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VENTIQUATTRO TRASLOCHI

(LA STORIA DI 74 ANNI DELLA MIA VITA)
(DAL 1938 AL 2012)

di Giuseppe Amato
(iniziata a scrivere il 25 maggio 2012)






Dediche:
A Nicoletta per la pazienza che ha sempre avuto per me
A Emanuele per fargli conoscere chi stato suo padre















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Capitolo 1

l1 giugno1938 sono entrato a far parte di questa meravigliosa co-
munit che lumanit.
Non potevo sceglierne unaltra n avevo il potere fisico e psicologico
di farlo.
E non avevo altre alternative se non quella di rifiutarmi di nascere, il
che sarebbe stato molto difficile.
Ho quindi dovuto abituarmi a viverci dentro quasi come se lo avessi
voluto io.
I miei genitori non ne hanno colpa, anche se sono loro che mi hanno
voluto mettere al mondo mescolando due tipi di DNA, di cromosomi e
di tante altre particelle pi o meno intelligenti, pi o meno vitali.
Mio padre, nato nel 1908, veniva da Agrigento, era arrivato fino a Mi-
lano come impiegato in polizia (lui diceva sempre
nellamministrazione civile) e intorno al 1930, dopo le avventure di
DAnnunzio su Fiume e la conquista della Slovenia, si trasfer a
Postumia dove pagavano uno stipendio pi alto perch zona di frontie-
ra, essendo il territorio allora denominato Protettorato.
Mia madre era nata a Manzano (quindici chilometri da Udine sulla di-
rezione per Gorizia).
Mio padre proveniva da una famiglia piuttosto povera, con mio nonno
da cui presi il nome di Giuseppe, mia nonna, Concetta Mamo, morta
prematuramente a32 anni sembra di parto (o qualcosa daltro, non si
sa bene), un fratello maggiore di mio padre e tre sorelle rimaste per
quasi tutta la vita zitelle
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(pi una figlia nata dopo mio padre, Albina,
morta con la spagnola nel 19, quindi a meno di nove anni).
Mio nonno faceva il sarto da uomo in piazza del municipio (ho una fo-
to dellinsegna del suo negozio) ad Agrigento dove visse fino al 1940
e mor proprio il 10 giugno mentre da Palazzo Venezia a Roma il Du-
ce sbraitava la dichiarazione di guerra e mio padre, precipitatosi in
treno per poterlo vedere ancora una volta, era rimasto bloccato allo
Stretto proprio per colpa di Mussolini in quel fatidico e maledetto
giorno.
Mia madre faceva parte di una famiglia abbastanza agiata e numerosa,
il padre era un abile falegname che per aveva contratto un mutuo con
la banca locale per incrementare la sua attivit.
Ma la crisi del 1929 lo mise a terra: il direttore della banca, un certo
Villa, fece scattare lipoteca sulla casa che mio nonno materno (si


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Eufemia, la pi piccola, riusc a sposare in tarda et un vedovo anziano con quattro figli
maggiorenni e mor ad Acireale.
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chiamava Vito Danielis) aveva accettato a garanzia del prestito (o mu-
tuo, non so) e mio nonno con tutta la famiglia dovette andarsene.
Scelse Fiume da dove riusc a mantenere la famiglia lavorando in Ju-
goslavia, in Serbia e in Montenegro come carpentiere.
Poco tempo dopo la sua maledizione colp il Villa che si spar proprio
dentro la casa che aveva confiscato a mio nonno, perch stracarico di
debiti.
Con la moglie vivevano quattro figli maschi e due femmine. Mia non-
na, Lucia Maestrutti aveva partorito anche due coppie di gemelli che
per morirono subito dopo nati.
Dei quattro figli il maschio pi giovane, Timo, con forti velleit liber-
tine, si spos con una Bearzi famiglia un po su a Udine ed ebbe su-
bito un figlio che per mor di meningite a quindici anni cadendo dal
fienile al primo piano della casa che ra stata di mio nonno (due palme
davanti lo ricordavano) e che aveva nel frattempo ricomprato. Era
lunico che non aveva seguito il padre a Fiume.

Capitolo 2

Qui devo per aprire una parentesi su quello che accadde durante la
prima guerra mondiale alla famiglia di mia madre.
Durante la prima guerra mondiale gli austriaci incalzavano il territorio
italiano scendendo con truppe e cannoni dalla Carnia verso Udine at-
traverso Cividale.
Tutti gli abitanti di Manzano scapparono in direzione ovest ma dovet-
tero fermarsi al ponte sul Tagliamento dove stavano arrivando le can-
nonate austriache.
Mia nonna con tanti figli fu aiutata dalla sorella (che oggi in Canada
credo abbia dei discendenti,miei parenti): si fece carico dei pi grandi
perch nonna Lucia aveva mia madre ancora piccolina che stava mo-
rendo di fame e di inedia.
La sorella si inoltr oltre il ponte con i suoi figli e con i due di Lucia
(Livio e Mario), mentre Lucia rimase di qua dal ponte a cercare qual-
cosa per Mariannina, mia madre.
Un soldato si accorse e le diede otto chicchi di caff che Lucia fece
bollire in una marmitta militare per poi far ingurgitare il liquido caldo
a Marianna, dopo averle aperto la bocca agendo tra i denti con una
forchetta. E questo la salv.
Finito il bombardamento, anche Lucia attravers il Tagliamento e si
mise in cerca di sua sorella e dei due figli ma i due ragazzi erano
scomparsi.
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Dal racconto della sorella si doveva dedurre che fossero morti sotto un
colpo di cannone e cos nonno Vito si mise in cerca inutilmente presso
ogni baracca o distaccamento militare. Alla fine si arrese e disse alla
moglie Lucia che li avevano persi. Ma Lucia non gli credette e si mise
a pregare la madonna di Monte Berico (santuario vicino a Vicenza),
promettendo che avrebbe detto il rosario di notte per tutta la vita se
avesse ritrovato i suoi due figli.
Passarono due anni e un giorno (terminata la guerra e tornati a casa)
giunse la notizia da Milano: i due ragazzi erano stati portati tra i Mar-
tinitt, una istituzione benefica che a Milano esiste ancora (vedere ad
esempio il film di Zavattini Miracolo a Milano). Mia nonna e Vito
andarono a Milano nel 1919 a riprendersi i figli, quasi incolumi (Ma-
rio aveva un occhio di vetro e aveva perso due dita, mentre Livio era
senza menomazioni).
E mia nonna per tutta la vita rispett il suo voto, anche contro il parere
del suo plevan, cio il parroco in friulano che le diceva a no-
vantanni che era ora di smetterla con il suo voto assurdo.

Quasi in contemporanea ad Agrigento mio padre, che aveva circa do-
dici anni, rischi di morire per un colpo di pistola: aveva trovato con
un suo cugino in un cassetto del grande com la pistola a tamburo del
nonno Alfonso e spar un colpo che gli buc la mano. Accorsero i pa-
renti e provvidero a curarlo, oltre a dargli una lezione coi fiocchi.
Perci se io sono nato lo devo al fatto che i miei due genitori da bam-
bini rimasero vivi per miracolo!

Capitolo 3

Nel 1929 nonno Vito, per le vicenda cui ho gi alluso, con la famiglia
si trasfer a Fiume dove si installarono in una casa sulla collina di Ko-
sala, sopra la citt. Mentre mio nonno partiva per la Serbia e il Monte-
negro a fare il carpentiere, mia madre, che aveva quindici anni circa,
trov lavoro come sarta in un laboratorio. Ogni tanto andava in treno a
Postumia dove la sorella maggiore, Beatrice, viveva, sposata con un
ferroviere che aveva trovato lavoro in quella cittadina. Bice (diminuti-
vo di Beatrice) aveva due figlie, la seconda era ancora allattata quando
avvenne la disgrazia: il marito, Mario Verona, beveva e spesso era u-
briaco. In una manovra a mano tra i vagoni di un treno merci rimase
schiacciato tra i due respingenti. Mio padre, che era entrato in contatto
da poco con la famiglia di mia madre riusc a far passare la disgrazia
per colpa del treno e non del manovratore ubriaco, in modo che la zia
Bice ottenne la pensione.
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Ma questo accadde molto tempo dopo.
In una delle sue scappate a Postumia, mia madre partecip con la so-
rella ad una festa di carnevale in cui si ballava. Durante la serata arri-
vava il momento del cosiddetto ballo delle dame in cui le donne si
sceglievano il partner maschile per ballare.
Fu allora che mia madre scelse un giovane che credeva seduto, tanto
era basso di statura, mentre in realt era in piedi: era quello che poi sa-
rebbe diventato suo marito (e mio padre).
Mia madre aveva un fisico bellissimo e un volto molto bello. E mio
padre si innamor subito di lei, tanto che andava spesso a Fiume e
passava sotto le finestre della casa di mia madre per cercare di parlar-
le, ma mia madre teneva duro perch aveva saputo che era siciliano e
si sentiva ancora troppo giovane per iniziare un innamoramento (al-
meno cos mi confess molti anni dopo!).
Ma mio padre era tenace e testardo e a furia di passare ogni giorno
sotto le sue finestre fischiettando il valzer con cui si erano conosciuti,
allafine ottenne che si fidanzassero, anche se nonno Vito fosse contra-
rio al fatto che sua figlia si impegnasse cos presto.
Una sera che erano rientrati dal cinema in ritardo per la cena, Vito
sferr un pugno sul tavolo e un Can da losti!! (espressione tipica-
mente friulana) fece capire a mio padre chi comandasse in quella casa.
Nel frattempo mio padre manteneva contatti epistolari con suo padre
ad Agrigento e, tra le varie cose, aveva annunciato il fidanzamento e
aveva descritto a suo padre la ragazza e la famiglia e aveva annunciato
che lavrebbe presto sposata.
Per vari motivi un giorno torn ad Agrigento per parlare con suo padre
ma nonno Giuseppe gli gett in faccia tutte le lettere che mio padre gli
aveva scritto, ricordandogli che prima dovevano trovare marito le tre
sorelle ancora zitelle.
Mio padre ebbe una reazione emotiva molto forte tanto da ritrovarsi
una paresi al viso che gli fece diventare storta la faccia.
Al rientro a Postumia, dove lavorava in polizia, non os incontrare
mia madre e decise di lasciarla.
Per caso la zia Bice lo incontr e lo convinse a curarsi. Fece in modo
che si facesse curare a Trieste mentre ag con dolcezza perch i due si
rimettessero insieme.
Mio padre, che nel frattempo si era trasferito a Lubiana per stare lon-
tano, rientr e finalmente nel 1937, il 12 settembre, si spos con mia
madre.
Il giorno stesso partirono per la Sicilia in viaggio di nozze e la prima
tappa fu la prima sera a Trieste allHotel Posta dove mio padre mise
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subito incinta mia madre, dicono alle ore 22,30 /che famiglia preci-
sa!).
Io nacqui otto mesi e mezzo dopo, il giorno 1 giugno. Alla mia battuta
di qualche anno fa quando insinuai a mia madre che avevano fatto la
frittata prima di sposarsi, mia madre mi disse che la differenza erano
solo i quindici giorni che si dicono della Madonna. Io risi e lei pu-
re.

Capitolo 4

Devo tornare indietro nel tempo perch mi sono accorto che non ho ci-
tato il nome di mio padre: Narciso!
Nel 1908 dare un nome cos ad un figlio appena nato pu sembrare
strano ma non se aveste conosciuto mio nonno.
La mattina del parto, il 27 marzo, poi dichiarato il 28, mio nonno stava
sulluscio di casa, una stanza unica. dove si dormiva, si mangiava e si
viveva tutto il giorno. Alle spalle dellentrata unaltro ambiente, ma
sarebbe stato difficile chiamarlo stanza: senza finestre, alcuni armadi
contenenti vecchi abiti ammuffiti nella naftalina, mobili ammontic-
chiati e un passaggio in un bugigattolo che fungeva contemporanea-
mente da cucina e da gabinetto
Ho detto gabinetto e non bagno ma preferisco non approfondire
largomento.
Arrivavano molte persone per congratularsi con mio nonno, padre del
bimbo appena nato.
Tra questi arriv una donna giovane che faceva la cameriera in una
casa di fronte. Entrata per fare gli auguri ebbe la malaugurata idea di
dire:
N, don Peppino, lo chiamerete Salvatore?.
Mio nonno aveva intenzione di dare questo nome allultimo nato della
famiglia, ma non poteva accettare che poi si dicesse in giro che gli a-
veva dato il nome suggerito da na criata (una cameriera). E, dopo
aver detto di no col mento alzato come fanno i siciliani, disse:
Lo chiamer Narciso.
Questo episodio come molti altri fanno capire il suo carattere (ed an-
che il mio, purtroppo). Ma ve ne racconto solo un altro a conferma di
quello che dico.
Una sera, al teatro che c proprio in piazza Municipio, davanti il ne-
gozio di mio nonno, dallaltra parte della piazza in discesa, durante un
intervallo tra il primo ed il secondo atto di unopera di cui non cono-
sco il nome, pass in mezzo al pubblico lacquaiolo.
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Allora era uso che un incaricato arrivasse con un recipiente stagnato
appeso sul davanti, pieno di acqua fresca, e con alcuni bicchieri appe-
si, pure di stagno o di qualche misteriosa lega che allora si usava. Po-
tete immaginare con quale igiene.
Contemporaneamente mio nonno e un altro signore del pubblico ri-
chiamarono lattenzione dellacquaiolo e ne sorse un piccolo diverbio
su chi avesse il diritto di bere per primo.
Il signore alla fine, molto gentilmente, dette la precedenza al nonno
che, per lasciarlo senzacqua, si bevve ben tredici bicchieri dacqua.
Forse cos potrete meglio capire chi fosse luomo. A suo vanto devo
ricordare che era amico di Pirandello perch frequentavano lo stesso
circolo.
Chiudo questa parentesi e torno al viaggio di nozze.
Voi provate ad immaginare che cosa potesse provare un ragazza di
ventitr anni, vissuta sempre al nord tra Manzano, Fiume e Postumia,
che si trovasse allimprovviso catapultata nella Sicilia del 1937, accol-
ta in una famiglia fortemente siciliana con tutti i pregi e difetti di un
tipo di gente completamente diversa dagli italiani che abitavano al
nord: proprio vero che nel 1937 era stata fatta da tempo lItalia (al
punto da avere perfino le colonie in Africa!) ma non cerano ancora
gli italiani: al nord non sapevano nemmeno come fosse fatta la Sicilia
e la Sicilia non parlava di Italia ma di Continente, espressione che
si usa ancora oggi nellisola.
Mio nonno, colpito dalla bellezza di mia madre, la tratt con
leleganza che contraddistingue lelegante galanteria dei siciliani (vedi
il comportamento del Gattopardo nel film di Visconti), ma non so nul-
la di come padre e figlio si parlarono allora, dopo che il nonno conob-
be mia madre.
Durante la loro permanenza ad Agrigento (chiamatelo, se volete, vi-
aggio di nozze!) fu un susseguirsi di incontri ed accoglienze in deci-
ne di case di parenti vicini e lontani, con abbuffate cui mia madre non
era abituata.
Avvennero due disgrazie: la prima fu la morte della vecchia nonna
Peppina, madre di mio nonno e la seconda ve la racconto dopo.
Nonna Peppina era stata in giovent lostetrica di decine e decine di
parti ad Agrigento. Essendo molto povera, arrivava a casa di ritorno
dai battesimi e relative feste con il grembiule pieno di ogni ben di Dio,
che aiutava a sfamare i dodici figli che aveva.
Alla sua morte, una delle sorelle di mio padre, Amalia, che sembrava
avesse il compito di storica dei fatti della famiglia, raccont a mia
madre cosa era stata capace di fare nonna Peppina; e qui vi riporto
questepisodio.
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Era il 1872, e mio bisnonno, Alfonso, detto da tutti pap Aff, ave-
va diciotto anni ed era guardia municipale. Alto, corporatura robusta,
una figura imponente, arricchita da poderosi baffi, era molto ammirato
e desiderato come un buon partito.
Nonna Peppina aveva solo sedici canni e riusc a farsi sposare, ma do-
po tre mesi di matrimonio il marito spar.
Avevano una casetta modesta nella parte bassa di Agrigento, verso
lAddolorata, e mia bisnonna decise di tenere il segreto di questa fuga
che certamente era finita da qualche parte con unaltra donna.
Nonna Peppina ogni mattina andava a fare la spesa na putia (nel ne-
gozio dove era abituata a fare compere dal primo giorno del matrimo-
nio e acquistava quantit come se il marito fosse presente in casa, per
non destare sospetti.
Teneva le orecchie aperte per cogliere eventuali notizie e la sua perse-
veranza fu premiata: una mattina una donna stava raccontando alla
negoziante che la figlia si era fidanzata con un bellissimo ufficiale
della gendarmeria di Agrigento, alto, i baffi che lo rendevano ancora
pi importante. E nel raccontare dimostrava la felicit del prossimo fi-
danzamento o addirittura matrimonio. Alla fine aveva aggiunto che il
fidanzato della figlia era ospitato in casa, non avendo altre possibilit,
anche se la cosa non era molto giusta.
Come la signora usc dal negozio, mia nonna chiese timidamente con
aria sorniona alla negoziante:
Dunn ca ? (di dove ?)Di Raffadali rispose la negoziante e
nonna Peppina dopo aver pagato, torn a casa.
Secondo voi, oggi una ragazza di sedici anni, anche se sposata, avreb-
be fatto quello che mia bisnonna fece? Non credo!
Nonna Peppina scese nella stalla, stacc la mula e la lupara appesa al
muro e si avvi sulla strada per Raffadali, allora un paesaccio dove bi-
sognava perfino stare attenti a camminare per le strade al mattino per-
ch dalle finestre delle stanze superiori le donne svuotavano diretta-
mente in strada il contenuto dei cantari (vasi per urinare di notte).
Davanti ad una casa che aveva facilmente individuato con poche do-
mande agli abitanti del paese, chiam ad alta voce: Aff, esci e tor-
niamo a casa!
Pi che voce fu un urlo imperioso che allinterno della casa si sent
benissimo.
Dopo alcuni minuti di silenzio, dalluscio venne fuori Aff timida-
mente e, senza voltarsi a salutare, segu mogio sua moglie, che intanto
si era gi incamminata sulla strada di ritorno ad Agrigento, senza dire
una sola parola.
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Vi chiederete come fin la storia? Molto semplicemente vissero, forse
felici e contenti, mettendo al mondo dodici figli.
Aff era poi morto nel 1919 con la Spagnola che si era portata via
anche lultima sorellina di mio padre Albina, di cui non seppi mai
nulla se non che fu lultimo parto di mia nonna.
Quando molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, venne-
ro dagli U.S.A. in Italia alcuni parenti di mio padre in viaggio di pia-
cere, conobbi un altro Amato e un altro Mamo che mi regalarono
cinque dollari che mio padre sequestr per cambiarli in lire e che
non vidi pi.
Quando un giorno gli chiesi che fine avessero fatto i miei cinque dol-
lari, imparai la lezione perch mi rispose: Scrivitillo a muro e quando
hai tempo leggi!
A coronamento di questa sfortuna tempo dopo ci giunse da Brooklyn
una foto di due donne, evidentemente nostre parenti anchesse, che
stavano in piedi al fianco di una lapide di una tomba del cimitero ame-
ricano.
E mi colp il fatto che sulla lapide era scritto in chiare lettere Joseph
Amato. Molti anni dopo, quando andai a New York per lavoro avrei
voluto ritrovare quella tomba ma non ci riuscii.
E passiamo ora allaltra storia che capit purtroppo durante il viaggio
di nozze a mia madre: mio padre ebbe linfelice idea di accontentare
sua sorella Eufemia e suo padre tornando dal viaggio di nozze, por-
tandosela dietro fino a casa a Postumia dove mia madre iniziava ad
avere i primi sintomi della sua gravidanza, cio del mio prossimo arri-
vo.
Stava arrivando linverno e la zia, una donna ignorante, capricciosa,
con tante voglie represse e una morale sotto le scarpe, dovette affron-
tare un freddo che non conosceva.
Mia madre non poteva sopportarla ma per amore di suo marito taceva
e inghiottiva. Ma un giorno scopr chela zia stava nascondendo nella
sua valigia sacchetti di zucchero, di pasta, di cioccolato e altre cose.
Tacque fin che pot ma un giorno esplose una litigata tanto forte che
mio padre, rientrato mentre litigavano per farle azzittire pens bene di
sparare un colpo in aria con la pistola dordinanza.
Non so se prima o dopo ci fu un altro episodio ancora pi grave: un
giorno mia madre si vide arrivare a casa una guardia municipale che
riaccompagnava Eufemia, colpevole di essere stata colta in flagrante
mentre rubava un paio di calze in un negozio. La guardia disse che
non procedeva allarresto perch conosceva mio padre che era in poli-
zia, ma raccomandava di tenerla sotto controllo.
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Mia madre non ci pens due volte; riemp una valigia di poche cose
necessarie e abbandon mio padre e sua sorella.
Part per Fiume a casa di sua madre portandomi in grembo gi avanti
nella gravidanza.
Quando mio padre si rese conto, si decise a rispedire sua sorella col
primo treno ad Agrigento.
La sorella di mia madre che abitava a Postumia da tempo pot final-
mente darle una mano e si diede da fare per riunire la famiglia.
Mio padre accorse a Fiume a riprendere la moglie ma si becc una
ramanzina con i fiocchi da mio nonno Vito e da allora le cose andaro-
no meglio.
Finalmente in giugno nacqui e lostetrica del luogo che aiut mia ma-
dre, vedendo che io tenevo la braccia in alto, disse a mia madre che
sarei stato molto fortunato nella mia vita.
Non so dire se ci azzecc, ma da quelle parti le abitudini slave riguar-
dano anche le predizioni che fanno le zingare, tipiche del luogo, zin-
gare e previsioni.
Era ormai ora di cambiare casa: fu il primo dei 24 traslochi che ho
fatto nella mia vita; infatti io non ho radici, sono cittadino del mondo,
del pianeta e di qualunque luogo mi dovesse accettare!
Lultimo sar il cielo di Perugia dove il fumo della cremazione (stavo
per scrivere creazione, ma basta una emme per cambiare il destino
di un uomo!) salir verso il cielo, a perdersi nellinfinito da dove forse
sono venuto!

Capitolo 5

Dopo aver abitato per un po a Postumia mio padre ottenne un trasfe-
rimento a Lubiana dove abitammo presso un anziano e gentile signore
dallo stile austriaco, che chiamavamo Papa oce;
e questo fu il secondo trasloco, cio la terza casa abitata da noi.
Ma prima io ebbi due guai: una gastroenterite che mi sono poi trasci-
nato come conseguenze per tutta la vita e una caduta dal tavolo in cu-
cina a Postumia su dei vetri appoggiati allarmadio.
Non so quale angelo mi salv la vista e allospedale locale mi dovette-
ro dare quattro punti dove inizia lattacco del naso allaltezza degli
occhi.
Ma la storia stava maturando nuovi e gravi eventi che avrebbero coin-
volto anche me e la mia famiglia.
Non so se per motivi di lavoro o altro mio padre decise di tornare ad
abitare a Milano intorno alla fine del 1940, primi del 1941, questa vol-
ta portandosi anche mia madre e me.
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Cos ci trasferimmo in via Beato Angelico ma, non so perch, in casa
di una vecchia che puzzava di pip lontano un miglio. Di lei ricordo
solo la puzza e una frase che un giorno mi disse: Fin quando non riu-
scirai a pisciare a muro non sarai un uomo.
Forse mio padre in quei mesi aveva avuto sentore che le cose stavano
radicalmente cambiando in Europa; ecco perch decise di trasferirsi a
Milano. Ma ci rimanemmo poco tempo: mia madre era nuovamente
incinta e credo avesse bisogno e desiderio di avere aiuto da sua sorella
a Fiume.
E questo fu il quarto trasloco della mia vita.
I miei genitori decisero di trasferirci ancora a Kosala, a casa di nonno
Vito.
Nel frattempo mia madre nel settembre del 42 a Kosala partor mio
fratello Gianfranco.
Sto cercando di ricordare il pancione di mia madre ma non ho imma-
gini in memoria. Invece ricordo come padre e madre mi fecero rim-
balzare dalluno allaltra quando chiesi loro cosa volesse dire incinta,
anche se conoscevo bene il significato della parola.
Eravamo tutti fuori nel vialetto che portava ala casa ad aspettare e,
quando arriv lostetrica con la borsa dei ferri, mia zia mi disse sotto-
voce che mio fratello era dentro quella borsa. Io finsi di crederle e at-
tesi.
Purtroppo mia madre, tra il parto, la lontananza dal marito, le cognate
che la ossessionavano con troppe pretese come se fosse ancora la ra-
gazza che era costretta a lavare e stirare per i fratelli e relative consor-
ti, non riusciva pi a vivere a Kosala.
Ricordo una domenica pomeriggio, destate, nel silenzio e nel caldo,
che uscivamo dalla casa attraversando il corridoio, mia madre con in
braccio Gianfranco e in mano una valigia e io di fianco che mi chie-
devo cosa stessimo facendo. Fu cos che ci trovammo a vivere gi in
citt dalla zia Bice fino allagosto del 43. Era il mio quinto trasloco.
Ricordo che andavamo ad Abbazia (oggi Opatia) a fare i bagni e nei
miei ricordi non mai scomparso il profumo delle alghe a riva tra gli
scoglietti o quello della marmellata sul pane.
Ancora ricordo la figlia minore di Bice, Mariolina che, addentando un
pezzo di pane con la marmellata, non si era accorta della vespa che si
era posata golosa sulla fetta di pane.
E Mariolina sub una puntura dolorosissima sulla lingua che la afflisse
per giorni e giorni.
Era il periodo in cui i ferrovieri venivano a farsi fare il bucato da mia
zia e si fermavano ad ascoltare la radio che trasmetteva i messaggi di
radio Londra per i nostri partigiani.
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Ricordo che avevamo le finestre oscurate anche di girono di carta blu
scuro.
Io allora non capivo niente ma ero impressionato dai racconti e dalle
corse in rifugio.
Purtroppo erano iniziati i bombardamenti e allurlo della sirena dove-
vamo uscire di casa e correre a rifugiarci, con le borse gi pronte vi-
cino alluscio, nel tunnel della ferrovia che allora attraversava il viale
principale di Fiume.
Era unimmagine terribile che ancora ho negli occhi: lungo i binari, il-
luminati da una luce fioca che scendeva dal tetto del tunnel, erano al-
lineati in silenzio e avvolti in un lenzuolo bianco, i matti del vicino
manicomio.
E noi dovevamo camminare tra loro e i binari per sistemarci pi in gi
tra altre persone normali. L si rimaneva fin che la sirena non urlava
il cessato allarme.
Mio fratello (aveva meno di un anno) sub tutte le conseguenze di una
vita tesa e nervosa, aveva i vermi e mordeva tutti per una rabbia di
dentro improvvisa che io non capii mai.
Cercavo di giocare con le bambine sotto il portico e avevo la figlia
maggiore di Bice, Jole (che ancora viva ed abita oggi a Manzano)
che mi faceva da balia e aiutava cos mia madre.
Ricordo il suff, una specie di piatto di semolino con il latte: lunico
cibo che avevamo e che ovviamente consideravamo un miracolo aver-
lo a disposizione.
Ma gli eventi precipitarono: nellagosto del 43 un bombardamento
micidiale distrusse quasi tutte le case di Milano e i miei genitori, uno
indipendentemente dallaltra partirono per Milano (mio padre da Po-
stumia e mia madre da Fiume) per capire se era rimasto qualcosa della
casa dove avevano lasciato le loro poche cose.
La casa non era stata distrutta ma mio padre dovette minacciare il cu-
stode che si era impadronito di molti oggetti nostri, approfittando del
fatto che aveva le chiavi di casa.
Il bello che i miei genitori, partiti da luoghi diversi si ritrovarono
sotto casa a Milano quasi contemporaneamente. Si organizzarono e
portarono via tutto quello che poterono.
Mi raccontavano che a Treviso dovettero scendere perch il treno si
era fermato in aperta campagna perch aerei militari si erano gettati a
mitragliare tutto e tutti.
I miei passarono la notte in una locanda vicina trovata per fortuna;
nella stanza dove avrebbero voluto dormire, passarono tutta la notte a
lavarsi la fuliggine dai loro corpi. Il giorno dopo il treno ripart ma a
questo punto mio padre costrinse mia madre a rifugiarsi ancora una
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volta a Manzano con noi due figli. Ci sistem presso una bella friula-
na, Gemma, di cui ricordo ancora le prosperose tette.
Era il sesto trasloco della mia vita.
Fu in quei giorni che dovetti assistere ad una cosa che non avrei mai
immaginato. Avevo cinque anni ma le scene che vidi sono ancora vive
nella mia memoria: Gemma allevava una preziosa oca (per quei tempi
veramente preziosa) e la nutriva con un aggeggio come un frullino a
mano con cui la ingozzava di semi di mais costringendola ad ingoiare.
Ma un giorno giunse il momento di uccidere loca perch non aveva-
mo altro e Gemma tagli la testa alloca e accadde la scena terribile di
vedere loca senza testa che correva per il cortile sbandando non a-
vendo n la testa, n gli occhi e nemmeno il cervello. Scappai spaven-
tato.
In quei giorni si saliva nel solaio che aveva delle piccole finestrelle
dalle quali osservavamo i bombardamenti nel vicino paese di Buttrio.

Capitolo 6

E arriviamo all8 settembre 1943!
Mio padre era a Postumia, in divisa della polizia che allora era milita-
rizzata. Alla radio sent lannuncio dellarmistizio a Cassibile (Siracu-
sa) e si sarebbe trovato nei guai se non avesse preso una decisione ra-
pida. In bicicletta, con due pistole e due macchine fotografiche si av-
vi a nord, dopo essersi tolta la divisa, col progetto di rientrare in Ita-
lia attraverso lAustria.
Ma nella notte in un bosco scopr di essere vicino ad un gruppo di titi-
ni (partigiani jugoslavi che furono poi autori di stragi di italiani e di
morti nelle foibe), pi pericolosi dei tedeschi che ormai erano diventa-
ti nostri nemici.
Spar un colpo di pistola in aria; i titini fuggirono da una parte e mio
padre da unaltra, cos pot proseguire e dopo un lungo giro ci rag-
giunse a Manzano da dove partimmo per rientrare a Milano definiti-
vamente. Era lautunno del 1943. E a Milano tornammo nella vecchia
casa di via Beato Angelico: era il settimo trasloco della mia vita.
Qui passammo alcuni mesi, con un muro aperto sulla strada sottostan-
te che provoc a me bronchite ma a Gianfranco una seria broncopol-
monite.

Capitolo 7

E da questo momento incomincia la storia delle nostre peregrinazioni
in diverse case di Milano:
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Dopo via Beato Angelico, a fine 1943 in via Amedeo fino al 1946
(ottavo trasloco)
In via Morgagni al 37 dal 1946 al 1948 (nono trasloco)
In via Telesio dal 1948 al 1951 (decimo trasloco)
E, finalmente, nellestate del 1951 una prima volta in un appartamento
in affitto tutto per noi: in Largo Boccioni, oggi allinizio del Bronks,
come viene chiamato il quartiere malfamato di Quarto Oggiaro (undi-
cesimo trasloco).
Nellestate del 2011 ho deciso di fare un viaggio a Milano (da molti
anni ormai abito ad Assisi) per filmare e fotografare dallesterno le ca-
se in cui abbiamo abitato in coabitazione dal 1941 al 1951. Spiego:
durante la guerra le case bombardate a Milano erano molte e cera bi-
sogno di alloggi. Nacque il Commissariato alloggi che attribuiva a
coloro che erano senza casa una coabitazione con altre famiglie in uno
stesso appartamento se cerano locali sufficienti.
Mio padre si diede da fare e la prima casa dopo via Beato Angelico fu
in fondo a Via Amedeo (allOrtica, quella cantata molti anni dopo da
Jannacci), lultima casa della via che era separata dalla ferrovia che
passava alla fine della via da un bel prato irrigato con lunghi canaletti
sempre pieni dacqua.
In fondo alla via cera un ponte che passava sotto la ferrovia e portava
in una vasta area chiamata Smistamento dove giacevano su decine e
decine di binari molti carri merce.
L subimmo molte corse in rifugio (in realt era la cantina) durante
molti bombardamenti fino al 25 aprile 1945.
Di giorno spesso mia madre con altre donne del quartiere si recava a
Smistamento dove riempiva delle borse di fortuna di carbone coke
con il quale ci si scaldava. Non capisco come mai mio padre non solo
non ne sapesse niente ma nemmeno si preoccupava di sapere da dove
arrivava quel carbone (forse faceva finta?).
A volte le andava bene ma qualche volta, o era uno schiaffo del tede-
sco di guardia o era una sventagliata di mitra in mezzo alle rotaie dei
vagoni e vicino alle gambe, doveva tornare a mani vuote.
Una volta torn a casa con la faccia gonfia e rossa per una sberla di un
militare e non so quale scusa invent per mio padre. E passiamo ad al-
tro:
Dalla finestra si vedeva il gasometro a meno di un chilometro al di l
della ferrovia e in pieno giorno pi volte un aereo, un cicognino degli
inglesi arrivava a bombardarlo per farlo incendiare. Per fortuna non
riuscirono a farlo esplodere, altrimenti avremmo fatto una brutta fine.
In quei giorni per un bombardamento disgraziato fece una strage alla
scuola elementare di Gorla dove morirono circa trecento bambini.
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La mattina dopo ero in strada accanto a mia madre che ne parlava con
le vicine. Osservavo i fili elettrici del tram in aria e attribuivo i fiocchi
bianchi attaccati ai fili (materiale tipo cotone che ricordavo di aver vi-
sto nelle finestre della vicina scuola dove avevo incominciato a fare lo
scolaro e dove le finestre venivano oscurate proprio con una specie di
bambagia bianca per nascondere la luce di sera quando le suore prose-
guivano la loro attivit di preghiera dopo che eravamo tornati a casa).
E nella mia mente di bambino pensai che quei fiocchi arrivavano dalle
macerie della scuola di Gorla, portati dal vento e rabbrividivo pensan-
do a quei miei coetanei.
Le discese rapide in rifugio rispettavano una procedura sempre ugua-
le: mio padre, ci accompagnava gi in cantina, portandosi una borsa
con le cose essenziali e una torcia a manovella che si accendeva ap-
punto continuando a schiacciare una leva per azionare una specie di
dinamo.
Insieme agli altri abitanti della casa ci sedevamo sulle panche messe l
apposta e, mentre le donne iniziavano la recita del rosario, i maschi o
giocavano a carte o discutevano sulle vicende della guerra, dei tede-
schi, di Mussolini e dei fascisti, delle tessere annonarie con le quali
era permesso acquistare il pane e lo zucchero in dosi limitate.
Il fischio acuto precedeva lesplosione e subito si rimaneva al buio e
in silenzio in attesa, sperando che la bomba cadesse lontano. Una not-
te ci sembr che crollasse la casa ma era una bomba che aveva colpito
la casa di fronte a noi dallaltra parte della via: tutti morti.
Per due vecchietti che vivevano in una capannina dietro la casa di-
strutta, erano rimasti illesi e vivi: strane coincidenze della vita.
Ricordo un episodio divertente: una sera, un allarme improvviso arri-
v mentre mio padre era seduto sulla tazza del gabinetto; si pul, prese
il rotolo di carta igienica, e si precipit in cantina con noi.
Seduto sulla solita panca, era convinto di avere in mano la pila a di-
namo e continuava schiacciare la carta igienica fin che gli fecero nota-
re che non era la pila: imbarazzo prima e risate dopo che sollevarono
un po lo spirito ai presenti.
Mia madre non scendeva mai in rifugio: non voio morir come un to-
po! diceva e rimaneva in casa a pregare.
Raccontare queste cose oggi mi sembra naturale ma spero che spaven-
tino abbastanza chi legger per capire che cosa significa la guerra che
in molte parti del mondo ancora oggi distrugge uomini e case.
Si mangiava poco e si usava spesso un fornello elettrico sul quale si
scaldava lacqua per la pasta (quando cera). Ricordo come oggi un
venerd santo in cui mio padre era riuscito a procurarsi una scatoletta
di acciughe. Per noi era una grande festa e stavamo pregustando gli
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spaghetti che avremmo condito con le acciughe, quando la resistenza
del fornello su cui stavano cuocendo gli spaghetti si ruppe e dovemmo
attendere che il filamento si raffreddasse per poterlo ricollegare e pro-
seguire la cottura. Ricordo che mangiammo tutto gustando una specie
di colla di pasta, ma la fame era fame!
A Milano in vari quartieri erano sorte delle mense di legno dove si po-
teva andare a mangiare con pochi soldi o con dei buoni (forse i primi
buoni pasto aziendali?) che venivano dati ai bisognosi. Mio padre ri-
ceveva una piccola dose di questi buoni e ogni tanto si andava in tram
a mangiare in una di queste mense, sita in fondo a viale Tunisia, da-
vanti alla piscina Cozzi.
Mio padre chiamava il pidocchietto la mensa per lodore sgradevole
che si sentiva dentro. Eppure si mangiava un succulento passato di
ceci o di piselli, dal gusto anonimo. Qualche volta una fetta di morta-
della ci rallegrava e ricordo che una volta avevo tanta fame che chiesi
a mio padre se potevo avere un buono per una seconda porzione di
mortadella: potete immaginare di che cosa fosse composta ma per me
fu buonissima e ne ricordo ancora il gusto.
Un giorno che stavamo andando in tram io a voce alta chiesi a mio
padre: Andiamo al pidocchietto?. Lo sguardo degli altri passeggeri
si concentr su di me, mentre mio padre e mia madre con mio fratello
e me ci avvicinammo alla porta duscita vergognandoci come bestie,
per scendere appena il tram si ferm alla sua prima sosta e proseguire
a piedi. Evitai dun pelo una sberla di mio padre.
Sul momento non capii ma la successiva lavata di capo mentre rag-
giungevamo il pidocchietto, pardon, la mensa, da parte di mio padre
mi insegn che noi eravamo evidentemente pi poveri degli altri pas-
seggeri sul tram.
Una volta, proprio mentre il tram n. 22 stava arrivando al capolinea,
che era dopo i prati dietro casa nostra, sentimmo degli spari. Il tram si
ferm e apr le porte. Mio padre ci url di scendere e di buttarci di
corsa distesi nel prato. Feci in tempo a vedere vicino al ponte due uo-
mini che, distanti tra loro meno di venti metri, si sparavano con delle
pistole. Vidi cadere in terra uno dei due prima che mio padre mi met-
tesse la mano davanti agli occhi per non farmi vedere.
Restammo cos per un po di tempo ma dopo essere rientrati in casa
mio padre non volle rispondere alle mie domande; cos non seppi mai
che cosa fosse successo; oggi posso pensare che era un partigiano che
sparava ad un fascista e viceversa, ma non di pi.
Una mattina dalla terrazza dove abitavamo al terzo piano ne vidi ben
altri che si sparavano col mitra dagli angoli delle strade sotto di noi:
erano i giorni della confusione e io ascoltavo di nascosto episodi che
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mio padre, lavorando in questura, veniva a conoscere di giorno in
giorno.

Capitolo 8

Il 22 aprile 1945 mio padre, come ogni domenica mi port a messa in
Duomo; alluscita, forse anche perch sapeva gi qualcosa che aveva
saputo nei corridoi della questura, mi port verso la galleria e
allimprovviso, vedendo molta folla che si precipitava dalla piazza per
qualcosa che stava accadendo, mi trascin gridandomi corri! e alla
fine, per farmi vedere meglio, mi mise in groppa sulle spalle e, mentre
entrava nel braccio orizzontale della Galleria, mi grid:
Sta per passare un uomo su un carro blindato; guardalo bene perch
lo vedrai per lultima volta nella tua vita
Era Mussolini; lo vidi impettito in piedi che salutava militarmente la
folla che era accorsa, mentre il blindato deviava per via Tommaso
Grossi.
Aveva ragione mio padre: alcuni giorni dopo fu ucciso sul lago di
Como insieme alla Petacci.
Avrei voluto farmi portare in piazza Loreto ma mio padre me lo viet
tassativamente per non farmi impressionare da quei corpi appesi e of-
fesi dai passanti increduli.
Il 24 aprile eravamo tutti scesi in strada ed aspettavamo davanti al por-
tone larrivo annunciato ma non sapevo di chi, quando vidi arrivare
dal centro citt una specie di colonna militare: erano partigiani a piedi,
il mitra a tracolla, preceduti da una moto Guzzi con sidecar su cui un
graduato in piedi, con una bandiera a fianco che sventolava, stava ritto
nel saluto militare, impettito e tronfio perch (cos mi disse mia ma-
dre) stava andando oltre il ponte a Smistamento per far arrendere i mi-
litari tedeschi che erano l accampati.
Dopo oltre unora la colonna di partigiani torn ma questa volta erano
mesti e in silenzio mentre allandata suonavano squilli di tromba: i te-
deschi si erano rifiutati di arrendersi, affermando che lo avrebbero fat-
to solo con gli inglesi: temevano atti assurdi da parte dei partigiani che
avevano grande fame di vendetta.
Ed infatti alcune ore dopo arrivarono i carri armati inglesi seguiti a
piedi dai tedeschi che si erano arresi e passavano davanti a noi con
lonore delle armi e volti di ragazzi giovanissimi emaciati e pieni di
fame e di divise sporche.
Ho ancora negli occhi lo sguardo pietoso di uno di quei ragazzi che mi
fiss in volto come fossi stato suo fratello, ma doveva avere pochi an-
ni pi di me.
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Mia madre mi strinse a s e si volt per rientrare a casa: stava pian-
gendo per la tristezza nel vedere quei ragazzi o per la gioia nel render-
si conto che finalmente la guerra era finita?

Capitolo 9

Nella casa dove abitavamo la vita ritorn piano piano normale ma un
giorno in agosto mio padre che era sceso nel pomeriggio per andare a
lavorare, torn in casa con una lettera destinata a mia madre. Era del
fratello Giovanni che era stato preceduto da un telegramma che non
era mai giunto e iniziava dicendo:
Dopo la dipartita del nostro caro pap .
Mio nonno Vito era morto il 23 luglio allospedale di Udine unora
dopo che mia nonna era tornata a casa a Manzano.
Ricordo mia madre distesa sul letto, a faccia in gi, che piangeva e
piangeva. E mio padre cercava inutilmente di consolarla.
Non ho quasi mai parlato di mio fratello; nel 1945 aveva tre anni e io
dovevo essere il suo angelo custode perch era una peste.
Un pomeriggio scesi per andare a giocare nel prato di fianco a casa
ma, appena in strada, mentre mio fratello correva verso il prato, vidi
nella strada di fronte a noi un gruppetto di curiosi che circondavano un
carro armato posteggiato per met sul marciapiede.
Mi avviai per vederlo anchio, affascinato e dimenticandomi comple-
tamente di mio fratello, perch non avevo mai visto da vicino un carro
armato vero, anche se a Fiume avevo avuto un carro armato di legno
(questi erano i giocattoli in tempo di guerra) che sparava proiettili di
legno con unapposita molla e un grilletto.
Rimasi a guardarlo per un certo tempo e quando tornai a casa mia ma-
dre mi chiese:
E tuo fratello? Mi sembr che mi crollasse il mondo addosso e mi
precipitai in strada inseguito dai rimproveri che mia madre mi stava
urlando.
Io non ricordo se ci che vidi fu vero o no ma ho uno strano ricordo: il
prato, che era di una fattoria che oggi non c pi perch sostituito da
case alte una decina di piani, era solcato da una serie di piccoli fossi in
cui lacqua era alta forse trenta/quaranta centimetri. Io ricordo, ma ri-
peto, non so se vero o fu la mia immaginazione, vidi mio fratello
dentro il fosso a testa in gi e le gambe per aria.
Feci in tempo a estrarlo dallacqua e lo riportai a casa. Era bagnato
fradicio (e questo era vero) e presi tane sberle da mia madre mentre mi
sgridava ed io scomparivo dentro il mio io, pensando di essere colpe-
vole di aver rischiato di far annegare mio fratello.
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A circa duecento metri dalla nostra casa cerano case a suo tempo co-
struite per i ferrovieri e in una di queste, che aveva un ampio cortile
nel centro del caseggiato una sera avevano organizzato una festa da
ballo con musica.
Io stavo dormendo e non mi accorsi di nulla e i miei genitori fecero
una delle pi grosse fesserie della loro vita: decisero di scendere a bal-
lare, anche se per pochi minuti ma non mi avvisarono.
Sar stato il sesto senso o pi semplicemente il suono della musica che
arrivava dalla strada, avvenne che mi svegliai di soprassalto e non tro-
vando in camera da letto i miei genitori mi spaventai.
Dopo un po dincertezza, mi decisi, svegliai mio fratello, ci vestimmo
e scendemmo in strada. Seguendo il suono dei balli ci avviammo in
quella direzione ed entrammo nel cortile dove rimanemmo a vedere la
coppie che ballavano.
Ad un certo punto scoprimmo i miei che stavano volteggiando in un
valzer, spensierati.
Ma quando ci videro si spaventarono, interruppero la danza e ritor-
nammo tutti e quattro a casa.
Non ricordo esattamente che cosa mi dissero ma cercarono di dire
qualcosa per giustificarsi e cercando di rimproverarci per la nostra im-
prudenza. Secondo loro avremmo dovuto rimanere a casa a dormire:
fu il colmo e io non parlai, ma ho ancora chiaro il ricordo dello spa-
vento subito, perch un bambino a sette anni, reduce da tanti avveni-
menti della guerra, poteva essere pi sensibile a certe sorprese.
I Gravina: lui era collega di mio padre e lei era la seconda moglie, so-
rella della prima, morta prematura, lasciando Pasquale Gravina vedo-
vo con tre figli, Lucio, Anna e Rita. Con la seconda moglie era nato
Edoardo, pi piccolo di me, che tutti chiamavano Ado. Spesso si an-
dava a casa dei Gravina che abitavano vicino in via Aselli e, insieme
ad altre famiglie amiche, si cercava di passare ore liete e di diverti-
mento, per cacciare dalla mente il ricordo delle brutture della guerra e
perch non avevamo altro con cui divertirci. Allora non esisteva la TV
e non si andava al cinema molto spesso perch avevamo pochi soldi.









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Capitolo 10

Ed arriv il nono trasloco: da via Amedeo in via Morgagni, una paral-
lela del pi noto Corso Buenos Aires, allangolo con via Ozanam e
piazzale Bacone.
La causa fu la richiesta del proprietario di via Amedeo, un colle-
ga/amico di mio padre, un certo Fiorillo che aveva bisogno
dellappartamento per le sue sorelle che dovevano venire su dalla Sici-
lia
Mio padre dovette rivolgersi al Commissariato alloggi, dove si rec
portando dietro moglie e figli per impressionare meglio gli addetti.
Ci concedettero la coabitazione in casa di un medico, dott. Morandi,
fratello di un noto onorevole socialista, che viveva con moglie e figlia
gi zitella. Aveva un altro figlio ma era in Russia, dove si era sposato
con una ragazza del luogo.
A noi furono riservate due stanze, una per viverci di giorno e una da
usare come camera da letto.
Fu una buona sistemazione e traslocammo rapidamente da via Ame-
deo, rimanendoci per due anni fino al 1948.
Ho molti ricordi di quei due anni, ma cito solo i pi importanti.
Lappartamento era abbastanza vecchio e le stanze ampie. Si viveva
nella stanza che dava sul cortile, dove a pianterreno stavano avviando
un nuovo ristorante: Il Coccodrillo.
Io frequentai per un certo periodo una scuola privata ma finalmente
fui iscritto alla Stoppani che per, avendo subito danni durante la
guerra, era stata trasferita come uffici e aule in piazza Leonardo da
Vinci, proprio davanti al Politecnico, in una traversa di viale Roma-
gna.
Mi ricordo il tragitto giornaliero con mia madre e la sosta alledicola
della piazzetta Carlo Erba dove sorgeva la sede dellomonima indu-
stria farmaceutica e si incrociavano due diverse serie di binari di tram.
Allora la mia passione era Salgari, ma avere un libro delle edizioni
Carroccio era un regalo raro.
Avevamo in comune il bagno con la famiglia del dottore e a volte
cerano piccoli scontri sul suo uso. Una volta sentii mia madre che
raccontava a mio padre ridendo che la vecchia aveva attraversato il
corridoio centrale (piuttosto grande) di corsa, perdendo la cacca sulle
piastrelle del pavimento perch aveva forse la diarrea.
Fu in quellepoca che fui colpito da una forma antipatica di itterizia
(una specie di epatite).
Non so se per questo o per altri motivi, durante lestate andammo in
ferie a Venezia ed abitare presso dei lontani parenti di mio padre: lui
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era siciliano, la moglie di Milano e le due figlie (Concetta e Aurora)
nate a Venezia e ormai grandicelle. Ma non ricordo che ci fosse molta
simpatia tra me e le due bambine. Andavano ogni giorno al Lido a fare
i bagni ma io rimanevo a casa, non so se per litterizia o cosa, con il
lontano parente di mio padre che veniva a casa dal lavoro solo per il
pranzo, servito da una vecchia che non ricordo se fosse la madre della
moglie o una cameriera. Ricordo che mangiavo sempre riso in bianco
condito con il prezzemolo.
In un momento di allegria una sera mia madre con la lontana parente
vollero recarsi in un locale dove finalmente dopo le tristezze della
guerra si ballava ed erano presenti molti militari americani.
Ceravamo anche io e mio fratello. Ad un certo punto un americano
invit a ballare mia madre che, dopo un po di ritrosia, accett e ball
molto volentieri perch sapeva ballare bene e il ballo le piaceva molto.
Mentre rientravamo a casa, mia madre raccomand a mio fratello (era
ancora piccolino ma furbetto) di non dire nulla a mio padre. Cosa che
Gianfranco invece fece appena sceso dal treno alla stazione di Milano,
di ritorno da Venezia.
Per la mia itterizia, mio padre, per non chiedere lintervanto del dott.
Morandi (non so perch) aveva chiamato un altro medico. Appena
nella camera da letto, pretese un cuscino per inginocchiarsi vicino a
me per visitarmi ed auscultarmi. Per lui avevo una forma di reumati-
smo da curare con rinforzi nel cibo, specialmente uova. Mia madre,
non convinta chiese al dott. Morandi una visita e cos si scopr che io
non volevo mangiare perch non potevo avere fame a causa
dellitterizia. Mio padre rest mortificato perch a causa della diagnosi
del medico ignorante mi costringevano a mangiare uova (cibo delete-
rio per chi ha una forma di itterizia o di epatite).
Spesso mia madre usciva o per le spese o per portare i suoi lavori ad
un sarto di cui non so nulla.
Mio padre era al lavoro e cos io rimanevo in casa da solo con mio fra-
tello che aveva quattro anni circa.
Per riscaldarci avevamo una parigina (cos si chiama una piccola
stufa che va a legna o anche a carbone). Io mi sedevo vicino per scal-
darmi mentre leggevo Salgari. Un pomeriggio mia madre si era procu-
rata uno di quei recipienti di latta che gli americani usavano per con-
servare il prosciutto cotto di forma quadrata, adatto per i toast. Il reci-
piente, alto circa trenta/quaranta centimetri era ancora pieno di grasso
e mia madre pens bene di metterlo sulla parigina pieno dacqua per
far sciogliere il grasso con il caldo.
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Ad un certo punto mio fratello, agitato e ribelle come sempre, si lanci
di corsa e credo che inciamp provocando una paurosa oscillazione
della stufa.
Mentre il tubo di scarico dei fumi crollava dallalto, cadendo a terra
con un forte fracasso, il contenitore oscill tanto da rovesciarsi.
Distinto feci in tempo a sollevare da terra mio fratello salvandolo da
scottature certe di acqua bollente e ad alzarmi su un piede, ma su uno
solo!
Laltro fu colpito dallacqua bollente e subii una forte scottatura.
Mia madre, rientrata poco dopo, spaventata per il disastro, cerc di
strapparmi la pantofola friulana dal piede, ottenendo di strapparmi la
pelle aggravando cos la scottatura.
Risultato: la scottatura divenne pi grave e il giorno dopo una grande
bolla si era formata sul piede mentre io me ne rimanevo dolorante a
letto. Ci fu lintervento del dottor Morandi e le conseguenze me le
porto ancora oggi: sul piede destro ho una grande cicatrice.
La notte di Natale, di nascosto uscii dal letto a scoprire i regali che i
miei genitori avevano preparato dicendomi che sarebbero stati portati
da Ges Bambino. E io, per continuare a ricevere i regali, continuai a
far finta di credere alle loro bugie, cos mi and bene per altri due an-
ni.
Finalmente la scuola Stoppani riprese a funzionare ed io andavo in
terza elementare nella sua vecchia sede in fondo a via Morgagni, piaz-
za Lavater. Ricordo ancora il nome della mia maestra che mi voleva
molto bene perch ero il primo della classe e il pi disciplinato: la ma-
estra Beneducci.
In una traversa, via Francesco Redi, cera loratorio dove una volta di
notte sognai che sopra la porta addobbata in viola era seduto ghignan-
te il diavolo: mi stavo preparando per la prima comunione e ci aveva-
no terrorizzato con le storie sul diavolo e sui peccati.
Strana coincidenza: 64 anni dopo circa mio figlio Francesco frequen-
tava la sede di una importante On Lus, la Action Aid, proprio in via
Redi.
Ma in quellepoca lepisodio pi importante fu vedere la morte in di-
retta di un povero ciclista: aveva affiancato un camion con rimorchio
in curva, ma aveva forse perso lequilibrio ed era finito sotto i doppi
pneumatici del rimorchio. Ricordo ancora il suo urlo agghiacciante
mentre rotolava intorno ai pneumatici rimanendo poi in mezzo alla
strada senza vita, la bici maciullata. Non ebbi il coraggio di avvici-
narmi e scappai a casa piangendo da mia madre.
Tempo dopo il dottore si ammal (aveva tra laltro uno studio molto
importante dietro la Scala) e fu colpito da una broncopolmonite molto
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grave. La moglie, prima sempre astiosa con mia madre, questa volta
divenne dolce e premurosa: la preg di recarsi non so dove a sud di
Milano e mia madre dovette andare in bicicletta a ritirare una delle
prime confezioni di penicillina (si otteneva credo solo di contrabbando
ed era molto difficile averla) in una localit a me sconosciuta, portan-
dosi in tasca la somma per allora enorme, di ben cinquecentomila lire!
Il dottore guar e ci fu riconoscente ma torn dalla Russia laltro figlio
con relativa moglie che sembrava pi unabitante della Mongolia per i
tratti somatici. Aveva questa donna una strana abitudine: si ricopriva
la faccia di burro per mantenere, cos disse a mia madre, la pelle luci-
da.
Il loro arrivo provoc la necessit di lasciare loro i locali e quindi di
trovare per noi una nuova casa e cos avvenne il decimo trasloco.

Capitolo 11

Grazie ad informazioni presso il commissariato alloggi nel 1948 mio
padre ottenne in affitto un appartamento che era vuoto, di propriet di
un avvocato, un certo Colli, in via Telesio, una traversa di via Mario
Pagano, un quartiere piuttosto lussuoso della zona Magenta.
Al n. 14 a pian terreno ottenemmo un appartamento di due grandi
stanze con finestre su strada, pi una cucina che dava sul cortile inter-
no e un grande bagno.
Cera ancora una stanza ma era rimasta chiusa a chiave perch il pro-
prietario volle conservarla per s.
Per alcuni mesi vivemmo in un appartamento tutto per noi e ci sembr
di rivivere.
Mia madre poco prima del trasferimento aveva ricevuto in regalo una
bella gattina nera alla quale eravamo tutti affezionati e la chiamava-
mo Tuli, ma il portinaio, un essere spregevole, approfitt un giorno
che la gattina in cui si infil nella cantina dalla parte del cortile, per
avvelenarla. Mia madre pianse calde lacrime ma mio padre non volle
pi animali per casa e non fece nulla contro il portinaio perch non
avevamo prove che fosse stato lui.
Lappartamento doveva aver ospitato o degli ebrei o una qualche setta
orientaleggiante perch la stanza che usavamo per mangiare aveva
nellaria uno strano profumo denso simile allincenso e sulla parete
sopra una specie di alcova che poteva ospitare un letto erano rimaste
le impronte di strane lettere che potevano assomigliare a caratteri
dellalfabeto ebraico.
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In autunno incominciai la scuola in fondo a via Pagano, esattamente in
via Rasori a pochi passi dal luogo in cui alcuni anni dopo fu ucciso
proditoriamente il commissario Calabresi.
In fondo a via Telesio si apriva al di l della via Pallavicini,
unenorme superficie cosparsa di macerie di mattoni e muri di un pre-
cedente scalo ferroviario, lo scalo Sempione, distrutto dai bombarda-
menti in tempo di guerra: era il nostro regno dove sfogavamo la nostra
voglia di giocare alla guerra. Avevamo inventato la nostra banda, la
banda della dea Kal, contro quella che avevano i ragazzi della vicina
via Alberto da Giussano.
L fingevamo di combattere nella giungla e spesso ammiravamo un
barbone che si metteva a torso nudo, dietro un grosso avanzo di muro
di mattoni alto quasi due metri, a cuocere con un fuocherello dei pezzi
di profumata cotenna di prosciutto che costituivano il suo pasto.
Lidea ci venne alcuni giorni dopo e, dopo aver raccolto alcuni pneu-
matici di bicicletta abbandonati, demmo loro fuoco e correndo da via
Giotto in su incendiammo tutte le sterpaglie che calpestavamo corren-
do verso la via Vincenzo Monti. Non so come mai non combinammo
qualche guaio.
Mia madre aveva trovato lavoro: faceva pantaloni per un sarto che
abitava in via Washington, oltre piazza Piemonte e io spesso dovevo
fare la spola tra casa e il sarto.
Approfittavo per attraversare il prato incolto e pieno di macerie per-
correndo un sentierino naturale che si era formato nel frattempo e che
nella mia immaginazione di ragazzo pieno di sogni immaginavo esse-
re un grande fiume africano che attraversava una giungla. Con la mia
fantasia riuscivo a immaginare avventure meravigliose che davano un
senso positivo al tempo che dovevo dedicare a quellincombenza.
Fu un periodo felice della mia vita anche se poco tempo dopo
lavvocato affitt la stanza chiusa ad una coppia di sposini, i signori
Piazza. Lui lavorava alle cartiere Binda e mi regalava spesso dei qua-
derni per i miei compiti scolastici e lei era gi incinta e divenne molto
amica di mia madre. Il figlio, che chiamarono Celio, nacque in quella
casa e sembrava che fosse nato Ges Bambino.
Da via Telesio la parrocchia era quella di Santa Maria Segreta (non so
perch segreta) in fondo a via Ariosto dove frequentavo loratorio.
Qui conobbi un sacerdote, don Fausto Bigi, una figura ascetica e santa
che spesso alla sera, quando ci facevamo le prove del coro, mi accom-
pagnava fino a casa per non farmi fare da solo la strada di ritorno.
Solo molti anni dopo seppi che era morto molto giovane, colpito, cre-
do, da una malattia ai polmoni. Come mi resi conto solo molti anni
dopo che per due anni vissi vicinissimo alla sede dellOpus Dei, e del-
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la sede femminile che era /ed tuttora) ospitata in una bella villa in
fondo alla via Telesio.
In quel periodo non eravamo in grado di fare vacanze estive al mare e
ci accontentavamo noi ragazzi delloratorio, seguiti da don Fausto, di
organizzare un giro dItalia nella vicina via Tamburini, una parallela
di viale XX settembre, di fianco alla villa della facoltosa famiglia
Falk; non sapevo allora che al liceo avrei avuto in classe Alberto, il fi-
glio erede della grande azienda di acciaierie di Sesto San Giovanni e
che divenne poi amico mio e mio aiuto economico quando mi sposai,
anche grazie alla generosit di sua madre.
Ogni giorno si disegnava sullasfalto della via col gesso il percorso
della tappa e i ciclisti si costruivano con i tappi della birra (li chiama-
vamo i tollini): si asportavano alcuni parti di sughero dal fondo dei
tappi, si avvolgevano di carta del colore della squadra del corridore e
si ritagliavano dalla Gazzetta dello sport i nomi dei corridori. Esem-
pio: su fondo azzurro e con una striscia bianca trasversale (maglia del-
la Bianchi) si sovrapponeva il nome ritagliato di Fausto Coppi e pos-
sibilmente anche la foto del volto. Per tenere tutto insieme si usava il
cellophan dei pacchetti di sigarette che si avvolgeva stretto stretto e si
incastrava nel tollino in modo farne un corpo unico molto elegante.
Sullasfalto due righe parallele indicavano il percorso e le montagne
(che chiamavamo Pirenei) venivano disegnate con un tratto unico e
stretto.
Si tirava con la punta delle dita della mano un colpo a testa a turno e
chi era pi abile sopravanzava sugli altri.
Il premio di tappa era una bevanda di aranciata. Ricordo che vinse un
certo Guerra (una coincidenza?) il primo giro dItalia per tollini.
Altre volte ci recavamo con don Fausto a giocare ala guerra tra le ma-
cerie della caserma Mainoni, allangolo tra via Mario Pagano e via
Vincenzo Monti. Non cerano pericoli perch la macerie erano state
ammucchiate dai militari; noi ci nascondevamo dietro muri diroccati e
montagne di detriti e il gioco consisteva nellorganizzare due eserci-
ti muniti di un cartone stretto da uno spago sulla fronte e riportante
un numero di tre cifre. Labilit consisteva nel giocare come a guardia
e ladri e di riuscire a leggere a voce alta il numero dellavversario
prima di essere letti a nostra volta dal nemico.
Era un modo semplice ma felice di giocare e non avevamo bisogno di
tutte le fantasticherie costose delle generazioni di oggi.
Nasceva lItalia repubblicana risorgendo dalle macerie della guerra e
si sentiva nellaria qualcosa di nuovo anche se non era un boom eco-
nomico. Si mangiava meglio e ci si incontrava spesso con amici e pa-
renti.
26

In quellepoca mia madre dovette farsi operare di appendicectomia
allospedale Fatebenefratelli. Scese da Manzano mia zia Bice a sosti-
tuire mia madre e un giorno mi accompagn in tram allospedale a fa-
re visita a mia madre.
In tram, in piedi dietro un signore seduto a leggere il giornale, allungai
lo sguardo per leggere anchio e ricevetti uno stupido rimprovero per-
ch mi ero permesso di allungare locchio sul suo giornale. Ci resi
molto male, oggi gli straccerei il giornale per insegnargli che non ci si
rivolge cos ad un bambino curioso ma anzi lo si aiuta a leggere!
Allospedale era vietata lentrata ai bambini minori di dieci anni io ri-
sposi alla domanda del custode che avevo undici anni. Allora mi chie-
se che classe facessi ed io ingenuamente mi feci fregare, ma mi fece
passare.
Da allora mia madre ricevette la triste notizia che lintervento aveva
leso unovaia e che difficilmente avrebbe potuto avere altri figli. Pian-
se a lungo mentre mio padre, fingendo il dispiacere, era invece tutto
contento perch pensava che da allora sarebbe andato con mia madre a
ruota libera.
Nel frattempo, poich dinverno mangiavamo accanto al calorifero ma
mia madre andava avanti e indietro dalla cucina fredda, si prese una
pleurite. Era consigliabile cambiar aria per guarire e mio padre decise
di portarci a Manzano per qualche mese dove io fui iscritto alla quarta
elementare della scuola del paese.
Fu un trasloco breve di alcuni mesi che non metto nel conto dei traslo-
chi.
Ricordo la forte differenza tra me e i miei nuovi compagni ma un
giorno incappai in un errore dialettale in un tema: descrivevo la cam-
pagna e parlai di coioni anzich di covoni di fieno. Furono grasse risa-
te in classe e a casa di mia zia.
Mia madre si rimise e io finalmente conobbi tanti miei parenti e un
paese meraviglioso addossato ad una collina al di qua del fiume Nati-
sone.
Fu allora che mia madre con altre parenti donne e relativi figli decise
di andare al santuario di Castelmonte sopra Cividale, dove trascor-
remmo la notte nel locale alberghetto per i pellegrini, tutti ammassati
in una sola stanza. Io ebbi poca fortuna perch mi fecero dormire su
una coperta per terra ma mi vendicai. Nel mezzo della notte imitai il
verso di un topo e gridai Un topo! Un topo!.
Ci fu una grande confusione ma nel frattempo io mi conquistai un po-
sto nellunico letto matrimoniale di quella stanza.
A Manzano sulla piazza della chiesa, con laiuto di mio padre e una
piccola bicicletta di una mia cuginetta imparai ad andare in bicicletta.
27

La piazza della chiesa era grande e il campanile troneggiava su tutto il
paese. Quando era lora in cui si suonavano le campane a mano, cor-
revamo nella torre campanaria ad appenderci alle corde, specie a quel-
la del campanone pi grosso perch ci permetteva di volare in aria,
appesi alla corda trascinata dal peso della campana.
Nella viuzza dietro la casa dove abitavano mia nonna e mia zia Bice
con le due figlie lungo i muri venivano distese le paglie colorate che
poi sarebbero state usate per costruire limpagliato delle sedie (Man-
zano tuttoggi nota per le sue sedie e una grande sedia alta alcune
decine di metri sorge in mezzo al cortile delle scuole elementari!).
E dietro la casa della nonna cera il cinema che era gestito da mio zio
Timo. Alla sera, mentre la nonna rivolta verso la stufa economica, in
ginocchio su una sedia iniziava il rosario per adempiere al suo voto, io
e mia cugina Mariolina sgattaiolavamo di nascosto ed entravamo die-
tro il telone dove veniva proiettato il film. Guardavamo i film gratis e
le scritte al contrario. Fu allora che vidi cos il film La signora Mini-
ver.
Cercavo di imitare i ragazzi del paese che andavano in giro scalzi ma i
miei erano piedi di citt e non mi veniva facile correre scalzo nei fos-
setti lungo lo stradone davanti a casa dopo unabbondante pioggia.
Passai quattro mesi meravigliosi, mentre mia madre guar definitiva-
mente e purtroppo una mattina fredda dovemmo salire sul treno che ci
riportava a Udine e da qui a Milano, dove rientrammo in via Telesio.

Capitolo 12

Durante lestate le nostre vacanze si svolsero a Manzano; con Mario-
lina imparai a nuotare nel Natisone anche se un giorno la vista del
madrach mi spavent a morte: una serpe nuotava con la testa fuori
dallacqua, ma si vedeva bene la sua pelle maculata gialla e nera an-
che sotto il pelo dellacqua.
Mariolina faceva la furba ma si era spaventata anche lei.
Dopo alcune volte in cui avevo preso confidenza con lacqua del fiu-
me, relativamente bassa, imparai a sfruttare uno stretto passaggio che
si era fatto strada a fianco della piccola diga che frenava lacqua del
fiume. Qui la corrente era fortissima e il piacere maggiore era quello
di lasciarsi trascinare nel gorgo che aggirava la diga, sfociando in una
larga ansa del fiume dove arrivavamo felici, senza pensare al pericolo
di farci del male.
Avevamo molta pi paura quando dovevamo fare un certo percorso
per raggiungere il fiume attraverso una scorciatoia: era il muretto del
cimitero che divideva i morti dal precipizio scosceso che avevamo sul-
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la sinistra mentre raggiungevamo il punto in cui potevamo metterci a
riva e poi nuotare.
Per oltre trenta metri dovevamo camminare sul muretto un po in bili-
co e avevamo paura ma non di cadere, bens dei morti nel cimitero!
A Milano riprese la scuola a ottobre e linverno incombente ci portava
le prime nebbie che rendevano ancora pi affascinante il mio viaggio
con la fantasia nel prato che consideravo la mia Africa.
La nebbia di Milano di quegli anni era ancora pulita e oggi, anno
2012, ad Assisi al mattino ogni tanto ritrovo quel tipo di nebbia. Da
non confondersi con quella che oggi a Milano sporca e puzzolente.
A proposito di nebbia: i veri milanesi sono rimasti in pochi (nel 1989
quando lasciai Milano i veri milanesi, cio nati a Milano da genitori
nati a Milano erano meno di 160 mila!) e anche meno quelli che ve-
ramente conoscono il dialetto milanese.
Se chiedete a un milanese qualunque come si dice nebbia, ti risponde
nebiaa e non sa che nel vero dialetto milanese la nebbia si chia-
mascighera!.
Ma nella tarda primavera finalmente arriv la bella notizia: ci avevano
sorteggiato per avere in affitto tutto per noi un appartamento nuovo al-
la periferia di Milano, in Largo Boccioni, allinizio di quello che oggi
chiamato il Bronks, cio il malfamato (oggi) quartiere di Quarto
Oggiaro.
E cos facemmo lundicesimo trasloco!

Capitolo 13

Quando nellestate del 1951 entrammo nella nostra prima vera casa
(nostra anche se in affitto) ci fu sembr un sogno.
Largo Boccioni allora non era lanticamera del Bronks, del quartiere
malfamato che oggi ma lultimo avamposto di case dopo le quali la
campagna e la brughiera ci accoglievano nelle nostre gite di Pasqua o
nelle nostre giornaliere scorribande fino alle cave piene di acqua ver-
dissima, contenente non si sa che cosa.
I caseggiati costruiti dallente delle Case Popolari erano otto e noi a-
vevamo lappartamento nel secondo palazzo al terzo piano: una sala
da pranzo, un cucinino, una camera da letto, un bagno e un piccolo
corridoio: ci sembrava una reggia.
Mio padre si era rilassato un poe alla sera spesso con amici e colleghi
si recava a giocare a carte nel bar dallaltra parte della piazza, mentre
mia madre si accontentava della musica della radio. Non esisteva an-
cora la televisione e non avevamo nemmeno il telefono. Io dormivo in
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un divano nella stanza che di giorno usavamo per tutto, mangiare, stu-
diare io, stirare mia madre, giocare mio fratello.
Una sera mentre mi ero appena addormentato una litigata tra i miei mi
svegli di soprassalto.
Non capivo perch litigavano mentre loro non si preoccupavano di a-
vermi spaventato.
Il giorno dopo seppi tutto: mia madre, contrariamente alle previsioni
dei medici, era rimasta incinta e mio padre si vergognava e le aveva
raccomandato di tenere il segreto con tutti; eppure aveva solo 43 anni!
Mia madre per parl con la moglie di Liberti, un collega di mio padre
che abitava nella scala vicina e lei a sua volta inform il marito che
una sera al bar davanti a tutti, a sua insaputa, fece le congratulazioni a
mio padre.
Da qui lincazzatura di mio padre, assurda e ingiustificata, anche per-
ch man mano che passavano i giorni della gravidanza aveva inco-
minciato a ripetere che larrivo di quella che ormai si sapeva fosse una
femmina, sarebbe stata il segno della provvidenza.
In quei giorni accaddero contemporaneamente due episodi che cam-
biarono la nostra vita: nel primo palazzo una famiglia se ne and e
mio padre, essendo lappartamento abbandonato con una stanza in pi,
ottenne il trasferimento: e fu il dodicesimo trasloco.
Ma la felicit di una stanza per me e mio fratello fu presto eliminata
dallarrivo di un cugino da Tripoli: mio padre aveva un fratello, ispet-
tore delle poste a Tripoli dove ancora risiedeva dopo la fine della
guerra. Aveva due figli ma il grande, che si chiamava Giuseppe come
me (ma lo chiamavano Peppuccio), doveva frequentare il Politecnico a
Milano e cos ci ritrovammo in casa un estraneo, visto che avevamo
gi passato tanti anni con altri estranei.
Per giunta mia madre stava per partorire ma doveva servirlo di tutto
perch lo studentello del politecnico pagava un mensile a mio padre
e pretendeva tutto, pranzo completo, lavare e stirare.
Della sua permanenza presso di noi, che si prolung anche dopo che
nacque Concetta il 2 marzo del 1952, ricordo solo una cosa positiva:
mi spieg bene come era la consecutio temporum in latino. Per il
resto fu una schiavit ulteriore che dur fino a che suo padre con tutta
la famiglia non ottenne il trasferimento alla dogana di Milano e una
casa in viale Forlanini, verso laeroporto.
Avevo quattordici anni e gi da quando abitavamo in via Telesio fre-
quentavo la scuola media vicino a piazza Aquileia: via s. Michele del
Carso, un grosso edificio che ospitava anche ragioneria.
La porta si apriva propri davanti al Fopponino, un caratteristico posto
di Milano che ben pochi conoscono: si tratta di un cortile della parroc-
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chia vicina dove cera una giostra nella quale spesso ci divertivamo a
combinarne di tutti i colori, indifferenti di trovarci vicino ad una pic-
cola cappella-edicola che si affacciava sul marciapiede, piena di te-
schi. Questa zona ospit un cimitero dal 1576 al 1912. Le lapidi com-
memorative ricordano la storia di questo cimitero e alcuni illustri de-
funti un tempo qui accolti.
Al mattino cera davanti al portone sempre il venditore del castagnac-
cio che per vendeva i pezzi di questa gustosa pasta di castagne con la
tombola: dieci lire; se usciva dispari le perdevi, se usciva pari avevi
diritto a due pezzi. Chiss perch usciva pi spesso il dispari!
In classe avevamo come professoressa di disegno una nana vecchia,
gobba e balbuziente e tra noi il migliore in disegno era Poggi. Manda-
vamo avanti sempre lui che la professoressa classificava con un otto.
Come tornava al posto cancellavamo il voto e andavamo alla cattedra
uno per volta con lo stesso disegno. Chiss perch il massimo poteva
essere un sei meno meno.
I banchi avevano la superficie di legno un po grezzo, a due posti af-
fiancati con il contenitore dellinchiostro in vetro. Io ero al primo ban-
co e con il mio compagno scavavamo dei solchi che nella nostra fanta-
sia erano rotaie di un fantastico treno.
Il bidello, un poveruomo ignorante non per colpa sua, aveva notato i
trucioli per terra sotto il banco e ci aveva accusato di rovinare il ban-
co.
Noi ci difendemmo dicendo che non eravamo stati noi ma il bidello,
dovendo parlare in italiano per farsi capire e non in dialetto ci accus
con una traduzione del milanese che ancora oggi ricordo e che mi fece
ridere allora come ora:
I tapeliti non vanno gi in de per lui!.
Da via Telesio la strada per andare a scuola non era molta; il bello che
per due anni io per andare e tornare passavo sempre per via Alberto da
Giussano, proprio davanti alla villa sede dellOpus Dei e non potevo
certo sapere che un giorno ma una storia che viene dopo.
Ma da Largo Boccioni dovevo usare il tram e il tragitto era molto lun-
go: mezzora al mattino e mezzora alla una.
Del resto, finita la terza media, mio padre mi iscrisse al liceo Manzoni
e i viaggi per andare a scuola dalla quarta ginnasio alla fine del liceo
classico (anno 1955) furono sempre in tram. Per giunta allora esisteva
ancora la buona educazione che i ragazzi cedevano il posto in tram a-
gli anziani e io avrei dovuto fare sempre il viaggio in piedi, ma avevo
trovato un sistema che funzionava bene:
I tram di allora, specie perch percorrevano corso Sempione che, a
causa dei platani, riempiva le rotaie di foglie che emettevano un olio
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che impediva un buona frenata, avevano, vicino alla porta di discesa,
una specie di gabbiotto di legno con il coperchio inclinato, pieno di
sabbia.
Il manovratore, quando ne aveva bisogno faceva cadere un po di sab-
bia sulle rotaie davanti al tram in modo che la frenata fosse regolare.
Quello era il mio posto dove, messi due libri per compensare la parte
obliqua del coperchio di legno, studiavo e traducevo prima latino e
negli successivi anche il greco.
Gli anni pi belli della mia adolescenza si svolsero in largo Boccioni,
specialmente nei prati che circondavano allora le poche case che erano
sorte dopo la guerra, infatti il nome originale del quartiere era Musoc-
co, una frazione che aveva dato il nome al non lontano cimitero che
era da anni in fondo a Viale Certosa e che allora si intravedeva dal no-
stro balcone.
Ma col tempo, oltre la piazza, al di l dellautostrada e al di l dei
campi di frumento che allora cerano, sorsero decine di palazzi per uf-
fici che oggi, specialmente di notte con le loro insegne pubblicitarie
sembrano tristi fantasmi di una cittadina americana.

Capitolo 14

Io frequentavo la parrocchia in fondo a via Aldini e il relativo orato-
rio. Aiutavo i due preti con la buona stampa: andavo in tram il sabato
pomeriggio in centro fino in via s. Antonio, una traversa di via Larga,
per ritirare i giornali che poi rivendevo sulla porta della chiesa la do-
menica mattina dopo la messa delle sei.
Costruivamo insieme gli aeromodelli della Movo; ricordo il T5, con le
ali ad angolo diedro che provavamo nei prati dietro via Dossena e fu
grande il nostro dispiacere nellaver perso laereo un giorno per un
termica che ce lo aveva portato via.
Ma la zona era per me un luogo di meditazione e di piacere perch
ero in cerca di qualcosa che non trovavo. Era unet delicata e la mia
vita in famiglia non mi dava molte soddisfazioni, Mio padre conside-
rava normale che io fossi quasi un genio e trattava molto male Gian-
franco perch non era alla mia altezza negli studi: non si rendeva con-
to che ogni uomo nasce con un cervello suo diverso da quello degli al-
tri anche se sono fratelli di sangue.
Fu in quel periodo che conobbi la Giovent Studentesca, gestita da
don Giussani e che poi si chiam Comunione e Liberazione, rovinan-
dosi completamente. Studenti e studentesse erano attratti dal linguag-
gio un po libero e sfacciato di don Giussani ma mancava la cosa prin-
cipale: nessuno insegnava agli studenti limportanza della meditazione
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e della lettura dei testi sacri ad incominciare dai vangeli: come puoi
buttar fuori qualcosa che non hai dentro?
Ma questo non interessava nemmeno a don Giussani che ci raccoman-
dava di andare la domenica in bassa: in bassa voleva dire andare a
sud di Milano nelle fattorie a portare il messaggio di Cristo. Ma qua-
le? I contadini la domenica lavorano o, se riposano, perch hanno
accumulato tanta stanchezza che non vogliono altro che una bella
dormita nel loro letto.
E cos andare in bassa era una scusa per andare in camporella e
quante coppie si formavano e di queste molte poi si univano in matri-
monio, come, ad esempio, mio fratello; che per, sposato e con un fi-
glio, divorzi dalla moglie dopo nove anni di matrimonio.
Lunico episodio positivo di quel periodo fu un intervento un pome-
riggio nella sede di via Statuto a Milano di Giuseppe Lazzati, il rettore
della Cattolica che ci parl commentando le prime parole del vangelo
di Giovanni.
Ho ancora il ricordo della sua voce pacata mentre ripeteva et verbum
caro factum est e del commento che segu per oltre due ore.
Ma lasciamo questo ricordo e torniamo alla mia vita di ogni giorno.
Ricordo che studiavo latino, greco o storia con la mia sorellina in
braccio per alleviare le fatiche a mia madre che lavorava come una
dannata per fare pi pantaloni possibile; questo le permetteva di por-
tare a casa pi quattrini che supplivano al fatto che a met mese i soldi
dello stipendio di mio padre erano finiti. Eravamo poveri e spesso, a
parte le sontuose pastasciutte, il piatto era il pancotto con un goccio
dolio.
In questi giorni di crisi economica (parlo del maggio 2012!) ho senti-
vo alla radio una donna che lamentava la stessa situazione in cui noi
vivevamo normalmente: a met mese non cerano pi soldi per man-
giare. Eppure si viveva, si andava a scuola, in chiesa, a volte perfino a
fare una gita (severamente a piedi) oltre il capolinea di Roserio, dove
sorgeva lospedale Sacchi.
Mio padre aveva smesso di fumare, sia per risparmiare sia per la salu-
te ma in poco tempo ingrass eccessivamente e questo gli provoc
gravi conseguenze alcuni anni dopo.
Uno dei figli di Liberti, Nino, aveva circa la mia et e una sera in cui
stava andando in motorino a vedere un film in via Poliziano, mi invit
ad andare con lui.
Io, pensando che i miei si sarebbero dispiaciuti sia per non aver chie-
sto prima il permesso, sia per il fatto che non avevo mai dei soldi miei,
gli dissi che preferivo rimanere a casa e lo salutai proprio davanti alla
portineria delle nostre palazzine. Non lo vidi pi, perch mezzora do-
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po era stato investito ed era morto sul colpo. Ancora una volta una
delle mie vite era stata consumata nel nulla ma ero ancora vivo.
E arriv lautunno: ero stato promosso bene e mio padre mi iscrisse al
quarto ginnasio del liceo Manzoni, ottenendo di farmi mettere nella
sezione A dove insegnava lettere la professoressa Bianca Ceva: due
anni di ginnasio che mi segnarono per tutta la vita grazie alla severit
e alla profonda preparazione di una vera insegnante, eroe partigiano
della guerra,medaglia doro e sorella di un eroe della resistenza. Per
capire la mia ammirazione per lei copio qui una pagina che le stata
dedicata su internet:

Nata a Pavia nel 1897, deceduta a Milano nel 1982, insegnante e letterata.
Sin dal 1930, nello stesso anno in cui moriva in carcere il fratello minore Umberto,
Bianca Ceva fu in contatto con esponenti dell'opposizione democratica al fascismo,
da Benedetto Croce a Ferruccio Parri. Per le sue idee fu allontanata dall'insegnamen-
to nel 1931 e pot tornare a scuola (al liceo statale "Beccaria" di Milano), soltanto
con la caduta di Mussolini. Pochi mesi dopo l'armistizio e l'allontanamento, questa
volta volontario, dell'insegnante dalla scuola. Bianca Ceva, infatti, entra subito nella
Resistenza, militando nel Partito d'Azione. Nel dicembre del 1943 la professoressa
arrestata e nell'agosto del 1944 compare davanti al Tribunale militare di Milano, che
la rinvia al Tribunale Speciale. Ma i giudici fascisti non riescono a condannarla.
Bianca, infatti, nell'ottobre evade dal carcere e si unisce ai partigiani dell'Oltrep
Pavese, collaborando alla lotta armata contro i nazifascisti. Dopo la liberazione
preside per due anni del liceo "Beccaria" e contribuisce alla fondazione dell'Istituto
nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, di cui diviene segreta-
ria generale dal 1955 al 1971. Bianca Ceva ha anche fatto parte, negli stessi anni, del
comitato direttivo della rassegna "Il Movimento di liberazione in Italia". Traduttrice
di Tacito e studiosa di problemi storici, filosofici e letterari, la professoressa Ceva ha
lasciato molti scritti sulla lotta antifascista, tra cui: "Storia di una passione" del 1948,
"Tempo dei vivi. 1943-1945" del 1954, "Cinque anni di storia italiana" del 1964.
Nel 1979 uscito "La storia che ritorna. La Terza Decade di Tito Livio e l'ultimo
conflitto mondiale".


Qui non riportano che fu insegnante di lettere al liceo Manzoni per gli
studenti del ginnasio per molti anni, divenendo anche vicepreside al-
cuni anni dopo.
Ci rivel molto della sua vita di partigiana quando comandava una
postazione di mitragliatrici sulle colline di Bobbio e di Varzi e degli
assalti dei prigionieri polacchi e mongoli che i tedeschi mandavano
avanti con il permesso di fare di tutto: uccidere, stuprare, rubare ecc.
La sua mitragliatrice era infuocata ma i prigionieri mandati allassalto
non si fermavano e passavano sopra i cadaveri per assalire i partigiani:
erano stati prima abbondantemente ubriacati e riempiti di droga.
Ascoltavamo i suoi racconti e capivamo di aver di fronte una donna
che aveva combattuto per salvare lItalia.
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Il suo volto era caratteristico: assomigliava a quelle teste di bronzo
che si mettono sui pianoforti con la faccia di Beethoven: aveva uno
sguardo severo come il suo o anche come Toscanini.
Quando ci fu in via Durini il funerale del grande direttore dorchestra,
la cui salma era tornata dallAmerica, lei ci invit, anzi ci obblig ad
andare alla cerimonia.
La mia classe che aveva 38 studenti fin lanno dopo con solo 28 a-
lunni.
La classe era piena di nomi illustri perch evidentemente la sua fama
faceva muovere i genitori raccomandati. Come mio padre fosse riusci-
to a farmi entrare in quella sezione fu sempre un mistero.
Furono due anni molto duri ma ricchi di apprendimento.
Era una classe composta da figli di gente importante e che nella vita
sono poi diventati grandi professionisti. In classe avevamo, solo a tito-
lo di esempio, il nipote del presidente del Touring, Cesare chiodi, oggi
uno dei pi importanti notai di Milano, Paolo Occhipinti che divenne
il direttore responsabile di Oggi della Rizzoli, Alberto Falck erede del-
le Acciaierie, Riccardo Conca, primario di ortopedia, Annamaria Deli-
tala, figlia del grande avvocato nella causa tra Guareschi ed Einaudi,
con alle spalle una ricca dinastia di origine sarda e tuttoggi diffusis-
sima sia in Sardegna che a Milano.
Avevamo poi De Franceschi che divenne presidente dellIstituto del
Commercio con lestero, Elena Frasio, figlia dellallora amministrato-
re delegato della Lanerossi, Lele Zerboni che poi spos il ricchissimo
Rivolta, Prota che divenne il segretario di Lama a Narni, Polvara, mo-
desta figlia di un noto professore del liceo Berchet, Caracciolo, che si
dilettava di jazz col banjo ma soprattutto fece poi lingegnere in Ara-
bia Saudita, Francesca Meli, figlia di un noto giudice di Milano, Pisa-
ni, pazzo figlio di un noto professore di sanscrito, Wittgens, nipote
dellautrice del noto trattato di storia dellarte Wittgens-Gengaro,
Bosio, primo della classe in italiano che divenne un importante pro-
fessore di filosolfia e che scrisse anche alcuni libri monografici, Ri-
boldi, figlia di un importante agente di cambio che aveva in pieno cen-
tro di Milano una casa tanto ricca (con cortile interno su via Magenta
e una portantina del settecento nellatrio a pianterreno sotto il grande
scalone che portava al primo piano e che veniva usata come cabina te-
lefonica); suo padre alcuni anni dopo fece un piccolo crack in borsa
per conto di suoi clienti per circa due miliardi di lire negli anni 60!
Mi fermo qui ma molti altri in classe avevano alle spalle famiglie ric-
che o comunque potenti.
Io ero il pi povero della classe e mi vergognavo un po per come an-
davo vestito.
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Avevo in classe anche una ragazza ebrea, Luciana Pardo che la mag-
gior parte teneva a distanza quasi avesse la peste; e fu cos che dive-
nimmo molto amici.
Il professore di religione era un monsignore che riempiva la lezione
leggendoci le avventure di Tom Sawer.
Ma i tre episodi pi importanti di quei due anni furono: fui scelto per
leggere nelle ore finali della mattinata le pagine del Cirano di Berge-
rac nelledizione in italiano e poi la decisione della Ceva di farci leg-
gere in quarta allultima ora, tanto per alleggerirci la fatica, lApologia
di Socrate in greco, con traduzione in diretta, solo per il piacere di im-
parare la bellezza dello scritto di Platone e i principi contenuti
nellopera.
Era atea al punto che quando doveva arrivare il sacerdote per la bene-
dizione pasquale, il bidello aveva lincarico di avvisarla in modo che
usciva e rientrava solo dopo la benedizione. Eppure aveva una grande
ammirazione per Ges come uomo, tanto che durante la quinta ginna-
sio usava lultima ora per farci leggere (e ovviamente tradurre), sem-
pre in e dal greco il vangelo di S. Giovanni.

Capitolo 15

Il passaggio dal ginnasio al liceo segn la mia vita per sempre e in
molti modi non tutti spiacevoli. Innanzi tutto ottenni per ogni anno del
liceo una borsa di studio della Provincia di Milano talmente alta
(160.000 lire allanno) da competere (positivamente) con lo stipendio
mensile di mio padre, il quale fu ben contento.
Purtroppo pretendeva lo stesso rendimento scolastico da mio fratello
che non aveva molta voglia di studiare. Io non posso e non voglio fare
paragoni ma mio padre li faceva e pretendeva che mio fratello fosse
bravo come me.
Al primo giorno dellanno scolastico della prima liceo classico, riuniti
nella palestra fummo chiamati per la formazione delle sezioni ed io mi
aspettavo, dato il mio cognome, di essere chiamato per primo nella se-
zione A.
Invece fu chiamata una certa Giovanna Agostini, con mio forte disap-
punto perch questo mi avrebbe tolto il privilegio di gestirmi durante
lanno la scadenza delle interrogazioni in ordine alfabetico.
Nel 1954 non potevo immaginare che nel 1961 sarebbe diventata mia
moglie!
Avevamo ottimi professori ma in filosofia e storia gli avvicendamenti
dei vari sostituti furono negativi.
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Nel costituire la classe entrarono a far parte della sezione A alcuni che
arrivavano da altre sezioni, mentre Giovanna proveniva dalle Orsoline
dove aveva vissuto un po nella bambagia ed ora si trovava in difficol-
t nellaffrontare lambiente della scuola pubblica.
Sua madre la voleva portare ad un livello sociale maggiore e per que-
sto le aveva fatto fare le scuole private ma poi un rovescio finanziario
provocato dal padre aveva costretto la famiglia a ripiegare verso la pi
economica scuola pubblica.
Tra i nuovi arrivati cera Franco Moro Visconti. Gi i due cognomi
faceva capire il tipo. Per giunta era un bel ragazzo, molto distinto, fa-
miglia ricca, e modi molto gentili. Non era una cima ma sapeva arran-
giarsi per andare avanti negli studi.
Fu lartefice del mio destino negli anni successivi: mi invit a fre-
quentare una sera una specie di circolo (cos mi formul linvito) dove
anche Alberto Falck era presente, anzi avrebbe proiettato un filmato
su Cortina (era lanno in cui si erano svolte le Olimpiadi invernali a
Cortina e per me era un attraente richiamo che stimolava mia curiosi-
t, oltre a permettermi di avere dei rapporti meno anonimi con i miei
compagni di scuola).
Venne lui a prendermi fino in largo Boccioni per portarmi alle nove di
sera in quella via Alberto da Giussano cui ho accennato pi sopra.
Non potevo ancora sapere che era la sede dellOpus Dei.
La serata era un po strana: si scendeva in una specie di cantina, fine-
mente arredata e organizzata con luci, giradischi e una collezione ricca
di dischi a 33 giri. Cerano divani in un salone molto grande, col pa-
vimento di legno tirato a lucido e molti erano ragazzi bene, altri stu-
denti universitari, ma tutti di un alto livello economico: lo si deduceva
facilmente da come erano vestiti e da come si presentavano e parlava-
no.
Ci furono delle presentazioni informali e poi Alberto inizi la proie-
zione da un treppiede e cos ammirai la ripresa che aveva fatto con
una sua cinepresa superotto (io a casa avevo una modesta macchina
fotografica di mio padre, a soffietto, sei per nove Voiglander, ed era
istintivo fare dei paragoni).
Poco dopo apparve un signore gi pi anzianotto che si present con
accento fortemente spagnolo (era Pedro Rueda che poi seppi si tratta-
va del Direttore della casa) e poco dopo apparve con mia meraviglia
anche un prete: era don Luigi Tirelli, il sacerdote della residenza.
Alla fine della serata, quando stavamo per tornare a casa, Franco mi
offr di riaccompagnarmi in largo Boccioni (in tram ci sarebbe voluta
una buona mezzora).
37

Ma, prima di uscire, mi invit ad entrare in unaltra stanza a pian ter-
reno che scoprii essere una cappella (loro la chiamavano oratorio),
dove chi entrava si inginocchiava; anchio lo feci istintivamente per-
ch era acceso un lumino rosso che indicava la presenza sacra nel ta-
bernacolo.
Nessuno disse nulla, solo uno inizi la recita del rosario e da quel
momento incominciai a conoscere lo spirito dellOpus Dei (o Opera di
Dio come Franco mi spieg il giorno dopo a scuola).
Ricordo ogni minimo particolare di quella strana avventura dallinizio
a quando accettai di entrare a far parte dellOpera.
Ma io avevo anche iniziato a innamorarmi di Giovanna e le due cose
pensavo potessero camminare parallele; invece fui costretto molto
tempo dopo ad una scelta che fu pi dolorosa per Giovanna che per
me, perch io avevo preso una decisione molto forte per la mia vita
mentre della vita non avevo capito niente!
Per i particolari su questa parte della mia vita preferisco rimandare al-
la lettura di un mio scritto completo, contenuto nel sito
www.cristotranoi.it
2
ed intitolato Opus Dei: cinque anni in quattro
giorni , che spiega questa movimentata avventura della mia vita (co-
me se fino ad allora fosse stata tranquilla!).
Qui mi limito ad alcuni cenni per capire che cosa accadde in quegli
anni.
Ma torniamo per un momento in largo Boccioni, in seno alla mia fa-
miglia per prendere nota che per la prima volta per molti anni non tra-
slocammo pi. E questa affermazione fa un po ridere perch io, en-
trando nellOpus Dei, avevo traslocato prima il mio spirito e poi, alla
fine del liceo, anche il mio corpo in altri quattro assurdi traslochi, due
a Catania e due a Palermo.

Capitolo 16

Il mio innamoramento per Giovanna si fortific di giorno in giorno al
punto che, potendo scegliere il posto occupammo i primi due banchi
affiancati del quartiere di mezzo dellaula, proprio di fronte alla catte-
dra.
Fu un anno di letterine, di aiuti nei compiti anche da casa perch Gio-
vanna faceva fatica ad abituarsi ai metodi della scuola pubblica.


2
Il testo del romanzo anche disponibile in formato pdf e-boock su Boorp, in internet

38

Il primo bacio (ho anche uno foto di quel giorno) fu al parco di Milano
in un giorno in cui si faceva sciopero a scuola per i fatti che stavano
accadendo in Ungheria.
A scuola ci prendevano in giro e a casa mia madre conduceva una se-
ria battaglia contro il mio rapporto con Giovanna come se gi si sen-
tisse sua suocera.
Qui per devo fare una precisazione: tutto quello che ho raccontato si
svolto in tempi diversi, accavallato tra la prima e la seconda liceo.
Ho dovuto fare cos per far capire meglio la contemporaneit degli ac-
cadimenti di allora, per me importanti, perch il destino stava gettando
le basi di tutta la mia vita futura.
In realt il rapporto con Giovanna crebbe durante il primo anno e si
rafforz durante linizio del secondo, mentre linizio dei rapporti con
Franco Moro e lOpus Dei si avvi nei primi mesi della seconda liceo.
Ora che abbiamo sistemato, spero, anche il calendario, posso prose-
guire nel racconto.
Nel novembre del 1956 io pitai, un termine in uso nellOpus Dei
che in spagnolo sembra voglia dire fischiare e che veniva usato per
indicare il chiedere per iscritto di entrare nellOpera come socio.
La struttura dellOpera era semplice: i laureati diventavano soci nu-
merari, non si sposavano ma pronunciavano per cinque anni a San
Giuseppe i tre voti di castit, povert e obbedienza e alla fine pronun-
ciavano il voto di fede definitivo per tutta la vita.
Ovviamente restavano scapoli mentre i sopranumerari erano degli
sposati che aderivano allOpera da soli o con la moglie.
Poi cerano i fratelli oblati: erano come i numerari, ma la divisione di
classe era netta: erano quelli che non si laureavano o che facevano
comunque gli operai. La differenza era solo nel fatto che i numerari
entravano ad abitare nelle case dellOpera mentre gli oblati restavano
con la famiglia di origine. Non mi sono mai chiesto come sarebbero
vissuti da vecchi senza i genitori o altri parenti. Era una netta divisio-
ne di ceto sociale perch i laureati, soci numerari, diventavano profes-
sionisti e versavano tutti i loro guadagni nelle casse dellOpus Dei, ri-
prendendosi solo quello che serviva per vivere: eventuali uffici, auto-
mezzi, ecc.
Svolgevano la loro attivit professionale come qualunque altro ma vi-
vevano la castit e gli altri voti senza far sapere di appartenere
allistituto: dovevano tenere il segreto tranne dei casi eccezionali. Uno
ad esempio divent il chirurgo prof. Raffaello Cortesini che era anche
responsabile dellesame dei miracoli presentati alla chiesa per
lapprovazione.
39

Lo ricordo bene perch durante gli intervalli negli esercizi spirituali ad
Urio (una villa del settecento che aveva anche ospitato Bellini quando
componeva la Norma, sul lago di Como di propriet dellOpera, rega-
lo di un munifico benefattore e che usavamo per gli esercizi spirituali
o per quelli annuali) lo vidi spesso tirare di fioretto, sport di cui era
appassionato.
Esisteva anche la sezione femminile ma lunico contatto era tenuto
sempre per telefono dal Direttore della casa, per organizzare il pranzo
o altre incombenze. La struttura interna descritta in un libro della
BUR (Rizzoli), autore Ferruccio Pinotti, che porta varie testimonian-
ze, tutte di donne che hanno abbandonato la sezione femminile
dellOpera, alcune perfino di alto livello gerarchico interno.
Fu proprio in quel novembre che un pomeriggio in piazza Concilia-
zione, a quattro passi della sede dellOpera dichiarai a Giovanna che
la lasciavo perch (scusate la mia deficienza e stupidit ma fu proprio
cos) andavo a farmi santo.
Giovanna fugg piangendo e poche mattine dopo, mentre discutevamo
in via Lanzone con don Giovanni Barbareschi della mia decisione,
Giovanna alla fine, non convinta disse (e fu profeta): Tanto il Beppe
non rimarr dentro.
Giovanna per il dolore lasci gli studi e il liceo e trov lavoro da A-
vandero, grazie a suo padre ma lambiente dei camionisti non era il
pi adatto per una giovane ragazza di sedici anni.
Quando ero a Urio spesso pensavo a volte a lei anche perch ero a
breve distanza da Moltrasio dove i suoi genitori avevano un piccolo
appartamento in affitto e dove spesso lei trascorreva i fine settimana.
Ebbi una rara occasione durante un ritiro: il Fondatore era arrivato da
Roma e volle conoscermi: erano i primi tempi della mia vocazione
e per quasi mezzora passeggiammo nei giardini mentre lui mi parlava
dellOpera e di come doveva essere la mia vocazione: fu un incontro
particolare che ricordo molto bene e che oggi mi permette di vantarmi
di aver parlato con un uomo fatto santo subito dopo la sua morte.
E la vita prese una svolta diversa tra studio, orazione e meditazione,
come era in uso nella giornata di un numerario. Io non feci molta fati-
ca dopo qualche mese a dimenticarmi di lei, salvo il rosario che dice-
vo spesso proprio per lei.
Fu in quel periodo che preparai alcune tesi in scienze e in filosofia, per
ottenere voti pi alti alla maturit.
Allora mi illudevo ancora che avrei realizzato il mio sogno di diventa-
re un grande neurochirurgo come lo svedese Olivecrona.
40

Durante la seconda liceo preparai una tesi su Il finalismo nei feno-
meni biologici, aiutandomi con gli scritti di padre Marcozzi (un gesu-
ita) e di Sofia Vanni Rovighi (dellUniversit cattolica).
Ricordo che illustrai la mia tesi dalla cattedra mentre la Bola (cos
chiamavamo la professoressa Bevilacqua) aveva preso il mio posto tra
i banchi. Ad un certo punto la vidi piangere dalla commozione per la
mia esposizione. Alla fine ci fu un bacio accademico, un battimani di
tutti e un bel dieci in scienze che mi avrebbe aiutato per le borse di
studio alluniversit.
Cos io mi illudevo e perseverai con una tesi di filosofia in terza sul
libro di Croce Ci che vivo e ci che morto nella filosofia di He-
gel. Portai la tesi agli esami di maturit (il bello che, essendo un li-
bro allindice, avevo dovuto chiedere il permesso al fondatore
dellOpera per la consultazione!).
Questa tesi fu utile per compensare il voto di storia dellarte, dove
presi un sei assurdo perch durante lanno avevo litigato col professo-
re.
Erano i tempi in cui mi sentivo un paladino della religione e il prof.
Onorato, un maleducato che alludeva solo ai rapporti con le ragazze
della classe (arriv un giorno a paragonare le sperma al sangue per la
richiesta che ci era arrivata di diventare donatori di sangue: lui era di-
sposto a donare ma quel tipo di liquido!)
Aveva sostituito il validissimo prof. Monteverdi e aveva anche
labitudine di bestemmiare spesso.
Quando si accorse che la cosa mi dava fastidio aument la dose al
punto che un giorno, dopo lennesima bestemmia, presi mille lire e
gliele misi sulla cattedra, dicendogli:
Porco sar tuo padre! e me ne uscii dalla classe. Da allora ci rive-
demmo solo agli esami di maturit e il vigliacco pens di vendicarsi
ma non poteva darmi meno di sei.
Giunsi cos alla fine del liceo; avevo lasciato Giovanna nei ricordi e
cercavo di far entrare nellOpus Dei (azione di apostolato!) altri ra-
gazzi ,organizzando nella casa dellOpera concerti di musica sinfo-
nica e conversazioni periodiche in cui commentavo passi delle letture
spirituali dai vangeli a Santa Teresa di Avila.
I miei fratelli di vita sulla strada della santificazione erano di diver-
se estrazioni e diverse et: dai giovani liceali ai professionisti con un
lavoro preciso (ad esempio un ingegnere, Giorgio Carimati, era figlio
del proprietario dellazienda che produceva caldaie ma anni dopo lo
rividi sacerdote)
Il sacerdozio era teoricamente il destino di tutti, ma la scelta dipende-
va dal fondatore.
41

Alla fine del liceo si imponeva la necessit di uscire dalla casa dei
miei ed andare ad abitare in una casa dellOpera.
Fui destinato a Catania e uno dei soci numerari che era avvocato (mi
pare si chiamasse Cerciello) trov il modo: mi fu conferito una borsa
di studio dalla RUI (Residenza Universitaria Internazionale) com-
prendente tutto tranne le tasse universitarie presso una delle residenze
universitarie italiane dellOpera (che non esistevano ma facevano pas-
sare per tali le case che aprivano nelle varie citt).
Mio padre abbocc (non aveva il coraggio di opporsi (come invece
seppi poi come fecero molti genitori, denunciando lOpera per circon-
venzione di minorenne) anche se ero allora minorenne anchio forse
perch andandomene di casa sarei stato una bocca in meno da sfama-
re!Almeno cos io pensai malignamente, e oltretutto la concessione
della borsa di studio arrivava a fagiolo perch proprio lultimo trime-
stre del liceo accadde un episodio spiacevole nei corridoi della scuola.
Io avevo labitudine di imitare con la bocca la tromba e un giorno in
corridoio, proprio davanti alla classe dove stava insegnando la Ceva ai
ginnasiali, attaccai un pezzo famoso :Ciliegie rosa a primavera. La
Ceva, uscita dallaula, mi mand in presidenza e mi fece dare un sette
in condotta.
Alla maturit mi mantennero questo voto e questo tagli la possibilit
di proseguire ad avere le borse di studio della provincia e fu un grave
danno per mio padre.
La Ceva, che aveva capito la mia appartenenza allOpus Dei e che mi
aveva invitato un giorno a casa sua per convincermi a uscirne dopo un
probabile intervento di mio padre, si era data da sola zappa sui piedi
perch in questo modo larrivo della borsa di studio della RUI (lettera
sontuosa che arriv un giorno a mio padre per posta) risolveva il pro-
blema economico della mia prosecuzione di studi alluniversit.
Forse fu questo il vero motivo per cui mio padre, dopo aver cercato di
convincermi inutilmente che ero entrato a far parte di una massoneria
bianca, si era ormai rassegnato (e intanto aveva risolto un grosso
problema economico con la mia uscita dalla famiglia).
Fu cos che in ottobre partii in treno per Catania e in quella citt inizi
cos il tredicesimo trasloco della mia vita!
Prima di partire avvennero due cose che ricordo bene; una fu lasiatica
che a quei tempi colp mezzo mondo con febbre alta e tanto malessere
e laltro episodio fu una strana gita nel Trentino che organizzammo
dalla casa dellopera a Milano: partimmo in otto, divisi tra due seicen-
to Fiat. Una arriv a Ortisei mentre laltra pass in basso al passo di
Costalunga.
42

I due equipaggi erano formati da gente dellopera e da ragazzi che
cercavamo di far entrare.
Io ero nellequipaggio che pass per Vigo di Fassa e dormimmo al ri-
fugio Ciampedie per ripartire il giorno dopo per il passo
dellAntermoia.
Lappuntamento con laltro gruppo che scendeva da Ortisei in dire-
zione sud attraversando la Val di Non era proprio al laghetto
dellAntermoia e l ci incontrammo per pranzare e scambiarci le chiavi
delle automobili.
Con nostra sorpresa le donne dellOpus Dei che avevano preparato per
noi le vettovaglie ci avevano foraggiato tutto doppio e con nostra me-
raviglia ci trovammo a dover riportare a casa met delle cibarie e delle
bevande. Poi noi proseguimmo per Ortisei mente laltro equipaggio
scese a Vigo a prendere la nostra seicento.
Fu una gita splendida, di cui non sto a raccontarvi i particolari, che mi
rimase impressa perch non avevo mai avuto unoccasione cos ricca
di esperienza in montagna: questo provoc anche allinizio un piccolo
disguido ma interessante come avventura.
Lasciati i due che salivano con la macchina fino al rifugio Ciampedie,
salimmo in due con la seggiovia, ciascuno credendo nellesperienza di
montagna dellaltro mentre eravamo completamente digiuni di come
ci si deve comportare.
Proseguimmo a piedi ma sbagliammo strada per cui, dopo unora di
cannino, grazie alle indicazioni di un montanaro, dovemmo scavalcare
una sella tra due cime e scendere nella valle dove cera il nostro rifu-
gio al buio, guidati solo dalla luce di un lumicino che si intravedeva in
fondo al ghiaione dove stavamo praticamente scivolando.
Il guaio fu il buio e il fatto che, man mano che si scendeva, la luce
scomparve dietro gli alberi di un bosco inaspettato. Per giunta alla fine
ci trovammo di fronte alla necessit di scavalcare un torrente. E final-
mente raggiungemmo gli altri due che erano in attesa ansiosa del no-
stro arrivo.
Durante la discesa, grazie alle mie nozioni di astronomia, riuscii ad
indovinare il percorso migliore per non perderci ma la paura non fu
poca.
La vita in Sicilia ed in particolare a Catania era completamente diver-
sa da Milano. La mia fortuna erano le origini di mio padre (Agrigento)
e le mie discese precedenti in Sicilia a conoscere meglio i parenti che
avevo, comprese le famose tre sorelle di mio padre, rimaste zitelle e
che vivevano non so come, ma certo con un buon contributo mensile
(un vaglia) che mio padre inviava loro, considerandolo come un suo
dovere nei confronti di suo padre.
43

Ma non teneva conto della rabbia di mia madre che spesso insultava il
comportamento delle cognate perch lei doveva lavorare anche di not-
te per sfamare la famiglia, mentre le signorine se la spassavano
gratis.
Anche mio padre si era dato da fare per guadagnare di pi: aveva stu-
diato diritto costituzionale ed amministrativo per sostenere un esame
interno per passare da archivista a Ispettore di polizia; e ci riusc, ot-
tenendo cos un buon aumento di stipendio. Poi trov un lavoro sup-
plementare la domenica sera: fare lo scrutatore delle schedine del To-
tocalcio a Porta Vittoria: non erano grossi guadagni ma tutto serviva
per sbarcare il lunario.
Per questo era fissa nella mia mente limmagine della povert della
mia famiglia, contrapposta a quella dellOpus Dei dove vedevo che il
voto di povert, in confronto con il modus vivendi dei miei era un vo-
to che io definitivo di ricchezza.
La prima casa (come dicevo pi sopra era il quattordicesimo trasloco)
era un appartamento al primo piano di una palazzina alle spalle del
grande giardino Bellini che per i catanesi era il pi bel giardino
dEuropa. Ma bisognava accettare la loro fantasia! Come si dovevano
accettare certe affermazioni quando fino a poco tempo prima, per ra-
gioni stupide, esistevano degli autobus riservati solo alle donne? Ave-
vano forse paura di essere stuprate?
Avevo anche limmagine, mentre mi avviavo a piedi alluniversit, di
automobili lunghe e vecchie che fungevano da autobus (o taxi privati,
come volete chiamarli) che portavano ogni giorno circa una decina di
persone dai paesi dellEtna gi a Catania per le spese ai mercati riona-
li.
Non parliamo poi della sporcizia: mi avvisarono per tempo di stare at-
tento quando si attraversavano le strade del quartiere di San Berillo
(bonificato solo pochi anni fa) in cui poteva capitarti un lancio di a-
vanzi di bucce di pomodori dalle porte a pianterreno dalle casalin-
ghe che preparavano il pranzo per la famiglia.
Davanti alle stanze della nostra casa si stendeva un quartiere dove
stavano scavando le fondamenta per un nuovo condominio. Accadde-
ro due cose:lingegner Carchiolo (non un nome inventato!) era il
progettista e un giorno gli scavi per le fondamenta affrontarono un
vecchio muro di cinta alto circa due metri che costeggiava un lato del-
la futura costruzione. Si trattava in verit di un muro a secco che in
campagna in Sicilia si chiama Trazzera.
Con una scavatrice stavano scavando lungo la base del muro senza
preoccuparsi del fatto che stavano togliendo la base del terreno che
sosteneva il muro. Ad un certo punto con un grande tonfo il muro ce-
44

dette e croll allinterno del cantiere. Quelli della scavatrice si salva-
rono per miracolo schizzando via ma nessuno si preoccup delle con-
seguenze: nel muro passavano due tubature, una per il gas di citt,
laltra per lacqua potabile.
Mente le nostre stanze e la strada si riempivano della puzza del gas,
nel cantiere il tubo rotto dellacqua incominci a riempire il terreno
raggiungendo la base della gru che era gi stata montata su un terra-
pieno composto da sbarre di cemento.
In poco tempo lacqua sal al punto che ad un certo punto con un boa-
to vedemmo la gru crollare verso la facciata della nostra casa. Per pu-
ro miracolo sfior le nostre finestre finendo in pezzi sulla strada sotto-
stante.
Immaginate da soli le conseguenze.
Ma ling. Carchiolo nel frattempo aveva combinato altri due guai: si
era dimenticato di inserire le scale interne nel progetto e quindi dovet-
te aggiungerle allesterno. Tempo dopo scoprimmo che in un palazzo
vicino avevano aperto un negozio di vendita di bombole di gas e sco-
primmo che Carchiolo si era dimenticato anche limpianto di collega-
mento nei vari appartamenti per il gas di citt.
Questa era Catania che, tra laltro, si vantava di essere la Milano del
sud.
Fu il periodo in cui sperimentammo dei missili con la polvere nera,
lanciandoli dalla spiaggia della Plaia ma, dopo aver inventato un nuo-
vo combustibile a base di perborato di potassio mescolato a paraffina
che produsse una fiammata alta due metri e anner il soffitto, ci fu se-
veramente ordinato di smetterla di fare i ragazzini.
Catania per aveva un pregio: in certi momenti dellanno si poteva fa-
re il bagno a Ognina (oggi una pozzanghera di sporcizia, allora era
un sogno per subacquei) e nel pomeriggio andare a sciare sulla neve
dellEtna sui campi vicini al rifugio Citelli che oggi non esiste pi,
perch travolto da una colata di lava.
Infatti anni dopo la colata era giunta fino a Milo e, con la fermezza del
credere nella Madonna, fu fermata proprio alle porte del paese davanti
alla statua della Madre di Ges.
Ebbi unaltra avventura quando decidemmo di salire in cima allEtna
per ammirare il sorgere del sole in fondo allorizzonte dalla parte del
mare. E un racconto che ho gi riportato in un mio libro sul mio sito
3

e che qui riporto senza cambiamenti.
Racconto:


3
In www.cristotranoi.it nel libro Opus Dei: cinque anni in quattro giorni, pag. 101 e segg.
45

Ho progettato con Giuliano di salire sullEtna di notte con i ragazzi
che frequentano casa, per vedere il sorgere il sole dalla cima.
Arriviamo alle due di notte in macchina allOsservatorio e da l inco-
mincia la salita: un dislivello di alcune centinaia di metri ma si
cammina sui granuli di lava, grossi come noci e si fanno due passi a-
vanti e uno indietro, perch si scivola.
E ancora buio, ma Giuliano conosce come muoversi e guida in testa;
mettiamo in mezzo i ragazzi pi giovani e in coda sto io per verificare
che nessuno si perda per strada.
E buio pesto, ma ognuno di noi ha una torcia elettrica che accendia-
mo a tratti per vedere gli ostacoli.
Laria freddissima e rarefatta perch siamo gi ad oltre duemila e ot-
tocento metri e il vento di tramontana ci colpisce con folate violente
che, superata la cresta, scendono lungo il pendio molto inclinato, inve-
stendoci violentemente e portando lodore di zolfo.
Facciamo una sola sosta e mi siedo a riposare, dando le spalle al crate-
re: davanti a noi si stende nel buio tutta la piana. La notte luminosis-
sima e si vedono le luci di tutta la costa fino a Siracusa. Il cielo me-
raviglioso: il Sagittario splende in mezzo alla Via Lattea e sembra ve-
ramente che cerchi di scoccare la freccia verso lo Scorpione che, a
queste latitudini, alto nel cielo con Antares che da qui sembra come
se guardassimo il nostro sole dalla superficie di Plutone.
Nessuno di noi parla, presi dallo spettacolo quando tutti veniamo sor-
presi dalla lunghissima scia di luce che solca il cielo silenziosa e resta
per un istante ancora ferma, prima di svanire: un altro meteorite si
disintegrato a contatto con la nostra atmosfera; un coro di meravi-
glia, ma subito dopo Giuliano ci invita a riprendere il cammino.
Lultimo tratto pi faticoso, anche perch dobbiamo evitare di infi-
larci tra il cratere centrale e quello di nord-est: sarebbe veramente pe-
ricoloso.
Manca il respiro e mi concentro nellorazione che tutta un ringra-
ziamento a Dio per questi momenti magici.
Saliamo a zigzag ed il percorso si fa pi lungo, ma meno ripido.
Arrivano ogni tanto zaffate di zolfo e sentiamo che il freddo si sta fa-
cendo pi intenso; ma basta toccare con le mani i granuli di lava su cui
saliamo per renderci conto che sono tiepidi: sotto di noi il vulcano
palpita di vita propria.
Arriviamo in cima quasi a sorpresa: Giuliano ci avvisa e, superato
lultimo dislivello, improvvisamente ci troviamo sullorlo del cratere
centrale.
E unimpressione molto brutta, specie per me che soffro le vertigini;
siamo arrivati sul sentiero che cammina lungo tutto il bordo e ci tro-
46

viamo, nel buio della notte, con ai nostri fianchi due strapiombi da in-
cubo.
A destra e sinistra dello stretto sentiero c il vuoto, delimitato dalla
cresta irregolare del bordo del cratere che si staglia minaccioso nel bu-
io della notte contro un cielo pieno di stelle.
Ci fermiamo a ridosso di un masso lavico che ci ripara dal vento che
soffia fortissimo e facciamo un po di colazione con cioccolata, bi-
scotti e acqua.
Nessuno di noi osa parlare: la stanchezza e la paura scompaiono nella
meravigliosa, immensa bellezza di quello che ci circonda.
Sembra di essere in groppa ad un gigantesco animale; lEtna non una
montagna, un essere vivo e ... si fa sentire: una lieve scossa di terre-
moto, preceduta da un boato che sembra risalga dal fondo del cratere,
ci mette addosso una gran paura, ma Giuliano ci rassicura: una cosa
normale.
Mentre aspettiamo il sorgere del sole (verr dal mare alla nostra sini-
stra) penso ad Empedocle e alla leggenda del suo sandalo, ma penso
soprattutto a al suo eris ed eros, odio e amore che secondo il filo-
sofo di Agrigento governa lUniverso in cicli che si alternano: scon-
certante laccostamento con i Veda, ma ancor pi con la teoria del Big
Bang.
Quante volte lUniverso si sar contratto per eris ed espanso per e-
ros durante la sua vita? Quante volte sono passati cicli da quindici
miliardi di anni?
E come Empedocle ha potuto intuire una verit molto probabile, senza
alcuno strumento scientifico, affermando qualcosa che solo negli ul-
timi cinquantanni la scienza pensa di aver scoperto e cerca di riuscire
a dimostrare?
Giuliano andato in ricognizione e torna poco dopo, mentre il cielo
verso est incomincia a impallidire:
Ci siamo e ci spiega:
Ora costeggiamo il cratere percorrendo tutto il sentiero con molta
prudenza. Arriviamo allaltezza del cratere di nord-est e l aspettiamo
il sorgere del sole.
Ma il cratere di nord-est attivo! osserva uno dei ragazzi.
S, ma sono andato a verificare: manda pochissimo fumo che la tra-
montana porta in basso verso la valle del Bove. Se non si sveglia
allimprovviso ....
E se si sveglia? gli chiedo con una certa apprensione.
Si scappa di corsa! mi risponde ridendo e si mette in marcia.
Lo seguiamo, stando molto attenti a dove mettiamo i piedi, aiutandoci
con le torce elettriche.
47

Dieci minuti dopo siamo tutti seduti al riparo di una incrostazione la-
vica, una specie di muro lungo una decina di metri e alto quasi due
metri; subito sotto di noi il cratere di nord-est manda a tratti piccole
sbuffate di fumo e lodore di zolfo, nonostante il vento di tramontana,
ci arriva piuttosto intenso.
Davanti a noi linfinito: nel chiarore che aumenta siamo in silenzio ad
osservare una sottile linea allorizzonte che, ad ogni minuto, diventa
sempre pi nitida: la linea che divide il cielo dal mare.
Giuliano ed io vogliamo fare orazione ed io invito gli altri, gi abituati
a casa nostra, a fare lo stesso.
Nel silenzio, interrotto solo dalle brusche folate e dai fischi della tra-
montana tra i massi di lava, la mia mente si perde in Dio e in quello
che ci sta donando: il cielo immenso sembra diventare lattiginoso e le
stelle impallidiscono lentamente.
Il mare Ionio diventa unimmensa distesa dal colore indefinito; lonta-
no si scorgono luci di barche da pesca che stanno ancora lavorando.
Proprio sotto di noi incomincia prendere forma la valle del Bove: un
baratro immenso che da nero sta diventando grigio scuro e sta rivelan-
do tutta la sua orrenda bellezza, ricco di statue di giganti fatte di lava
di vecchie colate.
Alla nostra destra, pi in basso, oltre i Monti Rossi, si stende tutta Ca-
tania, le luci delle strade ancora accese e, pi lontano, la costa tutta
segnata dalle luci dei vari paesini, fino a Siracusa. Abbiamo scelto la
notte giusta.
La mia preghiera non fatta di pensieri, n di emozioni: sembra di es-
sere direttamente immersi in Lui, di vivere con Lui la gioia della crea-
zione.
Il grido improvviso di uno dei ragazzi mi riporta al presente:
Eccolo! e indica un punto dellorizzonte.
Gli occhi di tutti sono puntati verso un piccolo punto rosso che ap-
parso: il sole!
Non c foschia n nebbia; non c nemmeno una nuvola in tutto il
cielo; tutto il visibile intorno a noi terso, limpido, puro e il puntino
rapidamente si ingrandisce, uscendo dal mare; pochi secondi e intorno
a noi tutto prende colore, lo stesso colore che ha perso al tramonto del-
la sera prima.
Ora possiamo ammirare nitidamente linterno del cratere di nord-est
sotto di noi: molte fumarole si levano sonnecchianti da piccole fessure
del fondo.
La parte del sole emersa gi per met fuori dallorizzonte e tutta
prende luce e vita. Dallorizzonte fino alla costa sotto di noi si for-
mata una lunga striscia di lamine doro che scintillano al muoversi
48

della superficie del mare; il loro riverbero diventa sempre pi forte e
gi il mare riprende il suo colore verde scuro e qua e l, appaiono gli
sbuffi bianchi delle onde provocate dalla tramontana che soffia e dila-
ga gi dal monte, libera di allargarsi sulla superficie del mare come un
canto che va incontro al suo dio, il sole.
Ognuno di noi, in silenzio, immobile ad ammirare lo spettacolo in-
candescente della natura che si risveglia nel silenzio religioso, pieno
di vita e di speranza.
I raggi del sole hanno raggiunto la Valle del Bove: ora si possono ve-
dere nitidamente gli orrendi canaloni, interrotti qua e l da strane, gi-
gantesche figure di mostri che allungano verso di noi le loro ombre si-
nistre; esse sembrano voler risalire le ripide pareti formate dalle mi-
gliaia di colate che si sono riversate per secoli in questo enorme can-
yon; viene facile il confronto: sotto di noi si stende la sinistra entrata
allinferno, davanti e sopra di noi si apre la serena pace del paradiso.
Il sole gi tutto fuori dallorizzonte e, nella nitidezza del mattino,
diventato una palla gigantesca che gi ci scalda con i suoi raggi; il ma-
re incomincia a diventare blu, un blu vivo, come se si fosse anche lui
svegliato ai primi tocchi dei raggi del sole; e ora si vede chiaramente
sulla sua superficie la schiuma bianca delle onde che si formano al
largo.
Dapprima il tremore sembra leggero, ma vedo Giuliano che si alza in
piedi, preoccupato.
Il tremore continua, crescendo dintensit, accompagnato da un rumo-
re sordo che cresce di momento in momento e di cui non si riesce a di-
stinguere la provenienza; sembra sotto di noi o a fianco: non si sa.
Improvvisamente il rumore diventa un orribile boato inaccettabile alle
nostre orecchie: il vulcano ci avvisa che si svegliato e arriva la prima
vera scossa. Ci siamo tutti levati in piedi e non sappiamo cosa fare,
mentre la terra sembra volersi togliere da sotto di noi.
Perdiamo il senso dellequilibrio; come se galleggiassimo sopra un
terreno non pi solido.
Anche Giuliano spaventato e ci grida di restare calmi, ma come si
pu reagire alla paura istintiva, al panico che ti assale e ti toglie ogni
razionalit?
Nessuno pi si interessa del sole, della bellezza del mare, dello spetta-
colo appena ammirato: vogliamo solo salvarci, ma non sappiamo co-
me.
Uno dei ragazzi mi passa di corsa davanti, il suo sacco in mano, e cer-
ca di lanciarsi verso il basso; riesco a prenderlo appena in tempo per la
giacca a vento e a fermarlo.
49

Il boato che ci ha spaventato scomparso e la terra non trema pi.
Giuliano riesce a dominarsi e ci calma con le sue parole:
Calmi! - grida - State calmi, ho detto! Ora ci incamminiamo sulla
strada del ritorno e scendiamo al rifugio con calma. Mi raccomando:
con ....
Ma non fa in tempo a finire di parlare: unesplosione improvvisa, co-
me se saltassero centinaia di chili di tritolo, ci investe da sotto: il tappo
del cratere di nord-est saltato e unenorme palla di pietrisco, di fumo
e di lava si alza orribile davanti a noi e ci raggela.
Vorremmo buttarci direttamente gi dal pendio, per la strada pi corta,
ma Giuliano ci grida di seguirlo e si mette a correre lungo il sentiero
che costeggia il cratere centrale.
Spingo gli altri, incitandoli a non avere paura, ma mi rendo conto
quando, in coda alla colonna mi metto a correre anchio, che le gambe
mi tremano: non posso far vedere che ho paura, come del resto anche
Giuliano, che corre pi avanti, seguito dagli altri. Per fortuna il vento
spinge la grande fumata verso sud, ma laria gi irrespirabile e si
sentono dei fischi sinistri.
Un proiettile fiammeggiante grande come un uovo di struzzo passa
sopra la testa di tutti con un fischio spaventoso e cade incandescente
davanti a Giuliano che si ferma.
Gli siamo tutti addosso e, per un istante che sembra una vita, atten-
diamo le sue istruzioni, mentre guardiamo inorriditi alle nostre spalle
lo spettacolo di fuoco e fumo che ci sta inseguendo; ci sembra di aver
percorso centinaia di metri ma la nuvola incombe su di noi, minaccio-
sa, mentre la terra riprende a tremare.
Giuliano osserva il pendio e calcola rapidamente la direzione da pren-
dere; improvvisamente grida:
Gi tutti dietro di me! e si lancia a rompicollo sprofondando fino al
ginocchio nella graniglia di lava.
Ci lanciamo tutti dietro di lui, mentre intorno a noi piove di tutto.
E una discesa senza fine, con la paura che ci attanaglia, Giuliano in
testa ed io sempre in coda, per essere sicuro di non perdere nessuno
per strada.
Stiamo percorrendo gli ultimi metri che ci separano dal rifugio, quan-
do sembra che tutto esploda sotto di noi: una scossa di terremoto, pi
forte delle altre, ci sbatte da tutte le parti e rotoliamo senza riuscire a
fermarci per lultimo tratto del pendio.
Dal rifugio escono due tecnici che ci vengono incontro per aiutarci e
finalmente ci troviamo al sicuro.
E a questo punto che Giuliano, fatta la conta di tutti, riprende la sua
sicurezza e, con la voce ancora rotta dallemozione, ci dice:
50

Beh! E stata una bella corsa!.
Scoppiamo a ridere, ma siamo ancora scombussolati.
Seduti lungo il muro di cinta del rifugio, al riparo, ora pi rassicurati,
mentre beviamo del caff caldo che ci viene offerto dal personale del
rifugio, restiamo a guardare quello che succede in alto: dal cratere di
nord-est esce una lingua di fuoco che si ingrossa sempre pi e che, ad
ogni ostacolo, si divide per riunirsi pi in basso, si divide ancora e
forma decine di fontane di oro fuso che cercano la strada pi rapida
per scendere a valle.
Mentre percorriamo in macchina la strada del ritorno, sto ripensando
al pericolo che abbiamo corso e alla ramanzina che ci hanno fatto i
tecnici del rifugio.
Hanno ragione: lEtna non una semplice montagna, una creatura
viva, paziente ma imprevedibile.
Ma ci ha regalato momenti raramente ripetibili e, quando lo guardo
dalla piana, alto e imponente, come se fosse a s stante rispetto a tutto
quello che lo circonda e che lui stesso nei millenni ha creato, ho per
lui un senso di grande rispetto.
Studiavo con due amici le varie materie giuridiche con una certa fatica
non tanto per lo sforzo per imparare centinaia di nozioni, quanto per il
caldo che spesso ci costringeva a studiare di notte.
La maggior parte del tempo dedicato allo studio per la vissi con Ro-
berto Sorge.
A volte ci furono pomeriggi in cui studiavo Storia del Diritto Romano
immerso in una vasca di acqua fredda mentre in altre occasioni anda-
vo a studiare a casa di Roberto che aveva una terrazza che ci permet-
teva di respirare un po di aria di mare. Da quella terrazza ammira-
vamo la meraviglia della montagna che avevamo osato sfidare e che
rimaneva silenziosa e sorniona salvo, ogni tanto, a sparare in cielo co-
lonne impressionanti di fumo grigio, a volte a oltre tre o quattro chi-
lometri di altezza.
Roberto era un ragazzo accanito nello studio, ma quanto ad una sua
possibile entrata nellOpera non cerano molte speranze, anzi, era pro-
penso a sposarsi presto con un ragazza che conobbi un giorno: una
bellezza isolana da togliere il fiato, studentessa anche lei alla facolt di
giurisprudenza.
Capivo i programmi di Roberto e negli anni successivi ebbi occasione
di ammirare la sua perseveranza che lo port prima a diventare il pre-
fetto di Milano e poi a gestire il Gabinetto del Ministro degli Interni.
Provai anche con Tano Palumbo, era figlio di un noto avvocato che
esercitava a Catania ma era di Palagonia dove possedeva aranceti in
gran quantit. Ricordo le sue pazzie a bordo di unAurelia 2000 sui
51

tornanti dellEtna: era matto. Oggi un importante avvocato a Cata-
nia.
Dopo quasi un anno cambiammo casa, andando ad abitare in una villa
in una traversa di via Etnea molto vicina al Tondo Gioeni allora il
punto di partenza per salire sullEtna.

Capitolo 17

E cos feci il quindicesimo trasloco della mia vita.
La villa era in una via in discesa e i ragazzini del quartiere la usavano
per correre sui carrettini costruiti con tavole di legno e ruote con cu-
scinetti a sfera recuperati da qualche parte. Ma non erano come quelli
che usavano i ragazzini a Milano; pi complicati, erano dotati di due
parti con doppio carrello per tenere pi persone.
Dietro la villa dove andammo ad abitare cera un piccolo giardino con
piante e una colombaia che si affacciava verso il retro di palazzine fa-
tiscenti della via a monte. Di fianco un lungo tratto di terreno sconnes-
so era costellato di resti di macerie di qualche vecchia abitazione: il
tutto era abbastanza squallido
Allinizio della via, partendo da via Etnea, dopo una palazzina dotata
di solide inferriate alle finestre di pian terreno (da quelle parti erano
una precauzione indispensabile), sorgeva un costruzione che sembrava
una capanna verticale in muratura con cupola come se fosse tra gli a-
rabi.
Aveva una sola apertura: una specie di entrata della dimensione di una
porta coperta da un tenda fatta di tela di sacco. Era il simbolo della
povert di chi ci abitava, unintera famiglia con molti figli, tutti rac-
chiusi in un ambiente che non superava i tre metri per lato.
Un giorno mentre rientravo dalle lezioni alluniversit il caldo era in-
sopportabile e, quasi davanti alla villa della residenza dellOpera, sul
marciapiede di fronte, da una fontanella sgorgava un getto di acqua
freschissima che finiva in un quadrato pi basso di circa venti centi-
metri e largo un metro e mezzo, come fosse una specie di vasca
Descrivo questo dettaglio per lepisodio che segue: dalla tenda della
casa fatiscente, mentre mi avvicinavo alla fontanella per bere, usc un
ragazzino che non poteva avere pi di quattro/cinque anni, nudo, rico-
perto solo di un corta maglietta che non gli arrivava neanche
allombelico. Aveva in mano una bottiglia di vetro e si avvi alla fon-
tanella per riempire la bottiglia di acqua: doveva essere il servizio per
la tavola della famiglia perch era lora del pranzo. Arrivato alla fon-
tanella, scese nel quadrato che la limitava per non far uscire il getto
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dacqua e, mentre riempiva la bottiglia si mise a pisciare con il suo bel
getto col quale si divertiva a mirare qua e l.
Atta! gli gridai non puoi pisciare dentro, sotto la fontanella!
Non mi dette retta e continu. Ripetei il rimprovero e a questo punto il
ragazzino si volt verso di me e, continuando a pisciare, mi grid:
Fatti li cazzi tua!.
Me ne andai ridendo e pensando a come crescessero velocemente i ra-
gazzini da quelle parti.
Del resto era facile vedere delle automobili che passavano per le vie
senza autista: avevano a bordo due ragazzini che avevano rubato il
mezzo; uno sotto schiacciava i pedali su comando di quello di sopra
che arrivava appena alla base del parabrezza e manovrava il volante
nel traffico con la massima disinvoltura.
Si studiava preferibilmente di notte a causa del caldo opprimente oltre
i 44 gradi ma avevamo spesso la compagnia di un gatto che miagolava
sul retro della villa dal lato delle cucine. Un giorno, esasperato, rac-
colsi un grosso ceppo di legno e lo portai sul tetto che era in realt una
grande terrazza dalla quale si poteva ammirare la distesa di tetti de-
gradanti verso il mare. La notte seguente il gatto inizi la sua sinfonia
ed io dallalto del tetto centrai al buio il gatto. Ma con mia sorpresa i
gatti erano molti di pi e fuggirono arrampicandosi sul muro di cinta
di fronte a me che costeggiava la villa e che era alto almeno sei metri.
Il gatto colpito si stava arrampicando velocemente ma ad un certo
punto sembr fermarsi, tentando di mantenersi attaccato al muro con
le unghie, Un secondo dopo ricadde mentre le sue unghie cercavano
disperatamente di tenerlo attaccato al muro.
E tornai a dormire soddisfatto. Ma la mattina dopo mentre durante la
colazione raccontavo laccaduto stupidamente orgoglioso di aver tolto
di mezzo il disturbatore notturno, Gino, il direttore della casa, mi chie-
se:
E per caso quel gatto che da qui si intravede disteso sotto lo scalone
esterno della villa?
Uscii e trovai il gatto maledetto disteso e immobile: era morto. Rien-
trai:
Evidentemente era lui e lho colpito in pieno confessai.Bene; ades-
so ti occupi tu di seppellirlo! e la voce di Gino era piuttosto incavola-
ta verso di me.
Seppellii il gatto sotto una Euphorbia che cresceva in fondo al giardi-
no. Si chiama volgarmente Stella di Natale ma di solito faceva po-
chi fiori rossi striminziti. Invece quellanno la sua fioritura fu splendi-
da, forse perch le avevo dato un buon concime con il corpo del gatto?

53

Capitolo 18

La frequenza alluniversit era assidua e, dopo un avvio infelice a cau-
sa di un assistente di diritto privato assillato dal bisogno di eliminare
un buon numero di iscritti al primo anno, gli altri esami incominciaro-
no ad andare bene. La vita universitaria era positiva per me anche
perch cercavo di fare molte amicizie come potenziali frequentatori
dellOpus Dei. Ma a Catania gli studenti universitari erano in parte
bambini in parte molto pi sgamati del nord.
Per esempio un giorno un gruppo dopo aver tolto i pantaloni ad una
matricola e trattenutolo in mutande mentre i suoi pantaloni partivano
attaccati ai fili di un autobus che riprendeva la sua corsa da una ferma-
ta, lo lasciarono poi inseguire lautobus per almeno cento metri in mu-
tande.
Oppure assistevo a fanatiche riunioni di affiliati del FUAN, una specie
di nuova organizzazione del fascismo. Di fatto Catania nelle elezioni
di quegli anni ha sempre avuto un alto numero di voti per il MSI.
E arriv un episodio triste: la zia Amalia ad Agrigento si era ammalata
da tempo ma, terziaria francescana molto bigotta, non voleva farsi vi-
sitare dei medici perch avrebbe dovuto spogliarsi davanti ad un me-
dico: un uomo!
E il suo male peggior al punto che, troppo tardi, i medici si resero
conto che un tumore al fegato se la stava portando via.
I contatti tra me e mio padre erano frequenti e un paio di volte andai
ad Agrigento per sincerarmi del suo stato di salute ma venne il giorno
in cui la malattia si aggrav e mor; mio padre decise di scendere in
Sicilia.
Con loccasione si ferm a Catania per passare alcune ore con me.
Il Direttore della casa mi diede il permesso di andare a ricevere mio
padre in stazione ma mi proib, non so perch, di portarlo alla residen-
za.
Fu un incontro falso con una facciata apparentemente occupata col
pensiero della zia, in realt mio padre non sapeva come toccare il ta-
sto sei felice nellOpus Dei? oppure: Come ti trovi a Catania? o
ancora come passi la tua vita e pensi di rimanere con loro per molto
tempo?.
Non si rendeva conto di che cosa fosse lOpera n io gli davo la possi-
bilit di entrare in particolari che forse avrebbero aiutato lui e me a
convivere meglio la nostra vita.
Pranzammo in un ristorante vicino alla stazione e poi mio padre ripart
per Agrigento.
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Nel frattempo matur il momento della verit. Intendo dire che io non
portavo soldi miei per il mio mantenimento nellOpus Dei e questo
veniva momentaneamente accettato, forse per capire se la mia voca-
zione sarebbe stata duratura.
Ma i problemi economici li aveva anche lOpera e quindi era necessa-
rio che io trovassi un lavoro per giustificare il mio sostentamento. Co-
s i miei superiori trovarono la soluzione: trasferimento a Palermo in
una delle due case (cera la casa dei piccoli come venivano affettuo-
samente chiamati i giovani studenti liceali, e quella dei professionisti,
dove due architetti, un medico e due ragionieri formavano un secondo
nucleo).
Io fui destinato alla casa degli studenti e cos ebbi il mio sedicesimo
trasloco della mia vita.
Mi fu chiarito che sarei andato a lavorare in un magazzino di libri del-
la filiale delle Messaggerie Italiane, dove il direttore era un sopranu-
merario dellOpus Dei (ma la moglie no, anche se lavorava anchessa
in filiale) e cera tra i quattro magazzinieri anche un ex dellOpus Dei
che per stava per passare a lavorare in una libreria.
Cos imparai un nuovo mestiere che mi piaceva anche molto perch
avevo sempre avuto una particolare passione per la carta stampata, co-
sa che mi poi rimasta per sempre fino ad oggi: per me il libro una
cosa talmente sacra che, se potessi, anche se ho 74 anni, aprirei subito
una libreria qui ad Assisi, anche se so che non legge nessuno e col
tempo questa negativit aumenter sempre pi, tanto vero che gli e-
ditori stanno correndo ai ripari con internet, e-book e cose simili, pur
di mantenere alte le tirature, specie dei quotidiani.
I contatti con la mia famiglia erano sempre molto sporadici e le lettere
sia in andata che in arrivo dovevano sempre passare dal direttore della
Casa.
A Palermo avevamo un certo Calafat che era un venditore di candele
speciali per auto e come direttore spirituale don Giorgio che era stato
per molto tempo lautista del Fondatore a Roma. Perch ora fosse a
Palermo restava un mistero.
E conobbi finalmente la vita di Palermo, una citt ricchissima di cose
belle e brutte, di misteri e di meraviglie.
Luniversit viveva una vita diversa: dei debosciati sia tra gli studenti
che tra i professori, con esami che passavano la maggior parte solo per
raccomandazioni.
Studiare e lavorare era pi faticoso ma mi ci buttavo dentro a pesce
per imparare, per vivere una vocazione che ritenevo sincera.
Quante domeniche dedicavamo ai pi giovani in gite dietro Palermo, a
Monreale, sui monti sopra Boccadifalco. Con uno dei ragazzi appas-
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sionato di aeromodellismo costruimmo un aereo con motore da un cc.
di cilindrata, detto a testa calda che collaudammo con un successo
insperato: lanciammo col telecomando il modello dal monte Pellegri-
no in un mattinata senza vento in direzione dellaeroporto di Boccadi-
falco, che da tempo non veniva pi usato per i voli di linea. Nel frat-
tempo altri amici si erano piazzati allinizio della pista del vecchio ae-
roporto per cercare il posto pi vicino e libero in direzione otticamen-
te rettilinea con noi.
Dopo alcune centinaia di metri il nostro velivolo continu il volo da
solo perch non avremmo pi potuto raggiungerlo con i nostri tele-
comandi.
La nostra speranza era che non cambiasse allimprovviso direzione.
Da Boccadifalco aspettavano di scoprire col binocolo la sagoma del
piccolo aereo e finalmente lo videro. Misero in azione il telecomando
e poco tempo dopo si accorsero che erano riusciti ad agganciarlo, do-
po di che lo guidarono fino alla pista dove atterr gloriosamente tra le
grida di gioia di tutti, dandoci la soddisfazione di essere riusciti a fare
qualcosa di grande. Ci sentivamo come Lindbergh quando vide le co-
ste della Francia nella sua trasvolata atlantica!
Fu in quel periodo che una domenica accompagnai il sacerdote della
casa dei professionisti e uno degli architetti a Terrasini dove ci incon-
trammo con il sindaco (almeno dai discorsi tra di loro mi sembr tale).
Fui gentilmente invitato ad andarmene a visitare il museo dei carretti
siciliani l vicino mentre gli adulti confabularono tra loro per molto
tempo confusi tra i tavoli stesi nella piazza principale alberata dove si
stava svolgendo una delle sagre del paese..
Molto tempo dopo capii perch non volevano testimoni: era un incon-
tro per concordare la concessione della parte migliore del bagnasciuga
e del retroterra di Calarossa, una delle pi belle cale della zona, dove
poi nacque una costruzione che sembrava un albergo: era la sede della
sezione femminile dellOpus Dei!
E arriv il momento del diciassettesimo trasloco: fui trasferito nella
casa dei professionisti perch stava arrivando un cambiamento nel mio
lavoro.
Con una societ fittizia lOpera, in persona di uno dei membri, Franco
Rocca, aveva da un anno acquistato una libreria, la ex-Taddei di via
Maqueda e laveva affidata a quellex-Opus Dei, Raoul, che aveva poi
ottenuto il trasferimento alla sede di Milano delle Messaggerie.
Era quindi necessario un nuovo direttore e solo molto tempo dopo mi
resi conto che il piano predisposto di un certo Pin e da altri che si oc-
cupavano degli affari della famiglia era a lungo termine: prima a
Catania per provarmi e farmi ambientare, poi la decisione di scegliere
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la facolt di legge anzich di medicina in modo da avere pi tempo li-
bero e meno obbligo di frequenza (solo allora capii i discorsi ripetitivi
e persuasivi di Don Francesco Angelicchio, un prete dellOpus Dei
invischiato con lambiente del cinema e di Cinecitt, attori e registi,
non ch finanziatori).
Da qui una preparazione nel commercio dei libri e nella gestione dei
magazzini mentre Raoul si occupava della libreria ed infine, quando
Raoul fu chiamato a fare carriera a Milano (anche se libero da vincoli
con lOpus Dei aveva tutta la convenienza ad andare a Milano), mi
dettero lincarico della conduzione della libreria come responsabile.
E incominci una nuova esperienza, bella, interessante e nella quale
mi tuffai con entusiasmo, assolutamente senza capire i programmi e i
piani di chi mi stava segretamente guidando con le redini pi occulte!
Restava il problema delluniversit e gli esami erano momentanea-
mente fermi, ma ne parleremo tra poco.

Capitolo 19

La libreria: Aveva una piccola vetrina, un locale ristretto a pian terre-
no e una serie di stanze al primo piano dove Franco Rocca era riuscito
ad avviare anche delle mostre di quadri moderni (ottenne perfino Ve-
dova e Kokoscia!).
Raoul aveva lasciato in libreria unimpiegata e un fattorino.
In particolare limpiegata era una bella donna, vedova giovane di Aga-
te, quello che era stato il fondatore della libreria Dante ai quattro Canti
di citt, una delle pi gloriose librerie che ospitava ancora Pupella, poi
diventato direttore della libreria Rizzoli in Galleria a Milano e Ma-
gnolfi, un toscano che mor con la moglie di ritorno da Firenze
sullaereo che si schiant pochi anni dopo sulla Montagna Grande vi-
cino allaeroporto di Punta Raisi.
La donna, Marisa Ficara, aveva trentadue anni e da commessa era di-
ventata moglie del vecchio Agate ma che era morto di infarto mentre
faceva allamore con Marisa.
Aveva tutte le caratteristiche di una bellissima siciliana, era molto
sensibile, fine e molto attraente. Capii subito che per me sarebbe stato
un problema perch si notava che aveva ancora tanta fame di amore
fisico.
Mentre in libreria svuotammo montagne di titoli vecchi con una sven-
dita che mand su tutte le furie lavv. Domino, proprietario di una li-
breria in via Roma e presidente dei librai palermitani, io tentavo, con
non molto successo, di studiare per preparare gli esami alla vicina u-
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niversit dove nel frattempo avevo trasferito la mia iscrizione da Ca-
tania.
Pass in tutto un solo anno ma le cose si precipitarono una sullaltra
molto rapidamente.
Intanto mi ero accorto che ero oggetto di particolari attenzioni da parte
di Marisa che ignorava la mia appartenenza allOpus Dei.
Spesso arrivava in libreria una bella donna sui quaranta, anchessa
chiaramente affamata e moglie di un socio sopranumerario dellOpera,
ignaro delle voglie della moglie.
Se avessi voluto avrei potuto divertirmi molto e bene con ambedue le
donne.
Invece credevo nella mia vocazione e tenevo duro, ma era una gros-
sa fatica. Si pu immaginare quali voglie pu avere un giovane di 22
anni: era il 1960 e man mano che passava il tempo un tarlo mi rodeva
dentro dicendomi che era ora di ritornare a Milano dai miei e di rico-
minciare a vivere una vita normale.
Una sera dovetti trattare male la moglie del sopranumerario, di cui non
faccio il nome per carit: era arrivata in libreria allora di chiusura e
si offr di accompagnarmi a casa. Le sue intenzioni erano chiare m a io
dovetti chiederle di accostare la vettura in via Ruggero Settimo e,
scendendo, le chiedi scusa se non potevo accontentarla. Mi guard con
aria stupita, ma poi cap e ripart incavolata come una bestia.
Alluniversit succedeva di tutto: il professore di economia politica
poneva domande assurde agli studenti (ad esempio: Lei di Agrigen-
to; mi sa dire quanti lampioni ci sono lungo il viale di San Leone, la
passeggiata a mare? Se me lo sa dire le do un 18). E lallievo, ancora
pi sgamato, da buon siciliano, dopo aver fatto finto di contarli a men-
te in unimmagine dei suoi ricordi, rispose 39.
Il professore scrisse il voto e gli chiese come aveva fatto a contarli. Lo
studente prima si fece dare il libretto e poi rispose: passeggiando con
sua moglie. Ci fu un putiferio ma il professore non poteva pi riman-
giarsi il voto e nemmeno le corna che gli furono attribuite).
Pi grave fu il caso del mio esame di diritto penale: non sapevo che un
dodici bolli (era un anziano studente che vantava dodici anni di iscri-
zione alla facolt di legge) si faceva pagare una cifra non indifferente
per poter sostenere con successo gli esami di diritto penale. Era peren-
nemente iscritto alluniversit perch una zia gli aveva lasciato una
rendita consistente fin che non si fosse laureato. E lui continuava a
non laurearsi. Questo era lambiente alla facolt di legge. Ma pas-
siamo la mio esame.
Arrivato davanti allassistente (il professore, man mano che procede-
vano gli esami, moltiplicava le commissioni tra lui, gli assistenti e gli
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studenti che avevano passato lesame con un trenta) mi sentii chiedere
come mai il mio nome non cera in un elenco che aveva prima sbircia-
to in un cassetto della scrivania, dopo aver letto il mio libretto. Capii
lantifona e feci finta di niente. Accettai di fare ugualmente lesame e
alla fine rifiutai un misero 19 che lassistente voleva propinarmi. Ne
nacque un alterco con voci sempre pi alte fin che tutto fin davanti al
professore. Lassistente mormor qualcosa allorecchio del professore
che mi invit ad attendere e, dopo aver finito con lo studente che ave-
va davanti, ricominci con me lesame andando contro ogni regola.
Alla fine mi disse che meritavo un 23 e io lo accettai anche se nei suoi
occhi si leggeva limbarazzo per non poter sputtanare il suo assistente
in quanto avevo fatto un esame da trenta.
Questo era lambiente universitario e io facevo molta fatica ad accetta-
re di viverci sforzandomi di studiare e lavorare.
Incominciai a parlarne con don Michelangelo, il sacerdote della casa e
con il direttore laico, un architetto. Cercavo di far capire loro che cos
le cose non potevano andare avanti ma loro nicchiavano pensando for-
se alla figura che avrebbero fatto con il fondatore se mi avessero perso
e mi proposero di attendere e di riposare negli esercizi spirituali che
stavano per arrivare.
Verso la fine di aprile dovevo partecipare agli esercizi spirituali sulle
colline davanti a Pollina, vicino a Cefal , in una fattoria molto vasta,
di propriet proprio di quel povero marito sopranumerario e poten-
zialmente cornuto: l avrei avuto modo di chiarirmi le idee e di ripo-
sarmi, rivedendo positivamente la mia vocazione.
Ma non fu cos: tra unorazione e laltra giravamo per la fattoria a me-
ditare e io mi arrampicai verso la cima del crinale che sovrastava la
tenuta in direzione di Milazzo. Mentre salivo ammirai due lepri che,
sorprese dal mio arrivo, fuggirono spaventate.
Proseguii e arrivato in cima mi accorsi che vi erano della pietre larghe
e piatte che sembravano messe apposta l per ammirare seduti il pano-
rama: mi sedetti e rimasi a lungo a osservare le isole dellarcipelago
delle Eolie.
Poi, come se mi avesse preso una specie di torpore, mi sdraiai sulla
nuda pietra osservando in cielo il passare veloce di nuvole dalle forme
bellissime.
Fu allora che accadde qualcosa di misterioso: niente di speciale ma
sopra la mia testa, a circa venti metri apparve un grande uccello, credo
unaquila, che si mise a girare in cerchio sopra di me per alcun istanti.
Poi con un urlo acuto si tuff nel burrone sottostante dalla parte op-
posta da cui ero arrivato e scomparve.
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Non so come ma da quel momento mi sentii fuori dallOpera e, questo
era per me pi importante, in pace con Dio.
Quando scesi parlai con il sacerdote e la sera stessa tornai con Franco
Rocca a Palermo, approfittando di un suo passaggio perch doveva ri-
entrare per lavoro.
Ancora una volta parlai con i miei superiori ma non ci fu verso: non
mi lasciavano andare.
Presi la decisione definitiva alcuni giorni dopo e mi organizzai nei
giorni successivi.
A Milano mia sorella la domenica 14 maggio 1961 avrebbe fatto la
cresima e per me sarebbe stata una buona occasione per parlare con i
miei, ma loro mi negarono ogni possibilit.
Tacqui e organizzai tutto in silenzio: prenotai una cabina sulla nave da
Palermo a Napoli e acquistai i biglietti.
Trattenni cinquanta mila lire come stipendio del mese e il giorno 12 ,
prima di recarmi al porto, affidai al fattorino una lettera da consegnare
al direttore di via Leopardi, dove cera lappartamento dei professioni-
sti e dove io abitavo.
Salii a bordo della nave e . E per il resto vi rinvio alla lettura del li-
bro OPUDEI: CINQUE ANNI IN QUATTRO GIORNI, contenuto
nel mio sito www.cristotranoi.it, che incomincia proprio cos:

Sul ponte pi alto: ho paura che mi scoprano e da qui penso di
controllare meglio il movimento su tutto il molo dimbarco, sulla
folla che si accalca sotto la nave fino allultimo per vedere e sa-
lutare chi parte, sulle auto che arrivano di corsa e scaricano
persone che sono in ritardo e che si incrociano con chi scende
dalla passerella dopo aver abbracciato ancora una volta i pa-
renti che partono.
Capitolo 20

Il 14 maggio con la scusa di essere arrivato a Milano per la cresima
della sorellina, affrontai i miei genitori e nel pomeriggio, incominciai
a dire a loro che quando squill il telefono.
Il giorno prima avevo parlato con don Giambattista Torell, il respon-
sabile di tutta lOpus Dei italiana che tent ancora una volta di con-
vincermi.
60

Mia madre torn dal telefono in corridoio dicendo che cera in linea
una mia vecchia compagna di scuola. Chi ? chiesi, ma mia madre
disse che non aveva detto il nome.
Andai allapparecchio e allimprovviso mi croll il mondo addosso:
dallaltra parte riconobbi la voce di Giovanna.
Il seguito al prossimo capitolo ma prima devo precisare che con il pre-
te dellOpera ci fu il giorno dopo un ultimo penoso incontro perch
commisi lingenuit di fargli notare la felice coincidenza: avevo la-
sciato Giovanna il 6 novembre 1956 in piazza Conciliazione per an-
dare a farmi santo e la ritrovavo il 14 maggio 1961 al telefono, libera,
non sposata, non fidanzata.
Dedussi che il Padreterno o il destino avevano voluto una tale coinci-
denza che pu sembrare epr lo meno pazza.
Seguirono giorni felici ma lOpus Dei per il comportamento di don
Giambattista e degli altri suoi simili mi offese in profondit e mi cad-
de dagli occhi e dalla mente. Il prete si era permesso di insinuare che
nei cinque anni io avevo avuto dei contatti per non dire dei rapporti
con la ragazza che avevo lasciato cinque anni prima!
Gli chiesi allora di confessarmi e, terminata la confessione, ottenni fi-
nalmente di stilare la lettera di dimissioni.
Oggi raccomando vivamente di stare alla larga da loro anche perch
col tempo si snaturata la vera intenzione del fondatore e lIstituto
che si definisce prelatura col diritto di fare quello che vuole senza
chiedere il permesso n al papa n ai vescovi, oggi diventato uno
strumento deleterio e venefico in campo finanziario per noi e anche
dentro il Vaticano dove spadroneggia anche al di sopra di Gesuiti e
Domenicani, il che tutto dire!
Nei giorni successivi dovetti risolvere molti problemi ma soprattutto
dovetti tornare a Palermo per definire la chiusura del mio rapporto con
la libreria.
Non potevo pi abitare in casa dellOpus Dei e dovetti anche cambiare
casa andando ad abitare in una pensioncina dietro il Politeama, squal-
lida ma economica.
E questo lo possiamo chiamare il diciottesimo mio trasloco, anche se
per poco tempo.
Ovviamente ruppero tutti i ponti con me con una carit cristiana de-
gna della loro bigotta ipocrisia.
Una sera fui ospite di Marisa che aveva preparato una magnifica ara-
gosta apposta per me: cera in tutto il suo modo di fare il dirmi che
aveva capito tutto e la speranza di avere finalmente la possibilit di un
rapporto fisico che tanto desiderava: per lei, in una citt come Palermo
non cerano molte possibilit di evadere dalla morale siciliana che im-
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pone alle vedove una castit assoluta e nel contempo uno scopare di
nascosto a tutto spiano e in piena libert. Ma io avevo altre intenzioni.
Intanto acquistai con i pochi soldi che avevo un piccolo anello di fi-
danzamento per Giovanna che mi asciug i pochi soldi che avevo da
un gioielliere davanti alla libreria e che feci spedire: un fidanzamento
per posta sempre qualcosa di originale!
E quando rientrai a Milano il racconto meravigliato di Giovanna e del-
le facce dei suoi genitori fu per me la conferma che finalmente la mia
vita stava prendendo la strada giusta.
Fatte le consegne, raccolte poche cose mie (il resto mi fu consegnato
in un ufficio di uno dei numerari che, tra laltro era anche gay, solo
quando tornai in ottobre a Palermo in viaggio di nozze).
A Milano intanto Giovanna dovette operarsi di appendicite ed io tor-
nai di corsa a Milano unaltra volta per starle vicino. Ma dovevo tor-
nare a Palermo a sistemare tante cose.
E da quel momento gli eventi precipitarono in un modo assurdo ma
terribilmente reale: ripartii da Milano il 15 giugno con la Freccia del
sud per arrivare a Palermo il sedici. La mattina dopo, mentre ero anco-
ra nella pensione mi arriv una telefonata di Marisa: mia madre aveva
telefonato in libreria avvisando che mio padre era stato male di notte,
colpito da una paresi e che era stato ricoverato al Fatebenefratelli con
prognosi riservata.
Per fortuna il fratello di Marisa era pilota dellAlitalia e questo mi
permise di trovare un posto sul primo volo per Milano. Per distrarmi
durante il volo mi fece compagnia il fratello di Marisa che non stava
pilotando, sostituito da un vecchio pilota militare che, per mantenere il
brevetto, doveva fare ancora un po di ore di volo. Fece un atterraggio
perfetto a Linate ma se il fratello di Marisa non fosse intervenuto in
tempo la vetrata dellaeroporto sarebbe esplosa, colpita dallurlo dei
motori a mille del DC-6 che il pilota si era dimenticato di spegnere.
Da quel momento avevo chiuso definitivamente con lOpus Dei e a-
vevo sostituito mia madre in ospedale per la notte.
Seppi finalmente che cosa era successo: mio padre durante la notte si
era voltato nel letto per pisciare come al solito nel pitale ma cadde a
terra perch la parte sinistra del corpo era improvvisamente paralizza-
ta.
Da qui inizi per lui una tragedia che dur tredici anni, culminando
poi in un intervento doppio al retto per un tumore; termin di vivere
tra le mie braccia il 10 novembre 1974 alle quattro di mattina, assistito
anche da mia madre e da mia sorella.
Io credetti per molto tempo che la causa fosse il dispiacere di aver sa-
puto che ero uscito dallOpus e che mi ero rimesso con Giovanna, con
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la paura conseguente che non mi sarei pi laureato. E vissi per molto
tempo con questo rimorso ma un giorno scoprii la probabile causa del
suo male: mia madre mi raccont che la sera prima erano andati allo
Smeraldo dove avevano assistito ad un variet con molte ragazze suc-
cinte che avevano eccitato mio padre al punto che, tornati a casa, ave-
va voluto sfogare la sua voglia di sesso per pi volte. E questo forse fu
la vera causa del suo male.
Amen, non voglio commentare ulteriormente il mio destino e quello di
mio padre (e anche quello di mia madre che, per aiutarlo ad andare in
ufficio con una gamba semiparalizzata ed il braccio completamente
inutile, aveva dovuto prendersi la patente a cinquantacinque anni e
comperare una cinquecento a rate per accompagnarlo).

Capitolo 21

E dal giugno 1961 la mia nuova casa fu quella dei miei genitori, con
mio fratello che aveva poca voglia di studiare (aveva 19 anni e non si
era ancora diplomato in ragioneria) e mia sorella che a nove anni do-
vette iniziare la sua vita di bambina con la compagnia giornaliera di
un padre paralitico.
E questo fu il mio diciannovesimo trasloco ma non era ancora finita
qui.
Gli scontri con mio padre sui miei rapporti con Giovanna erano gior-
nalieri ed io avevo bisogno di trovare lavoro mentre mio padre rom-
peva con la storia che io, sposandomi con Giovanna e avendo lasciato
lOpus Dei, non mi sarei laureato: era la sua fissazione e non potevo
farci nulla (anche perch non potevo dirgli chiaro il mio sospetto: u-
scendo io dallOpera lui ora mi avrebbe dovuto ora mantenere!).
Mia madre poi, invece di difendermi, dava corda a mio padre ma in un
altro modo e manifestava apertamente cose pensasse di Giovanna.
Ero praticamente tagliato fuori da ogni rapporto umano: famiglia, uni-
versit, lavoro.
Lunico sollievo era Giovanna che, dopo un breve periodo in cui ci
raccontammo tutti i cinque anni trascorsi lontano una dallaltra nel
primo pomeriggio del 16 maggio al bar di via Borgogna dalle cinque
fino a tarda sera, incominciammo a conoscerci meglio, da ragazzi del
liceo ad adulti pronti ad affrontare la vita nel matrimonio.
Il nostro amore era puro e sincero.
Ma senza lavoro come potevo fare? Mentre mi iscrivevo
allUniversit di Milano per riprendere gli studi (mi mancavano anco-
ra pochi esami), Giovanna che lavorava alla Total (allora ancora Pe-
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troli Aquila), riusc a farmi assumere nella contabilit e questo mi
permise di respirare un po.
I suoi genitori avevano a Moltrasio, come ho gi detto, un piccolo ap-
partamento in affitto e durante lestate la madre si spostava stabilmen-
te in questa casa con il cocker che avevano, lontano dai genitori di lei,
mentre il padre e la figlia facevano la spola con Milano per il lavoro
con corriera o battello e treno delle Ferrovie della Nord.
A mezzogiorno andavano a mangiare in un vicino servizio mensa ab-
bastanza economico; mi unii anchio e questo mi permise di conoscere
meglio la bont danimo del mio futuro suocero.
Alla sera dovevo tornare in Largo Boccioni ed ogni volta era un tor-
mento, anche perch mio padre, anche a causa della malattia, si era
invelenito.
A volte li accompagnavo a Moltrasio per cenare con loro e tornavo a
Milano la sera tardi. Da Moltrasio scendevo per la lunga scalinata che
portava allimbarcadero mentre il battello, lasciata Torno, attraversava
il lago per attraccare al molo di Moltrasio.
Dal battello a Como prendevo lultimo treno per Milano e, per arrivare
a casa prima, scendevo dal treno in movimento allaltezza della nuova
fermata (quella di Quarto Oggiaro che era in costruzione) perch il
treno rallentava per i lavori in corso. E di qui a piedi erano circa due
chilometri per arrivare a casa.
Mio padre faceva come suo padre quando lui abitava ancora giovane
ad Agrigento: mi aspettava in piedi dietro la porta con lorologio in
mano.
Cos, dopo essere stato fuori di casa per quattro anni ( e lui non poteva
sapere come fossero state le mie serate a Catania o a Palermo) mi fa-
ceva la guardia alle 23 e trenta mostrandomi lorologio e protestando.
La vita in quella casa per me era diventata impossibile e un giorno de-
cisi che dovevo andarmene.
Ne parlai con Giovanna che trov la soluzione con i suoi: abitavano a
sud di Milano in zona porta Ticinese (via Bonghi 6) al primo piano
con i genitori di quella che poi divenne mia suocera e avevano preso
in affitto (per mia fortuna) da oltre un anno un appartamento al secon-
do piano che usavano solo di giorno per il pranzo o la cena, volendo
stare alla larga dei suoceri che avevano un caratterino non facile.
Fu cos che decidemmo di avviare una poltrona letto al secondo piano
mentre al mattino andavamo poi al lavoro insieme.
Una sera presi la decisione definitiva dopo che mio padre aveva insul-
tato il nome di Giovanna e mi aveva detto: Approfitti del mio male
altrimenti ti schiaffeggerei!
Non lavesse mai detto. Gli risposi freddo:
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Non accetto che tu insulti la mia fidanzata e se vuoi schiaffeggiarmi,
ti aiuto a tenerti in piedi dal braccio malato, cos puoi soddisfarti!
Lui lo fece e mi schiaffeggi: avevo 23 anni e quattro anni fuori casa:
aveva superato il limite.
Di notte di nascosto raccolsi quel poco che mi sarebbe servito e la
mattina uscii per ritornare in quella casa solo molti mesi dopo, ma
sposato.
Fu allora che dissi a mio padre: Quando mi laureer, perch alla fac-
cia tua io mi laureer anche se tu non ci credi, torner con Giovanna e
tu dovrai chiederle scusa degli insulti che ti sei permesso nei suoi con-
fronti.
E dai primi di agosto del 1961 andai ad abitare al secondo piano di via
Bonghi, in casa dei miei futuri suoceri. Era il ventesimo trasloco della
mia vita.
Risolsi i miei problemi economici per potermi sposare grazie allaiuto
generoso di Alberto Falck, forse anche perch era riuscito a non entra-
re nellOpera, pur frequentandola e capiva in quali condizioni mi ero
trovato io dopo quei cinque anni. Fu la madre di Alberto a prestarmi
ben due milioni di lire che poi non volle mai in restituzione.
Potemmo cos mettere su casa e arredare il nostro nido, oltre a partire
per un viaggio di nozze in aereo fino a Roma e poi a Palermo e da l
con una moto a noleggio, una vecchia Agusta 125 monosellino con la
quale portai Giovanna proprio nella fattoria in cui avevo deciso di tor-
nare alla vita normale. A Palermo fummo ricevuti quasi a calci nel se-
dere: una valigia con quello che era rimasto nella casa di mio mesi
prima mi fu consegnato in un ufficio da Giancarlo, il gay e don Luigi
Tirelli mi accus nientemeno di essermi permesso di portarmi la mo-
glie nella citt in cui avevo lasciato praticamente la mia fidanzata.
Ora va bene tutto ma paragonare lOpera a una fidanzata mi parve
talmente stupido che non risposi alloffesa, anche perch offendeva
mia moglie e la mia libert di cittadino del mondo, i cui problemi e-
ventuali interiori erano miei e non dellOpera.
Lultima tappa del viaggio di nozze fu Assisi dove restammo due
giorni e di allora ho ancora foto ricordo.
Al rientro a Milano restava il problema del lavoro ma presto rime-
diammo; Giovanna proseguiva con la Total mentre io andavo in giro
per Milano con Toti, mio suocero, a vender sali da bagno e cose simi-
li.
Intanto avevo ripreso a studiare e preparare uno degli esami pi diffi-
cili: procedura penale. Ma rimanevano altri esami altrettanto fastidiosi
che per riuscii a superare. La mia tigna era dovuta alla scommessa
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che avevo fatto con mio padre e non vedevo lora di sbattergli sul mu-
so il certificato di laurea.
Pochi mesi dopo entrai nel corso della Standa per gerente (grazie ad
una parola buona del parroco di Moltrasio ad un membro della fami-
glia Monzino proprietari della Standa di allora.
Alla fine del corso fui assunto come allievo gerente a settantamila lire
al mese nella Standa di Via Pattari, ma pochi mesi dopo trovai lavoro
presso la Finarte (una nuova casa daste che oggi un importante fi-
nanziaria e non solo per antiquari), con uno stipendio doppio e, oltre
ad un incarico amministrativo interno divenni anche battitore delle
commissioni di chi non voleva far sapere che partecipava agli acquisti.
Da allora potei finalmente respirare una vita matrimoniale normale e
guardare al futuro con Giovanna con maggior sicurezza. Si incomin-
ciava a pensare ad un figlio ma era troppo presto.
Alla Finarte si battevano le aste di antiquariato allAngelicum con la
stessa seriet e ricchezza di valori di opere della Sotheby e potei avere
tra le mani alcuni pezzi di grande importanza.
Un caso per tutti: una sera andava allasta un Morandi per il quale in
sala un importante notaio di Milano mi aveva dato una commissione
fino a otto milioni per poter arrivare a possedere il suo cinquantesimo
Morandi!
E proprio quella sera, la telefonata di un amico mi inform che Mo-
randi era morto poche ore prima.
Scesi in sala e avvisai il notaio, presente ma anonimo tra il pubblico,
dicendogli che io mi sarei fermato alla sua commissione; poi avrebbe
dovuto proseguire lui. Mi ringrazi e compr il Morandi a oltre dodici
milioni combattendo con qualcun altro che aveva saputo.
Pass cos il 1962 e nel 1963 e decidemmo di avere un figlio che nac-
que, col nome di Francesco il 20 luglio 1964 in casa, ostetrica la
Giorgetti Brambilla, la stessa che aveva fatto nascere Giovanna. Per
anni sper di poter far nascere i figli di mio figlio ma mor in tarda et
senza poter vedere soddisfatto il suo desiderio.- Ancora oggi, mio fi-
glio a 48 anni, non ha figli, credo perch non li ha mai voluti, come
del resto sua moglie, Catherine di origine svizzera tedesca da parte di
padre, sposata nel 1992.
Lo stesso dicembre del 1964, Francesco aveva cinque mesi, una tegola
gigantesca si abbatt sulla mia vita e su Giovanna: mi costrinsero a
partire per il sevizio militare.
E questa volta feci ben tre traslochi: prima a Casale a fare il CAR
(cio il cretino che impara a tirare la bomba a mano e a marciare), poi
alla Cecchignola ad imparare a manovrare i ponti radio ed infine a Mi-
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lano, ma in Corso Italia dove c una caserma che allora ospitava il
Genio trasmissioni.
Isolato in una stanza dove gestivo un ponte radio tra Roma e Vercelli,
studiavo lodiato Diritto Amministrativo per completare il corso di
laurea.
Intanto Giovanna dovette rinunciare al suo lavoro per poter allevare
nostro figlio. Cos dal 7 gennaio al 13 ottobre 1965 ci partirono oltre
sei milioni tra le liquidazioni per poter vivere, i viaggi e tutto il resto.
Cinque tentativi per ottenere i tornare a casa andarono in fumo, perfi-
no quello di un importante monsignore che conoscevo. E soprattutto
persi il lavoro alla Finarte, posto prezioso di lavoro ma allora la giusta
causa o lart. 18 non funzionavano.
Allinizio di ottobre avevo aiutato una commilitone a scappare di
giorno per accudire allazienda del padre che aveva avuto un infarto e
solo allora trovai la strada giusta per le amicizie che aveva con il se-
gretario di Andreotti, allora ministro della difesa. E fu cos che lo stes-
so che mi aveva pi volte rigettato la domanda basata sulla necessit
di mantenere un famiglia, concesse al mio amico per me una licenza
straordinaria in attesa di congedo che potei ritirare solo allinizio del
1966.
Ma gi prima di Natale avevo trovato lavoro: fui assunto dalle stesse
Messaggerie Italiane che avevano la filiale a Palermo dove avevo la-
vorato nel 1960 come commesso per quasi un anno con quel signore
sopranumerario.
E finalmente incominci una carriera di lavoro, irta di tanti problemi
ma decisamente pi tranquilla delle avventure del mio passato.
E la nostra vita inizi un periodo sereno con un figlio e le materie che
studiavo di notte per laurearmi mentre lavoravo di giorno.
E venne la tesi di laurea: un vecchio cliente della Finarte, il professor
Franceschelli di diritto commerciale era un appassionato collezionista
di Madonne dellottocento e chiesi la tesi a lui. Voleva che la facessi
sul Mercato comune ma io gli proposi unidea un po stramba che ac-
cett con entusiasmo: Tipo di contratto in uso tra pittori e mercanti
darte.
Il 6 luglio finalmente mi laureai con un voto abbastanza modesto: 98
centesimi, ma con il titolo in tasca e questo era quello che volevo.
Il giorno dopo portai Giovanna da mio padre che dovette finalmente
chiedere scusa a mia moglie.




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Capitolo 22

Non metto in conto i tre trasferimenti da militare perch erano gi
troppi gli altri che avevo fatto.
Inizi finalmente un buon lavoro con un uomo che ancora oggi ho nel-
la memoria come il migliore e intelligente imprenditore che io abbia
mai avuto in 38 anni di lavoro. Aveva per me una grande stima e un
giorno mi disse: Lei come i giocolieri cinesi: fanno degli esercizi
che apparentemente sembrano facilissimi ma quando uno ci si mette,
si rende conto quanto lavoro c dietro Ancora oggi per me fu il mi-
glior complimento nella mia carriera di impiegato e di dirigente.
Dal 1965 restai alle Messaggerie fino al 1974. Credo sia stato il perio-
do pi lungo della mia vita di lavoro. Lufficio per giunta era vicino a
casa (alla mattina dovevo fare sol duecento metri).
Ma il destino era sempre in agguato con nuove sorprese spiacevoli. Al
mio ritorno da militare rientr anche mio fratello (assurdo che due fra-
telli dovessero fare lo stesso servizio militare) che per ricevette per
errore la cartolina per un esame al posto di un altro per cui risultava
avere la sifilide. Avendo frequentato per molto tempo una prostituta di
Padova, sembrava logico ma la fidanzata che ma lasciamo perdere
Rifece gli esami e risult lerrore di Padova, ma i rapporti con la
futura moglie incominciarono subito ad incrinarsi.
Nel 1967, a tre anni Francesco, spinto da una bimba a terra si ruppe il
femore allasilo con la suora (unincosciente!) che lo stratton, tra-
sformando cos la frattura semplice in diagonale scomposta.
Fu una lunga vicenda fino a che, dopo due mesi e passa, portato in ri-
viera, riprese a camminare.
Nel frattempo per Giovanna, costretta a sollevare 37 chili di bambino
ingessato per fargli fare i suoi bisogni si becc un distrofia alla colon-
na vertebrale che poi si riport per tutta la vita.
Riuscivamo ogni anno a fare delle vacanze dignitose: soprattutto a Se-
stri Levante dove avevamo come amici una ottima famiglia di ex pe-
scatori.
Nel 1969, su suggerimento di un amico decisi di presentarmi per
lesame di abilitazione allinsegnamento: la mia laurea in legge mi
permetteva di partecipare allabilitazione allinsegnamento di storia,
filosofia, pedagogia e psicologia nei licei e negli istituti magistrali.
Studiando al mattino dalle cinque alle otto, prima di andare in ufficio,
mi preparai e superai lo scritto con un podi fortuna. Ricordo ancora il
titolo: Il concetto dellessere in Platone, Aristotele e Sartre (una
pazzia mettere insieme questi tre filosofi!). Passai lorale e mi ritrovai
il numero 49 nella lista del provveditorato di Milano, Potendo farlo,
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mi iscrissi anche in un secondo provveditorato, Genova (non si sa mai,
mi dissi, visto che mi piaceva la Liguria).
Ricordo la mattina in cui andai al provveditorato a versare le diecimila
lire obbligatorie: ero solo allo sportello e quanto limpiegato mi disse:
Prego, professore mi voltai per vedere chi cera dietro di me: nessu-
no. E limpiegato:Guardi che parlo con lei! Con me? gli chiesi e
lui mi rispose: Certo! Da oggi lei professore!. Non ci avevo pensa-
to e allora mi feci stampare i biglietti da visita con il dott. Prof. E ne
portai uno anche a mio padre per insegnargli che doveva avere pi fi-
ducia in suo figlio!
Ne fu contento ma non si rese conto dello schiaffo morale e io lasciai
perdere.
Un professore di prima nomina prendeva allora meno di seicento mila
lire al mese e io ne prendevo molti di pi lavorando in Messaggerie.
Purtroppo non insegnai mai(e mi sarebbe piaciuto, ma gi tenevo fa-
miglia da mantenere!)
Ma nel 1970 io dovetti fare un giro per le filiali dItalia ed approfittai
per portarmi Giovanna: era un lavoro di rilevamento dei tempi ma fu
quasi una vacanza, compresa unavventura sullEtna dove una sera,
dopo un bellissimo tramonto e vedendo che cera in corso una colata,
decidemmo di salire sulla montagna.
Ma allimprovviso si mise a nevicare con una forte tormenta e dopo
due tornanti ci trovammo con la 124 Fiat della ditta davanti alla cola-
ta che ci stava per tagliare la strada su una doppia curva.
Facemmo appena in tempo a evitarla con un rapido marcia indietro e
un testa coda.
Scendemmo dal monte e ci fermammo in una piazza: erano le due di
notte ed eravamo nella piazza di Zafferana Etnea dove io, stanco del
viaggio prima e dello spavento dopo, mi addormentai distrutto per
unora. Quando mi risvegliai, Giovanna che aveva una pazienza infi-
nita, mi indic un gatto che attraversava la piazza passando sopra i
ballatuna bagnati dalla pioggia che aveva smesso da poco.
Nel 1972 mia sorella si spos e la festa fu allietata dal fatto che ottenni
per lei la cappella delle suore vicino a casa mia, dato che lei non vole-
va il matrimonio durante la messa nella sua parrocchia di Largo Boc-
cioni.
In quegli anni mio padre, non ostante la malattia, volle continuare a
lavorare per aspettare che passasse la legge che equiparava la pensione
allo stipendio (prima la pensione era di molto inferiore).
Mia madre dovette a 55 anni prendere la patente e comprarsi una cin-
quecento a rate per portare mio padre in ufficio.
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Ma poco tempo dopo scoprirono che mio padre aveva un tumore alla
parte finale delintestino; sub due interventi ma il 10 novembre 1974
come vi ho gi raccontato, moriva tra le mie braccia alle quattro di
notte.
Nel 1972 invece era morto Toti, mio suocero, a causa del Parkinson
che lo aveva colpito anche a causa della sua giovent di pugile: in tre
anni mor di una forma molto veloce.
Nel 1973 invece Giovanna mentre leggeva il giornale al bagno, scopr
che vicino a noi affittavano un appartamento in via Pezzotti. Fu il no-
stro ventunesimo trasloco della mia vita.
Il trasferimento in via Pezzotti sembrava definitivo. Avvenne nel 1973
ma dur solo fino al 1985.
Avevamo un bellappartamento con molte stanze, un bel balcone e in
mezzo ad un grande giardino che ospitava otto palazzi in condominio.
Erano appartamenti abitati per la maggior parte da insegnanti o da im-
piegati di banca, quindi di buon livello sociale.
Francesco ebbe finalmente la sua stanza personale e io, mentre era in
Inghilterra in vacanza da una mia cugina ad imparare la lingua, gli di-
segnai di blu cobalto il soffitto e poi gli aggiunsi le stelle nella loro ve-
ra dislocazione celeste con una vernice luminescente. In questo modo,
quando alla sera si metteva a letto e spegneva la luce poteva sognare
di dormire sotto un cielo notturno e gli piaceva molto. Nel 1973 aveva
nove anni e cresceva bene; era la gioia e lorgoglio mio e di Giovanna
e non aveva pi risentito della rottura del femore. Anzi fu allora che
incominci il primo anno di judo nella palestra che cera in via Meda
sotto la guida di una cintura nera, il vigile Zanoni.
Ma si ruppe una clavicola e, dopo un anno di sospensione, riprese le
arti marziali ma questa volta con Aikido. Ci andavamo anche Giovan-
na ed io ma poi io dovetti fermarmi a causa di un intervento alla cisti-
fellea per calcoli. Allora lamicizia di Giovanna con Mariella che abi-
tava allultimo piano e che stava completando gli studi per diventare
medico divenne pi forte e fu lei che mi salv da unerrata diagnosi
del nostro medico di fiducia che aveva confuso i miei calcoli con un
possibile fecaloma e mi costrinse a inutili e conseguenti terribili cliste-
ri. Alla fine, grazie a Mariella fui ricoverato alla chirurgia durgenza
in via Francesco Sforza ed operato da unequipe di giovani chirurghi
con a capo il figlio di Staudacher, il mago delle cistifellee. Il giova-
ne chirurgo era balbuziente ma i suoi colleghi mi assicurarono che in
sala operatoria parlava normalmente.
Lultima settimana prima dellintervento i dolori erano saliti alle stelle
e raccomandai a Giovanna di non lasciarmi mai solo in camera altri-
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menti potevo anche buttarmi dalla finestra in un momento di massi-
mo dolore.
Francesco risent molto per questo episodio, tanto che ebbe un im-
provviso calo di rendimento scolastico, ma poi si riprese.
Io continuavo a lavorare alle Messaggerie ma alla fine del 1979, di
fronte ad un ulteriore rifiuto di Mauri di farmi dirigente altrimenti poi
gli altri dirigenti se la prendono con lei e non con me come fanno og-
gi (un ragionamento pi che giusto ma che riduceva di molto le mie
possibilit di carriera), decisi di cambiare azienda e divenni il Diretto-
re amministrativo di un Cash & Carry di San Giuliano Milanese. Le
consegne di chi se ne andava e di cui presi il posto mi furono fatte il
24 dicembre mattino in quattro ore ed io pur avendo qualche nozione
di contabilit, avevo pi esperienza in altri campi.
Dovetti quindi fare una full immersion in casa sui libri per imparare
quello che gli studenti imparano in cinque anni nelle scuole di ragio-
neria. Ne uscii quarantotto ore dopo abbastanza rincoglionito ma con
qualche nozione in pi, sufficiente per affrontare il mio nuovo lavoro:
ero finalmente un dirigente con tutti i vantaggi che comportava allora
la retribuzione ed il trattamento in relazione .
Fu unesperienza breve ma molto ricca di occasioni di vita.
Ma mentre proseguivo per la mia carriera fui richiamato da Mauri ch
mi riprese come dirigente a guidare la nuova azienda di distribuzione
giornali, la Me. Pe., che per altro conoscevo gi molto bene avendo
lavorato anni prima nella stessa come Capo ufficio diffusione, un la-
voro che mi piaceva molto.
Nei tre anni dal 1971, sempre per una scelta sui giornali da parte di
Giovanna decidemmo di andare a fare le vacanze estive a Lampedusa,
allora veramente in fondo al mondo, senza alberghi (ne iniziavano a
costruire nel 71 il primo, quello che divent il Baia Turchese)
Era una terra brulla, come un incolto aeroporto in mezzo al Mediterra-
neo, pi vicina allAfrica (circa 100 chilometri) che alla Sicilia (240
chilometri). Ci arrivavamo in aereo e gli atterraggi erano abbastanza
curiosi, su dei Focker che risentivano molto il vento trasversale. Ho un
filmato in cui da terra una volta ripresi un atterraggio: il Focker atter-
rava sempre tutto di traverso a causa del vento mentre i gabbiani si le-
vavano dalla pista per lasciarlo atterrare e per poi rimettersi
sullasfalto a godersi il caldo del sole.
La prima volta dovemmo fare scalo a Palermo (dopo quello di Roma)
per prendere il Focker che ci avrebbe portato a Lampedusa ma prima
dovemmo fare sosta allaeroporto di Trapani Birgi.
Qui, mente aspettavamo in un hangar che fungeva da sala dattesa, da
bar, da rimessa di camionette dellaviazione militare, da rimessa per
71

aerei leggeri, vidi il comandante del nostro Focker che si faceva un
abbondante Whisky. Lo steward che aveva capito la mia meraviglia
mi tranquillizz:
Non si preoccupi, il suo carburante, altrimenti non atterra bene.
Guardi che stato uno dei migliori piloti della RAF ed il primo che ha
portato un Focker a Lampedusa. Aveva ragione e latterraggio a Lam-
pedusa fu da manuale.
Ma mentre aspettavamo non si sa cosa finalmente capimmo: si stava
aspettando un altro aereo che arrivava sempre da Palermo ma stava
portando un gruppo di Americani che arrivavano per un funerale di un
parente in Sicilia, forse nella stessa Trapani. Cos pensai, quando mi
resi conto, oltre allo scorrere degli scarafaggi sul bancone del bar, di
alcune decine di persone accatastate letteralmente su poche sedie, tutte
vestite di nero per il lutto e che attendevano i loro parenti americani.
Non vi descrivo lincontro tra i due gruppi quando entrarono
nellhangar i parenti provenienti dallAmerica.
Io e Giovanna non potevamo trattenere i sorrisi e lo steward che ci
guardava con severit prima, poi rise anche lui.
Finalmente molti anni dopo, misero la nave canguro che permetteva di
caricare merci anche di grande peso e portare la macchina fino
sullisola. Ci avvenne solo quando cambi il sistema di raccolta del
pesce nel canale di Sicilia.
Prima il pescato veniva portato a Lampedusa dove ben tre scatolifici
lavoravano il pesce che portavano i mazaresi. Ma un bel giorno questi
decisero di farsi una nave frigo e di portare il pescato a casa.
E Lampedusa, rimasta senza pesce da inscatolare dovette finalmente
accettare di fare il molo dattracco usando il cemento che da anni
viaggiava nella stiva del traghetto senza mai che venisse sbarcato, a
causa di un divieto dei locali mafiosi.
E cos alcuni anni dopo potemmo scendere da Milano in macchina, la
nostra gloriosa 127 e raggiungere lisola dopo un viaggio di 1600 chi-
lometri da Milano a Porto Empedocle.
Ma questo avvenne nel 1986. Prima accaddero altre cose che resero la
nostra vita giornaliero a volte triste, a volte allegra.
Nel 1978 andammo in Sardegna ma fu una vacanza ben strana, in un
tugurio sulla riva del mare davanti a S. Giusta in provincia di Orista-
no.
Era proprio una vacanza da poveri ma Giovanna si adatt per poter
godere la bellezza dei vari posti che visitammo.
Fu in una di queste incursioni che mi feci male: su un piccolo argine
scivolai per tagliare dellerica per Giovanna e, avendo in mano il tron-
chesino, caddi male. Morale: infrazione alla testa del perone, errore di
72

massaggi di una locale, ricovero e semivalva di gesso due giorni prima
di ripartire per Milano, dove al Galeazzi mi chiesero chi era stato quel
pazzo che mi aveva conciato in quel modo, avendo il gesso pieno di
sabbia.
In contemporanea avevamo quel giorno lasciato Francesco da solo,
protetto dai nostri vicini ma lui si era inoltrato in uno stagno a fotogra-
fare le mucche con gli zoccoli a mollo. Preso per il figlio di un brac-
coniere, alcuni pescatori del luogo lo avevano menato e gli avevano
rovinato la camicia, spaventandolo.
Al mio rientro ci fu una litigata feroce in un capannone vicino dove gli
autori erano a mangiare ed io dissi loro che se si sentivano orgogliosi
perch sardi, io lo ero come loro perch figlio di siciliani.
Ci fu una specie di pace armata che evit loro le conseguenze di una
mia denuncia ai locali carabinieri.
Il viaggio di ritorno da Cabras a Porto Torres per limbarco ebbe come
autista Giovanna e con il sottoscritto con una gamba fuori dal fine-
strino causa gesso.
Poi al porto un camionista, mosso a piet, aiut Giovanna a farci im-
barcare con la 127.
Fu solo a Milano che scoprimmo che una gomma con una grossa boz-
za stava per scoppiare e ci rendemmo conto solo allora del rischio che
avevamo corso da Genova a Milano se fosse avvenuto la scoppio.

Capitolo 23

Nel 1980 matur il momento di migliorare economicamente: lasciato
il Cash & Carry, riuscii a farmi assumere dal gruppo Rusconi per di-
ventare Controller di Italia 1, ma due anni dopo, mentre ero in vacan-
za a Trappeto, sotto Partinico . Dovetti tornare a Milano, interrom-
pendo le vacanze perch il dott. Rusconi aveva venduto Italia 1 a Ber-
lusconi.
Passai unestate infernale a Milano per il caldo a discutere con gli uo-
mini di Berlusconi i valori di tutte le apparecchiature di alta e bassa
frequenza oltre che dei canali e del magazzino film al fine di raggiun-
gere il valore finale di cessione della propriet.
Berlusconi, che nel frattempo possedeva Canale 5 e Rete 4, era stato
informato dai suoi uomini sulle mie qualit di dirigente e mi arriv
tramite gli stessi la proposta di passare a loro.
Sapevo da un mio amico quale fosse il suo modo di agire ed ero pro-
penso ad un no. Per esempio regalava allora un appartamento a Mila-
no 3 al venditore che gli portava un miliardo di fatturato pubblicitario.
73

Ma sapevo anche da un amico che ci abitava che le villette costruite
nel villaggio che ora si chiamava Milano 3 mentre prima era un grup-
petto di case con chiesetta che si chiamava Basiglio, che i muri erano
di carta velina: il mio amico una sera scendendo nel garage sottostante
casa non aveva frenato in tempo ed aveva sfondato il muro divisorio,
entrando nel garage del dirimpettaio e sfondandogli involontariamente
la macchina.
A parte questo particolare, era proprio il tipo di imprenditore che non
stimavo molto mentre con Rusconi i discorsi erano di lealt e di reci-
proca stima sul lavoro.
Decisi di parlarne con Rusconi ed egli mi ferm: aveva appena acqui-
stato, facendosi aiutare da un piccolo azionista preesistente da Rizzoli
la Edimoda che pubblicava Donna, Mondo Uomo e Donna e Bambi-
no, ma soprattutto perch il piccolo azionista aveva il ruolo di editore
delle testate giornalistiche, con alle spalle una lunga esperienza, in-
sieme alla moglie, presso Vogue.
Era la gallina dalle uova doro ed io, accettai di diventare il Controller
dellazienda ma con lincarico di tenere docchio il socio di minoranza
e la sua politica editoriale.
Era un compito delicato ma ottenni aumento di stipendio e stima
allinterno del gruppo.
Cos dal 1983 iniziai un nuovo incarico ed entrai indirettamente nel
mondo della moda.
Giovanna ed io sognavamo di poter un giorno diventare proprietari di
un appartamento tutto nostro ma i prezzi erano proibitivi, finch, una
volta stabilizzato il mio lavoro non si present la buona occasione.
La casa di mia suocera era in vendita da parte degli antichi proprietari
ad un prezzo accettabile ed io consigliai a mia suocera lacquisto ma
con lintestazione a Giovanna. La malfidente accett perch aveva da
parte dei risparmi ma per lintestazione pretese la separazione dei beni
tra me e Giovanna.
Accettammo ma ci vendicammo: feci fare una perizia del suo appar-
tamento con la banca ed vi ottenni un mutuo intestato a Giovanna con
il quale comprai un appartamento nella vicina via Bonghi, proprio di
fronte a quella dove pagavamo fior daffitto: la differenza tra affitto e
rata del mutuo era poca e cos ci trasferimmo nel nuovo appartamento,
questa volta tutto nostro.
Per capire il mio affare: lo comprammo nel 1985 a 78 milioni, io poi
lo rivendetti nel 1994 a 240 milioni quando mio figlio decise di andar-
sene nel 1993 ad abitare a in affitto a Cremona ed oggi, se mio figlio
Francesco se lo fosse tenuto, varrebbe pi di 500 milioni delle vecchie
lire!
74

Fu il ventiduesimo trasloco e ancora una volta sperai che fosse
lultimo della mia vita.
Mio figlio Francesco ebbe una stanza grande e bella, noi due una bella
camera matrimoniale e io avevo finalmente il mio studio dove potevo
scrivere e meditare.
Giovanna, che nel frattempo frequentava lIsmeo, si era diplomata in
lingua e letteratura giapponese e Francesco coltivava assiduamente il
mondo orientale.
Avevo fatto appena in tempo a concludere laffare che si stava presen-
tando una situazione non troppo favorevole per il mio futuro: nel
1985 io avevo 47 anni e alla Rusconi il fondatore stava perdendo i
colpi incalzato dal figlio che era un presuntuoso e incapace indegno di
suo padre (a Firenze un giorno, parlando con un fornitore seppi che
era riuscito ad imbrogliare il padre intascando i soldi pagati due volte
per una fornitura; sembr molto strana questa confidenza ma indicava
i modi di comportamento del figlio).
Ma il padre aveva ancora gli occhi aperti e aveva deciso di assumere
come vicepresidente lallora Amministratore Delegato del 24 Ore,
dott. Lunati, che pens bene di compiere il solito atto cretino riducen-
do il numero dei dipendenti e dei dirigenti. Cero in mezzo anchio e
prima o dopo sarebbe toccata anche a me.
Nel frattempo Giovanna ed io andavamo spesso in Umbria ad Assisi
per passare una settimana di vacanza e incominciavamo gi a pensare
alla vita da pensionati: sarebbe stato bello poter vivere ad Assisi, nella
pace non solo spirituale ma anche nella bella natura della terra umbra.
Il problema era trovare un lavoro nelle vicinanze di Perugia dove po-
ter vivere.
Francesco era arrivato al primo anno del politecnico, poi, una sera in
cui, dopo essersi ubriacato per trovare il coraggio per diremlo, mi con-
fess lungo il Naviglio che si era lasciato con Simona, una splendida
ragazza e aveva intenzione di lavorare sui computer, per cui intendeva
iscriversi a informatica, cosa che fece poco tempo dopo.
Accettai la sua richiesta ma ormai avevo a che fare con uomo e gli
dissi chiaramente che gli davo in tutto cinque anni, quattro per
luniversit e uno per il sevizio militare. E cos feci.
Lo corteggiavano molte donne che bazzicavano anche per casa e tra
queste Catherine, figlia di una ligure e di uno svizzero tedesco, che la
ebbe vinta sulle concorrenti.
Nel frattempo, dopo essermi fatto anticipare dieci milioni della mia li-
quidazione incominciai a pensare seriamente allUmbria.
Feci una grossa inserzione sulla Nazione e ottenni tre chiamate.
75

Ricordo ancora il colloquio del 7 dicembre 1987 con i fratelli Bolletta,
proprietari della Binova a Petrignano dAssisi. Mi ero offerto come
collaborazione in consulenza per portare il figlio di uno dei soci alla
capacit di gestire lazienda come Direttore Amministrativo e Finan-
ziario, insegnandogli i trucchi le mestiere (che non facile da quelle
parti) e che non accettarono, forse perch erano troppo diffidenti verso
un dirigente milanese. La mia soddisfazione fu che anni dopo fecero il
passo pi lungo della gamba con impianti enormi per entrare in Ame-
rica e fecero un buco nellacqua con vistose perdite finanziarie.
A proposito di finanza, mi ero fatto amico il gerente di un bar che a-
veva lavorato alla Spagnoli e dove mi port a parlare con il direttore
del personale per unipotesi di lavoro.
Quando gli presentai la mia esperienza nel rapporto con tante banche
mi gel dicendo che loro si tenevano i soldi in tasca, che preferivano
non usare i fidi delle banche e via dicendo.
Un altro imprenditore a Perugia mi rispose per offrirmi un lavoro in-
degno delle mie possibilit: recupero di crediti che in realt erano po-
co validi in quanto riguardavano la vendita di indirizzari non aggior-
nati che i clienti avevano dovuto constatare vecchi e spesso inutili.
Non era Umbro ma non vi dico di quale mafia del sud fosse: era co-
munque il capo di una cricca di suoi compaesani che lo consideravano
un dio mentre era solo un deficiente e presuntuoso.
E finalmente arriv lincontro con Ginocchietti con il quale conclusi la
mia assunzione ma in due tempi.
Nel 1987 scendemmo in Umbria con la ferma intenzione di trovare
dove andare ad abitare per gli anni della vecchiaia. E con laiuto di un
giovane geometra, Antonello Sterlini, dopo una ricerca di quindici
giorni in cui visitammo ventisei posti diversi, finalmente per una for-
tunata concomitanza di cose incontrammo quella che poi sarebbe di-
ventata Tenchi.
Vi risparmio la descrizione delle nostre ricerche e il pianto di Giovan-
na quando stavamo per rinunciare, delusi dei nostri incontri con per-
sone superbe o buzzurre o con occasioni con prezzi sballati.
Tornammo a Milano e chiedemmo a Francesco cosa preferiva fare: o
con noi in Umbria o da solo a Milano nella casa che gli avremmo la-
sciato in affido. Scelse decisamente la seconda ipotesi (e gli amici gli
dissero che aveva avuto un gran culo!) e noi ci demmo da fare per or-
ganizzare il nostro futuro trasferimento.
Alla Rusconi, per una fortunata coincidenza la richiesta di Lunati di
andarmene coincise con lassunzione in Umbria da parte di Ginoc-
chietti. Ma avvenne solo dopo un secondo colloquio nato in modo
strano: dopo il primo colloquio in cui sembrava che tutto andasse in
76

porto mi resi conto che avevo contro il suo sottopancia, invidioso e
che temeva che lo scalzassi, ma quando gli dissi apertamente che lui
non mi interessava e che non avrei mai interferito con quello che face-
va in azienda e con le banche, le cose cambiarono.
Tutto questo per avvenne dopo che avevamo definitivamente cam-
biato casa, trasferendoci a Tenchi: il 9 marzo 1989 dormimmo per la
prima volta nella nuova casa che ci sembrava una reggia con i suoi
cinquemila metri di terra intorno alla casa e i suoi ulivi.
Il nome Tenchi venne dalla lettura di Francesco dellatto notarile: da
terra a cielo diceva latto e lui lo tradusse in giapponese le parole, in-
ventando il nome di TEN CHI.
Avevo concluso il ventitreesimo trasloco.

Capitolo 24

Ci sembrava troppo bello vivere a Tenchi e io pur andando avanti e
indietro con Perugia dove lavoravo da Ginocchietti godevo di quella
meravigliosa scelta fatta in onore di Giovanna: consideravo Tenchi il
miglior regalo che avessi mai fatto a mia moglie e ne ero fiero.
E nello stesso tempo io, che non credo, mi chiedevo che cosa volesse
il padreterno in cambio! Poi lo seppi e fu triste.
Con Ginocchietti era andata cos: durante il 1989 ero ancora dipenden-
te di Rusconi e solo a dicembre ne uscii con eleganza (e tanti quattrini
di liquidazione che mi permisero di portar avanti i lavori che avevo in
corso: al momento della liquidazione inoltre diedi uno schiaffo morale
al capo del personale ricordandogli che mi stava liquidando il dovuto
ma non aveva tenuto conto dei dieci milioni che mi erano stati a suo
tempo anticipati. Ci rimase di stucco perch per una cosa del genere
rischiava il posto ma io lo accontentai dicendogli che mi bastava che
mi riconoscesse met dellimporto come premio finale e cos fu).
Chiusi i debiti e coperto di contributi fino allottobre 1990, me ne an-
dai definitivamente in Umbria dove per Ginocchietti, dopo il primo
colloquio, forse imbeccato dal suo sottopancia, aveva delle perplessi-
t. Ma nel febbraio 1990, mentre ero dal fornaio gi a valle, mi telefo-
n Giovanna: Ha telefonato Ginocchietti; vuole che tu vada a parlar-
gli.
E finalmente l1 marzo 1990 entrai a far parte della sua azienda e in-
cominciarono i guai: pretendeva che me ne andassi in America a recu-
perare i suoi crediti sparsi senza che io nemmeno sapessi come fosse
fatta la sua attivit di stilista (almeno lui si vantava di esserlo ma era
ben lontano dagli stilisti noti come Armani o Ferr).
77

Comunque ribaltai larchivio, scoprii perch il precedente direttore
amministrativo era stato licenziato (aveva fatto in modo che le banche
gli dessero dei fidi per aziende sue, altrimenti non le avrebbe usate per
Ginocchietti) e riorganizzai il sistema dei crediti: aveva crediti per
quattro miliardi solo in America su 10 miliardi di fatturato.
E partii per New York a recuperare soldi : in circa una settimana ri-
portai a casa due miliardi e finalmente il rapporto con Ginocchietti
miglior. Ma alcuni suoi modi di fare mi facevano impressione, come
di un mezzo pazzo. Solo alcuni anni dopo scoprii che era ammalato di
Alzheimer che alla fine lo port su una sedia a rotelle.
Ma i guai veri erano in agguato: nella primavera del 1991 scoprimmo
che Giovanna aveva un tumore al seno.
Non me la sento di raccontarvi tutto. Riassumo solamente: operata in
primavera alla clinica Porta Sole a Perugia , rioperata per ragioni este-
tiche in novembre con me che fui operato insieme a lei per unernia
inguinale, una ciste nello scroto e varicocele.
Ricordo un episodio divertente: la sera del mio intervento (Giovanna
era stata operata il giorno prima) fumavamo in camera come turchi
(allora fumavo anchio, poi smisi).
Entr il medico di guardia e chiese a Giovanna:
Ma signora, con quello che ha avuto fuma ancora?
E Giovanna rispose:
Tanto io fumer anche dopo morta perch mi faccio cremare!.
E cos la gioia di Tenchi visse solo due anni. I cinque controlli succes-
sivi furono negativi ma la paura era sempre nella mente di Giovanna
ed anche in me.
Ginocchietti nel frattempo aveva comprato la IGI che produce tuttora
scarpe, soprattutto per bambini.
Poco tempo dopo passai alla IGI I.F.T., ( una sotto IGI che si occupa-
va di costruire stabilimenti allestero per la fabbricazione di scarpe) e
fui investito del piano finanziario per un grande calzaturificio a Mo-
sca.
Nel 1993 Ginocchietti mi aveva chiesto di andarmene perch proprio
mentre stavamo per concludere un affare da 143 miliardi del calzaturi-
ficio in Russia arriv lera Garbaciov che mand tutto allaria.
Furono mesi terribili tra un periodo mio di malattia, un altro che Gi-
nocchietti mi obblig a sfruttare come ferie ed infine con una visita fi-
scale di un medico che non avrebbe potuto far fare perch io ero un di-
rigente, Ma quel giorno ero in casa e questo aiut a chiudere la partita
a mio favore a fine del 93 davanti al pretore, prima di entrare dal giu-
dice con un assegno che mi compens largamente dei guai subiti.
78

Passai tutto il 1994 a cercare un altro lavoro mentre ero senza stipen-
dio e in attesa che maturasse il momento per poter andare in pensione
a dicembre.
Nel frattempo conobbi Giampiero Bianconi, un vero imprenditore con
il quale iniziai una consulenza ben retribuita e che consisteva
nellavviare i suoi dipendenti contabili a sfruttare al meglio le risorse
finanziarie e simili.
Gli aggiustai gli inventari di cinque anni di attivit e nel frattempo gli
preparai una brochure per il suo nuovo investimento: un centro alber-
ghiero di lusso a sud di Assisi. Fu in quelloccasione che, pensando al
nome, gli proposi Valle di Assisi; gli piacque e me lo fece scrivere
sulla copertina.
Oggi posso dire di essere orgoglioso perch il suo Resort oggi si
chiama proprio cos:Valle di Assisi.
Un giorno, andando a passaggio di Bettona a prendere il vino, ho sco-
perto il cartello pubblicitario di Resort Valle di Assisi e confesso
che mi sono commosso.
Ma stava per arrivare la botta finale.
Nel frattempo Francesco nel 1992 si era sposato con Catherine e fa-
cemmo un gran rinfresco allaperto a Tenchi la settimana dopo il suo
matrimonio civile a Milano. Nel 1993 decise di andarsene a Cremona
in affitto e io mi trovai con i mano un pugno di mosche perch la ven-
dita della casa di Milano avvenne, come gi ho detto, solo pi di un
anno dopo con spese arretrate di condominio e di mutuo non pagate
alle quali dovetti aggiungere il pagamento del suo trasloco.
Nel frattempo io avevo come giardiniere Guido fin dal 1989; lavorava
molto e bene ed era un uomo di grande fiducia. Conoscemmo anche la
sua famiglia e i figli, Francesco e Nicoletta; questultima si spos pro-
prio nei primi anni di conoscenza della famiglia ma presto ci accor-
gemmo che le cose con suo marito non andavano bene. Ma questa sar
la prossima storia che racconter.

Capitolo 25

Dal 1991 ogni sei mesi Giovanna si faceva controllare e sembrava che
le cose andassero bene.
Nicoletta lavorava mattina e pomeriggio per ledicola di suo marito
che aveva in compropriet col fratello. Lei serviva anche quotidiana-
mente i giornali per lospedale di Assisi ed era ben voluta da tutti; an-
che oggi le vogliono molto bene: le antiche infermiere e i medici di al-
lora la ricordano con amicizia sincera.
79

Tra Giovanna e Nicoletta era nato un bel rapporto di amicizia e Nico-
letta la considerava una sorella maggiore.
Arrivammo al punto che nel 1994 andammo in ferie a Gallipoli tutti e
quattro. Fu in quelloccasione che scoprimmo che Nicoletta non sape-
va nuotare ma mentre eravamo al largo: uno spavento cui Giovanna
suppl prestandole le sue pinne per poter tornare a riva. Il giorno dopo
aveva comperato le pinne. Il marito invece, che non sapeva nuotare,
era ridicolo con i braccialetti per bambini e, mentre le due donne an-
davano al largo, io, rimasto sul bagnasciuga con Italo, lo rimproverai
per come trattava male sua moglie, una ragazza che aveva tante belle
qualit ed un buon carattere, una vera stakanovista nelle faccende do-
mestiche.
Seppi poi qual era stata la sua esperienza amorosa: in famiglia il pa-
dre, Guido, era geloso e ossessivo e il fratello, che credeva di agire
bene spiandola, andava a raccontare al padre le sue piccole marachelle
scolastiche.
A quindici anni non aveva ancora avuto nemmeno un piccolo flirt
quando apparve allorizzonte Italo. Guido costrinse a farlo venire in
casa altrimenti ti proibisco di frequentarlo: una mentalit che sareb-
be stata pi adatta ad Agrigento o a Catanzaro piuttosto che ad Assisi,
ma Guido era cos.
Di conseguenza si fidanzarono e rimasero fidanzati per sei anni. Nel
1991 si sposarono e Nicoletta non aveva mai avuto alle sue spalle una
vera esperienza alternativa nelle sua giovane vita di allora.
Non ostante sei anni di fidanzamento non aveva ancora capito che ca-
ratterino avesse il futuro marito, ad incominciare dal fatto che non vo-
leva figli.
Inoltre, se avesse voluto separarsi ne sarebbe sorta una tragedia in fa-
miglia perch labitudine corrente era che cosa direbbe la gente!;
no quale dispiacere avrebbe provato la ragazza, ma che cosa a-
vrebbe detto la gente!
Ma la vita che conduceva era stressante: sveglia alle cinque di mattina,
in edicola a preparare i giornali per lospedale dove si recava a fare il
giro. Rientro in edicola a mezzogiorno, di corsa a casa a preparare il
pranzo per il marito e poi tornare subito in edicola fino alla sera tardi.
Il tutto sette giorni su sette.
Inoltre il marito che faceva lelettricista non era una cima nel suo la-
voro e non era capace di incassare il dovuto.
Lanno 1994 non solo segn un momento importante tra noi e i due
sposini: fu lanno in cui non avevo n stipendio n pensione, che arri-
v finalmente solo in dicembre.
80

Per fortuna aveva venduto la casa di Milano, lasciata vuota lanno
prima da mio figlio andandosene a Cremona.
Lanno prima lavventura con Ginocchietti era finita e, come gi detto,
eravamo arrivati in tribunale e la mia liquidazione cost cara a Ginoc-
chietti ma soprattutto serv per coprire due anni senza stipendio e sen-
za pensione.
Nel frattempo avevo aiutato il dottor Lucentini a fondare
lassociazione Con noi, una onlus per la terapia del dolore, organiz-
zandogli tutta la parte burocratica.
Ma un giorno sprofondai di vergogna quando Giovanna mi fece notare
che non era piacevole sentir parlare di cancro ogni giorno in casa di
una come lei che lo aveva avuto ed era continuamente sotto controllo.
Mi resi conto del grande mio errore e lasciai tutti gli incarichi, rima-
nendo solo socio.
Il 1995 pass abbastanza tranquillo ma improvvisamente il tumore si
affacci di nuovo nellaltro seno gettando Giovanna nello sconforto e
avviando il periodo pi triste della mia vita.
A marzo del 1996 lasciai il lavoro con Giampiero per dedicarmi tutto
a Giovanna; Nicoletta intanto soffriva di tachicardia a causa dello
stress da lavoro e Giovanna la convinse a lasciare ledicola al pome-
riggio e a venire a casa nostra per farsi aiutare a tenere in ordine la no-
stra casa. Nacque cos tra le due una grande amicizia, come tra due so-
relle.
Fu un anno di vari tentativi, il maggiore in Austria presso un certo
dott. Pekar che ci accolse in albergo perch il giorno prima che arri-
vassimo a Bad Ischl il suo laboratorio era andato distrutto da un in-
cendio.
Con tre aghi sonda e uno strumento che emetteva delle vibrazioni bru-
ci il tumore nel seno di Giovanna e concluse Tumore kaput!
Le prepar anche un vaccino col suo sangue che avrei dovuto poi ina-
lare ogni giorno con iniezione per combattere eventuali ritorni del tu-
more.
Non dovevamo fare alcuna radiografia finch non avessimo finito il
vaccino e a fine agosto la radiologa conferm che il tumore era necro-
tizzato, ma nel frattempo la metastasi continuava: il tumore si era infi-
lato nel polmone e tra le due pleure a destra.
Su consiglio del dott. Pekar feci venire da Catania un suo allievo ita-
liano, il dottor Gasso che mi cost un sacco di soldi dovendolo ospita-
re per pi giorni in albergo a Ospedalicchio con il figlio e un assisten-
te.
Ma il suo intervento nel polmone destro di Giovanna non serv a nulla.
E il tumore camminava.
81

Giovanna deperiva ogni giorno e Lucentini la aiutava con antidolorifi-
ci.
Arrivammo al Natale del 1996 e Francesco e Catherine, dopo una di-
scesa rapida da Cremona, il 26 dicembre ripartirono lasciandomi in
merda: ero solo in casa con Giovanna che stava sempre peggio, la ne-
ve fuori, la Volvo senza catene pronta sul vialetto con bombola e co-
perte e lospedale a trecento metri ma in cima alla strada in salita.
Per fortuna al telefono mi assicurarono tutta lassistenza con ambulan-
za, se ne avessi avuto bisogno. Giovanna super una forte crisi respi-
ratoria mentre temevo che stesse per andarsene,
Oggi ancora non so come feci a resistere alla situazione che stava pre-
cipitando.
Dopo due torancentesi che Lucentini le aveva praticato nel gennaio
del 1997, sembrava stesse un po meglio ma i liquidi si riformavano
per combattere il male ma me la stavano soffocando.
Una terza toracentesi non era possibile perch laspirazione del liqui-
do sarebbe stata quasi impossibile a causa del fatto che il liquido stava
diventando ormai troppo solido.
Per fortuna, su indicazione di unamica, feci venire a casa il dottor
Frigerio, uno pneumologo molto bravo che lavorava a Montefalco in
un distaccamento di pneumologia dellospedale di Foligno.
Portai Giovanna in quel reparto e rimasi con lei dieci giorni mentre il
dott. Frigerio tentava una terza toracentesi, ma soprattutto mi fece ve-
dere in una ripresa con telecamera lorrore delle pareti delle pleure di
Giovanna.
I due dolci signorini, Francesco e Catherine, arrivarono un giorno a
trovare la mamma (che nel frattempo a causa degli oppiacei stava an-
dando fuori di testa), ma solo perch avevano dovuto andare a Firenze
per lavoro e io non perdoner mai a mio figlio che nellarco di otto
mesi (fino a ottobre) sarebbe sceso a trovare sua madre solo quattro
volte.
Molto tempo dopo mi disse che glielo aveva chiesto Giovanna perch
non voleva farsi vedere nel pieno della malattia. Ammesso che fosse
vero, poteva promettere e non mantenere; oltre tutto a Tenchi cera
ance un padre, solo, che doveva supplire a tutto. Ma lasciamo perdere:
la sua coscienza sapr cosa dirgli a suo tempo.
Per fortuna invece il nostro caro amico Don Mario scese ben otto volte
da Chiavari a trovare Giovanna: tre ore di viaggio andata, tre ore il ri-
torno e unora di sosta con Giovanna privatamente Solo molto tempo
dopo seppi che Giovanna aveva accettato lestrema unzione da Don
Mario.
82

Di ritorno a casa, Giovanna, sotto le cure di Lucentini, prima con il
coefferalgan e poi in maniera definitiva, con la morfina, pot andare
avanti nella malattia con meno dolori ma con la certezza che sarebbe
morta in poco tempo. Ci fu un colloquio a due molto sincero tra il dot-
tor Frigerio e Giovanna: sei mesi al massimo.
E fu cos.
Nicoletta lavorava da noi e da altri per guadagnare, mentre io cercavo
di fare quasi tutto quello che era necessario.
Pass lestate; io avevo trovato unottima infermiera soprattutto per la
notte: Liliana, una ragazza serba, uninfermiera molto in gamba, che
mi alleviava le incombenze nel curare Giovanna. Con lei trovai aiuto
anche con Debora e con unaltra bella infermiera della Val topina che
mi faceva le notti. Non badavo a spese; mi interessava che Giovanna
venisse seguita e curata bene.
Veniva anche Isabella Tosti che era molto brava e aiutava Lucentini.
Ma la notte del 26 settembre alle due la casa trem svegliando tutti:
era il terremoto che si aggiungeva ai guai che gi dovevo sopportare.
Io ebbi pochi danni, avendo la casa costruita con due strutture unite da
unintercapedine che fece il suo dovere di assorbire il colpo.
Tanto spavento, controlli per casa e di nuovo a letto.
Ma alle undici del mattino dopo arriv la scossa pi tremenda che ho
mai dovuto subire in vita mia e, con Giovanna in quelle condizioni, fu
una botta terribile fisica e psicologica.
Il dottor Lunghi (sostituiva Lucentini che se ne era andato in barca in
Grecia) stava compilando i moduli per la morfina nel salone quando,
dopo un lungo e spaventoso boato, arriv una scossa di terremoto di
6,2 della scala Richter che sconvolse tutto e tutti. La libreria del salone
oscill paurosamente e stava per cadere ma poi riprese il suo posto. Di
sopra le ragazze presenti si gettarono generosamente distinto su Gio-
vanna nel letto per coprirla e salvarla da eventuali crolli che, per for-
tuna, non ci furono.
Lunghi si precipit fuori sulla scala daccesso mentre Guido saliva la
stessa scala di corsa per venire a vedere che cosa avessimo subto: fu
uno scontro tra i due che rischi di mettere in pericolo la loro salute fi-
sica.
E da quel momento incominci una lunga serie di scosse: portammo
gi su una sedia Giovanna e allestimmo un letto in salone. Inoltre mi
portarono su da Bastia mia suocera perch avevano paura per la casa
dove abitava.
Alla sera il salone era un accampamento per Giovanna, sua madre, Li-
liana e io.
83

Chiesi scusa a Giovanna per come ci stavamo organizzando ma lei mi
disse a proposito di sua madre che non voleva vedere: non ci sono
problemi; tanto ormai per me tutto indifferente
Allora capii che si era arresa definitivamente.
Quindici giorni dopo, alla sera alle dieci fin di vivere addormentan-
dosi nel sogno infinito che segue alla morte.
Venne subito Lucentini che ne constat il decesso ed io iniziai la triste
attivit telefonica da mio figlio ai vari parenti.
Poco dopo arrivarono Nicoletta e Italo mentre le infermiere la puliva-
no e le mettevano il bellissimo abito viola con decorazioni in oro che
Lea Mechelli le aveva preparato mesi prima con degli spezzoni che le
avevo regalato a Milano durante la fiera di Lacchiarella.
Erano passati trentasei anni meno un settimana e la nostra vita finiva
l. Non avevo altro da pensare; non riuscivo a pensare. Era morto tutto
per me.
Nelle ore successive avvennero le cose che si fanno per un funerale.
Rifiutai la proposta del parroco di San Rufino, quando venne a benedi-
re la salma, di fare il funerale nella chiesa (cerano continue scosse di
terremoto e si poteva temere qualche altro guaio).
La cerimonia funebre si svolse nel giardino di Tenchi, nella sua casa
che lasciava per lultima volta.
Nel pomeriggio, lasciati a casa i parenti con Nicoletta da custode, part
il carro funebre e io e Francesco lo seguimmo in macchina fino al ci-
mitero di Perugia dove venne depositata la salma. Due giorni dopo mi
diedero due urne: quella per il cimitero e una, abusiva, con un podelle
ceneri di Giovanna che misi in bella mostra sul mobile della sala tra le
piante fiorite e la statua del Buddha che Giovanna mi aveva regalato
tanti anni prima.
Partirono tutti ma Francesco rimase altri tre giorni per farmi compa-
gnia. Tre notti dopo feci uno strano sogno, tanto strano che scesi di
corsa nello studio e riportai il racconto del sogno sul computer per po-
terlo ricordare. Oggi fa parte, senza alcun ritocco, delle mie cose pi
preziose per il suo strano contenuto che mi sempre parso una specie
di addio di Giovanna che ha voluto lasciarmi un segno di dove and
dopo morta.
Se lo volete, potete leggerlo sul sito www.salottobiblioteca.it tra i rac-
conti a pag. 2 col titolo Diario di Gi dopo
E finalmente rimasi solo con la mia solitudine.




84

Capitolo 26

Nei mesi successivi accaddero tante cose; cerco di raccontarle in ordi-
ne ma fu un turbinio di fatti.
Il terremoto di Assisi a Colfiorito, che era lepicentro, aveva distrutto
tutto. Le scuole elementari funzionavano in tende.
Con Nicoletta decisi in dicembre di raccogliere tutti gli animali di pe-
luche di Giovanna (erano ben 79, pi un grande orso che avevamo re-
galato a Francesco quando aveva tre anni) e, dopo averli fotografati
per ricordo tutti distesi sul letto, organizzammo una spedizione a Col-
fiorito.
Daccordo con i carabinieri di Foligno ( da loro dipendeva
lautorizzazione ad entrare nelle zone terremotate) salimmo con una
Panda 4x4 che avevo comprato da poco, con Nicoletta vestita da Bab-
bo Natale, e, confezionati da lei, tre sacchi rossi nei quali lei aveva
suddiviso gli animali per grandezza.
Col tutto, pi un cestino pieno di caramelle e cioccolatini e, ovvia-
mente, macchina fotografica, andammo a Colfiorito e distribuimmo i
regali ai bambini che erano nelle tende (puzzolenti per il chiuso) a fa-
re scuola.
Grande e piacevole sorpresa per le maestre che alcuni mesi dopo ci
spedirono una specie di diploma ricordo. Il grande orso fu regalato ad
un ragazzo mezzo invalido e con un forte deficit mentale: gioiva come
un matto.
Decidemmo di fermarci nel vicino ristorante a pranzare perch lass la
vita era ricominciata, ma mentre mangiavamo unaltra scossa ci ricor-
d che la vita sempre appesa ad un filo.
Ma era la prima volta che pranzavamo assieme e questo aiut molto la
nostra decisione: ci mettemmo assieme promettendoci di sposarci ap-
pena possibile.
Io le dissi chiaramente che a Lei, data la forte differenza det (29 an-
ni!) non conveniva fare un passo del genere ma Nicoletta era ben de-
terminata anche perch non aveva bisogno di conoscermi dopo tanto
tempo che frequentava casa e Giovanna.
Fu una splendida avventura ma cre i primi sospetti in Guido che non
vedeva di buon occhio la confidenza che avevamo tra noi due.
Il peggio arriv quando Nicoletta ingenuamente inform la famiglia
che aveva intenzione di separarsi dal marito.
Un giorno Guido arriv a casa mia dove Nicoletta stava facendo i me-
stieri di casa e davanti a me disse alla figlia: Tu non puoi pi venire a
lavorare per il Beppe, perch un vedovo e tu ti sputtaneresti e se de-
cidi di separarti non troverai pi un marito.
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Io stetti al gioco e dissi:
Tuo padre ha ragione: trovami unaltra persona che ti sostituisca e la
istruisci perch in questa casa io so solo dove trovo le calze e le mu-
tande.
Ma Nicoletta gli rispose che lei prendeva le sue decisioni senza il suo
parere e aveva bisogno di lavorare. Infatti in quel periodo stava lavo-
rando anche per altre due famiglie.
Di fatto avvi la pratica di separazione; il problema era buttar fuori di
casa Italo perch, dopo il terremoto ed un periodo di vita in una rou-
lotte fuori dalla casa resa inagibile, Guido li aveva ospitati nel salone a
pian terreno di casa sua dove si erano organizzati un loro ambiente.
Nicoletta voleva usare la cugina che avvocato ma cercai di dissua-
derla perch se avessero usato un solo avocato (e avrebbero potuto
farlo non avendo figli e beni al sole) avrebbe potuto risparmiare di-
mezzando le spese ma sarebbe nato un conflitto di interessi.
Non ci credette ma alla fine dovette accettare il mio consiglio e decisi
di affidarla ad una avvocatessa di Perugia che conoscevo.
Non entro nei dettagli della vicenda. Accenno solo al tentativo di otte-
nere lannullamento dalla Sacra Rota perch lui non voleva figli ma la
sua testimonianza ci sarebbe costata, grazie ad un amico comune, 20
milioni che Italo pretendeva come compenso.
Rinunciammo e decidemmo di attendere la sentenza del divorzio per
poterci sposare.
La sentenza arriv nel luglio del 2001 e noi ci sposammo civilmente il
27 ottobre dello stesso anno.
Cos le cose si svolsero in modo inverso: prima Nicoletta rest incinta,
poi vendemmo Tenchi ed avemmo la fortuna di trovare gli acquirenti
abbastanza in fretta.
Di seguito Francesco e moglie scesero come lupi affamati sperando di
avere soldi dalla vendita ma se ne andarono con la mascella caduta per
la delusione quando seppero che Nicoletta era incinta e che avevamo
comperato un appartamento a valle, a Santa Maria Degli Angeli che ci
assorbiva, arredamento compreso, quasi tutto il ricavato della vendita
di Tenchi. Mi dispiaceva vendere quello che avevo costruito con tanti
sacrifici ma lo avevo fatto per Giovanna e non avrei potuto pi vivere
in quella casa piena di bellissimi ricordi.
La notizia di Nicoletta incinta cre in loro solo la voglia di scappare e
da allora le loro visite si fecero sempre pi rare; anzi la gentil consorte
di mio figlio da anni non ci parla pi (dopo avermi anche insultato per
lettera), mentre Francesco un giorno fece una tale sparata cretina che
mi costrinse a prendere una drastica decisione: avevamo acquistato
lappartamento cointestandolo anche se ancora non sposati ma dopo la
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sua cretinata vendetti a Nicoletta la mia met con atto notarile, tenen-
do per me solo la mia parte di usufrutto.
Ho lasciato in eredit, tra le altre cose, a Nicoletta precise istruzioni,
anche se a Nicoletta (col suo dolce carattere) non piaceva questa solu-
zione ma alla fine si rese conto della stupidaggine di Francesco e della
sua mancanza di rispetto per me ma soprattutto per Nicoletta e per
Emanuele.
E finalmente ci trasferimmo nella nuova casa nel maggio del 1999: era
il ventiquattresimo trasloco che, per il momento, anche lultimo.
In settembre nacque Emanuele e da allora viviamo qui bene accettan-
do nella gioia e nel dolore gli eventi che ci stanno cadendo addosso
ogni giorno.
In questi giorni purtroppo, tanto per ricordarci che siamo fatti di mate-
ria corruttibile, abbiamo dovuto scoprire che Guido, il pap di Nicolet-
ta, ha un grosso guaio e dovremo andare incontro ad una nuova tre-
menda avventura di sofferenze per tutti.

A casa il 7 giugno 2012.
Giuseppe Amato

FINE (speriamo)

P.S. molte cose qui non ho ricordato e ne chiedo scusa Vorr dire che
quando avr cento anni prover a riprendere il discorso e completarlo
dei ricordi che qui mi sono dimenticato di raccontare!

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