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Dossier su Postcolonial Theory and the Specter of Capital di Vivek Chibber

a cura di Flix Boggio wanj-pe, Orazio Irrera e Matthieu Renault.

La recensione di Flix Boggio wanj-pe e Matthieu Renault apparsa per la prima volta in lingua francese sulla Revue des Livres, n. 13, septembre-octobre 2013; lintervista di Orazio Irrera e Matthieu Renault con Vivek Chibber stata pubblicata come supplemento online sul sito della Revue des Livres, (settembre 2013). Ringraziamo la Revue des Livres per aver autorizzato la presente traduzione italiana di questi due contributi.

Postcolonial Theory and the Specter of Capital stato uno dei volumi pi discussi del 2013 nel campo degli studi postcoloniali e in quello degli studi marxisti. Il clamore suscitato dalle sue argomentazioni molto serrate e insieme parecchio severe nei confronti della teoria postcoloniale e dei Subaltern Studies stato notevole. Il libro stato accolto con entusiasmo da personaggi del calibro di Noam Chomsky, Robert Brenner e Slavoj iek, ma ha pure sollevato numerose critiche e, soprattutto, anche alcune risposte da parte di chi stato direttamente chiamato in causa dalle analisi di Chibber, come in occasione del dibattito tra questultimo e Partha Chatterjee, durante laffollatissima conferenza Marxism & the Legacy of Subaltern Studies organizzata da Historical Materialism a New York il 26 aprile 2013. Qualunque idea ci si possa fare di questa opera, ci sembra che questo libro, cos come il vasto dibattito che attorno ad esso si sviluppato, abbiano assunto un rilievo di cui oggi non si pu non tener conto. Per questa ragione abbiamo ritenuto utile mettere assieme un dossier per presentare questo testo anche a un pubblico italiano.

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Recensione

Che fare degli studi postcoloniali?


su Postcolonial Theory and the Specter of Capital di Vivek Chibber1 Verso books, 2013 (306 p., 16,43 ) Flix Boggio wanj-pe e Matthieu Renault (traduzione dal francese di Orazio Irrera)2. In Postcolonial Theory and the Specter of Capital, Vivek Chibber intraprende una discussione in polemica con gli studi subalterni e postcoloniali di cui viene contestata, attraverso delle argomentazioni ancora inedite in Francia e in Italia, la capacit di provincializzare lEuropa. Fatto abbastanza raro da sottolineare, lautore prende sul serio gli enunciati dei suoi avversari postcoloniali e li passa al vaglio di una indagine storica e del pensiero marxista. In fondo, proprio questo il nocciolo della questione: leredit di Marx valida per pensare le societ al di fuori dellEuropa? Non nascondiamocelo : in Francia, scrivere su Postcolonial Theory and the Specter of Capital come una scommessa. Abituati a ricezioni falsate e deformate degli studi postcoloniali per molti versi sovradeterminate da dispute puramente francesi i lettori meglio informati saranno di certo tentati dalletichettare il libro di Vivek Chibber come una nuova tappa della crociata condotta da una frangia della gauche intellettuale limitata e sorda alle politiche della differenza. A dispetto di ogni nostra riserva, ci sembra che questopera vada comunque ben al di l degli attacchi a cui siamo stati abituati dai detrattori degli studi postcoloniali. Rigoroso, ricco di analisi sottili, questo libro si fa portatore di una critica che, pur essendo tagliente e vivace, non mai fatta a spese della dimostrazione o degli oneri della prova. Chibber non giudica i teorici postcoloniali soltanto in base alle loro supposte intenzioni (culturaliste, relativistiche, etnicizzanti, ecc), ma anche in base quello che fanno, ovvero alle loro argomentazioni. questo che ci vieta di contrapporgli una semplice difesa di principio degli studi postcoloniali. Esportare leurocentrismo o riportare lorientalismo? Loriginalit dellapproccio di Chibber si evince dalloggetto della sua critica. Lungi dal sottovalutare la pluralit di prospettive di cui si compongono gli studi postcoloniali, egli si pone come obiettivo quello di esaminare le posizioni e le proposizioni pi rappresentative: ci sono differenti tipi di teorizzazioni postcoloniali []. La mia prima preoccupazione in questo libro quella di prendere in esame il quadro teorico che gli studi coloniali hanno approntato per
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Vivek Chibber insegna sociologia alla New York University (NYU). autore di Locked in Place: State-Building and Late Industrialization in India, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2003. 2 Flix Boggio wanj pe dottorando presso il Centre d'conomie de Paris Nord (CEPN, Universit Paris 13 Nord) ; Orazio Irrera chercheur associ presso lUniversit Paris 1 Panthon-Sorbonne e codirettore della rivista materiali foucaultiani; Matthieu Renault chercheur postdoctoral allUniversit Paris 13 Nord PRES Sorbonne Paris Cit. 2

lindagine storica e, in particolare, lanalisi di quel che si soliti chiamare Terzo-mondo []. I pi illustri rappresentanti degli studi postcoloniali nelle ricerche sul Sud globale sono senza dubbio i Subaltern Studies (pp. 4-5)3. Chibber annuncia dunque subito che ci su cui si concentrer non sono tanto delle proposizioni epistemologiche generali della teoria postcoloniale, ma la metodologia e la concettualizzazione relativa al campo dellindagine storica. Se non ci si fidasse di quello che questo libro riesce concretamente a fare, si dovrebbe presentarlo come uno studio di teoria sociale, se non di sociologia storica. La sua forza, che al contempo anche la sua debolezza, di considerare le teorie da criticare dal punto di vista di una teoria sociale degna di questo nome. Il vantaggio di questo percorso di preservarsi dalla polemica sterile e dagli argomenti basati sulla sola autorit; lo svantaggio consiste nello stabilire dei nessi di causalit troppo immediati tra dei principi metodologici (legittimi ma discutibili) e dei vizi e delle virt politico-filosofici (oscurantismo, irrazionalismo). Chibber si spinge allora a contestare quella che a suo giudizio costituisce la tesi fondamentale della teoria postcoloniale, ovvero che tra Occidente (West) ed Oriente (East) esisterebbe unirriducibile differenza, un divario incolmabile, un chiasma strutturale. Secondo lui questa tesi che condanna i teorici postcoloniali a riprodurre un discorso che era gi quello degli ideologi dellimperialismo, diventando fautori di un orientalismo che si vorrebbe invece combattere e che nulla avrebbe da invidiare ai suoi predecessori coloniali, visto che ne ripete non solo la logica binaria ma anche alcuni temi: Il fallimento pi evidente sul fronte critico che lungi dallo sferrare un attacco contro le rappresentazioni coloniali e orientaliste dellOriente, i Subaltern Studies hanno finito per promuoverle (p. 26). Ora, chi dice orientalismo dice eurocentrismo. Per questa ragione la pretesa della teoria postcoloniale di provincializzare lEuropa non pu che essere una spiacevole farsa dal momento che questa teoria, al contrario, non smette di ripetere i giudizi pi triti che lOccidente ha prodotto sul suo altro o sui suoi altri, riaffermando con questo stesso gesto la sua centralit e la sua superiorit. Intendiamoci, Chibber non pretende mica che lIndia e il Pakistan siano identici allInghilterra e alla Francia, cos come non intende squalificare ogni analisi specifica relativa a una paese o a una regione. Egli si oppone soltanto alla tendenza, secondo lui egemonica nel campo degli studi postcoloniali, a drammatizzare la differenza Oriente Occidente per invocare una rifondazione radicale delle teorie sociali europee. Se Chibber fa questa critica proprio in nome delle stesse ragioni per cui i teorici postcoloniali tematizzano la singolarit dellOriente. Nel corpus postcoloniale, la provincializzazione dellEuropa segna un rinnovamento della teoria sociale: decostruendo un discorso (se non una pratica) di omogeneizzazione della realt, contestando delle mitologie associate alla modernit europea, mettendo laccento su tutto ci che sfugge allimpresa di dominazione uniforme e impersonale del potere economico e dello Stato-nazione. In nessun caso Chibber contesta questa diversit etnografica. Ci a cui egli si oppone lidea che sarebbe necessario costruire un nuovo paradigma solo a condizione di rispettare ed esplicitare tali differenze; poich le singolarit che si scoprono nel mondo non-europeo persistenza della dominazione impersonale, pregnanza della
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In questa sede non ci occuperemo dellidentificazione che Chibber fa di Subaltern Studies e Postcolonial Studies n dellaffermazione secondo cui queste prospettive, malgrado le differenze e le tensioni interne al campo degli studi postcoloniali, costituiscono una teoria, premesse che forse qualcuno potrebbe contestare, ma che lautore giustifica esplicitamente e che, almeno nel quadro dei suoi obiettivi, non ci sembrano infondate. 3

razza, delletnicit, o della religione nellagire politico non devono essere interpretate come delle deviazioni da logiche e da dinamiche che sono state allopera lungo tutta la storia della modernit europea.

La modernit europea in questione Per rafforzare questa critica, Chibber ricorda che i Subaltern Studies si sono costruiti in contrapposizione (e attraverso) una narrazione convenzionale della modernizzazione alla quale anche Chibber si oppone secondo cui la modernit economica sarebbe un passaggio obbligato per ogni societ e segnerebbe lemergere delleconomia di mercato, della cittadinanza e dello Statonazione, della societ civile e della democrazia. Ci che sotteso da questa narrazione di cui esiste una variante liberale o colonialista e una variante marxista o marxisteggiante che la borghesia giocherebbe un ruolo civilizzatore in tutto il mondo. Ora, sin dai suoi inizi, afferma Chibber, i Subaltern Studies si sono sforzati di opporre a questa narrazione convenzionale una contro-narrazione secondo cui lIndia non si mai pienamente convertita alla modernit borghese europea, la democratizzazione e la secolarizzazione sono restate dei processi incompiuti, il colonialismo ha mantenuto delle forme di potere arcaiche e le forme di coscienza borghese sono penetrare in maniera imperfetta nellintimit e nella vita psicologica degli ex -colonizzati/e. Per difendere queste posizioni, aggiunge lautore, i subalternisti hanno fatto ricorso a due argomentazioni. Da una parte, a differenza dellEuropa, i paesi colonizzati sarebbero stati sprovvisti di una borghesia egemonica capace di sostenere lo sviluppo economico e di introdurre delle istituzioni che avrebbero operato per lintegrazione delle classi subalterne. Daltra parte, e sempre in contrasto rispetto allEuropa, il capitalismo non sarebbe riuscito a contaminare tutte le forme di vita, affogando le identit pre-moderne in quelle che Marx aveva chiamato le gelide acque del calcolo egoista. La modernit incompiuta dellIndia sarebbe quindi il prodotto dellincapacit delle lite indiane di condurre a una modernizzazione a immagine e somiglianza di quella realizzata dalle lite europee nel diciottesimo e nel diciannovesimo secolo. Chibber non rimette in questione i risultati empirici di quegli autori (Ranajit Guha, Dipesh Chakrabarty, Partha Chatterjee) di cui esamina lungamente gli scritti, ma si oppone ferocemente alle conseguenze metodologiche e teoriche dei loro lavori. Il problema della contro -narrazione subalternista che lungi dalloffrire unalternativa alla narrazione della modernizzazione progressiva dei paesi del Sud, finisce invece per sanzionarne la problematica. Se il Sud realmente il luogo di una modernizzazione bloccata, se non di una modernit alternativa (o di unalternativa alla modernit), ne derivano delle conseguenze spiacevoli, poich allora la storia europea diventa essa stessa indiscernibile dalla grande narrazione della modernizzazione e bisogna riconoscere che lopera delle borghesie europee stata a tutti gli effetti quella di rompere le costrizioni imposte dal regime feudale, di promuovere dei regimi democratici in occasione delle rivoluzioni borghesi (del 1648 in Inghilterra e del 1789 in Francia) e di mettere assieme le classi popolari, tutti obiettivi che le borghesie nazional-colonizzate sarebbero state incapaci di raggiungere. Ma Chibber va a mostrare che quel che la narrazione convenzionale attribuisce alla modernizzazione dovrebbe invece essere attribuito alla capacit di agire (agency) delle classi subalterne e ai loro rapporti di
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forza con le classi dominanti. Secondo il marxismo ortodosso, la borghesia una classe capitalista che si sviluppa negli interstizi del feudalesimo, essendo il ruolo delle rivoluzioni borghesi quello di abbattere gli ostacoli politici (o anche culturali) al modo di produzione capitalista. Chibber, quanto a lui, si inscrive in una corrente del marxismo che rifiuta ogni idea di transizione necessaria al capitalismo e alle istituzioni delle societ capitalistiche avanzate. Inventata da Robert Brenner e sviluppata da Ellen Meiksins Wood, questa corrente chiamata con unaccezione peggiorativa marxismo politico dallo storico Guy Bois propone una lettura revisionista dellorigine del capitalismo. Le rivoluzioni inglese e francese non avrebbero in nessun modo abbattuto gli ostacoli politici allaffermazione di una classe capitalista in ascesa. Infatti, il capitalismo non sarebbe stato il prodotto della maturazione e dellespansione delle reti commerciali e finanziarie tra il sedicesimo e il diciottesimo secolo, ma la conseguenza di un rapporto di forza interamente contingente alla lotta di classe che, alla stessa epoca, opponeva in Inghilterra contadini e signori4. Per quel che riguarda la rivoluzione del 1789, essa non stata opera di una classe capitalista che secondo i marxisti politici sarebbe stata inesistente nella Francia del tempo ma stata una rivoluzione borghese non capitalista, la cui ala radicale era composta da strati popolari che rifiutavano linfluenza del mercato. Infine, la battaglia per democratizzare la Francia nel diciannovesimo secolo si giocata tra una classe dominante che sviluppava in modo autoritario un capitalismo dallalto e un movimento operaio in formazione; la democratizzazione non stata una missione storica della borghesia, ma il frutto dellattivit del suo avversario, le classi subalterne5. Nella famosa modernizzazione vi sono dunque due correnti tra loro in contraddizione: da un lato la pressione concorrenziale del capitalismo inglese che incitava le societ non capitaliste a modernizzarsi predisponendo autoritariamente delle strutture capitalistiche come in Francia o in Prussia dallaltro lato, la democratizzazione condotta dai movimenti subalterni. Chibber pu cos ribattere a Guha che non vi alcuna mancanza strutturale della borghesia indiana rispetto ai suoi predecessori. La classe capitalista indiana guardava con sdegno alle attivit delle masse subalterne, come le classi capitaliste europee [del loro tempo] []. Le classi subalterne europee hanno avuto bisogno di pi di un secolo per ottenere quel che gli Indiani hanno ottenuto sin dai primi anni del loro Stato postcoloniale (p. 89). Gli aspetti illiberali dello Stato indiano dopo lIndipendenza non sono che la lontana eco di quei regimi europei del diciottesimo e del diciannovesimo secolo. Chibber pone quindi le basi per la sua (doppia) visione delluniversale: in India cos come in Europa, la transizione verso il capitalismo risulta da una pressione concorrenziale che si universalizza generando una resistenza non meno universale da parte dei subalterni. La variet dei regimi e delle formazioni sociali risulta dalle differenze di capacit politiche tra queste due forze universali.

Cfr. Paul Heidman & Jonah Birch, In Defense of Political Marxism , International Socialist Review, n 90, 2013 (http://isreview.org/issue/90/defense -political-marxism) 5 Secondo una tradizione storiografica molto differente, ma a partire da obiezioni simili, il concetto di rivoluzione borghese contestato da Yannick Bosc et Florence Gauthier nella loro prefazione a Albert Mathiez, La Raction thermidorienne, La fabrique, Paris 2010. 5

Storicizzare la teoria: marxismo e/o teoria postcoloniale Le altre riflessioni di Chibber presenti in questo libro in particolare le critiche rivolte alle problematizzazioni postcoloniali dellagency e dello storicismo seguono la stessa logica. Contro Chatterjee e Chakrabarty, viene mostrato che se il capitalismo si universalizzato con successo, anche in India, questo non vuol dire che tale universalizzazione sia stata sinonimo di omogeneizzazione totale. Che la logica cieca e astratta delleconomia non abbia fatto presa sullinsieme delle forme tradizionali o (neo)coloniali di potere non implica in nessun modo che il capitalismo abbia fallito a universalizzarsi. Per questa ragione, il marxismo si rivela uno strumento adeguato per analizzare il capitalismo in tutti quei posti e in tutti quei contesti dove esso ha messo radici, e questo a partire dal momento in cui la teoria sociale arriva a tener conto delle differenze tra le traiettorie sociali ed economiche dei paesi sottoposti allanalisi. Uno dei principali punti di forza del libro di Chibber consiste nellesplicitare che la persistenza e/o la produzione di differenze, il divenire eterogeneo, avviene dallinterno del processo di universalizzazione del capitale in virt della sua logica pi propria piuttosto che dal suo esterno o anche dai suoi margini. Ma quello che resta nondimeno oscuro in questo percorso che Chibber rifiuta un campo teorico (gli studi postcoloniali) nella sua interezza, pur convalidando i risultati empirici e persino alcuni dei concetti elaborati dagli autori criticati. Seguendo questo filo, lerrore imperdonabile dei teorici postcoloniali sarebbe di avere formulato le loro conclusioni nei termini di una rottura analitica tra lOccidente e lOriente. Pertanto, lidea che il capitalismo (o la borghesia) ha portato alla democratizzazione o alla secolarizzazione dellEuropa, ma ha fallito nei paesi del Terzo-mondo, lidea che, tra il salariato del capitalismo occidentale, la razza e letnicit siano soppiantate dallidentit di classe6, ma che questo sviluppo non si sia prodotto nei paesi del Sud, ecc., tutte queste idee, come Chibber stesso riconosce, sono scaturite da alcune correnti liberali, ma soprattutto da una certa ortodossia marxista. Quanto al partito preso dellautore contro la narrazione della modernizzazione, esso proviene in realt da posizioni che in seno al marxismo sono minoritarie. Perch quindi biasimare gli studi postcoloniali per quello che, rispetto al loro contributo effettivo, probabilmente ci che ad essi meno proprio?7 Largomentazione di Chibber sarebbe pienamente ricevibile qualora dimostrasse che gli errori che vengono imputati alla teoria postcoloniale sono i sintomi di una mancanza pi generale di un certo marxismo o di una certa teoria sociale. Ma questo per lui significherebbe ugualmente riconoscere la dimensione sovversiva degli studi subalterni e postcoloniali allinterno del pensiero critico e, pertanto, sarebbe come minare il suo stesso contributo critico. Si verrebbe cos costretti a storicizzare la teoria sociale tradizionale per mostrare come i suoi punti ciechi siano allo stesso tempo contestati (nel migliore dei casi) o rimessi arbitrariamente in discussione (nel peggiore) dalla stessa teoria postcoloniale. Purtroppo, per quante precauzioni vengano prese quando si tratta di pensare la storia del capitalismo, Chibber resta ampiamente estraneo alla questione dellaspetto storico della teoria.
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Cfr. infra estratto n. 1. Largomentazione di Chibber sulla razionalit e gli interessi afflitta dagli stessi difetti. Lautore accusa i teorici postcoloniali di rifiutare ogni nozione oggettiva e universale di interesse socio -economico. Ora, a questo viene qui contrapposto un razionalismo che si ispira ai dibattiti propri al marxismo analitico. Se questi dibattiti sono appassionanti dal punto di vista della metodologia delle scienze sociali, non si pu in ogni caso esigere che gli autori postcoloniali sottoscrivano delle tesi che sono molto controverse entro la teoria sociale presa nel suo insieme. 6

per questo motivo che per mandare a rotoli ogni pretesa di decentramento della teoria occidentale, Chibber ritiene che basterebbe invalidare la tesi subalternista della differenza empirico-storica tra lEuropa e il resto del mondo. La logica di questa inferenza appare limpida, essa non arriva tuttavia a ridurre le rivendicazioni epistemologiche postcoloniali alla semplice questione dell(in)applicabilit della teoria ad alcune entit geopolitiche date (Oriente e Occidente) che sono separate per natura e di cui non vi sarebbe pressoch alcun bisogno di interrogarne la costituzione e le frontiere. Se Chibber non va al di l di questa concezione etnografica perch egli rifiuta deliberatamente di considerare le relazioni che tengono assieme i due termini della sua inferenza: la realt storico-empirica da un lato, la teoria dallaltro. Per dirla in modo semplice, egli schernisce la questione dei rapporti sapere-potere. Per quanti tipi di ideologie possano esservi, per lui, soltanto la teoria (astratta) degna di questo nome, ovvero il marxismo e pi in generale il razionalismo (enlightenment), sembra essere preservata per definizione da tutte le vicissitudini della realt (concreta) che essa descrive. innegabile che questa posizione possa rivelarsi salutare per bilanciare una tendenza talvolta eccessiva ad accusare la scienza di tutti i mali possibili e a ricondurre la complessa questione dei rapporti sapere-potere allidea, troppo comoda, che il primo sia determinato dal secondo. Tuttavia, oltre a ricordare come sia la stessa teoria marxista che ci ingiunge di pensare le condizioni sociali della produzione di conoscenza, bisogna necessariamente constatare che non si potrebbe adeguatamente comprendere, e dunque anche condannare, il progetto postcoloniale se venisse taciuto il fatto che la sua critica delle teorie nate in Occidente innanzitutto una critica della loro incorporazione entro i rapporti (post)coloniali di potere. Una volta amputate le loro riflessioni sulle politiche dei saperi, gli studi postcoloniali possono essere allegramente assimilati a un culturalismo, se non addirittura a un orientalismo. Per questo la messa al bando della teoria postcoloniale come corpo estraneo della teoria sociale sana, quella rappresentata dal marxismo, scarsamente sostenibile. pur vero che sotto il nome di postcoloniale (o, attualmente, di decoloniale) proliferano dei giudizi spesso frettolosi sulleredit della tradizione marxista e sul suo inestirpabile eurocentrismo, elevato al rango di principale tara. Ma si ugualmente in diritto di rimproverare al pensiero postcoloniale di essersi poco a poco concentrato, in modo certo eccessivo, sulla critica dellegemonia spirituale dellOccidente, a discapito di analisi materiali (soprattutto economiche) dei rapporti di forza/dominazione postcoloniali. dunque questa una ragione sufficiente per attribuire a tutti i teorici postcoloniali il desiderio di attaccare il marxismo una volta per tutte? Chakrabarty non afferma, ad esempio, nellintroduzione di Provincializzare lEuropa, che il pensiero politico europeo, rappresentato qui sempre da Marx, allo stesso tempo indispensabile e inadeguato per pensare la modernit politica non europea? 8 Non si situa quindi direttamente al di fuori dellalternativa della ripetizione oppure del rigetto del pensiero europeo? Qualunque cosa si pensi di questa postura teorica postcoloniale per eccellenza, e fermo restando che, per ogni eventuale critica che ad essa si vuole muovere, le analisi di Chibber restano comunque molto preziose , la comprensione delle storie intrecciate della critica postcoloniale e del marxismo meriterebbe molta pi prudenza e resterebbe in ogni caso aperta la questione di sapere se possa mai darsi, e che cosa nel qual caso potrebbe essere, un materialismo postcoloniale.
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Dipesh Chakrabarty, Provincializzare lEuropa, Meltemi, Roma 2004, p. 41. 7

Lanticolonialismo e le sue altre vite Per chi avesse ancora qualche dubbio, agli occhi di Chibber, la conclusione di Postcolonial Theory and the Specter of Capital prova che non potrebbe mai esservi alcun dialogo tra la teoria sociale e la teoria postcoloniale: Alla luce delle precedenti conclusioni, possiamo rigettare con fermezza ogni affermazione sul valore della teoria postcoloniale come quadro analitico o come critica anti imperialista (p. 289). in questo frangente che lautore sceglie di assestare il colpo di grazia; la sua ultima vittima sarebbe Robert J. C. Young, autore di Postcolonialism : an Historical Introduction9. Quel che Young si era sforzato di rivelare e di ricostruire era la filiazione tra, da un lato, lanti-imperialismo marxista e il socialismo anticoloniale (da Lenin a Cabral, passando per Mao e Nkrumah) e, dallaltro, la teoria subalternista postcoloniale. Ora, Chibber afferma senza mezzi termini: la descrizione di Young totalmente erronea. Perch mai? Poich questi presunti precursori non avrebbero mai dubitato della realt delluniversalizzazione capitalistica e avrebbero dichiarato fedelt alla scienza, alla razionalit e allemancipazione universale; in altri termini, questi presunti precursori avrebbero rivendicato proprio quel che la teoria postcoloniale si ostinerebbe instancabilmente a distruggere (p. 290). Chibber ha il merito di puntare il dito su una questione perlomeno spinosa e di rado affrontata direttamente. vero che la filiazione anticoloniale-postcoloniale una (ri)costruzione, che presuppone unoperazione di purificazione che cerca di separare il grano dal loglio, ovvero quello che bisognerebbe conservare-reinterpretare da quello che occorrerebbe invece rigettare in un passato (terzomondista, nazionalista, ecc.) concepito come largamente responsabile delle disillusioni dei vari post-Indipendenza. cos che sono potute emergere le figure dei precursori Fanon, C.L.R. James, Cabral e qualche altro che da allora sono stati inseriti nel pantheon degli studi postcoloniali. Che questa traduzione sia anche un tradimento un po la regola del gioco, ma la vera questione di sapere se essa non disperda quel che costituiva la forza critica dellanticolonialismo e dellanti-imperialismo, qualunque siano stati i loro limiti. Da questo punto di vista, opportuno chiedersi se concepire le appropriazioni extra-europee del marxismo in termini di ibridazione o di traduzione culturale come fa Young, non sia profondamente insoddisfacente, se non addirittura ingannevole. La critica di Chibber dunque la benvenuta, ma resta il problema che la sua interpretazione non sembra tuttavia essere molto soddisfacente. Opponendosi a Young, viene infatti sottinteso che i pensatori socialisti anticoloniali non erano che tutto sommato degli eredi disciplinati della tradizione razionalista (enlightenment), della scienza e degli ideali nati in Europa, che certamente si sono interessati ad alcune situazioni specifiche (extra-europee e coloniali), ma che non si sono curati abbastanza di interrogare gli strumenti, i metodi e i concetti che avevano ereditato per pensare questa situazione; tuttal pi hanno finito per adattarli a dei contesti particolari, senza che questo abbia mai inciso pi del dovuto sulla teoria stessa10. Chibber produce unincorporazione, e a dirla tutta, una cooptazione che a sua volta, e a suo modo, cancella la singolarit (che non una differenza assoluta) del socialismo anticoloniale. Tutto ci, avviene deplorabilmente, tanto pi che sollevando in seguito la questione di sapere
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Robert J. C. Young, Postcolonialism : an Historical Introduction, Blackwell Publishers, Oxford 2001. Cfr. infra estratto n. 2. 8

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come provincializzare lEuropa, egli ricorder non senza buone ragioni e in controtendenza rispetto a parecchi pregiudizi che non risparmiano nemmeno gli studi postcoloniali che durante il ventesimo secolo la teoria marxista ha prodotto tutta una serie di strumenti per teorizzare il capitalismo in dei contesti di arretratezza (economica e politica): teoria dello sviluppo ineguale e combinato di Trotskij, tesi di Kautskij sulla questione agraria, teoria dellarticolazione dei modi di produzione, ecc.11 Sebbene qui come altrove Chibber mobilita questi argomenti come delle vere e proprie armi da usare contro i suoi avversari, egli finisce per aprire suo malgrado lo spazio per un dialogo fecondo e necessario con la teoria postcoloniale; un dialogo che, estraneo a ogni riconciliazione fittizia, non sarebbe la negazione del conflitto, bens la sua condizione di possibilit; un dialogo tuttavia che, per essere possibile, presuppone di disfarsi definitivamente dellidea che la teoria postcoloniale sia sinonimo di rigetto della razionalit e delloggettivit, di rottura definitiva con il marxismo, di caduta nelloscurantismo. Se questo dialogo ci sembra possibile, infine poich la critica di Chibber, nonostante sia in nome delluniversalismo e del razionalismo, essa stessa ispirata da un rifiuto feroce delleurocentrismo che attraversa tutta la cultura marxista o dimpronta marxista. Per questo non si pu che concludere con questa ultima provocazione: Postcolonial Theory and the Specter of Capital non forse un libro ben riuscito di teoria postcoloniale?

Estratti
1) Fare la differenza: razza e capitalismo (Vivek Chibber, Postcolonial Theory and the Specter of Capital, pp. 143-144) Se per Marx i capitalisti si preoccupano soltanto dei loro profitti e dellefficienza dei loro salariati, come spiegare la persistenza delle gerarchie razziali sul mercato del lavoro? Nel quadro di una discussione del concetto di lavoro astratto constato da Dipesh Chakrabarty in Provincializzare lEuropa Vivek Chibber descrive come il capitalismo concepito da Marx in grado di generare una stratificazione razziale dei subalterni. Per Elizabeth Esch e David Roediger, la mobilitazione delle identit razziali o degli stereotipi razziali da parte dei datori di lavoro una prova contro limportanza della nozione di lavoro astratto. Questo perch, a loro avviso, il lavoro astratto riduce il lavoro a contribuzioni astratte e anonime. Ma che significa qui astratte e anonime? Viene suggerito uno stato di fatto in cui un operaio non differente da, o interscambiabile con, ogni altro operaio []. I datori di lavoro dovrebbero quindi essere indifferenti allidentit dei loro operai, poich con una forza -lavoro astratta e anonima, ogni data unit di lavoro dovrebbe essere rimpiazzabile con unaltra. Il reclutamento della manodopera dovrebbe essere pi o meno aleatorio rispetto allidentit razziale o etnica []. vero che per Marx tutti i capitalisti badano alla capacit di produrre valore della manodopera. Ma
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Cfr. infra estratto n. 3. 9

perch allora questa ossessione non li porta a essere indifferenti alla questione razziale? Per il fatto che le capacit di lavoro non possono essere separate dalla loro persona []. Ricercando lentit astratta di cui hanno bisogno operai disposti a lavorare a un livello socialmente necessario di efficienza [i capitalisti] constatano che questo lavoro astratto arriva a rivestire delle identit concrete []. Questo perch il lavoro astratto non esiste come una sostanza separata. una dimensione del lavoro concreto, che svolto da lavoratori concreti che appartengono a particolari comunit razziali, etniche o di casta e che possiedono capacit loro proprie. Lestrazione della capacit astratta di lavoro deriva da una negoziazione con queste identit concrete. ***** 2) I Subaltern Studies come ideologia (Vivek Chibber, Postcolonial Theory and the Specter of Capital, pp. 284-285) Le due principali virt che vengono ascritte alla teoria postcoloniale sono che essa offre una nuova teoria della modernit globale in particolare nel mondo non-occidentale e che si costituisce come il nuovo volto della critica radicale. La teoria postcoloniale spesso presentata come lerede delle grandi tradizioni radicali del ventesimo secolo, ma scevra da ogni debolezza analitica o critica. Il bersaglio qui ovviamente la teoria marxista. Per pi di un secolo, era la tradizione marxista a portare in giro per il mondo la bandiera dellanalisi radicale. Le sue categorie analitiche formavano la lingua franca dellanalisi politica e il suo anti-capitalismo costituiva il cuore della critica radicale. La teoria postcoloniale si presenta essa stessa come il successore del marxismo in entrambi i campi, quello critico e quello analitico. Il suo quadro teorico pretende di rimediare alla solita interminabile lista dei mali attribuiti al marxismo il suo determinismo, il suo aspetto teleologico, il suo eurocentrismo, il suo riduzionismo, e cos via. Inoltre, il nucleo essenziale della sua critica si prclama come quello pi strettamente allineato alle ispirazioni dei gruppi subalterni, in particolare nel mondo non-europeo. Sebbene la trazione razionalista (Enlightenment tradition) sia sistematicamente contestata nella sua globalit, in tutti i pi famosi contributi prodotti dal collettivo dei Subaltern Studies il marxismo a essere messo maggiormente sotto attacco. Forse, da un punto di vista analitico, la tesi centrale degli studi postcoloniali che Oriente e Occidente siano separati da un abisso, tanto da invalidare ogni quadro teorico che pretenda di applicarsi in modo universale. Rappresentando una delle pi importanti fonti della teoria postcoloniale, i Subaltern Studies sono diventati in larga misura famosi per aver difeso ed elaborato questa tesi. Per il collettivo questa tesi la base della sua condanna della teoria occidentale in quanto ottusa e limitata, cieca dinanzi alle specificit delle nazioni postcoloniali e pertanto bisognosa di essere rivista radicalmente. Nei capitoli precedenti, mi sono concentrato su tre ambiti in cui si pretende che questa divisione venga a prodursi. Il primo riguarda la borghesia in Oriente, il cui supposto fallimento percepito come lespressione di un fallimento ancora pi profondo, quello delluniversalizzazione del capitale. Il secondo ha a che fare con lapparente singolarit dei rapporti di potere in Oriente, i quali come afferma Chakrabarty, si allontanano in termini essenziali da quelli generati dal capitalismo in Occidente. Il terzo relativo alla psicologia politica orientale, che, come viene sostenuto, sarebbe indifferente allimportanza dellinteresse individuale. Queste
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sono le dimensioni della differenza con lOriente ed la loro supposta singolarit che motiva lappello a un drastico riesame della teoria sociale. Sebbene mi sia fatto carico di mostrare che il collettivo dei Subaltern Studies abbia fallito a dimostrare questa sua tesi in ciascuno di questi tre ambiti, ho scelto di completare la mia analisi critica con una spiegazione positiva di come il capitale, il potere e lagency funzionino realmente. Quattro sono gli aspetti fondamentali che si legano assieme allinterno dellargomentazione che propongo come alternativa. Il primo che luniversalizzazione del capitale reale, nonostante le pretese del collettivo dei subalternisti. Le dinamiche politiche delle colonie non hanno prodotto un tipo di modernit essenzialmente differente da quella prodotta dalle dinamiche europee. Per essere pi precisi, la loro modernit pu essere stata diversa, ma non secondo le modalit su cui insiste la teoria postcoloniale. Si tratta di una modernit che col tempo ha nondimeno finito col rivelare gli stessi imperativi capitalistici della modernit francese o tedesca. Il secondo aspetto che non bisogna credere che luniversalizzazione del capitale omogeneizzi i rapporti di potere o, pi in generale, il paesaggio sociale (social landscape). Infatti, il capitalismo non solo coesiste con una grande eterogeneit e una rigida gerarchia, ma le produce sistematicamente. Il capitalismo in realt perfettamente compatibile con un insieme estremamente variabile di formazioni politiche e culturali. La terza proposizione che la dinamica di universalizzazione del capitale si scontra con ci che universalmente dato nella psicologia umana, questo che spiega la resistenza subalterna dinanzi alla tendenza propria al capitale a instaurare dei regimi politici basati sullesclusione, a dominare i subalterni allinterno dei processi di produzione, a basarsi sulla coercizione impersonale e cos via. Lepoca moderna spinta dalle interazioni tra questi due universalismi, non da uno di essi soltanto. Questo scompagina linsistenza dei subalternisti sulla peculiare coscienza politica degli agenti non-occidentali. Tutto ci ci conduce al punto finale: le categorie universalizzanti del pensiero razionalista (Enlightenment thought) sono perfettamente capaci di cogliere le conseguenze delluniversalizzazione del capitale e le dinamiche politiche dellagency per analizzare queste ultime tali categorie sono infatti essenziali. Se queste quattro proposizioni sono vere, ci significa come minimo che certe teorie europee, il marxismo in particolare, non dovrebbero essere accusate di eurocentrismo per la sola ragione di avere avuto origine in Occidente. Le dinamiche collocate nel cuore del loro quadro teorico sono infatti interculturali (cross-cultural), comuni allo stesso tempo allOriente e allOccidente. Pertanto, qualora la teoria marxista fosse errata, non lo sarebbe certo perch eurocentrica. ***** 3) Come provincializzare lEuropa (Vivek Chibber, Postcolonial Theory and the Specter of Capital, 290-293) Ovviamente, il mio giudizio sui meriti dei Subaltern Studies non favorevole. Cosa ne resta allora dellimpulso a provincializzare lEuropa? Una delle ragioni per cui la teoria postcoloniale cos seducente nelle universit agli occhi di tanti studiosi la sua ostilit verso leurocentrismo e il suo impegno a prendere in considerazione la specificit dellesperienza coloniale. I lettori potrebbero
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domandarsi se la mia critica e la mia contro-argomentazione equivalgono a dire che praticamente non c nulla di specifico nel capitalismo coloniale e nella cultura popolare che questo ha generato. Nulla potrebbe essere cos lontano dalla verit. Quel che contestabile nella teoria postcoloniale non che si insista sulla provincializzazione dellEuropa, ma che, in nome di questo progetto, venga incessantemente promosso leurocentrismo un ritratto dellOccidente come luogo della ragione, della razionalit, della laicit, della cultura democratica e cos via, e dellOriente come immutabile miasma di tradizione, di mancanza di ragione, di religiosit e via di seguito. un mondo in cui il capitalismo trasforma lOccidente, ma perde la sua vitalit in Oriente, dove pertanto le categorie materialiste sono appropriate per lOccidente mentre per lOriente vale soltanto un culturalismo essenzialista. Dovrebbe essere ovvio che, in nome del superamento delleurocentrismo, la teoria postcoloniale finisce per promuovere questultimo con una feroce intensit. Come alternativa, vorrei fare due osservazioni. La prima consiste nel fatto che non sar certo battendo continuamente sullo stesso tasto del divario incolmabile che separa lOriente dallOccidente che si potr provincializzare lEuropa, ma solo mostrando che entrambe le parti del globo sono soggette alle stesse forze fondamentali e, di conseguenza, fanno parte della stessa storia fondamentale. Le forze a cui mi riferisco sono quel che ho chiamato i due universalismi la logica universale del capitale (opportunamente definita) e linteresse universale degli agenti sociali verso il loro benessere che li spinge a resistere alla tendenza espansionista del capitale. Queste forze investono sia lOriente che lOccidente, anche se lo fanno con differenti intensit e su diversi registri. Questo vuol dire che vi una storia universale di cui lOriente e lOccidente fanno entrambi pienamente parte. Tuttavia, nonostante Oriente e Occidente facciano parte della medesima storia e siano sottomessi alle stesse forze, questo non vuol dire che essi perdano ogni loro caratteristica distintiva. Nel capitolo 9, ho mostrato che riconoscere la realt delluniversalizzazione del capitale si accordi perfettamente allattenzione verso il persistere della differenza. Non necessario ripetere qui queste argomentazioni. Ma se le diamo per buone, dobbiamo ugualmente accettare che riconoscere i due universalismi non genera automaticamente cecit nei confronti della differenza. Ora, la seconda osservazione. La storia dellanalisi marxiana del ventesimo secolo stata proprio la storia di questa impresa, ovvero comprendere la specificit dellOriente. Dai tempi della prima Rivoluzione russa del 1905 non vi probabilmente stato nessun altro progetto a cui i teorici marxisti abbiano dedicato tanta energia e tanto tempo come quello di comprendere gli effetti

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specifici dello sviluppo capitalistico nel mondo non-occidentale. A prima vista questo pu forse colpire, in particolar modo alla luce della costante pretesa che proviene al contrario dalla teoria postcoloniale. Il fatto che in ragione del particolare destino dei movimenti socialisti soprattutto per aver guadagnato tanto terreno nelle parti meno sviluppate del mondo i marxisti sono stanti spinti sin dallinizio a esercitare il loro sguardo tanto lungo i margini del capitale mondiale quanto sullo gi sviluppato Occidente. Se facessimo una lista delle principali innovazioni teoriche che sono risultate dalla tradizione marxista dopo la morte di Marx, vedremmo che come molte di esse siano stati dei tentativi di teorizzare il capitalismo in contesti di arretratezza: nella prima met del secolo vi stata la teoria dellimperialismo e dellanello debole di Lenin, la sua analisi della differenziazione della classe contadina; il lavoro di Kautsky sulla questione agraria; la teoria dello sviluppo ineguale e combinato di Trotskij; la teoria della Nuova Democrazia di Mao; la differenza gramsciana tra la legittimit dello Stato in Europa dellEst e in Europa dellOvest. Erano tutti tentativi per comprendere la riproduzione sociale nelle parti del mondo in cui il capitalismo non funzionava esattamente nella stessa maniera che Marx aveva descritto ne Il capitale. Negli anni della New Left sono apparse la teoria della dipendenza; la teoria del sistema-mondo; il lavoro di Cabral sulla via rivoluzionaria africana; la teoria dellarticolazione dei modi di produzione; il dibattito sui modi di produzione indiani e la lista potrebbe continuare. Menziono tutto ci perch in buona parte il marxismo a costituire il bersaglio privilegiato delle accuse dei teorici postcoloniali verso la tradizione razionalista. Queste accuse ci inducono a credere che il marxismo guardi lOriente solo come il pallido riflesso dellOccidente, dove ogni scarto rispetto al modello occidentale non sarebbe altro che un mero anacronismo destinato a svanire a tempo debito, nella misura in cui viene supposto che lOriente segua passivamente le tracce lasciate dallOccidente. Ma, ancora una volta, la storia dellanalisi marxista dimostra esattamente il contrario, rivelando di tenere regolarmente in considerazione il fatto che le societ orientali sembrano essere governate da logiche che richiedono una nuova analisi, se non talvolta anche una modifica delle categorie ereditate dalla tradizione. Giusto per dare un esempio: la teoria dello sviluppo ineguale e combinato di Trotskij costituiva un esplicito rifiuto dellargomento secondo il quale i paesi a sviluppo tardivo avrebbero semplicemente riprodotto il cammino verso lo sviluppo dei loro predecessori. Per Trotskij, linserzione tardiva di queste societ entro il vortice capitalistico significava che esse sarebbero state in grado di importare le pi recenti innovazioni in certi ambiti, preservando tutta una serie di relazioni sociali pi antiche in altri ambiti. Questo non implica alcuna idea di tempo omogeneo, nessuno storicismo, nessuno sviluppo stadiale (stageism) in realt la teoria immune da quasi
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tutte le accuse che i teorici subalternisti hanno lanciato contro la tradizione marxista12. Analogamente, il classico lavoro di Kautsky sulla questione agraria finisce per far valere unargomentazione che spiega perch i contadini non verranno mai semplicemente dissolti dalle forze dellindustria agroalimentare essi saranno piuttosto incorporati nei circuiti del capitale, assegnando quindi ai proprietari terrieri un posto allinterno di questordine che le loro controparti nei paesi che si sono sviluppati per primi non avevano mai avuto13. Anche qui nessuno sviluppo stadiale, nessuno storicismo e nessuna pretesa di omogeneizzazione. Oppure, si prenda una teoria formulata pi recentemente, quella dellarticolazione dei modi di produzione. In questo approccio, il capitalismo non cancella tutte le Storie 214, n passa da uno stadio predeterminato allaltro. Esso d piuttosto forma ad un accordo difficile con i modi arcaici di produzione in modo tale che, a posto di superare questi ultimi, si crea una coabitazione con essi per dei periodi di tempo molto lunghi. Questa teoria stata sviluppata da antropologi francesi che si concentravano principalmente sullo studio dellAfrica ed stata resa celebre nel mondo anglofono da teorici come Harold Wolpe che lha mobilitata per studiare la peculiare forma di capitalismo del Sudafrica. Molte di queste teorie presentano naturalmente degli importanti difetti e sono criticabili per diverse ragioni, ma mai per le ragioni che i Subaltern Studies ascrivono alla tradizione razionalista e, in particolare, alle teorie marxiste. Se queste sono false non perch esse sono teleologiche, deterministe o stadiali. In realt, ognuna di queste teorie stata sviluppata come un esplicito rifiuto di queste stesse modalit di pensiero. Daltra parte, tutte queste teorie hanno qualcosa di significativo in comune: esse sostengono i due universalismi e cos provincializzano lEuropa pi efficacemente di tutto quello che vien fuori dal recinto degli studi postcoloniali. Quali che siano i loro difetti, nessuna di queste teorie fondate sui principi della tradizione razionalista eurocentrica, nessuna essenzializza lOriente e nessuna pu essere accusata di orientalismo15. Stando cos le

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Si pu trovare una breve rappresentazione di tutto ci nellintroduzione di Trotskij alla sua Storia della Rivoluzione Cfr. Karl Kautsky, La questione agraria, Feltrinelli, Milano 1959 [NdA]. Il riferimento alla nozione di Storia 2 in Dipesh Chakrabarty, Provincializzare lEuropa, op. cit., p 93 e sgg. Per quel che riguarda il caso dellorientalismo di Marx, credo che talvolta egli ne sia stato effettivamente il

russa [NdA].
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[NdT].
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responsabile. Nondimeno, le accuse dei subalternisti contro Marx, quelle che lo dipingono come un apologeta dellimperialismo, sono cos fuori bersaglio da suggerire una genuina ignoranza dalla loro parte nei confronti della sua opera. Fortunatamente, uno straordinario libro recentemente pubblicato sgombera il campo da queste accuse una volta per tutte. Cfr. Kevin B. Anderson, Marx at the Margins: On Nationalism, Ethnicity, and Non-Western Societies (University of Chicago Press, 2011). Si confronti limpressionante padronanza di Anderson con le accuse mal formulate 14

cose, il progetto di sviluppare una teoria in grado di analizzare efficacemente la specificit dellOriente potrebbe emergere pi facilmente da un programma di ricerca associato alla tradizione razionalista che non alla teoria postcoloniale. Ed eccone la ragione: la teoria postcoloniale oscura le vere forze che guidano le dinamiche politiche in questa parte del mondo (i due universalismi), mentre nello stesso tempo promuove una concezione di queste forze che sistematicamente fuorviante. Lobiettivo di provincializzare lEuropa dunque totalmente degno di lode. Il problema della teoria postcoloniale non che essa si impegni in questo programma, ma piuttosto che essa appare costantemente incapace di portarlo a termine.
Traduzione dallinglese di Orazio Irrera16

Intervista con Vivek Chibber di Orazio Irrera e Matthieu Renault

La falsa promessa della teoria postcoloniale17


D.: Durante il suo ultimo soggiorno a Parigi, il titolo che ha dato al suo intervento stato La falsa promessa della teoria postcoloniale18. Qual questa promessa? Che cosa intende proporre la teoria postcoloniale e perch fallirebbe? Questa teoria si basa sin dal principio su dei presupposti erronei? R.: Lo scoglio principale della teoria postcoloniale che rende molto difficile la comprensione delle dinamiche sociali del mondo postcoloniale. Si tratta quindi di una critica ad ampio raggio poich la teoria postcoloniale suppone esattamente di essere una teoria in armonia con le specificit del mondo postcoloniale.
e piuttosto prive di fondamento di Gyan Prakash nel suo Postcolonial Criticism and Indian Historiography, in Social Text vol. 31/32 (1992), pp. 14-15 [NdA].
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Si ringrazia leditore Verso per averci autorizzato alla traduzione di questi estratti. Si ringrazia Felix Boggio wanj-pe per il contributo alla trascrizione nelloriginale inglese della presente Vivek Chibber intervenuto presso la Maison des Sciences de lHomme a Parigi, il 26 luglio 2013, nel quadro del

intervista.
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seminario Dcolonisation et gopolitique de la connaissance diretto da Orazio Irrera e Matthieu Renault [NdT]. 15

A mio parere essa non pu in nessun modo spiegare queste specificit. Inoltre essa finisce pure con il mascherarle poich fondata su una concezione del mondo postcoloniale che essenzializza questa parte del mondo, trattandola come se fosse governata da dinamiche che non possono essere comprese con le categorie sociali e le teorie che abbiamo ereditato dalle analisi tradizionali della societ. Indubbiamente pu darsi il caso che il mondo postcoloniale le sue istituzioni, le sue strutture, la sua storia sia cos differente dallOccidente da richiedere un quadro teorico totalmente nuovo. Nel qual caso, noi dovremmo riconoscere che la teoria postcoloniale costituisce un effettivo avanzamento, costituendo davvero una critica fondamentale della teoria sociale europea che abbiamo ereditato. Tuttavia essa non mai stata in grado di dimostrare che il mondo postcoloniale tanto differente da essere insondabile, da non poter essere compreso attraverso le tradizionali categorie della teoria sociale. Nella misura in cui la teoria postcoloniale non ha mai provato tutto ci, la sua affermazione secondo la quale vi uno scarto essenziale, incolmabile, ontologico tra lOriente e lOccidente non soltanto falsa, ma credo sia pure profondamente ideologica. Voi mi chiedete se la teoria postcoloniale si basava sin dai suoi inizi su dei presupposti sbagliati. No, non credo. Essa ha avuto inizio con un presupposto plausibile, quello secondo cui vi una differenza molto profonda tra lOriente e lOccidente, ma che questa differenza una conseguenza della diversa traiettoria presa dal capitalismo in Oriente. Questo si rivelato parimenti falso, ma si trattava di un errore empirico che non comportava delle conseguenze teoriche ed epistemologiche di rilievo. Era un errore che risultava dal lavoro di Ranajit Guha, presente subito, sin dal suo inizio, nel primo volume del collettivo dei Subaltern Studies. Il carattere essenzializzante e oscurantista della teoria postcoloniale, a cui ho gi fatto riferimento in precedenza, comparso pi tardi, negli anni 90 Guha non ne mai stato il responsabile. Esso piuttosto apparso nei lavori di gente come Dipesh Chakrabarty e Partha Chatterjee sotto linfluenza di Gayatri Spivak o di Foucault. In seguito, Homi Bhabha ha anchegli raggiunto questo gruppo. Penso dunque che la teoria postcoloniale fosse profondamente difettosa sin dai suoi inizi ma che solo successivamente i suoi difetti sono diventanti pi profondi e pi rilevanti. La conseguenza politica di tutto questo innanzitutto che la teoria postcoloniale finisce per rivitalizzare e vivificare nuovamente delle concezioni orientaliste dellOriente, che sono del resto molto classiche. Facendo ci penso pure che essa renda legittime delle affermazioni prodotte dallimperialismo per spiegare perch i diritti e i privilegi comuni non possono essere accordati agli individui che vivono in Oriente. Questo costituisce un risultato assolutamente inaccettabile della teoria postcoloniale. Questultima rende pure molto difficoltosa lanalisi dellOriente attraverso le categorie delleconomia politica, fatto molto problematico nella misura in cui paesi come lIndia, lEgitto, la Siria, lIraq o il Brasile sono attualmente tutti dei paesi capitalisti. E poich i teorici postcoloniali affermano che le categorie del capitale e del capitalismo devono essere fondamentalmente emendate poich sono inadeguate per comprendere lOriente, essi finiscono necessariamente per mascherare le lotte operaie e contadine contro il capitale. Credo che quindi la teoria postcoloniale abbia costituito uno sviluppo molto limitato e retrogrado. D.: Nel suo libro lei ripercorre gli errori che ha individuato tra gli autori postcoloniali relativamente alla loro analisi dello sviluppo del capitalismo in Europa, dunque non solo nel mondo non-europeo. Potrebbe chiarire questo punto?

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Lerrore risiede principalmente nella loro comprensione di ci che stato il normale corso dello sviluppo capitalistico. Secondo loro, lIndia e il mondo postcoloniale rappresentavano una deviazione rispetto a quello che normale. Ma qual la loro immagine di ci che normale e da dove proviene? Essa deriva da una concezione particolare dellesperienza europea. Non sviluppo questo punto nel libro, ma questo concezione stata ereditata dalla comprensione staliniana ortodossa della transizione al capitalismo e, in particolare, della rivoluzione borghese. Guha mutua questa concezione staliniana della rivoluzione borghese quasi senza alcuna modifica, rendendola di fatto ancora peggiore di quel che era. Si tratta della concezione per cui in Francia e in Inghilterra vi stata qualcosa che si chiama la rivoluzione democratico-borghese che ha prodotto non solo il capitalismo, ma anche la democrazia, dal momento che questa rivoluzione stata portata avanti da una borghesia che ha lottato per stabilire una cultura liberale, aperta, inclusiva e democratica. Quando i subalternisti si sono accorti che la borghesia indiana ma si potrebbe dire la stessa cosa della borghesia egiziana o argentina non ha fatto la stessa cosa, hanno considerato che si trattava di un fallimento, che i capitalisti avevano abbandonato la loro missione storica. I subalternisti non potevano probabilmente comprendere che quando i capitalisti postcoloniali si battevano contro i diritti democratici, quando stabilivano delle oligarchie, quando rifiutavano di concedere a operai e contadini i diritti e i benefici pi comuni, essi facevano semplicemente quello che ovunque i capitalisti fanno e hanno sempre fatto. Non c quindi bisogno di una sociologia del mondo postcoloniale interamente nuova poich le lotte politiche del mondo postcoloniale entrano gi in forte risonanza con quel che ha avuto luogo in Occidente allepoca in cui si affermato il capitalismo. Ci sono certo delle differenze molto concrete tra Oriente e Occidente, ma queste differenze risiedono nella temporalit e nei dettagli del capitalismo e non nel fatto che il capitalismo in Oriente sarebbe irriconoscibile, profondamente ed essenzialmente diverso da quello affermatosi in Occidente. Siamo in presenza di qualcosa che i marxisti hanno subito riconosciuto: che il capitalismo in Oriente sempre identificabile come capitalismo, anche se non identico al capitalismo in Occidente. Vi una grande differenza tra non essere identico ed essere differente in modo profondo ed essenziale, essere differente come i Subaltern Studies dicono che lOriente sia differente lOccidente. D.: Come bisogna comprendere questa differenza, che non una differenza fondamentale, tra lOccidente e lOriente? Per essere pi precisi, potrebbe formulare alcune proposizioni teoriche o degli esempi di analisi che arrivano a spiegare la genesi di queste differenze come, se vuole, quelle del sottosviluppo o della dominazione razziale senza essenzializzarle? R.: Vi una lunga storia dellanalisi della differenza che non deriva soltanto dal marxismo del ventesimo secolo, ma anche da altre correnti non dominanti delle scienze sociali. Quando Trotskij ha sviluppato la sua teoria dello sviluppo ineguale e combinato si trattava di un tentativo materialista che cercava di fare due cose: comprendere non solo come il capitalismo trasforma i paesi a sviluppo tardivo, ma anche come, allo stesso tempo, questo capitalismo sia tale da impedire allOriente di seguire una via identica a quella dellOccidente. Si tratta certo di capitalismo, quindi esso appartiene alla stessa specie di formazioni sociali del capitalismo in Occidente, ma siamo in presenza di una variet che differisce da quella dellOccidente. Ed differente senza che questo comporti delle differenze dal punto di vista dei suoi principi strutturali di base. Una teoria molto simile a quella di Trotskij stata sviluppata negli anni 60 da Alexander Gerschenkron, uno
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storico borghese, esule russo negli Stati Uniti. Gerschenkron svilupp la teoria di quel che egli stesso ha chiamato i vantaggi dellarretratezza, giungendo a conclusioni molto vicine a quelle di Trotskij. Ovvero, che i paesi arretrati si trovano di fronte dei dilemmi che i paesi a sviluppo pi precoce non hanno conosciuto, ma beneficiano nondimeno di alcuni vantaggi derivanti dal fatto di emergere tardivamente che permettono loro di sviluppare delle sacche di settori produttivi che evolvono molto rapidamente, sebbene siano circondati da condizioni agrarie molto arretrate. Si tratta di esempi di analisi della differenza che non essenzializzano lOriente. Non possibile rendere pienamente conto della maniera in cui il mondo postcoloniale possa essere analizzato attraverso questo quadro teorico, poich si tratta di una progetto di ricerca ancora in corso. Il mio libro non voleva sostenere che esiste una teoria sviluppata e completa dellOriente che si potrebbe offrire a posto della teoria postcoloniale, ma mostrare che c un progetto e un programma di ricerca in corso che generano dei risultati concreti, dei risultati positivi che i teorici postcoloniali ignorano completamente o passano sotto silenzio. un errore pensare che il marxismo o qualunque altra teoria possano spiegare tutti gli aspetti della differenza tra Oriente e Occidente. Quel che il marxismo pu spiegare, in modo specificamente marxista, sono gli aspetti della differenza che sono generati dalle dinamiche del capitalismo e della lotta di classe, o della struttura di classe. Ci sono numerosi aspetti del mondo non occidentale che differiscono dallOccidente senza essere il prodotto della classe n tantomeno del capitalismo. Dovremmo cercare di esser capaci di produrre unanalisi materialista di queste differenze, ma questa non sarebbe unanalisi specificamente marxista. Per esempio, la sociologia mainstream o la scienza politica, ricercatori che vengono da una tradizione weberiana o bourdieusiana considero Bourdieu essenzialmente un materialista potrebbero proporre delle analisi dei fenomeni che i marxisti non possono spiegare o che almeno non spiegano. Si tratter tuttavia sempre di analisi materialiste. La principale battaglia contro gli studi postcoloniali non una battaglia tra il marxismo e la teoria postcoloniale sebbene essa esista davvero ma piuttosto una battaglia che consiste nel difendere il materialismo dalla teoria postcoloniale. D.: Uno degli aspetti del suo percorso che ha destato una certa sorpresa il ricorso a una teoria dei bisogni fondamentali, se non addirittura a una teoria della natura umana. Dagli anni 60 la teoria sociale sembra essere abbastanza ostile allidea di una natura umana. Perch questo ritorno a unidea apparentemente cos difficile da mobilitare? R.: Perch penso che sia vera. vero o no che la gente, quale che sia la loro cultura, ha dei bisogni fondamentali comuni? La mia opinione che sia vero. impossibile spiegare una larga parte delle variazioni culturali senza questo riferimento ai bisogni fondamentali. Una delle cause per cui le culture differiscono tra loro che gli individui sono collocati in ambienti naturali ed ecologici differenti e hanno inoltre a disposizione delle maniere molto diverse di riprodursi, dando luogo cos a differenti insiemi di strutture sociali e di istituzioni deputate alla loro riproduzione. Queste strutture e queste istituzioni generano a loro volta delle culture, delle differenti maniere di vedere e comprendere il mondo. Una delle ragioni per cui le culture sono diverse dunque che sono accomunate dalla stessa lotta per la sopravvivenza. Se gli esseri umani non riconoscessero o non fossero motivati dalla necessit di soddisfare questi bisogni fondamentali, semplicemente si estinguerebbero. Penso che questo sia fondamentale, ed tanto evidente al punto che bisognerebbe interrogare lintegrit intellettuale di chi cerca di negare tutto ci. Si tratta di quello che in
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principio mi ha spinto a scrivere questo libro. La questione dunque la seguente: vero che gli individui hanno dei bisogni fondamentali e sono motivati da questi bisogni? Permettetemi di sottolineare un errore analitico che i teorici fanno regolarmente. Essi trovano qualche situazione in cui un individuo corre dei grandi rischi, o sacrifica persino la sua vita, e allora concludono: Guardate, questo lesempio di qualcuno che non privilegia i suoi bisogni fondamentali. Questo non entra in contraddizione con lidea che questi bisogni possono giocare il ruolo di motivazioni, con lidea che esiste una natura umana?. Ma l abbiamo un modo fondamentalmente sbagliato di considerare il mondo sociale. Non si hanno delle generalizzazioni partendo da aberrazioni o da eccezioni. Si comincia in primo luogo da ci che normale, da quello che il modello normale, elementare di comportamento, da quello che prevale in quanto motivazione. Da l si cerca di comprendere perch vi sono delle deviazioni rispetto al modello normale. Chi nega i bisogni fondamentali considera innanzitutto le eccezioni, dicendo in seguito che queste eccezioni invalidano ogni argomento che afferma che la maniera normale di essere motivato o di agire qualcosa di diverso. Questo sbagliato da un punto di vista analitico ed empiricamente falso. Se essi pensano dunque che i bisogni fondamentali non esistano, vorrei averne la prova. Mostratemi una cultura in cui la regola generale che vi sia una uguale probabilit che le persone si suicidino e che desiderino vivere. Qualora trovaste tutto ci allora concorderei che i bisogni fondamentali non sono i fattori-tipo della motivazione. Ma certamente sappiamo che questo impossibile, non vi alcuna prova di questo. Per questa ragione i teorici postcoloniali si impegnano in ogni tipo di argomento oscurantista. D.: Che cosa pensa degli usi che sono stati fatti di Gramsci nei Subaltern Studies? Quali sono le relazioni tra la ripresa subalternista del concetto gramsciano di egemonia e il concetto marxiano di ideologia? R.: Credo che sia un Gramsci di un certo tipo che sia importante per Guha. Si tratta di un Gramsci letto attraverso il prisma dei Cultural Studies e, in particolare, tramite i lavori della scuola di Birmingham diretti da Stuart Hall. Ci tengo a precisare che si tratta di un Gramsci di un certo tipo, un Gramsci che ha una concezione dellegemonia intesa come consenso ideologico consenso ideologico che significa qui consenso basato sulla legittimit. Penso che sia una lettura plausibile di Gramsci, anche se non credo sia una lettura corretta. Non ritengo che Gramsci abbia pensato che la ragione per cui gli operai diano il loro consenso al capitalismo perch essi pensano che sia legittimo o perch vi sia una cultura inglobante in cui la borghesia parli per loro o per la nazione. infatti cos che Guha descrive legemonia: per lui la borghesia conquista legemonia poich parla a nome di tutta la nazione. Lidea che Gramsci abbia potuto pensare che la borghesia fosse un legittimo portavoce degli interessi degli operai, mentre marciva in una prigione fascista, mi sembra perlomeno curiosa. La mia lettura di Gramsci alquanto differente. Ritengo che i Quaderni dal carcere siano un testo molto caotico che autorizza differenti interpretazioni. Credo che per Guha il Gramsci di tipo culturalista sia pi fondamentale che il Marx de Lideologia tedesca. Ma credo pure che Gramsci si sarebbe del tutto accontentato de Lideologia tedesca, e che la versione culturalista della sua opera sia una distorsione operata negli anni 70 e 80 che Guha ha fatto propria. Secondo me si tratta di un errore, credo che una delle cose che oggi dovremmo fare sia quella di mettere in luce un Gramsci diverso, pi in sintonia con una comprensione pi difendibile del capitalismo.

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Il punto essenziale in tutto ci che non importante sapere se Guha resti fedele a Gramsci o se Chatterjee lo sia nei confronti di Marx. Quello che importa sapere se hanno ragione o torto. Teorici come Marx e Gramsci sono dei pensatori da cui dovremmo trarre ispirazione. Ma che le nostre idee coincidano o meno con le loro non pu costituire il test decisivo per dire se le nostre idee siano vere o false. Il vero test consiste nel vedere se le nostre prove reggono o meno. Nel corso del dibattito che ho avuto con Chatterjee durante la conferenza Historical Materialism a New York19, sono stato accusato di deviazione rispetto al marxismo, ho quindi detto qualcosa che nella blogosfera stato giudicato divertente: Deviare non mi disturba affatto. Quel che volevo dire era che non importa se io stia seguendo Marx alla lettera o meno, importa invece se la prova che io adduco supporta o meno la mia argomentazione. Che qualcuno la possa trovare unaffermazione curiosa o inaccettabile mostra soltanto fino a che punto la cultura intellettuale di sinistra sia precipitata. D.: Nel suo libro lei sembra collegare la critica postcoloniale dellepistemologia occidentale e lidea, difesa da numerosi teorici postcoloniali, che il capitalismo non sia un sistema universale. Perch la critica dei saperi occidentali correlata allidea che il capitalismo non si radicato nel mondo intero? R.: Non credo vi sia una rilevante posta in gioco epistemologica in questo dibattito. Non penso che i Subaltern Studies operino attraverso unepistemologia differente da quella, diciamo, dei marxisti. Ai subalternisti piace molto utilizzare questo termine e pretendono che vi siano in effetti delle profonde differenze epistemologiche. Ma alla fine sono tutti dei realisti, formulano delle proposizioni basate su prove e utilizzano delle argomentazioni razionali anche quando negano limportanza della razionalit. Esistono delle persone attorno ai Subaltern Studies che potrebbero presentare delle differenze rispetto ai marxisti, ma la maggior parte dei subalternisti sostengono un realismo epistemologico. Di certo vi una correlazione, o se volete una connessione, tra lidea che il capitalismo fallisca a universalizzarsi e quella che le teorie europee siano incapaci di comprendere lOriente. Questa connessione riposa sul fatto che gli autori postcoloniali pensano che le teorie europee presuppongano due cose: in primo luogo che il capitalismo si universalizzi e, in secondo luogo, che questa universalizzazione omogeneizzi il mondo. Questo secondo punto costituisce la chiave del dibattito, poich viene tipicamente ritenuto che questa omogeneizzazione sia ci che richiesto affinch delle categorie astratte abbiano una presa qualunque sul mondo non occidentale. Ora, io ho affermato due cose nel mio libro: da una parte che, in effetti, il capitalismo si universalizza e che le teorie europee hanno quindi ragione a questo riguardo; dallaltra parte che luniversalizzazione non la stessa cosa dellomogeneizzazione. Luniversalizzazione del capitale genera in realt ogni sorta di differenza e la teoria sociale che viene dallEuropa non suppone che il mondo debba essere omogeneo affinch le sue categorie funzionino. Quel che mostro nel libro che la teoria che Marx ci ha lasciato sostiene la tesi delluniversalizzazione del capitale, dandoci nondimeno gli strumenti per comprendere la differenza che il capitale genera. Lerrore fondamentale della teoria postcoloniale di assimilare universalizzazione e omogeneizzazione. Si tratta di un errore presente dappertutto in questi lavori. Si tratta di un semplice errore analitico, ma questo ha delle conseguenze molto rilevanti.

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Chibber fa riferimento alla conferenza Marxism & the Legacy of Subaltern Studies organizzata da Historical Materialism a New York il 26 aprile 2013, cui segu il dibattito tra lo stesso Chibber, Partha Chatterjee e Barbara Weinstein. La registrazione audio/video di questo evento disponibile integralmente online: http://www.youtube.com/watch?v=xbM8HJrxSJ4 [NdT]. 20

D.: Se si sostiene come fa lei che il capitalismo produce delle differenze universalizzandosi, non ne consegue che la teoria sociale deve essere adattata o tradotta in contesti non occidentali? R.: Una teoria astratta sempre modificata quando si applica a delle realt concrete. La questione di sapere fin dove si spinge questa modifica. Quel che affermano il marxismo e la teoria sociale che unistituzione sociale come il capitalismo debba, per poter essere chiamata capitalismo in contesti differenti, presentare certe somiglianze. Se prendiamo la Francia, lInghilterra e gli Stati Uniti, che sono tutti dei paesi capitalisti, noi riscontriamo, ad un certo livello di astrazione, che essi condividono alcune caratteristiche comuni. Dunque, da questo punto di vista, non c bisogno di modificare nulla. Vediamo che seguono delle dinamiche molto simili e che si possono descrivere queste dinamiche a un certo livello di astrazione, ignorando le restanti caratteristiche di queste societ. Ci concentriamo soltanto su quel che esse hanno in comune. Ma per apprezzare come esse differiscano le une dalle altre dobbiamo fare entrare in gioco altri fattori relativi alle loro storie, alle loro istituzioni, che sono diverse le une dalle altre. Per esempio, a differenza degli Stati Uniti, la Francia ha uno stato sociale piuttosto ben sviluppato che modifica il funzionamento del suo capitalismo. Questi paesi sono entrambi capitalisti, ma ci sono delle differenti variazioni allinterno del capitalismo stesso. Credo che analizzare queste differenze richieda infatti di includere nellanalisi alcuni meccanismi e fattori causali che non sono presenti nella versione pi astratta della teoria del capitalismo. I fattori causali che descrivono il pi alto livello di astrazione sono sempre allopera, ma il loro funzionamento modificato dalla presenza di altri fattori che non sono descritti dalla teoria al pi alto livello di astrazione e che si adattano ad essa a un livello di astrazione pi basso. Non ritengo che si tratti realmente di una modifica della teoria, penso che sia semmai una concretizzazione di essa. Il marxismo deve sempre spostarsi dallastratto al concreto. Il problema con i teorici postcoloniali che essi pensano che ogni movimento dallastratto al concreto, nel quale si fanno rientrare dei fattori che non sono descritti al livello pi alto e pi astratto, significhi modificare la teoria. Non si tratta di modificare la teoria, ma di accordarla con la realt. Che cos la teoria dello sviluppo ineguale e combinato di Trotskij? una teoria che spiega quel che accade quando il capitalismo si introduce tardivamente in un paese meno sviluppato. Che cos la teoria della Nuova Democrazia di Mao? Si pu essere daccordo oppure no, ma una teoria che dice quel che occorre fare in un paese in cui predominano i contadini. Qual stato, prima di ogni altro, il contributo principale di Lenin alla teoria marxista? stata la sua teoria dello sviluppo tardivo del capitalismo, nel suo primo libro Lo sviluppo del capitalismo in Russia. Qual stato il contributo pi importante di Lenin alla sociologia agraria? La teoria delle classi nel capitalismo agrario, una teoria che Mao ha in seguito sviluppato. Qual stato il contributo di Amlcar Cabral alla teoria rivoluzionaria? La sua concezione del proletariato rivoluzionario nei contesti di arretratezza. Che cosa ne di Che Guevara o del lavoro innovatore di qualcuno come Walter Rodney sullAfrica o di C.L.R. James sui Giacobini neri? Sono dei tentativi di concretizzare la teoria marxista nel Sud. Quel che desta una certa curiosit che persone come Rodney e James sono oggi presentati come dei teorici postcoloniali. del tutto falso. Essi stessi si pensavano come appartenenti alla tradizione marxista. D.: Questo ci porta a unultima domanda. Vi unaffermazione nel suo libro sulla quale sarebbe interessante ritornare. Contrariamente allinterpretazione di Robert J.C. Young, lei nega ogni forma di continuit tra

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lanticolonialismo e la teoria postcoloniale. Pu spiegarci il perch? R.: Penso che sia evidente. Se voi, per cos dire, tornaste indietro negli anni 70, e, potendo parlare con le grandi figure dellanticolonialismo, chiedeste loro a chi si ispiravano, vi direbbero a Marx, Engels, Lenin. E se voi domandaste quali sono i loro valori, vi risponderebbero che credono in un ordine razionalista, moderno e forse socialista, ovvero in dei valori che riguardano l ethos progressista della tradizione razionalista (Enlightenment) del diciannovesimo secolo. Ritengo che sia cos evidente da non richiedere alcuna ulteriore discussione. vero che Fanon, aveva una propensione allanti-razionalismo, ma penso anche che egli riconoscesse limportanza della tradizione razionalista. Non credo sia in alcun modo credibile lidea che essi siano dei precursori di Spivak, Homi Bhabha o della scuola dei Subaltern Studies. In realt, i Subaltern Studies ai loro inizi furono concepiti come una mutazione allinterno del marxismo. Il punto di svolta verso la teoria postcoloniale venuto successivamente, negli anni 90. La vera questione di sapere perch Young o chiunque altro possa sentire il bisogno di fare un collegamento tra gli ultimi teorici postcoloniali e Marx. Penso che la ragione sia quel che dico nel libro, ovvero che tra di loro vi il desiderio di presentarsi come gli eredi della tradizione radicale, e per farlo, devono stabilire un legame diretto tra essi stessi e gli iniziatori di questa tradizione. Il mio punto di vista che se essi sono davvero gli eredi di questa tradizione, allora dovrebbero essere in grado di produrre una politica che sia coerente con essa. Ma se, come ho gi detto, la politica che essi producono essenzializza lOriente, se nega limportanza dei bisogni universali, la rilevanza degli interessi e il fatto che essi siano la fonte principale della politica, se rifiutano di accordare un posto centrale al capitale in quanto categoria sociale, per quanto di altro si possa dire sulla teoria postcoloniale, non si pu in nessun caso accettare lidea che essa abbia un qualsivoglia legame con Marx, Engels, Lenin, Mao, ecc. Il movimento di liberazione africano, Cabral, la liberazione in Mozambico, Rodney, sono tutti socialisti. Possono esserci qua e l dei disaccordi con loro, ma essi appartengono alla famiglia dei socialisti anticapitalisti della tradizione razionalista. Lidea che siano dei precursori dei Subaltern Studies o della teoria postcoloniale, che oggi proclama il suo rifiuto dei valori della tradizione razionalista, penso sia estremamente contestabile. D.: Da questo punto di vista come considera C.L.R. James? R.: C.L.R. James fu un trotzkista e un marxista per tutta la vita. James avrebbe riso come un pazzo, davanti a un testo degli ultimi teorici postcoloniali, se voi gli avrete detto sono i vostri figli. Davvero, avrebbe riso come un pazzo

Traduzione dal francese di Orazio Irrera.

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