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GUERINI E ASSOCIATI
Prima edizione: ottobre 2001.
INDICE
DECRETO DELLA PRESIDENZA GENERALE
INTRODUZIONE di Gino Strada
EMERGENCY - Report 1994-2001
TALIBAN di Giulietto Chiesa
Nascita di una leggenda
L'etnia pushtun
Cambio dei vettori strategici
La partita globale
La Russia e l'Asia centrale ex sovietica
Gli Stati Uniti e l'Arabia Saudita
Il Pakistan e l'oppio
Le vie del petrolio
Schieramenti inediti
Chi sono i taliban?
L'Afghanistan affonda
Un regime in agonia
CRONOLOGIA AFGHANA 1973-2001
2001: RACCONTI DI UN VIAGGIO IN AFGHANISTAN
di Giulietto Chiesa e Vauro
Il coraggio sotto il burqa, di Vauro
KABUL
Arrivo a Kabul, di Giulietto Chiesa
Una citt invisibile, di Vauro
Il turbante e il kalashnikov, di Vauro
Cadranno presto? di Giulietto Chiesa
Hanno spento la luce, di Giulietto Chiesa
L'ospedale Karte-se di Kabul, di Vauro
L'isola bianca di Emergency, di Vauro
Un catino di guai, di Vauro
NELLA VALLE DEL PANSHIR
L'Afghanistan spezzato, di Vauro
Da Kabul alla valle del Panjshir, di Giulietto Chiesa
Bambini profughi nella terra di nessuno, di Vauro
Anabah, di Giulietto Chiesa
La cittadella di Anabah. Incontro con Gino Strada, di Vauro
Quell'unico made in Italy che ci piace, di Vauro
INTRODUZIONE
di Gino Strada
EMERGENCY REPORT 1994-2001
Non facile scrivere una introduzione a un libro, almeno per me. Se
poi il libro riguarda l'Afghanistan, credo allora diventi molto difficile
per tutti. Perch l'Afghanistan resta uno dei Paesi (ma davvero un
Paese?) pi misteriosi del pianeta e pi difficili da capire. Ci ho
trascorso quattro anni, e ancora mi stupisco della mia ignoranza e
della inestricabile difficolt nel mettere insieme qualche idea che vada
oltre la sensazione e abbia una parvenza di razionalit.
Racconta un'antica storia afghana che quando Dio cre la Terra decise
anche dove piazzare i diversi Paesi: qui l'Italia, pi su la Germania,
per poi infilarci l'Austria e la Svizzera, o qualcosa di simile. Una volta
iniziato questa specie di gioco, dopo aver posato i primi pezzi del
puzzle, Dio fu costretto, si racconta, ad adattare un po' i confini,
limando e tagliando, in modo da incastrare tutti i Paesi del pianeta.
Alla fine si trov con tanti ritagli, striscioline, spigoli, coriandoli, roba
di scarto insomma.
Allora prese il tutto e lo gett nel buco che, sul mappamondo, era
rimasto vuoto tra il Medio Oriente, l'Asia centrale e il subcontinente
indiano. E disse: "Questo l'Afghanistan!"
Ho dubbi seri che sia andata davvero cos, ma sta di fatto che nel
"buco" - grande poco pi di due volte l'Italia - sono finiti
cinquantacinque gruppi etnici che parlano oltre una ventina di lingue.
Noi, in modo molto semplificato, li chiamiamo "afghani". Ma se
chiediamo loro, la risposta sar diversa, nessuno si autodefinir
afghano ma piuttosto pusthun, tagiko, hazar, uzbeko... Non solo,
incontreremmo chi si definisce khandahari o panjchiri dal nome della
citt o della valle da cui proviene.
Una simile babele etnico-linguistica non avrebbe, probabilmente,
potuto perpetuarsi senza l'aiuto fornito dalle caratteristiche
geografiche della "terra degli afghani", una terra inaccessibile e
inospitale. Verso est, strette valli annidate tra le montagne
dell'Hindukush - l'estensione occidentale delle catene del Karakorum
e dell'Himalaya - chiuse da metri di neve la pi parte dell'anno; a
ovest, verso l'altopiano iraniano, il pietroso Dashti-Margo, il "deserto
della morte", e il deserto di sabbia del Registan. Questo
l'Afghanistan, molto pi di Kabul o Herat o Mazar-i-Sharif, citt di
immensa storia e cultura: un Paese dove spostarsi, ancora oggi,
una avventura
continua, dove si parte senza mai sapere se e quando si arriver a
destinazione.
Ce ne siamo resi conto ogni volta che abbiamo dovuto fare arrivare
camion di medicine e apparecchiature per gli ospedali di EMERGENCY:
percorrere i trecento chilometri che separano il Tagikistan dalla valle
TALIBAN
di Giulietto Chiesa
Una versione precedente di questo saggio
con il titolo "i misteri dei Taliban"
Macedonia/Albania, le terre mobili, n. 2/2001
apparsa
su
Limes,
distanza appunto di quasi sette anni dal momento delle loro prime
enunciazioni politico-programmatiche. Affermano di voler costruire
una "vera societ islamica". Nella loro prima conferenza stampa quella che tennero all'inizio del 1995 nella citt pakistana di Peshawar
- i capi espressero il rifiuto delle elezioni democratiche, dal momento
che "le elezioni sono non islamiche".
Oltre al cambiamento del nome dello stato, ora denominato Emirato
Islamico di Afghanistan, ben poco emerso delle concezioni statuali e
delle idee istituzionali di cui sono portatori i taliban. Al punto da
rendere legittimo il sospetto di una loro assenza totale, salvo il
ripristino di norme e pene medievali, il divieto di lavoro e di istruzione
per tutte le donne, l'obbligo per gli uomini di portare la barba e il
copricapo, l'obbligo per le donne di coprirsi in pubblico da capo a piedi
con il burqa, il divieto di ascoltare la radio, di vedere la televisione, di
suonare e ascoltare musica, di assistere a proiezioni cinematografiche
e ad altre forme di spettacolo (tutti i cinema in Afghanistan sono stati
distrutti materialmente o sono stati trasformati in luoghi di
preghiera).
Un regime molto simile al terrore - ma senza traccia di lumi - stato
istituito in tutti i territori sotto il controllo dei taliban. Eppure - e
questa altro non che l'ennesima stranezza di questa storia - non c'
alcun rapporto tra questo furore ideologico
primitivo e gli insegnamenti sunniti che, al contrario, sono in genere
pi miti di quelli dell'altra corrente dell'Islam denominata sciita. Ma
anche questa considerazione da riprendere nel prosieguo, specie
quando ci occuperemo del ruolo anti-Iran (sciita) svolto dal
movimento dei taliban.
Ci detto utile tornare alle prime tappe della loro strepitosa e
sbalorditiva performance politica e militare, ripercorrendole
succintamente prima di affrontare un'analisi critica del movimento dei
taliban che vada oltre le leggende create ad arte per renderlo
credibile e per descriverlo come invincibile, genuinamente popolare e
- soprattutto - spontaneo. All'inizio del 1995 i taliban avevano gi
assunto il controllo di sette delle ventotto provincie
afghane:
Kandahar, Zabul, Helmand, Uruzgan, Ghazni, Paktia e Nimruz. Il 14
febbraio 1995 le forze dei taliban raggiunsero la periferia di Kabul e
lanciarono i primi assalti sui quartieri sud della capitale. In una
manciata di mesi l'intera situazione afghana fu sconvolta e rovesciata.
Un esercito prima inesistente di "studenti" sconfisse uno dopo l'altro i
"partiti" dei mujaheddin. Come stato possibile?
Di fronte ai taliban, in quei mesi, si trovava un governo debole e
diviso, quello guidato da Burhanuddin Rabbani, ultima propaggine
della Jihad che era stata combattuta contro i sovietici dal dicembre
1979 al 1989. Dopo il ritiro delle truppe sovietiche il presidente
Najibullah era riuscito a resistere fino all'aprile del 1992. In un primo
tempo - fino a che Gorbaciov era rimasto al potere in Unione
Sovietica, cio fino alla fine del 1991 - Najibullah aveva potuto fruire
esse e per il loro insieme un ostacolo allo sviluppo dei loro traffici con
l'oriente, con il mare, con i grandi mercati del Pakistan, dell'India, del
sud-est asiatico. Tutte desiderose di entrare in contatto con l'area del
dollaro, le ex repubbliche sovietiche dell'Asia centrale si trovavano,
loro malgrado, costrette ad appoggiarsi ad una Russia in crisi, povera,
senza futuro. A una Russia, per giunta, neghittosa, inconcludente,
che spesso si presentava pi come concorrente nella "corsa all'ovest",
che come temibile polo d'attrazione per una ricomposizione della
vecchia Unione Sovietica. Tutte prive di sbocchi marittimi, si
vedevano costrette a usare quelli russi e lontani, mentre avrebbero
potuto puntare con le loro merci future direttamente su quelli, pi
vicini, dell'Oceano Indiano.
Aspirazioni - si pu dire - del tutto reciproche, coinvolgenti tutti i
Paesi attorno all'Afghanistan. I primi a dare segnali furono proprio i
pakistani, che s'impegnarono in fitti contatti con le ex repubbliche
sovietiche volti ad una sollecita riapertura della via di terra attraverso
l'Afghanistan. L'episodio simbolico ricordato all'inizio, del convoglio di
merci "liberato dai taliban", illustra il disegno di Islamabad di
presentarsi verso gli stati dell'Asia centrale ex sovietica come
liberatrice della via dei traffici e garante della loro sicurezza. Mossa
tanto pi importante e significativa dal momento che Teheran - in
questo con l'assenso tacito di Mosca - aveva cominciato a firmare una
serie di accordi di transito con la maggior parte delle repubbliche
della Comunit di Stati Indipendenti (CIS, questo fu il nome dato
all'insieme di stati emerso dal crollo sovietico). Si delineava cos una
via alternativa ai traffici dell'Asia centrale, attraverso l'Iran (porto di
Bandar Abbas) e verso l'India, cio verso un mercato che poteva
fruire della lunga tradizione di contatti indo-sovietici.
Gli Stati Uniti e l'Arabia Saudita
Questa alternativa apparve estremamente pericolosa in tutta una
serie di capitali cruciali. A Washington innanzitutto. L'Iran era ancora
in quel momento il nemico principale. Consentirgli il controllo delle vie
di traffico avrebbe significato conseguenze negative, anzi pericolose,
in tutte le direzioni: dalla riduzione potenziale dell'influenza
statunitense sugli stati della CIS, alla minaccia di un controllo iraniano
dei flussi petroliferi dal bacino del Caspio verso gli utilizzatori
occidentali, alla riduzione degli spazi di manovra sia verso l'India sia
verso la Russia (connivente con il piano di Teheran). E l'elenco dei
rischi potrebbe allungarsi. Si sarebbe trattato, per Washington, di una
vera e propria dbcle strategica.
Anche per l'Arabia Saudita il colpo sarebbe stato durissimo. L'Iran
degli ayatollah si era gi presentato da tempo come leader del mondo
islamico. Una delle ragioni dell'aiuto saudita alla Jihad dei mujaheddin
contro l'Unione Sovietica era stata la necessit di rigenerare la
propria immagine (lesionata dall'alleanza con il grande infedele
americano) agli occhi delle masse islamiche del mondo. L'ipotesi,
sul possibile bottino. I primi a giungere sul posto erano stati quelli
della Chevron che, fortemente sostenuti dal governo americano allora molto impegnato a corteggiare il presidente kazako Nursultan
Nazarbajev -, erano riusciti ad aggiudicarsi, in joint venture con altri,
il grande giacimento di Tenghiz. Ma molte cose erano ancora incerte e
il terreno mobile e sdrucciolevole. Si trattava infatti non soltanto di
tirare fuori gas e petrolio, ma soprattutto di risolvere il problema della
sua destinazione sui grandi mercati mondiali. E le infrastrutture
mancavano. Si dovevano costruire gasdotti e oleodotti. Dove farli
passare? Ogni scelta implicava problemi complessi e valutazioni
dense di implicazioni politiche, diplomatiche, strategiche.
Il primo ad affacciarsi concretamente ai confini afghani, con i suoi
capitali, per un privato: l'italo-argentino Carlos Bulgheroni,
presidente della Bridas, una compagnia petrolifera argentina.
Bulgheroni intuisce, con grande perspicacia imprenditoriale, che il
Turkmenistan la chiave di volta per aprire il rubinetto del Caspio e
far fluire tutto quel ben di dio verso il Golfo Persico. Bulgheroni
ottiene da Nijazov, da poco insediatesi al comando, prima i diritti di
estrazione del giacimento turkmeno di Yashlar, vicino al confine
afghano, prendendosi il 50% e lasciando la met restante al governo
turkmeno. Una seconda concessione, ancora pi lucrosa, la ottiene
con il giacimento di gas e petrolio di Keimir. Qui il presidente del
Turkmenistan, assetato di capitali, gli concede addirittura il 75% dei
futuri introiti di sfruttamento. La Bridas, nel frattempo, cerca di
mettere insieme gli interessi turkmeni, quelli pakistani e quelli
americani. La Russia, assente come su tutto il resto, non viene
nemmeno presa in considerazione. Nijazov, del resto, non ha fatto
mistero che Mosca deve restare fuori dal gioco. Anzi questa la
condizione sine qua non, che gli americani accolgono pi che
volentieri. Loro vogliono che la Russia perda la sua presa residua
sull'area; Nijazov non vuole ritorni di fiamma sovietici che minaccino
la sua indipendenza e il suo potere di satrapo assoluto. Tra il 1991 e il
1994 si fa strada un progetto di pipeline che, attraverso l'Afghanistan,
da Yashlar potrebbe portare gas e petrolio fino a Sui, in Balucistan,
centro di stoccaggio delle riserve energetiche pakistane e punto di
partenza della rete pakistana di sistemi di trasporto energetico, sia
per l'interno sia verso la costa.
In Afghanistan in quegli anni infuria la guerra tra mujaheddin e
Bulgheroni incontra tutti i capi guerrieri delle diverse fazioni. Corre a
Herat per vedere Ismael Khan; vola a Kabul per farsi ricevere da
Burhanuddin Rabbani e Massud; fa la spola con Mazar-i-Sharif per
consultarsi con l'uzbeko Dostum; a Kandahar parla con Mohammad
Omar, capo dei taliban. A tutti promette dividendi cospicui, e chiede
loro di garantire che la costruzione dell'oleodotto non sia impedita e
che, una volta terminata, i capi s'impegnino a non farlo diventare
oggetto di dispute e di ricatti. Un parallelo lavorio diplomatico segreto
viene tessuto tra le capitali turkmena e pakistana. Il costo
negli affari interni afghani. Politica che lo aveva spinto a non prendere
parte al sistema di sicurezza collettiva delle repubbliche della CIS e
che si era sviluppata attraverso una lunga e capillare azione di
contatti diretti con i capi militari afghani, senza badare a etnie e
confessioni, rifiutando asili a questa o quella fazione, ma
accattivandosene i favori con tutti i mezzi a disposizione,
comprandoli, coinvolgendoli. Lungo tutti gli anni sotto esame i 600
chilometri di frontiera comune tra Afghanistan e Turkmenistan erano
rimasti infatti del tutto tranquilli. Nijazov aveva comunque tenuti
aperti, per sicurezza, tutti i canali di comunicazione, inclusi quelli con
l'Iran.
Era stato lui personalmente, nel 1995, a inaugurare la splendente
stazione ferroviaria di Sarakhs, sul confine turkmeno-iraniano, prima
tappa in Turkmenistan della nuova ferrovia, costruita dagli iraniani,
che collega la citt di Meshad, nell'Iran del nord-est, con Ashgabat: la
prima linea di comunicazione ferroviaria mai esistita tra l'Asia centrale
e il sud islamico. Nijazov poteva cos assicurarsi la primogenitura sulle
vie di terra. Per quanto riguardava l'aria, il nuovo e lussuoso
aeroporto di Ashgabat, in costruzione da tre anni, sarebbe diventato,
nelle attese, un centro internazionale tale da rivaleggiare con i mega
aeroporti del Golfo.
Schieramenti inediti
Washington, Rijad, Islamabad, Ashgabat procedono di concerto
almeno per quanto riguarda le vie del petrolio. Si rafforza sul fronte
opposto l'asse Mosca-Teheran-Astana-Dushanb-Tashkent-Pechino. Il
dado tratto. Il mosaico si ricomposto ma le nuove linee di
demarcazione sono molto diverse dalle precedenti. Qualcosa di nuovo
accaduto. E non di poco conto. Teheran divenuta alleata di Mosca,
dopo essergli stata nemica durante l'occupazione sovietica. La stessa
cosa vale per Pechino e rappresenta un mutamento gigantesco.
Sull'altro fronte il Turkmenistan di Nijazov si allinea con Washington.
Nello stesso tempo l'operazione di aggancio, che Washington si
proponeva, con le altre repubbliche della CIS risulta clamorosamente
fallita. Mosca torna ad essere, addirittura suo malgrado, protagonista
nel Great Game.
E comunque in quel preciso momento che il progetto pakistano di
prendere il controllo definitivo sull'Afghanistan riceve un assenso implicito o esplicito poco importa - sia da Washington (anche, ma non
soltanto, attraverso gli aiuti di Unocal), sia da Rijad (anche, ma non
soltanto, attraverso Delta Oil). Quella che nel corso degli anni 19931995 era stata la linea relativamente solitria di Islamabad (per
meglio dire: dei circoli militari e dei servizi segreti pi direttamente
legati al commercio della droga), diventa la scelta di uno
schieramento. Gli interessi petroliferi si sposano con quelli della
droga. I taliban, fino a quel momento confinati nel ruolo di copartecipanti alla carneficina afghana, salgono sul proscenio come i
evidente che, per gli Stati Uniti, sostenere il regime dei taliban
ormai divenuto insostenibile. Esso appare, come si visto,
impresentabile e pericoloso. Droga, diritti umani violati, inquietudine
tra i potenziali partner centroasiatici. L'apertura di un discretissimo
dialogo con l'Iran di Kathami dimostra che l'opzione per una
irriducibile ostilit anti-iraniana degli Stati Uniti stava per essere
abbandonata dagli ultimi fuochi dell'amministrazione Clinton (resta da
capire cosa vorr fare quella di Bush junior). Ma nell'ipotesi che una
tale linea continui, Washington avrebbe assai poco interesse a
mantenere in vita un regime fondamentalista islamico a Kabul ostile a
un Iran che si accinge a ripristinare, seppure gradualmente, buoni
rapporti con l'Occidente. Dunque sufficiente tirare le somme:
perdere ogni sostegno a Washington significa la fine per un regime
come quello dei taliban, in una zona di tale importanza nevralgica. In
ogni caso lo schieramento che port i taliban al potere cinque anni fa
non esiste pi.
Prova clamorosa del volgere degli eventi, nel giugno 2001 Mosca
riesce a convincere i cinesi a convocare a Shanghai l'incontro di sei
Paesi centroasiatici, Cina ovviamente inclusa, per discutere a fondo le
forme per contrastare il fondamentalismo islamico nell'area. Nessun
dubbio che la situazione afghana sia stata al centro dei colloqui.
Novit importantissima la presenza di Islam Karimov dell'Uzbekistan,
che negli anni precedenti aveva scelto una linea defilata e molto
autonoma. L'Uzbekistan - premuto da una guerriglia guidata dal
Movimento Islamico - si trova in evidente difficolt e cerca aiuto a
Mosca e Pechino. A sua volta la Cina ha buone ragioni per temere che
gli elementi radicali islamici della minoranza uighur trovino sostegno e
alimento, militare e ideologico, in terra afghana e pakistana.
L'Organizzazione di Cooperazione di Shanghai - questo il nome
conferito ufficialmente alla conferenza - annuncia il costituirsi di
un'alleanza formale anti-taliban sotto l'egida congiunta russo-cinese.
Inoltre, questione lasciata per ultima ma che va assumendo,
nell'approssimarsi del prossimo inverno, proporzioni da tragedia
biblica, l'emergenza umanitaria. Un Paese allo sfacelo e senza
governo alle prese con milioni di persone in fuga dalla fame e dalla
guerra. Gi l'inverno 2000-2001 ha visto morire di freddo e di stenti
migliaia di donne, vecchi e bambini accampati nelle tendopoli in
Pakistan, in Iran, negli stessi territori afghani dove non c' guerra, ma
dove non ci sono neanche pane, acqua e medicine. La comunit
internazionale, rimasta passiva nel suo complesso, non potr ignorare
a lungo questa catastrofe. Tutto ci induce a ritenere non solo che
l'Afghanistan torner - seppure in forme parzialmente ipocrite - sotto
i riflettori dei media mondiali, ma che il regime di Kabul incontrer
difficolt crescenti, assieme ai suoi protettori di Islamabad, gli unici
rimasti a sostenerlo.
Tutto ci non significa necessariamente un suo crollo imminente.
Molte restano le variabili in gioco e i tempi delle crisi orientali sono
1997
Gennaio. I taliban strappano a Massud la base di Baghram, Charikar e
la cittadina di Gulbahar.
Febbraio. Una delegazione taliban visita gli Stati Uniti.
19 maggio. Il generale Malik Pahlawan insorge contro Dostum e
dichiara di volersi alleare con i taliban.
24 maggio. I taliban entrano a Mazar-i-Sharif, impongono la Sharia
(la legge religiosa islamica) e chiudono le scuole femminili.
26 maggio. Il Pakistan riconosce il governo dei taliban. Falliscono i
colloqui con Malik e ricominciano i combattimenti.
12-15 giugno. Rabbani si incontra con Malik a Mazar-i-Sharif e
l'opposizione antitalibana da vita all'Alleanza del Nord. I
combattimenti nei pressi di Mazar-i-Sharif si susseguono con esiti
alterni fino alla fine dell'anno.
19 luglio. Massud riprende Baghram e Charikar.
7 agosto. La Croce Rossa Internazionale afferma che 6800 persone
sono rimaste uccise negli ultimi 3 mesi.
16 agosto. L'Alleanza del Nord nomina un governo ombra.
4 settembre. Il maulvi Mohammad Rabbani, uno dei massimi dirigenti
taliban, si reca in Arabia Saudita, dove a jeddah riceve promesse di
aiuti da re Fahd. Accusa inoltre Iran, Russia e Francia di aiutare
Massud.
16 novembre. Le truppe di Dostum dichiarano di avere scoperto 30
fosse comuni, nei pressi di Shebarghan, contenenti circa 2000
cadaveri di miliziani taliban.
18 novembre. Madeleine Albright, a Islamabad, definisce
"deplorevole" la politica dei taliban in materia di diritti umani.
17 dicembre. Il Consiglio di Sicurezza dell'ONU condanna i
rifornimenti di armi da parte di eserciti stranieri alle fazioni afghane e
invita le parti a. cessate il fuoco.
1998
Febbraio. Un violento terremoto causa pi di 4000 vittime e danni
ingenti nella regione nordorientale del Paese, al confine con il
Tagikistan. La regione nelle mani delle forze di opposizione al
regime dei taliban.
14 marzo. Intensi combattimenti a Mazar-i-Sharif tra uzbeki e hazar.
17 aprile. Bill Richardson, inviato speciale americano, visita Kabul e
Mazar.
17 maggio. Caccia taliban bombardano pesantemente Taloquan: 31
morti e 100 feriti. Forti combattimenti a nord di Kabul.
3 luglio. Il summit dei 5 Paesi dell'Asia centrale, riunito ad Alma Ata,
fa appello alle parti perch cessino la guerra. 9 luglio. Un aereo
dell'ONU viene colpito da un razzo a Kabul, il maulvi Omar mette al
bando la televisione e annuncia la deportazione dei cristiani e
punizioni per i comunisti.
18 luglio. L'Unione Europea sospende tutti gli aiuti umanitari a Kabul
per le inaccettabili restrizioni cui sottoposto il suo personale.
prima dell'islamismo.
27 marzo. Un gruppo di giornalisti occidentali ammesso nella valle
di Bamiyan per certificare l'avvenuta demolizione delle statue.
5 aprile. Massud viene ricevuto a Strasburgo.
19 maggio. La polizia religiosa chiude a Kabul le panetterie del PAM
(Programma Alimentare Mondiale) dove lavorano donne.
19 maggio. La polizia religiosa irrompe nell'ospedale di Emergency a
Kabul.
23 maggio. Diventa legge l'ordinanza che impone agli ind di portare
sugli abiti un segno distintivo.
quale hangar, sfrecciano uno dopo l'altro due vecchi Mig 21. Vanno a
bombardare da qualche parte i caposaldi di Ahmad Shah Massud,
l'unico rimasto a contrastare il potere degli "studenti pii" che da
cinque anni comandano a Kabul e che sono ancora circondati di
mistero.
Come il loro capo, il maulvi Mohammad Omar, che se ne sta gran
parte del tempo a Kandahar e che si dice abbia perduto l'occhio
destro combattendo contro i sovietici quando militava nel partito
Hezb-i-Islami di Yunus Khales, una delle sette fazioni dei mujaheddin
che ora gli sono nemiche. Di Mohammad Omar si sa quasi nulla. Non
mai stato intervistato da un giornalista occidentale, non ci sono
fotografie che lo ritraggano. Della Shura, o Consiglio, che governa
Kabul sono pochi i personaggi esposti pubblicamente: interni,
informazione, affari sociali, esteri, pochi altri. La loro et media di
circa 35 anni. Quando conquistarono Kabul, la notte tra il 26 e il 27
settembre 1996, erano quasi tutti dei trentenni.
Si detto e scritto che erano capi di moltitudini emerse e formate
dalle poverissime madrassas, le scuole religiose islamiche fiorite in
Pakistan tra i profughi pushtun afghani e tra i pashtun che il destino
(e la "Linea Durand" dei colonialisti inglesi) volle restassero nei confini
poi divenuti pakistani. Ma restano troppe cose da spiegare. Ad
esempio come da scuole coraniche molto primitive e povere siano
usciti migliaia di combattenti bene addestrati, e di come dalla povert
siano emerse armi moderne e in grande abbondanza. C' pi che un
sospetto che, dietro le mitologie create attorno ai taliban, vi sia
anche, se non soprattutto, la concretissima azione di finanziamento e
addestramento militare attuata dal Corpo di Frontiera e dai
distaccamenti scelti di commandos dell'esercito pakistano, sotto la
supervisione del generale Naseerullah Babar, ex ministro dell'interno
nel governo di Benazir Bhutto.
Ma ora, passato il tempo, molte cose si sono sedimentate. Quel
disegno - di assoggettare l'Afghanistan sotto protettorato pakistano risulta al tempo stesso sbiadito e pericoloso. Quei trentenni si stanno
rivelando non all'altezza dei compiti loro assegnati. Il principale dei
quali era di unificare il Paese sotto un potere certificabile, per rendere
l'Afghanistan transitabile, senza troppi rischi, ai colossali flussi di
petrolio e di gas del Mar Caspio. Altri compiti non erano stati loro
assegnati. Non era loro compito quello di ricostruire, di avviare una
qualche rinascita. E, infatti, non lo stanno facendo. C' pi d'un
segnale che non sappiano come farlo, o che non vogliano. Cos, chiusi
in angolo, minacciano di diventare scomodi anche per i loro mentori.
La tremenda crisi afghana rischia di debordare in Pakistan, come un
boomerang. Osama bin-Laden, ex agente della CIA, dichiara guerra
agli Stati Uniti dal territorio dell'Afghanistan. Delta Oil, Unocal e altri
giganti petroliferi statunitensi, che hanno tenuto bordone, forse non
gradiscono questi sviluppi, certo scomodi.
E, dentro il territorio afghano, si addestrano a future diversioni (o
volti scuriti dalle lunghe barbe. Nascosti dal burqa sono i volti e i corpi
delle donne, lenzuoli informi che spesso avvolgono anche i bambini
che portano in braccio. Cos pare che Kabul, la citt che non ha pi un
volto, abbia voluto privarne anche i suoi abitanti.
Il silenzio assordante delle macerie pi forte del rumore del traffico
di auto gialle, dei vecchi taxi mezzi scassati e dei potenti fuoristrada
dei taliban, che pure tentano di invadere quelle che erano strade.
Vigili urbani dalle barbe lunghe e con divise rattoppate completano la
parodia di caos urbano, una triste imitazione di fermento, di vita
quotidiana. Nell'area del bazar baracche di lamiera e di cartone sono
cresciute come mutte attaccate ai mozziconi di mura, ai moncherini di
metallo contorto dei pali della luce, le mercanzie esposte non si
distinguono dai rottami che le circondano. Non basta il colore dei
mandarini n l'odore delle spezie a far rivivere, nemmeno
lontanamente, il fascino di un mercato orientale. La polvere della
distruzine rende tutto opaco, uniforme.
Non basta nemmeno la folla di persone che si aggira nel bazar a
dargli una pennellata di vitalit. Si muovono, si spostano ma non
sembrano animate, in attivit, in fermento. Sembrano piuttosto
comparse disorientate che si spostano a caso tra le quinte di una
scenografia devastata. Sarebbe bello poter scrivere che tra tanta
distruzione la vita continua. Ma qui a Kabul non vero. Questa una
citt morta che succhia via la vita ai suoi abitanti giorno dopo giorno,
sera dopo sera. Assorbiti dalle macerie, trasformati in sassi, in
calcinacci. S, i bambini afghani forse hanno occhi bellissimi. Ma non li
puoi vedere perch impari subito ad evitare il loro sguardo quando ti
si avvicinano a frotte per chiedere la carit. Da lontano gli occhi non
si vedono, si vedono i corpi, piccoli, resi minuti dalla fame, che fanno
apparire sproporzionate le teste: nani fuggiti da un circo macabro.
Accovacciata su un marciapiede c' una bambina, vende e sposta su
un piatto di latta la sua mercanzia: una decina di piccoli fogli rosa di
carta igienica.
Se non lo sapessi, se non si muovessero per correre verso di te, non
penseresti mai che sotto quei teli informi e azzurrini c' un essere
umano. Ma c' una parte del corpo che, a quanto pare, i taliban
consentono alle donne di sottrarre al burqa: la mano, la mano che
elemosina. Penso a quante volte ho protestato contro la rimozione di
queste tragedie da parte dell'Occidente evoluto, a quante volte mi
sono comodamente indignato. Bene, io la mia rimozione l'ho
cominciata qui, ho imparato subito a non guardare gli occhi dei
bambini e le mani delle donne. La miseria imbarazzante per chi non
povero. Ti mette davanti alla tua impotenza ed labile il confine tra
impotenza e arroganza.
Il palazzo reale tenta ancora di ergersi sprezzante tra le altre rovine.
Ma solo un rudere sventrato e squarciato come lo la pi misera
delle case. Delle sue cupole resta lo scheletro. Ricorda quello
dell'osservatorio di Hiroshima, monumento all'olocausto nucleare, o
di Pol Pot.
"Le origini sociali dei taliban sono poverissime - dice Sabjar Latif -.
Per loro un pugno di riso era un sogno, non avevano mai conosciuto
l'energia elettrica. La condizione miserabile nella quale vivono e fanno
vivere Kabul comunque un miglioramento rispetto al loro
precedente modo di vita. Perch dovrebbero temere le sanzioni? Non
gli importa niente di quello che potrebbero perdere: il caff, quel poco
di sistema elettrico che restato? Ne possono benissimo fare a
meno". Sabjar Latif una specie di rappresentante afghano, non
ufficiale, degli interessi della Bridas, multinazionale petrolifera
argentina in competizione con la Unical americana per la costruzione
dell'oleodotto che partendo dal Tagikistan dovrebbe attraversare
l'Afghanistan per giungere in Pakistan.
Perch sotto le macerie della guerra combattuta ce n' un'altra tra le
multinazionali, tra gli interessi economici che vedono nell'Afghanistan
un crocevia strategico per le loro politiche mondiali di dominio
finanziario; il petrolio e il traffico di droga sono i perni intrecciati della
sussistenza di questo Paese senza stato. Una guerra sotterranea,
come le mine, e che come le mine reclama i suoi morti.
Il controllo dei taliban a Kabul non evidente come lo sono le rovine,
vi si nasconde. E un'aria di paura che si respira nello strano silenzio
dei bazar affollati, che si legge nelle espressioni preoccupate dei
venditori all'ora della preghiera, quando la polizia religiosa gira per
assicurarsi che tutto si fermi. E davvero il
tempo si fermato qui a Kabul. Il tempo il primo nemico dei taliban
perch significa cambiamento, progresso; e loro possono governare
soltanto una societ immobile, bloccata a livelli primitivi, senza
progetti n competenze.
Sbaglierebbe chi immaginasse tutte barbare e feroci le facce dei
taliban. Rahmatullah ha 29 anni, un'espressione vivace, e un ciuffo di
capelli castani che esce ribelle dal cupo turbante nero. Accetta di
parlare, anzi ne sembra anche divertito: "Sono di Hellman vicino
Kandahar - racconta. Fino a 17 anni ho studiato, ho il diploma di un
corso superiore. C'erano i russi, i mujaheddin bruciarono la scuola,
era una scuola comunista - aggiunge come fosse una spiegazione
naturale -. Io sono andato con loro, con il gruppo di Hekmatjar, a
combattere contro i sovietici, era un obbligo morale. Ma non ho ucciso
nessuno, anzi una volta ho dato dei soldi a due prigionieri afghani
dell'esercito filosovietico di Najibullah perch potessero fuggire in
Pakistan. Quando i russi se ne sono andati ho pensato che fosse la
pace ma durata solo pochi giorni, e sono cominciati gli scontri tra
mujaheddin. Allora sono entrato nei taliban. Pensavo fossero gli unici
a poter imporre pace e sicurezza".
"La pace e la sicurezza di Kabul ti piacciono, Rahmatullah? - gli chiedo
-. Ti bastano? Non c' niente che non ti va nel governo dei taliban?".
"Qualcosa che non mi piace c', ma non te lo posso dire" inizia. Poi
invece parla, quasi con foga: "Hanno distrutto il sistema educativo,
nettato con un lembo del turbante nero a righe gialle e sottili, quasi
elegante.
Il ministero degli esteri il pi pulito dei dicasteri della capitale. Ma
deserto. Non c' una politica estera da fare. E come potrebbe farla
quel giovane poco pi che trentenne che ci ha convocato
semplicemente per vederci in faccia e magari prendere una tazza di
t con questi stranieri incomprensibili che vengono da un Paese
incomprensibile, vestiti come dei buffoni? Se si passa dal ministero
per gli affari sociali si percorrono scale maleodoranti, stamberghe con
i pavimenti luridi, ancora ricoperti di pezzi di moquette dell'era
sovietica. Sbirciando tra le porte si vede gente seduta per terra. Un
alto funzionario riceve i visitatori togliendosi le scarpe e pulendosi le
unghie delle dita dei piedi, accovacciato nella poltrona.
Adesso vogliono fare anche loro tabula rasa, proprio come i khmer.
Non sono loro che hanno distrutto l'Afghanistan, ma stanno
diventando, ogni giorno che passa, coloro che impediranno
all'Afghanistan di rinascere. Vietato di guardare ogni tipo d'immagini.
Vietato tutto, obbligatorio il resto. Echi di lontananze bibliche, come
se il mondo - che erroneamente ci appare contemporaneo sprofondasse all'indietro nel tempo. "Dio uno - proclama da
Kandahar il maulvi Mohammad Omar, capo e guida unica dei taliban ma le statue sono state costruite per essere adorate. E questo
male. Affinch esse non siano adorate necessario distruggerle". Non
un'esagerazione. notizia ufficiale dell'agenzia Bakhtar, unico
strumento d'informazione e di comunicazione con il mondo esterno
del governo di questo "emirato" islamico. Governo di un Paese che si
avvia a diventare analfabeta al cento per cento e che non ha scuole,
n universit degne di questo nome, e che si accontenta di scuole
coraniche dove non s'impara a scrivere, n a leggere, ma solo a
ripetere a memoria un catechismo elementare e brutale non meno
lontano dal messaggio di Maometto di quanto lo siano le peggiori
eresie degli "infedeli". Non sar facile, ai miliziani del ministero della
virt, trovare statue e simulacri di qualche sorta - dopo avere
abbattuto le statue di Bamiyan - da distruggere in un Paese gi
distrutto, dove non esistono pi musei, n raccolte private d'arte, n
immagini di sorta.
Non ha salvato i Buddha di Bamiyan n il fatto che essi risalissero ai
secoli dal terzo al settimo dopo Cristo, n che essi fossero
antecedenti a Maometto. L'UNESCO li aveva proclamati patrimonio
della cultura mondiale. Niente da fare. "Le statue - aveva rincarato la
dose il portavoce del maulvi supremo, Abdul Hal Momait - quale che
sia l'anno di costruzione, sono un insulto ad Allah". Insulti, anche se
postdatati; bestemmie di granito degne soltanto dei pi acerrimi
nemici e denigratori dell'Islam.
Solo fanatismo? Se si trattasse soltanto di mullah ignoranti, lo si
potrebbe anche pensare. Ma si ha ragione di sospettare che essi
abbiano suggeritori meno sprovveduti, e che dunque vi siano
particolare nuovo, una possibile storia diversa, che per qualche attimo
il mondo fantastico sul muro li facesse entrare in una nuova
dimensione gioiosa e allegra lontana dalla sofferenza alla quale le
mine e la guerra li hanno condannati. Su una parete ora c' uno
stagno popolatissimo di animaletti. Sull'altra un cielo pieno di uccelli,
buffi aquiloni, palloncini e nuvole con la faccia e sull'altra ancora un
fondo marino gremito di pesciolini, granchi, stelle marine e calamari.
Ma ancora tutto a carboncino in bianco e nero, domani dobbiamo
partire per il Panjshir. Chi potr colorare, riempire tutto di colore? Mi
viene in mente che gli unici segni che i taliban non vietano sono quelli
della scrittura. I calligrafi afghani costretti a mettere nella pittura dei
caratteri arabi tutta la loro arte sono bravissimi col pennello.
"Cerchiamo un calligrafo!".
L'indomani mattina gi l nella corsia dell'ospedale, guarda i disegni
sulle pareti, ma non pare allibito e incredulo come gli operai, alcuni
ragazzini che stanno lavorando a rifinire la struttura ospedaliera. Loro
hanno l'espressione che dovevano avere gli spettatori del primo film
dei fratelli Lumire all'arrivo del treno. Lui invece li guarda divertito e
calmo come avesse ritrovato un mondo che conosce. Mi mostra i suoi
pennelli, le tinte che ha portato, mi chiede che colori vorrei per i miei
disegni. "Scegli tu", gli dico, "sono sicuro che ne sceglierai di
bellissimi!". Ha un guizzo di orgoglio negli occhi scuri e mobilissimi sul
viso incorniciato dalla lunga barba nera obbligatoria.
"Sai, sono un collega", mi sussurra timidamente. "Un collega??". "S,
un cartoonist come te!".
Piano piano la sua storia vien fuori. "Posso disegnare solo caratteri di
scrittura ma di nascosto faccio un giornale, tutto da solo, un giornale
di satira: lo disegno e lo coloro a mano, una copia sola, che gira di
mano in mano e quando torna da me preparo il numero successivo".
Il suo giornale si chiama Catino di guai. S, perch Kabul, affogata
nella conca, chiusa dalle montagne sembra davvero immersa in un
catino. "Mi firmo Parnion", dice, " il mio nome da vignettista
clandestino", e l mi mostra i giornali fatti a mano. Li ha portati con
s, nascosti in una spessa busta di carta gialla. I suoi disegni
denunciano la barbarie del burqa, l'ottusit di un potere basato solo
sui kalashnikov, l'assurdit di un popolo costretto a scannarsi da solo.
contento quando ci facciamo scattare una foto insieme davanti alla
parete disegnata da noi. "Ma se pubblichi la foto", mi avverte con un
cenno di tristezza, "cancella la mia faccia, per me pericoloso. Se i
taliban la vedessero mi ammazzerebbero". Poi ha un guizzo da
vignettista e aggiunge: "Anzi, perch non me la disegni tu la faccia
sulla foto? E senza barba per favore!". Mentre me ne vado lo vedo l.
Parnion ha un corpo minuto ed piccoletto, sembra appeso alla sua
mano che gi si messa a muoversi alta e veloce sulla parete, a
giocare con i colori e con i segni. Pare davvero solo nella corsia vuota.
Allora ho una visione: e se tornassimo tutti qui, io, Altan, Ellekappa,
Vincine, Bucchi, Mannelli, Staine, tutti con Parnion il vignettista
strette della stradina per impedire il passaggio dei mezzi pesanti. Non
un viandante, non un contadino. Solo, sui contrafforti della
montagna, un pastore, in mezzo a pecore pericolosamente affacciate
sullo strapiombo, che canta nel silenzio una nenia incomprensibile. Su
quei costoni non ci sono mine, ma tutto attorno alla strada ce ne
devono essere a bizzeffe. Ci hanno spiegato che meglio non uscire
dal sentiero. L'Afghanistan, si gi detto, terra di mine. Quasi una
per abitante, certamente pi di una per ogni bambino. Per gli anni, i
decenni a venire, migliaia di afghani continueranno a cadere dilaniati,
spezzati, mutilati. Ci vorrebbero miliardi di dollari per risanare questa
terra e si sa gi che non si troveranno mai.
Mine piazzate da tutti i contendenti che si sono avvicendati in questi
ventuno anni. Non si salva nessuno. Russi, mujaheddin, pakistani,
taliban. Poi gi verso la piana di Kapisa. La base aerea di Baghram,
Charikar, s'intrawedono lontano. I cannoni suonano litanie lente,
lontane. Ogni tanto il rantolo terribile, ansimante, lacerante di un
katiusha. Massud spara sui taliban, che stanno adesso dall'altra parte
del fiume. Su un cucuzzolo appaiono i mujaheddin, segno che siamo
arrivati dall'altra parte. E la prima differenza che si coglie nel fatto
che molti uomini sono armati. I soliti kalashnikov, ma anche vecchi
fucili ad avancarica, che perfino i bambini portano a tracolla. Una
distribuzione mortale, ma pi "democratica". La differenza non
riguarda le donne, tutte rigorosamente coperte dal burqa. Solo che
sono pi numerose nelle strade. Ma, per intanto, si vede bene
l'estensione delle forze di Ahmad Shah Massud nella pianura.
Pensavo, prima di arrivare fin qui, che fosse chiuso nella sua irta
vallata, invece un bel pezzo della pianura in suo possesso, almeno
adesso. Praticamente tutto il distretto di Kapisa, e la piana che da
Gulbahar, all'imboccatura della valle, si spinge fino ai confini di
Baghram.
Quanto sia terra sicura e quanto precaria non possibile dire. Si
capisce per che una guerra "contigua", dove le spie, gli
informatori, passano ogni giorno il fronte, travestiti da contadini, cio
da se stessi. Proprio come ai tempi dei sovietici, che non potevano
mai dire con sicurezza se un territorio era stato conquistato. Qui
l'unica presenza straniera di nuovo quella di Emergency. Miracolo,
anzi "scandalo evangelico", come l'ospedale che si sta costruendo a
Kabul. L quelle mura bianche, quelle corsie luminose, erano l'unico
segno di vita in una citt morta. Gino Strada riuscito dove nessuno
sta riuscendo: a convincere i taliban che non pu essere un mullah a
decidere come si cura e si opera la gente. Qui, dall'altra parte del
fronte, sei centri di pronto soccorso di Emergency sono sparsi nella
pianura, collegati da ambulanze all'ospedale di Anabah, pi su nella
valle.
raro provare orgoglio nel sentirsi italiano, ma qui e a Kabul - dove si
salva la gente, da una parte e dall'altra del fronte, senza chiedergli
sotto quale straccio stata dilaniata - confesso di averlo provato.
della valle per qualche chilometro, e ora giace, con la torretta esplosa
scaraventata a decine di metri di distanza, sul bordo stretto, a un
passo dallo strapiombo, della strada di Ahmad Shah Massud.
Ma neanche i taliban hanno finora potuto entrare fin qui. Oggi non
nemmeno passato uno dei loro Mig, residuati dell'aiuto sovietico a
Najibullah. La gente di Anabah racconta che, ogni tanto, il governo di
Kabul manda un aereo per gettare qualche bomba a casaccio, tanto
per dimostrare che esiste. Dove colpisce non fa differenza: le tende
non sono rifugio minore di quello offerto dai mattoni di fango delle
case dei villaggi. Qui la luce elettrica non c' mai stata per nessuno.
Questo un mondo dove non c' nessun "digital divide", e dove non
ci sar per intere, altre generazioni.
Non so se Hafizullah sia ancora vivo quando queste righe andranno in
stampa. Ma ho la sensazione che il suo destino abbia dei responsabili.
Certo non solo tra coloro che si rivelano incapaci di aiutarlo a vivere.
E non riesco a togliermi dalla testa l'idea, sommamente sgradevole,
che ci sia un nesso, mediato ma preciso, tra coloro che hanno
finanziato i signori della guerra afghani, quegli altri che hanno loro
venduto le armi e quegli altri, infine, che controllano ogni mattina le
quotazioni di borsa a Wall Street o a Milano, senza neanche
sospettare di avere a che fare con il destino di un piccolo bambino di
Gulbahar. E non riesco neppure a togliermi dalla testa l'altra idea,
ancora pi sgradevole, che un nesso preciso esista anche tra il
destino di quel bambino scalzo e i miei scarponi impermeabili da
inviato speciale.
In queste tende quelli che hanno avuto la fortuna di trovare qualcosa
da mangiare, stanno cucinando. Per gli altri c' il sonno della fame, e
della morte. L'intera, aspra vallata del Panshir si spegne in un silenzio
irreale. Qui la storia si fermata. Non ci sono nemmeno i pianti dei
bambini. I bambini afghani non hanno tempo per piangere.
LA CITTADELLA DI ANABAH. INCONTRO CON GINO STRADA
di Vauro
Per quasi undici ore consecutive Gino Strada ha guidato il fuoristrada,
con la bandiera bianca di Emergency sul cofano, che attraverso una
pista insidiosa e squassata da buche, fango e neve, valicando passi a
2900 metri di altitudine ci ha condotto da Kabul al Panshir di Massud.
Gino ha attraversato con noi a piedi i quindici chilometri di terra di
nessuno che separano le prime linee dei taliban da quelle dei
mujaheddin, dove si incrociano i colpi di mortaio e i cupi sospiri dei
razzi katiusha. Ci siamo da poco accovacciati sul tappeto in una
stanza della casa di Emergency ad Anabah. Gino dovrebbe essere
stravolto di stanchezza, e probabilmente lo , fuma nervosamente
una sigaretta, ha fretta. Ha fretta di recarsi nell'ospedale che
Emergency ha aperto qui nel dicembre del 1999. Manca solo da poche