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Livio Maitan

ANTICAPITALISMO E COMUNISMO
potenzialità e antinomie di una rifondazione

~CUEN
@ CUEN 1992
(Cooperativa Universitaria Editrice Napoletana)
in Area Industrie della Cultura
80124 Napoli - Via Coroglio, 156
Tel. 081/2301019 pbx Fax 081/2301044
INDICE

Introduzione 7

PARTE PRIMA
Cento anni dopo 11
Un bilancio essenziale Il
Validità e limiti delle conquiste parziali 14
Tre fattori convergenti 15

"Crisi del comunismo?" 19


Una messa a punto necessaria 19
Bilancio sintetico della socialdemocrazia 22

Il capitalismo oggi: mistificazioni e realtà 29


Le potenzialità non valorizzate 30
Il profitto resta la molla essenziale 32
Quali mutamentinella composizione sociale? 35
Tendenze in Italia ...41
È possibile un rilancio globale del capitalismo? : 43
PARTE SECONDA
Difficoltà e contraddizioni dell'impresa rifondatrice 55
4 Anticapitalismo e comunismo

Contraddizioni internazionali 59
Internazionalizzazione,grandi aree economiche
e conflittualità mondiale. 60
Socialismo: insopprimibile dimensione sovrannazionale 64

Quale modo di produzione? 69


"Economicismo" e "statalismo" 69
Quale alternativa? 71
Essenzialità della democrazia socialista 74

Quale strategia anticapitalista? 77


Difficoltà e contraddizioni 77
Una strategia mai sperimentata ..: 79
Qualche ipotesi di orientamento 81

Difficoltà e necessità di una ricomposizione 89


Scomposizionee frammentazione : 89
Un problema politico centrale 91
Con quale "materiale" rifondare? 93

Un nodo centrale: la democrazia operaia 97


Democrazia negata 97
Significative esperienze storiche 100
Linee di un rinnovamento 107

D nuovo sfondo: la minaccia alla vita sul pianeta II 1


Evoluzionismopositivistico e critica materialista 111
Il grido ~ Walter Benjamin 113
L'imperativo: invertire la tendenza 116

Appendice 119
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OUVnU!luo:J 'onnl alUVISOUOU 'alp 0./0[0:J !UnI V
7

Introduzione

Il punto di partenza per una riflessione sulle potenzialità e sulle


antinomie di una rifondazione comunista non può che essere una lucida
presa di coscienza del momento storico in cui stiamo'vivendo, specialmen-
te da alcuni anni a questa parte.
Autori di interessi e orientamenti diversi usano concetti come "crisi
del comunismo", "crisi del marxismo" o più in generale, "crisi delle
ideologie". Per parte nostra, riteniamo che sia più corretto parlare da un
lato di crisi del movimento operaio, dall'altro di crisi di civiltà. Le due
cose sono ovviamente legate, almeno per chi continua a considerare valido
il metodo e l'analisi di fondo definiti da Marx e il progetto alternativo di
società che ne deriva. Proprio perché il movimento operaio ha registrato
sinora insuccessi e fallimenti nel raggiungimento del suo fine storico, cioè
la costruzione di una nuova società sorta dal rovesciamento della società
esistente, le società umane e la loro civiltà sono immerse in una crisi
complessiva i cui elementi costitutivi sono in misura crescente percepiti
anche a livello di massa. In ultima analisi, è questa crisi ch~ è alle radici
delle tendenze centrifughe che si moltiplicano, del nuovo sonno della
ragione non meno allarmante dei precedenti, dell' angoscia sotterranea che
si rifrange nei comportamenti e nelle ideologie di movimenti sociali e
politici che si diffondono in varie regioni del mondo.
Questa schematica evocazione del contesto in cui dobbiamo operare,
non intende suggerire prospettive crepuscolari, suscettibili di accrescere
lo smarrimento e il pessimismo già largamente diffusi anche nelle file di
coloro che sono rimasti sulla breccia. L'essenziale è comprendere l'im-
l
8 Anticapitalismo e comunismo

mensità e al tempo stesso, storicamente parlando, l'urgenza dei compiti di


analisi e di generalizzazione e, a maggior ragione, di azione di tutti coloro
che vogliono partecipare all'impresa della rifondazione comunista. È
assimilare pienamente t'idea che questa impresa deve porsi in termini non
di continuità, ma di rottura. Questo non solo perché un'impostazione
continuistica impedirebbe di trarre tutte le lezioni degli errori e delle
contraddizioni del passato, ma anche e soprattutto perché dobbiamo agire
in un contesto che è radicalmente diverso da quello di settanta, cinquanta
o anche quindici anni or sono e che è destinato a mutare forse ancor più
profondamente.
L'inizio di una nuova fase del movimento operaio e comunista e la
ricostruzione di una prospettiva di edificazione socialista e, in ultima
analisi, di una nuova città, non possono essere che il risultato di un enorme
lavoro collettivo, di ampio respiro, multidisciplinare nella misura in cui
esistono nessi sempre più stretti tra condizioni fisico-ambientali e condi-
zioni socio-politiche di riorganizzazione, se non semplicemente di soprav-
vivenza, della comunità umana. Questo saggio non può avere che un fine
incomparabilmente più modesto, quello di contribuire alla individuazione
delle potenzialità effettivamente esistenti e delle contraddizioni di una
rifondazione comunista e di un rilancio del movimento operaio in questa
fase, in Italia in particolare.

l
vwnId ~.LHVd
Livio Maitan 11

Capitolo primo

CENTO ANNI DOPO

Il 1992 è un anno di scadenze e di anniversari. E ricorre un anniversario


che dovrebbe interessarci più direttamente: nell' agosto 1892 nasceva a
Genova il Partito dei lavoratori italiani che avrebbe assuQto l'anno suc-
cessivo il nome di Partito socialista dei lavoratori italiani e nel 1895 quello
classico di Partito socialista. Di organizzazioni operaie ne erano esistite
in Italia anche prima di quella data. Ma ciò non sminuisce il valore
storico-simbolico del congresso genovese. In buona sostanza, la fondazio-
ne del nuovo partito segnava l'affermazione esplicita dell' autonomia
politica della classe operaia e del suo movimento organizzato.

Un bilancio essenziale

Ebbene, per dare un'idea della situazione in cui ci troviamo oggi, a


cento anni di distanz'l, suggeriamo una semplice, ma fondamentalecon-
statazione: a parte filoni o correnti, incontestabilmenteminoritari - rap-
presentati essenzialmente da quanti sono confluiti nel Partito della
rifondazione comunista, da ristretti settori del Partito democratico della
sinistra e dal gruppo politico-culturale de "il Manifesto" -, la nozione
stessa di autonomiapolitica del movimento operaio è non solo rimessa in
discussione, ma negata, più o meno esplicitamente,e comunque svuotata
di ogni contenuto.
12 Anticapitalismo e comunismo

Qualche esempio significativo tratto da documenti di commemorazio-


ne del centenario comparsi sino ad ora (a nostra conoscenza, abbastanza
scarsi).
Uno dei più noti storici del PSI, Giuseppe Tamburrano ha scritto in un
dossier pubblicato da "l'Unità" (26, 28 e 31 gennaio e 4 febbraio):
"Il PSI celebra i suoi cento anni per ragioni solamente anagrafi che, di
discendenza simbolica: niente di più. A ben vedere, vi è maggiore comu-
nanza storica tra il PLI e Cavour, e tra il PRI e Mazzini che tra il PSI e
Turati" .
Apprezziamo la franchezza e condividiamo la sostanza del giudizio.
Effettivamente, il PLI rispetto a Cavour e il PRI rispetto a Mazzini possono
rivendicare, sia pure non senza forzature, una continuità storica, mentre
difficilmente l'odierno PSI potrebbe fare lo stesso per quanto riguarda
l'ispirazione ideologica e la rappresentanza di interessi di classe del suo
antenato del 1892. Del resto, Tamburrano aggiunge che esiste rottura di
continuità "non perché Craxi abbia «tradito» il riformismo, ma perché quel
riformismo, ormai attuato il suo «programma minimo», non ha più gran-
ché da dire oggi. E nel suo «programma massimo» - il quale era tout court
il socialismo - nessuno si riconosce più".
Si potrebbe far notare che il «programma minimo», che, secondo
Tamburrano,sarebbe stato realizzato,cioè certe conquisteparziali, hanno
subito ormai una prolungata usura, grazie anche all'azione di governi di
cui il PSI è stato magna parso Ma ci interessa più sottolineare come
Tamburrano abbandoni esplicitamentel'obiettivo storico della creazione
di una società socialista,sopprimendocon ciò stesso l'esigenza dell' auto-
nomia politicad~1movimentooperaio. La sua conclusione,del resto, è, se
possibile, ancor più chiara:
"Il socialismo dell'Europa continentale è nato marxista, cioè sulla base
dell'idea che la classe operaia e le sue istituzioni politiche e sindacali
avrebbero espropriato - con la democrazia (socialisti) e con la violenza
(comunisti) - il capitalismo e realizzato la società di liberi e uguali: cento
anni dopo, nei partiti di sinistra e nei loro documenti non si trova traccia
né di classismo né di marxismo, non si incontra quasi mai il nome del
padre fondatore".
Tutto questo è senz'altro vero per il PSI, ma vale anche per il PDS. In
ultima analisi, il senso della formazione di questo nuovo partito va proprio
in questa direzione, non solo in pratica, ma anche sul piano ideologico.
Livio Maitan 13

Valga la definizione che Occhetto stesso ha dato della sua prospettiva nel
corso del dibattito prima del congresso di Rimini:
"Non si tratta di contrapporsi tra antidemocristiani e anticomunisti, come
non ha senso essere antisocialisti... L'alternativa implica che una ricollo-
cazione strategica di tutte le forze di progresso e le differenzi azioni tra
conservatori, moderati e riformisti sono destinate ad attraversare gli attuali
schieramenti e a dar vita a inedite aggregazioni di maggioranza e a nuove
aggregazioni di opposizione e, noi pensiamo, a nuove forze politiche". Il
«modello», che si vorrebbe stimolare, anche con una riforma elettorale, è
quello di una contrapposizione, se non rigorosamente bipartitica, di due
schieramenti, da una parte i progressisti, dall'altra i conservatori. Lo
spartiacque sociale, di classe, viene così diluito sino a scomparire. Che
poi, nel corso di una campagna elettorale, per non perdere voti, ci si ricordi
a volte dell'esistenza di una classe lavoratrice, non cambia minimamente
la sostanza delle cose.
Del resto, il dossier de "l'Unità" contiene anche un'intervista con
Renato Zangheri. L'intervistato, dopo aver giustamente ricordato che
l'apporto di Antonio Labriola è consistito soprattutto nella rivendicazione
"con rigore" dell"'autonomia politica (del movimento operaio) rispetto
alle correnti borghesi", traccia un quadro sintetico della parabola del
Partito socialista sino all'avvento del fascismo e della storia dello stesso
Partito comunista per arrivare a porsi la domanda: "quale può essere nel
mondo attuale una prospettiva di concreta emancipazione umana?". E la
risposta, pur essendo meno netta di quella di Tamburrano, va nella stessa
direzione: "Come minimo (sic!) andrebbe detto che il socialismo va
riesaminato e che esso non coincide più con l'immagine che ne avevano i
riformisti, i massimalisti e i comunisti. Quello della collettivizzazione e
della socializzazione dei mezzi di produzione è divenuto ormai un mito
impraticabile... Non è chiusa l'aspirazione a una società socialmente
giusta. Certo questa aspirazione vive dentro la pratica graduali sta e demo-
cratica delle socialdemocrazie, tuttavia non si lascia delimitare da essa...
Quel che mi pare limitato, insufficiente è l'ancoraggio di classe; come leva
pur necessaria all'emancipazione". Detto altrimenti, anche in Zangheri
c'è, da un lato, l'estrema relativizzazione dell"'ancoraggio di classe",
dall' altro, la rinuncia all'obiettivo storico-strategico di una nuova società,
fondamentalmente diversa dalla società esistente!.
14 Anticapitalismo e comunismo

Validità e limiti delle conquiste parziali

Il bilancio sintetico che si impone a un secolo dalla nascita del movi-


mento operaio in Italia non implica affatto un giudizio sistematicamente
negativo, come se nulla fosse stato realizzato e cento anni fossero trascorsi
invano.
Sarebbe ovviamente assurdo ignorare o sottovalutare la portata delle
conquiste che le organizzazioni operaie sono riuscite a strappare, non solo
in Europa occidentale: conquiste economiche, sociali, politiche e culturali,
importanti intrinsecamente e forse ancora di più per la maturazione delle
coscienze che hanno stimolato. In diversi periodi e in diversi paesi, nelle
fasi più mature, larghi strati di proletariato e di masse popolari non solo
hanno migliorato le loro condizioni materiali, ottenuto diritti politici e una
serie di garanzie sociali, ma hanno egualmente potuto costruire un tessuto
socio-politico e culturale parzialmente alternativo, con un complesso di
organizzazioni di fabbrica, di quartiere, di associazioni di vario genere che
al tempo stesso sono divenute parte integrante della vita quotidiana e
hanno rafforzato la consapevolezza dei lavoratori di essere una classe
distinta dalle classi dominanti e fatto apparire più concreta la prospettiva
di una nuova società. Uno degli aspetti del regresso della fase attuale è
appunto il deperimento, se non la pura e semplice scomparsa, di queste
realtà.
Al di là delle ragioni generali o specifiche di un tale riflusso, ciò
rappresenta un'ulteriore conferma di una lezione elementare di tutta la
storia del movimento operaio: per importanti che siano, le conquiste
parziali non sono conseguite una volta per tutte, al contrario, sono sotto-
poste a una usura inevitabile e, a determinate scadenze, sono rimesse,
parzialmente o radicalmente, in discussione. Si possono fare a questo
proposito esempi innumerevoli, che, proprio per tutte le loro particolarità,
rivelano una tendenza generale.
Pensiamo al fatto traumatico della prima guerra mondiale, che ha
ributtato indietro di decenni la classe operaia e tutte le sue organizzazioni,
in primo luogo in paesi come la Germania, dove più imponente era stata
l'accumulazione di forze; alla devastazione delle acquisizioni e del patri-
monio del movimento operaio provocata dall' avvento del fascismo e del
nazismo e di altre dittature di vario tipo in paesi balcanici e nell'Europa
orientale, per non parlare dei casi più noti d~l Portogallo e della Spagna;
Livio Maitan 15

alle tragedie sofferte durante la seconda guerra mondiale che, ancor più
della prima, ha fatto tabula rasa delle conquiste operaie, in particolare nei
paesi sotto l'occupazione nazista; alla restrizione dei diritti democratici
con l'avvento in Francia della V Repubblica nel 1958; alle conseguenze
dell'instaurazione in Grecia del regime dei colonnelli dopo un troppo
breve interludio democratico; alla tragedia, comparabile solo a quella del
1933 in Germania, di cui sono state vittime nel 1965 in Indonesia le masse
operaie e contadine e le loro organizzazioni, le cui lotte avevano conse-
guito risultati considerevoli nel periodo precedente e che non sono ancora
uscite dal tunnel a quasi trent' anni di distanza.
Per venire all'epoca più recente e a vicende per ora meno drammatiche,
c'è forse bisogno di ricordare il costante riflusso del nostro movimento
operaio dalla seconda metà degli anni '70 con il logoramento e l'annulla-
mento di buona parte delle conquiste dell'immediato dopoguerra e dell'a-
scesa del 1968-69 e, più in generale, nella stessa Europa occidentale, il
progressivo smantellamento del tanto celebrato "stato sociale"?
Tutto questo dovrebbe dimostrare quanto poco fondata fosse la filoso-
fia, meglio sarebbe dire la metafisica, del riformismo gradualistico clas-
sico della socialdemocrazia, cioè la concezione secondo cui il socialismo
sarebbe stato costruito senza rotture rivoluzionarie, per "approssimazioni
successive". E dovrebbe far riflettere egualmente sulla fondatezza delle
concezioni neoriformistiche e neogradualistiche, rilanciate dopo la secon-
da guerra mondiale e via via assimilate dagli stessi partiti comunisti. Ma
su questo torneremo successivamente.

Tre fattori convergenti

Ritornando alla situazione attuale, la valutazione che abbiamo dato


potrebbe sembrare eccessivamente pessimistica. Dopo tutto, ci si potrebbe
obiettare, la classe operaia e il suo movimento organizzato non hanno
subito una sconfitta paragonabile a quella del 1922, dispongono pur
sempre di elementari diritti democratici e di mezzi di lotta consistenti e
hanno potuto anche negli ultimi anni condurre lotte significative. Questo
è senz'altro vero, anche se si iscrive in una parabola discendente. Ma, se
la sconfitta di fronte al fascismo aveva provocato un vero e proprio
traumatismo stimolando rimesse in discussione anche di alcuni punti fermi
16 Anticapitalismo e comunismo

tradizionali delle concezioni del marxismo e più generalmente del socia-


lismo, oggi assistiamo a un fenomeno per certi aspetti di maggiore portata,
cioè, per ripetere un'espressione divenuta corrente, a una crisi di identità
più profonda che mai in precedenza.
La crisi delle società di transizione burocratizzate, il crollo di alcuni
miti e il venir meno di ogni punto di riferimento internazionale sono uno
dei fattori di questa crisi. Ma, soprattutto a livello di massa, l'attuale
smarrimento è il risultato del convergere, oltre che di questo, di altri due
fattori.
Ha inciso, infatti, in misura crescente la perdita di fiducia nei tradizio-
nali strumenti di lotta e in particolare nei sindacati. Il fenomeno ha radici
abbastanza lontane e certe manifestazioni clamorose risalgono alla fine
degli anni '60 e agli inizi degli anni '70. La contestazione proveniva allora
da strati di avanguardia, che criticavano le direzioni sindacali perché non
sfruttavano tutte le potenzialità di un movimento di massa in ascesa nel
quadro di una crisi socio-politico complessiva. Tuttavia, agli occhi non
solo delle grandi masse, ma anche di buona parte delle stesse avanguardie,
i sindacati apparivano ancora come uno strumento utilizzabile, come la
sola forza capace di esprimere un'alternativa, sia pure in termini riformi-
stici o moderatamente riformistici, e di garantire significative conquiste
parziali. A cominciare dalla cosiddetta svolta dell ,EUR, anche questa
fiducia critica limitata cominciava a venir meno. E la tendenza si accen-
tuava dopo la sconfitta alla FIAT, sulle prime, non dimentichiamolo,
gabellata come vittoria, sino alla deriva degli ultimi anni e all'accettazione
da parte della burocrazia sindacale della logica padronale sul piano della
politica economica e della stessa organizzazione del lavoro.
In terzo luogo, hanno pesato negativamente gli effetti della scomposi-
zione e frammentazione che la classe operaia ha subito in seguito alle vaste
ristrutturazioni che hanno colpito interi settori industriali, coinvolgendo a
volte intere comunità locali. Allo stesso tempo hanno pesato, all'interno
delle fabbriche, i mutamenti connessi alle innovazioni tecnologiche e alle
nuove forme di organizzazione del lavoro. Anche a questo proposito, non
si tratta di una novità assoluta, ma piuttosto di un fenomeno ricorrente. Le
innovazioni provocano un disorientamento tra gli operai nella misura in
cui rimettono in discussione situazioni consolidate, mansioni e competen-
ze preesistenti, un adattamento faticosamente ottenuto, forme di controllo
operaio di fatto sulle operazioni da compiere, sui ritmi, sulle pause ecc.In
Livio Maitan 17

altri termini, gli operai avvertono più direttamente e dolorosamente la loro


alienazione nel processo produttivo e perdono fiducia nella loro capacità
di resistere e di farsi valere. Questo viene, prima o poi, superato. Ma il
superamento non dipende unicamente dalle condizioni interne alla fabbri-
ca, dipende anche e, per certi aspetti, ancor di più dal clima socio-politico
complessivo, dai rapporti di forza più generali. Proprio per questo i
mutamenti degli anni '80 hanno avuto conseguenze più negative e più
durature che in altre fasi precedenti.

Note

l Per parte sua, Nicola Tranfaglia parla di "un nuovo modello di società
democratica e socialista che ponga al capitalismo limiti più efficaci di quelli
applicati dagli esperimenti socialdemocratici europei" (''l'Unità'', 31 gennaio
1992). Dunque, si tratta di correttivi nel quadro di un sistema sostanzialmente
mantenuto.
Livio Maitan 19

Capitolo secondo

"CRISI DEL COMUNISMO"?

Illeit motiv, intonato universalmente soprattutto dal 1989, è stato e


continua a essere quello della crisi finale, della irreversibile sconfitta
storica del comunismo. Questo fallimento sarebbe il risultato inevitabile
della natura intrinseca delle teorie di Marx e di tutti coloro che si sono
richiamati al marxismo in varie epoche.

Una messa a punto necessaria

Va ribadito ancora una volta che una simile impostazione è da respin-


gere innanzitutto per ragioni di metodo. Infatti, lo sviluppo storico non
può essere interpretato come una sorta di traduzione in pratica di certe
idee, mentre è determinato fondamentalmente da forze sociali concrete,
dall'intrecciarsi e dal contrastare dei loro interessi, nonché dalla dinamica
del quadro politico entro cui queste forze si confrontano. L"'ideologia",
tradizionale uccello di Minerva, non sopraggiunge che al calar del sole o,
fuori di metafora, ha la funzione di sistematizzare la realtà socio-econo-
mica e politica.
Non intendiamo ridurre l'ideologia a pura propaganda ,senza reale
influenza sugli avvenimenti. Nelle sue formulazioni più alte, l'ideologia
non è propaganda e ancora meno falsificazione o distorsione deliberata.
ma, per dirla in termini marxiani, è coscienza mistificata. se non automi-
20 Anticapitalismo e comunismo

stificante. Quando viene espressa da una classe storicamente in ascesa o


giunta alla maturazione del suo sistema, diventa uno strumento insostitui-
bile, politicamente e culturalmente, e agisce come un fattore materiale.
Ma anche in questo caso la chiave per comprendere la dinamica storica
reale è la dinamica delle componenti sociali e politiche e non la dialettica
delle idee in sé considerata.
Fatta questa premessa, per una demistificazione della problematica
della crisi-fallimento del comunismo, si può anche partire dal terreno
ideologico o, più esattamente, teorico. Si può del tutto legittimamente
rinviare i nostri avversari - siano difensori di concezioni borghesi tout
court o aderiscano a correnti socialdemocratiche o socialiste - a quello che
Marx, Engels e lo stesso Lenin, per non parlare di Rosa Luxemburg e di
Trockij, hanno scritto sui caratteri distintivi, sulla natura e sulla dinamica
di una società socialista e di quella fase del socialismo definita più
specificamente comunista, nonché della fase di transizione immediata-
mente successiva all'avvento della nuova classe dirigente. Solo chi si
faccia scudo della più volgare ignoranza - è! il caso della stragrande
maggioranza di quanti pontificano sulla stampa o sugli schermi televisivi
-, giudichi partendo da dati del tutto unilaterali con arbitrarie forzature -è
il caso di certi critici anche tra i meno tendenziosi - o abbia dimenticato
cose che in passato non ignorava - è il caso del folto stuolo degli intellet-
tuali pentiti -, può sorvolare disinvoltamente sulla differenza abissale tra
le concezioni teoriche e i progetti strategici dei teorici del movimento
operaio e la pratica dei cosiddetti paesi socialisti. Questa differenza si era,
del resto, tradotta in un autentico revisionismo. Al di là delle proclama-
zioni stereotipe di ortodossia, i dirigenti e gli ideologhi del "socialismo
reale" hanno via via apportato rettifiche radicali alle concezioni marxiane
e allo stesso metodo materialistico: a partire dalla teorizzazione apologe-
tica del "socialismo in un paese solo" sino alla trasformazione del concetto
di egemonia del proletariato - peraltro, di portata transitoria, data la
transitorietà della sopravvivenza di una specifica classe proletaria quale
si forma storicamente in una società capitalistica - nell'idea del potere
onnivoro di un partito-Stato ben difficilmente rintracciabile nel pensiero
di Marx e dello stesso Lenin (e non solo del Lenin di Stato e rivoluzione).
Ma la risposta alle interpretazioni storiche e alle mistificazioni propa-
gandistiche degli avversari va data soprattutto sul piano dell'analisi storica
concreta, dei processi che si sono svolti nell'Unione Sovietica a partire
Livio Maitan 21

dagli anni '20 e nelle altre società di transizione dalla loro stessa forma-
zione dopo la seconda guerra mondiale. Se si vuole intraprendere un' opera
feconda di rifondazione ed essere in grado di prospettare, sia pure a grandi
linee, un progetto alternativo di società, di qui bisogna partire. Bisogna
individuare le origini, le caratteristiche, le contraddizioni e le dinamiche
di società burocratizzate in cui non solo non è mai stata portata a termine
un' edificazione socialista, ma la classe operaia, i contadini e gli altri strati
popolari non hanno mai avuto - o hanno perduto abbastanzarapidamente
- la possibilità di esercitare veramente il potere politico e di gestire
l'economia e sono stati addirittura privati di organizzazioni indipendenti
in grado di esprimere i loro interessi e le loro aspirazioni, costrette
com'erano ad accettare il monopolio del partito-Stato, privo del benché
minimo funzionamento democratico al suo stesso internol. Questa rifles-
sione critica implica la presa di coscienza di quella che è stata, sul piano
del metodo, una distorsione di fondo cui ben pochi dirigenti e teorici del
movimento operaio internazionale hanno saputo sottrarsi. Mentre si affer-
mava la validità del metodo materialistico nell'analisi del mondo capita-
lista e della sua dinamica (anche se molto spesso lo si applicava solo molto
parzialmente), nel caso delle società burocratizzate, dall'URSS alla Cina,
si rinunciava a ogni analisi sia socio-economica sia politica, si accettavano
acriticamente dati e interpretazioni ufficiali, quasi sempre nelle forme più
sfacciatamente propagandistiche e meno credibili. Anche quando le con-
traddizioni di queste società esplodevano alla luce del sole (URSS 1956,
Cina 1966-67, URSS nella seconda metà degli anni '80 ecc.), invece di
analizzare materialisticamente, sulla base di dati che pure esistevano,
quello che stava avvenendo e quali fossero la natura e i progetti delle stesse
forze che aprivano un capitolo critico e progettavano misure di riforma,
ci si affidava al pensiero e all'iniziativa di personalità demiurgiche, si
trattasse di Krusciov, di Mao o di Gorbaciov, di cui peraltro non ci si
preoccupava di analizzare veramente le stesse formulazioni ideologiche2.
Questo riesame critico storico-teorico deve essere centrato sugli avve-
nimenti degli ultimi anni e sui problemi che si pongono ora e non certo su
richiami dottrinari, per legittimi che possano essere. In questo senso esiste
il compito enorme - che non può essere assolto da un partito o da una
qualsiasi organizzazione e neppure da qualche singolo individuo - di
scrivere una storia dell'URSS e delle altre società burocratizzate, che sia,
per così dire, una storia contemporanea, cioè parta dal punto di arrivo e
22 Anticapitalismo e comunismo

dai problemi attuali. Sarebbe tuttavia poco scientifico e ingiusto ignorare


tutto il lavoro che è stato fatto già a partire dagli anni '20 da correnti
teorico-politiche, prima all'interno dell'URSS e dello stesso movimento
dell'Internazionale comunista, poi al di fuori per le ragioni a tutti note,.
oltre che da storici, economisti e sociologhi che hanno fornito un ampio
materiale di analisi, e tentativi più o meno organici di generalizzazione.
Tutto questo avrebbe potuto essere conosciuto e valorizzato già da molti
decenni, se preoccupazioni politico-propagandistiche non avessero pre-
valso sulle esigenze conoscitive. Ma, come si suoI dire, meglio tardi che
mai: che tutto questo lavoro venga utilizzato e valorizzato almeno nelle
ricerche e nelle elaborazioni attuali3.
Per parte nostra, non vediamo alcuna ragione di abbandonare il filone
con cui ci siamo identificati sin dall'inizio della nostra riflessione teorica
e della nostra militanza politica. C'è appena bisogno di aggiungere che
siamo convinti che anche gli apporti più validi, verificati alla luce di una
lunga e molteplice esperienza, devono oggi essere riconsiderati e rilanciati
partendo dalla realtà e dalla problematica di questi anni.

Bilancio sintetico della socialdemocrazia

La mistificazione sul fallimento del comunismo ha comportato, nel


movimento operaio e al di fuori di esso, una seconda mistificazione, e cioè
la rivalutazione della socialdemocrazia e delle sue concezioni di riformi-
snio gradualistico e di democratizzazione-razionalizzazione del sistema
capitalistico. È, del rèsto, partendo dal presupposto che il "comunismo"
era ormai irrimediabilmente condannato e che la socialdemocrazia avreb-
be dovuto e potuto occupare lo spazio rimasto libero, che l'Internazionale
socialista è intervenuta in Europa orientale per creare partiti o raggruppa-
menti a propria immagine e somiglianza. Va aggiunto che la plausibilità
di un tale progetto era, direttamente o indirettamente, confermata dal fatto
-
che vari partiti comunisti o comunque formalmente definiti alcuni già
-
nel corso della crisi, altri dopo la caduta si ribattezzavano assumendo
denominazioni di sapore socialdemocratico, battendo alla porta dell'Inter-
nazionale socialista4.
Senza pregiudicare gli sviluppi futuri, a quasi tre anni di distanza dagli
avvenimenti dell' 89, si può constatare che il disegno è rimasto sulla carta:
Livio Maitan 23

in nessun paese la socialdemocrazia è emersa come forza politica consi-


stente, ancora meno come forza egemonica, e nella stessa Germania
orientale le speranze sono andate deluse, almeno per il momento. Para-
dossalmente, sono ora gli ex-partiti comunisti ribattezzati a riguadagnare
una certa influenza, anche sul terreno elettorale, per loro il meno favore-
vole. La realtà è che partiti riformisti, per così dire, classici difficilmente
possono trovare un terreno solido su cui svilupparsi e adottare una strate-
gia credibile in un fase così tormentata come quella che i paesi dell' Europa
orientale stanno attraversando e dalla quale non usciranno così presto. In
ultima analisi, non possono sottrarsi a una scelta che non è solo astratta-
mente di principio, ma ha concrete implicazioni pratiche: o accettano,
dietro lo schermo dell"'economia di mercato", la restaurazione del capi-
talismo - in questo caso rischiano di essere perdenti nella concorrenza con
le forze più conseguentemente restauratrici che rifiutano ogni richiamo,
anche ultramoderato, al socialismo -, o si oppongono alla restaurazione,
all'ondata di privatizzazioni, in via di realizzazione o progettate a breve
-
scadenza ma tutte le loro concezioni e impostazioni e i loro legami
internazionali costituiscono un ostacolo difficilmente supera bile per porsi
effettivamente su questo terreno, su cui dovrebbero peraltro fronteggiare
la concorrenza di certi settori almeno dei vecchi partiti comunisti e di
organizzazioni sindacali riciclate o di nuova formazione e di nuovi rag-
gruppamenti di orientamento socialista.
Soprattutto a partire dagli anni '70, la socialdemocrazia internazionale
non ha risparmiato energie e risorse nell'intento di assumere un ruolo di
primo piano anche nel Terzo mondo, cioè nei paesi capitalisti sottosvilup-
pati. Ha cercato di definire principi e obiettivi politici, di conquistare
dirigenti e quadri sindacali e settori dell'intelligentsia e, quel che è ancora
più importante, di ottenere l'adesione di partiti e movimenti con base di
massa, se non addirittura maggioritari elettoralmente, in particolare in
America Latina e in Africa. Sono così entrati a far parte dell 'Internazionale
socialista, sia pure a diverso titolo, una serie di organizzazioni, tra cui
l'APRA peruviana, l'Accion democratica venezuelana, il PRO della Re-
pubblica dominicana, il MIR boliviano, il Partito senegalese di Leopold
Senghor, e altre ancora.
Alcuni di questi partiti o movimenti sono stati o sono ancora al
governo, spesso da soli, disponendo di una larga base di massa e dell' ap-
poggio di organizzazioni sindacali. Ebbene, perché i socialisti e i soci al-
24 Anticapitalismo e comunismo

democratici che hanno fatto e fanno del "fallimento del comunismo" un


leit motiv della loro propaganda e delle loro teorizzazioni (nella misura in
cui ancora si preoccupano di darsi una teoria), non si preoccupano di fare
un bilancio dei loro partiti "fratelli" in Africa o in America Latina?
La risposta è semplice: non avrebbero troppe ragioni di compiacersi. I
governi diretti da queste organizzazioni, lungi non diciamo dall'aver
risolto, ma anche solo dall' aver evitato l'aggravarsi dei problemi ango-
sciosi dei loro paesi, lungi dall' aver cercato di sottrarsi all'egemonia
economica imperiali sta e dall' aver dato vita a istituzioni democratiche in
cui le masse potessero esprimere i loro interessi e le loro aspirazioni, hanno
assolto sistematicamente il ruolo di gerenti di regimi neocoloniali. Hanno
accettato le imposizioni del FMI e delle altre istituzioni capitalistiche
internazionali, hanno adottato drastiche misure di austerità (che, more
solito, mai hanno colpito le classi possidenti indigene o le élites degli
apparati statali e dell'intelligentsia) e quando ci sono state risposte di
massa a queste politiche, non hanno esitato a far ricorso alla più dura
repressione, mobilitando esercito, polizia e altri corpi specializzati.
Due esempi di significato quasi simbolico. Nel19861'Internazionale
socialista aveva convocato un congresso a Lima, dov' era al potere l'APRA
con la presidenza di Alan Garcia. Proprio al momento dell'apertura, il
governo apri sta, che doveva poi fallire in modo miserando lasciando il
paese in condizioni ancora più tragiche di quelle in cui l'aveva trovato,
soffocava una rivolta nelle carceri massacrando centinaia di detenuti. Nel
febbraio 1989, mentre gli ospiti stranieri, tra cui non pochi illustri dirigenti
socialdemocratici, non avevano ancora digerito le laute pietanze dei ban-
chetti per l'insediamento presidenziale, il presidente Carlos Perez, anch' e-
gli membro dell'Internazionale socialista, schiacciava la. protesta della
popolazione povera di Caracas facendo massacrare indiscriminatamente
dall' esercito molte centinaia, se non migliaia di persone (probabilmente
non meno, anche in termini assoluti, di quante non ne siano state uccise
sulla piazza Tien Anmen). A tre anni distanza, lo stesso personaggio ha
imposto radicali restrizioni dei più elementari diritti democratici dopo aver
ridotto letteralmente alla fame milioni di venezuelani con l'applicazione
di misure di privatizzazione e delle famigerate ricette del FMI.
Terzo esempio, non meno illuminante: Leopold Senghor sarà un bril-
lante letterato e teorico della négritude. Ciò non toglie che il regime che
ha instaurato e trasmesso ai suoi successori, è un esempio da manuale di
Livio Maitan 25

regime neocoloniale, in cui non solo non è stata presa la più timida misura
"socialista", ma in cui il capitale internazionale ha mantenuto ed allargato
le sue riserve di caccia, si è formata una parassitaria e vorace classe
dominante indigena, la vecchia potenza coloniale ha mantenuto una pe-
santissima ingerenza, le masse popolari hanno subito un deterioramento
costante delle già miserevoli condizioni di vita e il sistema politico,
nonostante correzioni più recenti, è stato ed è più vicino al deprecato
monopartitismo che a una democrazia parlamentare o presidenziale di tipo
"occidentale"5.
Ci si dirà che il bilancio della socialdemocrazia deve essere fatto
soprattutto partendo dai paesi in cui ha avuto una più lunga tradizione, ha
accumulato le forze più consistenti e ha contribuito, a volte in modo
decisivo, all'introduzione del Welfare State o Stato sociale.
Per la verità, sarebbe mistificatorio fare un bilancio del genere sorvo-
lando sul fatto che la prosperità, reale o presunta, di una serie di paesi
dell'Europa occidentale è stata possibile grazie ai meccanismi economici
e politici di un sistema internazionale, di cui uno degli elementi essenziali
è stato e continua a essere lo sfruttamento, in diverse forme, dei paesi
sottosviluppati. Al di là dei discorsi di occasione e di vaghe enunciazioni
di buoni propositi, nessun partito e, a maggior ragione, nessun governo
socialdemocratico ha lottato contro questi meccanismi, accontentandosi
tutt'al più di prospettare timidi corretti vi, rivelatisi, com'era prevedibile,
del tutto inoperanti.
Ma, dato e non concesso che si possa far astrazione da questo, oltre che
dal ruolo che partiti socialdemocratici hanno avuto anche dopo la seconda
guerra mondiale nei tentativi di impedire l'ascesa dei movimenti anti-im-
perialisti e nell' esercizio della più brutale repressione6, il bilancio storico
complessivo della socialdemocrazia europea non è meno fallimentare di
quello dello stalinismo. A questo proposito, non c'è nulla di nuovo da
scoprire. Ma per rinfrescare le memorie non sarà inutile riprendere som-
mariamente gli argomenti essenziali, su tre piani, di una critica da un punto
di vista marxista e rivoluzionario:
1) I partiti socialdemocratici o socialisti non hanno realizzato in nessun
paese il fine storico che si erano prefissi al momento della loro formazione,
cioè la sostituzione della società capitalista con una società socialista. Di
più, ormai da molti decenni hanno rinunciato addirittura a perseguire
questo fine. Come abbiamo già accennato, conquiste parziali di portata
26 Anticapitalismo e comunismo

incontestabile sono state ottenute in varie epoche. Ma, in ultima analisi,


queste realizzazioni hanno agito come elemento di riequilibrio o di rista-
bilizzazione del sistema, subendo successivamente un'usura che le ha
largamente svuotate del loro contenuto, se non annullate completamente.
2) È nei momenti in cui partiti socialdemocratici e socialisti (anche in
varianti massimalistiche) hanno avuto la maggiore influenza sulle masse
lavoratrici e disposto della maggiore forza organizzata, che il movimento
operaio ha subito una serie di sconfitte storiche che lo hanno disarticolato,
ributtandolo indietro di decenni. Ricordiamo, per l'esempio, l'agosto
1914, quando i partiti e i sindacati operai si sono rivelati drammaticamente
incapaci di contrastare la guerra e, tranne parziali eccezioni, si sono
associati alle imprese belliche delle rispettive classi dominanti; il 1919 iò
Germania, quando la socialdemocrazia è stata lo strumento principale
della riorganizzazione dello Stato e del rilancio dell' economia capitalista
in una situazione in cui, dopo la sconfitta militare, il regime era entrato in
una crisi socio-politica globale senza precedenti; il 1921-22 in Italia,
quando il fascismo è riuscito a imporsi nell'arco di due soli anni su un
movimento operaio ricco di potenzialità, ma privo di una reale direzione;
il 1933 in Germania, quando la classe operaia ha subito una sconfitta le
cui conseguenze a lungo termine non sono state ancora interamente
superate; il 1936-37 in Francia, quando le forze potenziali espresse dalla
vittoria del Fronte popolare sono state dilapidate con un rapido esaurimen-
to di un'esperienza, che aveva alimentato grandi speranze anche al di là
dei confini francesi.
Un bilancio complessivo non dissimile dal nostro è stato abbozzato da
un autore non sospettabile di stalinismo o di estremismo e aperto alla
socialdemocrazia, François Fejto. Vale la pena di ricordarlo:
"La storia dell 'Internazionale socialista è scandita da fallimenti memo-
rabili. 1914: i partiti e i sindacati socialisti della Germania, della Francia
e degli altri paesi occidentali, nonostante i loro effettivi impressionanti, si
dimostrano impotenti a impedire la guerra più stupida della storia mon-
diale che rende inevitabili la frammentazione e la decadenza dell'Europa.
1919: il movimento operaio, nel cui seno erano esistite in precedenza
speranze rivoluzionarie e pratiche riformiste, si scinde in due, e i militanti
rivoluzionari più attivi aderiscono alla III Internazionale, fondata da
Lenin. 1933: il distaccamento più potente del socialismo europeo, la
socialdemocrazia tedesca, incapace di padroneggiare la crisi economica,
-
Livio Maitan 27

tenuta sotto pressione e rosicchiata da un Partito comunista che applica la


politica del tanto peggio tanto meglio, capitola di fronte al nazismo.
1935-39: le esperienze di fronte popolare, lanciate per fare sbarramento ai
fascismi in ascesa, non contribuiscono a rialzare il prestigio dei partiti
socialisti che vi partecipano. Profittano soprattutto ai comunisti legati a
Mosca. Si trascinano stancamente e si disgregano. Più tardi, nei paesi
occupati dai nazisti, i partiti socialdemocratici, decimati dall' occupante,
ben poco preparati alla clandestinità, sono eclissati nella Resistenza dai
comunisti e hanno bisogno di molto tempo per riprendersi" (La socia/-dé-
mocratie quand meme, Robert Laffont, Parigi 1980).
3) Per venire a un periodo più recente, in particolare dall'inizio degli
anni '80 a oggi, partiti socialdemocratici o socialisti hanno avuto respon-
sabilità primarie di governo, sulla base di maggioranze presidenziali e
parlamentari, in paesi come la Francia, la Spagna e la Grecia. In nessuno
di questi casi sono stati capaci di realizzare le riforme economiche, sociali
e politiche, peraltro molto moderate, che avevano enunciato nei loro
programmi (in Francia, dopo qualche misura dei primissimi anni della
presidenza di Mitterrand, c'è stato un rapido e radicale ripiegamento).
Nonostante le polemiche contro concezioni e tendenze conservatrici, i
governi socialdemocratici hanno accettato e tradotto in pratica orienta-
menti economici del tutto simili a quelli di governi conservatori o a
maggioranza di destra, hanno imposto tutta una serie di misure di austerità,
non hanno fatto niente per combattere la piaga di una disoccupazione
cronica e crescente. Per poter imporre queste politiche, che non potevano
non provocare reazioni di malcontento da parte delle masse che costitui-
scono la loro base elettorale, non solo non hanno introdotto nessuna reale
riforma in senso democratico, ma, al contrario, si sono perfettamente
inseriti nella più generale tendenza dei paesi capitalisti a restringere nei
fatti i diritti democratici e ad accrescere il peso degli esecutivi con una
ulteriore co~centrazione di poteri, non esitando a utilizzare largamente
regole costituzionali e meccanismi imposti da governi o regimi conserva-
tori o reazionari precedenti (dal gollismo in Francia e dallo stesso franchi-
smo in Ispagna) e a introdurre nuove leggi o norme ancor più restrittive.
Il discorso potrebbe continuare. Ma, nel quadro di questo saggio, non
vogliamo aggiungere altro. Esistono tutti gli elementi per un bilancio
complessivo della socialdemocrazia. Non si tratta di lanciare scomuniche
o di appiccicare etichette, ma semplicemente di riandare a una lunga serie
28 Anticapitalismo e comunismo

di esperienze su scala internazionale e nell' arco di circa ottant' anni. In


conclusione, il fallimento della socialdemocrazia non è stato, per il movi-
mento operaio, meno pesante di quello dei partiti stalinisti e ha egualmente
contribuito alla perdita di identità della fase attuale.

Note

l L'esistenza di questi tratti distintivi comuni non comporta un annullamento


delle specificità di singole esperienze. Per esempio, un' analisi particolare è neces-
saria per la Cina (v. il nostro Esercito, partito e masse nella crisi cinese, Samonà
e Savelli, Roma, 1969) e a maggior ragione per Cuba, dove ha avuto luogo una
autentica rivoluzione e ben diverso che in altri paesi è stato il rapporto tra gruppo
dirigente e masse.
2 Anche qui la caratterizzazione generica non significa che i tre personaggi
abbiano avuto esattamente lo stesso ruolo e adottato le stesse concezioni e gli stessi
metodi.
3 Ricordiamo in particolare le analisi di Leone Trockij, il cui contributo
principale per quanto riguarda la natura dell' URSS e la sua dinamica è senza dubbio
La rivoluzione tradita (ultima edizione italiana, Mondadori, Milano, 1990), i libri
e i saggi di Isaac Deutscher, in primo luogo la sua trilogia su Trockij (pubblicata
in Italia da Longanesi a partire dal 1956) e l'opera monumentale di E. Carr
(pubblicata in Italia da Einaudi in vari volumi a partire dal 1964). Per quanto
riguarda le nostre valutazioni cfr. l'articolo comparso su "Bandiera Rossa" n. 24,
aprile 1992, ripreso parzialmente in appendice a questo volume.
4 Concezioni e orientamenti di ispirazione socialdemocratica si riscontrano
anche nei programmi o nelle prese di posizione di raggruppamenti nuovi o
rinnovati dell'ex-Unione Sovietica. Una considerazione analoga si può fare a
proposito del progetto di programma del PCUS che Gorbaciov aveva presentato
poco prima della crisi dell'agosto 1991.
5 Per una analisi più ampia ci permettiamo di rinviare al nostro contributo e ad
altri comparsi sul numero 36 (dicembre 1989 - gennaio 1990) della rivista francese
"Quatrième Intemationale", in parte ripresi su "Bandiera Rossa" (n. 2, marzo
1990).
6 L'esempio più noto e più vergognoso è quello del ruolo del Partito socialista
francese e del suo dirigente di allora Guy Mollet nella guerra contro il popolo
algerino. Ma molti altri se ne potrebbero fare: per quanto riguarda i laburisti inglesi,
per esempio, il loro ruolo nelle campagne militari dell'imperialismo britannico in
Malesia e nel Kenya.
Livio Maitan 29

Capitolo terzo

IL CAPITALISMO OGGI: MISTIFICAZIONI E REALTÀ

Proprio perché facciamo un bilancio così radicalmente negativo degli


ultimi decenni di lotte del movimento operaio, dobbiamo porci una serie
di interrogativi di fondo. Dalla risposta dipende se il progetto di rifonda-
zione comunista ha un fondamento oggettivo o se invece non è che un
sogno di nostalgici.
Questi interrogativi si possono sintetizzare nei termini seguenti:
l) L'involuzione del movimento operaio e la sua deriva moderata non
sono iscritte nella realtà e nella dinamica del periodo storico in cui
viviamo? Non era inevitabile che la società capitalistica riuscisse a man-
tenersi e ad apparire, al punto di arrivo di una lunga sequenza di avveni-
menti, come l'unico quadro socio-politico possibile?
2) Le tendenze della società attuale non rimettono in discussione
l'esistenza stessa della classe operaia come forza sociale decisiva e porta-
trice di un progetto di società qualitativamente diverso? Non sarebbe
minata nei suoi stessi presupposti la costruzione teorica e strategica del
marxismo e, più generalmente, del movimento operaio?
3) Da un'analisi della situazione attuale - oltre che da quella della crisi
epocale cui già ci siamo riferiti - non bisogna trarre la conclusione che
ogni prospettiva di trasformazione è chiusa per un periodo di tempo
indefinito o, in altri termini, che il capitalismo è in grado di realizzare un
rilancio su scala internazionale di ampio respiro e di durata presumibil-
mente lunga?
30 Anticapitalismo e comunismo

Le potenzialità non valorizzate

Non riprendiamo qui il discorso più generale sulle alternative possibili


nell'URSS degli anni '20 e '30 e per il movimento operaio di vari paesi e
di quello italiano più in particolare nello stesso periodo e successivamen-
te1. Limitiamoci a qualche considerazione sulle potenzialità degli ultimi
trent' anni.
Prima di tutto, è un dato di fatto che anche in questo periodo la società
capitalistica ha conosciuto ripetutamente crisi socio-economiche e politi-
che, a volte acute e prolungate. Questo non solo in quelli che continuano
a essere gli anelli più deboli della catena, cioè i paesi sottosviluppati, ma
anche nei paesi capitalisti più industrializzati.
Così, a smentita di tutti coloro che negli anni ' 50 e ' 60, partendo da
un'analisi statica e troppo immediatistica, avevano teorizzato il supera-
mento delle crisi cicliche e di fenomeni tipici della storia del capitalismo
(la disoccupazione in primo luogo), di crisi cicliche ce ne sono state e a
più riprese, con tutte le ben note conseguenze. Si sono avute recessioni di
particolare gravità, come quella del 1981-82 e quella tuttora in corso
mentre scriviamo. Prima c'era stata la recessione del 1974-75, la più
profonda di questo secolo dopo gli anni '30. Quel che è ancora più
importante, la recessione della metà degli anni '70 ha segnato definitiva-
mente l'esaurirsi del lungo boom del dopoguerra, cioè dell'onda lunga di
espansione durata oltre un ventennio, e ha inaugurato una fase prolungata
di ristagno da cui l'economia capitalistica non è ancora uscita, nonostante
tutti gli sforzi compiuti e riprese congiunturali a volte non irrilevanti.
Non sono mancate, d'altra parte, crisi sociali e politiche che, in certe
fasi e in certi paesi, hanno assunto il carattere di crisi globali del sistema,
con una rimessa in discussione su scala di massa dei suoi meccanismi,
delle sue istituzioni e dei suoi valori.
C'è appena bisogno di richiamare gli esempi più significativi:
-Il maggio 1968 in Francia, dove uno sciopero generale ha paralizzato
il paese per circa cinque settimane, con imponenti e ripetute mobilitazioni
di massa, in cui giovani studenti e giovani operai si sono trovati fianco a
fianco contro le forze di repressione, facendo temere allo stesso De Gaulle
e ai suoi generali il rovesciamento del regime.
- La crisi italiana, che, iniziatasi nello stesso anno, si è allargata e
approfondita nell'anno successivo, prolungandosi sino ai primi anni '70,
Livio Maitan 31

con radici sociali ancora più profonde di quelle del movimento francese.
L'odierna riscrittura della storia in chiave conservatrice tende a presentare
quelle vicende come un'esplosione di irresponsabili e sterili estremismi,
preludio del terrorismo, e a far dimenticare la realtà, cioè le mobilitazioni
inesauribili di vasti strati sociali, non solo proletari, l'emergere impetuoso
della forza nuova rappresentata dal movimento studentesco, la radicaliz-
zazione di ampi settori di piccola borghesia che per la prima volta conte-
stavano l' establishment, le crepe che si producevano a diversi livelli delle
stesse istituzioni.
- Avvenimenti non meno significativi in altri paesi europei. Per
esempio, nel Belgio, una situazione critica, con uno sciopero generale, si
era creata già alla fine del 1960 e all'inizio del 1961, mentre la Gran
Bretagna ha attraversato una fase prolungata di aspre lotte operaie, cui
non ha posto fine che l'avvento del thatcherismo (durante il quale c'è
stato, tuttavia, il grande sciopero dei minatori). D'altra parte, grandi
mobilitazioni e conflitti a livello di massa hanno accompagnato e seguito
in Ispagna la caduta del franchismo e una crisi socio-politica ancora più
profonda si è sviluppata in Portogallo dopo la fine della dittatura salaza-
riana.
In tutte queste crisi - come in altre di minoreportata - la classeoperaia,
intesa in senso lato, non solo è stata la spina dorsale di lotte e mobilitazioni,
ma ha rilanciato al tempo stesso il suo ruolo di forza antagonista del
sistema ed egemone di un più vasto fronte sociale di contestazione anti-
capitalistica. Settori sempre più ampi di proletariato, stimolati dalle espe-
rienze di lotta, hanno raggiunto livelli di coscienza senza paragone più
elevati di quelli dei periodi di ristagno o di "normalità", conquistando si
una vera e propria promozione culturale. Nei momenti più alti, si sono dati
nuovi strumenti democratici di lotta e di organizzazione, al di fuori non
solo del quadro istituzionale, ma anche del quadro organizzato tradizio-
nale (esperienze dei consigli in Italia e, fatte le debite proporzioni, in
Portogallo), immettendo sangue fresco nell' organismo del movimento
operaio. In casi-limite e, va da sé, per periodi limitati, operai e tecnici
hanno dato prova dell~ loro capacità di gestione delle aziende (occupazioni
di fabbriche e altre situazioni analoghe). C'è appena bisogno di ricordare
il precedente storico dell' ormai lontano 1920, a proposito del quale restano
attuali le penetranti osservazioni e generalizzazioni del giovane Gramsci.
Esperienze significative nello stesso senso sono state fatte nel biennio di
32 Anticapitalismo e comunismo

ascesa della rivoluzione portoghese e prima ancora in Francia (all'inizio


degli anni '70 c'è stato l'episodio della LIP).
Tutto questo non deve essere dimenticato né sottovalutato a posteriori,
soprattutto in una situazione come l'attuale in cui gli avversari fanno il
possibile non solo per annullare le conquiste operaie, ma anche per
cancellare la memoria storica delle più valide esperienze del passato. In
realtà, se lo sbocco degli anni '80 e dei primi anni '90 è stata la situazione
attuale di ristagno, di ripiegamento e di smarrimento, ciò non è dipeso
affatto da una fondamentale stabilità a lungo termine del sistema domi-
nante né da una intrinseca incapacità del proletariato di assumere il suo
ruolo, ma dal permanere o dall' emergere di una serie di concreti ostacoli
politici e organizzativi, che hanno impedito la valorizzazione delle poten-
zialità esistenti, e dall'incapacità delle organizzazioni operaie di assolvere
i compiti per cui erano sorte.

Il profitto resta la molla essenziale

Ci si potrebbe rispondere che, anche se quello che abbiamo detto è vero


per il passato, oggi siamo in una fase del tutto nuova, in cui i meccanismi
e la dinamica delle società non possono più essere interpretati sulla base
dei criteri usati dal marxismo e dal movimento operaio di ispirazione
marxista.
Anzitutto, una precisazione preliminare. La nostra risposta sarebbe più
facile, se partissimo dalla realtà dei paesi sottosviluppati, a proposito dei
quali è difficile contestare la persistenza dello sfruttamento da parte di classi
dominanti nazionali e internazionali, di polarizzazioni sociali laceranti e di
una conflittualità esplosiva, che emerge periodicamente alla superficie.
Invece, il punto di partenza deve essere l'analisi dei paesi capitalisti più
industrializzati: non per un riflesso euro o americano-centrico e neppure per
mettere in dubbio che anche in questa fase situazioni rivoluzionarie possano
verificarsi soprattutto in paesi del cosiddetto Terzo mondo, ma per una
elementare questione di metodo. Più che mai dopo la crisi delle società di
transizione burocratizzate e in un contesto di crescente internazionalizzazio-
ne dell' economia, è nei centri imperialisti, "patrie" delle multinazionali e
punti nevralgici della accumulazione mondiale, che vanno colti i meccani-
smi decisivi, con tutte le loro tensioni e contraddizioni.
Livio Maitan 33

Premesso questo, una .prima domanda: le molle essenziali del capitali-


smo sono qualitativamente mutate o restano fondamentalmente le stesse?
A rischio di sembrare ingenui, diciamo che la risposta ci pare ovvia e
trasferiamo a coloro che hanno un diverso avviso l'onere della prova.
L'elemento motore del capitalismo resta la ricerca del profitto: è l' abc, ma
è il caso di ricordarlo a quanti. sembrano dimenticarlo. Senza il profitto,
indissolubilmente legato alla proprietà privata dei mezzi di produzione,
una società capitalistica non può semplicemente funzionare. Ciò non è
affatto negato dai più direttamente interessati, cioè dai capitalisti e dai loro
portavoce, che quotidianamente adducono l'esigenza di salvaguardare il
profitto per giustificare tutte le misure di ristrutturazione, di intensifica-
zione dei ritmi di lavoro, i licenziamenti ecc. e per pretendere dai governi
decisioni che vadano nello stesso senso.
Gli elementi tipici di questa fase consistono in realtà nella sempre
maggiore internazionalizzazione della ricerca del profitto e nelle nuove
forme tecnico-organizzative introdotte per aumentare il tasso dello sfrut-
tamento.
Se l'internazionalizzazione della ricerca del profitto comporta un esa-
cerbarsi della concorrenza, l'aumento del tasso di sfruttamento stimola
l'introduzione di politiche salariali e sociali, che provocano una pauperiz-
zazione relativa negli stessi paesi più avanzati e una pa!lperizzazione
assoluta nei paesi sottosviluppati. Coloro che durante il boom prolungato
o in periodi più recenti hanno fatto dell'ironia su certe tesi marxiane a
-
questo proposito o su loro interpretazioni abusive -, dovrebbero ormai
essere più cauti. Che in questo contesto, lungi dallo scomparire o dall'at-
tenuarsi, si moltiplichino e si aggravino parossisticamente gli squilibri -e
gli squilibri sempre più laceranti - tra le varie aree del mondo, tra paesi
diversi di una stessa area e tra regioni diverse all'interno di uno stesso
paese non è una tendenzain prospettiva, ma un dato di fatto da constatare.
A questisquilibricontribuiscono,in ultimaanalisi,anchegli spostamenti
di areadi attivitàdigrandigruppiindustrialie finanziari,checostituisceuna
caratteristicadella fase più recente del capitalismo.Infatti, se esigenze di
profittopossonoessere soddisfatte,più o meno durevolmente,tali trasferi-
menti provocano, tuttavia, profonde lacerazioni di settori economici e di
tessutisocialinelleregionio nei paesiabbandonati,mentrenei paesio nelle
regioni di nuova adozione solo fasce molto ristrette di popolazione sono
eventualmenteavvantaggiatedallacreazionediposti dilavoroe, comunque,
34 Anticapitalismo e comunismo

al prezzo di una accettazione di alti tassi di sfruttamento oltre che di traumi


per l'ambiente e per il quadro sociale preesistente. Per la stessa grande
borghesia, principale beneficiaria di queste operazioni, il prezzo in termini
di eventuali squilibri sul piano dell' esercizio dell' egemonia sociale e politica
potrebbe rivelarsi, a termine, elevato.
Non ritorniamo sulla sempre maggiore concentrazione e centralizza-
zione del capitale. Che a questo proposito l'analisi di Marx abbia colto il
segno non è contestato neppure dai suoi critici più accaniti. Non si tratta
di un aspetto secondario, ma di un elemento essenziale dello sviluppo
capitalistico, le cui conseguenze sociali e politiche sono dinnanzi ai nostri
occhi in tanta parte del mondo e tenderanno a generalizzarsi - nessuno si
faccia illusioni in merito - investendo anche i paesi attualmente considerati
ricchi. Quanto alle crisi cic1iche, già vi abbiamo accennato e vi ritorneremo
tra poco in questo stesso capitolo.
Un elemento, che, pur non essendo nuovo in assoluto, ha assunto una
incidenza qualitativamente diversa e incomparabilmente più grande che
in passato, è rappresentato dal fatto che lo sviluppo economico incontrol-
lato - o regolato ex post dalle "leggi del mercato" - e la necessità insop-
primibile per il capitale di realizzare l'accumulazione allargata con l'uso
indiscriminato di ogni sorta di tecnologie e fonti di energia, stanno
provocando un sempre più micidiale deterioramento dell'ambiente con
una erosione dello stesso sostrato naturale.
Sia detto di passata, affrontare questa tematica con le categorie gene-
riche dell'industrialismo e del produttivismo, come fanno spesso i Verdi
(ma, per la verità, non solo i Verdi) significa correre il rischio di creare
confusione e di eludere il problema vero. La questione se l'umanità
avrebbe conosciuto miglior sorte senza l'industrializzazione, e senza lo
sviluppo tecnologico soprattutto dell'ultimo secolo, è tutto sommato ozio-
sa e può tutt' al più ispirare una critica romantica o neoromantica dell' esi-
stente con la rievocazione di una società preindustriale e agraria, alla quale
in ogni caso è impossibile ritornare. L'analisi critica deve partire dalla
constatazione che la distruzione dell' ambiente avviene nel quadro del
capitalismo e a causa non tanto di particolari aberrazioni di questo o quel
gruppo industriale e di questo o quel governo (anche se le aberrazioni non
sono mancate!), quanto dei meccanismi intrinseci del capitalismo stesso,
che subordinano e devono subordinare tutto alle esigenze del profitto e
della accumulazione allargata3. .
Livio Maitan 35

Una conferma sin troppo evidente di quali siano i meccanismi necessari


del capitalismo viene da quello che sta accadendo nei paesi dell'Europa
centro-orientale e nell'ex-Unione Sovietica. Se meccanismi nuovi, nuove
regole, nuovi valori si stessero effettivamente affermando nel capitalismo
più moderno e più "razionale", i paesi in cui sono stati rovesciati regimi
non capitalisti e non esistono sedimenti di capitalismo antico, dovrebbero
costituire il terreno privilegiato di sperimentazione di queste novità. Ora,
quali che siano i risultati sinora raggiunti o ipotizzabili, lo spettacolo cui
si sta assistendo è il tentativo di riportare sul trono il monarca assoluto
Profitto, motore supremo e irrinunciabile della tanto auspicata economia
di mercato. Convergono nella ricerca del profitto i nuclei embrionali di
nuova borghesia, gli intermediari, per non dire gli speculatori tout court,
che proprio nel commercio intravedono la via più agevole di una rapida
accumulazione, i manager provenienti dalla file della burocrazia tecnocra-
tica e gli stessi burocrati degli apparati politici, che, costretti a riciclarsi
per non essere spazzati via, diventano agenti, più o meno diretti, della
restaurazione o soci "nazionali" delle multinazionali. C'è appena bisogno
di aggiungere che le suddette multinazionali, come le istituzioni interna-
zionali e i governi dei paesi capitalisti, al di là della specificità dei modi e
delle forme, fissano i loro impegni e le loro scelte sulla base di un criterio
primordiale: si potranno o no ricavare dei profitti (quali che siano le
scadenze?). Altro che novità! Lo spettacolo di cui siamo spettatori è un
miscuglio allucinante di disegni e metodi propri del neocapitalismo e
dell'imperialismo più "moderno" e di forme ancestrali, barbariche, di
accumulazione primitiva.

Quali mutamenti nella composizione sociale?

È ricorrente il discorso, il più delle volte non suffragato da elementi


analitici anche solo approssimativi, sui mutamenti intervenuti nella socie-
tà odierna e in particolare sul declino, se non sulla scomparsa della classe
operaia, che solo paleo-marxisti impenitenti si intestardirebbero a negare.
I processi economici degli ultimi decenni - caratterizzati, non perdia-
molo mai di vista, da una crescente centralizzazione e concentrazione del
capitale e da straordinarie innovazioni tecnologiche e conseguenti muta-
menti nell'organizzazione del lavoro - hanno indubbiamente inciso sulla
36 Anticapitalismo e comunismo

composizione e sulla dinamica di classi e strati sociali. È ovvio che


un'analisi globale approfondita di questi fenomeni, condotta, come è
necessario, su scala mondiale, esigerebbe un enorme lavoro collettivo,
corredato da successivi aggiornamenti. Tuttavia, tenendo conto dei dati
ufficiali o ufficiosi di varia origine, che compaiono regolarmente, e di dati
di fatto che dovrebbero essere di comune conoscenza, ci sembra possibile
tracciare alcune linee generali.
Per cominciare, è difficilmente contestabile che il peso specifico di
gran lunga maggiore e, in fin dei conti, decisivo, lo hanno sempre gli strati
capitalisti, di grande borghesia, che sono inseriti nei processi di interna-
zionalizzazione e agiscono sotto forma di multinazionali o di aziende che,
pur restando nazionali, hanno un raggio di azione che va ben oltre i confini
di un singolo paese. Che si tratti di attività propriamente industriali e
agro-industriali oppure finanziarie e commerciali, è, dal punto di vista
sociale, secondario. A parte il fatto che molto spesso è difficile distinguere
data la stretta connessione tra i diversi settori di attività, l'elemento
determinante è che tutti partecipano al rastrellamento dei profitti, comun-
que questi profitti vengano suddivisi a secon~a delle situazioni, e fanno
parte dello stesso tessuto sociale. Non intendiamo negare l'importanza
relativa della distinzione tra attività più specificamente industriali e atti-
vità più specificamente finanziarie e ignorare l'incidenza del fatto che,
specie in periodi di difficoltà per il mantenimento dei saggi del profitto, il
peso di attività finanziarie o speculative tende a crescere a detrimento delle
attività più direttamente produttive. Ma questo non giustifica le teorizza-
zioni che se ne fanno discendere su una contrapposizione tra settori
borghesi "progressisti" e "moderni" e settori parassitari ed arretrati, e
ancor meno una strategia di alleanza tra tutti i ceti "produttivi".
Nella misura in cui hanno conosciuto una certa crescita - per esempio,
in alcuni paesi asiatici e latino-americani -, gruppi élitari di paesi sotto-
sviluppati si inseriscono, con tutti i limiti e con tutte le contraddizioni, nel
processo di distribuzione internazionale dei profitti, diventando così com-
ponenti socialmente e politicamente necessarie della macchina di sfrutta-
mento e di dominazione imperiali sta.
Ritornano a volte, presentati come nuovi, discorsi sui cambiamenti che
sarebbero costituiti, da un lato, dalla sostituzione dei singoli capitalisti o
dei singoli gruppi familiari con le società per azioni, dall'altro, dal fatto
che i detentori reali del potere sarebbero i manager e non più i proprietari
Livio Maitan 37

in termini giuridici. Lasciando stare le società per azioni, la cui origine


risale ormai alla notte dei tempi del capitalismo e che in nessun modo
possono essere gabellate come un superamento della proprietà privata, la
tesi sull'egemonia dei manager risale per lo meno agli anni '30. Le cose
sono oggi ancor più chiare che cinquanta o sessanta anni fa. In ultima
analisi, delle due l'una: o i manager restano semplicemente tali e allora i
loro progetti e le loro decisioni operative restano subordinati alle decisioni
dei proprietari - singoli o riuniti in società per azioni - o partecipano alla
proprietà e in questo caso, pur assumendo una duplice figura, fanno parte
integrante del gruppo sociale dominante senza divenire una nuova classe
in grado di imporre propri specifici interessi, proprie norme e propri valori.
Quanto la prima delle due ipotesi corrisponda ancora alla realtà, lo hanno
provato recenti vicende degli Stati Uniti, dove, ritenuti responsabili delle
situazioni di crisi delle aziende che dirigevano, manager famosi sono stati
messi alla porta senza troppi complimenti e i consigli di amministrazione
non hanno esitato a prendere misure di riorganizzazione della gestione per
delimitare più nettamente i poteri manageriali4.
C'è appena bisogno di ricordare che, data l'evoluzione dell'economia
agricola e la sua sempre più estesa industrializzazione, hanno perso terre~o
i settori di classe dominante rappresentati dagli agrari e dalla borghesia
rurale in senso stretto. Questo vale da tempo per i paesi più sviluppati,
dove il peso dell' agricoltura ha inciso sempre meno sul prodotto naziona-
le, con una drastica riduzione degli addetti a questo settore. Ma vale anche
per la maggior parte dei paesi sottosviluppati, con la differenza che in
questi ultimi l'industrializzazione ha coinciso per lo più con la penetra-
zione del capitale straniero e che gli espulsi dal processo di produzione
agricolo non si inseriscono che molto limitatamente nell' economia indu-
striale e urbana e sono quindi condannati a vivere ai margini della società.
Un'ultima considerazione sulle classi dominanti, che avanziamo come
ipotesi di lavoro da verificare. Dal punto di vista economico, gli strati più
elevati della borghesia si sono ulteriormente rafforzati e dispongono,
soprattutto grazie alle multinazionali e alle grandi concentrazioni indu-
striali, finanziarie e commerciali, di poteri ben maggiori che in qualsiasi
altra epoca. Questo non implica necessariamente un consolidamento ulte-
riore sul piano sociale e un rafforzamento dal punto di vista politico. In
realtà, la sempre più spietata concorrenza e gli inarrestabili processi di
concentrazione accrescono costantemente il numero degli sconfitti e degli
38 Anticapitalismo e comunismo

"emarginati" con conseguente restringimento del tessuto della classe


sociale egemone in quanto tale. Il fatto che gli "emarginati" lo siano in
senso molto relativo non essendo certo ridotti all'indigenza, non cambia
la sostanza del fenomeno. E sul piano politico una forza sociale che si
contrae ha più difficoltà a esercitare la propria egemonia su altri strati
sociali, indipendentemente dal rafforzamento o riconsolidamento del suo
potere economico. È inevitabile che a lungo termine ciò finisca con
l'influire anche sul piano economico.
La crescita e l'aumentato peso specifico delle classi medie sono stati,
sin dalla fine del secolo scorso, un motivo ricorrente della critica alla
problematica marxiana. Lasciando da parte le dispute più o meno scola-
stiche sulle ipotesi che Marx e i suoi discepoli avrebbero avanzato nei loro
scritti, è un'ovvia constatazione che le classi medie - o piccola borghesia
nelle sue molteplici articolazioni - hanno avuto e hanno un ruolo impor-
tante nelle società contemporanee e non solo nei paesi capitalisti svilup-
pati. Nei periodi di normalità o di ristabilizzazione hanno contribuito in
notevole misura al mantenimento dello status quo, esercitando un' influen-
za, diretta o indiretta, sullo stesso movimento operaio. Nei periodi di crisi
hanno, invece, rappresentato un fattore di squilibrio e di radicalizzazione
o di involuzione populistico-reazionaria.
Per venire a periodi più recenti e a proposito di strati che sono sulla
linea di demarcazione tra piccola borghesia e borghesia tout-court, vanno
presi in considerazione altri due elementi.
Se è vero che hanno continuato a esistere e magari ad accrescersi
numericamente le piccole industrie o le imprese di tipo artigianale, nella
maggior parte dei casi questi settori non hanno avuto e non hanno un ruolo
autonom05. Vivono all'ombra dei grandi gruppi, delle grandi industrie, da
cui ricevono com,messe e subappalti (il tanto elogiato Giappone, all'avan-
guardia della "modernità", fa ricorso ai subappalti in misura molto mag-
giore dei paesi della CEE e degli Stati Uniti).
In secondo luogo, la retorica sul peso crescente di questi settori,
all'insegna del "piccolo è bello", si è basata su fenomeni parziali e
congiunturali, su generalizzazioni troppo frettolose, e in ogni caso comin-
cia a non essere più di moda. A volte, si esagera addirittura in senso
inverso, per esempio, quando si parla di "scomparsa delle classi medie"
negli Stati Uniti, mentre il fenomeno reale che si è delineato in questo
paese nell'era reaganiana è stato una differenziazione della cosiddetta
-
Livio Maitan 39

classe media, in minima parte entrata a far parte dei settori con redditi più
alti, per lo più, invece, precipitata verso il basso.
Fenomeni analoghi si sono verificati nei paesi industrializzati a livello
di classi medie rurali, nonostante le misure protetti ve adottate, per ragioni
elettoralistiche, soprattutto da certi governi della CEE. Si assiste a un' ine-
vitabile, ulteriore differenziazione. Da un lato, l'estendersi dell' agricoltu-
ra industrializzata, anche nei paesi sottosviluppati, comporta una crescita
del lavoro salariato (il che non significa necessariamente aumento assoluto
degli addetti, dati gli sviluppi tecnologici), dall'altro, gli strati medi più
forti si inseriscono in questo processo raggiungendo una condizione
sociale sempre più vicina a quella della borghesia (pur senza una completa
identificazione).
Venendo agli strati della società quantitativamente di gran lunga pre-
valenti, l'evoluzione degli ultimi decenni, che non sembra destinata a
mutare a breve o a medio termine, è stata caratterizzata soprattutto da due
fenomeni:
-l'accrescersi del numero dei lavoratori salariati o dipendenti;
- l'accrescersi, in gran parte del mondo, del numero di coloro che sono
espulsi del tutto o in larga misura dai processi produttivi, non hanno nessun
lavoro o svolgono lavori saltuari e precari, spesso ai margini della legge.
Il primo fenomeno, è bene ribadirlo esplicitamente, riguarda gli stessi
paesi capitalisti industrializzati. Con il protrarsi dell' onda lunga di rista-
gno e in seguito alle innovazioni tecnologiche, si è registrata una contra-
zione del numero degli operai industriali, specialmente della grande
industria6. Ma non si ripeterà mai abbastanza che i tratti essenziali di una
società capitalistica consistono, secondo la concezione marxiana, nella
generalizzazione della produzione di merci e nella predominanza del
lavoro salariato, cioè di coloro che devono vendere la loro forza lavoro
per procurarsi i mezzi di sussistenza. Ora, della mercificazione universale,
non solo della produzione ma di tutti gli aspetti della vita, nelle forme più
rivoltanti, siamo testimoni tutti i giorni, letteralmente da quando ci sve-
gliamo sino a quando ci corichiamo. Quanto al lavoro salariato, abbiamo
già accennato alla trasformazione, in linea di diritto o di fatto, in lavoratori
dipendenti di settori di piccola borghesia rurale e, aggiungiamo ora, di
piccola borghesia urbana (basti pensare, per esempio, alle trasformazioni
del commercio in seguito al diffondersi delle grandi reti di distribuzione).
Inoltre, anche altri settori del terziario o dei servizi, hanno subito un
40 Anticapitalismo e comunismo

processo di industrializzazione con l'introduzione di metodi di organiz~a-


zione e gestione di tipo industriale e persino molti tra i cosiddetti liberi
professionisti sono diventati, in sostanza, dipendenti di grandi società o di
collettività, pur continuando a realizzare anche redditi autonomi?
Va precisato che in una serie di paesi sottosviluppati, quelli ovviamente
che hanno conosciuto processi sia pur parziali e deformati di industrializ-
zazione, sono aumentati gli operai industriali, cioè i salariati più classici.
Questa tendenza continuerà a manifestarsi - e a estendersi, in determinati
contesti, a paesi ex-"socialisti" - nella misura in cui le multinazionali
cercano di ridurre i costi agendo sempre più sistematicamente su diversi
scacchieri mondiali e le moderne tecnologie permettono trasferimenti di
attività con una rapidità sconosciuta sino a pochi anni fa.
In conclusione, soprattutto se si valuta su scala mondiale - e1' approccio
mondiale è legittimo data l'internazionalizzazione dell' economia - il
fenomeno di fondo è costituito dall' aumento, e non dalla diminuzione, dei
-
lavoratori salariati e dall'aumento o il mantenimentoa livelli comunque
più elevati di quelli non solo degli anni '20 e '30, ma anche dei primi
decenni dopo la seconda guerra mondiale - della stessa classe operaia
industriale.
Quanto al secondo fenomeno, l'aumento della popolazione cosiddetta
marginale, nei paesi sottosviluppati si è verificata una crescita per ora
inarrestabile di strati sociali compositi, per cui la definizione più adeguata
è quella di masse plebee, anche per l' assonanza con fenomeni storicamen-
te 'remoti di emarginazione e 'di esistenza parassitaria. Proprio queste
masse rappresentano -grande parte di quella popolazione al di sotto dei
livelli "ufficiali" di povertà, cioè a una esistenza subumana, che - nessuna
persona cosciente dovrebbe dimenticarlo neppure per un minuto - costi-
tuisce la grande maggioranza degli abitanti del pianeta (e che, aggiungia-
mo, è sin d'ora la vittima designata delle deva stazioni ambientali,
imminenti o a lungo termine).
La novità dell'ultimo decennio è che questi strati emarginati sono
aumentati e continuano ad aumentare anche "nella società del benessere"
dei paesi industrializzati. Esiste ormai una massa considerevole di disoc-
cupati, che non si è ridotta in misura apprezzabile neppure in fasi di ripresa
congiunturale, con il corollario che un numero crescente di persone non
si è mai inserito in normali processi produttivi (è ovvio che si tratta
soprattutto di giovani). La portata di questo fenomeno dal punto di vista
Livio Maitan 41

dei livelli di vita è stata per ora contenuta, grazie all'esistenza di più redditi
nello stesso nucleo familiare e di riserve, sia pur modeste, accumulate
dalle generazioni precedenti. Ma non c'è bisogno di grandi inchieste
sociologiche per capire che questi contrappesi tenderanno inevitabilmente
ad agire sempre meno, se non a scomparire, salvo che si verifichi una
radicale inversione di tendenza (ipotesi che, per il momento, nessuno si
sente di avanzare).

Tendenze in Italia

Venendo al caso dell'Italia, alla vigilia della recessione del 1974-75


era possibile constatare:
- un ulteriore sviluppo della concentrazione del capitale nelle sue
diverse forme;
- un aumento del peso specifico sociale e polit.ico della classe operaia
(il proletariato, nell'accezione che abbiamo precisato, rappresentando la
netta maggioranza della popolazione attiva);
- un' espansione delle classi medie nuove e di nuovi strati di proletariato
a spese delle classi medie tradizionali.
Via via che la recessione si precisava, si delineavano abbastanza
chiaramente le tendenze più probabili (nell'eventualità che non mutasse
radicalmente il quadro politico). Si sarebbe ristretto il quadro del processo
di accumulazione con un incremento delle forze di lavoro espulse o
emarginate, con una contrazione quantitativa della classe operaia, una
progressiva erosione dei suoi livelli di vita e una sua crescente differen-
ziazione interna. Non sarebbe aumentato il peso specifico delle classi
medie, nella}:IlÌsura in cui alcuni strati più tradizionali si sarebbero ancora
assottigliati mentre una ulteriore espansione dei nuovi strati sarebbe stata
ostacolata dal contrarsi della produzione in generale8.
A oltre quindici anni di distanza il bilancio non dà adito a dubbi: in
linea di massima, sono proprio queste le tendenze che si sono concretiz-
zate.
Quando saranno noti i dati completi dell'ultimo censimento - di cui
mentre scriviamo non conosciamo che qualche sommaria anticipazione -,
si potranno fare analisi più sistematiche9. Per il momento, possiamo
affermare, in primo luogo, che, per quanto riguarda le classi dominanti,
42 Anticapitalismo e comunismo

valgono considerazioni analoghe a quelle accennate in generale a propo-


sito dei paesi industrializzati. Sono continuati i processi di concentrazione,
mentre hanno assunto un ruolo più rilevante gruppi industriali nuovi o
relativamente nuovi (il che fa parte, del resto, della normale fisiologia di
una società capitalista). Si sono accresciute, specie in certi momenti, le
atti vità finanziarie e speculative, ma, come è noto, è difficile stabilire nette
distinzioni per la semplice ragione che non di rado le stesse persone e gli
stessi gruppi sono impegnati contemporaneamente sui vari fronti. Quanto
alla tecnocrazia e alta burocrazia statale, se ha perduto prestigio nell'era
di esaltazione del privato e, più concretamente, a causa degli insuccessi
del settore che gestisce, non si è, tuttavia, contratta. Staremo a vedere se
questo si verificherà nell'ipotesi che si realizzino i conclamati progetti di
privatizzazione (un sano scetticismo in merito ci sembra del tutto giusti-
ficato). Non c'è dubbio, invece, che è ancora diminuito il peso dei
proprietari di terre e della borghesia agraria.
Per quanto riguarda le classi medie, è continuata l'erosione degli strati
più tradizionali, non compensata da un allargamento degli strati nuovi,
che in realtà non si è verificato. Il fenomeno più rilevante è stato,
comunque, anche in Italia il consolidarsi, se non l'accrescersi, della
assoluta preponderanza del lavoro salariato o dipendente, che include, tra
l'altro, non dimentichiamolo, gran parte degli addetti alle attività terzi a-
rielO.
Infine, gli elementi di maggiore novità sono consistiti in un ristagno o
in un restringimento dei salariati industriali, specialmente della grande
industria, che tuttavia non corrisponde a una perdita sostanziale di peso
specifico dell'industria e soprattutto dei suoi settori decisivi; in una
diversa distribuzione del lavoro salariato (con un incremento netto, per
esempio, nelle grandi reti commerciali); nell'aumento e nella permanenza
a livelli elevati della disoccupazione, in particolare di quella giovanile; in
un aumento dell' occupazone precaria e della popolazione "marginale"
urbana.
Quanto alle differenziazioni interne della classe operaia, si sono effet-
tivamente accresciute e la scelta deliberata del padronato è di accentuarle
ulteriormente. Ma si tratta di un problema, che ha una portata ancor più
politica che sociale e su cui ritorneremo in un capitolo successivo.
Livio Maitan 43

È possibile un rilancio globale del capitalismo?

All'ultima delle domande che ci siamo posti all'inizio, cioè quella


sulla possibilità di un rilancio di ampio respiro del capitalismo, nell'am-
bito inevitabilmente limitato di questo saggio, cercheremo di rispondere
articolandola in tre domande più specifiche:
l) È possibile una ripresa economica non puramente congiunturale dei
paesi capitalisti industrializzati (CEE, America del Nord e Giappone)?
2) È possibile una inversione di tendenza nei paesi sottosviluppati?
3) È possibile a breve o a medio termine il ricupero dell'Europa
centro-orientale ed ex-URSS, o addirittura della Cina, al mercato mondia-
le capitalista o, detto altrimenti, sono realizzabili i progetti di restaurazione
capitalista?
Vada sé che la risposta non è affatto semplice. Ma esistono una serie
di elementi per tentarla.
In primo luogo, nell'analisi delle tendenze economiche, bisogna avere
presente una importante distinzione: quella tra l'andamento congiunturale
a breve e medio termine e l'andamento ciclico di più ampio respiro. In
questo senso, la categoria delle onde lunghe, di cui si sono serviti da lunga
data economisti marxisti e non marxisti, resta valida.
Per limitarsi agli ultimi settant'anni, un'onda lunga, di cui la grande
depressione del 1929-32 ha costituito il momento più drammatico, si è
prodotta tra le due guerre mondiali, con un alternarsi di fasi congiunturali,
ma sullo sfondo di un ristagno complessivo. Una seconda fase è iniziata
alla fine degli anni '40 o all'inizio degli anni '50 (a seconda dei paesi e
delle aree geografiche): è stata un'onda lunga di espansione sintetizzata
dal boom prolungato di circa un ventennio, al di là, anche in questo caso,
delle variazioni congiunturali. Una terza fase, una nuova onda lunga di
ristagno, si è aperta con la più grave recessione dopo gli anni '30, quella
del 1974-75. Da questa fase, nonostante riprese congiunturali, alcune
anche di durata relativamente lunga, in questa prima parte degli anni '90
l'economia capitalista internazionale non è ancora uscita.
Da un punto di vista più congiunturale, la situazione attuale è, tutto
sommato, chiara: l'economia capitalista è stata investita su scala mondiale
da una recessione che, stando agli elementi a disposizione, è paragonabile
a quella del 1981-82, se non addirittura di maggiore gravità. Meno chiaro
è quali saranno le scadenze e la portata della ripresa di cui non esistono,
44 Anticapitalismo e comunismo

mentre scriviamo, çhe alcuni timidi preannunci e non necessariamente in


tutti i paesi più importanti. Comunque sia, non pochi economisti propen-
dono per la tesi secondo cui si tratterà di una ripresa limitata e circoscritta
nel tempo, che, quel che è più importante, consentirà solo molto parzial-
mente un riassorbimento delle conseguenze negative della recessione. In
particolare, quasi nessuno si azzarda a prospettare una riduzione dell' or-
mai cronico fenomeno di una disoccupazione ufficialmente attorno alI 0%
della popolazione attiva e in realtà ancora più elevata.
Al di là delle vicende congiunturali, il battage propagandistico sul
fallimento del "comunismo" serve sempre meno a mascherare la situazio-
ne delle maggiori potenze imperialistiche. La stessa Germania conosce
difficoltà crescenti, congiunturali e strutturali, incontra ostacoli molto più
seri del previsto nell' operazione di assimilazione capitalistica dell' ex-Re-
pubblica democratica ed è entrata in una fase di squilibri e di conflitti quali
non aveva conosciuto da quasi quarant'anni a questa parte. Ma è soprat-
tutto sulla situazione degli Stati Uniti e sulle tendenze che si sono venute
delineando in Giappone che vogliamo brevemente soffermarcÌ.
Come ormai devono riconoscere, magari a denti stretti, molti di coloro
che avevano ceduto alle sirene dell'apologia (a volte nelle stesse file della
sinistra), l'era reaganiana non ha fatto che aggravare il declino della
società nordamericana già iniziatosi negli anni '70 e forse non ha tutti i
torti chi dice che anche gli Stati Uniti hanno pagato a caro prezzo la guerra
freddall. In sintesi, hanno subito un declino della loro economia, partico-
larmente accentuato in settori industriali decisivi; hanno perduto terreno
rispetto ai maggiori concorrenti nel commercio internazionale; hanno
accumulato un debito estero interno ed estero colossale12; hanno dovuto
ricorrere su larga scala all'intervento del capitale straniero e all'alienazio-
ne di beni nazionali; stanno pagando duramente le gravi conseguenze della
insolvenza delle casse di risparmio; sono minacciati da una crisi bancaria
di dimensioni imprevedibili. Il sistema scolastico e quello sanitario sono
in condizioni letteralmente disastrose per la maggioranza della popolazio-
ne, che non può ricorrere alle cliniche private e accedere alle Università
riservate a ristrette élites (frequentate spesso da rampolli della nostra
classe dominante). E non parliamo delle cosiddette infrastrutture (strade,
ponti, canalizzazioni, strutture urbane, ecc.), che sono in larga misura
obsolete, se non decrepite, e che hanno provocato anche di recente vere e
proprie catastrofi (per esempio, al centro ~tesso di una città "moderna"
Livio Maitan 45

come Chicago). La stessa guerra del Golfo, la manifestazione più clamo-


rosa della supremazia militare dell'imperialismo americ~o, è stata pos-
sibile senza un ulteriore aggravarsi dell'indebitamento in quanto è stata
pagata quasi interamente dagli alleati europei, asiatici e mediorientali.
Sulle conseguenze sociali di tutto questo esistono ormai fonti innume-
revoli di documentazione 13.I fenomeni più vistosi sono assolutamente
incontestabili: accentuarsi costante di una polarizzazione sociale per cui
gli strati più ricchi sono divenuti più ricchi e i più poveri si sono ulterior-
mente impoveriti; aumento della già elevata percentuale della popolazio-
ne, tra cui un quinto dei bambini, al di sotto del livello anche ufficiale di
povertà; circa un terzo dei 100 milioni di lavoratori occupati dell' era
reaganiana ai limiti della povertà; impoverimento della maggioranza delle
famiglie tra il 1977 e il 1991; declassamento di larghi strati di classe
operaia14; riduzione dei livelli di vita di ampi settori di classe media;
contrazione dei già limitati benefici sociali (assicurazioni malattie, pen-
sioni, indennità di licenziamento, sovvenzioni sociali varie ecc.). Neppure
le fonti più apologetiche osano prevedere una inversione di tendenza a
scadenze prevedibili, mentre qualcuno ha immaginato addirittura scenari
futuri di conflitti generalizzati ai limiti della guerra civile15. Che non si
trattasse di pure fantasie, lo hanno confermato in modo clamoroso le
esplosioni di fine aprile di quest'anno a Los Angeles e in altre metropoli
nordamericane. Dopo questi avvenimenti gli stessi apologeti del capitali-
smo avranno difficoltà a contestare i dati analitici che abbiamo somma-
riamente richiamato.
La situazione del Giappone è indubbiamente diversa da quella degli
Stati Uniti. Ma è un po' paradossale che proprio quando l'imperativo di
imparare dal Giappone era divenuto un luogo comune negli Stati Uniti e
in Europa occidentale, il "modello" cominciasse a scricchiolare nella
madrepatria. Sta di fatto che, dopo un'espansione di 59 mesi, anche in
Giappone si è delineata una dinamica recessiva e si sono prodotti o
accentuati fenomeni che hanno appesantito un clima politico già teso in
seguito a una ondata di scandali che aveva coinvolto ampi settori dei
gruppi dirigenti e in particolare il partito di maggioranza. Basti pensare
alla crisi della borsa, alla minore disponibilità di capitali che ha suggerito
di ridurrre, se non di sopprimere, investimenti e acquisti di proprietà
all'estero, alle capacità produttive sottoutilizzate e al deteriorarsi della
situazione di alcune delle maggiori società, come la Sony, la Matsushita,
46 Anticapitalismo e comunismo

la Toyota e la Nissan, che hanno registrato i bilanci peggiori degli ultimi


dodici anni e che devono far fronte per di più a un pesante indebitamentol6.
I segni annunciatori di difficoltà e il sopraggiungere della difficoltà
hanno suggerito progetti di mutamenti di rotta rispetto agli orientamenti
di fondo del passato. Il paradosso cui abbiamo alluso all'inizio è apparso
come rovesciato: tra i giapponesi cominciava a farsi strada l'idea di
misure da Stato sociale proprio mentre in Europa padroni e governi
facevano del loro meglio per seppellirlo! Era lo stesso presidente della
Sony, Akio Morita, a dichiarare che "il Giappone dovrebbe sviluppare
alcune caratteristiche delle economie dell'Europa e degli Stati Uniti e che,
invece di accumulare la ricchezza nelle mani delle compagnie, dovrebbe
trasferirle nelle mani degli operai e dei consumatori sotto forma di un
prolungamento delle ferie, di migliori salari, di un abbreviamento della
vita lavorativa, di un miglior ambiente e di una migliore qualità della vita,
in particolare per quanto riguarda le abitazioni" ("Financial Times", 15-16
febbraio 1992)17.Quale migliore prova della contraddittorietà delle situa-
zioni e della precarietà delle scelte negli stessi paesi capitalisti industria-
lizzati? Disgraziatamente per Morita, non sarà così facile tradurre in
pratica la svolta che prospetta in un contesto di crescenti difficoltà e di un
acutizzarsi della concorrenza internazionale. Lo dimostra la dichiarazione
di un altro manager giapponese, che ha spiegato per parte sua che "molte
compagnie hanno adottato metodi benevolmente paternalisti nei momenti
favorevoli, ma ora c'è bisogno di un'impostazione più tirannica" ("Busi-
ness Week", 27 aprile 1992).
Questo quadro dei paesi capitalisti più potenti fornisce già elementi di
risposta alla domanda se è possibile che a scadenze prevedi bili si esaurisca
l'onda lunga di ristagno e si delinei una nuova onda lunga di espansione.
Più in generale si può dire che nessuno dei fattori che sono stati all' origine
di altre onde lunghe di espansione sembrano delinearsi per il momento.
Soprattutto, non si delineano fattori trainanti decisivi che possano avere
la stessa funzione che hanno avuto i beni di consumo durevoli nel boom
del dopoguerra nell'Europa occidentale, in cui peraltro la dinamica ascen-
dente è stata stimolata e sostenuta dalle esigenze della ricostruzione dalle
rovine della guerra. Né sembra probabile un ampliamento degli sbocchi
nel Terzo mondo analogo a quello seguito all'istaurazione dei regimi
neocoloniali. Settori nuovi e dinamici potranno emergere e svilupparsi,
ma, almeno per ora, non se ne intravedono di tali da poter alimentare
livio Maitan 47

un'accumulazione allargata in un'ascesa di ampio respiro. I casi dell'in-


formatica e dell'elettronica sono in proposito eloquenti. Soprattutto all'i-
nizio degli anni '80 alcuni avevano pensato che proprio questo settore
avrebbe potuto prendere il posto di quello dei beni di consumo durevoli
come fattore propulsivo di una nuova onda di espansione. Non pretendia-
mo di fare pronostici, tanto più che non siamo specialisti in materia:
possiamo, tuttavia, constatare che questa ipotesi non si è verificata e, data
la natura del settore stesso e le difficoltà che incontra già da qualche tempo,
non sembra che la situazione possa mutare radicalmente nel futuro.
Passiamo a questo punto al secondo interrogativo, sui paesi sottosvi-
luppati. Dal punto di vista del capitale internazionale, la possibilità di
nuovi spazi appare alquanto problematica, salvo casi eccezionali che
dovrebbero essere peraltro analizzati più da vicino: la posta in giuoco
rischia di essere soprattutto una spietata lotta tra forze imperialiste e
neocolonialiste per strapparsi reciprocamente gli spazi già esistenti. Quan-
to alla dinamica interna dei paesi sottosviluppati, dati forniti di recente
dalle Nazioni Unite hanno messo in risalto ancora una volta la spaventosa
spirale regressiva in cui sono imprigionati senza troppe speranze di cam-
biamentolS. In realtà, nel contesto dato, cioè senza mutamenti rivoluzio-
nari e su vasta scala, non si vede come ci possa essere una inversione di
tendenza. L'ipotesi più fondata resta che sia per il fardello del debito, sia
per tutte le altre ragioni note, i paesi sottosviluppati continueranno a
pagare un duro prezzo all'accresciuta concorrenza tra i paesi industrializ-
zati, le multinazionali e le diverse aree di influenza imperialista. I vantaggi
che certi paesi potranno eventualmente ottenere, per esempio, grazie ai
trasferimenti di attività cui abbiamo già accennato, saranno del tutto
precari e limitati (c'è appena bisogno di aggiungere che a beneficiarne non
saranno, comunque, le grandi masse, ma ristrette élites locali). Aggiun-
giamo che gli stessi paesi che hanno registrato processi di industrializza-
zione e una crescita relativa negli ultimi due decenni, per esempio, la
Corea del Sud e Taiwan, raggiungeranno a un determinato momento il
tetto dello sviluppo nel quadro socio-economico esistente e cominceranno
essi pure a pagare il prezzo dell' accentuarsi della concorrenza e ad entrare
a loro volta in una fase di ristagno. Più in generale, questi paesi saranno
investiti dal combinarsi di due tipi di contraddizioni: quelle che derivano
dalla loro condizione di paesi arretrati o inegualmente sviluppati e quelle
che derivano dalla relativa modernizzazione che hanno realizzato.
48 Anticapitalismo e comunismo

In conclusione, non solo ci sembra di poter escludere nei paesi sotto-


sviluppati un'inversione di tendenza, ma è anche assai improbabile che in
questa o quella regione ci siano nuovi processi di parziale industrializza-
zione e modernizzazione paragonabili a quelli che hanno conosciuto negli
anni '30 e negli anni '50 e '60 alcuni paesi latinoamericani e negli anni
'70 e '80 alcuni paesi asiatici.
Infine, quali sono le prospettive di restaurazione del capitalismo nel-
l'Europa centro-orientale e nell'ex Unione Sovietica?
A questo propo~ito è ancora più arduo azzardare previsioni, perché ci
troviamo di fronte a una situazione storica senza precedenti e non ci può
essere di aiuto nessuna analogia, sia pure relativa. A parte il fatto che lo
sbocco non sarà necessariamente lo stesso per tutti questi paesi e che, per
esempio, il caso della Russia è per molti aspetti ben diverso da quello
dell 'Ungheria, da un lato, e di una repubblica asiatica, dall' altro, si
possono avanzare due ipotesi limite.
La prima è quella di un fallimento dell'operazione di restaurazione.
Ciò avrebbe naturalmente ripercussioni di incalcolabile gravità per il
capitalismo internazionale e lo sbocco sarepbe o un riconsolidamento -
-
poco probabile - di un regime burocratico autoritario o più verosimil-
mente - una decomposizione socio-economica generalizzata e prolungata
con conseguenze potenzialmente esplosive per gli equilibri mondiali.
La seconda è quella di un parziale successo da un punto di vista
capitalista. In questo caso si creerebbe una situazione di sviluppo capita-
listico in certe aree, sotto l'egemonia delle multinazionali o del capitale
straniero più in generale, con settori più o meno consistenti di capitale
nazionale. Emergerebbe un tipo di società e di situazioni molto più simile
a quello di certi paesi classicamente sottosviluppati che a quello dei paesi
capitalisti industrializzati. Nonostante gli inevitabili squilibri e contraddi-
zioni, questo potrebbe effettivamente dare un nuovo respiro al capitalismo
internazionale, specie se potesse realizzare contemporaneamente una ana-
loga penetrazione in Cina19.
Per parte nostra, consideriamo questa seconda ipotesi ben poco proba-
bile. n tratto più caratteristico della fase attuale ci sembra un' estrema
precarietà e transitorietà a tutti i livelli, con tendenza alla frammentazione e
al moltiplicarsi di forze centrifughe. n cammino verso una restaurazione
capitalistica sarà in ogni caso un processo lungo, conflittuale e contraddit-
torio. Tenendo conto della intrinseca debolezza degli attori sociali e politici
-----

Livio Maitan 49

autoctoni e delle difficoltà delle grandi potenze capitalistiche e delle loro


esitazioni a impegnarsi in un'impresa dagli sviluppi difficilmente prevedi-
bili, non è probabile una "riconquista" globale a breve e a medio termine
della Russia o della cosiddetta Comunità degli Stati indipendenti (ammesso
che sopravviva). Propendiamo per una variante storicamente originale, cioè
il coesistere di modi di produzione e di meccanismi economici diversi con
una divisione di fatto in zone d'influenza regionali e settoriali. Tensioni,
divaricazioni, laceranti diseguaglianze nello sviluppo saranno inevitabili
con non meno inevitabili conseguenze sociali e politiche2o.
La conclusione è che, lungi dal poter rilanciarsi trionfalmente nella
parte del mondo che era sfuggita al suo controllo e acquisire una rinnovata
legittimità storica, il capitalismo si scontrerà ancora una volta con le
contraddizioni intrinseche che ne hanno segnato il cammino e che appa-
riranno sempre più insormontabili nell'ora del declino. Si scontrerà con-
temporaneamente con la logica di società che non erano più capitaliste e
con certe acquisizioni che lo stalinismo e post-stalinismo non avevano
completamente distrutto o svuotato di contenuto. Il tripudio del "libero
mercato" e della "civiltà democratica occidentale" rischierà di trasformar-
si, quali che siano le scadenze, in un boomerang fatale.

Note

I A questo proposito ci permettiamo di rimandare al capitolo "Erano possibili


altre alternative?" del nostro libro Al termine di una lunga marcia: dal PC] al PDS,
Erre Emme, Roma, 1990.
2 Cfr., per esempio, l'ultimo capitolo del già citato Al termine di una lunga
marcia: dal PC] al PDS.
3 Disastri ambientali non meno gravi sono stati provocati nelle società di
transizione burocratizzate a causa dei meccanismi alienanti specifici di queste
ultime, che non possiamo analizzare in questa sede. Comunque, l'elemento nega-
tivo determinante è stato l'assenza di una qualsiasi forma di gestione democratica
della società.
4 Un caso da manuale è quello della GeneraI Motors, ai cui vertici è scoppiato
un conflitto estremamente acuto, che si è concluso con la vittoria degli azionisti e
dei "direttori non esecutivi", cioè gli uomini di fiducia degli aZionisti stessi, e la
sconfitta dei manager. Per una sintesi efficace della vicenda, cfr. "Financial
Times", 13 aprile 1992.
5 D'altra parte, le medie e piccole industrie più dinamiche sono spesso ad alta
50 Anticapitalismo e comunismo

intensità di capitale e usano tecnologie di punta. I loro proprietari o i loro azionisti


sono inseriti assai più nella borghesia che nelle classi medie.
6 I criteri di definizione di una grande industria sono spesso poco rigorosi, se
non arbitrari. È ovvio, per esempio, che un'industria non diventa media o piccola
per il fatto di passare da 10.000 a 2-3.000 dipendenti.
7 Si è discusso qualche anno fa sulle riorganizzazioni del lavoro basate sull'uso
del computer a domicilio. Nella maggior parte dei casi, si tratta di una forma di
dipendenza salariale appena camuffata, di una sorta di lavoro a cottimo. D'altra
parte, esiste pure una vera e propria organizzazione industriale dello stesso tipo di
lavoro. Un esempio sconvolgente è stato illustrato da un ottimo reportage sulle
Filippine di un canale televisivo francese. Molte centinaia di giovani donne
lavoravano nello stesso salone con un ordine implacabile, battendo la tastiera del
loro computer senza interruzione e a ritmi impressionanti. Quelle che non com-
mettevanonessun errore - e il margine di errore ammesso era estremamente esiguo
- ricevevano un premio in natura. Ecco come un lavoro ultramoderno si rivela non
meno alienante e non meno atroce del lavoro in una fabbrica del secolo scorso.
8 Cfr. a questo proposito il nostro libro Dinamica delle classi sociali in Italia,
Samonà e Savelli, Roma 1975.
9Secondo la relazione generale sulla situazione economica 1991, si è verificato,
rispetto al 1990, un aumento dello 0,4% dei lavoratori dipendenti. D'altra parte, il
sociologo Luciano Gallino ha detto di recente: "La quota di lavoratori manuali in
Italia è pressocché analoga a quella del 1951: cinque milioni di persone" ("l'Unità",
8 giugno 1992).
lORicordiamo che settori di produzione che vengono classificati correntemente
nel terziario, sono in realtà settori industriali o comunque direttamente legati
all'industria.
Il Questa tesi è apparsa di frequente sulla stampa americana negli ultimi mesi.
Per esempio, uno scrittore che aveva fatto parte dello staff presidenziale di Johnson
e di Nixon ha scritto su "International Herald Tribune": "Economicamente la
sconfitta sovietica è completa. Ma la guerra fredda ha divorato la produttività, il
reddito reale e la competitività della stessa America, lasciando un gap maligno tra
ricchi e poveri e condizioni sociali vergognose e pericolose" (6 febbraio 1992).
12Il noto fenomeno italiano di un deficit statale alimentato dal pagamento degli
interessi di buoni del tesoro non è meno grave negli Stati Uniti. Dati recenti
sull'enorme deficit federale sono comparsi in un articolo del "New York Times"
(25 aprile 1992).
13Articoli significativi sulla situazione interna sono comparsi di frequente nel
corso dell'ultimo anno sulla stampa degli Stati Uniti, dal "New York Times" al
"Washington Post", oltre che nell'edizione europea di "International Herald Tri-
bune", per non parlare di pubblicazioni periodiche liberals o della sinistra marxista
(per esempio, "Against the Current"). Tra i libri più significativi comparsi negli
ultimi cinque anni, ce ne sono di autori degli indirizzi più disparati. Ricordiamo,
per esempio, quello di un collaboratore di Nixon, Kevin Phillips, The Politics 01
Livio Maitan 51

Rich and Poor (Harper Perennial, New York, 1991) e per quanto riguarda la sinistra
Mike Dave, The Prisoners of the American Dream (Verso, London-New York,
1986) e Kim Moody, An lnjury to all: the decline of American Unionism (Verso,
1988). Per i problemi delle riorganizzazioni del lavoro è di notevole interesse Mike
Parker e lane Slaughter, Choosing Side: Unions and the Team Concept (Labor
Notes Book, Boston, 1988).
14Sulle differenziazioni in seno alla classe operaia a pàrtire dagli anni '70, cfr.
il citato libro di Mile Dave, p. 278..
15Cfr. Phillips, op. cito p. 154.
16PeriI caso della Nissan, cfr. "International Herald Tribune" (21 aprile 1992).
17Cfr. anche "Corriere della sera" (19 febbraio 1992). Lo stesso giornale, in
un articolo del 25 marzo, ha fatto allusione a progettati mutamenti per quanto
riguarda la definizione dei modelli di vetture che sin qui erano considerati come
uno dei punti di forza dei giapponesi. Per quanto riguarda problemi dell' economia
e dell' organizzazione del lavoro in Giappone segnaliamo un interessante libro di
Benjamin Coriat, Penser à ['envers: travail et organisation du travail dans
['entreprise japonaise, Paris, 1991 e il saggio di Muto Ichiyo, Lutte de classe et
innovation technologique au Japon depuis 1945, pubblicato nel 1990 dall'Istituto
internazionale di ricerche e di formazione di Amsterdam.
18Basti qui ricordare che mentre nel 1960 il 20% più ripco della popolazione
mondiale disponeva di un reddito 30 volte superiore a quello del 20% più povero,
trent'anni dopo il distacco era raddoppiato. Se si confronta il miliardo più povero
con il miliardo più ricco il rapporto è di 1a 150. Quanto al debito estero, il rimborso
è costato ai paesi indebitati, tra il 1983 e il 1989, 242 miliardi di dollari, mentre le
barriere doganali imposte dai paesi industrializzati sono costate ai paesi poveri 40
miliardi di dollari all'anno. Complessivamente, sempre secondo i calcoli degli
esperti dell'ONU, ogni anno sono stati "negati" ai paesi sottosviluppati 500
miliardi di dollari, cioè dieci volte quanto hanno ricevuto sotto forma di "aiuti".
19In Cina assistiamo attualmente, soprattutto in alcune regioni, a un moltipli-
carsi di società miste e a una penetrazione di capitale internazionale in varie forme,
oltre che a una crescita di imprese private nazionali. n regime politico esistente,
nonostante tutte le aperture, costituisce un ostacolo a uno sviluppo qualitativamen-
te superiore in questa direzione. A un certo momento, conflitti saranno inevitabili.
Nel caso di una crisi del tipo di quella che ha sconvolto l'URSS, tendenze
centrifughe potrebbero operare anche in Cina, se pur non in relazione a questioni
nazionali, e potrebbe, al limite, prodursi una decomposizione del paese, fenomeno
già conosciuto in altre epoche prima della rivoluzione. Una situazione veramente
nuova si delineerebbe qualora il passaggio a un' economia di mercato generalizzata
e una restaurazione capitalistica avvenissero in forma graduale e politicamente
controllata. Ma si tratta di una eventualità del tutto astratta, anche se non esclusa
sul piano puramente teorico.
20Sugli sviluppi e sulle prospettive dell' ex Unione Sovietica, v. il nostro articolo
"Dopo la fine dell 'URSS: quale transizione?" in "Marx centouno", n. 8, marzo 1992.
VGN033S3.LHVd
Livio Maitan 55

Capitolo quarto

DIFFICOLTÀ E CONTRADDIZIONI DELL'IMPRESA


RIFONDATRICE

Le risposte ai tre interrogativi posti all'inizio del capitolo precedente


consentono di trarre la conclusione che i bisogni, le aspirazioni e le
contraddizioni che erano stati all'origine della formazione del movimento
operaio e avevano' costituito il presupposto oggettivo della sua lotta,
sussistono anche dopo l'involuzione degli anni '80 e il terremoto del 1989
e del periodo immediatamente successivo. È partendo da qui che ha un
senso prospettare una rifondazione comunista e, ripetiamolo, una rifonda-
zione del movimento operaio più in generale. Vada sé che l'impresa dovrà
assumere dimensioni internazionali ed è sul piano internazionale che, in
ultima analisi, si deciderà del suo successo o del suo fallimento.
Il nostro saggio si riferisce soprattutto al processo italiano. Non solo
per l'ovvia ragione che possiamo basarci su conoscenze maggiori e più
dirette, ma anche perché l'esperienza italiana è per il momento la più
significativa. Dicendo questo, non crediamo di cedere a una tentazione
sciovinista né a una presunzione di partito. Si tratta di prendere atto di
quello che esiste e che è il risultato non tanto dell'iniziativa di coloro che
si sono impegnati nell'impresa, quanto delle vicende, particolarmente
ricche da tutti i punti di vista, che il movimento operaio ha vissuto
nell'arco dell'ultimo mezzo secolo (per non risalire più lontano). Progetti
e tentativi di rifondazione non sono mancati e non mancano in altri paesi,
dalla Francia alla Spagna, dalla Grecia al Portogallo e, mutatis mutandis,
56 Anticapitalismo e comunismo

nella stessa Germania riunificata. Ma per ora la tendenza prevalente, anche


se non esclusiva, è sembrata un'evoluzione verso partiti socialisti o
socialdemocratici, con rotture, per così dire, sulla destra dei partiti comu-
nisti, e comunque di portata non paragonabile alla rottura di Rimini del
febbraio 1991.
L'esistenza di condizioni oggettive su cui basare non utopisticamente
o velleitariamente una rifondazione comunista non costituisce di per sé
una garanzia di riuscita dell' operazione. È una considerazione che può
apparire banale, ma non è inutile fari a perché questa elementare verità
deve costituire uno stimolo all'azione, all'azione organizzata, conditio
sine qua non di un'inversione di tendenza e di un successo a medio e a
lungo termine.
Un'altra cosa ovvia è che dobbiamo essere coscienti delle enormi
difficoltà che ci troveremo di fronte, senza lasciarci abbacinare dai suc-
cessi parzialmente conseguiti. Ma non si tratta genericamente di difficoltà.
Dobbiamo fare i conti con vere e proprie contraddizioni o antinomie che
non esistono solo nelle nostre teste, ma prima ancora nella realtà.
Queste antinomie hanno al tempo stesso radici antiche e origini più
recenti e, in generale, si presentano oggi in forme più dirette e, storica-
mente parlando, più urgenti che in qualsiasi altro momento della vicenda
secolare del movimento operaio. Per cominciare, passiamole rapidamente
in rassegna, prima di affrontare la problematica che ne deriva nei capitoli
successivi.
Esiste innanzi tutto una contraddizione tra la crescente interdipendenza
o, più precisamente, internazionalizzazione dell'economia e, in ultima
analisi, delle dinamiche socio-politiche, da un lato, e, dall'altro, l'esplo-
dere di forze centrifughe molteplici e, per quanto riguarda il movimento
operaio, una frammentazione estrema c.on l'assenza di ogni punto di
riferimento unificatore o anch~ solo coordinatore sul piano internazionale.
Una seconda contraddizione è quella tra la necessità di superare il
"modello" capitalistico di regolazione dell' economia a posteriori, tramite
il mercato, con tutte le sue conseguenze devastatrici, e di istituire una
regolazione ex ante, cioè una programmazione cosciente e attiva, da una
parte, e, dall'altra, le tendenze attualmente prevalenti all'enfatizzazione
del decentramento, delle autonomie locali e aziendali, alla negazione del
ruolo dello Stato o di istituzioni politiche centrali, con la proclamazione
del valore universale delle "leggi del mercato".
livio Maitan 57

In terzo luogo, c'è contraddizione tra le conclusioni unilaterali e


impressionistiche che si traggono, nella maggior parte dei casi, dai bilanci
di fallimento delle società di transizione burocratizzate e degli stessi partiti
operai dei paesi capitalisti e che portano a una accettazione, per convin-
zione o per malinteso "realismo", del quadro della società esistente come
l'unico possibile, almeno per un periodo di tempo indefinito, e la necessità
di prospettare un'alternativa globale, di strategia anticapitalista.e di rilan-
do delle lotte, per costruire o ricostruire movimenti e organizzazioni.
In quarto luogo, esiste la contraddizione tra la frammentazione e
scomposizione subite dal proletariato con le conseguenti trasformazioni,
già avvenute o potenziali, nel suo tessuto. e con il suo indebolimento
strutturale, per temporaneo che possa essere, e l'esigenza di una ricompo-
sizione, riunificazione e ricentralizzazione per far fronte alle offensive
avversarie in corso e a maggior ragione per rilanciare un'offensiva con
obiettivi strategicamente alternativi.
Sul piano più strettamente politico, c'è una almeno parziale contraddi-
zione tra la necessità di opporsi ai disegni di "democrazia autoritaria"
difendendo i diritti democratici acquisiti, siano o no iscritti nella Costitu-
zione, e il rischio di arroccarsi su una posizione essenzialmente difensiva,
apparendo come dei conservatori dello status quo nel momento in cui
cresce negli sirati più larghi della popolazione il rigetto del regime esi-
stente.
Sul piano più specificamente culturale esiste poi una contraddizione
tra l'esigenza di affermare un rinnovamento culturale, per così dire,
rifondativo e l'ondata conservatrice e reazionaria che ha investito la
cultura e gran parte dei suoi protagonisti, provocando rigurgiti delle
peggiori tradizioni e dei più logori "valori" del passato.
Da un punto di vista più soggettivo, la contraddizione più difficile da
superare è quella tra l'esigenza di ul)a rottura di continuità con la mobili-
tazione di forze giovani, che non abbiano subito l'usura delle generazioni
precedenti e siano in grado di porsi sulla stessa lunghezza d'onda delle
generazioni nuove, e la necessità di utilizzare in questa fase forze "vec-
chie", che, al di là delle intenzioni soggettive, sono segnate e condizionate
da esperienze, impostazioni e cariche emotive del passato. È una semplice
contastazione che lo iato è ancora più grande a livello di quadri e di
dirigenti.
Infine, esiste una contraddizione tra il peso inerziale di una tradizione
58 Anticapitalismo e comunismo

di patemalismo burocratico e conservatore, caratteristica comune di tanta


parte del movimento operaio dalle sue stesse origini, e 1'esigenza di
inaugurare e sviluppare una reale democrazia operaia, tradotta in forme di
partecipazione dirette e permanenti, che è una delle condizioni essenziali
perché la classe operaia riacquisti fiducia nelle proprie forze e ritrovi una
propria identità.
Il superamento di tutte queste antinomie non potrà avvenire, in ultima
analisi, che nella pratica, sulla base delle esperienze che saranno fatte
collettivamente. Ma il primo passo è prendeme coscienza e definime le
origini e la portata.
Livio Maitan

Capitolo quinto

CONTRADDIZIONI INTERNAZIONALI

Il tema dell'interdipendenza economica su scala mondiale è stato uno


dei leit motiv di Gorbaciov che si è tradotto in abbozzi di teorizzazione al
momento culminante della sua parabola!. È noto quale conclusione Gor-
baciov stesso ne avesse tratto: si doveva abbandonare ogni idea di "con-
trapposizione frontale", adottare "un orientamento volto a un inserimento
organico nel processo mondiale dello sviluppo economico" e comprendere
che non si trattava più di "contrapporsi agli altri", ma di "sforzarsi di
risolvere insieme ad essi i problemi economici (dell'URSS)".
Questa problematica gorbaciovana è stata largamente ripresa nel mo-
vimento operaio, non solo dal vecchio PCI e da altri partiti di indirizzo
eurocomunista, ma anche da partiti socialdemocratici che ne traevano
confernia delle loro analisi e dei loro orientamenti.
A ben riflettere, il concetto di interdipendenza appare subito banal-
mente descrittivo o, quel che è peggio, mistificatorio. Se usandolo si
vuole sottolineare che i rapporti economici si sviluppano sempre di più
con una interconnessione internazionale, la constatazione è ovvia e non
costituisce un apporto originale alla teoria. Ma, a rigore, non si tratta tanto
di una "interdipendenza" quanto di un' egemonia esercitata dai paesi e dai
gruppi economici più forti, di un rapporto di dominazione-dipendenza
imposto ai paesi sottosviluppati, alla quasi totalità della loro popolazione,
oltre che ai salariati degli stessi paesi industrializzati. In altri termini,
assistiamo a una "unificazione" del mondo sotto il segno di una sempre
60 Anticapitalismo e comunismo

più affannosa ricerca del profitto, con tutti i mezzi e in ogni angolo del
globo.

Internazionalizzazione, grandi aree economiche e conflittualità


mondiale

Detto questo, bisogna evitare ogni interpretazione semplicistica del


processo di internazionalizzazione. Si tratta in realtà di un processo
contrastato e segnato da molteplici contraddizioni.
In primo luogo, un richiamo forse non superfluo. L' internazionalizzazio-
ne dell'economia, intrinsecamente legata alla concentrazione del capitale,
non comporta una sorta di sviluppo mondiale regolato più o meno consen-
sualmente dalle multinazionali e dalle grandi compagnie con base nazionale,
ma si accompagna a una concorrenza sempre più aspra tra gli stessi gruppi
dominanti, costretti a contendersi sempre di più gli stessi spazi. La battaglia
in corso tra i grandi gruppi automobilistici è un esempio di per sé eloquente.
Duri colpi sono stati subiti anche dai gruppi più poderosi, come la General
Motors e la Ford, ed è una previsione diffusa negli ambienti interessati che
il numero dei contendenti si restringerà inevitabilmente nell' arco di un
decennio, quali che siano le forme specifiche del processo.
In secondo luogo, esistono tensioni e conflitti costanti fra le tre grandi
aree economiche, quella della CEE, dell' America del Nord, che mira a
estendersi a tutta l'America Latina, e quella giapponese del Sud-Est
asiatico e di una parte dell' area del Pacifico. Le difficoltà esistono anche
all'interno di ciascuna area, per il loro completamento e consolidamento.
Basti pensare ai conflitti all'interno della stessa CEE, anche dopo la firma
del trattato di Maastricht. E non si tratta tanto, come pretendono gli
europeisti più radicali o più ingenui, di incomprensioni o di riflessi
conservatori, quanto di concreti conflitti di interessi, che riguardano
questioni tutt' altro che secondarie, come la politica agricola, l' atteggia-
mento verso i concorrenti extraeuropei, l'unificazione monetaria e la
Banca unica. La riunificazione tedesca ha reso le cose ancora più difficili.
Discorsi analoghi si potrebbero fare per l'area dell' America del Nord, per
non parlare delle difficoltà ancora maggiori che deriverebbero da un'e-
ventuale inclusione dei paesi sudamericani. Per lo stesso Giappone gli
ostacoli da superare non sono affatto trascurabili.
Livio Maitan 61

Un' altra, sostanziale difficoltà: la definizione e l'organizzazione delle


diverse aree di influenza sono rese più difficili dal fatto che ormai da tempo
l'internazionalizzazione non solo ha accantonato i confini nazionali, ma
ha contemporaneamente valicato i limiti delle varie aree sovrannazionali.
Come è noto, c'è una consistente presenza di multinazionali nordameri-
cane in Europa occidentale e di grandi gruppi europei negli Stati Uniti, per
non parlare della tanto temuta penetrazione giapponese sulle opposte
sponde dell' Atlantico. Siano o no realizzati i progetti attuali, la prospettiva
resta quella di lotte senza quartiere, che potrebbero provocare ritorni di
fiamma protezionistici e quindi rimesse in discussione almeno parziali del
quadro unificato delle diverse aree.
Al di là dei problemi economici, esistono problemi più strettamente
politici, in particolare per quanto riguarda la Comunità europea. Nelle
intenzioni dei suoi promotori e dei suoi ideologhi, questa comunità do-
vrebbe trasformarsi a scadenza non remota in una comunità politica, con
il superamento dei diversi Stati nazionali. Proprio a questo livello va
individuata una contraddizione cruciale: da un lato, gli Stati nazionali
costituiscono un ostacolo al completamento del mercato unico e alla
realizzazione di una compiuta unità economica, ma dall' altro, anche
facendo astrazione del persistere di specifici interessi dei singoli paesi, lo
Stato nazionale resta uno strumento essenziale di intervento politico e
sociale - in ultima analisi, anche economico - per assicurare un equilibrio
relativo delle distinte società europee e preservare i loro regimi; ed è
difficile immaginare che questa funzione possa essere assolta entro sca-
denze ragionevolmente prevedibili da uno strumento nuovo, da un appa-
rato statale sovrannazionale. Il problema si complicherebbe ulteriormente
- c'è appena bisogno di dirlo - se si realizzassero i progetti di allargamento
della comunità a paesi dell'Europa centro-orientale.
È opinione diffusa che, visto che il nemico comune "comunista" non
esiste più o non costituisce più una minaccia, si acutizzeranno i conflitti
tra le potenze imperialiste. Alcuni hanno persino affermato - con eccessivo
semplicismo analitico -che la guerra del Golfo, nei disegni di Washington,
era diretta contro la Germania e il Giappone non meno che contro l'Irak
di Saddam Hussein. Ed è stata egualmente ventilata l'ipotesi che si possa
giungere in prospettiva a nuove guerre interimperialistiche.
Lasciamo stare le speculazioni confinanti con la fantapolitica. Resta che
la tendenza insopprimibile all' acutizzazione dei conflitti potrebbe effettiva-
62 Anticapitalismo e comunismo

mente assumere dimensioni militari. Questo non significa necessariamente


vere e proprie guerre tra i paesi imperialisti: almeno per il periodo per cui si
possono avanzare delle ipotesi, un tale sbocco comporterebbe un rischio così
grande per il sistema nel suo complesso e i risultati apparirebbero così
aleatori che un qualsiasi gruppo dirigente di una grande potenza ben diffi-
cilmente imboccherebbe questa strada. Tuttavia - qui non parliamo più di
ipotesi, ma di dibattiti e progetti attuali - proprio perché la forza militare e
la capacità di intervenire in conflitti armati e contro "nemici" di nuovo tipo
costituiscono un fattore che pesa sul piano politico e quindi anche su quello
economico, paesi che per ora non si erano armati che parzialmente (anche
se più di quanto comunemente si creda) potranno essere indotti ad accrescere
notevolmente il loro potenziale militare. Questa è, a quanto pare, la lezione
che hanno tratto dalla guerra del Golfo la Germania e il Giappone. In secondo
luogo, è più che giustificata l'ipotesi di un accentuarsi della tendenza a
conflitti locali o regionali, di cui sappiamo quale possa essere il prezzo in
termini di perdita di vite e di sofferenze umane, di devastazioni materiali e
di disarticolazione dell' economia.
La crisi delle società di transizione burocratizzate con tutte le lacera-
zioni e i conflitti anche militari che ne sono derivati, da una parte e,
dall' altra, le situazioni esplosive esistenti in tutta una serie di paesi
sottosviluppati hanno accresciuto nei vari gruppi dirigenti, con funzioni
nazionali e internazionali, la preoccupazione che si accentuino e si molti-
plichino in varie regioni del mondo le forze centrifughe più disparate, con
processi sempre più incontrollabili di decomposizione e di disgregazione.
Non si tratta di un allarmismo infondato o semplicemente della volontà di
evocare scenari catastrofici a fini politico-propagandistici.
Per convincersene, basterebbe richiamare le crisi, i conflitti, le vere e
proprie guerre che hanno scandito gli ultimi trent' anni e che in molti casi
non sono stati ancora superati: dalla guerra di Algeria a quella del Vietnam
e alla spedizione imperialista nel Golfo Persico; dai conflitti libanesi alla
guerra Iran-Irak; dalle guerre civili nell' America centrale ai massacri
compiuti dalla dittature nel Cile e in Argentina; dalle tragiche vicende
della Cambogia alla guerra dell' Afghanistan; dai conflitti nell' Africa del
Sud alle guerre civili in una serie di altri paesi africani, dal Biafra al Sudan
passando per l'Angola; dalla lotta armata in Tailandia a quelle nelle
Filippine; dalle spedizioni francesi nel Ciad all'occupazione britannica
nell'Irlanda del Nord; e si potrebbe continuare, per finire con la guerra
r
rt
Livio Maitan 63

civile che ha dilaniato l'ex-Jugoslavia e con gli scontri armati nel Caucaso
e in altre regioni dell'ex-Unione Sovietica. È un quadro di instabilità e di
conflittualità esteso a tutti i continenti.
È in questo contesto che va individuato un fenomeno cui già abbiamo
accennato, cioè l'erosione e l'indebolimento che subiscono, anche dal
punto di vista sociale, le stesse classi dominanti. Che per quanto riguarda
i paesi sottosviluppati uno dei punti essenziali di debolezza del sistema
-
neocoloniale sia consistito nell'incapacità nella grande maggioranza dei
casi, se non dappertutto - di creare una borghesia indigena socialmente
consistente e capace di assolvere un ruolo politico stabilizzante, dovrebbe
essere chiaro a tutti. Dovrebbe essere chiaro egualmente che alla radice
dell'attuale instabilità dei paesi centro-europei e ancor più nell'ex-URSS
è l'inesistenza o l'esiguità estrema di una classe dominante capace di
imporre, con le necessarie mediazioni e alleanze, la propria egemonia, una
volta che il vecchio strato dominante, la burocrazia, è letteralmente esplo-
so senza essere più in grado di agire come forza dirigente complessiva e
dato che esistono solo embrioni di nuova borghesia.
Ma la crisi non risparmia la stessa borghesia dei paesi imperialisti, il
cui peso specifico sociale subisce pure un restringimento, con conseguen-
ze ancor più trasparenti a livello politico.
Le crescenti difficoltà che conoscono attualmente vari paesi europei,
al limite di vere e proprie crisi del sistema politico, sono, in ultima analisi,
il riflesso di tutto questo. Che la gestione "socialista" più che decennale
di Mitterrand e quella quasi altrettanto lunga di Gonzalez abbiano garan-
tito il funzionamento del sistema secondo la logica capitalistica e nell'in-
teresse della borghesia, per di più con l'adozione di misure niente affatto
diverse da quelle adottate altrove da governi conservatori, è una constata-
zione fatta sempre più esplicitamente anche da portavoce e da ideologhi
della classe dominante. Ciò non sminuisce il valore del fatto che la
borghesia francese e la borghesia spagnola non abbiano saputo esprimere
un proprio gruppo dirigente, capace di assumersi direttamente un ruolo
egemonico, sul piano politico e tuttora abbiano difficoltà a farlo, nono-
stante l'usura estrema del mitterrandismo e l'usura crescente del gonzali-
smo. Nella stessa Gran Bretagna, la scelta di rinnovare la fiducia al gruppo
dirigente conservatore non è stata affatto univoca, se è vero che alla vigilia
del voto il "Pinancial Times", portavoce secolare della borghesia britan-
nica, ha sottolineato i vantaggi di una soluzione laburista2.
64 Anticapitalisnw e comunismo

Le manifestazioni o le anticipazioni di una crisi non mancano neppure


nei principali paesi extra-europei. Il sistema politico giapponese, pur così
a lungo consolidato attorno all'egemonia del Partito liberaldemocratico,
è scosso da una serie di conflitti e di scandali clamorosi, che hanno, tra
l'altro, portato alla luce del sole i legami tra classe dirigente e malavita
organizzata. Quanto agli Stati Uniti, le stesse elezioni primarie non ancora
concluse mentre scriviamo, offrono uno spettacolo miserando dei mezzi
cui devono ricorrere i candidati per carpire il consenso degli elettori e,
quel che è ancora più importante, l'incapacità della classe dominante di
esprimere gruppi dirigenti rinnovati, o comunque capaci di affrontare gli
ardui compiti di un paese che è afflitto da un declino prolungato e pretende
ancora di esercitare un ruolo egemonico su scala mondiale.
Se questo è il quadro del mondo attuale, per tornare al punto di
partenza, non si può certo condividere la prospettiva strategica di Gorba-
ciov. Non si tratta di cercar di risolvere insieme i problemi comuni, ma di
constatare l'impasse storica in cui si trova il capitalismo, le contraddizioni
a tutti i livelli del suo sistema, e di comprendere che la via d'uscita, se si
vogliono evitare nuove e più devastanti catastrofi mondiali, è la lotta per
una globale alternativa anticapitalistica e socialista.

Socialismo: insopprimibile dimensione sovrannazionale

Uno dei dibattiti storici nel movimento operaio su scala internazionale


è stato quello sul socialismo in un paese solo. Non riprendiamo qui i temi
della controversia degli anni '20. Il verdetto dell' esperienza è ormai
indiscutibile: dovrebbe essere chiaro agli occhi di tutti che quello che è
stato costruito "in un paese solo" o in diversi "paesi soli" ha ben poco a
che vedere con il socialismo. Ricordiamo la sintetica definizione del
socialismo da parte di Rosa Luxemburg: il socialismo è "quella forma
economica, che è insieme forma mondiale per eccellenza e sistema in sé
armonico, in quanto rivolto non all'accumulazione, ma al soddisfacimento
dei bisogni di vita dell'umanità che lavora, mediante lo spiegamento di
tutte le forze produttive della terra" (Accumulazione del capitale, Einaudi,
Torino, p. 196). Per l'appunto: da un punto di vista marxista il socialismo
in un paese solo è una vera e propria contraddizione in termini. Il titolo
stesso di legittimità storica del socialismo rispetto al capitalismo consiste,
Livio Maitan 65

in ultima analisi, nella sua capacità di organizzare l'economia entro un


quadro unitario su scala mondiale, ponendo fine agli squilibri laceranti e
alle spaventose devastazioni che sono il prodotto del "libero mercato",
cioè di una concorrenza sempre più sfrenata, entro e, sempre di più, oltre
i confini degli Stati nazionali.
Se, poi, si pone il problema in prospettiva, nel contesto attuale, ci si
rende subito conto che una costruzione socialista su scala nazionale e -
potremmo ormai aggiungere anche SUscala di aree geografiche separate -
è ancora più improponibile che settant' anni or sono.
Nel caso dei paesi sottosviluppati, una tale costruzione, anche a pre-
scindere da misure politiche di blocco o da minacce militari del genere di
quelle che tanto hanno pesato su Cuba e sul Nicaragua, sarebbe ostacolata
inevitabilmente dall' arretratezza delle basi di partenza che, per di più,
continuerebbero a essere condizionate in modo soffocante dalla persi-
stente egemonia mondiale del capitalismo. C'è oggi, incontestabilmente,
una presa di coscienza di tutto questo, cioè degli ostacoli e delle contrad-
dizioni con i quali si scontrerebbe un regime rivoluzionario sin dall'indo-
mani del rovesciamento dell' ancien régime. Ma, specie dopo l'esperienza
nicaraguense e in misura quella cubana, nelle stesse file dei movimenti
latino-americani, si è diffusa la tendenza a una radicale revisione strategica
e ideologica, se non addirittura a una rinuncia agli obiettivi rivoluzionari
socialisti e a una battaglia antimperialista3. Questo mentre non c'è più che
in passato il minimo fondamento oggettivo per supporre che si possa
mettere fine agli orrori del sottosviluppo nel quadro del sistema esistente.
Ecco una contraddizione con la quale si scontrano i rivoluzionari in
America Latina come in altri continenti.
Nel caso dei paesi industrializzati, la cui dinamica economica da tempo
ha varcato i confini na7:ionali, il socialismo in un paese solo comportereb-
be una lacerazione traumatica dell' attuale tessuto economico, con una
involuzione di portata difficilmente ca1colabile ma comunque improponi-
bile da un punto di vista socio-politico. Del resto, quanto pesi il contesto
sovrannazionale, lo hanno sperimentato, a loro modo, governi anche assai
moderatamente riformatori, come il primo governo francese dopo l'ele-
zione di Mitterrand, che pure non intendeva rimettere neppure lontana-
mente in discussione i meccanismi del sistema.
Specie nei paesi della CEE c'è oggi una diffusa consapevolezza che le
stesse battaglie per rivendicazioni economiche e sociali parziali, come
66 Anticapitalismo e comunismo

pure per una estensione dei diritti democratici, non si possono credibil-
mente impostare senza tener conto dei condizionamenti sovrannazionali.
Ma da questa giusta premessa le direzioni operaie politiche e sindacali non
traggono la conclusione che il problema di una strategia di lotta sovran-
nazionale è sempre più urgentemente all' ordine del giorno. Al contrario,
accettando la logica della concorrenza capitalistica, pongono al centro
delle loro preoccupazioni la competitività dei diversi settori economici o
delle diverse aziende "nazionali": accettano quindi dei limiti alla dinamica
salariale e una erosione delle garanzie sociali acquisite in passato e
rinunciano a ogni seria battaglia per la riduzione degli orari di lavoro. Non
si rendono conto o non vogliono rendersi conto che tali comportamenti
vanno comunque a detrimento di settori o strati di classe operaia di questo
o quel paese o di una serie di paesi, cioè di quelli usciti perdenti dalla
concorrenza. Il risultato finale, in ultima analisi~ non potrà essere che un
indebolimento della classe operaia nef suo complesso, un logoramento del
suo peso specifico, e quindi un 'ulteriore evoluzione negativa dei rapporti
di forza, indipendentemente dal fatto che questo o quel settore e questo o
quel un paese possano essere colpiti prima o più gravemente-di altri.
Tutte queste contraddizioni possono essere sintetizzate in quella che è
la contraddizione centrale della fase attuale: mentre, come si è visto, gli
obiettivi delle lotte economiche e sociali e i progetti politici, per essere
credibili, devono avere sempre di più una dimensione sovrannazionale, il
movimento operaio è più che mai lacerato da tendenze centrifughe, diviso
e frammentato, trascinato in una logica di ripiegamento settori aie o cor-
porativo e privo di ogni credibile punto di riferimento internazionale su
scala di massa.
Questa contraddizione, di cui sperimentiamo letteralmente ogni giorno
la portata paralizzante e sterilizzante e al cui superamento, almeno tenden-
ziale, è legata la possibilità di una nuova fase di ripresa e di rilancio, non
- -
potrà essere superata ribadiamolo ancora una volta unicamente con
enunciazioni teoriche, ma soprattutto nella pratica, con nuove, vivificanti
esperienze di massa. Non per questo sono meno indispensabili lucidità
analitica e sforzi di generalizzazione, soprattutto in un momento in cui,
ripetiamo lo, si pongono interrogativi di fondo e primordiali questioni di
identità.
È compito in particolare dei militanti impegnati nell'impresa di rifon-
dazione comunista agire sin d'ora perché si realizzino iniziative di solida-
Livio Maitan 67

rietà e di unità d'azione tra sindacatie altre organizzazionidi massadi vari


paesi, perché siano fissati obiettivi unitari e siano definiti piani di lotte
concrete contro il comune avversario, perché si cominci a delineare una
più generale strategia anticapitalista. Vada sé che iniziative e azioni in
questo senso dovrebbero tendere a coinvolgere, da una parte, movimenti
e organizzazionidei paesi sottosviluppati, dall'altro, le forze che fatico-
samente cercano di organizzarsi nei paesi scossi dalla crisi delle società
di transizione burocratizzate. In ultima analisi, se la posta in giuoco ha
necessariamente dimensioni mondiali, sarebbe perfettamente illusorio e
addirittura suicida pensare di impegnarsi nelle battaglie di oggi e di
domani senza una impostazione sovrannazionale e senza disporre di
strumenti organizzativi internazionali della classe operaia e delle altre
classi sfruttate.

Note

1 Ci riferiamo in particolare all'articolo comparso sulla "Pravda" del 26


novembre 1989, che abbiamo analizzato in "Gli orizzonti teorici di Michail
Gorbaciov", "Bandiera Rossa", n. 1, gennaio 1990.
2 L'articolo pubblicato dal "Financial Times" alla vigilia delle elezioni del 9
aprile 1992 è un vero e proprio pezzo da antologia, che illustra sobriamente le
ragioni per cui, da un punto di vista della classe dominante, un governo laburista
poteva essere preferibile a un governo conservatore per la gestione della società
britannica nel contesto dato.
3 Concezioni e orientamenti del genere sono stati espressi, per esempio, da un
dirigente nicaraguense come Tirado Lopez e da un dirigente salvadoregno come
Joaquin Villalobos.
Livio Maitan 69

Capitolo sesto

QUALE MODO DI PRODUZIONE?

Specie dopo l'inizio della crisi delle società di transizione burocratiz-


zate, imperversano nelle stesse file del movimento operaio ideologie
anticollettivistiche, privatistiche e individualistiche. Anche molti di colo-
ro che si sforzano di individuare le radici della crisi senza rinunciare a una
critica del capitalismo, lo fanno spesso servendosi di ricorrenti stereotipi
con il rischio di accrescere la confusione e di rendere ancora più difficile
la definizione di una alternativa.

"Economicismo" e "statalismo"

In realtà, bisognerebbe evitare di aggirare i problemi con l'uso astratto


di concetti di cui non si precisino i contenuti. Così: per riprendere una
tematica cui abbiamo già accennato, l'involuzione e la crisi delle società
burocratizzate non sono da attribuire agli errori o ai peccati di un generico
economicismo, ma al fatto che sono state imposte priorità economiche che
comportavano squilibri tra i vari settori produttivi (per esempio, un privi-
legiamento indiscriminato e prolungato dell'industria pesante e dell'indu-
stria militare rispetto all'industria dei beni di consumo e della stessa
agricoltura), che i piani sono stati elaborati verticisticamente e autorita-
riamente e che la difesa e l'estensione dei privilegi consumistici o di altro
genere dello strato sociale dominante sono stati una molla ben più potente
70 Anticapitalismo e comunismo

dell' esigenza di soddisfare i bisogni delle grandi masse. Così la deforma-


zione statalistica è consistita non in un generico uso di istituzioni statali
come strumenti regolatori dell' economia, ma dalla progressiva trasforma-
zione dello Stato rivoluzionario, basato sui soviet, cioè su organismi di
auto-organizzazione di massa (purtroppo di effimera durata), in un appa-
rato dittatoriale elefantiaco, funzionale alla difesa del potere politico e dei
privilegi sociali della casta dominante. Anche quando ci sono stati tentativi
di attenuare le tensioni con misure di decentramento o di relativa autono-
mia aziendale, mai è stato rimesso in discussione il potere decisionale di
ultima istanza della burocrazia centrale né il potere sostanziale dei mana-
ger ai vertici delle aziende. Nel caso-limite della Jugoslavia il sistema
dell'autogestione, destinato sulla carta ad assicurare una effettiva demo-
cratizzazione dell'economia, è finito in un vicolo cieco in assenza di una
pianificazione democratica su scala federale. È stata un 'ulteriore conferma
del fatto che il centralismo burocratico non può, in ultima analisi, essere
scongiurato se non con la soppressione dei meccanismi complessivi della
società burocratizzata, con il rovesciamento del suo strato sociale domi-
nante. Questo rovesciamento non è di per sé la soluzione del problema,
ma ne è la condizione pregiudiziale storicamente necessaria.
Non è forse inutile spendere qualche parola sullo "statalismo" nelle
società capitaliste contemporanee, ricordando quali interessi e fattori
specifici abbiano stimolato l'intervento dello Stato nell'economia, anche
a livello di rapporti di produzione. Un caso classico è stato, per esempio,
quello delle misure di statizzazione che negli anni '30 hanno portato in
Italia alla formazione dell'IMI e dell'IRI. Come molti hanno già allora
indicato!, si è trattato in realtà di una specie di "socializzazione" delle
perdite, a vantaggio di settori capitalistici che più direttamente erano stati
colpiti dalla depressione del 1929-32. Altra variante: i capitalisti privati
non vogliono o non possono farsi carico di settori pure indispensabili allo
sviluppo dell'economia, per esempio i trasporti ferroviari e la ricerca e
l'utilizzazione di nuove fonti di energia, e preferiscono che se ne occupi
lo Stato, servandosi magari il diritto di esigere privatizzazioni o ripriva-
tizzazioni qualora questi settori assicurassero un profitto. In questi casi il
problema non è di criticare genericamente le "statizzazioni", ma di chiarire
la natura di statizzazioni che non cambiano non solo il modo di produzio-
ne, ma neppure i meccanismi di gestione, su cui i lavoratori e i cittadini
in generale non possono esercitare il benché minimo controllo. C'è appena
Livio Maitan 71

bisogno di aggiungere che oggi gran parte delle reazioni antistatalistiche


prendono di mira proprio queste forme di gestione e, a maggior ragione e
giustamente, la vergognosa utilizzazione clientelare di quello che dovreb-
be essere patrimonio collettivo.

Quale alternativa?

Esiste un'alternativa al sistema economico capitalistico? Ecco una


domanda cui troppi, anche nel movimento operaio, danno, più o meno
esplicitamente, una risposta negativa.
La nostra risposta, invece, deve essere: nessun movimento di rifonda-
zione potrà gettare solide fondamenta ed esercitare una forza di attrazione
sociale, se non afferma senza nessuna reticenza la finalità del rovescia-
mento della società esistente, delineando un progetto alternativo. Soprat-
tutto dopo la crisi della vecchia URSS e dei paesi dell'Europa
centro-orientale, sarebbe prova non di miopia, ma di assoluta cecità cercar
di eludere questo interrogativo, vivendo alla giornata, limitandosi a pro-
clamare genericamente una identità comunista o facendo ricorso alle
astratte enunci azioni di antieconomicismo o di antistatalismo che già
abbiamo criticato.
Neppure ci si potrà trarre di impaccio aggrappandosi alla categoria di
economia mista. Per convincersene, basti pensare all'uso che si è fatto di
questa formula con i riferimenti più disparati: dall'Egitto di Nasser al
Nicaragua sandinista, per non parlare del nostro stesso paese2. Si tratta,
tutt' al più, di una categoria empirica che serv.e a descrivere situazioni in
cui, accanto ai meccanismi capitalistici più classici, esiste un diretto e
consistente intervento dello Stato con la creazione di settori produttivi
cosiddetti pubblici.
Se non si vuole eludere il problema e contribuire alla sua mistificazio-
ne, la domanda cui bisogna rispondere è se si accetta una prospettiva di
mantenimento del sistema attuale a scadenza indefinita oppure se ci si
pone l'obiettivo, quali che siano le scadenze, della rottura del modo di
produzione esistente e della sua sostituzione con un modo di produzione
diverso qualitativamente, collettivistico, cioè non più basato sulla proprie-
tà privata dei mezzi di produzione e sull'imperativo del profitto.
In un momento di così diffusa amnesia storica non è superfluo ricordare
72 Anticapitalismo e comunismo

che, indipendentemente dalla diversità di concezioni sui metodi di lotta, i


partiti socialisti delle origini e i partiti comunisti nati da scissioni dalla
socialdemocrazia avevano dato, gli uni e gli altri, una risposta non ambi-
gua optando per il secondo corno del dilemma. Un elemento essenziale
della parabola involuti va che li ha portati in un vicolo cieco, è stato la
progressiva diluizione di questo obiettivo con l'adozione di una strategia
di passaggio graduale al socialismo dai contorni sempre più sfumati e, in
conclusione, con la rinuncia, prima nella pratica, poi anche nelle formu-
lazioni programmatiche, a ogni finalità anticapitalista e collettivi sta.
Il punto di partenza sul piano programmatico di un' impresa di rifonda-
zione comunista, che non sia un abuso di termini, deve essere la presa di
coscienza e l'affermazione esplicita che l'alternativa implica come conditio
sine qua non la scelta di un nuovo modo di produzione. Dopo tante mistifi-
cazioni e false polemiche va aggiunto subito che non si tratta solo di
sostituire meccanismi più propriamente economici con altri meccanismi
economici, bensì di lottare per una nuova egemonia sociale e per un nuovo
potere politico in connessione intrinseca con un nuovo modo di produzione.
Ripetiamolo un'ennesima volta per evitare equivoci: il modo di pro-
duzione collettivistico che dobbiamo prospettare non ha nulla a che vedere
con l'economia burocraticamente statizzata che è prevalsa nell 'URSS a
partire dalla metà degli anni '20 e in altri paesi dopo la seconda guerra
mondiale, che non può, da nessun punto di vista, costituire un "modello"
per il movimento operaio e per i comunisti.
Vale la pena, del resto, di ricordare che, per tutto un periodo, nei
programmi dei partiti e dei sindacati operai il concetto più spesso usato è
stato quello di socializzazione e non di statizzazione. Lo stesso vale per
programmi redatti nei primi anni della Resistenza. Non si tratta solo di una
differenza termino logica: il termine "socializzazione" esprime meglio che
"nazionalizzazione" e, a maggior ragione, che "statizzazione", l'idea di
una proprietà e di una gestione affidata alla società nel suo complesso.
Comunque sia, non deve sussistere alcuna ambiguità su due elementi
fondanti di un modo di produzione collettivistico in contrapposizione al
modo di produzione capitalistico.
Il primo elemento è che i mezzi di produzione non devono più appar-
tenere a detentori privati, la cui finalità è percepire profitto, subordinando
tutto il resto a questa finalità e al mantenimento del diritto di proprietà. Si
potrà scegliere tra forme giuridiche diverse e diversi tipi di gestione: è
Livio Maitan 73

ipotizzabile tutta una gamma di soluzioni, dalla socializzazione su scala


nazionale e sovrannazionale a una gestione collettiva su scala locale o
settoriale e, almeno per un certo periodo, cooperativa3. Ma, fondamental-
mente, i mezzi di produzione devono essere proprietà sociale e servire
prioritariamente al soddisfacimento dei bisogni della società, cioè alla
produzione di valori d'uso, con uno sviluppo equilibrato dell'economia
nel suo complesso.
Il secondo elemento comporta una vera e propria inversione rispetto ai
presupposti teorici e alla prassi del capitalismo. Come ogni sistema
socio-economico, il capitalismo deve cercar di stabilire, in ultima analisi,
un proprio equilibrio, rendendo operanti meccanismi regolatori del pro-
cesso di accumulazione. Ma ciò si realizza tramite il mercato, regolatore
decisivo. La vitalità di questa o quella azienda, di questo o quel settore è
stabilita quindi a posteriori, con il ridimensionamento o l'eliminazione di
questi o quei protagonisti e la prevalenza e il rafforzamento di altri. Tutti
gli squilibri laceranti della storia del capitalismo, come quelli del capita-
lismo odierno, con la gigantesca dissipazione di risorse e con gli atroci
costi sociali, sono, in ultima analisi, la conseguenza dei meccanismi di
mercato, di una verifica operata a posteriori tramite la concorrenza. Se non
si muta radicalmente questo sistema, non si creano neppure le condizioni
preliminari per superare tutte le tensioni, le strozzature e le contraddizioni
attuali che neppure i fautori del capitalismo possono far finta di ignorare.
È necessario introdurre meccanismi di regolazione ex ante, cioè sostituire
la logica animale del capitalismo con l'introduzione di elementi razionali,
coscienti, di funzionamento, di organizzazione e di regolazione dell' econo-
mia~Si tratta di rendere possibile una progettazione sistematica che, parten-
do da verifiche analitiche e sperimentali, tracci linee di sviluppo che, per
essere armoniose, equilibrate, prive di traumatiche fratture, non possono che
essere globali, cioè abbracciare i centri nevralgici della produzione. Non
dobbiamo avere esitazioni a usare il termine corrispondente a quella sostan-
za, cioè quello di pianificazione, anche se può apparire screditato dalla prassi
staliniana e post-staliniana, una volta chiarito da quali esigenze irrinunciabili
questa pianificazione sia determinata.
Ogni pianificazione, che voglia essere tale, comporta necessariamente
una centralizzazione. Ma nel mondo del duemila, data l' interconnessione tra
i vari settori e la crescente internazionalizzazione dell' economia, supporre
di poter prescindere da una centralizzazione sarebbe semplicemente assurdo.
74 Anticapitalismo e comunismo

Equivarrebbe a ipotizzare romanticamente un ritorno a un' economia preca-


pitalistica, a una somma di microcosmi autosufficienti, legati tra loro con
forme più o meno primitive di baratto e di compensazione. Gli incubi
alimentati dalle pianificazioni burocratiche e dispotiche vanno dissipati: una
pianificazione non è inevitabilmente sinonimo di gestione verticistica, ma
può e deve comportare la partecipazione attiva dell'intera società, cioè
un'autogestione democratica. Questa autogestione deve attuarsi ai diversi
livelli, di azienda e di settore produttivo, nell'ambito locale, nazionale e
sovrannazionale, nessun livello essendo sufficiente separatamente dagli
altri. I progressi straordinari della tecnologia e dei mezzi di comunicazione
negli ultimi vent'anni e l'incontestabile elevamento dei livelli culturali, al
di là di tutte le distorsioni giustamente denunciate, offrono le premesse
oggettive della realizzazione di un simile progetto, su cui non hanno potuto
-
contare- o hannopotutocontaresolodeltuttoparzialmente gli esperimenti
di pianificazione tentati nel passat04.

Essenzialità della democrazia socialista

Questa impostazione del problema della pianificazione aiuta a compren-


dere l'essenzialità della democrazia socialista. TIproblema non è solo creare
condizioni socio-economiche che diano un reale contenuto ai diritti demo-
cratici, ma egualmente assicurare una gestione democratica dell'insieme
della società, a partire dall' economia, superando la dicotomia tra gestione
economica ed esercizio del potere politico. Questo obiettivo non potrà essere
realizzato se non con l'estensione e l'articolazione della democrazia a tutti
i livelli, cioè con un attivo protagonismo di tutti i soggetti della nuova
società: come produttori e produttrici, cioè lavoratori e lavoratrici, impegnati
e impegnate nel processo produttivo, come consumatori e consumatrici, cioè
persone che esigono di poter soddisfare i propri bisogni, e come cittadini e
cittadine, capaci di determinare democraticamente tutte le scelte politiche.
Solo una simile prassi democratica - reale nel senso più pregnante del
termine per la prima volta nella storia -consentirà una ricomposizione della
società e contemporaneamente una ricostruzione della personalità dei sin-
goli componenti di questa società, sinora condannati alla parzializzazione,
alla frammentazione e a una sostanziale mutilazione dai meccanismi alie-
nanti di una società divisa in classi.
r
Livio Maitan 75

Tutto quello che abbiamo detto non comporta nessun ultimatismo,


teorico o pratico, che ignori la processualità di una edificazione socialista,
una volta realizzato il salto qualitativo della rottura con la società capita-
lista. Così l'esigenza di mettere in opera un nuovo modo di produzione
non implica che ci dovrà essere subito una socializzazione a tutto campo.
Settori privati potranno sussistere nella misura in cui assolveranno fun-
zioni non socializzabili in tempi brevi (quando si è voluto ignorarlo, si
sono di norma provocate difficoltà e tensioni con la conseguenza ultima
di ritardare o addirittura comprometter~, e non di accelerare, i processi
auspicati). In particolare, questo potrà valere per certi settori dell'agricol-
tura e dell' artigianato. Analogamente, sarebbe assurdo in una società di
transizione negare ogni funzione al mercato, che, al contrario, unitamente
ad altre forme di controllo più diretto dei consumatori, costituirà un
necessario strumento di verifica, per esempio della qualità dei beni di
consumo. L'importante sarà che non abbia più la funzione determinante
che gli è attribuita in un' economia capitalistica e che dovrà spettare, nella
nuova società, agli organismi ai vari livelli dell'economia socializzata e
pianificata5.

Note

1Cfr., per esempio, il libro di Pietro Grifone su Il capitale finanziario in Italia,


Einaudi, Torino 1945 (scritto dall'autore al confino nell'isola di Ventotene).
2 Ricordiamo che in epoca fascista si è usato il termine "economia mista" per
definire l'economia corporati va.
31nKautsky dell' epoca classica scriveva a questo proposito: "La proprietà dei
mezzi di produzione può esistere, in una società socialista, nelle forme più diverse:
ci potranno essere, le une accanto alle altre, proprietà nazionali, comunali, private;
le cooperative di consumo e le cooperative di produzione potranno egualmente
essere proprietarie" (La Révolution Sociale, Paris, Rivière, 1921 p. 197).
4 Per esempio, i mezzi usati per scegliere seduta stante a livello di milioni di
persone i èantanti vincitori di un festival o i migliori calciatori di un incontro di
cartello, potrebbero essere benissimo usati per inchieste e consultazioni a livello
di massa su problemi economici, sociali e politici.
5 Cfr. a questo proposito certi scritti di Lenin dell'epoca successiva al comu-
nismo di guerra e di Trockij della fine degli anni '20 e dei primi anni '30, cui ci
siamo riferiti anche nell' introduzione all 'ultima edizione de La rivoluzione tradita,
Mondadori,1990.
Livio Maitan 77

Capitolo settimo

QUALE STRATEGIA ANTICAPITALIST A?

Le difficoltà e le contraddizioni con le quali si scontra la riflessione


necessaria sulle linee di una strategia anticapitalista, specie per quanto
riguarda i paesi industrializzati, non sono certo minori di quelle che si
devono affrontare per porre problemicrociali di una edificazionesociali-
sta.

Difficoltà e contraddizioni

Possiamo sintetizzarle, grosso modo, su tre piani:


1) Si fa oggi il bilancio di tutto un periodo storico di lotte del movi-
mento operaio. Come abbiamo già accennato, si denunciano drasticamente
tutti gli aspetti negativi o giudicati tali, ma non si sottopone a un vaglio
critico sistematico quello che pur costituisce un aspetto centrale, cioè la
strategia d'insieme adottata o prospettata sia dai partiti socialdemocratici
sia dai partiti comunisti.
2) Anche quando si afferma la necessità di un rinnovamento radicale
come premessa necessaria di ogni possibile rilancio, ci si pone sul piano
dei riferimenti ideologici oppure su quello degli orientamenti e degli
obiettivi a breve termine o di una fase determinata, ignorando il nesso tra
i due piani, indispensabile per evitare le secche della pura e semplice
giustapposizione. Si rinuncia, cioè, a prospettare un progetto strategico di
78 Anticapitalismo e comunismo

lotta anticapitalistica, senza il quale, da un lato, l'eventuale raggiungimen-


to di obiettivfparziali sarebbe precario e condannato a un'usura più o meno
rapida, dall' altro, ogni proclamazione di intenti anticapitalistici si ridur-
rebbe a un esercizio declamatorio, propagandistico nel senso deteriore del
termine. ,
3) Il prolungarsi dell' onda lunga di ristagno e la crisi socio-politica che
investe una serie di paesi pongono all'ordine del giorno non solo problemi
di orientamento per una battaglia di difesa delle acquisizioni economiche
e sociali degli scorsi decenni e dei diritti democratici, ma anche e soprat-
tutto la problematica di una strategia più complessiva che permetta, a
determinate condizioni, di passare al contrattacco e di far emergere un'al-
ternativa che non si riduca a una semplice alternanza nell'assunzione di
responsabilità di governo. Ma i rapporti di forza attuali a livello politico
e il rafforzarsi di partiti o movimenti che prospettano soluzioni conserva-
trici e reazionarie, fanno apparire poco credibile, a breve e anche a medio
termine, un' alternativa globale dal punto di vista dei lavoratori e velleitari
i tentativi anche solo di delinearla.
Per chiarire meglio il primo punto, le critiche e le autocritiche riguar-
dano, per esempio, prese di posizione di governi o partiti socialdemocra-
tici, linee di orientamento di partiti comunisti e atteggiamenti di direzioni
sindacali; impostazioni di politica delle alleanze, in questo o in quel
periodo; problemi di funzionamento delle organizzazioni e dei loro rap-
porti con movimenti di massa; .orientamenti e condizionamenti internazio-
nali. Ma non si rimettono mai seriamente in discussione scelte strategiche
che sono all' origine di errori e deformazioni o, comunque, hanno contri-
buito a determinarle. Eppure si tratta di una questione di fondo.
Oggi più che in passato, partendo dalla crisi delle società di transizione
burocratizzate e dal declino dei partiti comunisti in altre aree del mondo,
si parla non solo di "fallimento del comunismo", ma anche di fallimento
di ogni concezione e prospettiva rivoluzionaria. La lezione della storia è
presentata come una condanna senza appello.
Chi non si accontenti di sommarie e abusive generalizzazioni, per non
parlare delle mistificazioni quotidiane, deve, tuttavia, porsi una serie di
domande. Non ritorniamo qui sul "fallimento del comunismo" nell'Euro-
pa orientale e nell'URSS, di cui abbiamo già parlato. Ma, se si ripercorre
la parabola storica del movimento operaio nei paesi capitalisti industria-
lizzati, ecco gli interrogativi cui bisogna dare risposta: quali sono state le
,.

Livio Maitan 79

strategie del movimento operaio da un secolo a questa parte? quali risultati


sono stati conseguiti? quali lezioni si possono trarre dalle esperienze fatte?

Una strategia mai sperimentata

In primo luogo, una strategia di rovesciamento del sistema capitalista


con una rottura rivoluzionaria non è stata avanzata che dai partiti socialisti
nella loro prima fase (il più delle volte, del resto, in termini generici e non
senza ambiguità) e dai partiti comunisti nel corso degli anni' 20 e all'inizio
degli anni ' 30 (con la precisazione che durante il cosiddetto terzo periodo,
più che dell'elaborazione di una strategia rivoluzionaria, si è trattato di
ipotesi e progetti velleitari, in contrasto con la realtà e dettati dalle esigenze
dello Stato sovietico e dell'incipiente stalinismo)l. Dunque, uno sforzo di
elaborazione di una strategia rivoluzionaria non è stato fatto che durante
periodi limitati e senza la sistematicità e la coerenza che ne consentissero
l'assimilazione da parte di quadri e militanti di partito e di larghe avan-
guardie di movimenti di massa.
Ancor più chiara è la risposta alla domanda se ci siano stati tentativi di
traduzione in pratica di una simile strategia. Una rottura rivoluzionaria
come obiettivo a breve e medio termine non è stata prospettata che
nell'arco di qualche anno, sull'onda della rivoluzione d'Ottobre, in parti-
colare in Germania e in Italia tra il 1919 e il 1923 (a parte i deliri del "terzo
periodo").
Ma neppure in questi due casi-limite c'è stato un reale tentativo di
tradurre in pratica una strategia rivoluzionaria. In Italia, le organizzazioni
operaie non hanno certo agito con una tale prospettiva nel momento più
alto della crisi, tra la primavera e l'autunno del 1920 (occupazione delle
fabbriche). Quando, poi, è stato fondato il Partito comunista, che non ha
raccolto che una minoranza, sia pure consistente, i rapporti di forza
stavano già evolvendo a ritmo rapido a favore delle classi dominanti e
delle forze politiche più reazionarie. Per quanto riguarda la Germania, non
possiamo riprendere qui le analisi e i giudizi espressi su quel periodo dai
punti di vista più diversi2. Ma la valutazione su cui c'è il maggior
consenso, almeno tra comunisti, è che nel 1919 il partito allora largamente
maggioritario, la socialdemocrazia, lungi dall' impegnarsi in un' azione
rivoluzionaria, ha fatto il possibile per bloccare e soffocare ogni iniziativa
80 Anticapitalismo e comunismo

in questo senso, mentre nel 1923 è stato il Partito comunista a giungere


impreparato a scadenze decisive e quindi a non poter tradurre in pratica i
progetti rivoluzionari che pure erano iscritti nelle sue tesi programmati-
che. Non ci riferiamo, d'altra parte, alla guerra di Spagna per la semplice
ragione che in quel caso sia il Partito socialista sia il Partito comunista
sono partiti dal presupposto che il problema all'ordine del giorno fosse la
difesa della repubblica democratica contro il fascismo e non la conquista
del potere da parte del proletariato, agendo in conseguenza (non poniamo
qui il problema della giustezza o meno di questo presupposto).
La conclusione da trarre è che coloro che rifiutano ogni discorso di
strategia rivoluzionaria non si basano affatto, come pretendono, su effet-
tive esperienze storiche, ma impostano il problema in termini di auspica-
bilità di un'altra strategia, cioè, in ultima analisi, in termini ideologici.
Una riflessione sistematica su un secolo di storia del movimento
operaio dimostra, in realtà, che la strategia prevalsa quasi sempre nelle
elaborazioni teoriche e ancor più nella pratica è stata quella riformista
graduali sta, delineata già dalla fine del secolo scorso, a partire da Ber-
nstein, nella socialdemocrazia tedesca, allora partito-faro dell'Internazio-
nale socialista. Come, per parte nostra, abbiamo analizzato in altri saggi3,
questa strategia è stata in larga misura adottata anche dai partiti comunisti
dell'Europa occidentale, a partire dal VII congresso dell'Internazionale
comunista nel 1935 e sempre più esplicitamente e sistematicamente dalla
fine della seconda guerra mondiale. Quanto ai partiti socialdemocratici,
hanno sempre più apertamente rinunciato all'obiettivo del superamento
della società capitalista e le riforme di cui ancora parlano, sono concepite
non come "approssimazioni successive" al socialismo, ma come misure
di "democratizzazione" e di razionalizzazione del sistema esistente. Ora,
l'esperienza anche degli ultimi decenni in Europa occidentale dimostra
che una strategia riformista graduali sta può conseguire conquiste parziali
anche significative, quando, per esempio, la situazione economica offra
margini per concessioni salariali e le classi dominanti non abbiano bisogno
di ricorrere a misure autoritarie, o, al contrario, quando una ristabilizza-
zione sia possibile solo con concessioni economiche e politiche, quale che
sia il prezzo immediato che padronato e governo devono pagare. Ma non
può rimettere in discussione il sistema in quanto tale e, lungi dall'inaugu-
rare un passaggio graduale al socialismo, non evita l'usura, il riassorbi-
mento o la soppressione delle stesse conquiste realizzate.
Livio Maitan 81

Ribadiamolo: non si tratta di contrapporre alla politica condotta dalla


quasi totalità delle organizzazioni operaie per oltre mezzo secolo - per non
risalire più indietro - presupposti astrattamente dottrinari, ma di prendere
atto di quello è stato il corso storico reale. Uno degli elementi più negativi
e degli ostacoli più gravi per uno sviluppo positivo dell'impresa di rifon-
dazione, consiste nel fatto che, almeno sinora, si è preferito eludere questo
bilancio e, invece di partire dagli insegnamenti dell' esperienza fatta per
costruire una nuova ipotesi strategica, si riprendono pigramente vecchi e
abusati motivi. Esplicitamente o implicitamente, si continua a puntare su
un'ipotesi gradualistica di "superamento" del capitalismo, formulata, non
per caso, in termini generici e poco chiari, che rivelano, al fondo, scarsa
chiarezza e scarsa consistenza.

Qualche ipotesi di orientamento

Se vogliamo effettivamente rinnovare il movimento operaio, rifiutando


una continuità che ci trasformerebbe nei profeti dell'inferno dantesco,
costretti a camminare con la testa girata all'indietro, dobbiamo considerare
compito primario l'elaborazione di una nuova strategia anticapitalistica,
che corrisponda alle esigenze e sfrutti le potenzialità della fase attuale e
delle fasi che si apriranno in futuro. È un compito che non potrà essere
assolto che collettivamente, con il contributo pluralista di tutte le esperien-
ze. Per parte nostra, ci limitiamo, come già nei capitoli precedenti, a
suggerire alcune riflessioni e a proporre qualche indicazione di orienta-
mento su problemi sul tappeto.
Il punto di partenza per l'elaborazione di una strategia anticapitalistica
resta la definizione della natura dello Stato. Un motivo ricorrente anche
nelle file del movimento operaio è quello secondo cui il marxismo non
avrebbe elaborato una vera e propria teoria dello Stato. Si tratta, sfortuna-
tamente per i suoi sostenitori, di una tesi che non corrisponde affatto a
verità.
Certo, né Marx né altri marxisti hanno mai prodotto sull'argomento
volumi ponderosi paragonabili a quelli di più o meno celebrati teorici
borghesi. Ma hanno affrontato il problema almeno su tre piani dando
risposte che ovviamente si possono discutere, ma di cui non si può negare
1<1pertinenza e la sostanziale organicità. In primo luogo, hanno ànalizzato
82 Anticapitalismo e comunismo

le origini storiche dello Stato, la sua natura e le sue funzioni. In secondo


luogo, hanno fornito indicazioni sulle istituzioni politiche prospettabili in
una società di transizione non capitalistica e sulla loro dinamica. Chi si
rilegga il saggio di Marx sulla Comune di Parigi e la sua Critica al
programma di Gotha o Stato e rivoluzione di Lenin alla luce delle
esperienze fallimentari delle società di transizione burocratizzate, può
constatare la pertinenza delle acute anticipazioni, che vi sono contenute e
che sono state ignorate o considerate con troppa disinvoltura come astrat-
tamente democraticistiche ed egualitaristiche. Infine, gli stessi Marx ed
Engels hanno fornito strumenti per interpretare il significato e la specifi-
cità di forme di dominazione politica già presenti nel secolo scorso e
ancora più diffuse successivamente. Ci riferiamo in particolare al concetto
di bonapartismo, indispensabile alla comprensione della natura e della
dinamica di molti regimi impostisi in paesi sottosviluppati nell' arco degli
ultimi cinquant' anni.
Detto questo, la domanda che dobbiamo porci è se lo Stato abbia subito
o no cambiamenti qualitativi nelle società capitalistiche contemporanee.
Ora, dal punto di vista delle strutture economiche è difficilmente conte-
stabile che il capitalismo monopolistico e l'attuale prevalere dei grandi
gruppi multinazionali non hanno fatto che accentuare al massimo tendenze
che Marx aveva già colto come elementi potenziali e che Lenin aveva
analizzato in una prima fase di maturazione. Che in questo quadro ci sia
stata una simbiosi sempre più stretta tra economia e politica con l'assun-
zione da parte dello Stato di funzioni sempre più vaste e articolate, è
un' altra constatazione elementare che nessuna ideologia "privatizzatrice"
può annullare. Tutto questo non ha comportato la benché minima attenua-
zione della funzione di classe dello Stato. Al contrario, lo Stato, sia pure
attraverso molteplici mediazioni, continua ad operare come garante del
mantenimento e del funzionamento di un sistema basato sul profitto e sulla
proprietà privata dei mezzi di produzione. Lungi dal "democratizzarsi",
diventa sempre di più una forza estranea alla società, che si sottrae a ogni
effettivo controllo popolare. Del resto, non sono solo dei marxisti a
constatare, più concretamente, che le istituzioni rappresentative, anche nei
paesi formalmente più democratici, hanno subito e subiscono una riduzio-
ne delle loro funzioni reali, con una concentrazione crescente di poteri
effettivi negli apparati esecutivi.
La contraddizione di fondo, dal punto di vista teorico, di ogni conce-
Livio Maitan 83

zione riformi sta graduali sta consiste nell'ipotizzare che un apparato sta-
tale così strutturato e articolato come quello delle società moderne, sorto
e sviluppatosi in un quadro socio-economico ben definito e con la funzio-
ne, ripetiamo lo, di garantire questo quadro nell'interesse di una specifica
classe dominante, possa essere utilizzato per un cambio qualitativo di
modo di produzione e per l' afferma~one dell' egemonia di un' altra classe.
Si tratta di un presupposto teoricamente infondato, la cui inconsistenza,
come abbiamo visto, è stata comprovata da una esperienza ormai quasi
secolare. In altri termini, pensare che una società regolata da una sua
ineludibile logica interna e da una sua intrinseca dinamica e in cui i poteri
decisionali tendono a concentrarsi nelle mani di ristretti gruppi dominanti
e di élites a vocazione autoritaria possa essere trasformata dal suo interno,
gradualmente, senza una rottura rivoluzionaria del quadro preesistente,
significa rifiutare di prendere atto della realtà e quindi proporre una
prospettiva assolutamente irrealizzabile.
Questo è il nodo da sciogliere di una strategia anticapitalistica e
rivoluzionaria, che è mistificante tradurre in termini di violenza più o
meno necessaria. La verità è che la violenza è stata sistematicamente usata
- e continua essere usata - dalle classi dominanti e che è quindi su di esse
che è ricaduta e ricadrà la responsabilità del ricorso, da parte degli sfruttati
e degli oppressi, a lotte insurrezionali e dell'esplodere di guerre civili4.
Non affrontiamo qui il problema della definizione di obiettivi imme-
diati, perché su questo terreno i compiti di un partito operaio all' opposi-
zione appaiono più evidenti e già un lavoro importante è stato svolto. Le
difficoltà cominciano quando si tratta di delineare obiettivi intermedi o di
transizione, cioè di stabilire un nesso intrinseco - non una semplice
giustapposizione letteraria - tra obiettivi immediati o parziali e strategia
anticapitalista di largo respiro. In ultima istanza, si tratta di un problema
cruciale cheil vecchioPCI,nonostanteripetutitentativi,non è mairiuscito
a risolvere, mantenendo una dicotomia tra lotte parziali, non di rado
condotte con successo, e finalità strategiche, rimaste a livello di enuncia-
zioni o tradotte in progetti regolarmentecondannati all'insuccesso.
Ci limiteremo qui a qualche considerazione sugli orientamenti da
prospettare nella fase in cui siamo entrati, analogamente ad altri paesi
dell'Europa occidentale,in particolare dopo l'esito delle ultime elezioni.
L'Italia attaversa una crisi sociale e politica - ancor più che strettamen-
te economica- che è la secondain ordine di gravità dalla fine della guerra
84 Anticapitalismo e comunismo

(la prima è stata quella della fine degli anni '60 e dell'inizio degli anni
'70). Si tratta ormai di una vera e propria crisi di regime di cui non è facile
intravedere sin d'ora i possibili sviluppi, ma che segnerà, comunque, un
periodo di aspra conflittualità e di profondi squilibri. C'è appena bisogno
di ricqrdare che, nel contesto dato, non sono la classe operaia e gli altri
strati popolari a condurre l'offensiva. L'iniziativa è, almeno per ora, nelle
mani di forze politiche e sociali insoddisfatte dello stato attuale delle cose
per ragioni ben diverse dalle nostre e alla ricerca di soluzioni non certo
corrispondenti agli interessi e alle aspirazioni del movimento operaio e
dei comunisti. L'eventuale successo di questi progetti comporterebbe una
restrizione di elementari diritti democratici e una ulteriore concentrazione
di poteri nell' esecutivo, se non l' istaurazione di una "democrazia" dai
tratti fortemente autoritari.
Che in un tale contesto sia necessario difendere intransigentemente
tutte le conquiste democratiche, siano iscritte o no nella Costituzione,
opporsi all'introduzione di un sistema elettorale non proporzionale, riget-
tare soluzioni presidenzialistiche o comunque miranti a esaltare il ruolo
degli esecutivi, è fuori discussione. Ma bisogna evitare di assumere
posizioni sostanzialmente difensive che possano farci apparire come di-
fensori dello status quo.
Qui si inserisce il discorso sulla Costituzione del 1948. Innanzi tutto,
va demistificata l'interpretazione ideologistica secondo cui questa Costi-
tuzione potrebbe consentire una evoluzione della società italiana verso il
socialismo. In realtà, è stata il risultato di un compromesso. Per riprendere
un articolo di Togliatti, evocato a più riprese da Enrico Berlinguer, questo
compromesso avrebbe dovuto consistere nell'accettazione da parte dei
conservatori della "liquidazione politica del fascismo" e del "raggiungi-
mento di un normale sviluppo democratico", mentre le "forze più avanzate
del blocco antifascista" avrebbero dovuto garantire che questo non avreb-
be comportato "modificazioni profonde o addirittura rivoluzionarie della
struttura economica italiana" ("Rinascita", agosto 1946). Questo compro-
messo non si è realizzato, come Togliatti auspicava, a livello di alleanza
di governo, ma si è tradotto in larga misura nella carta costituzionale, che
è senza dubbio avanzata su diversi piani, ma si basa pur sempre sul
riconoscimento prioritario dell'iniziativa privata e della proprietà privata
dei mezzi di produzione.
Per di più, a oltre quarant' anni di distanza, appare obsoleta per aspetti
Livio Maitan 85

non secondari. Basti pensare all'articolo 29 che "riconosce i diritti della


famiglia come società naturale fondata sul matrimonio" o all'articolo 37
che parla di "essenziale funzione familiare" della donna. Basti pensare al
fatto che, mentre afferma il diritto all'emigrazione, non menziona neppure
-
- né avrebbe potuto farlo allora il cruciale problema dell'immigrazione,
come non affronta, se non sommariamente, il problema delle istituzioni
sovrannazionali. Ciò che, in ultima analisi, è ancora più importante, la
carta del 1948 ha come fondamento una democrazia delegata, che esclude
per principio ogni controllo dal basso e ogni possibilità di revoca procla-
mando che "ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed
esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato". Quali siano state le
conseguenze pratiche non di violazioni della Costituzione, ma dell'appli-
cazione di questo suo principio, lo dimostrano le devastazioni del sistema
politico, che sono davanti agli occhi di tutti e che, se hanno, ovviamente,
cause più profonde, sono state, tuttavia, facilitate proprio da una siffatta
impostazione, tipica di una concezione della delega che discende dalla
negazione dell'idea stessa di una società divisa in classi.
Lungi dall'arroccarsi su una posizione difensiva, un partito operaio
dovrebbe prendere l'iniziativa di radicali battaglie democratiche con l'o-
biettivo di sopprimere o sostituire una serie di articoli della Costituzione,
ripetiamolo, obsoleti e non accettabili (agli articoli già citati si potrebbero
aggiungere quello che proclama la "non responsabilità del presidente della
Repubblica" o quello sulla designazione di senatori a vita, per non parlare
di quello, utilizzato nel modo che sappiamo, sulla immunità parlamenta-
re). Ma soprattutto dovrà sviluppare una critica della democrazia delegata
come elemento fondante dei meccanismi istituzionali e affermare la ne-
cessità di un costante controllo democratico, di cui il diritto di revoca
costituisca un aspetto centrale. Più in generale, dovrà avanzare proposte
miranti a introdurre organismi di democrazia dal basso, di democrazia
diretta, su diversi piani e con funzioni diverse, partendo dalla elezione
generalizzata di consigli dei lavoratori non concepiti in un' ottica puramen-
te sindacale, cioè con funzioni più complessive di controllo politico,
economico e sociale. È soprattutto su questo terreno che sarà possibile
stabilire un nesso tra questi obiettivi politici e gli obiettivi economici
prioritari di questa fase, in primo luogo una riduzione generalizzata delle
ore di lavoro - 35 ore con l'ulteriore obiettivo di 30 - senza riduzione di
salario, una retribuzione garantita ai disoccupati e ai giovani in cerca di
86 Anticapitalismo e comunismo

prima occupazione, un controllo operaio sulla organizzazione del lavoro


-
nelle aziende e un controllo dei lavoratori e non dei burocrati sindacali
- sull' assistenza sanitaria, sui fondi pensionistici e di previdenza ecc. In
queste forme concrete si potrà cominciare a innestare una dinamica di
contestazione a tutti livelli, condizione pregiudiziale dell'affermazione di
un'alternativa politica globale in termini di classe.
Aggiungiamo che una simile impostazione dovrebbe avere una proie-
zione a livello sovrannazionale. Mentre è all'ordine del giorno la costru-
zione dell'Europa di Maastricht, i comunisti devono spiegare senza
nessuna ambiguità perché questa non sia la loro Europa. E non sono i
governi e gli organismi tecnocratici della CEE che devono decidere su
quali basi socio-economiche e su quali istituzioni vada costruita un'Euro-
pa unita. È ai popoli dei paesi del continente, che spetta la decisione, con
una costituente eletta a suffragio universale e a sistema proporzionale.
Se non ci sarà la massima chiarezza nella battaglia contro l'attuale
offensiva della destra, c'è il grave rischio che il movimento operaio e i
comunisti appaiano schierati su posizioni di retroguardia, come difensori
di un sistema che è rigettato ogni giorno di più da vasti settori popolari.
Non dobbiamo dimenticare esperienze negative di altri paesi e di altre
epoche, in situazioni non dissimili dall'attuale situazione italiana. All'i-
nizio degli anni '30, nel contesto della crisi della Repubblica di Weimar,
per le sue profonde divisioni, per i settarismi imperanti e per l'incapacità
di avanzare un' alternativa al regime esistente, il movimento operaio
tedesco ha condotto una battaglia di retroguardia in ordine sparso, per-
dendo nei momenti decisivi forza di attrazione in ampi strati popolari,
che, brutalmente colpiti dalla crisi, sono caduti nella trappola della
demagogia reazionaria del nazismo. Se questa analogia può sembrare
troppo drammatica, riflettiamo sulla crisi della primavera del 1958 in
Francia, dove pure il movimento operaio è apparso arroccato su posizioni
difensive e conservatrici e incapace di prospettare un'alternativa, con il
risultato che ha vinto il gollismo imponendo un regime dai tratti forte-
mente autoritari. .
Il pericolo di ripetere oggi in Italia gli stessi errori non è affatto
immaginario. Abbiamo ancora il tempo di scongiurarlo.
Livio Maitan 87

Note

l A questo proposito ci permettiamo di rinviare di nuovo al nostro saggio Al


termine di una lunga marcia: dal PCI al PDS, in particolare al primo e secondo
capitolo.
2 V. in particolare Trockij, La Terza Internazionale dopo Lenin, Schwarz,
Milano 1958, pp. 117-138, Arthur Rosemberg, Storia della repubblica tedesca,
Leonardo, 1945, e Pierre Broué, Révolution en Allemagne (1917-1923), Les
Editions de Minuit, 1971.
3 V. il nostro Destino di Trockij, Rizzoli, Milano 1981.
4V. a questo proposito Dibattito su Stato e rivoluzione, Samonà e Savelli, Roma
1'970,con i contributi di Ludo Colletti, Ludo Libertini, Livio Maitan, Ludo Magri
e Lelio Basso.
Livio Maitan 89

Capitolo ottavo

DIFFICOLTÀ E NECESSITÀ DI UNA RICOMPOSIZIONE

Nel terzo capitolo abbiamo indicato quali siano gli elementi nuovi e
gli elementi permanenti nella composizionedella società italiana. Ritor-
niamo ora sui mutamenti che hanno riguardato, a partire, grosso modo,
dalla fine degli anni '70 la classe operaia industriale e, più in generale, i
lavoratori dipendenti.

Scomposizione e frammentazione

Conosciamo il leit motiv delle schiere variopinte di economisti e di


sociologhi, cui si sono associati, più o meno esplicitamente, dirigenti e
quadri sindacali. La classe operaia - si dice - ha subito trasformazioni
radicali e tende irreversibilmente a diminuire; la percentuale degli impie-
gati si è fortemente accresciuta; le nuove funzioni e mansioni nelle
fabbriche tecnologicamente più avanzate provocano una frammentazione
del tradizionale tessuto operaio; si producono differenziazioni sempre
maggiori per cui è difficile, se non impossibile, stabilire denominatori
comuni e quindi comuni orientamenti di lotta; la composizione generazio-
nale operaia è cambiata con un costante invecchiamento e, nella misura in
cui c'è un afflusso di giovani nelle aziende, esistono diversità di interessi
e di esigenze tra questi ultimi e le generazioni precedenti: si aggrava il
problema del distacco tra lavoratori occupati e disoccupati (disoccupati di
90 Anticapitalismo e comunismo

lunga durata), per non parlare dei veri e propri emarginati, espulsi dal
mercato del lavoro, giovani in grande percentuale. Infine, esistono le
divisioni tra lavoratori italiani e lavoratori immigrati, il cui numero è
destinato assai probabilmente a crescere.
Queste annotazioni analitiche corrispondono in gran parte alla realtà.
Vanno, tuttavia, precisati la portata e i contenuti reali dei mutamenti
intervenuti e delle tendenze in atto. .

Ci sono stati effettivamente, come già abbiamo accennato, mutamenti


nelle funzioni e qualifiche operaie, che hanno in larga misura annullato il
patrimonio di esperienze acquisite dai lavoratori e reso più difficile da
parte loro il padroneggiamento, sia pure relativo, dei processi in cui sono
inseriti. Se non si ignora che cosa questo significhi - non in termini teorici,
ma nella vita di ogni giorno all'interno delle fabbriche, nella lotta per non
essere annullati e per ritagliarsi spazi di sopravvivenza -, è facile imma-
ginare le conseguenze negative della perdita di questo patrimonio e lo
smarrimento e la demoralizzazione che ne conseguono.
Tutto questo è avvenuto e avviene in un contesto in cui sul mercato del
.lavoro c' è stata un' evoluzione dei rapporti di forza sfavorevole ai prestatori
d'opera, sia a causa della disoccupazione sia per gli accresciuti margini di
manovra del capitale (maggiori possibilità di spostare, anche in tempi
relativamente brevi, investimenti e impianti dove più basso è il costo del
lavoro, cioè più alto è il tasso dello sfruttamento)l. In concreto, ciò si è
tradotto in un aumento dei tempi di lavoro reale e in una accelerazione dei
ritmi. C'è appena bisogno di dire che l'introduzione delle nuove tecnologie,
dei controlli informatizzati ecc. costituisce un forte stimolo addizionale in
questa direzione nella misura in cui permette di fissare un quadro comples-
sivo più rigido, e più indipendente dai comportamenti operai, rispetto alle
condizioni precedenti. In altri termini, diciamolo agli apologeti più o meno
confessi del capitalismo, l'alienazione del lavoro diventa ancora più infles-
sibile. Aggiungiamo - ed è un elemento niente affatto secondario - che, da
un lato, la pressione del mercato del lavoro, dall'altro, l'erosione dei salari
reali a causa dell' efficacia decrescente della scala mobile, hanno spinto i
lavoratori dipendenti ad accettare una generalizzazione degli straordinari,
con conseguenti maggiori differenzi azioni nei salari di fatto complessivi.
Questa tendenza è stata ed è deliberatamente accentuata con l'introduzione
di ogni sorta di incentivi e di premi, nel quadro del perseguimento della tanto
auspicata "individualizzazione" delle retribuzioni:
Livio Maitan 91

Altri due fattori contribuiscono ad accrescere le differenziazioni. Il


primo è che la nuova organizzazione del lavoro, al di là delle pretese di
razionalità e della mitica partecipazione attiva dei salariati a vari livelli
decisionali, spinge alla concorrenza tra gli operai di diversi reparti o
diversi settori di una stessa azienda, di aziende diverse dello stesso gruppo,
per non parlare di quella tra dipendenti di società rivali, con le inevitabili
separazioni tra "vincitori" e "vinti". Il secondo è che il decantato "model-
lo" giapponese comporta un ricorso massiccio ai subappalti, con l'asse-
gnazione di settori consistenti del processo produttivo ad aziende piccole
e medie dove le garanzie sindacali e giuridiche sono molto minori e quindi
più elevato è il tasso dello sfruttamento (e più precaria la stessa occupa-
zione).
La scomposizione e la frammentazione operaia sono dunque un feno-
meno reale, determinato da fattori che sono macro e microeconomici,
sociali e, in ultima analisi, politici. E sono politici perché in rapporto con
l'evoluzione complessiva dei rapporti di forza tra le classi e con gli
orientamenti strategici e tattici delle organizzazioni sindacali. Queste
ultime, invece di opporsi alle tendenze in atto e di contestare gli orienta-
menti e le ideologie padronali sulle nuove tecnologie e sulla nuova
organizzazione del lavoro, come in materia di "politica dei redditi", li
hanno fatti propri in modo sempre più sistematico, limitandosi a contra-
starne alcune delle conseguenze più negative, quasi sempre con mezzi del
tutto inadeguati. Al di là di tutti i discorsi e di concetti e terminologie
mistificanti, hanno accettato, maggioranza della CGIL in testa, ci sia
permessa l'approssimazione, l'ideologia del "modello" giapponese o della
burocrazia sindacale tedesca di venti o trent' anni or sono (il fatto che,
invece 'che di "cogestione", si preferisca parlare di "codeterminazione"
non cambia assolutamente nulla alla sostanza delle cose).

Un problema politico centrale

Uno dei risultati più negatividi questa "evoluzione",il cui inizio risale
alla fine degli anni '70, se non più indietro, è stato l'annullamento
pressoché totale delle specificità che avevano costituito gli elementi di
forza del movimento operaio e sindacale italiano rispetto a quello di altri
paesi. Per limitarci a due aspetti decisivi, si sono progressivamentesvuo-
92 Anticapitalismo e comunismo

tate di contenuto le grandi lotte per il rinnovo dei contratti nazionali delle
maggiori categorie, che, soprattutto tra la metà degli anni '60 e la metà
degli anni '70, erano state non solo scadenze sindacali o categoriali, ma
momenti centrali della lotta di classe e dello scontro politico, che segna-
vano l'intera vita nazionale2. Parallelamente, si sono sterilizzati quegli
strumenti di mobilitazione e di pressione dal basso che erano i consigli
sorti a partire dal' 69. Prima svuotati di contenuto e messi ai margini, sono
stati alla fine sotterrati per sostituirli, quasi sempre solo sulla carta, con
strumenti "nuovi", incomparabilmente meno democratici e in larga misura
lottizzati tra le varie sigle.
Il pesante ruolo negativo assolto dalle organizzazioni sindacali e, ancor
di più, il fatto che in quasi tutte le lotte e le vertenze più importanti ci sia
stato un distacco sempre più grande tra vertici e apparati, da una parte, e,
dall'altra, settori consistenti e non di rado maggioritari di lavoratori,
confortano la conclusione che si può ricavare dagli altri elementi analitici
sinteticamente richiamati. I fattori strutturali sono reali e non possono
essere ignorati o negati luddisticamente, ma gli sbocchi sociali e politici,
di cui tutti possono constatare la portata negativa per la classe operaia, non
erano affatto predeterminati. In altri termini, non esisteva e non esiste
nessuna fatalità tecnologico-strutturale o socio-economica. L'azione dei
sindacati e di tutto il movimento operaio avrebbe potuto produrre esiti
diversi. Potrebbe ancora conseguire risultati diversi, a condizione che
siano decisamente contrastate le tendenze in atto e si adottino nuovi
metodi.
Non pretendiamo di rispondere qui agli ardui problemi che si pongono.
Si tratta, in un certo senso, di una prova del fuoco per tutti i militanti
impegnati, all'interno delle confederazioni o al di fuori di esse, nei
tentativi di rinnovamento sindacale e nell'impresa di rifondazione comu-
nista. Limitiamoci a ribadire che il punto di partenza deve essere la
rifondazione dell'indipendenza e dell'autonomia operaia, partendo dal
rifiuto della logica dell' accumulazione capitalistica e delle impostazioni
economiche delle classi dominanti. Bisogna ristabilire, con un'azione al
tempo stesso paziente e intransigente, tutti gli elementi di unificazione
oggetti vamente possibili rilanciando la tematica democratica dell' auto-or-
ganizzazione e la tematica egualitaria, che sono state il sale della terra nei
momenti più alti della storia del movimento operaio, anche negli ultimi
cinquant' anni.
Livio Maitan 93

Questi motivi di rilancio, nel contesto di un prolungarsi dell' onda lunga


di ristagno e di persistenti innovazioni tecnologiche, vanno ricercati - lo
abbiamo già accennato - su un triplice piano:
a) la riduzione generalizzata dell'orario di lavoro (senza riduzione di
salario);
b) la garanzia di un reddito minimo necessario per tutti coloro che sono
espulsi, temporaneamente o indefinitamente, dal processo produttivo o
non hanno mai potuto parteciparvi;
c) la costruzione dal basso, sui luoghi di lavoro, di organismi che
consentano nuove forme di controllo operaio e un nuovo condizionamen-
to, nell'interesse dei lavoratori, dei processi produttivi e dell'organizza-
zione del lavoro - nella misura in cui questo è possibile mentre sussiste il
sistema capitalista.
In conclusione, una ricomposizione del tessuto della classe operaia e
-
una sua riunificazione che comprende l'integrazione a parità di condi-
zioni dei lavoratori immigrati - sono il presupposto necessario di un
rilancio e di una rifondazione. Ma, in ultima analisi, il problema va posto
in termini assai più politici che socio-economici. In questo senso, la sua
soluzione dipende dalla nostra capacità di comprensione, di azione e di
iniziativa.

Con quale ''materiale'' rifondare?

L'opera di rifondazione si scontra con difficoltà e contraddizioni anche


sul piano più strettamente politico-organizzativo.
Le forze a disposizione, pur minoritarie, sono in Italia più consistenti
che in qualsiasi altro paese dell'Europa occidentale; rappresentano un
patrimonio politico da valorizzare; riflettono una presenza in movimenti
di massa e un radicamento sociale diffuso, anche se parziale e non ancora
strutturato. Sono, tuttavia, costituite in misura preponderante da militanti
impegnati a partire dalla metà degli anni '40 o dall' inizio degli anni '50 e
dalle leve del 1968-69 o della prima metà degli anni '70. Questa preva-
lenza è ancora maggiore a livello di dirigenti nazionali e di nuclei di
direzione locale.
Si tratta, dunque, di forze che hanno subito un'usura inevitabile e che
sono state segnate da una serie di insuccessi, soprattutto da un quindicen-
--

94 Anticapitalismo e comunismo

nioa questa parte. La maggioranza di questi quadri e militanti, provenienti


dalla rottura di Rimini con la maggioranza dell'ex-PCI, si sono formati
sulla base di esperienze che, a prescindere dal giudizio che se ne voglia
dare, appartengono al passato. Appartengono a un'epoca in cui la grande
maggioranza del movimento operaio aveva punti di riferimento interna-
zionali ora scomparsi; in cui si operava in un contesto interno radicalmente
diverso dall' attuale; in cui il peso della lotta antifascista e della Resistenza
era qualitativamente più importante; in cui esistevano strumenti politici e
organizzativi oggi esauriti o straordinariamente deformati3; in cui esiste-
vano nel tessuto sociale spezzoni di società operaia con le sue istituzioni
-
e i suoi valori. Se vogliamo essere materialisti non certo fare processi
-
alle intenzioni dobbiamo prendere atto che tutto questo non può non
pesare seriamente, al di là di tutti i buoni propositi. E ciò vale forse ancor
di più nel caso di dirigenti che devono assolvere compiti nuovi ed estre-
mamente ardui per cui le esperienze precedenti non possono essere di aiuto
che molto parzialmente.
Considerazioni analoghe valgono per coloro che sono scesi in campo
nella seconda metà degli anni '60 e nella prima metà degli anni '70 e
provengono da organizzazioni di estrema sinistra, tramite Democrazia
proletaria o per altre vie. Anch' essi si sono formati in un contesto nazio-
nale e internazionale ben diverso; per tutto un periodo, hanno maturato in
funzione delle esigenze di una fase di ascesa e di grandi mobilitazioni;
sono stati influenzati da miti e ideologismi; hanno acquisito e mantenuto
a lungo metodi organizzativi che, al di là delle proclamazioni spontanei-
stico-basiste, non assicuravano una vita interna democratica e assumeva-
no, se non addirittura teorizzavano, concezioni manipolatori e dei rapporti
tra movimenti di massa e organizzazioni politiche, non di rado feticizzate.
Nessuno ha potuto fare le esperienze necessarie per affrontare i problemi
di costruzione o ricostruzione di un tessuto complessivo del movimento
operaio, di organizzazioni di massa di centinaia di migliaia di aderenti e
delle dimensioni anche dell'attuale Partito della rifondazione comunista.
Quel che, in ultima analisi, è ancora più importante, i militanti provenienti
da queste esperienze, come quelli che provengono da esperienze critiche
di sinistra ancora più lontane, ne siano o no pienamente consapevoli,
hanno interiorizzato una serie di insuccessi nella misura in cui non sono
riusciti a costruire quelle organizzazioni rivoluzionarie con base di massa
di cui avevano affermato l'esigenza.

j
-

Livio Maitan 95

Non si tratta di battersi il petto o di celebrare riti autocritici, ma di


prendere coscienza di queste realtà e delle difficoltà che ne derivano.
Ancora una volta, questa presa di coscienza è il necessario punto di
partenza.
Esiste, tuttavia, un altro, primordiale presupposro del successo dell'im-
presa di rifondazione. La ricomposizione socio-politica necessaria e una
nuova ascesa della classe operaia e dei vari movimenti di massa potranno
realizzarsi, in ultima analisi, solo se entreranno in campo come protago-
nisti militanti delle nuove generazioni. Questo è vero oggi, come lo è stato
in altre fasi crociali, negli ultimi anni di guerra e nell'immediato dopo-
guerra e alla fine degli anni '60. Sulla base di quali spinte e di quali stimoli
specifici si formerà una nuova generazione militante, quali saranno i
percorsi di nuove prese di coscienza, in quali modi verranno ripresi e
riformulati i valori e le finalità del comunismo, sarebbe vano cercar di
prevedere. Ma dovremo acuire al massimo la nostra sensibilità, rifiutando
meccaniche analogie con il passato, per cogliere a tempo i segnali che
J verranno.
Il problema dell'apporto delle nuove generazioni non è meno acuto per
la costruzione del partito in senso più immediato. L'impresa di rifonda-
zione ha senza dubbio un'eco in strati giovanili, nelle scuole medie, nelle
Università e, in minore misura, tra giovani operai. Ma la componente
giovanile organizzata è ancora molto scarsa e non ha il peso che dovrebbe
avere nella vita e nell'elaborazione del partito. I risultati elettorali, con le
indicazioni fornite, tra l'altro, dal raffronto tra i voti per la Camera e quelli
per il Senato, sono un segnale di allarme che sarebbe autolesionistico
sottovalutare.

Note

l La dura realtà di questi anni ha fatto dimenticare o rigettare la "teoria" secondo


cui il salario avrebbe rappresentato una "variabile indipendente" e che era stata
accolta, per opportunismo demagogico, anche da dirigenti sindacali. Questa "teo-
ria" partiva dalla constatazione giusta che i rapporti di forza sul mercato del lavoro
avevano avuto un'evoluzione favorevole ai prestatori d'opera per trarre la conclu-
sione errata che il prezzo della manodopera, in una società capitalistica, possa
prescindere dall'andamento del mercato del lavoro.
2 Le scadenze di contratti nazionali esistono ovviamente anche in altri paesi,

-
96 Anticapitalismo e comunismo

ma di solito vengono affrontate dai sindacati con uno spirito collaborazionista


senza ricorrere a mobilitazioni dal basso. È stato, per esempio, il caso, per lunghi
anni, della Svezia e del Giappone.
3 Pensiamo, oltre ai sindacati di cui già abbiamo parlato, alle cooperative che
hanno sempre di più adottato criteri di gestione capitalistici.
Livio Maitan 97

Capitolo nono

UN NODO CENTRALE: LA DEMOCRAZIA OPERAIA

Gli storici futuri analizzeranno certamente le ragioni del fallimento


delle società di transizione burocratizzate. Forse ancor più si chiederanno
perché il movimento operaio - in primo luogo nei paesi in cui ha origini
più lontane, radici più profonde e ha occupato un posto socialmente e
politicamente più rilevante - sia stato condannato al destino di Sisifo, abbia
cioè registrato periodicamente l'usura o l'annullamento delle sue conqui-
ste e, soprattutto, abbia subito sconfitte decisive in fasi critiche delle
società capitalistiche. Potranno sforzarsi di individuare cause sociologi-
che, cioè legate alla natura stessa della classe operaia, alla sua collocazione
nei processi produttivi, come cause politiche, cioè legate al suo inserimen-
to nelle istituzioni con tutte le tensioni e le contraddizioni che ne sono
derivate. Potranno sviluppare analisi differenziate a seconda dei paesi e
delle diverse aree geografiche, individuando cause specifiche e fattori più
generali. Potranno combinare l'una e l'altra cosa.

Democrazia negata

Senza attendere il verdetto degli storici, ci permettiamo di avanzare


una ipotesi interpretati va, che, senza pretendere di fornire una spiegazione
complessiva, coglie una contraddizione secondo noi fondamentale. Que-
sta contraddizione consiste nel fatto che la classe operaia ha acquistato, in
98 Anticapitalismo e comunismo

particolare nei paesi dell 'Europa occidentale, un peso specifico socio-eco-


nomico determinante, ma non è riuscita a tradurre questo suo peso speci-
fico in strumenti organizzativi e in istituzioni che le permettessero di
esprimere le sue potenzialità e di svolgere in prima persona quel ruolo
egemonico di cui esistevano i presupposti materiali. In realtà, i momenti
alti di una democrazia operaia non sono stati che degli interludi, regolar-
mente seguiti dal ritorno a pratiche consuetudinarie di appiattimento, di
normalizzazione burocratica, di delega a corpi cristallizzati di funzionari,
a intellettuali ideologicamente manipolatori e a capi cosiddetti carismatici.
Non vanno ignorate le cause oggettive di tutto questo o, detto altrimen-
ti, non vanno ignorati i fattori che hanno favorito un simile stato di cose.
In sintesi:
- la principale difficoltà oggettiva proviene dallo stesso inserimento
nel processo produttivo, cioè dalla condanna a un lavoro logorante "ed
alienante, con una limitazione rigorosa del tempo libero e la difficoltà di
raggiungere un soddisfacente livello culturale. Negli ultimi decenni il
livello culturale medio è incontestabilmente aumentato, ma le costrizioni
della vita lavorativa quotidiana non sono per questo scomparse. D'altra
parte, nel contesto dato, l'acquisizione di un più elevato livello culturale
nasconde l'insidia di un adattamento, più o meno consapevole, ai "model-
li" e ai valori della classe dominante e forse ancor di più delle classi medie
agiate.
- la composizione del movimento operaio organizzato e della sua area
è stata quasi sempre caratterizzata dalla presenza e dal ruolo attivo non
tanto di elementi provenienti dalla borghesia, la cui incidenza è stata di
norma quantitativamente limitata, quanto da elementi provenienti dai
diversi strati piccolo-borghesi. Non intendiamo qui suggerire un ritorno a
certe concezioni rigidamente operaiste delle origini. Ma non possiamo non
constatare che elementi di provenienza piccolo-borghese e spesso di
confusa matrice culturale hanno avuto tradizionalmente un ruolo di primo
piano nelle elaborazioni teoriche e politiche e nella pratica quotidiana
delle organizzazioni operaie, per non parlare della loro incontrastata
egemonia sul piano culturale. Questo ruolo era in larga misura inevitabile
nelle prime fasi di costruzione e di maturazione ed è stato, per vari aspetti,
positivo. Lo è stato egualmente in fasi critiche di radicalizzazione e di
presa di coscienza anticapitalista di ampi strati sociali attratti dalle mobi-
litazioni operaie e dagli ideali socialisti. Ma non si può dire la stessa cosa
Livio Maitan 99

per i periodi di ristagno e di routine, che sono stati tanta parte di un


percorso secolare. I fenomeni negativi si sono accentuati via via che gli
elementi di origine piccolo-borghese - unitamente ai funzionari per cui la
provenienza sociale, fosse pure operaia e contadina, ha contato molto
meno della logica di apparato - hanno occupato un posto preponderante
nelle rappresentanze istituzionali, prevalendo alla fine negli stessi organi-
smi dirigenti di partito. Il discorso è un po' diverso, per ovvie ragioni, per
quanto riguarda i sindacati; ma non di rado incarichi di massima respon-
sabilità sono spettati a persone di provenienza piccolo-borghese e intellet-
tuale, magari espressione di apparati di partito, che mai nella loro vita
avevano svolto un lavoro dipendente (o lo avevano svolto in anni remoti
della loro gioventù).
- difficoltà oggettive di funzionamento, specie per organizzazioni di
centinaia di migliaia o addirittura di milioni di aderenti, tendono a creare,
al di là delle intenzioni, un divario permanente tra le norme statutarie
(peraltro non sempre realmente democratiche) e l'esercizio effettivo dei
diritti di partecipazione e di controllo. I dirigenti in generale e gli intellet-
-
tuali più in particolare per non parlare dei leader carismatici, vero e
proprio flagello non ancora debellato, nonostante la lunga sequenza di
-
esperienze disastrose hanno mille modi di far valere le loro idee e i loro
orientamenti, mentre i comuni mortali della "base" non possono esprimere
le loro opinioni che in rare circostanze e quasi sempre che con limitazioni,
normative o di fatto, molto gravi.
Nel clima creato dal crollo dei regimi dell'Europa orientale, prevale
ancor più che in passato la tendenza ad attribuire tutti i mali del movi-
mento operaio allo stalinismo e agli Stati e ai partiti sotto la sua egemonia.
È una delle tante ricorrenti falsificazioni storiche. La realtà è che la
burocratizzazione del movimento operaio ha largamente preceduto lo
stalinismo e la stessa conquista del potere in Russia e non occorrono
particolari virtù profetiche per prevedere che continuerà in futuro. Fare-
mo più avanti alcuni esempi tra i più significativi. Basti qui ricordare che
i primi a subire processi di burocratizzazione sono stati i partiti socialde-
mocratici o socialisti, ben prima che i partiti comunisti vedessero la luce.
Questi processi hanno costituito sin dal primo decennio del secolo un
ostacolo sostanziale al progredire di una coscienza autonoma e indipen-
dente della classe operaia e all' espressione del suo potenziale socio-po-
litico antagonista.
100 Anticapitalismo e comunismo

Significative esperienze storiche

Ci vorrebbero letteralmente dei volumi per affrontare il tema del


restringimento e del soffocamento della democrazia nel corso della storia
del movimento operaio. Qui possiamo solo fare alcuni esempi, su diversi
piani, tanto più significativi in quanto si riferiscono a organizz&zioni non
certo tra le più sclerotizzate e le meno sensibili alle esigenze dei militanti
che vi appartenevano.
Per cominciare, due esempi che riguardano il movimento operaio
tedesco.
Nell'estate 1914 il Partito socialdemocratico prendeva la decisione di
associarsi alla guerra imperialista, provocando una rottura lacerante con
il suo patrimonio ideologico e le sue scelte politiche precedenti. Questa
decisione cruciale è stata presa ai vertici senza nessuna partecipazione non
diciamo della classe operaia, ma neppure dei militanti del partito e delle
organizzazioni sindacali. Non.si tratta di idealizzare la classe operaia in
quanto tale e di contrapporre astrattamente base e dirigenti. Ma è legittimo
chiedersi se le cose sarebbero andate allo stesso modo, se si fosse svilup-
pata, a tutti i livelli, una discussione realmente democratica. Si dirà che,
dato il clima che si era creato con lo sciovinismo dilagante, la decisione
non sarebbe stata diversa. Non ne siamo affatto certi. Si sarebbe espressa,
comunque, una forte opposizione e questo avrebbe facilitato la ricompo-
sizione successiva, fornendo una base di partenza più consistente di quella
su cui hanno potuto contare nel 1918 Rosa Luxemburg e gli spartachisti.
Il secondo esempio si riferisce agli anni che hanno preceduto l'avvento
del nazismo. Esiste ormai un largo consenso sul fatto che una delle cause
principali della vittoria di Hitler è stata la divisione del movimento
operaio, che ha impedito di realizzare un fronte unico contro il nemico
comune. L'atteggiamento del Partito comunista era stato senza dubbio
ispirato dal Comintern, ormai sotto controllo staliniano, con le famigerate
tesi del cosiddetto terzo periodo. Ma non meno pesanti sono state le
responsabilità dei socialdemocratici, che, niente affatto disposti a fare
blocco con i comunisti, hanno sperato sino all'ultimo di di poter scongiu-
rare l'avvento del nazismo con il rilancio di quelle alleanze con partiti
borghesi che avevano stabilito, in varie forme e con fortune alterne, nel
decennio precedente. Se le decisioni, invece di essere delegate ai vertici,
fossero state prese con la partecipazione diretta dei militanti e delle
Livio Maitan 101

militanti di entrambi i partiti, che erano il bersaglio degli attacchi delle


bande hitleriane negli stessi quartieri e sugli stessi luoghi di lavoro, è forse
azzardata l'ipotesi che l'idea del fronte unico si sarebbe imposta con serie
possibilità di tradursi in pratica? C'è appena bisogno di ricordare che
nell'uno e nell'altro caso le scelte fatte ai vertici hanno avuto effetti
estremamente negativi per la storia dell'intero movimento operaio in un
paese decisivo per le sorti dell'Europa.
Se passiamo alla Russia post-rivoluzionaria, l'interrogativo che si sono
posti da tempo coloro che hanno rigettato lo stalinismo e che si pone con
maggior forza oggi dopo il crollo dell'URSS, è se certe decisioni prese
non solo dopo la morte di Lenin, ma anche negli anni immediatamente
successivi alla vittoria della rivoluzione non abbiano favorito l' involuzio-
ne burocratico-autoritaria. È ovviamente difficile dire se questa involuzio-
ne sarebbe stata evitata qualora questa o quella decisione fosse stata
diversa. Si possono, tuttavia, indicare tra i fattori che hanno pesato
negativamente, da un lato, la scelta, nei fatti prima ancora che in teoria,
del monopartitismo, dall'altro le limitazioni al funzionamento democrati-
co del partito introdotte dal X congresso. Soprattutto su quest'ultima
misura un dibattito c'era stato, ma senza una partecipazione democratica
dal basso del genere di quelle che avevano caratterizzato in altri momenti
il partito bolscevico. Eppure la posta in giuoco, era non solo il funziona-
mento interno del partito, ma, in ultima analisi, la dialettica stessa della
società rivoluzionaria, come è apparso chiaramente dagli sviluppi succes-
sivi.
Per restare nello stesso periodo, una riflessione sul funzionamento del-
l'Internazionale comunista. I discorsi a proposito di questa organizzazione
continuano il più delle volte a ignorare le sue distinte fasi e i mutamenti
radicali intervenuti a partire dalla metà degli anni '20, combinando così
falsificazione storica e mistificazione politica. La prassi dei primi quattro o
cinque anni dell'Internazionale - con i congressiannuali,in cui si confron-
tavano liberamente orientamenti diversi e diverse correnti, se non addirittura
frazioni - ha ben poco a che vedere con i lugubri meccanismidell'epoca
successiva con tutta la sequela di imposizioni amministrative, di espulsioni
e, più tardi, di liquidazioni fisiche. Ma questa distinzione necessaria non
deve impedirci di constatare che anche nell' epoca migliore la partecipazione
democratica ai dibattiti e, a maggior ragione, alle decisioni non è andata, il
più delle volte, al di là dei gruppi dirigenti dei partiti aderenti e non ha
102 Anticapitalismo e comunismo

coinvolto la base e gli stessi quadri intermedi, senza contare che il partito
russo aveva un ruolo egemonico schiacciante. Questo spiega, almeno in
parte, perché non sia stato realizzato sistematicamente e tempestivamente
nei nuovi partiti in costruzione il lavoro di formazione teorico-politica
assolutamente indispensabile. Di conseguenza i vari partiti comunisti sono
stati più esposti al rischio di commettere errori anche molto gravi e, cosa
ancora più importante, non ci sono state che resistenze piuttosto scarse e
poco durature alla involuzione staliniana.
Trasferendoci in un altro settore geo-politico, in un' altra fase storica,
riferiamoci al caso del Fronte sandinista del Nicaragua. Non si tratta
affatto di un esempio particolarmente negativo, al contrario, dell' esperien-
za per molti aspetti altamente positiva di una organizzazione che è stata
alla testa di una rivoluzione vittoriosa. Se il FSLN non avesse stabilito
profondi legami democratici con settori decisivi della classe operaia, dei
contadini e delle masse plebee urbane, non avrebbe avuto il loro appoggio
al momento dell'insurrezione del 19 luglio. Ma oggi, nel bilancio che è
necessario fare e che, in una certa misura, è stato già fatto dallo stesso
FSLN e in particolare da alcuni suoi settori, non si possono sottovalutare
i limiti dello Stato sorto dalla rivoluzione, come pure del Fronte, dal punto
di vista dell'esercizio di una democrazia operaia e popolare. Nel vivo
dell'ascesa rivoluzionaria sono sorti i CDS, organismi genuinamente
democratici per la loro origine e composizione. Ma successivamente,
lungi dal divenire gli organismi democratici costitutivi del nuovo Stato,
che avrebbero permesso alle grandi masse di partecipare attivamente e
direttamente alla direzione del paese e alla gestione dell' economia, hanno
assunto mansioni ben più limitate, svuotandosi abbastanza rapidamente
dei loro contenuti più genuini e perdendo i legami di massa che avevano
costituito il loro punto di forza. Quanto al FSLN, nonostante i propositi
ripetutamente espressi e che erano un riconoscimento di quello che sareb-
be stato necessario fare, non si è mai strutturato veramente come un partito
democraticamente organizzato. Tutte le decisioni sui problemi più impor-
tanti sono state regolarmente prese dalla direzione ristretta dei nove
comandanti - risultato dell'accordo tra le tendenze in cui a un certo
momento il Fronte si era diviso - con l'assegnazione di un ruolo solo
consultivo a un' assemblea più ampia, peraltro convocata piuttosto rara-
mente. È significativo che il primo congresso del FSLN sia stato convo-
cato solo nel luglio 1991, ben dodici anni dopo il rovesciamento di
Livio Maitan 103

Somoza! Per di più, dopo accese discussioni, è stato deciso di mantenere


in tutte le sue responsabilità il gruppo dirigente originario, cui sono state
delegate decisioni di grande portata del periodo successivo (per esempio,
l'adesione a pieno titolo alla Internazionale socialista). Le conseguenze di
questa pratica di direzione erano emerse alla luce del sole al momento
della sconfitta elettorale, che aveva colto i sandinisti del tutto di sorpresa
(la festa per celebrare la vittoria era praticamente iniziata quando giunge-
vano i primi risultati negativi). I dirigeVti avevano in larga misura perduto
il legame vivo con vasti settori di massa, di cui non percepivano più
esigenze e sentimenti.
Brevemente, infine, qualche esempio sul movimento operaio italiano,
le cui vicende sono ovviamente più note.
Per quanto riguarda il movimento sindacale, un momento cruciale del
periodo di ristagno e di arretramento iniziatosi alla fine degli anni '70 è
stato senza dubbio la svolta dell'EUR nel 1978. Ebbene, l'assemblea che
ha avallato questa svolta, aveva una rappresentatività democratica del tutto
contestabile per la sua stessa composizione. Non è affatto infondata
l'ipotesi che, se i meccanismi decisionali fossero stati diversi, cioè se i
nuovi orientamenti prospettati fossero stati sottoposti al giudizio di tutti i
lavoratori, organizzati e non organizzati, in un quadro di discussione che
permettesse di valutare tutte le implicazioni, il nuovo corso avrebbe potuto
essere respinto. A maggior ragione, si può ritenere che alcune delle lotte
più importanti che hanno avuto luogo dopo di allora - a cominciare dalla
lotta alla PIAT - avrebbero potuto essere condotte diversamente e con
diversi risultati, se la decisione fosse spettata ai lavoratori direttamente
interessati e se tutti avessero potuto decidere se era possibile e necessario,
in determinati momenti, mobilitare la solidarietà attiva di tutte le categorie
e prepararsi eventualmente a una prova di forza generale per bloccare
l'offensiva del padronato e del governo.
Due soli esempi per quanto riguarda il vecchio Partito comunista. Se
la politica di compromesso storico, invece di essere formulata direttamen-
te sulle colonne di "Rinascita", e, successivamente, la politica di solida-
rietà nazionale fossero state sottoposte a un' ampia discussione
democratica nelle file del partito, sarebbero egualmente passate? Ancor
meno certo è, a nostro avviso, che sarebbe stata approvata la scelta di
accettazione di quel Patto Atlantico contro cui il PCI aveva condotto a suo
tempo una delle sue battaglie più significative.
104 Anticapitalismo e comunismo

Infine, per riferirsi all'attualità, mentre scriviamo, le pagine dei gior-


nali sono piene di notizie sui vari scandali, in cui il più gravemente
coinvolto è il Partito socialista. Ci chiediamo: se il PSI avesse mantenuto
anche solo i suoi modi di funzionamento, peraltro tutt'altro che impecca-
bili, del periodo prefascista o dei primi decenni del dopoguerra e non si
fosse istaurata l'autocrazia craxiana, con la scomparsa di ogni tendenza o
corrente di opinione e con l'elezione plebiscitaria del "capo" direttamente
dai congressi, la vorace schiera di arrampicatori, corrotti e corruttori, non
avrebbe incontrato maggiori difficoltà nel portare a termine le sue impre-
se?
Si dirà che una vera democrazia operaia è forse un obiettivo utopistico
e che una battaglia in questo senso è perduta in partenza. Il massimo che
si può sperare è introdurre qualche correttivo di buon senso.
Respingiamo una simile argomentazione, obiettivamente infondata e,
in fondo, fatalistica e disfattista. Se è vero che l'assenza di una reale
democrazia operaia nel senso che abbiamo indicato, rappresenta una
costante nella storia del movimento operaio, ci sono stati, tuttavia, dei
momenti alti, in cui, in forme diverse, questa democrazia si è effettiva-
mente concretizzata. In linea generale, proprio in questi momenti sono
stati possibili vittorie rivoluzionarie, significative conquiste o passi avanti
sostanziali nei processi di presa di coscienza.
C'è appena bisogno di rievocare le vicende della rivoluzione russa. Nei
momenti culminanti delle rivoluzioni del 1905 e del 1917 sono comparse
sulla scena come protagoniste masse enormi di operai e di contadini, che
per la prima volta nella storia hanno potuto far valere i loro interessi,
esprimere i loro sentimenti e le loro aspirazioni: non solo con le mobilita-
zioni, ma anche e soprattuttocon l'invenzione - in questo caso, è legittimo
-
l'uso di questo termine di organismi democratici per eccellenza, cioè i
soviet o consigli. Particolare degno di nota: nel 1905, le formazioni
operaie già esistenti e gli stessi bolscevichi sono stati colti di sorpresa da
questa "invenzione", hanno esitato di fronte al nuovo, prodotto dal fer-
mento rivoluzionario democratico. Va loro riconosciuto il merito di avere
rettificato abbastanza rapidamente il tiro.
Fatte le debite proporzioni, qualche cosa di simile è avvenuto in Italia
alla fine della prima guerra mondiale, quando il punto culminante dell'a-
scesa è stato segnato dalla formazione dei consigli torinesi, che è stata una
delle espressioni più feconde di democrazia operaia nel nostro movimento
Livio Maitan 105

operaio e ha contribuito alla formazione di quadri e di dirigenti che


avrebbero dato vita al Partito comunista. Le vicende di cinquant'anni
dopo, tra il 1968 e il 1975, sono vive nella memoria di almeno due
generazioni di militanti: nel contesto di una crisi sociale e politica del
-
sistema, si è assistito di nuovo al di fuori delle organizzazioni e organismi
esistenti e in larga misura in contrapposizione ad essi - a un processo
impetuoso di presa di coscienza democratica, dalle potenzialità rivoluzio-
narie. Questo processo si è tradotto in un rinnovamento anche organizza-
tivo del tessuto operaio, in particolare con la formazione di consigli, che,
pur non raggiungendo i livelli del 1920, hanno costituito, nelle esperienze
più avanzate e nel corso delle lotte più importanti, l'espressione di una
genuina democrazia operaia, con cui anche i dirigenti più anchilosati
hanno dovuto fare i conti. C'è bisogno di ricordare che proprio quando più
forti sono state le mobilitazioni operaie e più democratici sono stati gli
strumenti di organizzazione, il movimento operaio ha esercitato un mas-
simo di forza di attrazione verso altri movimenti, in primo luogo il
movimento studentesco, e verso strati sociali tradizionalmente diffidenti
nei suoi confronti e su cui è riuscito a esercitare una sua egemonia senza
far ricorso a pratiche manipolatorie?
Un altro esempio è quello della rivoluzione portoghese alla metà degli
anni '70. In un paese che aveva vissuto lunghi decenni di dittatura e in cui
per gran parte della sua storia il movimento operaio era stato costretto alla
clandestinità, nel giro di pochi mesi non solo era rovesciata la dittatura,
ma emergevano e si sviluppavano organizzazioni e movimenti di massa
ad alti livelli di politicizzazione. Sorgevano strumenti democratici dal
basso; fabbriche importanti erano occupate e si creavano embrioni di
gestione operaia; i dibattiti sulle piazze, sui luoghi di lavoro, nelle Uni-
versità e nelle caserme affrontavano problemi che si erano accumulati da
decenni, partendo dalle acquisizioni più valide del movimento operaio di
altri paesi. Era un processo di democratizzazione in profondità, che
permetteva alle classi sfruttate di far valere il loro peso e di ottenere
conquiste parziali per alcuni aspetti più importanti di quelle ottenute in
altri paesi europei dalla fine della guerra.
Altro esempio, a proposito degli Stati Uniti, cioè di un paese in cui il
movimento operaio ha incontrato le maggiori difficoltà per costruirsi e,
tranne che per brevi periodi e in settori circoscritti, non ha raggiunto la
propria indipendenza politica rispetto alle classi dominanti. Ebbene, anche
106 Anticapitalismo e comunismo

in questo paese, così permeato di ideologia borghese, ci sono stati degli


interludi luminosi, durante i quali forme ed esperienze di democrazia
operaia si sono affermate, stimolando prese di coscienza democratiche e
classiste da parte di centinaia di migliaia e persino di milioni di lavoratori,
con un impatto reale sulla situazione generale del paese. Il più significativo
di questi momenti risale alla metà degli anni '30, con grandiose lotte
operaie, di cui sono state teatro grandi città e regioni intere, con occupa-
zioni di fabbriche e altre forme di lotta anche molto dure. Il punto di arrivo
è stato una profonda trasformazione delle strutture sindacali, con l' esplo-
sione delle forme anchilosate tradizionali e l'emergere dei grandi sindacati
del CIO. Il fatto che questa nuova centrale sia entrata in una fase di declino
già a partire dagli anni '50, all'epoca oscura del maccarthismo, divenendo
a sua volta uno strumento ultraburocratico, e abbia finito col riunificarsi,
ai livelli più arretrati, con la vecchia centrale, non deve indurre a sottova-
lutare le potenzialità esistenti alla sua formazione e il significato delle
esperienze di quel periodo.
Infine, per limitarci all'ambito più ristretto della vita interna di partito,
quando un gran numero di quadri e di militanti si sono impegnati attiva-
mente in dibattiti di fondo, prendendo coscienza dei problemi che si
ponevano su scala nazionale e internazionale?
Un primo esempio può essere quello dei dibattiti che hanno attraversato
il Partito socialista dalla vittoria della rivoluzione d'Ottobre alla scissione
di Livorno. Non ignoriamo i limiti di quei dibattiti, le loro ingenuità, i loro
ultimatismi, le straordinarie cariche emotive che li hanno segnati. Resta
che per la prima volta centinaia di migliaia di lavoratori hanno discusso i
problemi nodali di una strategia anticapitalista e della costruzione di un
partito rivoluzionario e di una Internazionale comunista.
Su un piano diverso e in un diverso periodo, un valido esempio resta
ai nostri occhi quello delle discussioni che si sono svolte per alcuni mesi
nel Partito comunista all'indomani del terremoto provocato dal XX con-
gresso del PCUS e dal rapporto Krusciov. Raramente, c'è stato nel
movimento operaio italiano un dibattito così ampio, in cui le bocche si
sono aperte e sono emersi alla luce del sole dubbi, critiche e lacerazioni
sino a quel momento sotterranee. Nonostante i tentativi, parzialmente
riusciti, di normalizzazione, che hanno impedito alla riflessione critica di
giungere alle conclusioni già allora possibili sull'URSS e sullo stalinismo,
il partito non è ritornato più a quello che era stato prima.
Livio Maitan 107

Linee di un rinnovamento

Dopo le esperienze negative delle società di transizione burocratizzate


e del monopartitismo e della pratica secolare di partiti burocratici nelle
società capitaliste, si deve ribadire con assoluta chiarezza l'idea che la
battaglia anticapitalista della classe operaia per una nuova società può
essere condotta efficacemente e ottenere risultati duraturi solo valendosi
di strumenti autonomi e distinti, ciascuno dei quali con specifiche funzio-
ni. La convergenza su obiettivi comuni non può realizzarsi con l'imposi-
zione unilaterale di una egemonia di partito; deve essere una convergenza
nelle scelte e negli orientamenti, di cui è condizione pregiudiziale la più
ampia e costante dialettica.democratica.
La classe operaia e gli altri strati sfruttati hanno e continueranno ad
avere bisogno di organizzazioni sindacali, che tutelino i loro interessi
come prestatori d'opera, inseriti nei processi produttivi; di movimenti e di
organismi di massa che abbraccino un ambito più vasto di quello dei
sindacati ed esprimano complessivamente le forze sociali antagoniste al
capitalismo; di partiti che sappiano elaborare prospettive strategiche e di
condurre battaglie sul terreno delle alternative politiche. Esistono ed
esisteranno, poi, movimenti non riduci bili alla classe operaia, una gamma
vasta e differenziata, dai movimenti di liberazione della donna, la cui
specificità e la cui originalità storica devono essere pienamente assimilate,
ai movimenti contro la guerra, ai movimenti ecologisti, ai movimenti
studenteschi o più genericamente giovanili. Il movimento operaio dovrà
impegnarsi a fondo perché tutti questi movimenti siano coinvolti in una
dinamica comune di lotta anticapitalista, ma deve rinunciare una volta per
tutte a limitare in un qualsiasi modo la loro autonomia e a imporre
dall' esterno la propria egemonia.
Un secondo richiamo di ordine generale riguarda la vexata quaestio
dei rapporti delle organizzazioni operaie e dei movimenti di massa con le
istituzioni. Si tratta di un problema che è stato e resta cruciale in paesi a
regime democratico parlamentare o presidenziale, specie quando questo
quadro non costituisce un semplice interludio (come è stato ed è il caso di
un gran numero di paesi sottosviluppati). In proposito, le lezioni dell' e-
sperienza storica, almeno per chi non voglia fare la politica dello struzzo,
sono assolutamente cristalli ne e vanno tutte nella stessa direzione.
Sarebbe assurdo, irrealistico, non solo negare ogni rapporto con le
108 Anticapitalisnw e comunismo

istituzioni, ma anche sottovalutare i vantaggi che si possono trarre da una


presenza nelle istituzioni stesse. Ma sarebbe irresponsabile non rendersi
conto delle conseguenze negative di un inserimento indefinitamente pro-
lungato, di cui non siano definite le finalità e in assenza di validi contrap-
pesi, ideologici, politici e organizzati vi. Che, per quanto riguarda i
sindacati, l'inserimento istituzionale - siano o no i loro dirigenti formal-
mente presenti nei parlamenti - comporti il rischio di una subordinazione
ai governi e allo Stato e di una accettazione dei meccanismi socio-econo-
mici esistenti, è davanti agli occhi di tutti. Un analogo discorso va fatto
anche per altri movimenti di massa, che rischiano di trasformarsi, nella
migliore delle ipotesi, in semplici strumenti di pressione.
Ma il rischio non è affatto meno grave per partiti che intendano essere
anticapitalisti e comunisti. Tutta la storia del movimento operaio sta a
dimostrare che la conseguenza di un indiscriminato inserimento nelle
istituzioni ha come conseguenza che l'attività parlamentare (o ammini-
strativa locale) diventa preminente ed elemento decisivo dell' elaborazione
della linea di un partito e dei suoi atteggiamenti quotidiani. Quali siano i
risultati a medio e a maggior ragione a lungo termine, lo hanno dimostrato
tutte le esperienze dei partiti socialdemocratici sin dagli inizi del secolo.
I risultati non sono stati qualitativamente diversi nel caso di partiti
comunisti inseriti negli stessi meccanismi ed esposti ad analoghi condi-
zionamenti. Ci si può chiedere, in particolare, quali siano stati i fattori che
più hanno influito sulla decisione liquidatori a di Occhetto. I fattori inter-
nazionali hanno senza dubbio pesato molto, soprattutto in senso più
immediato. Ma l'operazione, approvata, non dimentichiamolo, dalla gran-
de maggioranza del partito, non sarebbe stata concepibile se il PCI non
avesse progressivamente mutato natura con un inserimento incondiziona-
to e assolutamente prioritario in istituzioni che, in ultima analisi, assolvo-
no il compito di far funzionare e di difendere la società costituita).
Un'ultima considerazione. Non condividiamo l'idea che un partito
comunista debba essere una sorta di anticipazione di una società futura. È
un'idea errata almeno per due ragioni: perché è idealistico cercar di
anticipare in un microcosmo un macrocosmo progettuale, facendo astra-
zione dal mondo che ci circonda, e perché si rischia di incoraggiare una
idealizzazione del partito, trasformando lo in un fine in sé, in un feticcio,
mentre non può e non deve essere che uno strumento per realizzare
determinati fini. Tuttavia, è legittimo fissare una serie di indicazioni o, se
Livio Maitan 109

si vuole, di norme, nello sforzo di superare le difficoltà e le contraddizioni


che abbiamo evocato. Ecco quello che suggeriamo per parte nostra:
- una distinzione netta tra presenza nelle istituzioni e attività di partito
o di movimento. Più in particolare, si dovrà evitare una identificazione tra
direzione del partito e gruppi parlamentari (o diretti vi dei gruppi parla-
mentari), con una chiara separazione di funzioni e di responsabilità.
- una rotazione non solo teorica o a scadenze troppo lunghe dei
rappresentanti nelle istituzioni e la garanzia che coloro che sono impegnati
nelle istituzioni, non abbiano, direttamente o indirettamente, retribuzioni
di fatto privilegiate rispetto a quelle dei lavoratori che un partito operaio
intende rappresentare.
- un ripudio della pratica di personalizzazione del ruolo dei dirigenti,
che ha assunto forme parossistiche con i moderni mezzi di comunicazione
di massa. Tali pratiche corrispondono alle esigenze di gestione bonapar-
tistica tipiche di regimi in crisi o in decadenza, stimolano la spoliticizza-
zione o la passivizzazione, sono in contrasto con l'ispirazione
democratico-egualitaria che deve essere caratteristica irrinunciabile del
movimento operaio.
- un funzionamento regolare e articolato delle istanze di partito a tutti
i livelli in modo da rendere possibile non solo l'espressione di opinioni e
idee diverse e anche contrapposte, ma anche e soprattutto la partecipazione
costante all'elaborazione delle decisioni (e non solo alla loro ratifica o al
loro rigetto). La realizzazione di un tale fine si scontra con incontestabili
ostacoli materiali. Ma si deve tendere a creare le condizioni per superarli
e non accettarli come ineluttabili. I moderni mezzi di comunicazione di
massa possono essere validamente usati in questo senso, capovolgendo
l'uso manipolatorio imposto dai gruppi dominanti.
Per quanto riguarda, infine, le organizzazioni sindacali, è il momento
di porre termine a "tradizioni" negative per cui assumono responsabilità
massime di direzione, non solo nelle confederazioni, ma anche in sindacati
di categoria, persone che non provengono dalla classe lavoratrice, che non
hanno vissuto o non vivono in fabbrica o in un altro luogo di lavoro come
salariati, produttori di profitto. Non si tratta di denunciare le male fatte,
reali o presunte, di questo o quel dirigente, tanto meno di ignorare che
molti dirigenti hanno dato contributi validi indipendentemente dalla loro
origine o dalla loro collocazione sociale. Ma il problema è assicurare un
legame vivo, costante, organico tra organizzati e dirigenti, legame che è
110 Anticapitalismo e comunismo

una condizione necessaria, anche se non automaticamente sufficiente,


perché interessi ed aspirazioni di questa o quella categoria, di questo o
quel settore, e a maggior ragione dell'insieme dei lavoratori possano
trovare un'espressione non mediata o deformata.Un elementonon secon-
dario dell'urgente rifondazione sindacale deve essere l'elaborazione di
criteri e di norme e l'introduzione di una prassi per cui nessuno possa
dirigere una categoria cui mai ha appartenuto o cui non appartiene più da
tempo immemorabile, nessuno possa dirigere una confederazione senza
aver mai appartenuto a una categoria, e per cui esista una effettiva
rotazione di funzioni e di incarichi e i distacchi dalla produzione non
diventino uno status definitivo e vitalizio.

Nota

I Anche un'organizzazione come Democrazia proletaria, di origine, come si


diceva a suo tempo, extraparlamentare non si è sottratta agli inconvenienti dell'in-
serimento nelle istituzioni: basti pensare all'evoluzione che hanno avuto certi suoi
deputati. Fenomeni analoghi si sono verificati nel caso di organizzazioni di estrema
sinistra in altri paesi, per esempio del PRT, organizzazione messicana della IV
Internazionale.
Livio Maitan 111

Capitolo decimo

IL NUOVO SFONDO: LA MINACCIA ALLA VITA SUL


PIANETA

Al marxismo e al movimento operaio di ispirazione marxista è stata


spesso rivolta la critica di avere una visione troppo unilaterale della
dinamicastorica,nel duplice sensodi accettarel'idea di una continuitàdel
progresso umano e di considerare ineluttabile l'avvento di una società
socialista e comunista.Questa critica è stata ripresa, da un diverso angolo
visuale, dal momento in cui si è posto all'ordine del giorno il problema
della distruzione dell'ambiente: al pari degli ideologhi delle classi domi-
nanti, Marx e i marxisti avrebbero ignorato questo problema, il che
costituirebbe una riprova dell'obsolescenza delle loro concezioni.

Evoluzionismo positivistico e critica materialista

Non c'è dubbio che, soprattutto all'epoca d'oro della socialdemocrazia


e prima della catastrofe traumatica della prima guerra mondiale, sono
prevalse tra i teorici e i dirigenti del movimento operaio concezioni e
impostazioni ispirate da un evoluzionismo positivistico e da una fiducia
meccanicistica nell'immancabile affermarsi del socialismo. Al di là delle
intenzioni degli interessati, una concezione del genere serpeggia anche
nelle varianti più moderne dell' idea di un passaggio graduale al socialismo
per approssimazioni successive. È incontestabile, d'altra parte, che il
-
112 Anticapitalismo e comunismo

movimento operaio e la sua stessa componente marxista hanno tardato a


prendere atto della sfida ecologica.
Si impongono, tuttavia, alcune messe a punto. Senza fare concessioni
alle inclinazioni talmudistiche di chi pensa di trovare nei testi di Marx ed
Engels risposte valide a tutti i problemi, uno scrupolo filologico ci fa
ricordare che esistono nei due autori indicazioni, sia pure frammentarie,
che rivelano un'intuizione dei problemi del rapporto tra specie umana e
natura, con un richiamo alle "responsabilità verso la natura e le genera-
zioni future", e che, se non fossero state relegate nell'oblio, avrebbero
aiutato a porre più tempestivamente interrogativi divenuti ormai dramma-
tici. Esistono egualmente indicazioni da cui si può ricavare che Marx non
aveva sposato l'idea di un progresso irreversibile o, per dirla con Leopardi,
delle "magnifiche sorti e progressive" I.
Considerazione ancora più importante: il concetto di crisi e di rottura
-
rivoluzionaria - centrale per i marxisti è di per sé stesso incompoatibile
con una interpretazione positivistica o neopositivistica della storia e con
una concezione lineare del progresso. Tanto è vero che ai marxisti è stata
tradizionalmente rivolta la critica di avere una visione "catastrofistica".
Questa critica può avere un fondamento nella misura in cui i marxisti,
in particolare quelli del nostro secolo, da Lenin e Trockij a Rosa Luxem-
burg, hanno messo l'accento sulle contraddizioni esplosive del sistema
capitalista, sul succedersi di guerre e rivoluzioni che ne sarebbe derivato
e sulle conseguenze per la stessa civiltà, se l'azione cosciente e organizzata
delle forze sociali antagoniste al capitalismo non avesse avuto successo
nella lotta per l'istaurazione del socialismo. Ma è del tutto falsa nella
misura in cui attribuisce ai marxisti l'idea che gli eventi "catastrofici"
ipotizzabili avrebbero condotto necessariamente al crollo del capitalismo
e all'emergere di una nuova società.
Dopo tutto, la formulazione dell'alternativa "socialismo o barbarie",
cioè dell'ipotesi anche di uno sbocco negativo, è di Rosa Luxemburg. Lo
stesso Lenin, in un momento in cui era convinto che la crisi del dopoguerra
avesse creato condizioni propizie per una vittoria della rivoluzione anche
al di fuori dei confini della Russia, si è preoccupato di sottolineare, con
l'essenziale semplicità che lo distingueva, che il capitalismo non sarebbe
scomparso e avrebbe trovato il modo di sopravvivere, se non ci fosse stato
un becchino che lo seppellisse. Infine, Trockij - non in un dibattito tra
storici, ma in due assemblee di militanti negli anni della rivoluzione - ha
r
Livio Maitan 113

proclamato la propria fiducia nella capacità della classe operaia di salvare


una civiltà che era "il prodotto secolare di centinaia di generazioni" e di
portarla "a livelli di sviluppo molto più elevati", ma ha aggiunto subito
dopo:
"Tuttavia, dal punto di vista puramente teorico, non è esclusa la
possibilità che la borghesia, armata del suo apparato statale e di tutta
l'esperienza che ha accumulato, possa continuare a combattere la rivolu-
zione sino a togliere alla civiltà moderna ogni atomo di vitalità, sino a far
precipitare l'umanità moderna in una condizione di collasso e di decaden-
za per un lungo periodo a venire".
E ha precisato la sua idea dicendo:
"È accaduto più di una volta nella storia che in una vecchia società
esaurita, per esempio la società schiavistica dell'antica Roma, e prima
ancora nelle antiche società asiatiche le cui basi schiavistiche non lascia-
vano più spazio per lo sviluppo delle forze produttive, non esistesse una
classe sufficientemente forte da rovesciare i proprietari di schiavi e da
istaurare un nuovo sistema sociale, per esempio un sistema feudale (...)
L'umanità non ha sempre proceduto lungo una curva in costante ascesa.
No, ci sono stati periodi prolungati di ristagno e ci sono state regressioni
verso la barbarie (...) Una società che non è in grado di andare avanti,
precipita indietro e se non esiste una classe che possa riportarla in alto,
comincia a disgregarsi aprendo la strada alla barbarie"2.

n grido di Walter Benjamin

In un contesto diverso, alla vigilia della seconda guerra mondiale, e


con diverse tonalità, questa tematica è riecheggiata nelle parole di Walter
Benjamin, un originale marxista tedesco il cui contributo è stato giusta-
mente rivalutato negli ultimi anni:
"Se l'eliminazione. della borghesia non si realizza in un momento
approssimativamente calcolabile dell' evoluzione tecnica e scientifica (in-
dicata dall'inflazione e dalla guerra chimica), tutto è perduto".
Una volta compiuti i necessari aggiornamenti di concetti e di termini,
messaggi come quelli di Trockij e di Benjamin hanno risonanze di piena
attualità. Se, da un lato, si precisassero certe tendenze a una crisi strutturale
delle stesse classi dominanti e se, dal}'altro, nel movimento operaio
-
114 Anticapitalismo e comunismo

persistessero e si accentuassero le tendenze negative che hanno portato a


un arretramento, da un punto di vista globale, senza precedenti, ipotesi
come quelle avanzate da Trockij potrebbero divenire realtà. Nell'epoca
dell'armamento nucleare e della progressiva distruzione dell'ambiente,
potrebbe al tempo stesso divenire realtà l'ipotesi di Walter Benjamin. E
potrebbe apparire profetica la riflessione di un uomo dagli orizzonti
culturali radicalmente diversi da quelli di Trockij e di Benjamin come
Sigmund Freud:
"Gli uomini di oggi hanno sviluppato a tal punto la padronanza delle
forze della natura che, con l'aiuto di queste stesse forze, possono facil-
mente distruggersi reciprocamente, sino all'ultimo. Lo sanno bene ed è
questo che spiega in buona parte la loro attuale agitazione, la loro infelicità
e la loro angoscia" (Il disagio della civiltà, 1929).
La differenza epocale rispetto al periodo in cui scrivevano gli autori
menzionati consiste nel fatto che i mezzi "tecnici" di distruzione o auto-
distruzione, non una sola volta, ma centinaia di volte, esistono effettiva-
mente. Più ancora, a prescindere da11aeventualità di una catastrofe finale
provocata da un conflitto nucleare, gli squilibri e le devastazioni subiti
dall'ambiente naturale hanno raggiunto un tale livello che ci si può porre
la domanda se non siano ormai irreversibili o non possano diventarlo a
scadenza non remota3. Le tre o quattro generazioni presenti attualmente
sul pianeta si possono chiedere razionalmente quante generazioni potran-
no ancora sopravvivere.
Questi interrogativi appaiono perfettamente legittimi alla luce delle
conclusioni cui sono giunti tutti o quasi tutti gli scienziati che hanno
studiato sistematicamente questi problemi. Le valutazioni sono ovviamen-
te diverse e a volte divergenti. Ma è possibile ormai avere una precisa
sensazione della portata e dell'imminenza stessa del pericolo. Richiamia-
mo un po' alla rinfusa alcune delle informazioni più allarmanti che anche
dei profani hanno potuto registrare negli ultimi anni:
- la foresta piovosa primaria delle regioni tropicali ha un tempo di
rigenerazione di un mezzo millennio, mentre la sua superfice si contrae al
ritmo dell'un per cento all'anno;
- lo strato di ozono, che protegge dai raggi ultravioletti, si è formato
durante due miliardi di anni ed oggi, come tutti sanno o dovrebbero sapere,
è sempre più seriamente minacciato;
- l'accumulazione dei gas che provocano l'effetto serra, determina
Livio Maitan 115

squilibri e spostamenti termici planetari con conseguenti perturbazioni


climatiche;
- le variazioni di temperatura causate da questi fenomeni potrebbero
provocare, a scadenze non remote, un innalzamento del livello dei mari
con conseguente allagamento di intere zone intensamente popolate (una
simile tragedia, secondo alcuni studiosi, potrebbe colpire non solo lo
sventurato Bangladesh, ma anche un paese "progredito" come l'Olanda e
una città come Venezia oltre alla Florida);
- i bisogni dell'industrializzazione nel corso di meno di dieci genera-
zioni sono stati soddisfatti con il consumo di combustibili fossili prodotti
in centinaia di milioni di anni di attività fotosintetica;
- la deforestazione ha assunto dimensioni letteralmente catastrofiche.
Basti pensare che negli Stati Uniti non sussistono ormai che una decina di
milioni di ettari di foresta contro i 170 milioni della foresta primitiva; che
nel Canada la foresta è ridotta al terzo di quello che era al momento
dell'arrivo degli Europei; che, stando a dati forniti dalla FAO, la distru-
zione netta della foresta tropicale progredisce di 15,7 milioni di ettari
all'anno, cioè l'equivalente della foresta francese, la maggiore del conti-
nente europeo;
- la deforestazione e l'adozione sempre più intensa di pratiche agricole
e industriali indiscriminate determinano una crescente distruzione di ri-
sorse con effetti devastanti; le zone desertificate, per esempio in Africa,
si sono considerevolmente estese sconvolgendo le condizioni di esistenza
di intere popolazioni. In particolare la distruzione delle zone boschive dei
bacini fluviali provoca un aumento costante delle inondazioni (per esem-
pio, nel continente indiano, la superficie annualmente inondata è passata
da 19 milioni di ettari nel 1960 a 23 nel 1970, 49 nel 1980 e 59 nel 1984
con un aumento dei danni di quattordici volte);
-l'uso di pesticidi, aumentato di venti volte tra il 1950 e il 1985 e quello
dei concimi chimici, aumentato nello stesso periodo di dieci volte, hanno
comportato distruzione di suoli, inquinamento delle acque, un colossale
sperpero di risorse ecc. A titolo di esempio, a partire dagli anni '60, in
paesi come la Francia e la Gran Bretagna, sono considerevolmente aumen-
tati i tassi di nitrato nelle acque. È aumentato egualmente l'inquinamento
delle acque sotterranee;
- il fenomeno delle piogge acide è divenuto sempre più allarmante e si
estende ormai a tutto l'emisfero boreale;
116 Anticapitalismo e comunismo

- un anno dopo l'altro, il supersfruttamento dei suoli causa la perdita


su scala mondiale dell' equivalente della superficie cerealicola dell' Au-
stralia. In Africa, l'erosione dei suoli, se non saranno prese contromisure,
farà registrare nel 2000 unii riduzione della produzione agricola del 15%
rispetto al 19754.
E non parliamo dei disastri più noti, date le informazioni largamente .
diffuse, come quelli che hanno colpito il lago Baikal e il mare di AraI
nell'ex-Unione Sovietica e gli scempi provocati nella foresta dell' Amaz-
zonia. Non va dimenticato, d'altra parte, che un paese come la Cina ha
perduto, dal 1949 al 1980, tra un quarto e un quinto della sua superficie
boschiva, già insufficientemente estesa, con i conseguenti fenomeni di
desertificazione e di erosione dei suoli.
Un fenomeno che si potrebbe produrre su scala incomparabilmente
maggiore di quanto non sia stato sino ad oggi - aggiungendosi a quelli
dello sfruttamento dei paesi sottosviluppati e all'esplosione demografica
- è quello di emigrazioni ecologiche, dovute alle devastazioni ambientali
e ai mutamenti climatici. E non tocchiamo un altro tema scottante, già
all'ordine del giorno di convegni internazionali, quello dell'utilizzazione
delle risorse genetiche,. che si vorrebbe affidare ai meccanismi di mercato:
con quali conseguenze, con quali nuovi squilibri mondiali, non è difficile
immaginare5.

L'imperativo: invertire la tendenza

Anche per quanto riguarda i problemi ecologici ci troviamo di fronte


a contraddizioni non facilmente superabili. Per esempio, le conseguenze
devastanti dei mezzi usati per aumentare la produzione agricola sono
evidenti, ma l'aumento di questa produzione è irrinunciabile dato l' accre-
scersi della popolazione mondiale. Misure di limitazione adottate e impo-
ste nel contesto attuale, con gli attuali rapporti di forza, colpirebbero
inevitabilmente i paesi più poveri e solo marginalmente le metropoli
imperialiste. Più in generale, del resto, c'è contraddizione tra gli impera-
tivi ecologici e l'esigenza di tanta parte del mondo di uscire da un
sottosviluppo dai costi sociali e umani spaventosi.
Per riprendere un motivo accennato nell'introduzione, soluzioni orga-
niche di questi problemi e di queste contraddizioni non potranno essere
Livio Maitan 117

elaborate e tradotte in pratica se non con un enorme impegno multidisci-


plinare collettivo. Le conclusioni che ricaviamo per parte nostra sono
fondamentalmente due:
- se si vuoI scongiurare il pericolo della catastrofe incombente, è
imperativa una inversione di tendenza e a scadenza non troppo lontana;
- niente potrà essere risolto realmente se non su scala mondiale, cioè
con scelte e orientamenti studiati e praticati internazionalmente, in ultima
istanza, con una pianificazione che abbia questa dimensione.
In ultima analisi, si tratta quindi di un problema che va posto in termini
socio-politici. Gli ecologisti più lungimiranti, non legati a interessi costi-
tuiti, sono i primi ad affermarlo.
Jean-Paul Deléage ha tratto, per parte sua, la conclusione che "l'eco-
nomia ecologica dovrebbe ispirarsi a un principio diverso (da quello in
vigore nell' economia attuale): accrescere l'efficacia del lavoro preservan-
do le risorse".
Non abbiamo la pretesa di aggiungere altro. Scopo del nostro saggio
era di indicare le straordinarie difficoltà dell'impresa - dell'impresa di
-
rifondazione comunista ma al tempo stesso l'esistenza dei presupposti
oggettivi per affrontarla con fondate speranze di successo.

Note

1 Segnaliamo a questo proposito un valido contributo di Tiziano Bagarolo,


Marxismo ed ecologia, Nuove Edizioni Internazionali, Milano, 1989 e un articolo
dello stesso autore sulla rivista "Giano", numero lO, maggio 1992. Segnaliamo
egualmente interessanti articoli comparsi sul n. 3, ottobre 1990 della rivista
"Marx-centouno".
2 V. Problemi della rivoluzione in Europa, Mondadori, 1979. pp. 204-205 e
230.
3Lo scienziato russo Vladimir Vernadsky (1863-1945) ha definito con grande
efficacia sintetica il periodo in cui viviamo scrivendo che si tratta di "un periodo
geologico straordinario della storia del pianeta, un'era antropogenica in cui l'im-
patto umano è equiparabile a quello di una forza geologica che sta cambiando la
faccia della terra" (The Biosphere, Londra, 1986).
4 Tra i più recenti contributi allo studio dei problemi ecologici, cui abbiamo
attinto, segnaliamo la magistrale opera di lean-Paul Deléage, Histoire de l'Ecolo-
gie, La Découverte, 1991.
5 Una conferenza della FAO del novembre 1983 aveva affermato "il principio
118 Anticapitalismo e comunismo

universalmente accettato secondo cui le risorse fitogenetiche sono patrimonio


comune del 'umanità e dovrebbero di conseguenza essere accessibili senza nessuna
restrizione". Eccellente enunciazione di principio, ma è una vecchia storia che non
tutti sono in grado di accedere "senza nessuna restrizione" alle risorse teoricamente
disponibili. A questo proposito un dossier interessante è comparso sul numero di
maggio 1992 di "Le Monde diplomatique".
Appendice 119

Appendice

l) Un po' paradossalmente si potrebbe dire che per rispondere ai quesiti


che si pongono sul significato storico della rivoluzione d'Ottobre è ancora
troppo presto. Basti pensare alle risposte che venivano date, per esempio,
nel 1920 o nel 1945 e confrontarle con le risposte che prevalgono ora, per
rendersi conto, ancora una volta che, nel giudicare avvenimenti storici, è
difficile evitare la tendenza a leggere troppo la storia passata come storia
contemporanea. Una seconda difficoltà, per così dire simmetrica alla prima,
consiste nel fatto - anchequi mi si passi l'accenno un po' paradossale- che
una valutazione esauriente del passato, specie di un passato ancora recente
come la rivoluzione russa, esigerebbe una conoscenza del futuro. Se, ipotesi
dal nostro punto di vista del tutto plausibile, ci saranno nuove fasi di ascesa
del movimento operaio e nuove vittorie di rivoluzioni anticapitaliste, l'Ot-
tobre apparirà di nuovo, quali ne siano stati i limiti, come un'anticipazione
del corso successivo della storia. Se invece, ipotesi secondo noi improbabile,
il capitalismo, superando le sue contraddizioni, conoscesse un rilancio di
lunga durata con conseguenze benefiche su scala mondiale, la rivoluzione
del ' 17 rischierebbe di essere ridimensionata come un episodio del tutto
specifico e congiunturale, i cui sviluppi negativi comporterebbero la più
generale conclusione che non esistono alternative al sistema dominante.
Lasciando da parte ipotesi e questioni di metodo, per parte nostra
continuiamo a pensare che la rivoluzione russa ha costituito una svolta
nella storia del nostro secolo. Ha dimostrato che i regimi esistenti potevano
essere rovesciati e che si poteva avviare la costruzione di una società
nuova, fondata su un nuovo modo di produzione e su meccanismi eco no-
120 Anticapitalismo e comunismo

mici qualitativamente diversi da quelli del capitalismo. La crisi sconvol-


gente di cui soffrono oggi i paesi dell'ex-URSS non deve far dimenticare
che, grazie ai nuovi meccanismi economici e nonostante le distorsioni
burocratiche che sin dall'inizio hanno ostacolato il dispiegarsi delle po-
tenzialità di questi meccanismi, l'URSS è divenuta, nell' arco di alcuni
decenni e nonostante le devastazioni della seconda guerra mondiale, una
delle maggiori potenze economiche, assicurando livelli di vita in nessun
modo paragonabili a quelli esistenti prima della rivoluzione. E un discorso
analogo può essere fatto per i livelli tecnico-culturali, che sarebbe assurdo
negare richiamandosi troppo semplicisticamente alle vicende odierne.
D'altra parte, la rivoluzione d'Ottobre ha infranto la dominazione
planetaria della borghesia capitalistica, rimettendo in discussione equilibri
secolari. Neppure ora, cioè nel momento del loro trionfo solo in apparenza
irreversibile, le vecchie classi dominanti sono sicure di poter ritornare al
pre-1917, al contrario, sembrano rendersi conto ogni giorno di più quanto
sia difficile e problematica l'opera di restaurazione, cioè l'annullamento
dei profondi processi storici che avevano avuto luogo in una parte così
grande dell'Europa.
C'è appena bisogno di aggiungere che, senza la rivoluzione d'Ottobre
e i rapporti di forza che ne erano derivati su scala mondiale, non ci sarebbe
stata la fine degli imperi coloniali e il movimento operaio non avrebbe
conosciuto periodi di ascesa, in cui ha potuto strappare, in una serie di
paesi, importanti conquiste parziali. Le trasformazioni che il capitalismo
stesso ha conosciuto a partire dagli anni '30 e dopo la seconda guerra
mondiale e che gli hanno consentito un parziale rinnovamento, sono state,
in ultima analisi, stimolate dall'esistenza dell'URSS, più concretamente,
ripetiamolo, dai rapporti di forza internazionali.
Detto questo, se ci si chiede più in particolare che cosa dell'esperienza
russa meriti di essere recuperato, per parte nostra non abbiamo esitazioni
(ci si perdoni la schematica brevità). Un insegnamento fondamentale è
quello che viene dalla mobilitazione di masse enormi dei più diversi strati
delle classi oppresse nel quadro di una crisi che aveva sconvolto l'insieme
della società, .dal maturare di un' elevata coscienza politica, senza prece-
denti storici, in un breve arco di tempo, dal dinamismo e dalla creatività
espressi irresistibilmente da masse cui le classi dominanti avevano negato
ogni forma di autonomia e di iniziativa e che per la prima volta si
imponevano come protagoniste.
Appendice 121

Secondo insegnamento, connesso ovviamente al primo: in un contesto


come quello della crisi del 1917 è stato possibile creare organismi demo-
cratico-rivoluzionari, storicamente originali, in cui le masse decidevano
direttamente sui fini e sui mezzi della loro lotta, riducendo al minimo i
meccanismi alienanti della delega e gettando le basi di istituzioni politiche
qualitativamente superiori, destinate a gestire una società nata dalla vitto-
ria della rivoluzione. Il fatto che, nel caso specifico, questi organismi non
abbiano retto alle vicende della guerra civile non deve indurre a negarne
le potenzialità e il grande valore di indicazione per il futuro.
2) Le vicende dell'Unione Sovietica dagli anni '20 in poi sono state
analizzate sistematicamente prima da Trockij e dall'Opposizione di sini-
stra e successivamente dall'organizzazione internazionale che ne ha rac-
colto l'eredità, la Quarta Internazionale. Non vanno dimenticati, d'altra
parte, tutti gli studiosi che indipendentemente dalle loro scelte politiche,
hanno dato in proposito preziosi contributi (è stato il caso, per esempio,
di Isaac Deutscher) né i dibattiti che, prima che scendessero le tenebre
dello stalinismo, si erano svolti nell'URSS e cui avevano partecipato
uomini come Preobrajenski e Rakovski e, con tutte le sue ambiguità, e
contraddizioni, lo stesso Bucharin. Da queste analisi emergono chiara-
mente le cause del distacco tra le masse e lo Stato uscito dalla rivoluzione.
Basti qui ricordare che le vicende dell'immediato dopoguerra e della
guerra civile avevano largamente intaccato come forza sociale quella classe
operaia che aveva avuto un ruolo decisivo nella rivoluzione e che in
particolare nella battaglia per sconfiggere la controrivoluzione era stata
sacrificata una percentuale elevata di quadri decisivi. In questo senso, il
partito che gestiva il potere non era più quello che aveya fatto la rivoluzione.
La decimazione aveva colpito egualmente i quadri delle strutture statali con
la conseguenza che hanno potuto farsi strada ed emergere gli ultimi venuti,
privi della necessaria esperienza e non di rado animati da spirito arrivistico.
Non c'è dubbio che gli stessi dirigenti di primo piano non hanno avvertito
a tempo la gravità della situazione e tutti i pericoli di una dinamica involu-
tiva. All'origine, si è trattato di un fenomeno politico: l' acquisizione di poteri
crescenti da parte degli apparati, senza reali possibilità di controllo dal basso,
e una progressiva concentrazione di questi poteri. Successivamente, il
fenomeno è divenuto anche sociale nella misura in cui i detentori del potere
politico si assicuravano progressivamente e in misura crescente condizioni
di privilegio, consumando così un distacco sempre più completo da quelle
122 Anticapitalisnw e comunismo

masse in nome delle quali, secondo le proclamazioni ideologiche, avrebbero


dovuto dirigere la società.
Ci sono state, ci sono e ci saranno sicuramente in futuro vivaci discus-
sioni circa la periodizzazione di questo processo. Se ci si vuole riferire alla
cristallizzazione di una casta privilegiata, bisogna parlare della fine degli
anni '20 e dell'inizio degli anni '30. Ma il fenomeno di burocratizzazione
nel senso più propriamente politico - con l'emergere di primi, sia pur
relativi privilegi - risale all'inizio degli anni '20. Non dimentichiamo che
la prima battaglia significativa di Trockij, quando già si erano delineati
processi involuti vi, è del 1923, data di pubblicazione della raccolta di suoi
scritti intitolata Nuovo corso.
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