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S.

Maria di Leuca – campo-famiglie 2009


Il Vangelo che abbiamo ricevuto: grazia e fatica di
essere Chiesa oggi
In questo primo pomeriggio vorrei delimitare il tema attorno al quale si svolgeranno le nostre
riflessioni di questi giorni. Esso riprende il tema dell’Assemblea di Firenze dello scorso 16 maggio,
promossa da alcuni teologi, laici, comunità ecclesiali.

Qualcuno ha definito l’Assemblea di Firenze dei “cattolici del disagio”. In essa infatti ha trovato
voce non tanto il dissenso o la contestazione contro qualcuno (come è accaduto in altre stagioni
della vita ecclesiale), quanto il disagio per “non vedere al centro della comune attenzione proprio il
Vangelo del Regno annunciato da Gesù ai poveri, ai peccatori, a quanti giacciono sotto il dominio del
male, mentre cresce a dismisura la predicazione della Legge” (dalla lettera di invito), per una serie
di posizioni che hanno segnato il cammino della Chiesa, in particolare italiana, negli ultimi anni: ci
riferiamo alla vicenda di Welby e di Eluana Englaro, alla revoca della scomunica al Vescovo lefevriano
Williamson e alla riedizione del Messale di San Pio V, ad alcune nomine episcopali in Polonia ed in
Austria e alla scomunica alla bambina brasiliana rimasta incinta e che poi ha abortito.

Disagio che sta portando non pochi cristiani ad uno “scisma silenzioso”, a scegliere di abbandonare
la Chiesa, o di restare sulla soglia mentre stavano per entrarvi, come mi diceva un amico qualche mese
fa. Un disagio che non può essere guarito col silenzio, ma col dialogo. Per questo una prima richiesta
è quella di una Chiesa più sinodale, di un maggiore ascolto delle diverse voci che la compongono,
soprattutto di quella laicale. Una espressione interessante di questo bisogno è stata l’iniziativa del
quotidiano francese La croix di chiedere a diverse personalità del mondo cattolico, sia laici che
ecclesiastici, “perché restare ancora nella Chiesa?”.

Vorrei ancora, prima di proporvi un lavoro di gruppo, riprendere alcuni punti della relazione di Enrico
Peyretti e Ugo Rosemberg che, in apertura dell’Assemblea di Firenze, hanno riassunto gli oltre 40
contributi scritti pervenuti via internet.
Anzitutto essi sottolineano come in tutti i contributi ci sia “una omogeneità di spirito di fondo, che è lo
spirito riconoscibile nell’invito “Il Vangelo che abbiamo ricevuto”. E c’è franchezza, parresia cristiana,
espressione di amore e sofferenza …”. E’ quella dichiarazione di amore alla Chiesa ripetuta due
volte al punto 1, su cui non dobbiamo smettere di interrogarci seriamente, se veramente è all’origine
della nostra azione e anche della nostra critica. Una dichiarazione insolita come già ricordava il padre
De Lubac nella sua avvertenza alla nuova edizione del 1967 del suo “Meditazione sulla Chiesa”,
pubblicato nel 1952, proprio mentre veniva ingiustamente privato dell’insegnamento da quella Chiesa
che amava (nel 1958 sarà riabilitato e poi per volontà di papa Giovanni XXIII ebbe parte attiva al
Concilio): “Non è di moda, negli ambienti che creano l’opinione, osar dire ad alta voce che si ama la
Chiesa di Cristo … E’ dar prova di infantilismo … ma noi temiamo meno lo scherno di certi adulti che
lo sguardo stupito di uno solo di quei piccoli (non si tratta di intelligenza) cui è promesso il Regno dei
cieli” . Ricordo anche quanto diceva fr. Roger Schutz in una delle mie prime visite a Taizè, riprendendo
una preghiera liturgica: “Oggi molti sembrano dire piuttosto: Signore, non guardare ai peccati della tua
Chiesa, ma alla mia fede!”.

Noi amiamo questa Chiesa, con tutti i suoi limiti, perché non possiamo opporre una Chiesa visibile
a una tutta interiore e spirituale: “Con forza sempre crescente, la sua bellezza ci ha rapiti. E tuttavia
non l’abbiamo contemplata come in sogno. Non abbiamo cercato una specie di evasione, fuori della
banalità quotidiana o delle tristezze dell’esistenza, in una visione irreale, fluttuando al di sopra delle
nubi. Questa patria della libertà, Madre nostra, ci è apparsa nella sua regale maestà e nel suo
celeste splendore, nel cuore stesso della nostra realtà terrestre, in mezzo alle opacità e alle inevitabili
pesantezze che la sua missione tra gli uomini comporta. L’abbiamo amata – di sempre più grande
amore – così com’è non soltanto nella sua idea, ma nella sua storia, e più particolarmente così come
essa, oggi, ci appare” (H. De Lubac, dalla prefazione a “Meditazioni ..”).

Perché essa ci ha generati alla fede, ci dona il Vangelo e il perdono di Dio. Proprio negli anni in
cui il p. De Lubac viene allontanato da quella Chiesa che ama, egli scrive: “Se anche i sommovimenti
e le tempeste che infuriano contro di me dall’esterno sconvolgessero la mia anima fino in fondo, non
possono però nulla contro le cose grandi ed essenziali che costituiscono ogni attimo della nostra vita.
La Chiesa è sempre qui, maternamente, con i suoi Sacramenti e con la sua preghiera, con il Vangelo
che essa ci tramanda intatto; con i suoi santi, che ci circondano; in breve: con Gesù Cristo, presente
in mezzo a noi, e che essa offre a noi ancor più nel momento in cui ci fa soffrire … Che male può mai
fare tutto il resto di fronte a simili azioni di bontà?” (Da una lettera al padre Charmot sj del 9 settembre
1950, citata in R. Voderholzer, “Incontro con Henri de Lubac, p.48; cfr. anche la testimonianza di Y.
Congar, “Una Chiesa contestata”, p.117). Veramente ogni cattolico può dire con Paul Claudel: “Sia
sempre benedetta questa grande Madre augusta, sulle cui ginocchia ho tutto appreso”.

Ma senza ingenuità e senza chiudere gli occhi sulle sue infedeltà. “Non si tratta di chiudere
volutamente gli occhi di fronte ad insufficienze di ogni genere, sempre troppo reali; non si tratta di
non soffrirne: l’indifferenza potrebbe essere peggiore di una emozione troppo viva. La lealtà totale
e fervente della nostra adesione non esige da noi una ammirazione puerile per tutto ciò che può
esistere, o può essere pensato e fatto all’interno della Chiesa. Questa Sposa di Cristo, che il suo
Sposo ha voluto perfetta, santa, immacolata, non è tale che nel suo principio …” (o.c.p.201). “Quando,
nei suoi figli, la Chiesa si riveste di umiltà, è assai più attraente di quando domina in essi la
preoccupazione troppo umana della rispettabilità. Jacques Maritain osservava un giorno, non senza
una legittima sfumatura di ironia, che a molti cristiani del nostro tempo ogni confessione delle nostre
deficienze sembra in qualche modo indecente … Gli antichi Ebrei e persino i Niniviti non facevano tanti
complimenti. E i santi dei secoli passati ancora meno” (o.c., p.198).

Peyretti e Rosemberg riferiscono poi quali sono le cause principali del disagio (nn.4-19). In una
parola potremmo riassumerle nel rischio di trasformare “la religione cattolica in una religione civile”
(n.8), in un “neo-cristianesimo senza Parola, senza Vangelo, ridotto ad identità culturale o perfino
geopolitica, questo cristianesimo senza stranieri né samaritane e prostitute, senza pubblicani né
Zaccheo, senza adultere né poveri, dunque senza riscatto; ebbene questo cristianesimo post-cristiano
e senza speranza è il vero problema (n.6); o, detto altrimenti, nel tentativo di “mettere il Vangelo al
riparo del potere” (n.4), e di trasformare la Chiesa in una agenzia morale (n.7).

Il disagio nasce dunque più che sui temi sociali, pur presenti, sulla centralità del Vangelo nel modo
di essere Chiesa e nel rapportarsi di questa agli uomini e alle donne del nostro tempo. Insomma ci
sono oggi molti militanti ma pochi discepoli del Signore. E’ questa una tentazione da cui già il padre De
Lubac nel libro citato metteva in guardia:

“Non mancheranno mai coloro che sono pronti ad identificare così perfettamente la loro causa con
quella della Chiesa, da finire per ridurre in buona fede la causa della Chiesa alla loro. Non immaginano
neppure che per essere servi veramente fedeli dovrebbero modificare parecchie cose in se stessi.
Vogliono servire la Chiesa, ma intanto la mettono al loro servizio… La Chiesa in pratica è per essi un
certo ordine di cose col quale si sono familiarizzati e di cui vivono. E’ un dato tipo di civiltà, un certo
numero di principi, un determinato complesso di valori che la sua influenza ha più o meno cristianizzati
ma che, in gran parte, continuano a rimanere umani. Tutto ciò che turba quest’ordine o compromette
questo equilibrio, tutto ciò che li preoccupa o più semplicemente li stupisce è ai loro occhi un attentato
contro l’istituzione divina.
Non sempre, in simili confusioni, si tratta di quelle forme volgari di clericalismo che
commisurano l’onore reso a Dio con i vantaggi accordati ai suoi ministri, o che misurano il progresso
del dominio di Dio sulle anime o del regno sociale di Gesù Cristo in base all’influenza, occulta o
palese, del clero sull’andamento degli affari profani. Tutto può essere nobilmente concepito. Così il
grande Bossuet, nei suoi ultimi anni, ricalcava tutto l’ordine cattolico su un certo ordine Luigi XIV … In
tutti i campi in cui impegnò la lotta egli fu apparentemente vincitore; ma vinse in maniera tale che fu
l’irreligione ad avvantaggiarsene.
…Non rinnegheremo in tal modo l’intransigenza della fede; al contrario solo così le rimarremo
fedeli fino in fondo. Non si tratta di attenuare il nostro zelo per la verità cattolica, ma di purificarlo.
Stiamo attenti a non essere di quegli “uomini carnali”, come ce ne furono fin dalla prima generazione
cristiana, che, considerando la Chiesa come un patrimonio di famiglia, impedivano praticamente agli
Apostoli di annunciare il Vangelo ai Gentili. Noi ci esporremmo, in tal caso, ad un infortunio anche
peggiore: quello di collaborare con l’irreligiosità militante, facilitandole il compito propostosi di relegare
la Chiesa e la sua dottrina fra le cose morte” (H. De Lubac, o.c. pp.193-196).

Lascio a voi di continuare la riflessione sul testo di Peyretti e Rosemberg e concludo con
alcune domande sulle quali possiamo confrontarci nel lavoro di gruppo:
• Quali sono le grazie e le fatiche che sperimento nel mio essere Chiesa?
• Perché resto nella Chiesa? O forse anch’io sono scivolato sulla soglia se non fuori di essa?
• Quali sono le piaghe della Chiesa oggi, come io vi contribuisco?

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