata dagli effetti, pur parziali, della legge speciale del 1904. Grandi aziende metalmeccaniche occupavano a Napoli decine di migliaia di operai, mentre il Salernitano era il centro di un'importante e diffusa produzione tessile e Torre Annunziata rimaneva la capitale dell'arte bianca con oltre sessanta mulini e pastifici. Permaneva peraltro nella regione, e nel suo capoluogo, la profonda contraddizione tra un parziale, concentrato sviluppo economico e l'insufficienza e la debolezza del quadro complessivo delle strutture produttive. Arretratezza e sviluppo, disgregazione e organizzazione si toccano continuamente in un groviglio difficilmente districabile. Un forte impulso alla modernizzazione della struttura e dei valori sociali viene in questi anni dell'organizzazione e dalle lotte del movimento operaio. Pur con forti limiti corporativi e debolezze politiche, le lotte espresse dai metalmeccanici, tessili, pastai, addetti ai serVIZI pubblici costituiranno adeguate risposte di classe a forme tra le pi avanzate del capitale industriale e finanziario italiano Tra parziali vittorie e gravi sconfitte il movimento operaio campano conoscer, nel primo quindicennio del secolo, un consistente sviluppo, che trover espressione nazionale in dirigenti come Labriola e Longobardi e poi Bordiga; cos come il movimento bracciantile pugliese esprimer un organizzatore sindacale della statura di Giuseppe Di Vittorio. Con l'aprirsi del nuovo secolo anche la Sicilia mostra una rinnovata capacit d'espansione economica in rapporto con le crescenti richieste di colture pregiate provenienti dal mercato internazionale. La favorevole congiuntura internazionale favorisce una riorganizzazione delle strutture commerciali e un'espansione del settore terziario insieme ad una rapida crescita urbana. Questa fase di notevole dinamicit economica e sociale non giunge per a modificare i caratteri strutturali di un'economia largamente arretrata e non riesce a superare, nel lungo periodo, la complessiva con-

dizione di disgregazione della societ siciliana. Si definiva comunque un tentativo di razionalizzazione capitalistica con velleit modernizzatrici egemonizzato dal capitale finanziario rappresentato da Florio, con la sua rete di imprese industriali, commerciali, agrarie e bancarie. Aristocratici e socialriformisti, finanzieri e produttori di confluiranno su un programma di sviluppo agricolo che si fondava su una piattaforma regionalista di tipo interclassista e puntava alla costituzione di un forte partito agrario di orientamento riformista, con una ideologia sicilianista difensiva e conservatrice. La guerra, arrestando la favorevole congiuntura internazionale, interromper questo pur lento processo di ammodernamento della societ siciliana, ponendo di nuovo in risalto la fragilit e la contraddittoriet della struttura economica isolana. Queste forme di espansione inserivano quindi, in vario modo, diverse aree meridionali nel ciclo favorevole della congiuntura economica avviata sul finire del secolo, sul piano internazionale e, quindi, nazionale. Erano, comunque, situazioni limitate e internamente contraddittorie che non riuscivano a rompere il quadro complessivo di destrutturazione economica e disgregazione sociale che ancora forniva il Mezzogiorno considerato nella sua pur variegata interezza. Come rimaneva complessivamente fuori dal processo di rapida espansione capitalistica che favoriva lo sviluppo dell'industria settentrionale, cos il Mezzogiorno era escluso dalla politica liberale espressa dai governi giolittiani. Verso il Sud non si espandeva beneficamente n lo sviluppo capitalistico, n la politica liberale. La tutela dei diritti dei lavoratori, la libert di sciopero non era garantita dai governi liberali nei confini del Sud, perch qui vigeva la legge del dominio repressivo assicurato alla propriet terriera dal suo inserimento subalterno nel blocco di potere statuale che dirigeva al Nord e dominava al Sud la societ italiana. Pur con qualche tono di accentuato liberismo, Gramsci avrebbe colto acutamente il carattere parziale del riformismo giolittiano e il ruolo dipendente assegnato al Meridione in questa fase di accentuata espansione capitalistica. "Il programma Giolitti o dei liberali democratici questo: creare nel Nord un blocco 'urbano (capitalisti-operai) che dia la base allo stato protezionista per rafforzare l'industria settentrionale, cui il Mezzogiorno mercato di vendita semicoloniale; il Mezzogiorno 'curato con due sistemi (di misura): Il sistema poliziesco (repressione implacabile di ogni movimento di massa, stragi periodiche di contadini); nella commemorazione di Giolitti 'Spectator' della "Nuova Antologia' si maraviglia che Giolitti si sia sempre strenuamente opposto ad ogni diffusione del socialismo nel Mezzogiorno, mentre la cosa naturale e ovvia, poich un protezionismo operaio (riformismo, cooperative lavori pubblici) solo possibile se parziale, cio perch ogni privilegio presuppone dei sacrificati: misure politiche: favori personali al ceto dei paglietti o pennaioli (impieghi pubblici, permesso di saccheggio delle pubbliche amministrazioni, legislazione ecclesiastica meno rigida che nel Nord ecc. ecc.), cio incorporamento a 'titolo personale' degli elementi pi attivi meridionali nelle classi dirigenti, con particolari privilegi 'giudiziari', impiegatizi ecc., in modo che lo strato che avrebbe potuto organizzare il malcontento meridionale

zolfo

diventava uno strumento della politica settentrionale, un suo accessorio 'poliziesco' ..." La risposta delle masse contadine e operaie meridionali a questa collocazione ai margini dello sviluppo e fuori delle garanzie liberali fu la lotta aspra e dura nelle concentrazioni bracciantili pugliesi e nelle avanzate fabbriche campane, sotto la direzione di sindacalisti rivoluzionari che non potevano che rifiutare la logica del riformismo padano e praticare il basilare postulato marxiano della lotta di classe. Ancora pi drammatica fu la risposta delle popolazioni contadine della vastissima area interna, destrutturata e disgregata. Da tutte le regioni meridionali, in connessione con la crescente richiesta di forza - lavoro proveniente dal mercato internazionale, si mise in moto un processo di esodo in massa che, al principio del secolo. assunse dimensioni bibliche. Nel periodo giolittiano, definito pure della "rivoluzione industriale" italiana, si contarono, ufficialmente, dal Mezzogiorno oltre quattro milioni di espatri: pi di due milioni 'progredite' Sicilia e Campania, oltre 600000 ciascuna dagli Abruzzi e Molise e dalla Calabria, pi di 200000 dalla gi spopolata Basilicata, che si ritrovava a mezzo secolo dall'unit con una popolazione ridotta del 5%, mentre quella italiana era cresciuta del 40% . Gravi conseguenze sulla struttura demografica delle province meridionali derivavano dalla partenza in massa di giovani e uomini maturi, che rispondevano alla pressante domanda di manodopera non qualificata che veniva dagli Stati Uniti impegnati nella creazione di imponenti opere infrastrutturali. Questa forte emigrazione era vista con favore dalla parte pi avanzata della classe dirigente liberale, mentre precisi limiti avrebbero voluto porre gli agrari che si vedevano le campagne spopolate della tradizionale manodopera eccedente e a buon mercato. E certamente l'esodo significava anche la fuga da uno sfruttamento bestiale, la rottura di un circolo di abbrutimento che stringeva da secoli le masse contadine meridionali nella miseria economica e nel totale analfabetismo . Il popolo va risolvendo il problema da s. - scriveva Nitti nella sua Inchiesta sulle condizioni dei contadini in Basilicata e in Calabria - Seguendo l'istinto di conservazione e di sviluppo, che le grandi masse hanno da natura, ha trovato la soluzione a portata di mano con l'andarsene.... Gli effetti dell'emigrazione sulla condizione dei contadini restati in paese sono estremamente benefici. Non vi stato bisogno di propaganda socialista per migliorare la condizione dei rimasti - bastata l'emigrazione. I salari sono cresciuti, i contratti agrari migliorati". Ma era questo un giudizio ottimistico, fondato sulla convinzione che lo sfollamento di una popolazione eccedente, l'emigrazione come "valvola di sfogo" delle tensioni sociali avrebbe preparato un successivo processo di sviluppo che, sulla base di un pi equilibrato rapporto tra popolazione e risorse, si sarebbe diffuso presto nel Mezzogiorno eliminando il crescente divario tra le due parti del paese e riequilibrando cos il sistema capitalistico italiano. In effetti per l'emigrazione meridionale, invece che preparare la trasformazione della struttura economica e sociale del Sud e l'avvento di una espansione capitalistica

dalle

equilibrata, veniva utilizzata come supporto fondamentale a sostegno del distorto meccanismo economico nazionale e finiva per diventare una sorta di arma segreta del particolare modo italiano di produzione capitalistico. Cos nella grave crisi del 1907 le rimesse degli emigrati costituirono la base monetaria essenziale con cui il sistema finanziario italiano risolse le pesanti difficolt e increment l'ulteriore espansione dell'apparato industriale settentrionale. "Si pu ben dire - ha concluso recentemente Franco Bonelli - che l'altra Italia, quella agricola e quella degli "emigrati", quasi non si accorse di quello che stava succedendo, ma dalla crisi essa fu coinvolta nella misura in cui aveva fornito al sistema bancario i mezzi che allora servirono a sbloccare la situazione di "impasse" in cui s'era cacciata la gestione bancaria del "triangolo" industriale. Una crisi come quella del 1907 rappresenta l'occasione storica in cui si consolidano le basi raggiunte da uno sviluppo che verr definito, in tempi pi recenti, di tipo dualistico". *7. Leggi speciali, guerra e dopoguerra.. L'intervento dello Stato per le regioni meridionali, durante l'alta congiuntura dei primi anni del secolo, ebbe la forma abbastanza originale della legislazione speciale, che rompeva con la rigida tradizione 'unitaria della normativa fino allora adottata. Il dibattito parlamentare sulla questione meridionale provocato nel 1901 dall'inchiesta Saredo portava alla formazione di una 'Reale commissione per l'incremento industriale di Napoli. Le proposte di ampliamentO dei grandi impianti di base, mutuate dalle indagini nittiane sarebbero rifluite nella legge speciale del 1904, che ottenne alcuni concreti risultati, pur tra precisi limiti di espansione e diffusione. Dal viaggio del presidente Zanardelli in Basilicata nel 1902, scatur, due anni dopo, una legge speciale anche per questa regione, ch'ebbe il triste privilegio di non essere nemmeno votata dal maggiore meridionalista lucano, il Fortunato, e il dubbio successo di essere poi estesa, nei suoi vari e sconnessi provvedimenti di sostegno all'agricoltura, ad altre regioni del Sud mediante leggi successive, sempre speciali. Carattere generale per l'intero Mezzogiorno, continentale e insulare, ebbe invece l'Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini, che per rimase, nei casi migliori, un'acuta indagine delle strutture socio-economiche e non condusse affatto a quei provvedimenti generali per la trasformazione della societ meridionale per cui era stata dal Parlamento voluta. La legislazione speciale non ebbe, sul momento, grande efficacia. Ma restano tutti da approfondire - sulla scorta di recenti, stimolanti indicazioni - i risultati e le prospettive maturate per il Mezzogiorno a cavallo degli anni Venti nell'incontro tra competenze tecniche, iniziative industriali e posizione politiche nittiane e socialriformiste, su una linea di modernizzazione produttivistica che giunger fino ai tentativi di Serpieri, scomparendo nella crisi degli anni Trenta . Il Mezzogiorno si presenta, comunque al drammatico appuntamento con la guerra mondiale con un ritmo di sviluppo complessivamente lento e un divario con la parte settentrionale del paese che si va sempre pi accentuando. L'accelerata fase di espansione capitalistica rende sempre

pi distante la progressione aritmetica del Sud rispetto alla progressione geometrica del Nord. E la guerra rappresenta un elemento fondamentale di stimolo all'ulteriore crescita della distanza fra Nord e Sud. Le pressanti esigenze belliche dello Stato determinano un'accelerata espansione dell'industria pesante localizzata ; quasi interamente nel Settentrione d'Italia. La guerra alimenta quindi un flusso ininterrotto di trasferimento della ricchezza del paese sulla direttrice Sud-Nord, attraverso l'utilizzazione del risparmio accumulato al Sud per finanziare le industrie del Nord. Anche la crisi del dopoguerra ebbe conseguenze particolarmente pesanti al Sud dove l'inflazione gioc a sfavore della ragione di scambio tra manufatti settentrionali e derrate meridionali e, soprattutto, fece volatilizzare il capitale monetario dei piccoli risparmiatori depositato nei mille uffici postali del Sud. Naturalmente, la grave crisi di riconversione che invest la grande industria bellica settentrionale imped che si potesse, in questi drammatici anni, nemmeno porre il problema di rilanciare lo sviluppo del Mezzogiorno per superare il divario tra le due parti del paese. A Napoli, intanto, chiudevano i battenti le grandi fabbriche metalmeccaniche che s'erano giovate anch'esse degli impegni bellici: l'Ilva di Bagnoli, l'Armstrong di Pozzuoli, l'arsenale di Napoli. Il conflitto mondiale mise in crisi definitivamente la struttura "liberale" dello Stato italiano cui non era ancora riuscito di fondare il potere politico sul consenso delle grandi masse popolari. Agli scioperi urbani contro l'inflazione e il carovita si accompagnarono, nel primo dopoguerra, estesi movimenti di occupazione delle terre. "La terra ai contadini" era diventata, negli anni di guerra, una ricorrente promessa governativa, motivata dalle difficolt militari, corrispondente alla tradizionale domanda delle masse rurali, ma nient'affatto gradita ai proprietari terrieri. L'emanazione, nel 1919, del decreto Visocchi, che consentiva a cooperative di contadini poveri di occupare le terre incolte e mal coltivate della propriet latifondistica, rappresent in questo senso il momento di maggiore impegno dello Stato, del tutto insufficiente peraltro ad avviare un processo di profonda trasformazione dell'ordinamento fondiario, se non nel senso di un primo impulso alla formazione di una piccola propriet coltivatrice. *8. I nuovi programmi di Sturzo, Dorso, Gramsci.. L'impegno meridionalista di Luigi Sturzo culmin nella costante lotta contro il latifondo assenteista per la diffusione della piccola propriet coltivatrice. Particolarmente viva era l'attenzione verso "quel ceto medio economico, che molto limitato nel mezzogiorno, e che uno dei tessuti pi solidi della societ". Obiettivo primario era la costituzione e il rafforzamento di ampi strati intermedi nelle campagne, che, dotati di una precisa fisionomia economica e organizzati in formazioni politiche democratiche, operassero per il rinnovamento delle strutture economiche e dei rapporti politici nella societ meridionale. Il progetto riformistico di Sturzo non si fermava alla frantumazione del latifondo, ma individuava la necessit di porre contemporaneamente le condizioni per un rinnovamento produttivo: "Il problema del latifondo del Mezzogiorno e della Sicilia problema di bonifiche: via-

bilit a larga base, viabilit razionale; e insieme alla viabilit sistemazione dei corsi d'acqua delle pendici e dei bacini montani. La lotta contro la malaria e la lotta contro l'abigeato non avranno che scarsi risultati, se non si affronta sul serio il problema della viabilit e delle bonifiche". La forte polemica sturziana contro il trasformismo della classe politica liberale e il centralismo burocratico dello Stato unitario - espressione in lui dell'intreccio tra la matrice cattolica e la formazione liberista - s'indirizzava quindi verso le richieste del sistema elettorale proporzionale, per abbattere specie nel Sud il prepotere dei notabili, e verso forme di autonomia regionale, che riducessero l'onnipresenza di uno Stato attraverso cui si era realizzato lo "sfruttamento" del Sud da parte del Nord. Per il Mezzogiorno Sturzo pensava ad un avvenire fondato tutto sullo sviluppo dell'agricoltura e sulla sola industria di trasformazione dei prodotti agricoli, con lo sguardo rivolto al Mediterraneo e ai paesi d'oltremare. Sulla scia di Franchetti, un limitato colonialismo di popolamento era ben visto dal sacerdote siciliano, che mostrava cos chiaramente i limiti tutto sommato pre-capitalistici e anti-industrialisti del suo meridionalismo. Questo impegno si svolgeva peraltro nel caldo di una battaglia che il principale artefice dell'organizzazione dei cattolici in partito politico combatteva contemporaneamente contro lo Stato liberale e contro il movimento socialista che organizzava il proletariato urbano e le masse bracciantili delle campagne. Ma di fronte al dilagare della reazione squadrista, al riformismo popolare tocc una sconfitta non meno dura di quella inferta alle organizzazioni socialiste. Come vero, pertanto, che la fondazione del Partito Popolare rappresenta - con l'inserimento politico, pieno e autonomo, delle masse cattoliche nello Stato nazionale - l'avvenimento pi importante della storia italiana del '900; cos, per il ruolo essenziale svolto in un decisivo momento di crisi sociale e politica, nel senso dell'organizzazione su posizioni conservatrici di larghi strati contadini, sembra ancora valido l'acuto giudizio di Tasca, per il quale "nella misura in cui un pericolo bolscevico esistito in Italia, il partito popolare che lo ha stornato". Guido Dorso esprime, nella forma pi radicale, il disagio e l'esigenza di trasformazione dei pi consapevoli intellettuali dell'area pi arretrata del Mezzogiorno, dominata da una retriva borghesia terriera e da stagnanti rapporti sociali in un panorama segnato da bassissimi livelli di sviluppo produttivo . Costante bersaglio polemico il "trasformismo" dello Stato italiano, in quanto dominato dal blocco di potere industriale-agrario, che assorbe costantemente le forze potenzialmente antagonistiche e fa pagare il parziale sviluppo del Nord alle masse contadine meridionali con l'immobilismo economico e sociale del Sud. All'individuazione delle precise radici di classe dell'arretratezza meridionale, l'intellettuale avellinese accompagna quindi la pi dura polemica contro lo Stato unitario, contro la "conquista regia" che blocc al Sud il necessario processo di trasformazione sociale" fren la maturazione politica delle masse popolari, innanzitutto contadine, impedi in definitiva quel processo rivoluzionario che, solo, avrebbe potuto

aprire al paese e al Mezzogiorno una reale prospettiva di rinnovamento negli orientamenti "ideali" ancor prima che nell'organizzazione dei rapporti sociali. La soluzione vista quindi in una "rivoluzione liberale", di gobettiana ispirazione, che proprio nel Mezzogiorno ritrovava i protagonisti. Nelle campagne del Sud infatti erano presenti quelle forze che non avevano partecipato alla lunga politica nazionale di compromessi trasformistici e che Dorso indicava nel ceto medio di piccoli capitalisti espressi dall'emigrazione, nei coltivatori, commercianti ed esportatori sorti "attraverso le grandi trasformazioni economiche della guerra" e quindi nella "classe dei contadini, dei mezzadri, dei fittavoli, dei braccianti". La "conquista ordinata e cosciente dello Stato da parte dei produttori", una "lotta politica nel senso liberale della parola" era quindi l'obiettivo e il significato della "rivoluzione meridionale". Era questa per Dorso, proprio negli anni in cui la crisi dello Stato liberale apriva la strada alla costituzione del regime fascista, la sostanza della necessaria "rivoluzione italiana". "La questione italiana , dunque, la questione meridionale, e la rivoluzione italiana sar la rivoluzione meridionale.... La rivoluzione italiana sar meridionale o non sar". Nella relazione presentata al convegno azionista di Bari del 1944, il Dorso approfondiva, anche sulla scorta delle note gramsciane sulla questione meridionale, il ruolo degli intellettuali come elemento propulsivo per lo scardinamento del blocco agrario meridionale, messo in crisi dalla guerra e dalla sconfitta e dalle gravi difficolt del regime monarchico. La "borghesia umanistica" del Mezzogiorno era cos recuperata da Dorso a un ruolo dirigente di progresso e trasformazione sociale, che superava la radicale sfiducia salveminiana nella "piccola borghesia intellettuale" del Sud. Dorso, quindi, indicava nella borghesia umanistica, finalmente liberata dalla soggezione alla propriet terriera, la nuova classe dirigente meridionale, pur mentre individuava nelle masse operaie e contadine "le vere forze rivoluzionarie del paese". Classe dirigente e forze rivoluzionarie sono cos distinte. Rimane irrisolto il problema del loro rapporto e la contraddizione porta Dorso all'illusione che bastino "cento uomini d'acciaio" per trasformare radicalmente la societ meridionale, che basti per il Sud profittare della "occasione storica" fornita dalla crisi dello Stato nel crollo del regime fascista. All'individuazione delle forze trainanti di una rivoluzione democratica di preminente carattere meridionalista non seguir in Dorso l'approfondimento e il chiarimento dei termini in cui si sarebbe realizzato l'incontro teorico e pratico tra intellettuali e masse. Dopo il riconoscimento gramsciano di aver posto "la question meridionale su un terreno diverso da quello tradizionale, introducendovi il proletariato del Nord", Dorso andr accentuando e sostanzialmente isolando il ruolo delle lites dirigenti, seguendo anche in ci un percorso simile a quello salveminiano. "Se il Mezzogiorno, in un supremo sforzo creativo, organizzer questa minuscola lite senza paura e senza piet, la lotta potr essere lunga, ma l'esito non sar dubbio perch tutta la storia italiana non altro che il capolavoro di piccoli nuclei che hanno sempre pensato e agito per le folli assenti". Antonio Gramsci porr il Mezzogiorno al centro della

sua rifilessione storico-politica per la trasformazione socialista della societ italiana. Una strategia che si proponeva l'instaurazione di nuovi rapporti sociali non poteva che "guardare al Mezzogiorno quale massima contraddizione dello sviluppo capitalistico italiano e quindi come nuovo centro di prospettiva per la formazione di un "blocco storico" alternativo che affidasse la direzione dello Stato al proletariato urbano del Nord e alle masse contadine del Sud. Al pensiero gramsciano non estranea in principio, negli anni intorno alla guerra, l'infiluenza delle posizioni liberistiche e salveminiane, da cui deriver innanzitutto la convinzione dello "sfruttamento coloniale" del Sud da parte del Nord. Questo sfruttamento liberato per da ogni connotato moralistico, non certo attribuito ad errori o a deviazioni da una presunta ordinata organizzazione economica di tipo liberistico, ma, in un ambito di interpretazione marxista, riportato ai caratteri specifici assunti dal processo unitario dello sviluppo capitalistico avviato in Italia nella seconda met dell'Ottocento. Analisi sociale e politica dell'unitario meccanismo di sviluppo capitalistico italiano e ricerca e costruzione di una concreta prospettiva rivoluzionaria sono le strade maestre che conducono Gramsci a porre il Mezzogiorno al centro della sua rifilessione teorica e politica. Tra i primi articoli pubblicati su L'Ordine Nuovo e L'Avanti!, negli anni di crisi dello Stato liberale, e la pi matura rifilessione consegnata ai Quaderni, durante la reclusione fascista, corre un unico filone di analisi rivolta all'approfondimento dei caratteri essenziali dello sviluppo storico italiano e all'individuazione delle forze e delle forme proprie della rivoluzione italiana. L'opera teorica di Gramsci, di cui l'analisi della societ italiana e meridionale parte fondamentale, non comprensibile al di fuori della storia del movimento operaio, italiano e internazionale. La profonda attenzione al Mezzogiorno fa parte della costruzione gramsciana di una teoria organica della rivoluzione in Occidente, dell'indicazione di una nuova strada per il passaggio al socialismo nei paesi a capitalismo avanzato. La rivoluzione bolscevica compiuta con l'appoggio determinante delle masse contadine, e l'avvento del fascismo, come sconfitta storica del movimento operaio e socialista italiano, impongono a Gramsci la revisione profonda di ogni determinismo economicistico e, nella crisi mortale dello Stato liberale, la costruzione strategica di una nuova forma di Stato. In questo drammatico quadro storico va quindi posta l'indicazione di un nuovo "blocco storico" fondato sulle masse operaie e contadine in alternativa al vecchio blocco di potere tra capitalisti e agrari. E la costruzione del partito rivoluzionario, il "moderno principe", col compito essenziale di dirigere la lotta per l'abbattimento dello Stato borghese, che in Italia andava assumendo la forma originale del regime fascista. Obiettivo dell'alleanza tra gli operai del Nord e i contadini del Sud non era pi, come in Salvemini, la spartizione del latifondo e la diffusione della propriet coltivatrice, ma diveniva la costruzione di una societ socialista: "l'emancipazione dei lavoratori pu avvenire solo attraverso l'alleanza degli operai industriali del Nord e dei contadini poveri del Sud per abbattere lo Stato borghese, per fondare lo Stato

degli operai e contadini". In Gramsci s'intrecciano continuamente gli elementi della riflessione storica sullo sviluppo della societ italiana e dell'azione politica condotta in un determinato contesto e schieramento internazionale. L'analisi del processo capitalistico italiano e la prospettiva terzinternazionalista del "governo operaio e contadino" confluiranno quindi nel porre al centro della strategia del Partito comunista italiano la questione meridionale. Nelle tesi preparate nel 1925 per il III Congresso del partito tenuto clandestinamente a Lione, Cramsci individua nei contadini meridionali "dopo il proletariato industriale e agricolo dell'Italia del Nord,l'elemento sociale pi rivoluzionario della societ italiana", e assegna al partito il difficile compito di realizzare, superando antichi pregiudizi, questa alleanza, che diviene la chiave di volta della rivoluzione italiana. In Alcuni temi della questione meridionale - rimasto incompiuto nel 1926 per l'arresto - Gramsci muove dalla considerazione che "l'operaio rivoluzionario di Torino e Milano diventava il protagonista della questione meridionale", per affrontare concretamente la questione dell'egemonia del proletariato; dei modi in cui, cio, possa effettivamente realizzarsi una salda "alleanza politica tra operai del Nord e contadini del Sud per rovesciare la borghesia dal potere di Stato". Problema centrale di tutta la riflessione gramsciana, dai giovanili scritti giornalistici alle compiute analisi affidate ai Quaderni del carcere, l'approfondimento in tutti i suoi aspetti del "rapporto citt-campagna (che) per l'Italia innanzitutto e soprattutto il rapporto tra Nord-Sud, ed esso la chiave di volta cos della storia come della politica italiana". L'analisi gramsciana svela cos il carattere sostanzialmente conservatore del blocco corporativo capitalisticooperaio realizzatosi nel pi avanzato periodo giolittiano. E propone forme concrete di superamento del blocco agrario dominante nel Mezzogiorno grazie al suo inserimento subalterno nel blocco di potere nazionale. Per conquistare le masse contadine del Sud alla nuova prospettiva rivoluzionaria andava quindi superata la loro tradizionale disgregazione ed eliminata la loro soggezione ai proprietari terrieri, che avveniva "per il tramite degli intellettuali". Il controllo sociale del Sud era infatti garantito dal diffuso strato dei pi diversi intellettuali: avvocati, insegnanti, sacerdoti, farmacisti, notai, medici. Cuesto ceto medio veniva acquisito alla tradizionale funzione di intermediario della classe dominante in due forme essenziali: a livello di massa mediante la distribuzione clientelare di impieghi amministrativi, e ai livelli pi consapevoli dell'azione ideologica svolta da grandi intellettuali come Giustino Fortunato e Benedetto Croce, la cui "operosit reazionaria" non era affatto retriva, bens alternativa alla trasformazione socialista della societ italiana. "Uomini di grandissima cultura e intelligenza, sorti sul terreno tradizionale del Mezzogiorno ma legati alla cultura europea e quindi mondiale, essi avevano tutte le doti per dare una soddisfazione ai bisogni intellettuali dei pi onesti rappresentanti della giovent colta del Mezzogiorno, per consolarne le irrequiete velleit di rivolta contro le con-

dizioni esistenti, per indirizzarli secondo una linea media di serenit del pensiero e dell'azione.. In una cerchia pi ampia di quella molto soffocante del blocco agrario, essi hanno ottenuto che la impostazione dei problemi meridionali non soverchiasse certi limiti, non diventasse rivoluzionaria In questo senso Benedetto Croce ha compiuto un'altissima funzione "nazionale"; ha distaccato gli intellettuali radicali del Mezzogiorno dalle masse contadine, facendoli partecipare alla cultura nazionale ed europea, e attraverso questa cultura li ha fatti assorbire dalla borghesia nazionale e quindi dal blocco agrario". La formazione di un nuovo blocco sociale, che affiancasse i contadini meridionali all'azione egemone del proletariato industriale del Nord, si sviluppava attraverso una "frattura di carattere organico... nella massa degli intellettuali" tra cui lentamente si affermasse una tendenza di sinistra, "cio orientata verso il proletariato rivoluzionario". La distruzione del blocco agrario meridionale si realizzava con l'organizzazione politica dei contadini non meno che attraverso la disgregazione del blocco intellettuale: "Il proletariato distrugger il blocco agrario meridionale nella misura in cui riuscir, attraverso il suo partito, ad organizzare in formazioni autonome e indipendenti sempre pi notevoli masse di contadini poveri; ma riuscir in misura pi o meno larga in tale suo compito obbligatorio anche subordinatamente alla sua capacit di disgregare il blocco intellettuale che l'armatura flessibile ma resistentissima del blocco agrario. La costruzione di un nuovo blocco storico che avesse per protagonisti i contadini del Sud passava per la distruzione del blocco sociale che dominava l'arretratezza meridionale, funzionando "da intermediario e da sorvegliante del capitalismo settentrionale e delle grandi banche". Il divario crescente tra il Nord e il Sud per il funzionamento distorto del meccanismo di sviluppo capitalistico si sarebbe colmato in una prospettiva unitaria di costruzione del socialismo, in cui il Mezzogiorno si presentava come crocevia della rivoluzione italiana. *9. Cenni sulla societ meridionale durante ilfascismo. Nei primi anni del dopoguerra il malessere dei contadini meridionali aveva trovato un parziale e limitato sbocco nell'occupazione dei latifondi e nella distribuzione delle terre incolte e nella definizione di contratti collettivi di lavoro. La reazione agraria giunta al potere con il fascismo ottenne ' ! subito l'annullamento del decreto Visocchi e la restituzione ai grandi proprietari anche di quei terreni incolti, la cui ripartizione comunque non soddisfaceva la domanda di terra e di lavoro delle masse contadine. Contemporaneamente si chiudeva la "valvola di sfogo" dell'emigrazione in seguito al nuovo orientamento della legislazione nordamericana che bloccava totalmente il fortissimo flusso di contadini meridionali verso gli Stati Uniti, che ancora negli anni del dopoguerra aveva raggiunto livelli molto elevati. Nei primi anni '20, durante la fase "liberistica" del costituendo regime fascista, la favorevole congiuntura del commercio internazionale aveva favorito gli ultimi sprazzi di espansione dei prodotti specializzati dell'agricoltura siciliana si mercati mondiali e il proseguimento dl processo di intensificazione delle colture nell'area campana definita dalle basse valli del Volturno e del Sele. In questi anni,

peraltro versava in gravi difficolt la pi consistente struttura industriale campana per la difficile riconversione delle grandi imprese metalmeccaniche e per le gravi difficolt dell'industria tessile, che vedeva chiudere alcuni stabilimenti. La svolta deflazionistica del 1926,con la fine della politica "liberistica", rilanciava l'importanza del mercato interno e avviava una politica dirigistica che si sarebbe accentuata per gli effetti della grande crisi del 29.Negli anni Trenta si sarebbe quindi sviluppato un processo di ristrutturazione del sistema capitalistico italiano, orientato al deciso rafforzamento dell'apparato industriale del Nord in forme di accentuata concentrazione industriale e di pi complessi livelli tecnico produttivi.L'accentuato dirigismo economico si accompagnava a ben determinate conseguenze sociali,definite dal regime fascista nella repressione delle lotte e nel crescente sfruttamento della classe operaia mediante la riduzione dei salari,e nella pesante compressione dei consumi delle masse contadine,condotte ai limiti della sopravvivenza. Per il Mezzogiorno agricolo gli anni Trenta sono particolarmente duri perch si sommano gli effetti della crisi mondiale,il continuo incremento demografico,la caduta dei prezzi agricoli,l'aggravamento dei contratti.Nonostante , la politica antiurbanistica e l'ideologia ruralistica che tendevano a controllare rigidamente la forza-lavoro industriale, dalle campagne del Sud si svilupp gi in questi anni una forte, incontrollata corrente migratoria verso i centri industriali del Nord. Intanto erano colpite dalla crisi anche quelle aree del Mezzogiorno che avevano conosciuto nei decenni precednti fasi di consistente sviluppo.In Sicilia si modificava l'equilibrio Fondamentale tra il latifondo cerealicolo e la produzione intensiva per il crollo della esportazione agrumaria. In Puglia la crisi di sovrapprodu- zione dell'olivicoltura per la concorrenza internazionale della Grecia e della Spagna fu attenuata dai provvedimenti protettivi del 1932-33, ma nient'affatto risolta con una ridefinizione dei rapporti produttivi che limitasse il peso della rendita. D'altra parte il peso politico del blocco agrario meridionale nei confronti dell'avanzato settore industriale del Nord era andato progressivamente riducendosi, gi a partire dalle modificazioni strutturali introdotte durante la guerra mondiale. La scelta produttivistica del dopoguerra e la politica di ristrutturazione capitalistica degli anni Trenta avrebbero quindi colpito pesantemente il blocco sociale dominante le campagne meridionali, ponendo le premesse per la sua rapida disgregazione nel secondo dopoguerra. Intanto la "battaglia del grano", lanciata da Mussolini nel 1925 per ridurre l'accresciuta quota di importazione e conseguire l'autonomia alimentare nella prospettiva della guerra, determinava un ulteriore arretramento delle forze produttive e un aggravamento dei rapporti sociali nelle campagne meridionali. Grazie anche all'aumento del dazio sul grano fu incrementata la produzione agraria pi povera a scapito delle colture ortofrutticole e dell'allevamento zootecnico. Alla crescente intollerabilit delle condizioni di vita dei contadini si accompagnava nel Sud un aggravamento dell'arretratezza della struttura agraria, cui si negava ancora, complessivamente, l'introduzione di sistemi e tecniche

pi razionali e produttive, che avrebbe comportato innanzitutto una forte riduzione della cerealicoltura specie estensiva, una consistente diffusione della foraggere in rotazione, na intensificazione delle colture e lo sviluppo dell'industria armentizia. ' Il tentativo pi rilevante di modernizzazione delle campagne meridionali fu invece perseguito, con i progetti di bonifica integrale elaborati dalla precedente tradizione produttivistica e riformistica di tecnici agrari formati alla scuola di Portici. Il concetto stesso di bonifica integrale era fissato e articolato in una serie di leggi preparate, tra il 1924 e il 1933, sotto l'esperta guida di Serpieri, e tendenti a superare il tradizionale concetto di bonifica come risanamento idraulico e lotta alla malaria per ampliarla in una concezione di vera e propria trasformazione fondiaria. La bonifica comportava Quindi la divisione del latifondo e la formazione di piccole propriet, in un panorama di sclte produttivistiche e di riforma agraria che non poteva non incontrare l'opposizione della grande propriet terriera, che invece a qusto programma avrebbe dovuto collaborare con i suoi capitali. Pur non sottovalutando la difficolt di reperire capitali nel mezzo della crisi degli anni Trenta, e in una situazione sempre pi sfavorevole al mondo agricolo, ririmne il fatto che le difficolt tecniche e finanziarie opposte dgli agrari portarono all'accantonamento dei progetti di bonifica e trasformazione fondiaria. Gli obiettivi di politica agraria del regime fascista venivano cos mancati sia sul piano della modernizzazione delle strutture, che della fissazione al sulo dei salariati agricoli. Alla met degli anni Trenta, d'altra parte, il regime fascista aveva orientato decisamente la sua politica sulla strada della guerra e dell'espansionismo imperialistico, che far le prime prove in Etiopia e in Spagna, e quella definitiva nel conflitto mondiale. La corsa agli armamenti sostituiva i progetti irrealizzati di trasformazione dell'agricoltura meridionale. periodo fascista si accresce quindi il divario tra Nord e Sud, perch l'espansione privilegia ancora una volta i luoghi e le situazioni gi pi avanzate. Ai meccanismi economici di tipo quasi automatico si accompgnano peraltro le pi profonde influenze e le maggiori capacit di controllo dei gruppi dirigenti settentrionali. Cos il progetto del gi nittiano presidente dell'IRI Beneduce di espandere l'elettrificazione nel Sud quale prerequisito di un processo d'industrializzazione non ebbe conseguenze di rilievo. L'arretramento complessivo delle regioni meridionali durante il periodo fascista indicato dalla riduzione del reddito subita nel decennio 1928/1938. La deflazione, con la diminuzione di stipendi e salri, la crisi internazionale non impediscono che nelle regioni settentrionali il reddito netto per abitante aumenti, nel decennio, da 3198 a 3365 lire. Nel Meridione si registra invece un calo da 1802 a 1718 lire per abitante; e la situazione, oltre il minimo della Calabria a 1521 lire, peggiore nelle regioni meno arretrate ma sovrappopolate, come la Campania, la Sicilia e la Puglia. Va pure ricordato che il 1938 l'anno in cui, per la prima volta in Italia,l'attivit industriale supera la percentuale fornita dall'agricoltura alla composizione del reddito nazionale: rispettivamente il 34,9 e il 33,4 %. Nel Mezzogiorno

invece l'agricoltura - che pure vede diminuire la sua produzione nel corso del decennio - contribuisce ancora per il 45 % alla formazione del reddito globale, mentre l'attivit industriale supera di poco il 20%. Ma gi a questa data, met dell'industria meridionale - quella pi importante - dipende da imprese e societ industriali del Nord. , La guerra, il crollo del fascismo e la caduta della monarchia segneranno, per il Mezzogiorno, una fase di rapida disgregazione degli equilibri sociali e politici definitisi a partire dall'unit. Il blocco agrario che aveva dominato, pur in forme complesse e mutevoli la societ meridionale inserita nel processo politico ed economico nazionale si avviava alla sua crisi definitiva. Tramontavano cos, insieme alla monarchia, il blocco sociale e i rapporti di potere garanti del controllo del Sud per l'intero arco del regno unitario. *10. La guerra, la repubblica, le lotte sociali. Il Mezzogiorno esce dalla guerra duramente colpito: nella miseria e nella fame delle campagne, dove si accendono focolai di rivolta; nei bombardamenti sulle citt, che fra l'altro distruggono il 60% della pi avanzata industria campana, con danni per circa due miliardi (ai prezzi del 1939). Sintomatica, nel settembre del '43, a pochi giorni dalla gloriosa insurrezione napoletana, la contemporanea distruzione del grande stabilimento Ansaldo di Pozzuoli, per mano dei tedeschi in fuga, e dell'azienda elettromeccanica OCREN, per i bombardamenti americani. I decreti Gullo assegnarono nel '44 circa 200000 ettari di terre incolte ai contadini meridionali e stabilirono la proroga dei contratti agrari e il blocco delle disdette in risposta ad un vasto e differenziato movimento di lotta che aveva proceduto ad occupazioni di terre per superfici doppie di quelle occupate dopo la prima guerra mondiale. Questo movimento ebbe per carattere nettamente rivendicativo e si rivolse, anche nella direzione dei sindacati e dei partiti di sinistra, all'assegnazione delle terre incolte e alla rivendicazione delle terre demaniali usurpate. Non si allarg invece ad obiettivi pi vasti e complessi di riforma agraria e, in definitiva, non si congiunse con le lotte delle classi lavoratrici del Nord ancora impegnate nella lotta di liberazione antifascista. Intanto la continuit dello Stato espressa nel regno del Sud favoriva un processo di continuit di vecchi gruppi dominanti che, secondo una consolidata pratica trasformistica, si preparavano a mantenere il controllo della situazione con qualche opportuno mutamento formale. Un decisivo appoggio alle vecchie classi conservatrici veniva anche dagli Alleati, e in particolare dalla Gran Bretagna, impegnata fino in fondo nel favorire una soluzione monarchica e conservatrice per la situazione italiana. Particolarmente grave appariva quindi, nel '45, la condizione delle regioni meridionali per le crescenti difficolt economiche, per l'aumento della disoccupazione e dei prezzi, per il diffondersi di spinte reazionarie e di tumulti ribellistici, per l'ondata di separatismo che pareva allontanare la Sicilia dallo Stato unitario. Si pavent allora una possibile frattura politica tra il Nrd uscito dalla vittoriosa guerra di liberazione e il Sud largamente influenzato dalle forze monarchiche e conservatrici. Il referendum istituzionale parve confermare questa pericolosa tendenza con la larga maggioranza del 60% data dal

Mezzogiorno alla monarchia. Le forze conservatrici e reazionarie del Sud si mostravano ancora capaci di subordinare ai loro interessi e disegni di dominio sociale e politico larghe masse popolari, specialmente nei centri urbani. Clamoroso era il caso di Napoli - metropoli dalle particolarissime caratteristiche storiche - che dava alla monarchia l'80% dei voti e sanciva l'isolamento della classe operaia e di una esigua borghesia illuminata. Ma gi in movimento apparivano, invece, le masse contadine all'interno del processo di disgregazione del blocco agrario avviato dalla crisi del sistema di potere che aveva al vertice l'istituto monarchico. Fondamentale, pertanto, doveva risultare il contributo dei contadini meridionalie la novit era di grandissimo rilievo - al processo di rinnovamento sociale e politico aperto con l'istituzione della Repubblica. "Molti non si sono resi conto - notava Rossi-Doria nella primavera del '47 - che se il 2 di giugno la Repubblica ha vinto in Italia, ci si deve al fatto che aliquote assai forti di contadini meridionali hanno votato per la Repubblica: se non ci fossero stati il 40"o e il 35% dei voti per la Repubblica nelle tipiche zone latifondistiche del Mezzogiorno - negli Abruzzi, in Calabria, nelle province dell'interno della Sicilia - noi avremmo ancora la monarchia". La fondazione della Repubblica - che toglieva di mezzo il pilastro pi rappresentativo del vecchio ordine conservatore - e lo sviluppo dei grandi partiti di massa - che superava finalmente il tradizionale localismo clientelare e collegava le popolazioni meridionali, per la prima volta nella storia unitaria, alla lotta politica nazionale - costituivano fondamentali elementi di novit e di rottura delle tradizionali forme di organizzazione sociale e politica delle regioni meridionali. I risultati complessivamente modesti - se rapportati a quelli centro-settentrionali, ma non certo alla situazione pre-fascista - conseguiti dallo schieramento repubblicano e dai partiti di sinistra nelle elezioni del '46 per l'assemblea costituente rappresentarono comunque uno stimolo a mantenere e allargare le iniziative unitarie. Sulla scia della vittoria repubblicana e nell'ambito degli ancora operanti governi di unit nazionale, sorgevano, nel Mezzogiorno, centri politici di coordinamento delle attivit democratiche, che raccoglievano dai comunisti ai liberali di sinistra. Su altro terreno si giungeva, a Napoli, alla fondazione del "Centro economico italiano per il Mezzogiorno", cui partecipavano importanti esponenti dell'industria pubblica e privata e del mondo politico: dal presidente dell'IRI Paratore ad Emilio Sereni e Giovanni Porzio. "La questione meridionale - ha ricordato di recente Giorgio Amendola - si rivelava, nel momento della ricostruzione, una delle contraddizioni centrali del capitalismo italiano, ed in questa contraddizione si iscriveva l'iniziativa dei partiti della classe operaia, per promuovere l'elaborazione di un piano capace di promuovere lo sviluppo economico del Mezzogiorno. (Ma per il compromesso raggiunto fra i partiti del CLN, l'attuazione delle riforme di struttura fu rinviata non soltanto a dopo il referendum istituzionale, ma addirittura a dopo la elaborazione e l'approvazione della Costituzione. Fu un rinvio che ebbe gravi conseguenze".

La rottura dell'unit nazionale a livello governativo ebbe gravi conseguenze di rallentamento del processo di disgregazione del blocco agrario meridionale, specie sulla lunga distanza e sul piano degli equilibri di direzione della societ meridionale che si sarebbero formati negli anni successivi. Ma intanto procedevano quei movimenti di fondo che andavano cambiando il volto del Mezzogiorno e lo facevano apparire, per la prima volta, come un elemento di dinamismo e di rinnovamento politico e sociale. Fondamentale appariva lo spostamento a sinistra di masse contadine e di gruppi intellettuali che, per la prima volta, si collegavano ai grandi partiti nazionali, spezzando cos una delle caratteristiche fondamentali del passato sistema di subalterno isolamento autonomistico. Al clamoroso successo dei partiti di sinistra nelle prime elezioni regionali siciliane, della primavera 1947, segu la lastrage di Portella delle Ginestre, che per non riusc a bloccare il processo di costruzione di un ampio accordo politico, che univa comunisti, socialisti, democratici e personalit indipendenti, e si fondava su un vasto movimento di lotta, culminato nel congresso democratico di Pozzuoli alla fine del 47. L'esistenza di questi importanti elementi di novit si accompagnavano peraltro alla larga prevalenza, nel Mezzogiorno, di orientamenti politici conservatori che, nel '46, avevano determinato il successo di qualunquisti, monarchici e liberali, e, dopo la rottura dell'unit nazionale, s'andavano orientando verso la DC anche per l'azione convergente del clero e degli USA, nel sempre pi pesante clima di guerra fredda. Nel Mezzogiorno, quindi, la DC si presentava col duplice volto del grande partito nazionale di massa, ma anche del nuovo punto di riferimento di interessi conservatori, di posizioni notabilari, di tradizioni clientelari. Questo secondo aspetto si affermava con forza nelle elezioni del 1948, quando la DC segnava una grossa avanzata, a scapito degli altri partiti conservatori, e si definiva con caratteri sempre pi simili al tradizionale sistema meridionale di tipo notabilare e clientelare. Un significativo successo avrebbero peraltro colto le forze di sinistra riunite nel fronte democratico popolare, andate avanti nel Sud a differenza del resto del paese. Questo parziale successo avrebbe determinato la continuazione dell'esperienza del Fronte del Mezzogiorno in una serie di movimenti e d lotte nelle fabbriche napoletane e nelle terre meridionali, culminati nel Congresso napoletano per la difesa dell'industria del Mezzogiorno e nelle Assise della rinascita svoltesi, nel '49, nelle varie regioni meridionali. Partiva allora l'ampio movimento di lotta per la riforma agraria che da Crotone si estendeva rapidamente a tutta la Calabria, la Basilicata, la Puglia, la Campania, la Sicilia. Le occupazioni delle terre, diffusesi con forza tra l'autunno del 1949 e la primavera del 1950, crearono una situazione di grande tensione anche per il ripetersi della triste tradizione meridionale degli eccidi contadini. Di fronte all'esplodere di lotte e occupazioni di terre nell'intero Mezzogiorno il governo eman un primo provvedimento - la "legge Sila" che distribuiva 50000 ettari di terra in Calabria, e quindi la "legge stralcio" di riforma, che espropriava oltre 400000 ettari non coltivati alla, grande propriet assenteista e li assegnava in piccoli lotti di circa sei ettari a circa 90000 famiglie contadine, nell'obiettivo di formare un ampio

strato di piccoli proprietari-coltivatori, di orientamento politico moderato. Nel 1950 si chiudeva, per il Mezzogiorno,l'epoca segnata dal dominio del blocco agrario. I provvedimenti governativi sarebbero rimasti limitati agli "stralci" emanati sotto l'incalzare delle lotte, senza che si realizzasse un progetto complessivo di riforma agraria. Ma, pi che la formazione di una diffusa e debole piccola propriet coltivatrice, fu storicamente importante il colpo definitivo dato alla grande, propriet meridionale, non tanto sul terreno economico quanto a livello sociale e politico. Dopo il 1950 la propriet terriera non esister pi come classe dominante e si aprir quindi una nuova fase nella storia del Mezzogiorno, che vedr definirsi nuovi equilibri sociali e politici che non avranno pi al centro la terra e le campagne. *11. Le nuove strategie meridionaliste: le campagne di Rossi Doria e di Sereni, la SVIMEZ di Morandi e di sARACENO Nella ripresa dell'azione meridionalistica, durante gLi anni della ricostruzione capitalistica di orientamento liberistico, tocc di svolgere un ruolo di primo piano a due intellettuali passati insieme, negli anni Trenta, dalla Scuolaagraria di Portici al carcere fascista Manlio Rossi Doria seguir una complessa traiettoria dall'iniziale adesione al partito comunista e al marxismo alla milizia azionista con Dorso e quindi al ruolo di rilievo svolto sul piano della riforma agraria, fino alla milizia socialista, con una costante e lucida presenza di ricerca meridionalista sul campo. Emilio Sereni rimarr tutta la vita intransigentemente comunista e marxista, sar ministro nei governi d'unit nazionale, dirigente del movimento operaio e contadino, intellettuale di profondi interessi e fondamentali contributi. Il Marx del Capitale e il Lenin de Lo sviluppo del capitalismo in Russia sono i riferimenti teorici di Sereni: quindi il modo di produzione come teoria generale della struttura sociale, e la formazione economico-sociale come concetto essenziale per comprendere la complessa totalit di una determinata societ. Ampio rilievo ha pure, nella elaborazione di Sereni, la categoria del mercato, intesa per non come luogo della circolazione delle merci, ma come struttura determinata dei rapporti di produzione in una formazione economico-sociale del tipo mercantile e capitalistico. La societ italiana nel passaggio dal feudalismo al capitalismo , fra i tanti, il tema cui Sereni dedic forse l'impegno pi costante, in uno stretto intreccio di analisi storica e di riflessione e azione politica. Contraddizioni e limiti del capitalismo italiano, con al centro la questione meridionale, e ruolo fondamentale delle masse contadine e operaie nella storia d'italia sono i cardini dell'impegno scientifico e pratico di Sereni, come gi di Gramsci: impegno che negli anni Sessanta lo porter a confrontarsi con gli ideologi - moderati per lo pi, ma talora estremisti - dell'irrompente sviluppo capitalistico, le vestali dell'oggettivit e delle quantificazioni economiche e politiche, i teorici tecnocratici della 'fine delle ideologie' e del felice superamento degli squilibri, primo fra tutti la questione meridionale. MezzoGiorno" riforma aGraria e questione contadina costituiscono, invece, per Sereni, un intreccio fondamentale nell'itinerario della trasformazione socialista della societ italiana. Di qui l'insistere sulla mancata rivoluzione agraria' !

come limite fondamentale della rivoluzione borghese nazio- ' nale, non tanto come `alternativa storica', quanto essenzialmente come passaggio dalla vecchia formazione economicosociale feudale alla nuova formazione capitalistica. Di qui il ripetere per l'Italia la riflessione di Marx sulla Germania, che soffriva a un tempo del capitalismo e del suo insufficiente sviluppo. Di qui infine il 'ribadire il carattere insieme democratico e socialista della rivoluzione italiana nel senso di una continua indissolubile unit delle due fasi, contro ogni ipotesi di successione temporale. L'analisi della societ italiana e meridionale come studio delle strutture rappresenta quindi il contributo forse pi originale e organico dello studioso e militante marxista. E c' solo da rammaricarsi che il suo metodo d'indagine, saldamente radicato nella teoria e nella realt, abbia trovato ben scarsi continuatori; sicch ancora da indagare con moderni strumenti di analisi resta quasi intera la realt delle province meridionali nel processo storico dell'unit nazionale. La storia del Mezzogiorno nello sviluppo capitalistico italiano e nel contesto capitalistico mondiale, e quindi l'analisi dell'incidenza dello sviluppo capitalistico nella societ meridionale, delle trasformazioni profonde e contraddittorie realizzatesi nelle diverse aree, resta ancora da fare. Nella relazione del '44 al Convegno di Bari - dove Dorso presenta quella politica sulla classe dirigente meridionaleRossi Doria fornisce il quadro pi lucido e acuto delle campagne meridionali nella prima parte del secolo. Permeato dell'insegnamento di Marx non meno che del magistero di Fortunato questo scritto rimane documento fondamentale per la conoscenza dell'agricoltura meridionale e per la trasformazione dei rapporti sociali dominanti nell'ultimo quarantennio del Regno. Successivamente Rossi Doria avrebbe sempre pi privilegiato l'insegnamento fortunatiano, in linea col pessimismo geografico-agronomico del principio del secolo. Al pessimismo teorico si accompagnava per una grande capacit di riflessione e indicazione strategica rivolte a definire un complesso progetto di politica agraria per il Mezzogiorno. Quest'era distinto nelle due parti fondamentali della "polpa" e dell'osso", per cui si prevedeva una diversa destinazione e organizzazione produttiva, da curare particolarmente per le zone meno fertili: "Riguadagnandone una notevole parte al pascolo e al bosco ; limitando la coltura alle terre salde e migliori con largo uso delle macchine; utilizzando ogni pi piccola risorsa irrigua; concentrando gli sforzi sul miglioramento degli allevamenti animali, possibile prospettare ordinamenti agrari soddisfacenti". Condizione essenziale per questo sviluppo dell'osso" meridionale era considerato lo sfollamento,l'esodo che avrebbe comportato significativi miglioramenti di reddito "qualora la popolazione agricola di queste zone si ridurr - per indicarne l'ordine di grandezza - ad un terzo di quella attuale". Alla fase iniziale di riforma agraria - che pareva al Rossi Doria pi importante sul piano politico dell'abbattimento degli agrari che sul terreno produttivo - si dovevano quindi accompagnare soprattutto, per le aree pi fertili, vasti programmi di irrigazione e di trasformazione fondiaria. L'itinerario meridionalistico di Rossi Doria si sarebbe quindi sempre pi orientato verso i modelli sociali delle democrazie anglosassoni, in una prevalenza peraltro sempre

pi marcata di motivi economicistici: il rapporto tra popolazioni e risorse visto nella rischiosa prospettiva di uno sfollamento integrale dell'area e una sempre pi marcata contrapposizione tra l'osso" e la "polpa". Rossi Doria e Sereni, oltre che protagonisti culturali di una nuova fase del meridionalismo, svolgeranno un ruolo di primo piano, su sponde diverse, nella definizione delle strategie politiche ed economiche per le campagne meridionali. Sereni punter sull'organizzazione e la mobilitazione democratica e rivoluzionaria delle masse contadine. Rossi Doria mirer allo sviluppo della media azienda capitalistica di tipo anglosassone, in una prospettiva di modernizzazione democratica. Gli sviluppi successivi, segnati dalla mancata riforma generale e, soprattutto, dall'esodo inarrestabile dei contadini, bloccheranno la realizzazione di entrambe queste diverse ipotesi di profonda trasformazione agraria della societ meridionale. Il secondo dopoguerra vedeva le masse contadine meridionali trasformarsi da oggetto in soggetto di storia. Protagonisti nuovi delle lotte sociali degli anni Quaranta, i contadini meridionali daranno la spinta decisiva al crollo del blocco agrario e conseguiranno il parziale obiettivo delle leggi stralcio di riforma agraria. Sull'onda di questa rinnovata presenza e incidenza delle masse contadine nella storia del Mezzogiorno si svilupper anche la corrente culturale, espressa innanzitutto nelle opere di Levi e di Guttuso e poi di Scotellaro, rivolta ad esaltare le caratteristiche di una "civilt contadina" meridionale matrice di particolari valori da tutelare. Ben presto per questo "mito di una civilt contadina nato da un isolamento arbitrario dei momenti pi arcaici" - come scriveva Ernesto De Martino, profondo indagatore della cultura popolare del Sud - sarebbe caduto sotto i convergenti colpi dello storicismo liberaldemocratico e marxista e di una storia che dalle campagne andava rapidamente allontanandosi. Ancora per poco la terra avrebbe conservato quella centralit ch'era stata una costante della storia del Mezzogiorno. Gi nei primi anni del dopoguerra cominciava a definirsi un orientamento che puntava sull'industrializzazione per lo sviluppo del Mezzogiorno. Tra i pi tenaci sostenitori di questo nuovo indirizzo di politica economica, che aveva in Nitti il pi autorevole precursore, fu Rodolfo Morandi, dirigente del PSI, ministro dell'industria e acuto storico marxista dell'industria italiana. Nel 46 Morandi dichiarava all'Avanti: "Essa (l'industria napoletana) sempre stata priva della attivit intermedia, perch sorta come un trapianto forzato da leggi speciali o scopi autarchici. Bisogna liberarla da quel carattere di grande filiale dell'industria e del capitale settentrionale che le ha impedito di ramificare le proprie radici come industria meridionale quale invece deve essere, e non ha consentito l'espansione locale della piccola e media industria in funzione integrativa". E nel 1946 nasceva la SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno). Protagonisti di questa iniziativa erano appunto Morandi e Pasquale Saraceno, economista cattolico vicino piuttosto a posizioni pianificatrici dell'economia che non alla rimontante linea di espansione liberistica. Le nuove ipotesi di industrializzazione del Mezzogiorno si congiungevano cos alle esperienze di programmazione e di intervento dello Stato nella direzione dei

processi economici ch'erano apparse le risposte vincenti delle economie capitalistiche pi avanzate alla crisi internazionale del 29 e alle difficolt che s'erano diffuse negli anni Trenta ponendo precisi problemi di ristrutturazione economica e politica. Nell'Italia del secondo dopoguerra la ricostruzione e la ristrutturazione capitalistica si andavano impostando lungo linee di politica economica di chiaro stampo liberista, siaper l'estromissione dal governo delle forze di sinistra sia per una postuma polemica con le tendenze statizzatrici e dirigiste emerse durante gli anni Trenta anche nel regime fascista. Dovevano trovare quindi immediate difficolt di realizzazione queste ipotesi di programmazione dell'intervento delloStato per mettere in moto un processo di sviluppo del Mezzogiorno fondato sull'industrializzazione. Tra i maggiori avversari sarebbero stati la Confindustria e gli ambienti industriali del Nord, decisamente schierati su posizioni liberiste e polemici contro ogni ipotesi di creare al Sud "doppioni" - come li chiamavano - di industrie settentrionali. La fine dei governi di unit nazionale concluse anche l'esperienza governativa di Morandi, sicch la SVIMEZ venne sempre pi definendosi per l'attiva ed importante opera di conoscenza e di proposta meridionalista del gruppo d'intellettuali di formazione prevalentemente cattolica che s'and costituendo intorno a Pasquale Saraceno, dirigente industriale e intellettuale direttamente impegnato nella definizione di una linea politico-economica di intervento pubblico nel Mezzogiorno. *12. La politica dellintervento straordinario: la Cassa per il Mezzogiorno. Gli anni Cinquanta nel Mezzogiorno si aprono nel segno di una strategia di intervento governativo che presenta notevoli elementi di novit rispetto al passato. La legge stralcio di riforma agraria, emanata sotto la pressione delle lotte contadine, modifica l'assetto sociale delle campagne e, pur nei limiti di un processo di trasformazione rimasto parziale e limitato, favorisce un'espansione della produzione agricola. Il mancato passaggio ad un intervento di riforma generale e ad un pi dinamico riassetto soCiale si far per sentire qualche anno dopo, quando il richiamo dei paesi del Mercato Comune Europeo e delle regioni settentrionali provocher un esodo di enormi proporzioni dalle campagne del Sud, con fenomeni di spopolamento delle aree pi arretrate. Ma la decisione pi rilevante dei governi centristi a direzione democristiana fu la istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, con la legge 10 agosto 1950. Per la prima volta il governo italiano decideva di intervenire con un progetto complessivo di legislazione speciale nell'area meridionale. Punto di riferimento non erano le precedenti; limitate esperienze locali del principio del secolo, ma le politiche di sviluppo di stamnpo keynesiano adottate dai paesi capitalisticamente pi avanzati per favorire l'espansione e il decollo. di aree arretrate. L'idea dello sviluppo, era alla base sia dell'intervento rooseveltiano con la "Tennessee Valley Authority" per l'espansione di un'area depressa degli Stati Uniti, sia delle politiche di sviluppo tentate dai maggiori paesi capitalistici nei confronti dei paesi sottosviluppati del cosiddetto terzo mondo. La teoria delle "aree depresse" - diffusa nel mondo dal-

l'economista Rosestein - Rodan e in Italia da Saracenofondava lo sviluppo su un intervento redistributivo delle risorse dalle aree sovrasviluppate alle aree sottosviluppate, simile a quello attuato dalle politiche keynesiane di piena occupazione nei paesi industrializzati. La politica di inter vento straordinario attraverso la Cassa per il Mezzogiorno si proponeva cos l'obiettivo dello sviluppo dell'area meri dionale, considerata globalmente, come una zona depressa. Ambizioso traguardo di questa nuova forma di intervento spcial era l'avvio nel Mezzogiorno di un meccanismo di svilppo autonomo e autopropulsivo, caratterizzato quindi da larghi e preminenti investimenti produttivi. L'arretratezza del Sud era considerata come un ritardo nell'espansione del sistema capitalistico italiano che, avviandosi la fase del suo pi accentuato sviluppo, non poteva non essere superato, eliminato. Gli squilibri, il divario tra Nord e Sud dovevano necessariamente scomparire.Nei progetti governativi la soluzione della questione meridionale, intesa come momento di ritardo, poteva avvenire nell'ambito dello sviluppo capitalistico, mediante l'adozione di una forma - moderna e aggiornata d'intervento speciale dello Statoche si poneva come motore centrale della trasformazione strutturale dell'espansione produttiva del Sud. Era cosi abbandonato il punto essenziale della secolare riflessione liberal-democratica e rivoluzionaria sul Mezzogiorno: che non si trattava di problema locale e settoriale, risolvibile con interventi parziali, ma di questione nazionale che andava affrontata con un mutamento complessivo della direzione politica ed economica dello Stato italiano. Altro era parlare di ritardo di un'area depressa, altro era muoversi nella linea dell'interpretazione gramsciana della questione meridionale come contraddizione fondamentale della particolare forma assunta in Italia dal processo di sviluppo capitalistico. Accanto alla sottovalutazione dei termini strutturali e spaziali della questione veniva pure accantonato un altro elemento centrale della riflessione meridionalistica pi avanzata: il ruolo centrale delle masse nella trasformazione economica e politica della societ meridionale. Al nesso inscindibile di democrazia e sviluppo produttivo si sostituiva un'astratta concezione modernizzante che si proponeva di innescare un processo di trasformazione economica e sociale mediante una forma di intervento esterno, come un'operazione di riforma gestita dall'alto. La Cassa per il Mezzogiorno era il nuovo e moderno strumento istituzionale che, sull'esempio di modelli anglosassoni cme la Tennessee lialley Authority, si presentava come ente accentratore e propulsore di un sistema di intervento caratterizzato dalla pianificazione pluriennale dei programmi, gestita appunto da un ente speciale e nuovo rispetto all'apparato statale, e dal carattere aggiuntivo di tale impegno finanziario dello Stato rispetto alla ripartizione ordinaria della spesa pubblica per settori e per aree. Lo sviluppo del Mezzogiorno andava perseguito con un intervento programmato di tipo intersettoriale (agricoltura, lavori pubblici, turismo, industria, ecc.), che non era tenuto, per la prima volta, a-rispettare le regole amministrative dell'annualit del bilancio. Per il primo quinquennio la Cassa si ccup quasi esclusivamente di opere pubbliche: dalle infrastrutture civili alle bonifiche e irrigazione per l'agricoltura. Scarsissimi furono

in questa fase i finanziamenti agevolati all'industria, mentre cominciava ad apparire che l'intervento straordinario, invece che aggiuntivo, si configurava come sostitutivo della spesa pubblica ordinaria. Il passaggio dall'ideologia alla prassi mostrava, in questa prima fase, che la dichiarata politica di sviluppo si limitava, nella sostanza, ad una meno innovativa politica delle opere pubbliche. Qualche parziale risultato positivo si ottenne col miglioramento della produzione agricola nelle aree pi avanzate M gi nella seconda met degli anni Cinquanta il programma governativo di sviluppo del Mezzogiorno mostrava di non reggere alla prova, della formazione del Mercato Comune Europeo e dell'impetuosa espansione dell'industria settentrionale. Il blocco rurale recentemente formato con la legge stralcio e i primi interventi della Cassa in agricoltura si sfasci di fronte alla richiesta massiccia di forza-lavoro proveniente dalle economie in forte espansione dell'Europa e del Nord-Italia. I provvedimenti adottati per le aree arretrate del Mezzogiorno risultarono affatto insufficienti a frenare il carattere devastante delle zone interne assunto ben presto dall'emigrazione. L'esodo dal Sud tocc vette mai raggiunte, fino a segnare un saldo migratorio negativo di altre quattro milioni di unit nel ventennio compreso tra i censimenti del '51 e del '71. Una seconda fase della politica d'intervento straordinario nel Mezzogiorno si apri quindi con la legge del 1957 sulle aree e i nuclei di industrializzazion e con l'obbligo per le imprese a partecipazione statale di collocare nel Mezzogiorno il 60% dei nuovi impianti. Finanziamenti agevolati e facilitazioni fiscali dovevano poi servire a diffondere l'installazione di piccole e medie industrie meridionali. Ma, dopo alcuni anni di stallo, questi incentivi furono estesi alla grande industria, privata e pubblica, che nel Sud realizz alcuni grandi impianti siderurgici e petrolchimici e, poi, la grande azzienda meccanica di Pomigliano d'Arco. La fase dell'industrializzazione selettiva, nella seconda met degli anni Sessanta, si caratterizz per l'ulteriore incentivazione ai pochi, grandi impianti dell'industria privata e delle partecipazioni statali, che rappresentano quindi il frutto maggiore della politica d'intervento straordinario nel Mezzogiorno. L'ultima fase, aperta negli anni Settanta, all'insegna dei progetti speciali per il riassetto delle maggiori aree urbane in via di disfacimento, si chiude, allo scadere ormai trentennale di un istituto previsto per un tempo ben minore, nella totale inadempienza. *13. Le riviste meridionaliste: "Cronache meridionaali", "Nord e Sud'. La scomparsa del blocco agrario, nei primi anni Cinquan. ta, poneva il problema fondamentale della formazione di un nuovo blocco di forze sociali in grado di garantire la direzione e il controllo della nuova fase di sviluppo storico. Sul terreno politico l'abbattimento del vecchio ordine provocava fasi ed episodi di reazione e di riflusso resi manifesti dai successi dei partiti di destra legati ai vecchi interessi agrari e dall'esplodere del laurismo a Napoli nell'intreccio armatori-speculatori edili - masse sottoproletarie. In questo pesante clima di reazione conservatrice nascevano a Napoli due riviste che avrebbero svolto un ruolo importante nella riflessione e nella diffusione di un nuovo meridionalismo: Cronache Meridionali e Nord e Sud. La

prima era all'inizio espressione del movimento di lotta per la Rinascita del Mezzogiorno e vedeva uniti nella direzione i comunisti Mario Alicata e Giorgio Amendola e il socialista Francesco De Martino. Riferimento teorico fondamentale era il meridionalismo gramsciano, con la considerazione del carattere storico-nazionale della questione meridionale e la necessit delle alleanze di classe per la trasformazione democratica e socialista della societ meridionale e italiana. Costante era pure il riferimento alla tradizione storica del meridionalismo, dai primordi del riformismo settecentesco agli esiti rivoluzionari, la cui conoscenza veniva sistematicamente diffusa attraverso la rubrica "Biblioteca meridionalistica' curata da Rosario Villari. Il progressivo distacco dei socialisti port Cronache meridionali a configurarsi sempre pi come espressione delle posizioni e delle riflessioni del PCI sul Mezzogiorno. Innanzitutto la costante polemica, teorica e politica, contro la scelta e la pratica dell'intervento straordinario, contro il governatorato' della Cassa; e la rivendicazione di una linea generale di politica economica nazionale che ponesse al centro il Mezzogiorno come questione fondamentale. E quindi i gravi rischi sociali connessi al carattere torrentizio assunto dall'esodo dalle campagne meridionali. Sul finire degli anni Cinquanta - tra esaurirsi delle lotte per la rinascita, esodo in massa e attese miracolistiche legate al boom economico del triangolo' industriale -- Cronache meridionali entrava in una fase di grosse difficolt, come avrebbe riconosciuto Gerardo Chiaromonte nel bilancio conclusivo dell'esperienza, nel '64. Mentre anche i socialisti mostravano di puntare sulle capacit pianificatrici e realizzatrici della Cassa e si avviavano alle esperienze go vernative di centro-sinistra, si diffondevano nel movimento operaio e tra alcuni intellettuali marxisti orientamenti rivolti a considerare ormai avvenuta, nei primi anni Sessanta, la 'unificazione capitalistica del paese e decisamente avviato un processo di eliminazione degli squilibri grazie alle superiori capacit di razionalizzazione del capitale. Una linea di razionalizzazione capitalistica e di modernizzazione liberal-democratica , fin dal principio, alla base = dell'esperienza di Nord e Sud che, nella Napoli laurina, si richiama ai diversi insegnamenti di Croce, di Nitti, di Salvemini e di Dorso. Meridionalismo liberal-democratico come riferimento, e per obiettivo lo sviluppo del Mezzogiorno fondato sull'industrializzazione, su un moderno ruolo delle citt, su una cultura aggiornata secondo i canoni delle scienze sociali preminenti nel mondo anglosassone. Francesco Compagna, Vittorio De Caprariis, Giuseppe Galasso, Manlio Rossi Doria forniranno, con molti altri intellettuali, un contributo di prim'ordine per una conoscenza aggiornata della societ meridionale a cavallo degli anni Cinquanta. Espansione dello sviluppo capitalistico al Sud e formazione di una moderna classe dirigente meridionale sono i cardini della linea politica della rivista, che - in costante polemica col meridionalismo comunista - fornir un importante supporto culturale al centro-sinistra, fino alla met degli anni Sessanta. In seguito, la caduta del mito del neocapitalismo espansivo ed equilibratore e l'esplosione delle lott operaie e studentesche della fine degli anni Sessanta determineranno una grave crisi d'identit della rivista. *14. La formazione di un nuovo blocco urbano.

Intanto nel Mezzogiorno s'era andato formando un nuovo blocco sociale, non pi fondato nelle campagne sulla propriet della terra, ma legato essenzialmente al controllo dei cospicui flussi della spesa pubblica, prevalentemente erogati attraverso la Cassa per il Mezzogiorno. Lo svuotamento progressivo delle campagne e delle zone interne provocava il rigonfiamento delle citt, specie costiere, definite da prevalenti funzioni terziarie e burocratiche, largamente speculative e parassitarie. Le citt meridionali non diventano cosi i moderni centri urbani del neo-capitalismo razionalizzatore, ma si configurano, negli anni Sessanta, come i luoghi centrali di un nuovo blocco sociale fondato sui ceti medi urbani, largamente improduttivi e legati a un sistema di controllo politico della ripartizione delle risorse. La politica d'intervento straordinario del meridionalismo governativo fonda cosi un moderno sistema di potere politico e di controllo sociale basato sulla distribuzione della spesa pubblica. L'intervento dello Stato perde sempre pi il carattere di direzione politica complessiva per orientarsi decisamente verso una spartizione corporativa delle risorse. Le basi dello Stato non sono pi ristrette come nel Mezzogiorno monarchico e agrario, sono ora basi di massa; ma il consenso conquistato attraverso la redistribuzione corporativa e assistenziale di quote della spesa pubblica. Nel Mezzogiorno contemporaneo trovano pieno riscontro le recenti riflessioni sulla crisi fiscale dello Stato e sulle crescenti caratteristiche assistenziali della spesa pubblica. Sempre pi lontano appare il primitivo obiettivo dell'intervento -straordinario rivolto all'avvio di un processo di sviluppo autonomo e autopropulsivo. La politica degli incentivi ha creato nel Mezzogiorno grandi impianti industriali, e quindi una industria moderna, ma dipendente da centri esterni al Mezzogiorno sia nel caso dell'industria privata che nella diffusa presenza delle imprese a partecipazione statale. Si avuta cosi l'espansione, parziale, del sistema industriale italiano nel Sud piuttosto che lo sviluppo di un'industria meridionale. Lo sviluppo autonomo s' trasformato, nei casi migliori, in espansione dipendente. La trasformazone, dove c' stata, stata pagata con la dipendenza: da imprese multinazionali, dal sistema delle partecipazioni statali, dalla grande industria privata del Nord. L'incentivazione statale alla grande industria pubblica e privata localizzata nel Mezzogiorno ha comportato il pieno accordo tra capitale industriale e borghesia politico-amministrativa meridionale deputata al controllo della spesa pub; blica. "In queste circostanze, - ha scritto Mariano D'Antonio - il parassitismo e l'impiego inefficiente delle risorse umane e materiali del Mezzogiorno diventano un aspetto complementare e non contraddittorio rispetto alla presenza di grandi impianti industriali nelle regioni meridionali". Accanto all'esodo massiccio dalle campagne e alla costruzione di grandi impianti industriali ad alta intensit di capitale e relativa scarsa occupazione il terzo carattere fondamentale della societ meridionale nei decenni pi recenti appare quindi la crescente espansione del settore terziario: attraverso le consistenti assunzioni, specie negli anni Sessanta; nell'amministrazione pubblica e negli enti locali e attraverso le quote crescenti dei trasferimenti pubblici alle famiglie nella forma prevalente delle pensioni

di invalidit. Va peraltro sottolineato che questi trasferimenti di sussidi nella direzione Nord-Sud non vanno disgiunti, per una considerazione complessiva, dalla direzione inversa Sud-Nord che sempre nettamente favorisce il mercato settentrionale nello scambio dei prodotti. In connessione con la crisi del capitalismo internazionale accentuata dai problemi energetici e con la crisi verticale del modello capitalistico sono stati fenomeni caratterizzanti gli ultimi anni la larghissima disoccupazione giovanile e la diffusione delle attivit precarie e marginali. Nel complessivo stallo produttivo, fatte salve parziali eccezioni, appare in pericoloso aumento la quota della popolazione, specie giovanile, posta ai margini del mercato del lavoro. Particolarmente drammatica appare la condizione dei maggiori centri urbani, con punte insostenibili di degrado produttivo e ambientale e con un mercato del lavoro dalle caratteristiche sempre pi malsane. Da questione agraria il Mezzogiorno si trasformato in questione essenzialmente urbana. Il sistema di potere che s'incentrava in passato nelle campagne si fonda ora nei centri urbani. Nel profondo modificarsi delle condizioni storiche, rimasto per fondamentale il ruolo dello Stato, nel suo apparato politico-amministrativo di intervento ordinario e straordinario, a determinare anche i nuovi caratteri di aggregazione-disgregazione della societ meridionale. L'ampliamento delle basi di massa dello Stato nel Mezzogiorno avvenuto nel segno del corporativismo assistenziale pi che nella direzione dello sviluppo produttivo; ha determinato la costituzione di un sistema di potere redistributivo e clientelare piuttosto che un rafforzamento e un'espansione reale dei livelli di democrazia. Il variegato partito della Democrazia cristiana stato l'efficace interprete politico di questa fase storica, intrecciando la direzione dei fondamentali gangli dello Stato al controllo delle amministrazioni locali del Sud nella costante azione di redistribuzione della spesa pubblica alle imprese e ai privati. *15. Trasformazioni sociali e permanente divario. Nel corso di questo trentacinquennio repubblicano il ' Mezzogiorno non ha conosciuto la fase del dispiegato sviluppo, ma si profondamente trasformato, specialmente nei modi di organizzazione sociale e nei comportamenti culturali di massa. L'isolata arretratezza del Mezzogiorno contadino un ricordo del passato. Le differenziazioni interne si sono accentuate : aree di consistente espansione si accompagnano a zone di persistente arretratezza; sviluppo e sottosviluppo si toccano in aree contigue, s'intrecciano in grandi centri urbani, appaiono difficilmente districabili in un panorama largamente segnato da fenomeni nuovi. Ma il processo di trasformazione in atto non giunto ad incidere radicalmente sulla struttura della produzione, innescando appunto quel meccanismo di sviluppo tante volte evocato a fondamento della politica dintervento straordinario. I rilevanti mutamenti, gli evidenti progressi hanno trasformato il volto del Mezzogiorno, l'hanno resu indubbiamente 'moderno; ma non sono bastati ad annullare, a superare l'esistenza e la specificit di una questione meridionale, come problema di una vasta area regionale che, complessivamente, mantiene livelli pi bassi e pi lenti di sviluppo economico e di strutturazione civile e non appare in grado, nelle condizioni date, di avviare il superamento del profondo divario che la

separa dalla parte pi avanzata del paese. a Gli uomini e il lavoro. Il Mezzogiorno continentale e insulare conta oggi venti milioni di abitanti, il 35% circa della popolazione italiana: mentre nel 1951 ne costituiva oltre il 37%. Nel venticin quennio 1951-1976 la popolazione meridionale aumentata del 12%, mentre nel Centro-Nord l'incremento demografico stato del 22%. A livello regionale il panorama appare profondamente diversificato. L'incremento demogra fico ha riguardato la Campania e la Sardegna 23% ), la Puglia (19 % e la Sicilia (9%"). La Calabria rimasta pra-. ticamente statica (0,2% ). Le altre regioni hanno subito un decremento demografico, che nel caso del Molise tocca livelli di spopolamento (-19%), mentre pi circoscritto in Basilicata (-2% ) e in Abruzzo (-4%" ). Se l'analisi si approfondisce a livello provinciale si vede che sono in via di spopolamento parti di regioni in complessivo sviluppo demografico: il caso di Avellino e Benevento, di Reggio Calabria, di Enna, Caltanissetta, Agrigento, Trapani e Messina. Quanto pi si approfondisce l'analisi a livello locale tanto pi numerosi appaiono i casi di spopolamento di centri meridionali. Eppure tra il 1951 e il 1976 il saldo naturale (differenza tra nascite e morti) nel Mezzogiorno ha superato i sei milioni. La popolazione aumentata di due milioni. Ne risulta che il saldo migratorio ha superato i quattro milioni. Negli ultimi anni, per le difficolt nazionali e internazionali, il flusso migratorio dal Sud si arrestato ed anzi andato crescendo il numero dei rientri. Si scesi dai 182000 emigrati meridionali del 1973 ai 44000 del 1978: tutti rivolti verso il Centro-Nord, mentre aumentano i rientri dall'estero. Ma intanto anche il secondo periodo di maggiore sviluppo economico italiano apparso caratterizzato - come gi il primo, il periodo giolittiano - da una prorompente ondata di emigrazione meridionale. Mentre la prima ondata si rivolse prevalentemente verso l'America,la seconda ondata stata assorbita dal mercato del lavoro centro-settentrionale e di paesi europei, quali innanzitutto, la Germania Federale, la Francia e la Svizzera. La perdita di tante energie giovani e vitali ha gravemente danneggiato il tessuto demografico delle regioni meridionali, tutte pesantemente colpite da questa seconda fase storica di esodo in massa. Tra i censimenti del 1951 e del 1971 la Sicilia ha segnato un saldo migratorio di oltre un milione di unit, la Campania oltre 750000, la Calabria 717000, la Puglia 704000, l'Abruzzo 311000, la Sardegna 233000, la Basilicata 209000, il Molise 146000. Tra il 1951 e il 1976 l'indice di natalit si considerevolmente ridotto anche nel Mezzogiorno: dal 24 al 17 per mille abitanti. Anche la mortalit infantile ha subito un significativo calo: da 82 a 23 su mille bambini nel primo anno di vita ; rilevante stata la riduzione da 120 a 19 in Basilicata, mentre il record negativo oggi tenuto dalla Campania con oltre 6 bambini su mille morti nel primo anno. Altro indice del miglioramento delle condizioni di vita l'aumento della statura dei giovani meridionali di leva, relativamente maggiore di quello registrato nel Centro-Nord. Accanto all'emigrazione il dato pi significativo del carente sviluppo del Sud dato dall'occupazione. Tra il 1951 e il 1976 gli occupati nel Mezzogirno sono calati da circa

sei milioni e mezzo a meno di sei milioni. Contemporaneamente il Centro-Nord ha registrato un incremento da 13200000 occupati a circa quattordici milioni. L'esodo dalle campagne meridionali ha determinato la riduzione degli occupati in agricoltura da 3700000 a 1600000. Il maggiore incremento nell'occupazione stato registrato nei servizi e nella Pubblica Amministrazione: da 1500000 a 2600000. Mentre abbastanza ridotto stato l'aumento dell'occupazione industriale: da 1300000 a 1770000. Profondamente modificata risulta quindi la struttura della occupazione meridionale: nel 1951 l'agricoltura rappresentava il 57%, l'industria il 20%, i servizi e la P.A. il 23%; nel 1976 l'occupazione nel terziario e nella P.A. raggiunge il 40,5%, l'occupazione industriale al 32%, l'occupazione agricola al 27,5%. Contemporaneamente nel CentroNord l'occupazione agricola calata dal 38 al 10%, l'occupazione industriale salita dal 34 al 48%, l'occupazione nei servizi e nella P.A. cresciuta dal 28 al 42%. Nonostante la consistente riduzione, ancora presente nel Mezzogiorno il 55% dell'occupazione agricola italiana. E' questo un indice di arretratezza non solo in termini quantitativi ma anche perch cela al suo interno larghe fasce di sottoccupazione e di occupazione precaria. In Basilicata e in Molise, peraltro, l'occupazione agricola supera ancora largamente il 40% del totale. Significativi processi di differenziazione si sono prodotti nell'agricoltura meridionale. Da una parte l'espansione di aziende capitalistiche di oltre 50 ettari, caratterizzate da elevata specializzazione produttiva e diffusione delle macchine; e insieme il rafforzamento, sempre nelle aree di pianura, di medie aziende contadine ad alta produzione intensiva. Di contro, nelle zone interne, piccole e medie aziende contadine sopravvivono in condizioni quasi di sussistenza, con scarsi rapporti col mercato, larga sottoccupazione, scarsissima dotazione infrastrutturale. quasi nulla capacit di fruire dell'intervento di sostegno, specialmente del MEC. Questa vasta area d'arretratezza copre circa sei milioni di ettari e riguarda una massa di circa un milione di lavoratori precari, lungo la dorsale appenninica, con particolare incidenza in Molise, Basilicata e Calabria. L'occupazione industriale nel Mezzogiorno costituisce soltanto il 22% del totale nazionale. Una delle pi significative attestazioni della crescita del divario tra il Sud e il Centro-Nord, nonostante la relativa espansione meridionale, sta appunto nella riduzione della quota meridionale dell'occupazione nell'industria propriamente detta (estrattiva, manifatturiera, dell'energia), che - tra il 1951 e il 1977 - calata dal 20 al 18% del totale nazionale. Questo calo dell'occupazione industriale del Sud rispetto al totale nazionale avvenuto a fronte di una massa di investimenti nell'industria meridionale ammontanti ad oltre 11500 miliardi (a prezzi 1963) per ilperiodo 1951-1973 e a 4250 miliardi (a prezzi 1970) nel periodo 1974-1977. La quota degli investimenti industriali nel Mezzogiorno sul totale nazionale andata crescendo dal 16% del periodo 19511961 a circa il 26% del 1962-1968 fino al 37% del 19691973, con le punte del 44 % nel 1972 e nel 1973. La grave crisi di questi ultimi anni ha fatto scendere rapidamente la quota degli investimenti industriali nel Sud al 31% nel 1975 e al 27% nel 1978.

E' significativo che la riduzione degli investimenti non riguardi i settori maggiormente in crisi, come la siderurgia e la petrolchimica, ma si estenda a tutta l'industria: metallurgica, meccanica, tessile, del legno, delle fibre, con la sola eccezione del settore alimentare. Particolarmente grave la flessione degli investimenti delle aziende a partecipazione statale, che nel Sud hanno acquistato uno spazio molto considerevole: dalla punta del 58% sul totale nazionale nel 1972 si scesi al 35% degli ultimi anni. L'aggravamento della crisi economica - nazionale e ' internazionale - rafforza la tendenza al mero consolidamento dell'apparato industriale del Centro-Nord ed accentua le difficolt dell'industria nel Mezzogiorno in direzione di una crescente marginalit. Il permanente privilegiamento della competitivit delle esportazioni rispetto ad una riqualificazione del mercato interno rende precaria ogni ipotesi di sviluppo industriale del Sud. La stessa parziale dislocazione di alcuni comparti - come l'elettronica nel Casertano - non avviene nel senso di una nuova direzione dello sviluppo ma piuttosto secondo una limitata ottica di residualit' dipendente. L'aumento, pur consistente, dell'occupazione nei servizi e nella Pubblica Amministrazione non stato comunque sufficiente ad assorbire la massa di lavoratori espulsi e/o in fuga dalle campagne. Il processo di terziarizzazione dell'economia meridionale non riveste peraltro caratteri particolari rispetto ai consimili processi in corso nel Centro-Nord e negli altri paesi a capitalismo maturo. Lo sviluppo del settore terziario, anzi, stato in questi anni maggiore nel Cen.tro-Nord che nel Mezzogiorno. Relativamente stazionario, negli ultimi anni, appare il rapporto tra settore privato e pubblico del terziario: 73% e 27% nel Centro-Nord, 65% e 35% nel Sud. Il settore privato appare in espansione nelle regioni meridionali relativamente avanzate come la Campania e la Sicilia, dove per in crisi il comparto turistico-alberghiero. Mentre la maggiore occupazione nel settore pubblico si registra nelle regioni pi arretrate, come il Molise, senza raggiungere peraltro dimensioni abnormi. L'occupazione rimane il problema pi grave del Mezzogiorno, che per la sua debole struttura economica rimane esposto a tutte le ricorrenti crisi dell'economia nazionale e internazionale. L'indice ufficiale di disoccupazione, fissato al 10% per il Mezzogiorno (rispetto al 6% del Centro-Nord) dice poco riguardo alla drammaticit del fenomeno. La presenza nelle liste speciali di collocamento di un 60% di giovani meridionali la spia di una condizione insostenibile che ha fatto parlare di trasformazione della questione meridionale da questione contadina in questione giovanile. Lo stretto intreccio di sviluppo e sottosviluppo nella situazione meridionale attestato dalla posizione di testa che regioni avanzate come la Campania mantengono nelle statistiche della disoccupazione giovanile. b Gli squilibri e il ritardo. Dopo trent'anni di politica di intervento straordinario dello Stato nel Mezzogiorno risulta praticamente immutato il divario che divideva e divide le due parti del paese. Le trasformazioni e i progressi indubbiamente segnati nelle regioni meridionali non sono stati sufficienti ad avviare il superamento del fondamentale squilibrio nazionale, nonostante il forzoso abbandono della loro terra da parte di mi-

lioni di meridionali. Cento anni fa i meridionali erano dieci milioni, oggi sono venti milioni; nel corso di un secolo gli emigranti dal Sud sono stati dieci milioni. Recenti pubblicazioni della SVIMEZ, del CESPE, dello IASM-FOKMEZ hanno fornito tutti gli elementi quantitativi dell'evoluzione economico-sociale delle regioni meridionali negli ultimi decenni. Tutte le modificazioni realiz zate non sono riuscite a mutare il rapporto di disparit tra Nord e Sud. Anzi la situazione addirittura peggiorata, . seppur lievemente. Nel 1951 il Mezzogiorno partecipava con una quota del 24,1% al prodotto nazionale. Nel 1976 la quota meridionale stata del 23,7%. E' leggermente migliorato il reddito pro-capite, ma solo grazie all'emigrazione: dal 65 al 67% della media nazionale. E' mutata invece la composizione settoriale del reddito prodotto nel Mezzogiorno: l'agricoltura scesa dal 34 al 14 %, l'industria aumentata di soli cinque punti (dal 24 al 9% ), mentre il terziario cresciuto dal 42% dal 1951 al 56% del 1976. Il reddito netto prodotto nel Mezzogiorno al 1951 era pari al 67% della media nazionale, nel 1974 ha raggiunto il 70%. Nello stesso arco di tempo l'Italia nord-occidentale passata dal 148 al 18%, l'Italia nord-orientale dal 100 al 108%,l'Italia centrale dal 103 al 108%. Naturalmente la media meridionale copre situazioni ancor pi drammatiche a livello provinciale. Il reddito netto prodotto nella provincia di Avellino appena il 46% della media nazionale; Agrigento al 52%, Cosenza al 54%, Potenza e Isernia al 56%. In un recente studio sulle regioni del Mezzogiorno si cercato di quantificare, per quanto possibile, il rapporto sviluppo-sottosviluppo scegliendo come indicatore il reddito lordo prodotto per chilometro quadrato. Aree considerate sono le regioni e le province, ed significativo notare che quanto pi si restringe la zona considerata tanto pi si estendono i confini del sottosviluppo. Con riferimento alla media nazionale il reddito lordo sensibilmente superiore soltanto nelle province di Napoli e di Taranto (il 3% della superficie meridionale), che quindi possono considerarsi complessivamente sviluppate. Inutile ripetere che un'analisi sub-provinciale definirebbe ulteriori aree di sottosviluppo. Abbastanza sviluppate, perch con un prodotto lordo inferiore di non pi del 25% rispetto alla media nazionale, si considerano le province di Caserta, Catania, Bari, Lecce, Brindisi, Palermo, Siracusa, Messina, Pescara; il 22% della superficie meridionale. In via di sviluppo, con un prodotto inferiore di non pi del 50% rispetto alla media nazionale, le province di Salerno, Trapani, Ragusa, Chieti, Teramo, Reggio Calabria: il 14% circa della superficie meridionale. Ancora sottosviluppate appaiono le restanti diciassette province, con un prodotto lordo inferiore al 50%del valore medio nazionale. Il sottosviluppo, cos misurato, coprirebbe quindi il 61% dell'area meridionale. Ma se si considera che lo stesso tipo di analisi condotta a livello regionale giunge a definire sottosviluppata il 52% della superficie meridionale, facile ritenere che un'analisi condotta all'interno delle province estenderebbe ulteriormente l'area del sottosviluppo, restringendo la concentrazione dello sviluppo in zone ancor pi

limitate. La condizione di limitata espansione del Sud e di permanente divario col Centro-Nord si fondata, peraltro, su una assegnazione di mezzi finanziari alla Cassa per il Mezzogiorno ammontante per l'intero periodo 1951-1975 a 15000 miliardi (in lire correnti). Di questi impegni sono stati spesi nello stesso periodo 9000 miliardi: di cui 4100 in opere infrastrutturali (1600 all'agricoltura) e 2600 miliardi in incentivi (2000 all'industria). Nel solo quinquennio 197175 le spese hanno raggiunto i 4800 miliardi. Per l'ultimo triennio 1977-79 le risorse finanziarie per l'intervento straordinario nel Mezzogiorno ammontano ad oltre 25000 miliardi, di cui 18000 stanziati con la legge n.183 del maggio 1976 e col programma quinquennale per il Mezzogiorno del maggio 1977. Peraltro, com' stato rilevato dal maggiore ideologo dell'intervento straordinario, Saraceno, la spesa della Cassa per la "formazione di capitali" stata pari al solo 0,50%del reddito nazionale prodotto, fra il 1951 e il 1973. Anche la spesa corrente dello Stato concentrata nel Centro-Nord in una misura che sfiora il 79%, rispetto quindi al solo 21% del Mezzogiorno, che, si ricorda, copre il 40% del territorio nazionale e il 35% della popolazione. Nel 1976, infatti, i pagamenti delle tesorerie provinciali dello Stato sono ammontati a circa 23000 miliardi nel Centro-Nord e a poco pi di 6000 miliardi nel Sud. c) La politica speciale come sistema di potere. Si potrebbe continuare a snocciolare cifre e percentuali, ma non cambierebbe il quadro di una societ che molto cambiata in questi ultimi decenni, ma che ha visto pesanti contraddizioni segnare le trasformazioni avvenute e restare praticamente invariata la distanza che separava e separa le due parti del paese. Il Mezzogiorno non mai stata un'unica realt compatta, nemmeno un secolo fa. Tanto meno lo oggi. Le differenziazioni interne, da zona a zona, e gli elementi di novit si sono largamenti diffusi. Ma si sono intrecciati all'esplodere di profonde contraddizioni. Le citt meridionali sono oggi il cuore della questione meri dionale, con il loro disastroso assetto edilizio, figlio natura ' le di una speculazione selvaggia; con gli acuiti contrasti sociali segnati dall'espansione del lavoro precario, dell'assistenzialismo clientelare e dei privilegi corporativi; con le crescenti difficolt di definire strutture produttive e funzioni urbane di gglomerati in caotica e distorta espansione quantitativa. Le modificazioni pi consistenti si sono realizzate sul piano dei comportamenti socio-culturali, grazie alla diffusione crescente dell'istruzione e delle comunicazioni di massa. Su questo terreno il Mezzogiorno di oggi incomparabile col Mezzogiorno di ieri. Strade, istruzione e televisione hanno rotto definitivamente un isolamento ch'era stato per secoli caratteristica del Mezzogiorno non solo interno. Si sono quindi modificati profondamente i comportamenti culturali e politici di massa: il Mezzogiorno del referendum sul divorzio non ha pi nulla in comune col Mezzogiorno del referendum istituzionale. Ma queste profonde modificazioni nel paesaggio, nel costume, nei livelli e nei comportamenti culturali e politici, nell'assetto sociale e nei livelli di vita non si sono fondati su un mutamento altrettanto profondo della strutturazione

economica della societ. Su questo fondamentale terreno l'espansione non stata altrettanto diffusa, non ha assunto il carattere di radicale, innovativa trasformazione. Lo sviluppo stato limitato, parziale, distorto, esposto a tutti i rischi di un arretramento, strettamente legato a forme persistenti e nuove di suttosviluppo: nei grandi centri urbani come Napoli e Palermo e in aree regionali periferiche come la Calabria, urmai oltre i limiti del collasso economico e sociale. I progressi di certe aree e di determinati settori non sono bastati a rinnovare in forma decisiva la struttura economica meridionale. Come ha rilevato recentemente D'Antonio, "le informazioni dispunibili concordano nel segnalare che il Mezzogiorno, a causa del pi lento ritmo di sviluppo e del minor grado di industrializzazione raggiunto, si presenta rispetto al resto del paese con la duplice caratteristica di sistema economico strutturalmente meno articolato (e perci relativamente in ritardo) e di sistema economico dipendente sia dal lato delle importazioni dei mezzi di produzione correnti sia dal lato dei trasferimenti di beni di consumo dal resto del paese". Trent'anni di intervento straordinario dello Stato nel Mezzugiorno non sono stati sufficienti a innescr quel meccanismo di sviluppo che, troppo ottimisticamente, era stato visto dietro l'angolo. Trent'anni di politica speciale hanno dimostrato che il Mezzugiorno non era una limitata area depressa facilmente riconducibile sulla strada dello sviluppo. La modernit dell'intervento statale attraverso una legislazione speciale gestita da un ente con definiti caratteri programmatori non bastata a trasformare la struttura economica di un'area corrispondente al 40% del territorio nazionale. Come ha recentemente scritto Giuseppe Galasso, che dell'intervento straordinario non certo stato preconcetto avversario, la trentennale esperienza della politica speciale per il Mezzogiorno "induce a ritenere che di gran lunga preferibile una politica economica e finanziaria generale del paese, in cui siano organicamente inquadrati alcuni elementi fondamentali dell'intervento per il Mezzugiorno, anzich una pomposa e reclamizzata politica speciale senza organica connessione con quella generale del paese, esposta alle insidie della distinzione tra intervento ordinario e intervento straordinario e alla malversazione clientelare o alle politiche di potere (non necessariamente ad opera soltanto dei politici locali) fondate sul sottogoverno e sui mezzi, relativamente ingenti, di una competenza speciale". Dopo trent'anni d'intervento straordinario pare quasi materializzarsi una sorta di vendetta postuma del meridionalismo classico, che caparbiamente insisteva perch cambiasse la politica generale dello Stato italiano per una trasformazione reale del Mezzogiorno. Il ventaglio, naturalmente, era molto ampio, spaziando tra liberismo e rivoluzione socialista. Ma comune era la convinzione della centralit del Mezzogiorno nel sistema economico italiano e il timore che la politica speciale, oltre la modernit della forma giuridica ed anche economica, costituisse il supporto per un determinato sistema di potere politico. Ora si pu discutere sull'entit dei benefici parziali che la politica d'intervento straordinario ha determinato nel Mezzogiorno contemporaneo. Ma indiscutibile che la Cassa

- e le sue emanazioni finanziarie e tecniche - ISVEIMER, IRFIS, IASM, FORMEZ, ecc. - hanno costituito uno strumento fondamentale per la definizione e il sostegno di un nuovo blocco di potere, essenzialmente urbano, fondato su un'ampia zona di lavoro improduttivo sussidiato dalla spesa pubblica, con l'obiettivo del controllo sociale del Merdione, gi garantito dal blocco agrario lungo tutta la storia del Regno. Recentemente Valerio Castronovo ha indicato "l'unica possibilit di restringere la forbice fra le due sezioni del paese nella saldatura fra un'efficace politica di piano nazionale e una differenziata politica di sviluppo regionale nell'ambito della Comunit europea". Il sostanziale fallimento della politica speciale pone con forza il problema di rilanciare la prospettiva dello sviluppo del Mezzogiorno all'interno di una mutata direzione politica ed economica dello Stato italiano ed in stretto rapporto con un rafforzamento della democrazia di massa. Sviluppo e democrazia, economia e politica, Stato e Mezzogiorno non sono separabili, non possono andare per strade diverse se si vuole avviare a soluzione una questione che dura da pi di un secolo e che continua a incidere pesantemente, in forme che mutano, sul generale sviluppo della societ italiana. La politica dell'intervento straordinario ha costituito, in questo trentennio, la base essenziale di un nuovo blocco sociale che ha unito coltivatori diretti delle campagne e speculatori edili nelle citt, ceti professionali, larghi strati intermedi di tipo burocratico e/o parassitario e fasce sociali pi deboli in vario modo assistite mediante i diversi canali di una spesa pubblica erogata attraverso la mediazione di un personale politico prevalentemente democristiano. Il largo sperpero delle risorse per fini largamente improduttivi ha accelerato i tempi di una crisi che viene duramente pagata soprattutto dalle giovani generazioni, cui si lascia la possibilit di frequentare in massa una scuola sempre pi dissestata e privata di capacit di formazione critica e professionale. Cos il Mezzogiorno presenta il quadro inedito di una campagna ormai spopolata dei suoi antichi abitatori e di citt sempre pi congestionate e invivibili, percorse da masse giovanili escluse da un fisiologico ingresso nei vari rami del mercato del lavoro, con l'eccezione di particolari ripescaggi di tipo assistenziale o corporativo. L'immagine complessiva quella di un Mezzogiorno trasformato ma sostanzialmente bloccato nelle sue capacit di sviluppo produttivo e di reale espansione della democrazia. Sempre pi urgente appare la formazione di un nuovo blocco di forze sociali che giunga a dirigere la societ meridionale verso l'obiettivo dello sviluppo e non dell'assistenza, della reale ' democrazia e non del clientelismo di massa, nella prospettiva non millenaristica del superamento della contraddizione fondamentale del sistema economico e politico italiano. Gli anni Ottanta si aprono nel Mezzogiorno con un'esigenza sempre pi forte di abbandonare le tradizionali giaculatorie sulle possibili strade per lo sviluppo, e con una domanda impellente alle forze del rinnovamento di attrezzare i movimenti democratici delle masse della pi concreta cultura di governo e di trasformazione. A trenta anni dall'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno sempre pi diffuso l'auspicio che il rapporto masse-intellettuali-po-

litici non si svolga pi al livello basso della redistribuzione clientelare delle sempre pi scarse risorse, ma al livello alto di una direzione politica dell'economia e della societ italiana che programmi, nei tempi brevi, la soluzione della pi grave questione nazionale. *BIBLIOGRAFIA. Per una generale introduzione al problema si consigliano: R. VILLARI, (a cura di), Il Sud nella storia d'Italia. Antologia della questione meridionale, Laterza, Bari 1978. G. GALASSO, Passato e presente del meridionalismo, Guida, Napoli 1978. R. ViLLARI, Mezzogiorno e democrazia, Laterza, Bari 1978. M.L. SALVADORI, Il mito del buon governo. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Einaudi, Torino 1977. Utili anche le antologie : B. CAIZZI, (a cura di) Nuova antologia della questione meridionale, Comunit, Milano 1962. G. DE ROSA - A. CESTARO, Territorio e societ nella storia del Mezzogiorno, Guida, Napoli 1973. Per una complessiva ricostruzione economica pu risultare utile : A. DEL MONTE - A. GIANNOLA, Il Mezzogiorno nell conomia italiana, Il Mulino, Bologna 1978. Si indicano ora i testi necessari per approfondire i temi dei diversi paragrafi. 1. La societ meridionale prima dell'unit. G. GALASSO, Mezzogiorno medioevale e moderno, Einaudi, Torino 1963. P. VILLANI, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Laterza, Bari 1966. P. VILLANI, Feudalit, rifrme, capitalismo agrario, Laterza, Bari 1968. R VILLARI, Il Mezzogiorno e contadini nell'et moderna, Laterza, Bari 1961. A. LEPRE, Il Mezzogiorno dal feudalismo al capitalismo, SEN, Napoli 1979. J. DAVIS, Societ e imprenditori nel regno borbonico 1815/1860, Laterza, Bari 1979. D. DEMARCO, Il crollo del regno delle Due .Sicilie. La struttura sociale " Universit di NaPoli 1966. 2. I contraccolpi dell'unificazione. E. SERENI, Il capitalismo nelle campagne "1860-1900), (1947), Einaudi, Torino 1968. P. SARACENO, La mancata unificazione economica italiana a cento anni dall'unifcazione politica, in Il Mezzogiorno nelle ricerche della SVIMEZ 1947-1967, Giuffr, Roma 1968. A. SCIROCCO, Governo e paese nel Mezzogiorno nella crisi dell'unificazione "1860-1861), Giuffr, Milano 1963. G. CANDELORO, Storia dell'Italia moderna, V, Feltrinelli, Milano 1968. F. MOLFESE, Storia del brigantaggio dopo l'Unit, Feltrinelli. Milano 1964. G. GALASSO, Intervista sulla storia di Napoli, a cura di P. Allum, Laterza, Bari 1978. F.S. NITTI, Napoli e la questione meridionale 1903), in

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