Vous êtes sur la page 1sur 12

UN VECCHIO DIBATTITO (ANCORA UTILE)

Gianfranco La Grassa
1. Nel 1972, su Critica marxista, usc un articolo di Emilio Sereni, improntato allo storicismo
tipico del marxismo italiano, che di fatto lanci un dibattito sulla centralit o meno, nel marxismo,
dello sviluppo delle forze produttive, o invece della trasformazione dei rapporti di produzione, ai
fini del passaggio da una formazione sociale allaltra, cio da un modo di produzione, considerato il
nocciolo fondamentale della formazione sociale, ad un altro. A Sereni rispose Luporini; e da l
inizi appunto il dibattito che vide la partecipazione di molti studiosi marxisti, in particolare italiani
e francesi, fra cui Althusser e alcuni della sua scuola. A quel dibattito partecipai anchio, da poco
tornato dal soggiorno a Parigi (allEPHE, oggi EHESS) dove avevo studiato con Bettelheim,
passato allimpostazione althusseriana dopo un periodo di maggiore ortodossia. In seguito a quel
dibattito si formarono in Critica marxista alcuni gruppi di studio sui modi di produzione divisi per
fase storica: quello antico (e schiavistico), quello feudale, quello capitalistico e il modo di
produzione asiatico. Il terzo si sarebbe dovuto interessare anche della formazione sociale di
transizione al socialismo. In definitiva, lunico gruppo che funzion fu quello sul modo di
produzione antico (diretto da Aldo Schiavone), che pubblic anche un volume con gli Editori
Riuniti.
Quel dibattito, se seguito da qualcuno ignaro di marxismo e comunismo, poteva forse apparire
quasi teologico. In ogni caso, non credo che la maggior parte dei militanti di base del Pci fosse
in grado di capire che cosa si giocava in esso; anche se poi, alla fin fine, non fu giocato quasi nulla
perch il Pci non era disponibile ad alcuna rimessa in discussione della propria linea, tanto pi che
la prevalenza nel partito stava andando alla nuova segreteria berlingueriana, addirittura interessata
(lo si capito dopo un certo periodo di tempo) al trasferimento verso il capitalismo occidentale.
Essa non era dunque per nulla intenzionata a disquisire su problemi riguardanti di fatto la lotta al
capitalismo e la possibilit di transizione al socialismo. Tuttavia, interessante comprendere il
senso ultimo di quella discussione poich si tratta, da una parte, di qualcosa di non irrilevante per la
storia del comunismo e del suo pensiero; e poi perch serve a rendersi conto come, dietro a
questioni apparentemente teoriche, considerate dai pi astruse, si celino precise scelte di linea
politica, che guidano poi determinate pratiche delle varie forze in campo.
Affinch si renda pi comprensibile quel dibattito ricordo brevemente, e non quindi con intenti
professorali, che le forze produttive venivano distinte in soggettive ed oggettive. Le prime
riguardano la capacit lavorativa umana, con le sue prerogative e abilit specifiche (se ci sono); le
seconde si riferiscono alle condizioni della produzione esterne a detta capacit lavorativa; quelle su
cui questultima si esercita (ad es. la terra o varie materie prime da essa fornite) o che lassistono
nella lavorazione: la strumentazione e la tecnologia (e quindi la scienza che ne pur sempre alla
base), ecc. Tale piccolo particolare va ricordato perch la polemica contro la tesi del primato delle
forze produttive si spesso esercitata contro quelle oggettive tutte le ciance sulla necessit di
rallentare lo sviluppo e la stessa ricerca scientifica, tornando a tecnologie ritenute pi blande e meno
dannose per la natura mentre esalta, in realt relegandola al compimento di maggiori sforzi e
fatica, la capacit di lavoro del soggetto umano (o dellUomo).
E bene tenere presente che quel dibattito era comunque condotto tra studiosi con una buona, o
almeno pi che discreta, conoscenza del marxismo, a differenza di quelli che seguiranno dopo
linfausto 68 (scusate se ormai lo valuto del tutto negativamente), una vera dbacle per il Marx
scienziato delle formazioni sociali e, in particolare, di quella capitalistica. La conoscenza comune di
allora consentiva una polemica a volte aspra, ma appunto condotta alla guisa di quelle dottrinarie
interne ad ununica religione; la discussione, cio, avveniva in base ad una terminologia teorica in
larga parte condivisa, caratterizzata soltanto da differenziazioni nellinterpretazione e nelle
conseguenze pratiche che ne derivavano. In definitiva, nella polemica ci sintendeva, si sapeva bene
dove erano situati i punti di contrasto; e si era ben consci del significato politico del dissenso, non

riguardante esclusivamente i massimi sistemi, le alte concezioni dellUmanit e dei suoi


destini ultimi.
Insomma, anche i filosofi marxisti, in quanto reali conoscitori di tale corrente di pensiero e delle
sue finalit in tema di lotta per il comunismo, erano ben consapevoli della posta in gioco: la linea
politica adottata dalle varie organizzazioni denominate comuniste. Oggi, tutto questo non esiste pi.
Ci sono solo filosofi vaneggianti e scienziati alla ricerca di nuovi paradigmi teorici per comprendere
le dinamiche dellattuale formazione sociale (o formazioni sociali), in cui solo dei visionari
pseudocomunisti (o degli incalliti vetero-anticomunisti) possono credere esista ancora qualcosa da
definirsi comunismo o anche solo socialismo. Il povero Marx stato triturato e ricondotto al
minuscolo cervello dei miseri e opportunisti intellettuali dellultimo quarantennio. Ogni discussione
con simili personaggi, filosofastri della specie peggiore, ormai sterile; allora no, il contrasto tra
marxisti aveva un senso e notevoli effetti pratici.
2. Lo scopo politico della discussione, tralasciando i tesori di dottrina che comunque venivano
esibiti, si pu, credo, sintetizzare come nelle pagine seguenti. I teorici delle forze produttive cio
del loro sviluppo in quanto molla decisiva, pur con la possibilit di qualche azione di ritorno (dai
rapporti alle forze), della trasformazione dei rapporti sociali di produzione e dunque dellintera
societ sostenevano tale tesi per giustificare lattendismo, laccoccolarsi entro i meccanismi di
riproduzione dei rapporti nelle societ del campo capitalistico (occidentale), coadiuvando di fatto
i loro gruppi dominanti con la scusa che non era ancora matura la trasformazione sociale per
limmaturit dello sviluppo delle forze in oggetto.
Ovviamente, questa tesi centrale era contornata da tutta una serie di altre argomentazioni, che
fungevano da sua cintura protettiva, soprattutto tesa per a creare una fitta nebbia in cui non si
intravedesse il nocciolo centrale: lattendismo e il ripiegamento su posizioni di sostanziale supporto
(subordinato) dello sviluppo capitalistico. Vi erano i discorsi sullutilizzo della democrazia
parlamentare (cio elettoralistica) per accrescere linfluenza delle masse lavoratrici sulle classi
dominanti, considerate solo in quanto proprietarie private dei mezzi produttivi (e dei capitali
monetari). Si trattava in realt di captare i voti di queste masse per essere accettati allinterno dei
gruppi di vertice e integrarsi nel sistema dei meccanismi (ri)produttivi del capitale, in modo che una
parte dei dirigenti (in specie sindacali o di cooperative) potesse accedere alla propriet capitalistica
stessa, mentre lapparato di partito sarebbe divenuto lorgano privilegiato di rappresentanza nella
sfera politica di questi nuovi spezzoni di classe dominante.
Un gran battage fu sollevato intorno al fumoso discorso concernente le riforme di struttura
(cardine dellaltrettanto imprecisata via italiana al socialismo), di cui mai si precis con nettezza
il significato e la portata; le proposte in merito furono appena abbozzate e tutto sommato avanzate
per fare scena, e nascondere alla base il proprio progressivo cambio di casacca (si veda il mio
articolo sullargomento scritto nei primi anni 70 e pubblicato recentemente nel blog e sito Conflitti
e strategie). Infine il blaterare sullappoggio allindustria pubblica, che doveva servire a
contrastare, e dunque calmierare, le pretese arroganti del monopolio privato. In realt, era pi facile
contrattare vie di collaborazione con i gruppi dominanti chiedendo fra laltro di essere accettati
quale una delle loro rappresentanze nella sfera della politica attraverso contatti con le frazioni dei
partiti governativi aventi influenza sui (o che subivano linfluenza dei) gruppi manageriali delle
grandi imprese pubbliche. Ve limmaginate un membro del Pci, o un aderente stretto al partito,
che facesse carriera nelle alte o almeno medio-alte vette delle grandi imprese private? Fiat, Pirelli,
Olivetti o che so io potevano al massimo finanziare giornali e case editrici, in cui facevano bella
mostra di s intellettuali pseudo-comunisti: o di stampo riformista o di quel tipo
ultrarivoluzionario che serviva a far meglio risaltare il buon senso del riformismo (su cui poi
del resto ripiegava anche una parte degli ultrarivoluzionari). Invece, nelle imprese pubbliche si
trovava, anche ai piani alti o medio-alti del management, un certo numero di individui addestrati

nellimprenditoria rossa (sic!); talvolta in modo palese, altre volte copertamente, ma comunque
sempre ammessi nella stanza delle decisioni dei dominanti.
Questa era comunque la cintura protettiva per subornare le masse della pi dotta tesi
circa la centralit dello sviluppo delle forze produttive: tesi, per, nella versione in uso nei partiti
comunisti del campo capitalistico e specialmente nel PCI. Nel campo socialista (che tale non era
mai stato, ma lo si capito un po tardi, e ancora adesso buona parte degli scribacchini, di qualsiasi
orientamento ideologico, nemmeno lo sospetta) la tesi in oggetto era presentata in forma diversa; in
tale area si sosteneva che i rapporti sociali erano gi per lessenziale stati trasformati (non per in
rapporti comunisti, come pensano alcuni ignorantissimi intellettuali odierni, bens pi
semplicemente in rapporti socialisti, primo stadio del comunismo). Il problema fondamentale
sarebbe stato rappresentato da un certo qual avanzamento dei rapporti rispetto allo sviluppo
suddetto; si riteneva quindi indispensabile adeguare questultimo ai rapporti.
In ogni caso, in entrambi i filoni di quel movimento comunista da noi (marxisti-leninisti)
accusato di revisionismo, si affermava che bisognava prestare massima, e centrale, attenzione alle
forze produttive. Cos agendo, si sarebbe finalmente preparata la base per la trasformazione dei
rapporti capitalistici; e in modo indolore, non violento, senza rivoluzione, con pieno rispetto delle
forme democratico-parlamentari. Questa la tesi riformistica, gradualista, sostenuta in occidente
(campo capitalistico). A est (socialismo reale), la tesi serviva ai fortemente centralizzati (e del
tutto verticistici) gruppi al potere per soffocare ogni critica mirante al mutamento dei rapporti; essa
avrebbe provocato lindebolimento di questi ultimi, dichiarati ormai gi socialisti, che si sarebbe
dovuto invece irrobustire tramite lulteriore sviluppo delle forze produttive.
Negli anni 60, in particolare nella seconda met, pur essendomi allontanato dal Pci nel 63, ero
discretamente edotto delle pratiche del partito, molto produttive in fatto di poteri acquisiti
nellambito dellorganizzazione e riproduzione dei rapporti capitalistici. Andai da Bettelheim a
Parigi e non a Cambridge od Oxford o allMIT, ecc., mossa essenziale per la carriera accademica
in un paese ormai culturalmente succube degli Usa perch interessato alla critica, non soltanto
politicistica ma pure teorico-dottrinale, delle tesi revisioniste, gradual-riformistiche, del
comunismo italiano. Quindi, allepoca del dibattito di cui si sta parlando, conoscevo bene la portata
desso, che cosa si stava giocando; e che, lo ribadisco, in effetti non si gioc per il veloce tralignare
del berlinguerismo. Purtroppo ci fu chi nemmeno intu, almeno a spanne, un simile sbocco e si mise
di fatto nelle mani di certe trame, in specie elaborate dai Servizi dei paesi orientali per motivi gi
pi volte indicati in altri miei scritti; ma che poi provocarono la reazione di quelli occidentali,
appoggiati da buona parte dei poliziotti piciisti, con la creazione di un caos in cui chi non si era
tirato indietro in tempo fu travolto negli anni detti di piombo.
Ricordo, en passant, che molti anche alcuni ancora in circolazione ma di cui non far il nome
(tanto capiscono di chi parlo, se mi leggono) mi criticarono come criptorevisionista per aver
compreso in tempo con buona approssimazione cosa stava avvenendo nel Pci e dintorni, e nel non
aver mai voluto partecipare ad una lotta scriteriata e balorda condotta senza alcuna protezione,
allo sbaraglio contro il revisionismo, che non poteva che condurre dove ha condotto molti:
galera o tradimento o tutti e due! Il vero fatto che io non sono un intellettuale come continuano a
credere in molti. Sono un prodotto della medio-alta classe imprenditoriale e ho sufficiente
concretezza per capire che le idee non orientano il mondo. Purtroppo sono un prodotto mal
riuscito che non voleva essere padrone, ma nemmeno servo come sono gli intellettuali (quasi
tutti); e purtroppo chi sta in mezzo subisce le pi malefiche conseguenze. Cos non sono un
miliardario (padrone) e nemmeno un matre penser (servo ignobile ma ben pagato). E nemmeno
un esperto, portaborse di qualche Maestro e andato ad allenarsi nel mondo accademico angloamericano, giocando al ritorno per qualche anno al marxista o al critico liberal per essere infine
chiamato a cianciare nei media e infilato in qualche Ministero o simile (se sono intelligenti, sono
decine e decine a doversi sentire chiamare in causa, perch di questi bassi opportunisti, che hanno
impestato tutti i gruppetti antirevisionisti e rivoluzionari dellepoca per procurarsi titoli di

merito in ambito accademico e/o giornalistico, ne ho conosciuti in quantit superiore alle capacit di
assorbimento del mio fegato).
3. La critica della corrente che sosteneva la centralit dei rapporti di produzione nella
transizione da una formazione sociale allaltra intendeva riprendere lorientamento rivoluzionario
contro lormai avvenuta pacificazione tra comunismo europeo (eurocomunismo) ma anche di
molti altri paesi, perfino del terzo mondo e i gruppi dominanti nei paesi capitalistici dellarea a
pi alto sviluppo, un sistema di paesi centrato sugli Stati Uniti e la loro politica imperiale; e non
semplicemente imperialistica come si diceva con linguaggio impreciso e tributario di una pseudoortodossia leninista o di un pi generico concetto di imperialismo in quanto dominio coloniale o
neocoloniale.
Ci furono molte forzature: ad es. la considerazione della ben nota (ormai a pochi per la verit)
Prefazione del 59 di Marx, considerata a volte addirittura un testo non marxista. Nel mio recente
Due passi in Marx ho cercato di compiere una pi ponderata valutazione di quel testo, considerato
la base delleconomicismo delle correnti favorevoli alla tesi della centralit delle forze produttive.
In realt, molti dei critici di questa tesi non sono veramente usciti da essa. Ci sono stati quelli che
pensavano alle tecniche produttive in uso nei paesi ad alta produttivit come sempre in grado di
riprodurre i rapporti in esse incorporati, rapporti che le avrebbero dunque plasmate ai fini di
questa incessante (auto)riproduzione (pure io sono caduto in posizioni simili per alcuni anni). Si
arrivava cos, magari inconsapevolmente, a implicite forme di luddismo poich per distruggere i
rapporti era necessario annientare una serie di tecnologie; o quanto meno si sosteneva la necessit di
non importare nei paesi in cui si voleva attuare la transizione al socialismo le tecnologie dei
paesi capitalistici se non dopo attenta analisi e trasformazione per riadattarle ai bisogni (del tutto
imprecisati e non conosciuti) di quei paesi.
La vecchia ortodossia sosteneva che i rapporti capitalistici si sarebbero ad un certo punto
trasformati in catene per lulteriore sviluppo delle forze produttive; sarebbero perci state
necessariamente suscitate le forze rivoluzionarie capaci di spezzarle, provocando la nascita di nuovi
rapporti. Nella critica a tale tesi si prendeva atto della capacit di sviluppo del capitalismo, che non
ha alcun limite prefissato da nessuna legge storica (economica); tuttavia si accreditava di fatto
lidea che tale formazione sociale la pi adeguata allo sviluppo produttivo, accompagnato quasi
sempre dallinnovazione tecnico-organizzativa; giacch sviluppo e crescita (che non richiede, di per
s, linnovazione) non sono lo stesso fenomeno, ma sono di solito fra loro collegati. Nel contempo,
una parte delle critiche alla tesi dello sviluppo delle forze produttive diffondeva il timore che
questultimo riproducesse sempre i rapporti della societ da rivoluzionare, per cui bisognava
essere diffidenti nei suoi confronti e, in definitiva, boicottarlo. Non si usciva cos per nulla dalla tesi
della centralit delle forze produttive (oggettive); e il capitalismo diventava una sorta di mostruoso
automa sempre in riproduzione di per se stesso, a meno di non intralciarne lo sviluppo, e dunque
linnovazione tecnica; da cui consegue in genere limpossibilit di aumentare la produttivit del
lavoro, ottenuta di solito con una diversa organizzazione del processo lavorativo e lintroduzione di
nuove tecnologie che ne alleviano la fatica.
Peggiore ancora stata la critica alla tesi delle forze produttive proveniente dagli umanisti, da
coloro che piangevano (e ancora piangono) sulle sorti della classe operaia o delle masse
lavoratrici, sacrificate sullaltare dei profitti capitalistici (soprattutto di quei parassiti dei
finanzieri). Sarebbe stato invece necessario fare appello alle risorse di questa classe o delle masse,
capaci (secondo i soliti cervelloni degli intellettuali di questa fatta, del tutto avulsi dal mondo cos
comesso !) dinventivit e innovazione sociale; soprattutto in grado di ribellarsi ai soprusi del
Capitale (quello ovviamente totale, che intende sopraffare e sottomettere a s tutto linsieme
dellEssere Umano, dellintero suo corpo e delle sue capacit cognitive). La Fiera delle imbecillit
sessantottarde (e seguenti) stata ricchissima di prodotti di scarto di avanguardie pseudo-culturali
di una demenza sconosciuta, credo, in altre epoche storiche della Umanit. In ogni caso, in simili

tesi e in quelle del comando del Capitale, della sfida operaia con risposta del suddetto
Capitale, e via vaneggiando non c alcuna prevalenza dei rapporti sociali; semplicemente si
esalta la forza produttiva dellUomo, o in generale o con specifico riferimento alluomo lavoratore
nella fabbrica (prima quella meccanica fordista e poi quella presunta sociale complessiva) del
capitalismo.
4. Del resto, anche lo spostamento verso la centralit dei rapporti sociali non stato scevro di
limiti gravi. Nei casi di maggiore superficialit ci si attenuti fondamentalmente ai rapporti
mercantili, ai rapporti tra uomini cosificati nel mero scambio di prodotti del proprio lavoro in
quanto merci (siamo nei paraggi del sismondismo e proudhonismo). La riduzione economicistica
dei rapporti sociali qui molto evidente; soprattutto per si fa dellambito di superficie della
formazione sociale capitalistica dove, come Marx aveva avvertito, vige una sempre maggiore
libert nello scambio ed una tendenziale eguaglianza di valore delle merci scambiate tra compratori
e acquirenti, nel senso di una oscillazione dei prezzi intorno ai valori (prescindendo dalla
trasformazione dei valori in prezzi di produzione, che non ci interessa) il fulcro della societ.
Allora, ancora una volta, la lotta anticapitalistica viene ridotta a pura questione di rapporti di forza
nella distribuzione del prodotto, alla ricerca di una maggiore equit nello sfruttamento
(creazione ed estrazione del plusvalore come profitto) che la vera acquisizione di Marx come
scienziato e non come chiacchierone filosofico sulla sorte alienata dellUomo. A che cosa si poteva
giungere allora? A proporre quellaberrazione teorica e politica del socialismo di mercato, ultimo
rifugio (ormai diroccato) di cialtroni opportunisti, che cercano di difendere il loro passato di
fallimentari teorici e storici degli altrettanto falliti tentativi di transizione al socialismo.
C stato a mio avviso un positivo tentativo di formulare una tesi di trasformazione dei rapporti
sociali (da Marx indicati quali rapporti di produzione sia pure sociali) in quanto critica ad ogni
forma di attendismo gradualistico (tesi delle forze produttive) o di puro ultrarivoluzionarismo
parolaio in favore dellUomo (o in generale o di quello Lavoratore o delle masse popolari, ecc.).
Si trattato del tentativo althusseriano. Condotto tuttavia con qualche inconsapevolezza della teoria
del valore marxiana, che teoria dello sfruttamento (estrazione di plusvalore, forma di valore del
pluslavoro) pur nella supposizione (astrazione scientifica) di una perfetta parit di forze e quindi di
eguaglianza tra venditore e acquirente di forza lavoro in qualit di merce. Tutto sembrava invece
rinviare ad un rapporto di forza nella lotta di classe che, ad un certo punto, si trasformava cos in
entit piuttosto confusa e poco perspicua, un autentico deus ex machina di particolare artificiosit.
Si dovuto accettare la tradizionale divisione della storia del capitalismo in due epoche: quella
concorrenziale (sostanzialmente ottocentesca) e quella del monopolismo (trasformazione avvenuta
in particolare a partire dalla lunga crisi del 1873-96). Si anche distinto tra la determinazione
dultima istanza (delleconomico: ulteriore omaggio allortodossia) e la dominanza. Si allora
sostenuto che nella prima epoca del capitalismo sia la determinazione dultima istanza che la
dominanza appartenevano alleconomico (alla sfera produttiva e finanziaria); mentre nella seconda
epoca questultimo restava determinante in ultima istanza mentre la dominanza passava alla sfera
della politica e dellideologia, condensata nellindicazione della presenza decisiva degli apparati
ideologici di Stato. Difficile pensare ai caratteri della determinazione dultima istanza, dato che non
si potevano ridurre i rapporti sociali capitalistici soltanto a quelli nel mercato; e nemmeno fare
semplice riferimento alla tecnologia e allorganizzazione lavorativa nelle fabbriche. Quanto alla
dominanza nellepoca del monopolismo, ovvio che i rapporti di produzione venivano in sostanza
pensati quali rapporti di potere.
Interessante la distinzione tra propriet (dei mezzi produttivi), considerata nella sua mera forma
giuridica (ma n Marx n alcun marxista pensante lhanno ridotta a questo), e potere di disposizione
o di controllo sui mezzi stessi. Tale potere rinviava per appunto, in definitiva, a quello detenuto
negli apparati della sfera politica e ideologica. In primo luogo, mi sembra sia venuta a mancare una
pi netta distinzione tra gli apparati propriamente statali, con particolare riferimento a quelli di tipo

coercitivo e repressivo, e quelli esercitanti legemonia attraverso lideologia; e anche nellambito di


questi ultimi sarebbe stato indispensabile distinguere tra la trasmissione di forme culturali di lunga
durata (con le loro tradizioni, ecc.) e lapprontamento di ideologie pi spicciole, spesso di moda
per brevi periodi, e che hanno una ben pi scoperta funzione di mascheramento e di menzogna circa
le intenzioni dei gruppi dominanti (per cui sono spesso fonte di incultura o di semicultura come
quella tipica di certo ceto medio sinistrorso odierno).
Di fatto, lo Stato divenuto nellalthusserismo un coacervo di apparati dei pi svariati tipi, tutti
per raggruppati nello stesso luogo, eletto a principale campo, dunque anche oggetto (obiettivo),
dello scontro tra gruppi sociali; privilegiando inoltre il conflitto in verticale tra dominanti e
dominati, con il solito schema duale di semplificazione caratteristico del marxismo tradizionale. Lo
Stato , s, un insieme di apparati, ma in quanto condensazione, precipitazione, di un complesso
intreccio di conflitti tra pi gruppi sociali, in cui si verifica, in circostanze diverse, il prevalere di
uno o di alcuni dessi o il loro accordo compromissorio, ecc. Linsieme di apparati mantiene, anche
a lungo, uno statuto legale unitario, che tuttavia nasconde lo scontro e il mutare delle egemonie e
del potere vero e proprio: sempre corazzato di coercizione, altrimenti non affatto un potere. Chi
crede in quello decisivo della cultura il solito intellettuale arruffone, che fa il gioco dei dominanti,
sempre ben pagato e onorato per i suoi bassi servigi di confusione mentale indotta in potenziali
oppositori.
Inoltre, nella storia, i pi lunghi periodi sono caratterizzati dal conflitto tra gruppi dominanti di
alto e medio-alto livello; a volte ci si traduce nella formazione dei cosiddetti blocchi sociali, in cui
gruppi a pi basso livello sono trascinati e orientati nella lotta da quelli dominanti. Proprio per
questo, in tali periodi storici, allinterno dei gruppi a basso e medio-basso livello, quandanche si
situino in posizione durto con quelli dominanti, si formano nuclei dirigenti (lites) che vengono
infine cooptati verso lalto, verso i dominanti stessi. Solo in particolari congiunture di scontro acuto
e violento tra i dominanti, con disgregazione del collante (egemonico) sociale, paralisi del potere
coercitivo (i suoi vari apparati di intralciano lun laltro e alla fine si sgretolano), con conseguente
crisi aperta del suddetto statuto legale unitario che tiene legati i vari apparati, le lites dei
raggruppamenti sociali di medio e basso livello emergono in dominanza, ricreando a lungo andare
altri (e diversi) gruppi egemonici e dotati di potere in una societ nuovamente normalizzata, in
genere mutata nella forma dei rapporti sociali che la caratterizzano prevalentemente (si tratta allora
di una nuova formazione sociale).
5. Ho cercato di sintetizzare nel migliore (o meno peggiore) modo possibile un dibattito che ha
coinvolto principi fondamentali di una teoria poi trasformata in dottrina allorigine di complesse
pratiche di quello che stato denominato movimento operaio, in specie di quello di orientamento
comunista, dato che nel secondo dopoguerra la socialdemocrazia ha abbandonato il marxismo. A
qualcuno sembrer forse che quel dibattito non abbia pi molto da dire. Sarebbe un errore. Intanto,
pur non rifacendosi al marxismo, le teorie decresciste sono pienamente dentro lorizzonte della tesi
relativa allo sviluppo delle forze produttive. Il fatto di considerarlo negativo invece che positivo non
cambia in nulla limpostazione sostanziale, che dimentica opportunamente, e opportunisticamente,
il problema della trasformazione dei rapporti sociali per la qual trasformazione occorre rifarsi alla
politica del conflitto; magari non pi di classe, ma pur sempre conflitto tra interessi di gruppi
sociali differenti mettendo cos in bella evidenza la vera natura di simili tesi, non a caso sostenute
(e finanziate) in molti casi da grandi gruppi capitalistici tipo quelli rappresentati da Al Gore o Soros
e altri personaggi simili.
Criticare la tesi della centralit delle forze produttive in termini di sviluppo e trasformazione
della societ significa quindi prendere netta posizione contro le tesi dei decrescisti, metterne in luce
il falso anticapitalismo, mentre essi si pongono invece al pieno servizio dei capitalisti, una parte dei
quali ha perso fiducia nelle magnifiche sorti e progressive di questa societ; per cui si dedica a
imbrogliare le carte servendosi anche di ultrarivoluzionari venduti e pronti ad ogni basso

servigio pur di distrarre lattenzione dai veri nodi del problema capitalistico. In questo senso, i
decrescisti sono dello stesso stampo di coloro che insistono nellattribuire lattuale crisi ai cattivi
finanzieri o anche alla finanza tout court e ai banchieri o alle manovre monetarie, ivi compreso il
signoraggio, ecc.
Del resto, solo una parte (minoritaria) del decrescismo (e della difesa della Natura) dipende da
perdita di fiducia nel capitalismo; la parte maggioritaria rappresentata da consapevoli imbroglioni,
pagati dalle imprese capitalistiche che lucrano ottimi affari con tutte le mode attuali: le energie
alternative (che non saranno mai altro se non un modo accessorio di guadagnare lauti profitti), i
commerci equosolidali, le coltivazioni biologiche e tutta una serie di altri imbrogli, del tutto
interstiziali nel capitalismo odierno, affidati a gruppi di semidiseredati, alcuni dei quali diventano
agenti discretamente ben pagati dai dominanti, trascinando dietro di s alcuni gruppetti di totali
diseredati cerebrali. Il tutto fa brodo per un capitalismo che dovr attraversare una lunga crisi
quanto meno di stagnazione tendenziale, tipo quella di fine 800.
In definitiva, si cerca di dirottare la possibile lotta e critica lontano dal centro del problema
odierno: lattuale configurazione del sistema mondiale dei rapporti capitalistici, che vede ancora in
posizione preminente gli Stati Uniti. Non per perch sono in mano di questa o
quellAmministrazione presidenziale e dunque politica; e, in definitiva, di dati gruppi dominanti. E
senzaltro indispensabile coltivare lattenzione per la differente politica (in quanto complesso di
mosse strategiche) condotta dai diversi gruppi dominanti. Tale attenzione deve per indirizzarsi
allanalisi e valutazione delle possibilit di unopposizione alle loro mosse (appunto differenti),
senza mai dimenticare che certe critiche alla societ attuale, sommariamente indicata come
capitalistica, servono in realt gli interessi di specifici gruppi dominanti o di altri, dimenticando il
fulcro essenziale rappresentato dai rapporti sociali e dalla politica che ne consegue, celata dietro i
vaneggiamenti sulla difesa dellordine naturale o della Umanit in generale.
La conoscenza del dibattito di cui si sta discutendo ha pure un altro scopo precipuo. Ci sono
alcuni vecchi arnesi del rivoluzionarismo sessantottardo (e seguenti), che sfruttano la (peraltro
vaga) conoscenza della critica alle forze produttive per tentare ancora una volta di difendere, nella
sostanza, la formazione sociale capitalistica nella sua peggiore configurazione storica, quella che,
tanto per andare al pratico, vede la societ italiana in mano ai cotonieri (spero ci si ricorder da
dove deriva tale termine da me affibbiato ad una classe imprenditoriale di puri servi). Gli ambigui e
viscidi pseudo-pensatori del sessantottismo sviluppano il seguente argomento (lhanno usato anche
contro di me), che in realt dimostra solo la loro ignoranza dei termini minimi di un corretto
dibattito: se si contro la decrescita, essi affermano, allora si favorevoli alla centralit delle forze
produttive; eppure, essi continuano, certi personaggi (fra cui il sottoscritto) avevano un tempo
criticato simili tesi. Si tratta di individui in perfetta mala fede o di crassa ignoranza.
Come gi detto, mettere il segno meno invece che pi alle forze produttive non cambia la
sostanza del problema; in ogni caso, si allontana lattenzione del critico dallanalisi dei rapporti
sociali costitutivi della formazione sociale capitalistica. Il fine dei vecchi arnesi di cui sopra
proprio impedire che si parli del capitale in quanto rapporto sociale. Il capitalismo sarebbe solo un
Male per lUomo; cio per questi poveri di pensiero che si credono lUomo per antonomasia. Sono
insoddisfatti e angosciati; e noi allora ci dovremmo occupare di questo loro disagio? Si arrangino
come fanno tutti gli individui concreti, semplici uomini (al minuscolo), che hanno sempre al loro
fianco lorizzonte della morte. Il capitale non centra nulla con questo problema, non lo pu
risolvere, ma nemmeno lo aggrava pi che tanto.
I teorici della centralit dei rapporti sociali (di produzione o pi complessivamente considerati)
tentavano di contrastare il gradualismo riformista di quelli che venivano considerati i revisionisti,
gli opportunisti ormai lanciati verso la collaborazione con il sistema capitalistico e i suoi gruppi
dominanti. Vi era ancora la credenza di poter rilanciare la rivoluzione e riprendere la transizione
verso la nuova formazione sociale socialista (in attesa di quella comunista); ma senza mai il sogno
impossibile di evitare il disagio legato alla malattia, alla morte, alle disgrazie varie che ci affannano,

chi pi e chi meno, per tutta la nostra vita individuale. Nessun althusseriano si mai scagliato
contro la crescita della produzione, contro linnovazione tecnica e via dicendo. Semplicemente
dicevamo: questi risultati li ottiene anche il capitalismo, i rapporti del capitale non sono affatto
catene che impediscono la loro realizzazione. I revisionisti, per giustificare il loro cedimento
opportunistico, sostenevano invece proprio che, se il capitalismo si stava sviluppando, allora i suoi
rapporti sociali non erano ancora diventati le famose catene; era perci utile non creare disordini,
non avere intenti rivoluzionari, si doveva aiutarlo a svilupparsi ancora di pi, cosicch si sarebbe
infine (campa cavallo.) impiccato da solo a questi suoi rapporti una volta divenuti impedimenti.
Oggi, quel dibattito stato superato ma non caduta in disuso la sua utilit, ove attentamente
valutata perch crollata ogni prospettiva di transizione al socialismo, di lotta per il comunismo
che, per alcuni sopravvissuti, ormai una semplice aspirazione sentimentale. Non vi dubbio che il
capitalismo e fra laltro la nostra ignoranza della societ tale che chiamiamo tutto capitalismo,
senza riuscire a fare un minimo di distinzione decente tra diverse formazioni sociali si sta
dimostrando una societ con molte mostruosit, soprattutto per culturali. Adesso stiamo vivendo
una crisi che rimette in discussione molte conquiste di quelle che per i pensatori del disagio
trattano da solo materiali, quindi da disprezzare ma non si tratta della fine di una societ
cattiva, da cui poi sorger quella migliore. E una fase storica di riarticolazione dei rapporti (di
potere) tra gruppi sociali e tra diverse formazioni ancora largamente sconosciute da chi insiste a
caricare a testa bassa il capitalismo, e nulla pi.
Ancora una volta indispensabile mettere allordine del giorno lanalisi di questi rapporti
sociali. Invece, chi ha ormai abdicato ad ogni intento di pensare criticamente, problematicamente, si
abbandona ai lamenti sullUomo alienato o sulla Natura violentata. Si curassero il loro spleen in
splendida solitudine e non ci seccassero! No, hanno scoperto che i gruppi dominanti e soprattutto i
subdominanti, i cotonieri reazionari e smaniosi di mettersi al servizio dei predominanti li
pagano bene, li ospitano nelle Universit (ormai luoghi di abiezione), li fanno scrivere sui giornali,
li ammettono in TV, pubblicano tutte le pi futili e ignobili aberrazioni del loro pensare con case
editrici che ancora si impegnano nel distribuirle, nel finanziare convegni organizzati per rimbecillire
viepi il popolo e trasmettere il messaggio che ormai siamo alla fine della Storia, alla fine di ogni
speranza; salvo quella di questi cialtroni che se la ridono fra loro e si divertono alle nostre spalle.
6. E allora noi torniamo testardamente ai rapporti sociali. Usciamo da un fallimento storico;
fallimento solo se considerato in relazione allobiettivo di trasformazione sociale che stato
lintendimento dei comunisti per un secolo e mezzo o gi di l. Ho gi detto in altra occasione che la
Rivoluzione dottobre (e altri eventi rivoluzionari che ne sono seguiti), considerata dal punto di vista
dei suoi effetti di mutamento delle fasi storiche, non fallita per nulla; ma non era questo lobiettivo
perseguito per tanto tempo e ormai alle spalle. Quindi su questo ragioniamo. Tenuto conto dei vari
ismi ancora in campo, non credo proprio che il marxismo ci faccia brutta figura; rispetto al
liberismo a mio avviso allavanguardia. Per cui solo i totalmente ignoranti della reale
problematica di Marx si gonfiano il petto quando ripetono le loro stolte ricette sul libero mercato
con i suoi automatismi, sul vantaggio per i consumatori delle liberalizzazioni che porterebbero
allabbassamento dei prezzi (ma dove mai vivono questi individui: o sono dementi o, piuttosto, dei
furfantoni ben pagati da gruppi dominanti sempre pi rapaci).
Quindi, in attesa che il movimento sociale effettivo stimoli nuovi pensieri e nuove ipotesi (che
non sinventano per genio di qualcuno, altrimenti dovremmo credere che da quarantanni viviamo
in un mondo di perfetti deficienti), dobbiamo sfruttare linsegnamento del marxismo e del suo
indubbio invecchiamento e logoramento nel promuovere una pratica politica in base a determinate
previsioni circa la dinamica della societ capitalistica che ci segnala errori di valutazione o
comunque limpossibilit delleffettuazione di quella pratica con quei dati obiettivi. Secondo me,
occorre intanto giungere ad alcune conclusioni da considerarsi abbastanza definitive. Innanzitutto,
indispensabile smetterla con lidea di poter rappresentare, sia pure in schema, il reale, immaginando

di esso una precisa struttura di relazioni, dotata di una cosiddetta dinamica che in effetti una
cinematica, un succedersi in momenti successivi di configurazioni diverse (da noi pensate e
costruite via ipotesi) della struttura (inesistente nel reale).
Si possono ravvicinare fin che si vuole questi successivi momenti, costruendo limmagine di un
movimento apparentemente continuo; il successo di questa nostra rappresentazione del reale
dipende dalla posizione della configurazione iniziale e dalla supposizione di mutamento delle
variabili secondo una successione che si pensa legata a specifiche leggi, deterministiche o
probabilistiche. Sempre, allimprovviso, appare una discontinuit che ci lascia sorpresi; non ,
per, veramente una discontinuit, che la continuit costruita, ravvicinando quanto pi possibile i
momenti successivi, dipende pur sempre dalla struttura posta allinizio appunto come mera
rappresentazione del reale. Poich questultimo continuamente sfuggente, ci si trova ad un certo
punto nella necessit di pensare una nuova struttura, che una differente singolarit da cui riprende
avvio la successione delle nostre supposizioni circa il suo movimento. La discontinuit dipende
dalla nostra impossibilit di agire con efficacia nel reale continuo, fluido, oscillante, squilibrante.
Siamo obbligati ad arrestarlo, stabilizzarlo, strutturarlo, ecc. per svolgere unattivit capace di
produrre effetti; cos comportandoci, tuttavia, i nostri schemi invecchiano e arriva il momento in cui
essi non orientano pi azioni dotate di senso e di incisivit.
Salvo i soliti discorsi orientaleggianti che mai hanno risolto i problemi nelle formazioni
sociali dimostratesi vincenti su scala mondiale, e che continueranno ad esserlo finch troveranno di
contro a loro questi santoni imbelli il nostro modo di agire nella moderna societ non in grado
di discostarsi dal procedimento appena indicato. Essenziale diventa allora prendere atto del
problema e non sognare di avere rappresentato compiutamente, sia pure in schema, il reale e il suo
effettivo movimento. Quel che accade nel Cosmo, dove i mutamenti possono anche riguardare
miliardi di anni, non ci interessa qui ed ora. E per favore lasciamo stare il fascino della
microfisica perch non siamo microbi pensanti. Atteniamoci al nostro mondo macrofisico, da una
parte, e sociale dallaltra e consideriamoci individui agenti e pensanti in una data epoca storica
della societ.
Se vogliamo elucubrare su problemi sempre esistenti per noi umani, del tipo della vita e della
morte con tutto ci che ci va dietro, nessuna obiezione; atteggiamento assai pi che
comprensibile, direi doveroso. Quando per riflettiamo sul nostro vivere nel cosiddetto divenire
storico-sociale, cerchiamo di non perdere il buon senso e non lasciamoci andare a fantasie, che
pretenderebbero di trascendere lorizzonte spazio-temporale in cui siamo situati. Sia nel fare storia
(pensare il passato) sia nella previsione del futuro, meglio utilizzare categorie teoriche (pi o
meno elaborate, talvolta perfino inconsapevoli) adatte alla formulazione di specifiche ipotesi (anche
per quanto concerne il passato usiamo ipotesi); e si tratta pur sempre di teorie (e ipotesi) mediante le
quali interpretiamo il presente al fine di potervi agire per giungere a determinati obiettivi. Queste
categorie teoriche (e le ipotesi) sono transitorie, mostreranno infine la corda; pi elastici saremo,
prima riusciremo a cogliere la loro obsolescenza, la loro progressiva riduzione di presa sulla
realt. Quanto al movimento reale, lasciamolo tranquillo a svolgere il suo consueto lavoro di
logoramento delle nostre pratiche, delle nostre speranze, delle nostre convinzioni di averlo fermato
e poi indirizzato come piacerebbe a noi; se ne sbatte altamente dei nostri desideri, anzi potrebbe
pure irritarsi e reagire con violenza se ci venisse in testa di averlo imbragato.
Non si creda che quanto appena detto abbia qualcosa a che vedere con il relativismo.
Questultimo in definitiva incertezza, indecisione, soprattutto incapacit di scendere in campo
prendendo posizione (partito); il tutto mascherato da capacit (molto limitata invero) di valutare
vari corni del dilemma, da moderazione e tolleranza, ecc. (si pensi alla ben nota, e fastidiosa
quantaltre mai, frase di Voltaire, una frase buonista, di piatto conformismo, perfettamente adatta
al ceto medio semicolto odierno!). Quando si agisce veramente dove lazione contempla pure
lapparente inazione, il temporeggiamento, il surplace a volte assai lungo (come fanno i ciclisti
velocisti) e non semplicemente ci si dedica alle chiacchiere fatue e ideologicamente favorite dai

vari gruppi dominanti per bloccare ogni azione a loro contraria, si deve assumere partito nel
conflitto, nel contempo ponendo e analizzando nei particolari il campo in cui esso si svolge e i
diversi partiti e interpretazioni del campo (in effetti, di campi differenti) assunti dai soggetti
agenti nella lotta. Tuttavia, ci si deve preparare alleventuale sconfitta, al riconoscimento di errori in
questa lotta, ai mutamenti di fase che spiazzano (alla lunga, i vincitori non meno dei perdenti) ed
esigono il riconoscimento, intanto in termini di principio, di nuove singolarit sopravvenienti (che
sempre sopravverranno) e di cui ancora una volta occorrer ricercare le categorie interpretative,
ecc. ecc.
7. Fondamentale, nella lotta passata dei comunisti, sarebbe stata la coerentizzazione (nella teoria
e nella pratica) del modello marxista utilizzato per interpretare, e prevedere, la dinamica sociale
del capitale, levoluzione dei rapporti nella formazione sociale definita capitalistica; una definizione
rimasta pressoch immutata da almeno due secoli a questa parte. Un conto impiegare
genericamente il termine capitale per indicare ogni dotazione in strumentazioni produttive ed in
moneta in quanto equivalente generale dei prodotti scambiati come merci in possesso di
particolari agenti (soprattutto, ma non solo, nella sfera economica della societ); un altro indicare
un sistema di rapporti sociali di forma storicamente peculiare, perch questo il capitale nella sua
precisa accezione marxiana.
Marx studi il modello di questo capitale (sistema di rapporti, ecc.) nel suo primo luogo di
definitiva affermazione, lInghilterra; ne trasse una serie di conclusioni e si disse convinto che esso
si sarebbe esteso a tutto il mondo. In effetti, tale modello fu surrettiziamente mutato in corso
dopera dai marxisti successivi, senza che nessuno si ponesse per troppi problemi al proposito.
Inoltre, anche Marx ebbe incertezze; per esempio us indifferentemente classe operaia e
proletariato, e la classe in questione (quella che avrebbe dovuto emancipare tutta lumanit
emancipando se stessa dallo sfruttamento) fu da lui a volte considerata e i marxisti successivi
sempre cos la considerarono linsieme degli operai in senso stretto, quelli addetti alle mansioni
fondamentalmente esecutive (e di pi basso livello, ripetitive, ecc.), mentre altre volte egli fece
riferimento al lavoratore complessivo (ingegnere e manovale).
Si badi bene: proprio dai termini usati si comprende come Marx avesse in mente la dominanza,
nei rapporti sociali della formazione a modo di produzione capitalistico, di quelli instauratisi
nellunit produttiva in senso stretto, nella fabbrica, risultato di una storica trasformazione della
bottega artigiana, attraverso la fase transitoria della manifattura, descritta nelle pagine sulla
accumulazione originaria del capitale; accumulazione intesa quale trasformazione di rapporti, non
semplicemente crescita di forze produttive oggettive. La fabbrica il luogo della trasformazione
di materie prime in prodotti finiti; si pu considerare pi genericamente la trasformazione di input
in output, in ogni caso sempre presente un preciso processo lavorativo che vede associati, in forma
cooperativa, la figura dirigenziale (lingegnere) e quella esecutiva (il manovale).
Il testo pi significativo per le indicazioni, comunque sommarie, relative alla formazione
delloperaio combinato, in quanto complessivo insieme di lavoratori direttivi ed esecutivi in
cooperazione, il cosiddetto Capitolo VI inedito (edito molto dopo la morte di Marx), in cui vi sono
pure le splendide pagine sulla sussunzione, prima formale e poi reale, del lavoro nel capitale (con
passaggio da una determinata forma, transitoria, dei rapporti sociali capitalistici ad unaltra, quella
considerata definitiva). Capitolo comunque tolto dallautore stesso nella pubblicazione del primo
libro de Il Capitale, lunico testo di questopera effettivamente e integralmente di Marx. Non mi
lancio in illazioni sui motivi del toglimento, non sono addottorato in sedute spiritiche; noto solo
che non stato pubblicato, rendendo pi difficile quella coerentizzazione cui ho sopra accennato.
Il sottoscritto ha preteso di compierla con un lavoro durato molti anni e che stato consegnato in
centinaia, e pi ancora, di pagine, tutte pubblicate negli ultimi 15-20 anni. Le do quindi per
conosciute, altrimenti chi vuole si documenti. Ricordo solo che tale dinamica, fondata sulla
spietata concorrenza intercapitalistica, mette in moto la centralizzazione dei capitali, da cui deriva

10

non tanto il passaggio al capitalismo monopolistico (e poi ancora a quello di Stato, tutto sommato
una contraddizione in termini), quanto invece la trasformazione di quel rapporto che il capitale.
Le potenze mentali della produzione in definitiva la capacit di dirigere e innovare nei processi
produttivi di fabbrica, di trasformazione di input in output spettavano nel pi antico capitalismo
concorrenziale al capitalista, considerato il proprietario privato dei mezzi di produzione.
Con la centralizzazione, tale capacit (detta poi, non da Marx, imprenditoriale) si sarebbe
trasferita, per il Nostro, nellingegnere divenuto lavoratore salariato e facente ormai parte
delloperaio combinato (lavoratore collettivo cooperativo), mentre il capitalista sarebbe divenuto
solo proprietario; una propriet trasformata con laffermarsi della societ per azioni. Detto in
termini molto pi moderni, Marx avrebbe pensato una sorta di rivoluzione dei tecnici (in realt un
loro vero amalgama cooperativo con i lavoratori manuali ed esecutivi) e non quella manageriale
teorizzata 70-80 anni dopo da Burnham. In ogni caso, da tutto ci discendono le conclusioni di
Marx in merito alla trasmutazione della societ capitalistica in socialistica un cambiamento da lui
gi creduto in atto ai suoi tempi (si legga anche soltanto lultimo paragrafo del capitolo
sullaccumulazione originaria) che ho molte volte analizzata con dovizia di particolari nei miei
scritti.
Una volta coerentizzato il modello marxiano di avvento del capitalismo, di suo sviluppo e di
transizione ad altra societ sempre in termini di trasformazione dei rapporti sociali e non per
quanto concerne laspetto quantitativo dei capitali accumulati e centralizzati, con semplici
modificazioni delle forme di mercato si comprende pi facilmente limpasse della lotta
comunista e infine il suo tramontare ed esaurirsi. Pu restare la tristezza, la nostalgia, il rimpianto,
sentimenti umanissimi; anche perch i sacrifici, le morti, la galera, la miseria, ecc. per conseguire
quel risultato irraggiungibile sono stati immensi, altro che i crimini commessi dai comunisti come
sostengono gli incalliti delinquenti che si sentono appagati in questa societ! Se per da questi
sentimenti si insiste a volere trarre lindicazione di una (im)possibile ripresa della lotta per il
comunismo, dobbiamo denunciare con molta chiarezza gli zombi incapaci di afferrare la realt
del loro essere morti e i mascalzoni che sfruttano questa incapacit per offrire qualche piccolo
servigio ancora pagato da certi gruppi di dominanti.
8. Mi guardo bene dal ripercorrere qui, nelle sue varie tappe, la mia coerentizzazione del
modello marxiano al fine di metterne in luce le manchevolezze e la necessit di superarlo, senza
semplicemente ridurlo a indegni sbrodolamenti filosofici ma anzi mantenendone lo spirito
scientifico e lintento critico-problematico in merito alla doppia faccia della formazione
capitalistica, con la sua superficie (soprattutto mercantile) e le sue viscere profonde, dove si
agitano i grandi sconvolgimenti che hanno determinato sia mutamenti non minori della suddetta
formazione sociale sia lobsolescenza della teoria con cui Marx volle rappresentarla nella sua
strutturazione (in una data forma di rapporti antagonistici) e nella dinamica direzionata,
oggettivamente, alla trasmutazione: prima socialistica e infine comunistica. Del resto, fra qualche
mese sar in circolazione un mio nuovo libro (Laltra strada, Mimesis) in cui si prosegue nel lavoro
ritenuto necessario a fornire un possibile orientamento di uscita da quanto ritengo ormai
ampiamente superato.
Mi sembrato non inutile riandare ad un vecchio dibattito, pur ripercorrendolo veramente a volo
duccello. Tuttavia, minteressava soprattutto mettere in luce alcuni aspetti salienti. Innanzitutto il
come si dibatteva allora, soprattutto in campo marxista. Secondo me non esiste oggi la stessa seriet
e lo stesso rigore nelle discussioni, almeno in quelle in cui continuo ad imbattermi. Bisogna inoltre
ben dire che non vi pi, almeno nei settori intenzionati a criticare la moderna societ, alcuna teoria
comunemente condivisa. Allora ci si poteva accusare reciprocamente di revisionismo o di
estremismo infantile, secondo labitudine invalsa da molti decenni, ma le categorie di riferimento
erano comunque consolidate e ci si riusciva ad intendere nelle pi aspre diatribe. Era inoltre chiara a
chi partecipava al dibattito a parte la solita base militante, soprattutto interessata a quello che

11

dicevano i capi e capetti; che si trattasse di quelli del Pci o quelli dei vari gruppetti via via formatisi
negli anni 60 e 70 la posta politica in gioco dietro la solo apparente astrattezza di certi temi
teorici, conditi anche di ampie carrellate storiche intorno alle vicende del cosiddetto movimento
operaio e allevoluzione del suo pensiero nelle diverse correnti riformiste e rivoluzionarie.
Infine, non si creda che alcune delle misere tesi attualmente alla moda tipo la decrescita o
leco-sostenibilit e altre piacevolezze di questi tempi di degrado intellettuale e culturale non
abbiano proprio nulla a che vedere con quel dibattito, pur se in forma di grave scadimento
dellintelligenza. Spesso si tratta di tesi che si rifanno, in modo pi o meno aperto, alla totale
dimenticanza della politica come campo di scontro e conflitto acuto tra interessi, sempre avvolti da
specifiche ideologie, di dati gruppi sociali, in genere sempre quelli dominanti che ormai conducono
le danze in questa fase storica. I deboli critici del capitalismo diventano semplici critici di ogni
modernit e progresso (considerato un termine osceno) perch non comprendono pi nulla della
necessit di andare ai rapporti sociali di ogni data fase storica, sia pure con la consapevolezza di una
conoscenza via ipotesi sempre soggette ad errori e alla necessit di revisioni o di drastici
cambiamenti di indirizzo. Si preferisce oggi soddisfare lorrendo ceto medio semicolto, il quale
magari blatera di predominio di chi controlla la TV e poi ripete tutte le pi stupide insulsaggini che
da quelle scatolette sostengono, con atteggiamento da geni assoluti, i loro beniamini, intellettuali
che hanno ormai lintelletto .. in quel posto l!
Non credo ci sia molto altro da dire. Se volete, prendetela come una vacanza, ma credo non
priva di interesse per chi capisce come la teoria non sia una fisima da intellettuali. Anzi, oggi sono
proprio quelli che passano per intellettuali presso lincolto volgo i pi carenti in fatto di teoria.
Non pensano, sputano quello che ritengono pi facile far passare per sapienza antica. Poi ci
sono i tecnici, anche peggiori nella loro limitatezza di visione e nellarroganza e presunzione con
cui sparano i loro verdetti e le loro ricette quasi che la lotta politica, oggi sempre pi acuta e
spesso sconclusionata per mancanza di ampie visioni e di solidi appoggi sociali, fosse riducibile alle
formulette imparate in Universit che sono ormai da chiudere, a partire da quelle ricche e famose
anglo-americane. Viviamo unepoca di transizione, ma particolarmente povera di intelligenza.
Insisto che, anche solo mezzo secolo fa, ci si muoveva, intellettualmente, nel grasso che cola.
Non parliamo della prima met del secolo XX o di ancor prima. Chiudiamo qui, senza rimpianti ma
ricordando e facendo tesoro dei ricordi!
Finito il 5 agosto 2012

12

Vous aimerez peut-être aussi