Vous êtes sur la page 1sur 85

Giulietto Chiesa, Vauro

AFGHANISTAN anno zero


introduzione di Gino Strada

GUERINI E ASSOCIATI
Prima edizione: ottobre 2001.

INDICE
DECRETO DELLA PRESIDENZA GENERALE
INTRODUZIONE di Gino Strada
EMERGENCY - Report 1994-2001
TALIBAN di Giulietto Chiesa
Nascita di una leggenda
L'etnia pushtun
Cambio dei vettori strategici
La partita globale
La Russia e l'Asia centrale ex sovietica
Gli Stati Uniti e l'Arabia Saudita
Il Pakistan e l'oppio
Le vie del petrolio
Schieramenti inediti
Chi sono i taliban?
L'Afghanistan affonda
Un regime in agonia
CRONOLOGIA AFGHANA 1973-2001
2001: RACCONTI DI UN VIAGGIO IN AFGHANISTAN
di Giulietto Chiesa e Vauro
Il coraggio sotto il burqa, di Vauro
KABUL
Arrivo a Kabul, di Giulietto Chiesa
Una citt invisibile, di Vauro
Il turbante e il kalashnikov, di Vauro
Cadranno presto? di Giulietto Chiesa
Hanno spento la luce, di Giulietto Chiesa
L'ospedale Karte-se di Kabul, di Vauro
L'isola bianca di Emergency, di Vauro
Un catino di guai, di Vauro
NELLA VALLE DEL PANSHIR
L'Afghanistan spezzato, di Vauro
Da Kabul alla valle del Panjshir, di Giulietto Chiesa
Bambini profughi nella terra di nessuno, di Vauro
Anabah, di Giulietto Chiesa
La cittadella di Anabah. Incontro con Gino Strada, di Vauro
Quell'unico made in Italy che ci piace, di Vauro

KABUL, NOVEMBRE 1996 POLIZIA RELIGIOSA


DECRETO DELLA PRESIDENZA GENERALE
NORME GENERALI RIGUARDANTI LE DONNE
Donne, non dovete uscire dalle vostre case. Se uscite non dovete
essere come le donne che, prima dell'avvento dell'Islam, usavano i
vestiti alla moda, erano pesantemente truccate e si facevano
guardare dagli uomini. La religione della salvezza ha stabilito che le
donne abbiano una loro specifica dignit. L'Islam dispone di istruzioni
preziose per le donne. Le donne non devono fornire nessuna
opportunit alla gente estranea che non le guarda con occhi benevoli.
In caso le donne debbano uscire dalla loro casa per ragioni di studio,
di necessit sociali o di servizio, devono coprirsi come previsto dalla
regola della legge islamica. Se le donne usciranno con i vestiti alla
moda, ornati, stretti e attraenti, per mettersi in mostra, saranno
maledette dalla legge islamica e non potranno mai aspettarsi di poter
accedere al Paradiso. Tutti i membri della famiglia e tutti i musulmani
ne saranno responsabili.
Chiediamo a tutti gli adulti di mantenere uno stretto controllo sulle
loro famiglie, per impedire il sorgere di questi problemi sociali,
altrimenti queste donne saranno minacciate, indagate e punite
severamente, con tutti i membri adulti della loro famiglia, dalle forze
della polizia religiosa.
Nessun autista autorizzato a trasportare donne che usano il velo di
tipo iraniano. In caso di violazione l'autista sar punito. Se donne cos
vestite saranno viste nelle strade, saranno individuate le loro case e i
loro mariti saranno puniti. Se le donne usano vestiti provocanti o
attraenti, gli autisti non dovranno trasportarle.
PER IMPEDIRE IL LAVAGGIO DI VESTITI NEI FIUMI DELLA CITT DA
PARTE DI GIOVANI DONNE
Le signore che violano questa regola dovranno essere prelevate con
rispettosi modi islamici, portate nelle loro case e i mariti dovranno
essere severamente puniti.
PER IMPEDIRE LA MUSICA
Questo proclama dev'essere trasmesso dalla radio pubblica. Le
cassette musicali e la musica sono proibite nei negozi, negli alberghi,
nei veicoli e nei risci. Se in un negozio verr trovata una
musicassetta, il negoziante dev'essere arrestato e il negozio chiuso.
Se la cassetta verr trovata in un'automobile, il veicolo sar
sequestrato e l'autista imprigionato.
PER IMPEDIRE IL TAGLIO DELLA BARBA
Chi, tra un mese e mezzo, verr trovato anche parzialmente sbarbato
sar imprigionato fino a quando la sua barba non sar cresciuta
foltamente.

PER IMPEDIRE L'ALLEVAMENTO DI PICCIONI E I GIOCHI CON GLI


UCCELLI
Questa abitudine dev'essere eliminata entro i prossimi dieci giorni.
Dopo dieci giorni si dovranno fare opportuni controlli e tutti i piccioni
e gli uccelli da gioco dovranno essere uccisi.
PER IMPEDIRE MUSICA E BALLI NEI RICEVIMENTI DI MATRIMONIO
In caso di violazione, il capo famiglia dev'essere arrestato e punito.
PER SRADICARE L'USO E LA DIPENDENZA DA DROGHE
I drogati verranno imprigionati. Verranno fatte indagini per trovare i
fornitori e i loro negozi. I negozi dovranno essere chiusi e i fornitori
puniti.
PER IMPEDIRE LA CONFEZIONE DI VESTITI FEMMINILI E LA PRESA
DELLE MISURE ALLE DONNE
Se donne, o riviste di moda, verranno trovate in un negozio di
sartoria, il sarto verr arrestato.
INDICAZIONI PER LE PREGHIERE
Le preghiere devono essere fatte per tempo in tutti i distretti. Nel
periodo della preghiera la circolazione sar strettamente proibita e
tutti saranno obbligati ad andare nella moschea. Se i giovani saranno
visti nei negozi, dovranno essere immediatamente arrestati.
PER IMPEDIRE LE PETTINATURE IN STILE BRITANNICO E AMERICANO
Le persone con capelli lunghi devono essere arrestate e portate al
dipartimento della polizia religiosa, dove verranno loro tagliati i
capelli. I responsabili del crimine saranno tenuti al pagamento del
barbiere.
PER IMPEDIRE IL GIOCO D'AZZARDO
In collaborazione con la polizia dovranno essere individuati tutti i
maggiori centri del gioco. I giocatori saranno imprigionati per un
mese.
PER IMPEDIRE L'IDOLATRIA
Fotografie e ritratti devono essere aboliti negli alberghi, nei negozi,
nelle stanze e in qualsiasi altro posto.
PER IMPEDIRE I GIOCHI CON GLI AQUILONI
I negozi che vendono aquiloni devono essere aboliti.

Afghanistan. C' un aggettivo che, da ormai pi di dieci anni,


accompagna inesorabilmente il nome di questo Paese. L'aggettivo :
dimenticato. Afghanistan dimenticato. Un non luogo. Questo libro il
racconto di un viaggio in un non luogo e in un non tempo, di un
giornalista, Giulietto Chiesa, con grande esperienza e competenza che
mai lo hanno condotto al distacco o al cinismo, di un vignettista, il
sottoscritto, che ha tentato, scrivendo, di disegnare le immagini di
una tragedia e di un medico, Gino Strada, che dentro la carne
pulsante di quella tragedia trascorre gran parte della sua vita.
Tre paia di occhi diversi, tre linguaggi diversi per raccontare, per
incrinare anche di poco l'amnesia colpevole del mondo. Perch quel
non luogo e quel non tempo sono colmi di vite, umiliate, negate,
mutilate. Di ritorno da l si prova l'urgenza di raccontarle, con parole,
immagini e segni, prima che l'amnesia, la voglia di rimuovere si
impadronisca anche di noi, prima che riusciamo a far divenire di
nuovo, dentro di noi, l'Afghanistan solo un Paese lontano, fuori dai
confini delle nostre coscienze.
In questo libro abbiamo provato a raccogliere segni, parole e
immagini. E forse, lo spero, anche il non detto, quello che non si pu
scrivere, disegnare o fotografare, quello che ho visto a Kabul negli
occhi di Giulietto Chiesa che non riuscivano a contenere l'immagine
del corpo di un bambino straziato da una mina.
Vauro

INTRODUZIONE
di Gino Strada
EMERGENCY REPORT 1994-2001
Non facile scrivere una introduzione a un libro, almeno per me. Se
poi il libro riguarda l'Afghanistan, credo allora diventi molto difficile
per tutti. Perch l'Afghanistan resta uno dei Paesi (ma davvero un
Paese?) pi misteriosi del pianeta e pi difficili da capire. Ci ho
trascorso quattro anni, e ancora mi stupisco della mia ignoranza e
della inestricabile difficolt nel mettere insieme qualche idea che vada
oltre la sensazione e abbia una parvenza di razionalit.
Racconta un'antica storia afghana che quando Dio cre la Terra decise
anche dove piazzare i diversi Paesi: qui l'Italia, pi su la Germania,
per poi infilarci l'Austria e la Svizzera, o qualcosa di simile. Una volta
iniziato questa specie di gioco, dopo aver posato i primi pezzi del
puzzle, Dio fu costretto, si racconta, ad adattare un po' i confini,
limando e tagliando, in modo da incastrare tutti i Paesi del pianeta.
Alla fine si trov con tanti ritagli, striscioline, spigoli, coriandoli, roba
di scarto insomma.
Allora prese il tutto e lo gett nel buco che, sul mappamondo, era
rimasto vuoto tra il Medio Oriente, l'Asia centrale e il subcontinente
indiano. E disse: "Questo l'Afghanistan!"
Ho dubbi seri che sia andata davvero cos, ma sta di fatto che nel
"buco" - grande poco pi di due volte l'Italia - sono finiti
cinquantacinque gruppi etnici che parlano oltre una ventina di lingue.
Noi, in modo molto semplificato, li chiamiamo "afghani". Ma se
chiediamo loro, la risposta sar diversa, nessuno si autodefinir
afghano ma piuttosto pusthun, tagiko, hazar, uzbeko... Non solo,
incontreremmo chi si definisce khandahari o panjchiri dal nome della
citt o della valle da cui proviene.
Una simile babele etnico-linguistica non avrebbe, probabilmente,
potuto perpetuarsi senza l'aiuto fornito dalle caratteristiche
geografiche della "terra degli afghani", una terra inaccessibile e
inospitale. Verso est, strette valli annidate tra le montagne
dell'Hindukush - l'estensione occidentale delle catene del Karakorum
e dell'Himalaya - chiuse da metri di neve la pi parte dell'anno; a
ovest, verso l'altopiano iraniano, il pietroso Dashti-Margo, il "deserto
della morte", e il deserto di sabbia del Registan. Questo
l'Afghanistan, molto pi di Kabul o Herat o Mazar-i-Sharif, citt di
immensa storia e cultura: un Paese dove spostarsi, ancora oggi,
una avventura
continua, dove si parte senza mai sapere se e quando si arriver a
destinazione.
Ce ne siamo resi conto ogni volta che abbiamo dovuto fare arrivare
camion di medicine e apparecchiature per gli ospedali di EMERGENCY:
percorrere i trecento chilometri che separano il Tagikistan dalla valle

del Panshir ha richiesto ventidue giorni di viaggio.


Sembrerebbe che la terra, in questa parte del mondo, cos come le
trib che la popolano, facciano di tutto per mantenersi inviolabili al
resto del mondo. Eppure...
Da sempre l'Afghanistan stato un crocevia fondamentale tra la Cina,
l'India, l'Asia centrale e l'Europa. Attraverso la "Via della Seta" e le
sue diramazioni sono passati oro e argento, tessuti e lapislazzuli,
cotone e spezie, ambre e coralli, lana e pellicce. E, fin da allora,
anche armi e droghe.
Un passaggio obbligato, insomma, dove gli abitanti hanno pagato e
pagano un prezzo inimmaginabile per il solo fatto di trovarsi in
un'"area strategica" o in uno "Stato cuscinetto". Negli ultimi due
secoli ci hanno provato in molti a domare le valli e i deserti, e
soprattutto le trib dell'Afghanistan.
Dall'inizio del diciannovesimo secolo, la Russia zarista, gli eserciti
della corona britannica, persino Napoleone Bonaparte, hanno a lungo
inseguito il miraggio di impossessarsi delle ricchezze dell'India.
Ignorando, quasi sempre a loro spese, che per afferrare la preda
bisognava fare i conti con l'Afghanistan. stato il Great Game
dell'Asia centrale, durato pi di un secolo, che si in realt rivelato
una grande carneficina.
Ancora oggi, lasciando Kabul in direzione di Jalalabad, si pu
immaginare il calvario dei sedicimila militari inglesi in ritirata - dopo
gli accordi che misero fine alla prima guerra angloafghana nell'inverno
del 1842 - attraverso il Khurd Kabul e gli altri passi di montagna e le
strette gole. A Jalalabad arriv un solo uomo, il dottor Burden, un
chirurgo militare, ferito in groppa a un cavallo morente. Uno su
sedicimila, tutti gli altri furono massacrati o morirono di freddo e di
fame.
L'Afghanistan stata la scacchiera sulla quale si dovuto - o meglio
voluto - giocare partite sempre pi difficili e rischiose, e soprattutto
devastanti per la popolazione.
Ma le lezioni della storia, sembra proprio vero, sono le pi difficili da
imparare.
Cos ci hanno riprovato in molti, dai sovietici agli Stati Uniti, al
Pakistan, per citare solo i protagonisti pi recenti.
"Il Presidente ha firmato una direttiva per fornire aiuti clandestini ai
nemici del regime filosovietico di Kabul" ebbe a dichiarare Zbigniew
Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale USA.
Il Presidente era il democratico Jimmy Carter, e la data della firma il 3
luglio 1979. Gi, sei mesi prima dell'invasione sovietica
dell'Afghanistan.
"Ho scritto una nota al Presidente spiegandogli che, a mio avviso,
questa decisione avrebbe avuto come conseguenza un intervento
militare sovietico" stiamo sempre citando Brzezinski, che conclude
con candore: "Non abbiamo spinto i sovietici ad intervenire, abbiamo
solo consapevolmente aumentato le probabilit che lo facessero...

cadendo nella trappola afghana".


E gli aiuti? Ricordo ancora le colonne di camion color arancio,
accuratamente sigillati, che da Quetta, Pakistan, percorrevano le
strade polverose che portano a Spin Boldak, Afghanistan. Sulla
fiancata, una grande scritta nera, NLC, National Logistic Celi, una
compagnia di trasporti di propriet del servizio segreto pakistano.
Dentro i camion armi, naturalmente, di ogni tipo.
Molte erano armi "russe", o meglio copie esatte di armi sovietiche
prodotte in una fabbrica messa in piedi dalla CIA non lontano dal
Cairo e poi spedite dall'Egitto al Pakistan.
Non si sa mai, meglio non trovare armi USA in mano a tipi poco
raccomandabili, e soprattutto che nessuno possa puntare
il dito contro i campioni della libert per aver fornito armi al Pakistan.
Per inciso, solo un anno prima l'amministrazione Carter aveva
congelato gli aiuti USA al Pakistan, accusato di star lavorando alla
bomba atomica.
Fantapolitica? No, tutto rigorosamente vero. Non solo.
Per anni Stati Uniti ed Arabia Saudita hanno praticato la tecnica del
"matching funds" - se tu ci metti un dollaro, o un miliardo di dollari,
io ce ne metto altrettanti - per finanziare il reclutamento,
l'armamento, l'addestramento dei combattenti della Jihad, della
guerra santa. E il Pakistan ha aperto le porte ai "fratelli" musulmani
desiderosi di raggiungere l'Afghanistan per battersi in nome
dell'Islam.
Egiziani, sudanesi, palestinesi, algerini, iracheni, yemeniti, magrebini,
persino filippini hanno raccolto l'appello, oltre beninteso a un gran
numero di pakistani.
Per anni, bastava presentarsi a una Ambasciata del Pakistan e
dichiararsi volontari della Jihad per ottenere un biglietto aereo e un
documento di viaggio: destinazione Peshawar, nel nord-est pakistano.
Ad attendere i volontari a Peshawar, prima di essere smistati nei vari
campi di addestramento alle tecniche della guerriglia e del terrorismo,
c'era, tra gli altri, un certo Osama bin-Laden...
Cos, quando la notte di Natale del 1979 le truppe sovietiche
attraversano l'Amu Darya, il mitico fiume Oxus che allora segnava il
confine con l'URSS, la trappola pronta.
Il Great Game pu continuare, la Guerra Fredda diventa la guerra per
procura, su commissione. Facciamo fare ad altri quello che vorremmo
fare noi, cos evitiamo guai e accuse nel caso l'operazione fallisca:
stata la dottrina di Henry Kissinger. E il grande massacro, con una
posta in palio diversa, continua tuttora.
"In Vietnam abbiamo perso 58.000 uomini. I russi ne hanno persi
25.000 in Afghanistan. Ci devono ancora 33.000 morti" dichiar nel
1988 il congressman texano Charles Wilson, uno dei pi accaniti
sostenitori del "diamo ai russi il loro Vietnam".

Stiamo parlando di un film di James Bond?


No, tutto questo, e molto di pi, accaduto in Afghanistan. Il
risultato che i sovietici se ne sono andati, sconfitti dalla guerra per
procura, mentre i vincitori - i mujaheddin - la guerra non l'hanno
ancora smessa dodici anni dopo la ritirata sovietica. Anzi, molti di loro
l'hanno anche importata, al loro rientro, nei Paesi d'origine.
Gi, successo anche questo, che dall'Algeria alle Filippine, dalla
Cecenia al Sudan - per citare solo alcuni casi - i veterani della Jihad
afghana si sono messi a organizzare la loro Jihad casereccia.
E quel tale Osama, prima in buoni rapporti con la CIA, ha finito col
dichiarare apertamente guerra... agli Stati Uniti!
E l'Afghanistan, in tutto questo? E gli afghani? Che cosa successo a
quel popolo di poco meno di venti milioni di persone?
1.500.000 morti, 1.000.000 di mutilati, 4.000.000 di profughi, e un
Paese distrutto, Kabul che assomiglia a Coventry dopo i
bombardamenti, 8.000.000 di mine antiuomo ancora l, pronte a
uccidere nei prossimi decenni.
Gli afghani, avvolti nei loro mantelli o nei loro burqa, al freddo e al
buio, senza acqua potabile n elettricit, n scuole n ospedali, in una
societ disgregata e frammentata forse in modo irrecuperabile,
continuano a camminare per i propri sentieri costellati di rottami di
carri armati e di razzi inesplosi, aspettando.
Aspettando che la guerra finisca, che la fame finisca, che si possa
studiare, che arrivi un po' di libert, che si intraveda qualche bagliore
di diritti umani.
Tra spie e terroristi, fanatici e fondamentalisti di ogni specie,
trafficanti di droga e di armi. Aspettano, aspettano, "Fardo, Inch'Allah!", domani, se Dio lo vorr.
Che finisca il Great Game.
Il gioco nazionale la buzkashi. La si pratica ancora, nei villaggi, di
solito il venerd. Due squadre di dodici cavalieri che si contendono,
senza regole, una capra morta buttata in mezzo a un prato. La
afferrano in corsa, la perdono e la riconquistano, la strappano dalle
mani degli awersari. A volte la capra finisce a brandelli.
L'Unione Sovietica, gli Stati Uniti e tutti gli altri, ciascuno per i propri
interessi strategici, militari, di danaro, hanno giocato alla buzkashi
con l'Afghanistan.
E siamo solo nell'intervallo, il secondo tempo appena cominciato.
Un'unica cosa certa: che in questo gioco a far da capra ci sono gli
uomini, le donne e i bambini dell'Afghanistan.
3 settembre 2001
Nei conflitti di oggi, pi del 90% delle vittime sono civili. Migliaia di
donne, di bambini, di uomini inermi sono uccisi ogni anno nel mondo.
Molti di pi sono i feriti e i mutilati.
Emergency nasce nel 1994 a Milano per portare soccorso a queste

vittime. Personale medico e tecnici con maturata esperienza di lavoro


in situazioni di emergenza si sono uniti per garantire assistenza
medica, chirurgica e riabilitazione nelle zone di guerra.
Che cosa Emergency
Emergency una associazione umanitaria senza scopo di lucro, il cui
obiettivo di fornire assistenza alle vittime civili dei conflitti, ai feriti e
a tutti coloro che soffrono altre conseguenze delle guerre quali fame,
malnutrizione o assenza di cure mediche. Tra gli obiettivi di
Emergency anche la promozione e la diffusione di una cultura di
pace e di solidariet. Emergency una organizzazione italiana
privata, indipendente dalla politica dei differenti Stati e Governi.
aperta senza alcuna discriminazione politica, ideologica o religiosa a
tutti coloro che ne condividono i principi e gli obiettivi e ne
sostengono le attivit umanitarie.
Il ruolo di Emergency
Emergency interviene nelle zone di guerra con progetti umanitari in
favore delle vittime civili dei conflitti.
I suoi obiettivi specifici sono: prestare soccorsi di emergenza ai feriti
organizzando ospedali chirurgici e centri di riabilitazione; garantire
assistenza sanitaria di base nelle zone devastate dalle guerre, con
particolare attenzione alle vittime delle mine antiuomo;
addestrare personale locale a far fronte alle necessit mediche e
chirurgiche pi urgenti in situazioni di conflitto.
Come lavora Emergency
Emergency utilizza, nei propri progetti umanitari, medici, infermieri e
tecnici con esperienza specifica di lavoro in zone di guerra.
Emergency usa protocolli terapeutici e metodi di lavoro standardizzati
e gi sperimentati in situazioni d'emergenza.
Emergency utilizza tecnologie non sofisticate e materiali a basso
costo e di facile reperimento in loco, per facilitare l'addestramento del
personale locale.
Emergency
presta
assistenza
umanitaria
gratuitamente
e
indistintamente, su base rigorosamente neutrale ed egualitaria, a
tutte le vittime del conflitto.
Emergency riferisce regolarmente ai propri sostenitori sull'uso delle
risorse economiche, sulle scelte operative e sui risultati ottenuti.
I centri per vittime di guerra Emergency presta assistenza chirurgica
specializzata alle vittime della guerra e delle mine antiuomo,
intervenendo durante il conflitto o nell'immediato periodo post-bellico.
Emergency decide i suoi interventi basandosi su due criteri di
selezione dei Paesi: l'effettivo bisogno della popolazione di assistenza
medico-chirurgica specializzata e la scarsit o la mancanza di altri
inferventi umanitari analoghi nel Paese.
Questi sono i motivi che hanno portato Emergency nel nord dell'Iraq

(Kurdistan), in Cambogia, Afghanistan e Sierra Leone, dove sono stati


allestiti centri chirurgici e di riabilitazione.
Emergency nel nord dell'Iraq
Emergency presente nel nord dell'Iraq, nell'area nota come
Kurdistan iracheno, dal marzo 1995. Inizialmente le attivit
chirurgiche si sono svolte in un ospedale nel villaggio di Choman,
vicino al confine con l'Iran. Successivamente sono stati costruiti i
Centri chirurgici per vittime di guerra di Sulaimaniya (1996) ed Erbil
(1998), entrambi dotati di 100 posti letto, all'interno dei quali
funzionano unit speciali per ustionati pediatrici e per pazienti con
lesioni del midollo spinale. Ai Centri chirurgici si affiancano 16 posti di
primo soccorso, per il trattamento ambulatoriale dei casi meno
urgenti e per un tempestivo intervento sui feriti gravi.
Complessivamente, dall'inizio dell'attivit, sono state assistite
112.848 persone. Sempre a Sulaimaniya Emergency ha costruito il
Centro Riabilitazione, Protesi e Reintegrazione sociale dove, dal 1998,
sono state fornite protesi e riabilitazione a circa 1900 amputati da
mina antiuomo. A fine 2000 Emergency awia la costruzione di due
nuovi Centri Protesi e Riabilitazione nella parte a nord del Paese, a
Diana e Dohuk. Il personale locale impiegato da Emergency in Nord
Iraq di 563 unit.
Emergency in Cambogia
Emergency ha avviato il suo intervento in Cambogia nel 1997, con la
costruzione del Centro chirurgico per vittime di guerra di Battambang,
intitolato a Ilaria Alpi. Al Centro, che operativo dal luglio 1998, si
sono affiancati nel corso degli anni 5 posti di primo soccorso e due
cliniche mobili, per poter raggiungere anche i villaggi pi isolati e
prestare assistenza sanitaria non strettamente chirurgica a tutta la
popolazione. Un settore di intervento chirurgico dell'ospedale di
Battambang dedicato alla chirurgia ortopedica e ricostruttiva, per
assistere i numerosi casi di poliomielite e malformazioni congenite.
Complessivamente dall'inizio dell'attivit a oggi sono state curate
126.706 persone. Il personale locale impiegato da Emergency di
226 unit.
Emergency in Afghanistan
Emergency ha iniziato l'intervento umanitario in Afghanistan nel
1999, con la costruzione di un Centro chirurgico per vittime di guerra
nel villaggio di Anabah, nella valle del Panshir, la zona a nord
controllata dal generale Massud. Al centro si affiancano 6 posti di
primo soccorso, collocati in aree vicine al fronte o in zone ad alta
densit di mine antiuomo. Dall'inizio dell'attivit sono state curate
14.120 vittime di guerra e vengono impiegate 224 persone.
A cavallo tra il 2000 e il 2001 si costruito un secondo Centro
chirurgico nella capitale Kabul e si dato avvio a un programma

sociale in favore delle donne afghane nel Panshir.


Emergency in Sierra Leone
L'intervento di Emergency in Sierra Leone inizia nella seconda met
del 2000 con la costruzione di un Centro chirurgico a Goderteli, nei
sobborghi della capitale Freetown. In questo ospedale, che sar
operativo a partire dall'autunno 2001, verranno trattati non solo i
feriti di guerra, ma anche i casi di poliomielite e altre malformazioni e
traumi gravi che necessitano di chirurgia specializzata.
Altri interventi di Emergency
Nel 1994, durante il conflitto in Ruanda, Emergency ha ristrutturato e
riattivato l'ospedale della capitale Kigali. In quattro mesi stata
fornita assistenza chirurgica a oltre 600 feriti causati dal conflitto
interno, cos come a vittime di mine antiuomo. Inoltre, stato
attivato il reparto maternit nel quale stata data assistenza medica
e chirurgica a oltre 2.500 pazienti. Nel 1995, durante la guerra in
Cecenia, Emergency \\a distribuito farmaci essenziali e materiale di
pronto soccorso per aiutare la popolazione civile e i profughi interni in
fuga dalla guerra civile.
Nell'estate del 1999, Emergency ha sostenuto il Centro Culturale Stari
Grad, scuola multietnica di educazione alla pace, e l'orfanotrofio jovan
jovanovic Smaj di Belgrado, nella Federazione Iugoslava, che ospita
96 bambini.
Dal maggio al luglio 2000 un team di Emergency composto da due
chirurghi, un anestesista e quattro infermieri ha prestato la propria
opera in Eritrea. L'impegno di Emergency in questa missione nato
da una richiesta di collaborazione della Cooperazione italiana al fine di
attivare ad Asmara un servizio di supporto ai medici locali per
l'assistenza e cura delle vittime della guerra tra Etiopia ed Eritrea.

TALIBAN
di Giulietto Chiesa
Una versione precedente di questo saggio
con il titolo "i misteri dei Taliban"
Macedonia/Albania, le terre mobili, n. 2/2001

apparsa

su

Limes,

Nascita di una leggenda


Mentre scrivo queste righe sono trascorsi quattro anni e mezzo dal
momento in cui, nella notte tra il 26 e il 27 settembre 1996, i taliban
presero possesso di Kabul. Dal momento della loro apparizione sulla
scena politica afghana - come movimento e come formazione armata
- sono passati meno di sette anni.
Le prime notizie che li riguardano risalgono al novembre 1994,
quando un convoglio di trenta autocarri pakistani, carichi di prodotti
alimentari, medicine, generi di abbigliamento, destinato verso le
repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale, venne intercettato nei
pressi di Kandahar da banditi locali.
Secondo questa storia, o leggenda (tutti i particolari della quale,
come vedremo, sono importanti al fine di individuare i suoi
compilatori e i loro scopi), i taliban intervennero, sconfiggendo i
banditi con un'azione fulminea, e riconsegnarono il convoglio ai suoi
legittimi proprietari nel corso di appena quarantott'ore. Misteriosi e
provvidi Robin Hood afghani che riportavano legge e ordine dopo
decenni di massacri, violenze e guerra. A chi appartenesse il
convoglio, dove esattamente fosse diretto, chi fossero i sequestratori,
non mai stato chiarito. Ma colpisce l'attenzione il fatto che esso
venga rappresentato come un convoglio di merci inoffensive, come
abiti, generi alimentari, manufatti di varia provenienza e importazione
e medicine. Cos com' interessante tenere a mente l'ambientazione
della storia, in quel di Kandahar, luogo natale, tra l'altro, del maulvi
Mohammad Omar. comunque da quel momento che le formazioni
armate
dei
taliban
cominciano
ad
apparire
sempre
pi
frequentemente nelle cronache militari del sud dell'Afghanistan, nuovi
arrivati nel panorama frastagliatissimo delle fazioni dei mujaheddin
che si stavano dilaniando tra di loro e, tutte insieme, stavano
dilaniando il Paese.
I taliban si distinguono presto, comunque, per la loro disciplina e
apparente efficacia militare. In poche settimane prendono il controllo
di una parte considerevole della provincia di Kandahar. Va detto
subito che questa e altre storie, o leggende, attorno ai taliban hanno
tutte la stessa origine: furono i media pakistani a riferirle, in qualche
caso a crearle, ad alimentarle, giovandosi del mistero che circondava
il sorgere di questa nuova entit, di cui era difficile definire i contorni,
la provenienza religiosa, i connotati sociologici, quelli etnici, gli
eventuali finanziatori, gli organizzatori interni e internazionali. Fino a
che si tratt di piccole formazioni armate, la questione del loro

finanziamento non parve diversa da quella degli altri gruppi armati,


frange e spezzoni dei mujaheddin che avevano combattuto la Jihad
(guerra santa) contro l'invasore sovietico. Si sapeva - lo sapevano
tutti coloro che avevano occhi aperti e non ottenebrati dall'ideologia che il principale protettore dei mujaheddin, finanziatore e "armatore",
era il servizio segreto pakistano, a sua volta intermediario dei servizi
segreti americani, arabo-sauditi, cinesi e israeliani, per conto dei quali
svolgeva la funzione di filtro e coordinamento. Ma i capi mujaheddin, i
rinomati "sette partiti" con sede a Peshawar, avevano anche fonti per
cos dire proprie di finanziamento. Insieme a potenti lobby pakistane
(anch'esse legate a triplo filo con l'esercito e i servizi segreti di
Islamabad) gestivano il traffico della droga, lasciando passare i
convogli, in cambio di denaro, perfino scortandoli a destinazione. Un
nuovo gruppo - appunto i taliban - comparve sulla scena e sembr
inizialmente aggiungersi alle bande gi esistenti. Tuttavia, quando i
nuovi arrivati giunsero alla conquista di Kandahar, e fu evidente che si
trattava di un vero e proprio esercito, il problema assunse altri
contorni.
L'etnia pushtun
L'origine etnica del movimento la pi semplice da discernere.
All'inizio si tratt essenzialmente di pushtun durani, abitanti
del sud dell'Afghanistan. I pushtun sono l'etnia pi numerosa
dell'Afghanistan, ma non va trascurato il fatto che i durani sono
piuttosto distinguibili - per abiti e consuetudini familiari - e spesso
storicamente antagonisti rispetto ai ghilzai dell'est. Di questo si dovr
tenere conto in futuro quando si tratter di capire fino a che punto i
taliban sono in condizione di tenere assieme l'etnia pushtun. Secondo
valutazioni di autorevoli osservatori pakistani, il movimento taliban,
inizialmente a prevalenza durani, si sarebbe poi trasformato in un
movimento pan-pushtun, ma non c' concordanza di vedute a questo
proposito. Autorevoli osservatori pakistani ritengono che la coesione
dei taliban, molto forte nei primi anni del loro potere, potrebbe essere
minata anche da contrasti tribali interni all'etnia.
Ma, lasciando in sospeso questo interrogativo, va da s invece che il
carattere strettamente pushtun, cio monoetnico, dei taliban esclude
in linea di fatto - o la rende estremamente improbabile - ogni
possibilit futura di accordo con le altre etnie afghane. A meno di
immaginare una evoluzione politica dei taliban tale da mutare
radicalmente la loro attuale fisionomia. Il che appare meno probabile
addirittura dell'eventualit di una loro estinzione come movimento e
del loro sprofondare repentino nel nulla, apparentemente misterioso,
dal quale sorsero. Come vedremo tra poco non si tratta di ipotesi
peregrine.
La seconda caratteristica visibile di primo acchito l'appartenenza dei
taliban alla setta sunnita dell'Islam. Ma, detto questo, i contorni della
loro filosofia religiosa e politica rimangono tuttora abbastanza labili, a

distanza appunto di quasi sette anni dal momento delle loro prime
enunciazioni politico-programmatiche. Affermano di voler costruire
una "vera societ islamica". Nella loro prima conferenza stampa quella che tennero all'inizio del 1995 nella citt pakistana di Peshawar
- i capi espressero il rifiuto delle elezioni democratiche, dal momento
che "le elezioni sono non islamiche".
Oltre al cambiamento del nome dello stato, ora denominato Emirato
Islamico di Afghanistan, ben poco emerso delle concezioni statuali e
delle idee istituzionali di cui sono portatori i taliban. Al punto da
rendere legittimo il sospetto di una loro assenza totale, salvo il
ripristino di norme e pene medievali, il divieto di lavoro e di istruzione
per tutte le donne, l'obbligo per gli uomini di portare la barba e il
copricapo, l'obbligo per le donne di coprirsi in pubblico da capo a piedi
con il burqa, il divieto di ascoltare la radio, di vedere la televisione, di
suonare e ascoltare musica, di assistere a proiezioni cinematografiche
e ad altre forme di spettacolo (tutti i cinema in Afghanistan sono stati
distrutti materialmente o sono stati trasformati in luoghi di
preghiera).
Un regime molto simile al terrore - ma senza traccia di lumi - stato
istituito in tutti i territori sotto il controllo dei taliban. Eppure - e
questa altro non che l'ennesima stranezza di questa storia - non c'
alcun rapporto tra questo furore ideologico
primitivo e gli insegnamenti sunniti che, al contrario, sono in genere
pi miti di quelli dell'altra corrente dell'Islam denominata sciita. Ma
anche questa considerazione da riprendere nel prosieguo, specie
quando ci occuperemo del ruolo anti-Iran (sciita) svolto dal
movimento dei taliban.
Ci detto utile tornare alle prime tappe della loro strepitosa e
sbalorditiva performance politica e militare, ripercorrendole
succintamente prima di affrontare un'analisi critica del movimento dei
taliban che vada oltre le leggende create ad arte per renderlo
credibile e per descriverlo come invincibile, genuinamente popolare e
- soprattutto - spontaneo. All'inizio del 1995 i taliban avevano gi
assunto il controllo di sette delle ventotto provincie
afghane:
Kandahar, Zabul, Helmand, Uruzgan, Ghazni, Paktia e Nimruz. Il 14
febbraio 1995 le forze dei taliban raggiunsero la periferia di Kabul e
lanciarono i primi assalti sui quartieri sud della capitale. In una
manciata di mesi l'intera situazione afghana fu sconvolta e rovesciata.
Un esercito prima inesistente di "studenti" sconfisse uno dopo l'altro i
"partiti" dei mujaheddin. Come stato possibile?
Di fronte ai taliban, in quei mesi, si trovava un governo debole e
diviso, quello guidato da Burhanuddin Rabbani, ultima propaggine
della Jihad che era stata combattuta contro i sovietici dal dicembre
1979 al 1989. Dopo il ritiro delle truppe sovietiche il presidente
Najibullah era riuscito a resistere fino all'aprile del 1992. In un primo
tempo - fino a che Gorbaciov era rimasto al potere in Unione
Sovietica, cio fino alla fine del 1991 - Najibullah aveva potuto fruire

dell'aiuto di Mosca, attraverso un ponte aereo che, via Tashkent e


Dushanb, faceva arrivare a Kabul e nei pi importanti centri di
provincia alimentari, munizioni e pezzi di ricambio. Ma, con la fine
dell'URSS e l'arrivo al potere, in Russia, di Boris Eltsin, Najibullah
aveva dovuto rendersi conto abbastanza in fretta che l'ultimo
appoggio stava esaurendosi e altri non ne sarebbero giunti.
L'unica uscita di sicurezza avrebbe potuto essere l'India, a sua volta
estremamente inquieta per la pressione pakistana sul Kashmir e
convinta che, una volta terminata la guerra afghana, legioni di
mujaheddin fanatizzati e assai bene allenati alla guerriglia si
sarebbero trasferiti nello stato conteso. Tra il 1991 e il 1992
Najibullah si rec ripetutamente a New Delhi nella speranza di
ottenere aiuto militare e alimentare. Ma il governo di Narasimha Rao
non era in condizione di svolgere, da solo, un ruolo di supplenza
dell'URSS che evaporava. L'India fu ripetutamente tentata di agire
copertamente a sostegno di Najibullah, ma la mancanza di vie di
comunicazione dirette, e la visibilit eccessiva di un ponte aereo,
sconsigliarono il governo di New Delhi dal procedere. Infine non va
dimenticato che l'India di quegli anni si trovava proiettata suo
malgrado in un gioco politico e diplomatico pi grande delle sue
capacit e dell'esperienza dei suoi leader. Finita l'era dei Nehru, e
finita l'URSS, alla cui ombra protettiva l'India si era affidata nel
ventennio precedente, i nuovi dirigenti indiani avrebbero dovuto
compiere scelte tremendamente impegnative, che non fecero.
Najibullah torn a Kabul, rassegnato e deluso. Lo prova la decisione di
quei mesi di trasferire a New Delhi l'intera sua famiglia.
Il nuovo gruppo dirigente russo mostrava di avere una gran fretta di
liberarsi definitivamente di ogni residuo di influenza su quella
situazione. In primo luogo perch pensava - ed era una valutazione
corretta - che in tal modo si sarebbe ulteriormente assicurato la
benevolenza di Washington. In secondo luogo perch i consiglieri di
Eltsin erano allora fermamente convinti di avere ereditato l'"Impero
del Male", del quale occorreva organizzare la demolizione per
consentire alla nuova Russia di entrare nel novero delle nazioni civili,
dove essa non avrebbe avuto pi alcun interesse nazionale da
difendere perch tutti i suoi desideri sarebbero stati esauditi
dall'"Impero del Bene" prima ancora di essere formulati.
Di conseguenza risultarono del tutto inutili anche gli spasmodici
tentativi di Najibullah per realizzare un compromesso con i "partiti" di
Peshawar, al fine di costruire un governo di coalizione. La sconfitta
appariva inevitabile e, infatti, avvenne nell'aprile 1992. Najibullah non
riusc neppure a fuggire. Sulla strada verso l'aeroporto furono i
distaccamenti dell'uzbeko Ab-dur Rashid Dostum a sbarrargli la
strada. Dostum, che era stato alleato di Najibullah, fu la causa finale
della sua sconfitta e, in ultima analisi, della sua morte. In quel
momento Najibullah si salv cercando scampo nella sede della
legazione dell'ONU, a Kabul. Vi rimase per quattro anni, per essere

impiccato dai taliban appena giunti a Kabul. Avrebbe sicuramente


potuto essere salvato, se le Nazioni Unite lo avessero deciso. Ma
l'ONU non poteva decidere ci che gli Stati Uniti consideravano
inammissibile e la Russia del tutto inutile e secondario.
Nel frattempo le fazioni dei mujaheddin, occupata Kabul e tutto il
Paese, cominciarono a scannarsi vicendevolmente, scomponendo e
ricomponendo alleanze e inimicizie sanguinose in una sequenza
spasmodica e apparentemente patologica. In realt questo epilogo
rivelava, al tempo stesso, tre circostanze: in primo luogo quanto
l'alleanza dei "partiti" di Peshawar fosse stata forzata e imposta
dall'esterno; in secondo luogo quanto poco di "politico" vi fosse in
quell'alleanza e quanto essa fosse costruita su inconfessabili interessi
economici, di diretta derivazione criminale; in terzo luogo quanto gli
interessi esterni che avevano sostenuto il movimento mujaheddin
stessero mutando direzione. Venuti meno quei potentissimi interessi
(o modificatisi i loro vettori), infatti, l'alleanza si sciolse quasi
immediatamente. Tra il 1993 e il 1994 violentissimi combattimenti in
tutte le province, e specialmente nella capitale, avevano contrapposto
il presidente Rabbani (alleato con Ahmad Shah Massud, ministro della
difesa) al primo ministro Gulbuddin Hekmatjar. Quest'ultimo, ancora
appoggiato da cruciali settori dei servizi segreti pakistani, in alleanza
con l'uzbeko Dostum, all'inizio del 1994 scaten un violentissimo
attacco su Kabul. I combattimenti, praticamente senza interruzione,
coinvolsero molti quartieri della capitale, che venne ridotta ad un
cumulo di rovine. Questa situazione, con alterne vicende, si protrasse
fino al 1996.
Cambio dei vettori strategici
Dietro le quinte c' la spiegazione. Una spiegazione che affonda le sue
radici negli anni 1988-1989, quando gli Stati Uniti avevano gi
cominciato a comprendere che la loro guerra afghana era ormai
avviata a concludersi con una clamorosa vittoria. Era solo questione
di tempo. In Unione Sovietica il dibattito sull'errore Afghanistan era
cominciato, seppure in forma criptica, nel vertice del PCUS. Qualcosa
filtrava all'esterno, e quello che filtrava lasciava intravedere una
scarsa volont sovietica di restare a tutti i costi nel pantano di Kabul.
ben vero che in quegli anni nessuno, nemmeno a Washington,
poteva immaginare la fine dell'URSS, ma altrettanto vero che, con
l'approssimarsi della vittoria, gli Stati Uniti cominciarono a prefigurare
la situazione che ne sarebbe seguita, in Afghanistan, nel Pakistan, in
tutta la regione. Fu in quel momento che la percezione degli interessi
strategici cominci a mutare in quasi tutti i protagonisti esterni
all'Afghanistan.
A Washington, in primo luogo, dove l'aiuto ai mujaheddin rallent
bruscamente. Un conto, infatti, era stato usare i mujaheddin nella
guerra santa contro l'infedele sovietico; un altro conto - si calcol
nella capitale americana - sarebbe stato avere a che fare con un

regime dei mujaheddin che minacciava di estendere l'area del


fondamentalismo islamico. D'altro canto l'allora presidente del
Pakistan, Zia ul-Haq, e il potentissimo capo dell'isi (Inter-Services
Intelligence), generale Akhtar, avevano puntato su Gulbuddin
Hekmatjar come futuro capo del governo afghano, una volta cacciati i
sovietici e liquidati i loro amici a Kabul. Tra i tanti, possibili gestori
della vittoria, Hekmatjar era, senza dubbio, il pi fanatico e
integralista. Non sarebbe stato difficile pronosticare un futuro difficile
delle relazioni tra lui e i protettori occidentali. Ma l'obiettivo di Zia ulHaq era quello di installare a Kabul un governo pi che amico del
Pakistan, del tutto subalterno ai suoi interessi. Ci avrebbe consentito
a Islamabad, tra l'altro, di imporre un definitivo regolamento dei
problemi di frontiera in senso favorevole al Pakistan. Problemi sempre
rimasti aperti dal momento in cui i colonialisti inglesi se ne erano
andati dopo avere tracciato sulle carte la famigerata "Linea Durand",
che tagliava in due il
territorio abitato dalle trib pushtun,
lasciandone una grossa parte in territorio pakistano. Un Afghanistan
soggetto e subalterno avrebbe permesso a Islamabad di disinnescare
per lungo tempo la spinosa questione del Pushtunistan, sempre
presente, in forme latenti o esplicite, nei rapporti tra Pakistan e
Afghanistan.
Anche Zia ul-Haq ragionava cio strategicamente, ma ponendo in
primo piano i propri interessi nazionali. Il Pakistan, una volta
copertosi le spalle, mettendo al riparo il versante occidentale dei suoi
confini, avrebbe potuto dedicare tutte le sue attenzioni alle frontiere
orientali, all'India, vicino ben pi potente dell'Afghanistan, con il quale
le controversie territoriali avevano assunto, per ben tre volte dal
momento dell'indipendenza, la forma di guerre sanguinose. Inoltre,
uno stato islamico amico a Kabul avrebbe consentito di mantenere
una pressione (sunnita) sul vicino Iran (sciita), divenuto nel
frattempo la bestia nera degli Stati Uniti. In tale modo Islamabad quale protettore dell'Afghanistan ancora utilizzato come frontiera
avanzata di un potenziale conflitto - si aspettava consistenti afflussi di
aiuti economici e militari dall'Occidente anche dopo la fine della
guerra contro i sovietici. Infine, guardando a nord, uno stato islamico
a Kabul avrebbe permesso di tenere sulla difensiva, in modo
permanente, l'intero ventre molle centro-asiatico dell'Unione
Sovietica.
In parte, com' chiaro, questi progetti pakistani coincidevano (erano
stati coincidenti) con quelli degli Stati Uniti. L'eccezionale sforzo
americano a sostegno della Jihad non sarebbe stato possibile se non
vi fossero stati questi calcoli. Tuttavia, a partire dal 1991, il quadro
politico
che
andava
definendosi
a
Islamabad
assunse
progressivamente contorni non pi coincidenti (o sempre meno
coincidenti) con gli schemi statunitensi abbozzati per il futuro della
regione. In primo luogo - come si detto - perch un governo
islamico estremista a Kabul avrebbe raddoppiato il contagio

fondamentalista rappresentato da Teheran. E l'Afghanistan sarebbe


stato una formidabile piattaforma superarmata, pullulante di guerrieri
usciti da una prova decennale, impiegabili - ove la situazione fosse
sfuggita di mano - su tutti i fronti del mondo in cui l'Islam era in
frizione con l'Occidente e con l'America in particolare.
D'altro canto in quel momento Washington - dopo avere in-flitto una
bruciante sconfitta a Mosca - non era pi molto interessata a ulteriori
rimescolamenti nell'area. Solo in seguito, con la fine dell'URSS, gli
appetiti vennero crescendo, moderati comunque dall'esigenza di non
disturbare pi del necessario l'alleato americano del Cremlino: il
presidente Eltsin. In terzo luogo l'America non era molto interessata a
un Pakistan - gi molto impegnato in un programma di armamento
nucleare - troppo forte e aggressivo nei confronti dell'India (su cui
influenti circoli economici statunitensi contavano di poter agire
efficacemente per sostituirsi alla declinante egemonia sovietica prima
e russa poi).
probabilmente per il confluire di questi fattori che l'appoggio
americano alla Jihad mut d'intensit e vettore dal momento in cui
Mikhail Gorbaciov cominci il ritiro dall'Afghanistan. E fu sicuramente
questa un'altra delle ragioni che permisero a Najibullah di resistere
per ben tre anni, con le sue sole forze sul campo di battaglia, alla
pressione dei mujaheddin. In ogni caso fu evidente, a tratti, che
Washington non sarebbe stata contraria, dopo la sconfitta sovietica, a
una soluzione di compromesso moderato per un futuro governo di
Kabul. Magari richiamando re Zahir Shah dal suo lungo esilio romano.
Di ci, all'epoca, si parl molto. A ci, molto significativamente, aveva
accennato Gorbaciov in un'intervista concessa a l'Unit nel 1987.
Fatto sta che il braccio di ferro tra Washington e Islamabad divenne
visibile. in questo contesto che avviene il disastro aereo in cui
persero la vita il presidente Zia ul-Haq, il generale Akhtar e,
disgraziatamente, anche l'ambasciatore americano e l'attach militare
USA a Islamabad. Evento tragico e misterioso, le cui cause restarono
per lungo tempo ignote. Fino a che una spiegazione - tanto
inquietante quanto interessata - venne fornita dal "brigadiere"
Mohammad Yusaf, il vero comandante in capo della guerra afghana,
agente dell'ISI che coordin per anni, direttamente e sul campo, i
partiti di Peshawar, distribu loro le armi, prepar i piani operativi,
istru capi e ufficiali dei mujaheddin e impart tutte le pi importanti
direttive strategiche. Nel suo libro, pressoch sconosciuto in
Occidente, scritto assieme al giornalista Mark Adkin (The Bear Trap,
Jang Publisher, Lahore 1993), Yusaf accus la CIA di avere
organizzato l'attentato (con l'aggiunta di un possibile coinvolgimento
del KGB e del KHAD, il servizio segreto di Najibullah).
Si spiegherebbe con queste considerazioni politico-strategicospionistiche la durissima sconfitta subita da Hekmatjar a Jalalabad nel
1992, poco dopo la caduta di Najibullah, ad opera delle forze
congiunte di Rabbani e Massud. Il rovescio di Hekmatjar va

interpretato come un rovescio di quei circoli dirigenti pakistani che


continuarono a seguire la linea di Zia anche dopo la sua morte. Circoli
- va detto qui - che hanno continuato a determinare la politica
pakistana nei confronti dell'Afghanistan indipendentemente dai
governi e dai presidenti che si sono succeduti a Islamabad, e che
ancora oggi continuano a determinarla. I loro interessi, come
vedremo, hanno una valenza strategica anche d'altro genere, ma non
meno importante di quelle fin qui descritte.
La partita globale
La Russia e l'Asia centrale ex sovietica
Resta il fatto che, sebbene il disegno di questi circoli pakistani
(economici e militari) fosse stato sventato, nemmeno altri disegni, pi
consoni agli interessi strategici statunitensi in via di evoluzione,
poterono essere portati a termine. Negli anni 1992-1996 la guerra
afghana, ormai senza sovietici, ormai senza Naji-bullah, produsse pi
distruzioni e non meno vittime, civili e militari, di quelle che erano
state registrate nel periodo dell'intervento sovietico (1979-1989).
Mentre all'interno i capi guerrieri si scontravano, massacrando la
popolazione civile, all'esterno nessuna ricerca di soluzioni politiche era
visibile. Kabul fu ridotta a un ammasso di rovine mentre il mondo
intero "dimenticava" semplicemente l'esistenza dell'Afghanistan, a
riprova che il sistema mediatico mondiale risponde, in ultima analisi,
a precise leggi. La prima delle quali impone di cancellare il pi in
fretta possibile le tracce dei misfatti compiuti, degli inganni perpetrati
ai danni dell'opinione pubblica mondiale o degli errori di valutazione
commessi, magari in buona fede. Infatti, contrariamente a quanto era
stato sostenuto dalla propaganda occidentale durante l'occupazione
sovietica (e cio che tre milioni di afghani erano in fuga dalle brutalit
sovietiche e che, quando fossero quelle terminate, tutto sarebbe
tornato normale), i profughi afghani non tornarono in patria dal
Pakistan e dall'Iran una volta cacciati i sovietici. Pi precisamente:
una parte dei profughi cominci a tornare, ma altre centinaia di
migliaia, per sfuggire alla guerra, alla fame, continuarono ad
attraversare i confini in senso opposto. Insieme ad essi l'immenso
arsenale di armi, quelle lasciate dai sovietici e quelle fornite da Stati
Uniti, Cina, Arabia Saudita, Egitto, Turchia, cominci a dilagare, come
una mostruosa macchia d'olio, all'interno dello stesso Pakistan, per
poi distribuirsi lungo tutte le direttrici del terrorismo mondiale.
in questo contesto strategico che l'Afghanistan, ormai devastato e
sull'orlo di una completa disintegrazione, torn improvvisamente a
farsi importante per i grandi manovratori delle trame del potere
mondiale. Se si prende come riferimento il 1993, si vede subito che
molti - la gran parte - dei termini di riferimento del quindicennio
precedente erano ormai scomparsi o si ripresentavano profondamente
mutati. Ma una serie di fattori nuovi tornarono ad assegnare

all'Afghanistan un grande ruolo nella partita globale. Cerchiamo di


vederli pi in dettaglio.
In primo luogo nel 1993 la sparizione dell'Unione Sovietica ormai un
dato accertato e irreversibile. Evento non previsto da alcuno, n a
Washington, n a Islamabad, n a Rijad, n a Pechino, n a Mosca. Al
posto dell'URSS si affacciano ora sui confini afghani del nord tre
repubbliche ex sovietiche: Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan. Altri
due nuovi stati emersi dall'URSS si trovano appena pi a nord:
Kazakhstan e Kirghizia. I circoli dirigenti di questi Paesi parlano la
lingua russa. Sono moderni, nel senso della modernit portata in Asia
dal potere sovietico. Sono laici e atei sebbene siano stati - negli anni
del potere sovietico - alla guida di Paesi a grandissima maggioranza
islamica. Non sono democratici ma guardano all'Occidente e, in primo
luogo, agli Stati Uniti d'America. Vorrebbero divenire luogo d'approdo
dei capitali americani. Non hanno, in generale, alcuna simpatia n per
il Pakistan, n per la Cina, n per l'Iran. Alla Russia restano legati
solo dalla tradizione e da concreti, imprescindibili interessi immediati
dovuti alla vicinanza e alla similarit delle strutture economico-sociali
ereditate dal sistema sovietico. evidente che essi temono il
fondamentalismo islamico che - tenendo conto delle desolanti
condizioni economiche in cui si trovano - potrebbe fare breccia nella
provincia contadina rimasta orientale e religiosa. Logico che
Dushanb, Tashkent, Ashgabat, insieme alla capitale della Kirghizia,
Bishkek, e alla nuova capitale kazaka, Astana, siano inquiete per le
manovre di Islamabad. Ai loro confini meridionali continuano a
risuonare rumori di guerra e canti ad Allah.
Tutte queste repubbliche - ad eccezione del Turkmenistan di
Saparmurad Nijazov - trovano dunque un'abbastanza spontanea
convergenza con Mosca nel cercare di fronteggiare il pericolo che
viene dal sud, dalla frontiera afghana. ben vero che in quella fase la
Russia - con un presidente (Eltsin), un capo del governo
(Cernomyrdin) e un ministro degli esteri (Kozyrev) del tutto privi di
una qualsivoglia idea degli interessi nazionali russi - non in grado di
esprimere alcuna politica estera nell'area. Ma la pressione delle
repubbliche ex sorelle, incapaci di fronteggiare da sole l'eventualit di
minacce pi serie, convincer il Cremlino a istituire un sistema di
sicurezza collettiva, che porter alla creazione di una forza armata di
25 mila uomini (la gran parte dei quali russi) sulla frontiera tagikoafghana.
Tuttavia ciascuno di questi nuovi stati fu costretto a guardare
piuttosto al proprio interno, alle prese con i problemi di una confusa
transizione economica e con quelli non meno spinosi dell'installazione
al potere di nuove lites dirigenti. Si spiega cos l'assenza di
consistenti iniziative politico-diplomatiche - meno che mai militari per incidere sulla situazione afghana. Nello stesso tempo ciascuna
delle ex repubbliche sovietiche si rendeva perfettamente conto che un
Afghanistan in guerra, dilaniato, lacerato, costituiva per ciascuna di

esse e per il loro insieme un ostacolo allo sviluppo dei loro traffici con
l'oriente, con il mare, con i grandi mercati del Pakistan, dell'India, del
sud-est asiatico. Tutte desiderose di entrare in contatto con l'area del
dollaro, le ex repubbliche sovietiche dell'Asia centrale si trovavano,
loro malgrado, costrette ad appoggiarsi ad una Russia in crisi, povera,
senza futuro. A una Russia, per giunta, neghittosa, inconcludente,
che spesso si presentava pi come concorrente nella "corsa all'ovest",
che come temibile polo d'attrazione per una ricomposizione della
vecchia Unione Sovietica. Tutte prive di sbocchi marittimi, si
vedevano costrette a usare quelli russi e lontani, mentre avrebbero
potuto puntare con le loro merci future direttamente su quelli, pi
vicini, dell'Oceano Indiano.
Aspirazioni - si pu dire - del tutto reciproche, coinvolgenti tutti i
Paesi attorno all'Afghanistan. I primi a dare segnali furono proprio i
pakistani, che s'impegnarono in fitti contatti con le ex repubbliche
sovietiche volti ad una sollecita riapertura della via di terra attraverso
l'Afghanistan. L'episodio simbolico ricordato all'inizio, del convoglio di
merci "liberato dai taliban", illustra il disegno di Islamabad di
presentarsi verso gli stati dell'Asia centrale ex sovietica come
liberatrice della via dei traffici e garante della loro sicurezza. Mossa
tanto pi importante e significativa dal momento che Teheran - in
questo con l'assenso tacito di Mosca - aveva cominciato a firmare una
serie di accordi di transito con la maggior parte delle repubbliche
della Comunit di Stati Indipendenti (CIS, questo fu il nome dato
all'insieme di stati emerso dal crollo sovietico). Si delineava cos una
via alternativa ai traffici dell'Asia centrale, attraverso l'Iran (porto di
Bandar Abbas) e verso l'India, cio verso un mercato che poteva
fruire della lunga tradizione di contatti indo-sovietici.
Gli Stati Uniti e l'Arabia Saudita
Questa alternativa apparve estremamente pericolosa in tutta una
serie di capitali cruciali. A Washington innanzitutto. L'Iran era ancora
in quel momento il nemico principale. Consentirgli il controllo delle vie
di traffico avrebbe significato conseguenze negative, anzi pericolose,
in tutte le direzioni: dalla riduzione potenziale dell'influenza
statunitense sugli stati della CIS, alla minaccia di un controllo iraniano
dei flussi petroliferi dal bacino del Caspio verso gli utilizzatori
occidentali, alla riduzione degli spazi di manovra sia verso l'India sia
verso la Russia (connivente con il piano di Teheran). E l'elenco dei
rischi potrebbe allungarsi. Si sarebbe trattato, per Washington, di una
vera e propria dbcle strategica.
Anche per l'Arabia Saudita il colpo sarebbe stato durissimo. L'Iran
degli ayatollah si era gi presentato da tempo come leader del mondo
islamico. Una delle ragioni dell'aiuto saudita alla Jihad dei mujaheddin
contro l'Unione Sovietica era stata la necessit di rigenerare la
propria immagine (lesionata dall'alleanza con il grande infedele
americano) agli occhi delle masse islamiche del mondo. L'ipotesi,

costruita nel corso di tutti gli anni Ottanta, di contrapporre all'Islam


sciita di Teheran un altro regime islamico sunnita, anch'esso
fondamentalista, ma controllabile con i possenti capitali di Rijad, era
fallita tra le macerie di Kabul. E l'Iran appariva in grado,
potenzialmente, di mettere le mani sui proventi del grande fiume di
nuovo petrolio che si apprestava a sgorgare dai pozzi del Caspio.
Sotto questo profilo Stati Uniti e Arabia Saudita si riscoprivano alleati
d'acciaio.
Il Pakistan e l'oppio
Terzo e ultimo dei colpiti da questa eventualit era - e non c' da
stupirsene alla luce delle considerazioni fin qui svolte - il Pakistan.
Anch'esso per pi ragioni, una delle quali fino a questo momento
appena sfiorata e che merita una trattazione pi dettagliata: il
controllo della via della droga, in particolare dell'oppio, cio
dell'eroina. Secondo i dati forniti da Ahmed Rashid (nel suo
fondamentale lavoro Taliban: Islam, OH and th New Great Game in
Central Asia, I.B. Tauris, Londra 2000), tra il 1992 e il 1995
l'Afghanistan produsse da 220 a 240 tonnellate di oppio all'anno,
rivaleggiando con Burma per il primo posto mondiale nella produzione
di oppio grezzo. Per avere un'idea della portata di questo business
basti tenere conto che - secondo i dati dell'UNDCP (programma delle
Nazioni Unite per il controllo della droga) - il contadino coltivatore
ricavava meno dell'1% del profitto totale. Un altro 2,5% restava - in
Afghanistan e in Pakistan - nelle mani dei primi intermediari-gestoriraccoglitori della produzione. Un altro 5 % veniva distribuito lungo il
percorso attraversato dall'eroina verso i mercati occidentali. Il resto,
cio il 91,5%, andava ai venditori su questi mercati, cio ai grandi
centri della criminalit organizzata nel mondo civilizzato.
Quanto vale quell'I % che rimane annualmente nelle tasche di circa
un milione di contadini afghani? Secondo l'UNDCP, 100 milioni di
dollari. Cio, per quelle famiglie contadine, significa un cospicuo
reddito annuo di 10.000 dollari. Ma se queste cifre sono realistiche,
allora altri panorami si aprono ai nostri occhi. Negli anni che stiamo
esaminando l'Afghanistan forniva alla criminalit organizzata
mondiale la fantastica cifra di 9,15 miliardi di dollari all'anno di profitti
netti. I restanti 850 milioni di dollari circa, in base a questi calcoli, si
fermavano quasi tutti in Pakistan. Rashid aggiunge una significativa
notazione. Inizialmente era il Pakistan il maggior produttore mondiale
di oppio. Poi la guerra afghana e la possibilit di agire indisturbati su
un territorio sconvolto dalla guerra, unita alla necessit di finanziare
l'armamento dei mujaheddin senza incidere troppo sui controllati
bilanci statali, fin per far trasferire nel territorio afghano le
piantagioni di oppio. Scrive Ahmed Rashid nel volume citato: "Un
immenso commercio di narcotici si svilupp sotto l'ombrello
legittimante della linea di forniture d'armi organizzata dalla CIA e
dall'ISI [...] Come in Vietnam, dove la CIA scelse di ignorare il traffico

di droga delle guerriglie anticomuniste che finanziava, cos in


Afghanistan gli Stati Uniti scelsero di ignorare la crescente collusione
tra i mujaheddin, i trafficanti pakistani di droga e settori
dell'esercito".
Si pu facilmente immaginare che cosa abbia prodotto, lungo due
decenni di indisturbati traffici, sull'economia di un Paese ancora
largamente sottosviluppato come il Pakistan, gi percorso dalla
corruzione, un tale impressionante afflusso di denaro criminale. Il
narcodollaro ora padrone incontrastato dell'economia, della politica
e della societ pakistana. E, affinch non si perda di vista il quadro
generale, sar utile ricordare che il Pakistan oggi una potenza
nucleare. Ma, tornando al tema, si vede dunque perch il problema
principale dei circoli che contano a Islamabad fosse quello di
mantenere il controllo delle arterie attraverso cui la preziosa merce
fluiva e fluisce. Anzi di fluidificarle al massimo in tutte le direzioni.
Dalla provincia di Helmand, dove si produce quasi la met dell'oppio
afghano, o dalla regione di Kandahar, tra le pi fertili, verso sud,
verso il deserto del Balucistan, verso i porti della costa pakistana di
Makran. Oppure verso l'Iran, con obiettivo Turchia; oppure verso
Herat e il Turkmenistan dai confini gi resi trasparenti e quieti, lontani
da occhi indiscreti.
Le vie del petrolio
Ecco dunque, di nuovo, spiegato perfettamente il gesto simbolico del
convoglio "liberato" dai taliban nel 1994. Il segnale da Islamabad era
chiaro: saremo noi a riaprire quelle rotte terrestri. Saremo noi a
controllarle. Essendo ovvio che sotto quelle camicie, quelle medicine,
quei generi alimentari si nasconderanno merci ben pi costose e ben
pi redditizie. Qui gli interessi di Pakistan e Arabia Saudita
collimavano. Molto meno collimavano quelli di Pakistan e Stati Uniti,
impegnati con la mano sinistra della DIA (Drug Intelligence Agency) a
disfare - senza ovviamente riuscirci - quello che la mano destra della
CIA aveva lungamente tessuto. Ma le cose sono spesso pi
complicate di quanto appaiono. In quegli stessi anni confusi diverse e
contrastanti politiche s'intrecciavano nell'area. Il che non dovrebbe
stupire date le molteplici evoluzioni in corso di tutti i protagonisti.
A dare la spinta a diverse evoluzioni furono le grandi riserve di
petrolio e di gas che venivano emergendo dalle prospezioni attorno
alle rive e nei fondali del Mar Caspio e nel suo off-shore. Fino al 1991
mare quasi interamente sovietico - unica riva "estranea" quella
dell'Iran -, improvvisamente esso divenne oggetto di interessi
molteplici e potenti. ben vero che le prime valutazioni davano
riserve sotterranee fantastiche, tali da fare impallidire perfino la
potenza dell'Arabia Saudita e dell'Iraq messi insieme, mentre
successivamente esse vennero ridimensionate. Ma il potenziale
energetico dell'area restava enorme. E ovviamente tutte le grandi
compagnie petrolifere del mondo non tardarono a mettere gli occhi

sul possibile bottino. I primi a giungere sul posto erano stati quelli
della Chevron che, fortemente sostenuti dal governo americano allora molto impegnato a corteggiare il presidente kazako Nursultan
Nazarbajev -, erano riusciti ad aggiudicarsi, in joint venture con altri,
il grande giacimento di Tenghiz. Ma molte cose erano ancora incerte e
il terreno mobile e sdrucciolevole. Si trattava infatti non soltanto di
tirare fuori gas e petrolio, ma soprattutto di risolvere il problema della
sua destinazione sui grandi mercati mondiali. E le infrastrutture
mancavano. Si dovevano costruire gasdotti e oleodotti. Dove farli
passare? Ogni scelta implicava problemi complessi e valutazioni
dense di implicazioni politiche, diplomatiche, strategiche.
Il primo ad affacciarsi concretamente ai confini afghani, con i suoi
capitali, per un privato: l'italo-argentino Carlos Bulgheroni,
presidente della Bridas, una compagnia petrolifera argentina.
Bulgheroni intuisce, con grande perspicacia imprenditoriale, che il
Turkmenistan la chiave di volta per aprire il rubinetto del Caspio e
far fluire tutto quel ben di dio verso il Golfo Persico. Bulgheroni
ottiene da Nijazov, da poco insediatesi al comando, prima i diritti di
estrazione del giacimento turkmeno di Yashlar, vicino al confine
afghano, prendendosi il 50% e lasciando la met restante al governo
turkmeno. Una seconda concessione, ancora pi lucrosa, la ottiene
con il giacimento di gas e petrolio di Keimir. Qui il presidente del
Turkmenistan, assetato di capitali, gli concede addirittura il 75% dei
futuri introiti di sfruttamento. La Bridas, nel frattempo, cerca di
mettere insieme gli interessi turkmeni, quelli pakistani e quelli
americani. La Russia, assente come su tutto il resto, non viene
nemmeno presa in considerazione. Nijazov, del resto, non ha fatto
mistero che Mosca deve restare fuori dal gioco. Anzi questa la
condizione sine qua non, che gli americani accolgono pi che
volentieri. Loro vogliono che la Russia perda la sua presa residua
sull'area; Nijazov non vuole ritorni di fiamma sovietici che minaccino
la sua indipendenza e il suo potere di satrapo assoluto. Tra il 1991 e il
1994 si fa strada un progetto di pipeline che, attraverso l'Afghanistan,
da Yashlar potrebbe portare gas e petrolio fino a Sui, in Balucistan,
centro di stoccaggio delle riserve energetiche pakistane e punto di
partenza della rete pakistana di sistemi di trasporto energetico, sia
per l'interno sia verso la costa.
In Afghanistan in quegli anni infuria la guerra tra mujaheddin e
Bulgheroni incontra tutti i capi guerrieri delle diverse fazioni. Corre a
Herat per vedere Ismael Khan; vola a Kabul per farsi ricevere da
Burhanuddin Rabbani e Massud; fa la spola con Mazar-i-Sharif per
consultarsi con l'uzbeko Dostum; a Kandahar parla con Mohammad
Omar, capo dei taliban. A tutti promette dividendi cospicui, e chiede
loro di garantire che la costruzione dell'oleodotto non sia impedita e
che, una volta terminata, i capi s'impegnino a non farlo diventare
oggetto di dispute e di ricatti. Un parallelo lavorio diplomatico segreto
viene tessuto tra le capitali turkmena e pakistana. Il costo

dell'operazione alto. Occorrono altri capitali. Per questo Bridas offre


ad altre compagnie petrolifere (che opereranno sul e attorno al
Caspio) il futuro accesso alla pipeline. Tra queste si fa largo Unocal
(dodicesima per importanza compagnia petrolifera statunitense), il cui
consulente principale nientemeno che Henry Kissinger.
Un'occhiata al calendario: siamo ormai all'inizio del 1995. La
situazione militare in Afghanistan resta estremamente turbolenta e
confusa. I taliban sono all'offensiva ma una loro vittoria ritenuta da
tutti improbabile. Nel marzo di quell'anno Benazir Bhutto, allora
premier pakistano, e Saparmurad Nijazov firmano un memorandum
che autorizza finalmente Bridas a redigere uno studio operativo per
l'oleodotto Yashlar-Sui. il punto pi alto del successo di Carlos
Bulgheroni, ma anche il suo definitivo capolinea. A questo punto
qualcosa succede a Ashgabat e a Washington. L'arrivo sulla scena
della Unocal ha cambiato il quadro. Nijazov fa i suoi calcoli e conclude
che per lui molto pi conveniente coinvolgere direttamente gli Stati
Uniti nei progetti turkmeni. Bridas non ha nessuno alle sue spalle,
Unocal ha il presidente Bill Clinton. A Washington, nel frattempo, la
linea moderata che aveva teso a privilegiare come interlocutori
principali
nell'area
Nazarbaev
del
Kazakhstan
e
Karimov
dell'Uzbekistan perde colpi a vantaggio della lobby petrolifera, che
vuole assicurarsi da subito i maggiori vantaggi petroliferi. La prima
linea, impersonata da Strobe Talbott, cercava di non sollevare troppa
irritazione al Cremlino, accettando implicitamente di considerare
quell'area ancora come "cortile di casa" della Russia. La seconda
tendeva al fatto compiuto e a ottenere una dichiarazione formale che
avrebbe posto l'intera area ex sovietica nell'ambito di quelle
considerate vitali per la sicurezza degli Stati Uniti.
Cos, nell'ottobre 1995 Nijazov lascia di stucco Bridas e firma due
contratti con Unocal (che, a sua volta, associa Delta Oil Company, di
propriet della famiglia reale saudita). Il primo per un gasdotto da
Daulatabad (Turkmenistan) a Multan (Pakistan) di nuovo attraverso
l'Afghanistan. Il secondo per un oleodotto lungo 1050 miglia, che
porterebbe il petrolio di tutta l'Asia centrale da Chardzhou
(Turkmenistan) alla costa pakistana del Golfo Persico. Un progetto
"storico" in cui Unocal coinvolge anche Gasprom (10%), Delta Oil
(15%) e l'impresa di stato turkmena Turkmerosgaz (5%).
Investimenti complessivi previsti per 4,7 miliardi di dollari. Nella
presentazione del progetto viene scritto esplicitamente che "uno dei
maggiori ostacoli alla sua realizzazione l'instabilit politica in
Afghanistan. Ed di fondamentale importanza che venga costruito un
organismo unico capace di rappresentare tutto l'Afghanistan" (Screma
Sirohi, The Telegraph, Calcutta, 11 novembre 1996).
Fatte le necessarie verifiche incrociate si scopre che tutto torna e
tutto si tiene: alla fine del 1995 ciascuno degli attori principali sta
assumendo il suo nuovo posto sulla scena. Il Turkmenistan sembra
poter far fruttare finalmente la sua accorta politica di non ingerenza

negli affari interni afghani. Politica che lo aveva spinto a non prendere
parte al sistema di sicurezza collettiva delle repubbliche della CIS e
che si era sviluppata attraverso una lunga e capillare azione di
contatti diretti con i capi militari afghani, senza badare a etnie e
confessioni, rifiutando asili a questa o quella fazione, ma
accattivandosene i favori con tutti i mezzi a disposizione,
comprandoli, coinvolgendoli. Lungo tutti gli anni sotto esame i 600
chilometri di frontiera comune tra Afghanistan e Turkmenistan erano
rimasti infatti del tutto tranquilli. Nijazov aveva comunque tenuti
aperti, per sicurezza, tutti i canali di comunicazione, inclusi quelli con
l'Iran.
Era stato lui personalmente, nel 1995, a inaugurare la splendente
stazione ferroviaria di Sarakhs, sul confine turkmeno-iraniano, prima
tappa in Turkmenistan della nuova ferrovia, costruita dagli iraniani,
che collega la citt di Meshad, nell'Iran del nord-est, con Ashgabat: la
prima linea di comunicazione ferroviaria mai esistita tra l'Asia centrale
e il sud islamico. Nijazov poteva cos assicurarsi la primogenitura sulle
vie di terra. Per quanto riguardava l'aria, il nuovo e lussuoso
aeroporto di Ashgabat, in costruzione da tre anni, sarebbe diventato,
nelle attese, un centro internazionale tale da rivaleggiare con i mega
aeroporti del Golfo.
Schieramenti inediti
Washington, Rijad, Islamabad, Ashgabat procedono di concerto
almeno per quanto riguarda le vie del petrolio. Si rafforza sul fronte
opposto l'asse Mosca-Teheran-Astana-Dushanb-Tashkent-Pechino. Il
dado tratto. Il mosaico si ricomposto ma le nuove linee di
demarcazione sono molto diverse dalle precedenti. Qualcosa di nuovo
accaduto. E non di poco conto. Teheran divenuta alleata di Mosca,
dopo essergli stata nemica durante l'occupazione sovietica. La stessa
cosa vale per Pechino e rappresenta un mutamento gigantesco.
Sull'altro fronte il Turkmenistan di Nijazov si allinea con Washington.
Nello stesso tempo l'operazione di aggancio, che Washington si
proponeva, con le altre repubbliche della CIS risulta clamorosamente
fallita. Mosca torna ad essere, addirittura suo malgrado, protagonista
nel Great Game.
E comunque in quel preciso momento che il progetto pakistano di
prendere il controllo definitivo sull'Afghanistan riceve un assenso implicito o esplicito poco importa - sia da Washington (anche, ma non
soltanto, attraverso gli aiuti di Unocal), sia da Rijad (anche, ma non
soltanto, attraverso Delta Oil). Quella che nel corso degli anni 19931995 era stata la linea relativamente solitria di Islamabad (per
meglio dire: dei circoli militari e dei servizi segreti pi direttamente
legati al commercio della droga), diventa la scelta di uno
schieramento. Gli interessi petroliferi si sposano con quelli della
droga. I taliban, fino a quel momento confinati nel ruolo di copartecipanti alla carneficina afghana, salgono sul proscenio come i

salvatori del Paese, i futuri pacificatori, il nucleo dell'"organismo


unico" che dovr rappresentare tutto l'Afghanistan.
Chi sono i taliban?
ora tempo di tornare su una questione rimasta aperta: chi sono i
taliban? Le altre questioni sono state chiarite dalla dinamica degli
eventi che qui siamo venuti raccontando. Sappiamo ora, senza
possibilit di dubbio, che i taliban sono stati parte di un gioco molto
pi vasto, che ha determinato la loro esistenza e il loro ruolo. Ma
utile capire da dove vengono e come sono stati formati. "Studenti"
sono stati definiti e continuano ad esserlo dalla stampa pakistana.
Studenti del Corano. Studenti pushtun. Reclutati nelle immense
tendopoli attorno a Peshawar, nei campi profughi. Figli di contadini
che non avevano mai conosciuto la luce, il telefono. Vissuti fin dalla
nascita in condizioni assolutamente miserevoli, elementari, brutali,
nelle quali la principale occupazione, a partire dal momento in cui si
comincia a camminare da soli, cercare il cibo per sopravvivere.
Tanti, tantissimi. Su una popolazione di profughi afghani attorno ai 2
milioni, i giovani in et dai 7 ai 18 anni non dovevano essere meno di
150 mila. Un esercito potenziale. Le scuole coraniche, le madrassas,
esercitate da mullah a loro volta ignoranti e fanatizzati dalla Jihad,
esistevano anche prima. L'idea nuova, invero geniale, fu di
trasformarle in centri di formazione decisamente pi complessi e
polivalenti.
Si ritiene che la svolta nell'uso delle madrassas come centri di
reclutamento al tempo stesso ideologico e militare risalga alla fine del
1993. I commercianti di droga si rendevano conto che le rivalit dei
capi guerrieri avrebbero reso sempre pi precari e costosi i trasporti
dell'oppio grezzo attraverso il territorio afghano. E decisero di dotarsi
di una propria "milizia", ben distinta da quelle dei warlords locali, cio
dai mujaheddin. Il reclutamento di migliaia di ragazzi venne facilitato
dall'afflusso di denaro. Nelle madrassas, dove prima si beveva solo t
e si mangiava qualche galletta, cominci ad arrivare cibo in scatola,
scarpe, vestiti.
Dai trecento o quattrocento allievi di una madrassa, - secondo una
testimonianza raccolta da chi scrive - di regola emergono meno di
dieci giovani alfabetizzati. Il resto rimane analfabeta. Le sue
conoscenze del Corano sono limitate a piccoli excerpta imparati a
memoria in una specie di catechesi ossessiva. A questa - che era la
fisionomia delle madrassas tradizionali - si aggiunse l'istruzione
militare. Questa viene impartita nei campi organizzati dall'esercito
pakistano, specie dai corpi speciali e dall'ISI, servizi segreti. Anche in
questo caso si tratta di corsi di formazione accelerata, dove s'insegna
l'uso dei fucili mitragliatori, delle mitragliatrici e dei mortai. Istruzioni
sull'uso di armamenti pi sofisticati vengono impartite solo ai pi
dotati, cui in seguito vengono affidati ruoli di comando sul terreno.
Il comando dei battaglioni resta assegnato ai mullah, ai quali viene

ugualmente impartita una istruzione sommaria di tecniche militari.


Tutto ci confermato dalle esperienze sul terreno. Secondo
numerose testimonianze i taliban subiscono spesso gravi rovesci e
forti perdite umane proprio a causa dell'inesperienza. Si racconta a
Kabul che, dopo ogni grande scontro tra Massud e i taliban,
all'aeroporto scendono decine di aerei cargo senza insegne, dai quali
sbarcano nuovi contingenti di "studenti", pronti per essere mandati al
macello. Sottovalutare la loro forza sarebbe tuttavia un errore.
Innanzitutto i taliban vanno in combattimento con una motivazione religiosa - che manca ormai totalmente ai loro awersari. Essi si
sentono investiti dall'onore di condurre una nuova guerra santa che
"certo condotta contro i fratelli di fede, ma che hanno la grave colpa
di essersi venduti all'infedele" (da una testimonianza raccolta da chi
scrive a Kabul, nell'ottobre 1996). Il carattere mercenario di questo
esercito indubbio, ma gli emolumenti sono miserevoli, sotto forma
di incentivi e di premi per chi partecipa con onore ai combattimenti.
In ogni caso si tratta di cifre molto esigue, attorno ai due dollari al
mese, che rappresentano per quei giovani un balzo verso il benessere
rispetto alle condizioni di partenza, cio prima di entrare nelle
madrassas.
Comunque la ragione delle loro "invincibili avanzate" altra e consiste
in un'accurata programmazione degli interventi non solo militari, ma
anche economici e politici sul terreno, coniugata a sua volta con una
permanente linea di comunicazione tra Kandahar e Islamabad.
HHerald, un importante giornale pakistano, rivel (gennaio 1996)
l'esistenza di due linee telefoniche speciali e segrete, colleganti
Quetta e Lahore a Herat e Kandahar. L'articolo era sarcasticamente
intitolato "Fai il numero di Lahore per parlare con i Taliban". I servizi
segreti pakistani, a loro volta, possono fare tesoro dell'esperienza
accumulata ai tempi della guerra contro l'URSS. I taliban hanno
potuto (non si pu dire se ancora lo possano) in tal modo giovarsi di
tutta la rete di rilevazione, inclusa quella satellitare (concessa dai
servizi segreti americani). Infine - non ultima e, anzi, principale
componente del successo - i taliban e i loro consiglieri pakistani
dell'ISI condussero sul terreno una fitta rete di negoziati con i
warlords locali. A ciascuno, purch si piegasse a un'intesa, evitando il
combattimento, furono offerti importanti incentivi. Non uguali per
tutti. In alcuni casi i capi mujaheddin vennero semplicemente
comprati. Haji Kadir, governatore di Jalalabad, sarebbe stato
conquistato da una valigia contenente 20 milioni di dollari, di cui 15 si
rivelarono poi falsi, stampati in quel di Peshawar dai servizi segreti di
Islamabad. Ma questo solo un episodio. In realt i warlords stanno
comodamente sul territorio e possono pagarsi i loro piccoli eserciti,
imponendo tariffe di transito ai convogli di droga. I taliban offrirono a
ciascuno di loro adeguate percentuali assicurate di partecipazione agli
utili, ovviamente in caso di resa e di accordo senza combattimenti.
Tutto questo lavorio rende assai meglio comprensibile la straordinaria

rapidit dell'avanzata dei taliban a partire dall'ottobre 1995 in avanti.


In molti casi un'avanzata - si noti - realizzata senza significativi
combattimenti. Se si confrontano le date con quelle degli sviluppi
politici che abbiamo prima esposto, si vedr che i conti tornano e che
la guerra si mosse in perfetta sintonia con l'evoluzione politica, anzi
come una sua propaggine, cos come von Klausewitz insegna. Come
si visto,
questa strategia, in primo luogo pakistana, si rivel vincente. Kabul e
gran parte del territorio furono conquistate. E - secondo i dati
dell'UNDCP - la produzione di oppio grezzo salita nel 1997 (un anno
dopo la conquista di Kabul da parte dei taliban) a 2800 tonnellate
(erano 220-240 nel periodo 1992-1995). Affari a gonfie vele. Diverse
volte al mese convogli di possenti Toyota, scortati da mezzi
pesantemente armati, muovono di notte in tutte le direzioni in
partenza dalle provincie maggiormente produttrici: Helmand e
Kandahar. Il traffico ben regolato.
L'Afghanistan affonda
Strategia vincente s ma solo fino ad un certo punto. Il prezzo pi
evidente l'affondamento dell'Afghanistan come stato. I taliban,
custodi della droga, non sono in grado n di governare il Paese, n di
ricostituirlo. Una vera classe dirigente non stata creata. E non si
crea una classe dirigente, in senso lato, spingendo il Paese verso
l'analfabetismo generale e privandolo di ogni struttura di formazione,
com' avvenuto e sta avvenendo. In cinque anni di potere a Kabul i
taliban non hanno ricostruito nulla. un segno impressionante
dell'assenza di progetti. Inoltre anche per il Pakistan attuale questo
Afghanistan diventa, ogni giorno che passa, un problema sempre
maggiore. La droga fiorisce, ma il denaro della droga divenuto il
motore principale dell'intera economia pakistana. E della sua vita
politica. A cinque anni di distanza dalla conquista del potere sono
soltanto tre i Paesi che hanno riconosciuto il nuovo regime: il Pakistan
appunto, l'Arabia Saudita, e gli Emirati Arabi. Un elenco rivelatore,
per le presenze e anche per le assenze. Gli Stati Uniti non hanno
potuto riconoscere il nuovo regime, anche se cercarono di stabilire
subito buoni contatti con esso. Per la semplice ragione che esso,
come tale, impresentabile nel consesso internazionale. E, dunque,
non soltanto perch ospita Osama bin-Laden.
D'altro canto la conquista di quel famoso (e molto dubbio) 90% del
territorio significa che una parte ampia del nord non stata
conquistata. Questa parte, con la valle del Panshir, si spinge fino a
meno di 100 chilometri da Kabul. In queste condizioni non si
costruiscono oleodotti per 5 miliardi di dollari che salterebbero in aria
ogni notte. Il progetto Unocal-Delta Oil rimane irrealizzabile. E lo
splendido, nuovo aeroporto di Ashgabat, inaugurato nel 1996, rimane
chiuso per gran parte del tempo: arrivano ora meno aerei di quanti
ne arrivassero ai tempi sovietici.

Questo Afghanistan, cos com', fa paura a tutti e non piace a


nessuno. Quando i taliban presero Kabul, i Paesi della CIS
convocarono (4 ottobre 1996) un summit d'urgenza ad Alma Ata, per
decidere una linea comune. La Russia, finalmente destata dal suo
torpore, si rese conto che il pericolo diventava grave. Gli altri
convennero. Tutti eccetto Saparmurad Nijazov, che non and al
vertice e si limit a parlare al telefono con Viktor Cernomyrdin. Le
altre repubbliche e la Russia, dilaniata dalla prima guerra cecena,
allora appena terminata con una durissima sconfitta, avevano tutte e hanno ancora oggi - il problema del rapporto con le opposizione
islamiche fondamentaliste. In Tagikistan, la pi esposta al contatto e
al contagio, il dialogo positivo appena cominciato tra governo e
opposizioni islamiche assai intransigenti pu essere drammaticamente
interrotto da un inasprimento militare sulla linea di confine con
l'Afghanistan dei taliban. Per quanto concerne la Kirghizia, non un
mistero che i leader e le basi di addestramento dello Hezb-i-Takh-rir,
o Partito Islamico di Liberazione (PIL), si trovino in territorio afghano
e siano state lasciate, in passato, ampiamente libere di muoversi dai
diversi governi afghani. Era logico attendersi che i taliban avrebbero
aiutato e sostenuto le opposizioni islamiche armate. Come infatti
avvenuto in questi anni. Identica situazione per quanto concerne
l'Uzbekistan di Islam Karimov, dove il Movimento Islamico di
Uzbekistan (Miu), fuorilegge, dispone di importanti retrovie in terra
afghana. I rappresentanti del PIL e del MIU hanno addirittura sedi di
riferimento a Kabul, sebbene esse rimangano fuori dalla vista dei
pochi stranieri, in quartieri residenziali appartati. Ma analoghe
rappresentanze diplomatiche dell'eversione islamica cinese e di quella
cecena sono presenti - se non a Kabul, dove sarebbero troppo visibili
- in altre citt, ad esempio a Kandahar e Herat.
Altrettanto logica la decisione - congiunta e segreta delle repubbliche
ex sovietiche, Russia inclusa - di sostenere la resistenza di Ahmad
Shah Massud. Sostenerla con denaro, armi, aviazione leggera e
sistema d'informazioni. Per lo meno quello che ancora la Russia in
grado di far funzionare. E bastato comunque questo, insieme
all'abilit di Massud e alla inaccessibilit della sua valle, per rendere
impossibile ai taliban la proclamazione della loro vittoria finale. La
retrovia di Massud - ironia della storia - ora quella Dushanb dei
suoi fratelli tagiki che fu retrovia dei sovietici che egli combatt.
comunque questa la resistenza pi importante. Con Massud
combattono piccoli distaccamenti di hazar, nient'altro. Gli altri
capi mujaheddin sono dispersi e mattivi. Ma si contrappone ai taliban,
a nord-ovest, anche l'uzbeko Dostum, la longa manus di Karimov. Ed
egli ancora in possesso di ci che rimase dell'aviazione di
Najibullah. Con queste premesse una vittoria completa dei taliban
del tutto impossibile.
Un regime in agonia

evidente che, per gli Stati Uniti, sostenere il regime dei taliban
ormai divenuto insostenibile. Esso appare, come si visto,
impresentabile e pericoloso. Droga, diritti umani violati, inquietudine
tra i potenziali partner centroasiatici. L'apertura di un discretissimo
dialogo con l'Iran di Kathami dimostra che l'opzione per una
irriducibile ostilit anti-iraniana degli Stati Uniti stava per essere
abbandonata dagli ultimi fuochi dell'amministrazione Clinton (resta da
capire cosa vorr fare quella di Bush junior). Ma nell'ipotesi che una
tale linea continui, Washington avrebbe assai poco interesse a
mantenere in vita un regime fondamentalista islamico a Kabul ostile a
un Iran che si accinge a ripristinare, seppure gradualmente, buoni
rapporti con l'Occidente. Dunque sufficiente tirare le somme:
perdere ogni sostegno a Washington significa la fine per un regime
come quello dei taliban, in una zona di tale importanza nevralgica. In
ogni caso lo schieramento che port i taliban al potere cinque anni fa
non esiste pi.
Prova clamorosa del volgere degli eventi, nel giugno 2001 Mosca
riesce a convincere i cinesi a convocare a Shanghai l'incontro di sei
Paesi centroasiatici, Cina ovviamente inclusa, per discutere a fondo le
forme per contrastare il fondamentalismo islamico nell'area. Nessun
dubbio che la situazione afghana sia stata al centro dei colloqui.
Novit importantissima la presenza di Islam Karimov dell'Uzbekistan,
che negli anni precedenti aveva scelto una linea defilata e molto
autonoma. L'Uzbekistan - premuto da una guerriglia guidata dal
Movimento Islamico - si trova in evidente difficolt e cerca aiuto a
Mosca e Pechino. A sua volta la Cina ha buone ragioni per temere che
gli elementi radicali islamici della minoranza uighur trovino sostegno e
alimento, militare e ideologico, in terra afghana e pakistana.
L'Organizzazione di Cooperazione di Shanghai - questo il nome
conferito ufficialmente alla conferenza - annuncia il costituirsi di
un'alleanza formale anti-taliban sotto l'egida congiunta russo-cinese.
Inoltre, questione lasciata per ultima ma che va assumendo,
nell'approssimarsi del prossimo inverno, proporzioni da tragedia
biblica, l'emergenza umanitaria. Un Paese allo sfacelo e senza
governo alle prese con milioni di persone in fuga dalla fame e dalla
guerra. Gi l'inverno 2000-2001 ha visto morire di freddo e di stenti
migliaia di donne, vecchi e bambini accampati nelle tendopoli in
Pakistan, in Iran, negli stessi territori afghani dove non c' guerra, ma
dove non ci sono neanche pane, acqua e medicine. La comunit
internazionale, rimasta passiva nel suo complesso, non potr ignorare
a lungo questa catastrofe. Tutto ci induce a ritenere non solo che
l'Afghanistan torner - seppure in forme parzialmente ipocrite - sotto
i riflettori dei media mondiali, ma che il regime di Kabul incontrer
difficolt crescenti, assieme ai suoi protettori di Islamabad, gli unici
rimasti a sostenerlo.
Tutto ci non significa necessariamente un suo crollo imminente.
Molte restano le variabili in gioco e i tempi delle crisi orientali sono

lunghi per antonomasia. Ma la distruzione dei Buddha di Bamiyan non


sembra essere stata soltanto un'ulteriore manifestazione di
oscurantismo fanatico. Fosse stata solo questo non si vede perch
attendere cinque anni per fare ci che Maometto, in fondo, avrebbe
imposto di fare subito, fin dal momento in cui i taliban presero il
potere, nel settembre 1996. A molti osservatori quella decisione
apparsa per quello che : un gesto scomposto, rivelatore di una
profonda crisi politica. Ma i tempi di questa crisi possono non essere
compatibili con l'esigenza di tenere assieme uno stato. Sarebbe utile
se la comunit internazionale, preso atto di questo stato di cose,
avviasse un'energica iniziativa politico-diplomatica, capace di
anticipare e scongiurare esiti ancor pi tragici e sanguinosi e atta a
creare le premesse per una reale normalizzazione.
Roma, giugno 2001.

CRONOLOGIA AFGHANA 1973-2001


Dal 1933 al 1973 l'Afghanistan governato dal re Zahir Shah.
Durante la seconda guerra mondiale, il Paese riesce a mantenere
l'integrit nazionale e una difficile neutralit. A partire dagli anni
Cinquanta diventa un protettorato di fatto dell'Unione Sovietica. Kabul
cerca l'appoggio dell'URSS in chiave antistatunitense, per difendersi
da Iran e Pakistan; Mosca considera il territorio afghano un'area
nevralgica per il controllo della via verso il mare Arabico, cio verso il
petrolio. Nel 1964 Zahir Shah approva una nuova costituzione
trasformando il regno in una democrazia con libere elezioni e diritti
civili. Nove anni pi tardi il suo tentativo di allontanarsi dalla sfera di
influenza sovietica e le storiche divisioni tra i vari gruppi etnici e
religiosi del Paese inaugurano un tragico trentennio - ancora non
conclusosi - di scontri sanguinosi e terribili distruzioni.
1973
Luglio. Il re Zahir Shah viene detronizzato da un colpo di stato
organizzato dal principe Mohammed Daud. L'Afghanistan viene
proclamato una repubblica e Daud ne diventa il presidente.
1978
Aprile. Daud viene ucciso. Il Partito Democratico del Popolo Afghano
(PDPA), filosovietico, da il via alla "Rivoluzione d'aprile", che porta
alla nascita della Repubblica Democratica dell'Afghanistan. Al potere
sale Mohammad Taraki, con Babrak Karmal primo vicepremier.
Agosto-dicembre. Le riforme del nuovo regime, volte alla
sovietizzazione e alla laicizzazione del Paese, alimentano il
malcontento di larghi strati della popolazione. Comincia a organizzarsi
la resistenza islamica armata.
1979
Gennaio. Primi scontri nelle regioni orientali del Paese tra le truppe di
Taraki e quelle della resistenza islamica.
Marzo. Scoppia una rivolta popolare a Herat in cui vengono uccisi
alcuni consiglieri sovietici di Kabul. I governativi riconquistano la citt
dopo sanguinosi scontri. Afizullah Amin viene nominato primo
ministro.
A met dell'anno le formazioni della guerriglia islamica, riunite in un
fronte unico di resistenza appoggiato da Iran, Pakistan e Cina,
controllano quasi l'80% del territorio afghano.
10 settembre. Il presidente della repubblica Taraki viene ucciso e il
potere passa nelle mani di Amin. Il PDPA si spacca. L'uRSS, che non
gradisce l'ascesa di Amin e teme un'estensione della ribellione
islamica alle vicine repubbliche di Turkmenistan, Uzbekistan e
Tagikistan, decide di invadere l'Afghanistan.

27-28 dicembre. Truppe dell'Armata Rossa entrano nel Paese. Amin


viene assassinato dai servizi segreti di Mosca e i sovietici installano al
potere Karmal.
1980
Gennaio. Il Consiglio di sicurezza dell'ONU condanna l'invasione
sovietica.
In occasione del tradizionale discorso sullo Stato dell'Unione, il
presidente USAjimmy Carter dichiara che "il tentativo da parte di una
potenza straniera di conquistare il controllo della regione del golfo
Persico sar considerato come un assalto agli interessi vitali degli
Stati Uniti e sar respinto con ogni mezzo necessario, compresa la
forza militare". Gli USA offrono al Pakistan un piano di aiuti economici
e militari per arrestare l'avanzata dell'URSS in Afghanistan.
Luglio. I ribelli afghani si accordano per creare un governo provvisorio
nelle regioni da loro controllate.
Novembre. Con l'adozione della risoluzione 35, l'ONU chiede "Il ritiro
immediato delle forze straniere dall'Afghanistan".
1981
Febbraio. Il segretario generale dell'ONU, Kurt Waldheim, nomina
Javier Prez de Cuellar inviato speciale delle Nazioni Unite in
Afghanistan: l'inizio di un lungo e faticoso lavoro diplomatico che
nel 1988 porter alla firma degli accordi di Ginevra.
1982
11 agosto. Per la prima volta le forze della guerriglia antigovernativa
attaccano Kabul.
1983.
Il numero dei profughi afghani ha raggiunto livelli altissimi: circa 3
milioni e mezzo di persone sono rifugiate in Pakistan, 2 milioni in Iran
e diverse migliaia in India, in Europa e negli Stati Uniti.
Le truppe sovietiche in Afghanistan ammontano ormai a pi di 100
mila unit.
1984.
L'URSS lancia una offensiva estiva contro la guerriglia nella valle del
Panshir.
Il presidente americano Ronald Reagan annuncia che gli USA
forniranno missili Stinger ai ribelli.
1985
Marzo. Mikhail Gorbaciov, neopresidente dell'URSS, lancia segnali di
disponibilit a una soluzione politica del conflitto afghano.
Maggio. I 7 maggiori partiti della guerriglia antigovernativa formano
un'alleanza militare con base a Peshawar.

Luglio. Gli USA cominciano a fornire al Pakistan missili Sidewinder e


Sfinger.
Novembre. Gorbaciov e Reagan si incontrano a Ginevra.
1986
Aprile. Gli USA inviano missili Stinger alle forze della guerriglia. Il
sostegno economico da parte degli Stati Uniti alla resistenza afghana
raggiunge i 470 milioni di dollari. Maggio. Babrak Karmal perde
l'appoggio dell'uRSS e viene costretto a dimettersi. L'ex capo della
polizia segreta, Najibullah, lo rimpiazza alla carica di segretario del
PDPA. Nei mesi successivi i sovietici riportano in patria,
dimostrativamente, 6 reggimenti. Ma a Mosca continua la difficile
discussione se ritirarsi oppure no. Najibullah proclama l'inizio di una
politica di riconciliazione nazionale.
1987
Settembre. Viene approvata una nuova carta costituzionale. Dalla
denominazione ufficiale dello stato viene eliminato l'aggettivo
"Democratica", introdotto ai tempi del controllo sovietico, e il Paese
torna a chiamarsi "Repubblica di Afghanistan".
Dicembre. Najibullah ammette che l'80% delle campagne e il 40%
delle citt sono al di fuori del controllo del governo.
1988
Aprile. Dopo anni di incontri tra il governo afghano, i gruppi ribelli e i
rappresentanti di USA e URSS, sotto l'egida dell'ONU, a Ginevra si
firmano gli accordi per il definitivo ritiro sovietico.
Maggio. L'URSS rivela che 13.310 soldati sovietici sono morti e
35.478 sono rimasti feriti nel corso degli 8 anni di guerra in
Afghanistan. Il 25 maggio inizia ufficialmente il ritiro dell'Armata
Rossa. Ad agosto il contingente sovietico nel Paese gi dimezzato.
Luglio. A Kabul Najibullah forma un governo di coalizione con alcuni
ministri non comunisti.
1989
15 febbraio. Ritiro definitivo delle truppe sovietiche.
Aprile. I mujaheddin, guerriglieri mussulmani, si trasformano
progressivamente in un esercito regolare, organizzato e ben
equipaggiato, al comando di ex ufficiali della Repubblica di
Afghanistan.
1991
Marzo. Guidati dal comandante Jalaluddin Haqqani, i mujaheddin
conquistano Khost, facendo pi di 2000 prigionieri. Nei mesi seguenti,
rafforzano le loro strutture militari e finanziarie, ricevendo supporto
logistico ed economico da Iran e Pakistan.
Novembre. Burhanuddin Rabbani guida una delegazione mujaheddin

a Mosca per discutere di un possibile cessate il fuoco. All'incontro


partecipano anche rappresentanti dell'Ucraina, dell'Uzbekistan, del
Tagikistan e del Kazakhstan. Le parti si accordano per il trasferimento
del potere a un governo islamico ad interim e per lo svolgimento di
libere elezioni entro 2 anni. Alcuni leader mujaheddin, tra cui
Gulbuddin Hekmatjar del partito Hebz-e-Islami, accusano per
Rabbani di cospirazione con Mosca.
8 dicembre. L''uRSS cessa di esistere. Al suo posto nasce la Comunit
di Stati Indipendenti (CIS).
1992
Aprile-giugno. Kabul presa dai mujaheddin. Dopo giorni confusi e
sanguinosi scontri intestini alle forze ribelli, si costituisce un governo
di coalizione sotto la guida di Burhanuddin Rabbani. Vi entrano
rappresentanti dei 7 partiti della guerriglia. Ahmad Shah Massud
viene nominato ministro della difesa.
1993
Aspri combattimenti fra le truppe fedeli a Rabbani e gli uomini di
Gulbuddin Hekmatjar provocano almeno 10 mila morti.
1994
8 gennaio. Il generale uzbeko Abdur Rashid Dostum si allea con
Hekmatjar, suo storico avversario. Insieme attaccano Kabul per
rovesciare il governo di Rabbani e Massud.
30 marzo. Tentativo dell'ONU di mediare tra le fazioni mujaheddin.
L'inviato delle Nazioni Unite, Mehmud Mestiri, incontra a Jalalabad i
membri della Shura, o Consiglio degli Anziani.
12 agosto. Robin Raphel, vicesegretario di stato USA, puntualizza la
posizione americana: "largo governo di coalizione" e ritorno di re
Zahir Shah.
28 ottobre. Il primo ministro pakistano, Benazir Bhutto, incontra ad
Ashkhabad il leader sciita Ismael Khan e Dostum.
4 novembre. Un gruppo di guerriglieri assalta nei pressi di Kandahar
un convoglio di 30 camion pakistani diretto in Asia centrale. Nello
scontro perdono la vita 20 persone. I taliban
(letteralmente "studenti di teologia coranica"} compaiono per la
prima volta sulla scena come gruppo armato che dichiara di
proteggere la libert di traffico e di transito in Afghanistan.
5 novembre. Kandahar viene presa dai taliban: 50 morti in 4 giorni di
combattimenti.
25 novembre. I taliban prendono il controllo di due province del sud,
lashkargarh e Helmand.
1995
1 gennaio. Una colonna di 3000 guerriglieri islamici pakistani parte da
Peshawar per l'Afghanistan e si unisce ai taliban.

2 febbraio. I taliban entrano nella provincia di Wardak, a 25 miglia da


Kabul.
11 febbraio. I taliban prendono anche la provincia di Logar e hanno
ormai 9 province su 30. Rabbani invia una delegazione
per incontrarli.
14 febbraio. I taliban conquistano Charasyab, quartier generale degli
uomini di Hekmatjar. Hekmatjar si ritira senza combattere.
6 marzo. Le fanterie di Rabbani e Massud attaccano le forze dello Shii
Wahdat (hazar), annidate nella periferia sud-ovest della citt di
Kabul.
7 marzo. L'avanzata investe Nimroz, Farah, verso Herat. Un'altra
avanzata dei taliban verso Kabul, mentre le forze delle trib hazar si
ritirano.
13 marzo. Il leader hazar, Abdul Ali Mazari, catturato dai taliban,
muore in un misterioso incidente aereo mentre viene trasferito a
Kandahar. Proseguono intanto gli scontri tra i Taliban e le truppe di
Massud.
31 maggio. Il capo dei servizi segreti sauditi, principe Turld, visita
Kabul e Kandahar.
10 giugno. Tutte le maggiori agenzie umanitarie decidono di chiudere
le loro operazioni di soccorso ai profughi afghani in Pakistan entro
ottobre.
2 luglio. L'inviato personale e nipote di Zahir Shah, Sardar Abdul Wali,
incontra a Islamabad il presidente pakistano Leghari.
3 agosto. Un Ilyushin-7 russo, che i taliban affermano trasportare
munizioni per il governo di Kabul, viene catturato dai taliban e
dirottato su Kandahar.
5 settembre. Dopo mesi di combattimenti, Herat cade nelle mani dei
taliban. Il leader sciita Ismail Khan, luogotenente di Rabbani nella
citt, fugge in Iran. All'ONU, il ministero degli esteri di Rabbani
accusa il governo pakistano di "aggressione diretta" per il sostegno
fornito ai taliban nella presa di Herat.
6 settembre. L'ambasciata pakistana a Kabul data alle fiamme dagli
uomini di Massud. L'Iran mette in guardia i taliban dal varcare la
frontiera.
20 settembre. I taliban inviano un ultimatum di 5 giorni a Rabbani
perch lasci Kabul.
1 O ottobre. I taliban spostano 400 carri armati da Kandahar verso
Kabul.
2 novembre. Il vicesegretario di stato USA, Robin Raphel, arriva in
Afghanistan per colloqui con le diverse fazioni. Andr anche a
Islamabad.
7 novembre. Il ministro degli esteri pakistano, Sardar Aseef Ahrned,
vola segretamente nel nord dell'Afghanistan per un colloquio cruciale
con Dostum. I due concordano che le dimissioni di Rabbani sono la
condizione per il ritorno della pace in Afghanistan.
10-11 novembre. Il premier pakistano, Benazir Bhutto, si reca in

visita d'urgenza a Teheran e Tashkent per spiegare la posizione


pakistana ai due governi.
11 novembre. Attacco con razzi su Kabul: 36 morti e 52 feriti.
26 novembre Bombardamento senza precedenti dei taliban su Kabul:
39 morti e 140 feriti. Le truppe governative riescono tuttavia a
respingere l'offensiva taliban.
1996
7 febbraio. Dostum incontra a Islamabad i leader pakistani, incluso il
capo dello stato maggiore, generale jahangir Karamat.
3 marzo. Rabbani visita l'Iran, il Turkmenistan e l'Uzbekistan.
20 marzo. La Shura dei taliban invita il popolo afghano alla Jihad
(guerra santa) contro il presidente Rabbani. Il maulvi Mohammad
Omar proclamato condottiero dei taliban.
8 aprile. Il senatore americano Hank Brown arriva a Kabul. il primo
rappresentante americano eletto a visitare l'Afghanistan negli ultimi
10 anni.
20 aprile. Robin Raphel visita Kabul per la seconda volta per
convincere le fazioni a un accordo tra loro.
26 giugno. Hekmatjar entra nel governo di Rabbani e ne diventa
primo ministro.
11 settembre. Jalalabad cade sotto il controllo dei taliban. 25
settembre. i taliban conquistano Sarobi e Assadabad.
26 settembre. Da Sarobi i taliban muovono verso Kabul e la
conquistano nella notte. Il presidente Rabbani e il primo ministro
Hekmatjar fuggono. L'ex presidente Najibullah viene impiccato a un
lampione. Mohammad Omar nominato capo di un consiglio
provvisorio formato da 6 membri. Iran, India, Russia e altri Paesi
dell'Asia centrale condannano l'azione. Il Pakistan invia una
delegazione a Kabul.
28 settembre. L'amministrazione americana esprime "rammarico" per
l'esecuzione di Najibullah, ma si dichiara disposta a stabilire relazioni
con il nuovo regime. I taliban intanto continuano ad avanzare verso il
nord del Paese.
4 ottobre. Un summit della CIS, riunito d'urgenza ad Alma Ala
(Kazakhstan), mette in guardia i taliban da eventuali incursioni
nell'area. Il Pakistan conferma il riconoscimento dei taliban.
6 ottobre. Massud respinge un'offensiva dei taliban sulla valle del
Panshir.
9 ottobre. Dostum e Rabbani si incontrano e si abbracciano nei pressi
di Mazar-i-Sharif. Dostum, Massud e Karim Khalili (partito Hezb-iWahadat) siglano un patto di alleanza e costituiscono il Consiglio
Supremo per l'Afghanistan.
24 ottobre. Il maulvi Mohammad Omar dichiara: "Combatteremo fino
alla morte e daremo l'ultima goccia del sangue per Kabul".
2 novembre. L'Organizzazione della Confernza Islamico decide di
lasciare vacante il seggio dell'Afghanistn.

1997
Gennaio. I taliban strappano a Massud la base di Baghram, Charikar e
la cittadina di Gulbahar.
Febbraio. Una delegazione taliban visita gli Stati Uniti.
19 maggio. Il generale Malik Pahlawan insorge contro Dostum e
dichiara di volersi alleare con i taliban.
24 maggio. I taliban entrano a Mazar-i-Sharif, impongono la Sharia
(la legge religiosa islamica) e chiudono le scuole femminili.
26 maggio. Il Pakistan riconosce il governo dei taliban. Falliscono i
colloqui con Malik e ricominciano i combattimenti.
12-15 giugno. Rabbani si incontra con Malik a Mazar-i-Sharif e
l'opposizione antitalibana da vita all'Alleanza del Nord. I
combattimenti nei pressi di Mazar-i-Sharif si susseguono con esiti
alterni fino alla fine dell'anno.
19 luglio. Massud riprende Baghram e Charikar.
7 agosto. La Croce Rossa Internazionale afferma che 6800 persone
sono rimaste uccise negli ultimi 3 mesi.
16 agosto. L'Alleanza del Nord nomina un governo ombra.
4 settembre. Il maulvi Mohammad Rabbani, uno dei massimi dirigenti
taliban, si reca in Arabia Saudita, dove a jeddah riceve promesse di
aiuti da re Fahd. Accusa inoltre Iran, Russia e Francia di aiutare
Massud.
16 novembre. Le truppe di Dostum dichiarano di avere scoperto 30
fosse comuni, nei pressi di Shebarghan, contenenti circa 2000
cadaveri di miliziani taliban.
18 novembre. Madeleine Albright, a Islamabad, definisce
"deplorevole" la politica dei taliban in materia di diritti umani.
17 dicembre. Il Consiglio di Sicurezza dell'ONU condanna i
rifornimenti di armi da parte di eserciti stranieri alle fazioni afghane e
invita le parti a. cessate il fuoco.
1998
Febbraio. Un violento terremoto causa pi di 4000 vittime e danni
ingenti nella regione nordorientale del Paese, al confine con il
Tagikistan. La regione nelle mani delle forze di opposizione al
regime dei taliban.
14 marzo. Intensi combattimenti a Mazar-i-Sharif tra uzbeki e hazar.
17 aprile. Bill Richardson, inviato speciale americano, visita Kabul e
Mazar.
17 maggio. Caccia taliban bombardano pesantemente Taloquan: 31
morti e 100 feriti. Forti combattimenti a nord di Kabul.
3 luglio. Il summit dei 5 Paesi dell'Asia centrale, riunito ad Alma Ata,
fa appello alle parti perch cessino la guerra. 9 luglio. Un aereo
dell'ONU viene colpito da un razzo a Kabul, il maulvi Omar mette al
bando la televisione e annuncia la deportazione dei cristiani e
punizioni per i comunisti.
18 luglio. L'Unione Europea sospende tutti gli aiuti umanitari a Kabul
per le inaccettabili restrizioni cui sottoposto il suo personale.

31 luglio. Leader taliban visitano la madrassa di Dar-ul-Uloom


Haqqania e Akora Khattak in Pakistan, richiedendo urgenti afflussi di
rinforzi.
Cinquemila
studenti
pakistani
partono
alla
volta
dell'Afghanistan per unirsi alle truppe taliban.
7 agosto. Le ambasciate USA in Kenia e Tanzania saltano in aria: i
morti sono centinaia. Gli americani ritengono che il responsabile degli
attentati sia Osama bin-Laden, un miliardario saudita che sostiene
anche finanziariamente i taliban.
8 agosto. I taliban riconquistano Mazar-i-Sharif uccidendo 11
diplomatici iraniani e un giornalista. Massacro di migliaia di hazar.
Altre migliaia in fuga dalla citt.
18 agosto. L'ayatollah Ali Khamenei accusa Stati Uniti e Pakistan di
usare i taliban come strumento anti-iraniano. Il leader talibano Omar
dichiara che i suo governo dar asilo a Osama bin-Laden.
20 agosto. Gli Stati Uniti lanciano 75 missili Cruise sui campi di
Jalalabad e di Khost, che sarebbero al comando di Osama bin-Laden:
21 morti e 30 feriti.
20 settembre. Massud bombarda Kabul con razzi: 65 morti e 215
feriti.
27 settembre. I taliban inviano 30 mila uomini al confine con l'Iran
per fronteggiare imponenti manovre militari di Teheran.
2 ottobre. Aerei e carri iraniani violano lo spazio aereo e terrestre
dell'Afghanistan nei pressi di Herat. La controversia si risolve tuttavia
in pochi giorni con il rilascio dei prigionieri iraniani catturati dai
taliban.
13 novembre. Mohammed Akbari, capo della fazione Hizb-e-Wahadat, si arrende ai taliban a Bamiyan.
1 dicembre. I taliban sparano sugli studenti universitari a Jalalabad: 4
morti e 6 feriti.
29 dicembre. L'UNICEF denuncia il totale collasso del sistema
educativo afghano.
1999
12 gennaio. Grave attentato, a Peshawar, alla famiglia dell'ex leader
dei mujaheddin Abdul Haq.
31 gennaio. La prima delegazione cinese arriva a Kabul per colloqui.
9 febbraio. Il governo di Kabul respinge una lettera formale degli Stati
Uniti in cui si richiede di consegnare Osama bin-Laden. Kabul dichiara
che Osama bin-laden sar sottoposto a restrizioni, ma non
consegnato.
3 marzo. Il ministro degli esteri del Turkmenistan, Sheikhmuradov,
visita per la prima volta Kandahar e viene ricevuto dal maulvi Omar.
7 aprile. Il ministro della difesa russo, Sergeev, incontra Massud a
Dushanb. La Russia annuncia la costruzione di una base militare in
Tagikistan.
29 aprile. Taliban, Turkmenistan e Pakistan firmano un nuovo accordo
per la costruzione di un gasdotto attraverso l'Afghanistan. Mancano i
finanziamenti, ma si dichiara che verranno bene accolti.

14 maggio. Gli Stati Uniti diffidano ufficialmente il Pakistan dal dare


aiuto ai taliban. Washington dichiara nuovamente il suo favore per un
ritorno a Kabul di Zahir Shah, che si trova in esilio a Roma.
22 maggio. I taliban individuano una potenziale rivolta a Herat. Otto
congiurati vengono giustiziati in pubblico. Un altro centinaio di nemici
sono uccisi.
20 giugno. Zahir Shah convoca a Roma 70 delegati afghani per
organizzare una Conferenza degli Anziani (la Loyajirga,
tradizionale strumento istituzionale per risolvere i conflitti interni), ma
i taliban rifiutano la sua mediazione. 6 luglio. Gli USA impongono
sanzioni economiche e commerciali al governo dei taliban e congelano
i loro patrimoni finanziari. I taliban si preparano intanto a un'offensiva
estiva contro le truppe di Massud; migliaia di giovani arabi e pakistani
si uniscono a loro.
1 agosto. Comincia l'offensiva estiva e Baghram cade in mano taliban.
2 agosto. I taliban conquistano Charikar, Massud si ritira nella sua
vallata. Duecentomila persone fuggono dalla valle di Shomali.
5 agosto. Massud riprende Charikar e spinge i taliban sulle precedenti
posizioni: 40 taliban sono uccisi e 500 catturati. 24 agosto. Attentato
vicino alla casa del maulvi Omar a Kandahar: una bomba uccide 40
persone, tra cui alcuni parenti stretti di Omar.
10 settembre. Le Nazioni Unite calcolano che la produzione di oppio in
teritorio afghano si sia raddoppiata, raggiungendo le 4600 tonnellate.
Il 97% delle coltivazioni sotto controllo taliban.
12 ottobre. Un colpo di stato militare in Pakistan rovescia il governo
di Nawaz Sharif.
15 ottobre. Il Consiglio di Sicurezza dell'ONU vota a favore
dell'imposizione di sanzioni contro il regime di Kabul se entro 30
giorni i taliban non consegneranno Osama bin-Laden agli Stati Uniti.
11 novembre. Centinaia di persone scendono in piazza nelle maggiori
citt afghane per protestare contro le sanzioni dell'ONU e chiedere il
sostegno dei Paesi islamici. Contemporaneamente esplode in Pakistan
la protesta antioccidentale degli integralisti islamici, che sfocia in una
serie di gravi attentati.
14 novembre. Le sanzioni dell'ONU diventano operative.
2000
Gennaio. Aereo indiano dirottato a Kandahar.
13 marzo. Un giornale indiano rivela che Osama bin-Laden sarebbe
gravemente malato.
Aprile. Le forze di opposizione al governo dei taliban tentano di
ricostituire l'Alleanza del Nord in funzione antitaliban. I generali
Dostum, Massud e Malik si incontrano grazie alla mediazione dell'Iran.
Maggio. I taliban lanciano un'offensiva a largo raggio contro le forze
dell'opposizione afghana. La ripresa dei combattimenti interrompe il
piano di scambio di 4000 prigionieri approvato nei mesi precedenti e
un preventivato incontro per i colloqui multilaterali di pace,
patrocinati entrambi dall'Organizzazione della Conferenza Islamica.

Secondo i dati ONU la produzione di oppio in Afghanistan ha


raggiunto cifre record, superiori alle 4800 tonnellate. La superficie
coltivata cresciuta del 23%.
11 luglio. Attentato a Kabul contro l'ambasciata pakistana. Altre 5
bombe esplodono nella capitale danneggiando i ministero
dell'informazione, un deposito di carburante e un albergo del centro.
13 luglio. Massud lancia una controffensiva militare, ma la reazione
dei taliban si dimostra pi efficace del previsto. L'ex presidente
Rabbani lamenta lo scarso sostegno all'alleanza antitaliban da parte
della comunit internazionale.
17 luglio. Un'ondata di siccit colpisce le regioni occidentali e
meridionali del Paese. Migliaia di profughi si rifugiano in Pakistan e
Iran.
Settembre. La diplomazia italiana tenta una mediazione tra l'Alleanza
del Nord e i taliban e si impegna a devolvere un fondo di 4 milioni di
dollari da destinare a progetti di sviluppo su entrambi i fronti.
1 ottobre. Una delegazione dei taliban ricevuta a Washington al
Dipartimento di Stato.
Novembre. Dopo una lunga opera di mediazione compiuta dall'inviato
speciale dell'ONU in Afghanistan, Francisc Vendrell, i taliban e
l'opposizione dell'Alleanza del Nord firmano un impegno a partecipare
entro dicembre a una serie di colloqui di pace indiretti. Il 21
novembre, tuttavia, Stati Uniti e Russia chiedono l'inasprimento delle
sanzioni contro i taliban. Le organizzazioni umanitarie mettono in
guardia le Nazioni Unite dai rischi dell'imposizione di ulteriori
sanzioni, che causerebbero soltanto maggiori sofferenze alla
popolazione civile gi duramente provata.
10 dicembre. I taliban minacciano di boicottare i previsti
colloqui di pace.
19 dicembre. il Consiglio di Sicurezza dell'ONU adotta una risoluzione,
sostenuta principalmente da Stati Uniti, Russia e India, per
l'inasprimento delle sanzioni contro l'Afghanistan se i taliban non
consegneranno entro 30 giorni Osama bin-Laden, non smobiliteranno
i campi di addestramento per i terroristi islamici e non cesseranno
ogni commercio illegale di sostanze stupefacenti.
2001
19 gennaio. Entrano in vigore le nuove sanzioni dell'ONU contro il
regime dei taliban.
Febbraio. Un'ondata di freddo causa un terribile disastro umanitario:
muoiono assiderati nei campi, fuori e dentro il Paese, centinaia di
vecchi e di bambini.
20 febbraio. Secondo notizie raccolte da Human Rights Watch, i
taliban avrebbero massacrato oltre 500 civili nell'assalto di
Yakawlang.
28 febbraio. L'ambasciatore di Kabul in Pakistan, Abdul Salam Zaeef,
conferma che il suo governo ha deciso la distruzione dei Buddha di
Bamiyan, capolavori dell'arte ellenistico-orien-tale fiorita nel Paese

prima dell'islamismo.
27 marzo. Un gruppo di giornalisti occidentali ammesso nella valle
di Bamiyan per certificare l'avvenuta demolizione delle statue.
5 aprile. Massud viene ricevuto a Strasburgo.
19 maggio. La polizia religiosa chiude a Kabul le panetterie del PAM
(Programma Alimentare Mondiale) dove lavorano donne.
19 maggio. La polizia religiosa irrompe nell'ospedale di Emergency a
Kabul.
23 maggio. Diventa legge l'ordinanza che impone agli ind di portare
sugli abiti un segno distintivo.

2001 RACCONTI DI UN VIAGGIO IN AFGHANISTAN


di Giulietto Chiesa e Vauro
I reportages, variamente rielaborati, sono apparsi
nel periodo febbraio-maggio 2001 su "La Stampa", "Il Manifesto" e
"Linus"

IL CORAGGIO SOTTO IL BURQA


di Vauro
Islamabad, venerd 2 febbraio 2001. Marian ha 21 anni, i suoi gesti
sono sicuri e pacati. Zoia invece vivace come lo sguardo
mobilissimo dei suoi occhi neri. Eppure il marchio invisibile sui loro
volti impresso indelebilmente nelle loro storie, come una cronologia
della tragedia dell'Afghanistan: il padre di Marian ucciso dai russi
vicino a Kabul al tempo dell'invasione sovietica, il padre e la madre di
Zoia morti entrambi nel 1993, vittime di uno scontro a fuoco tra
opposte fazioni di mujaheddin "liberatori" nella Kabul "liberata".
Zoia e Marian fanno parte del RAWA (Revolutionary Association of
Women of Afghanistan). Zoia racconta: "Il RAWA nato in
Afghanistan nel 1977 come movimento di donne che lottavano per la
loro emancipazione in una societ dominata dagli uomini, ma anche
come movimento politico per una rivoluzione socialista". Quale
rivoluzione? Quella importata dai carri armati sovietici? Quella dei
taliban? Zoia ha un moto di irrigidimento: "La nostra rivoluzione, da
noi stesse, per noi stesse". Eppure con il governo di Najibullah e
addirittura sotto l'invasione russa le donne afghane potevano
studiare, uscire a viso scoperto...
"Najibullah era solo un pupazzo dei russi", interrompe dura Marian.
Poi ritrovando un sorriso riprende: "Se a Mosca pioveva lui apriva
l'ombrello a Kabul". Zoia ancora pi drastica e non sorride affatto:
"Se permettevano alle donne di frequentare l'universit era per
trasformarle in spie al loro servizio e anche in puttane, i russi
offendevano profondamente il sentimento religioso della mia gente".
Sentimento religioso? Ma se proprio quelli che si sono nominati
custodi di quel sentimento religioso, i taliban, hanno imposto una
delle pi feroci oppressioni delle donne che la storia abbia mai visto?
Zoia ripropone le sue certezze: "I fondamentalisti sono falsi religiosi,
se li sono inventati gli americani e il Pakistan ha inventato i taliban
che servono solo interessi stranieri". E l'alleanza del nord, i
mujaheddin di Massud? "Uguali ai taliban, criminali come loro, l'unica
differenza che hanno padroni diversi".
Le Nazioni Unite hanno imposto le sanzioni al governo dei taliban,
"ma noi siamo contro le sanzioni, perch sono a senso unico: perch
solo ai taliban e non a Massud?". "Le sanzioni - interviene Marian -

non colpiscono i taliban che hanno molti modi di finanziarsi, per lo pi


illegali. Le sanzioni peseranno solo sulla nostra gente, aggiungeranno
miseria a miseria, fame a fame".
proprio la fame, forse, pi della guerra civile a riempire i campi
profughi di Peshawar, in Pakistan: un milione e 200 mila rifugiati, una
cifra che pu dare la dimensione di questo esodo, ma che non pu
descrivere le condizioni di vita miserabili alle quali questa gente
condannata e che pure rappresentano un progresso rispetto a quelle
dentro l'Afghanistan, una speranza per chi vorrebbe fuggire dal
Paese. Da novembre le frontiere del Pakistan sono chiuse e altri
campi sono sorti dentro i confini dello stesso Afghanistan, campi fatti
solo di corpi dove anche una tenda un privilegio. La notte tra il 2 e il
3 febbraio a Herat la temperatura scesa a -25 gradi, 110 di questi
corpi - corpi di donne, corpi di bambini, corpi di vecchi - non si sono
pi rialzati, uccisi dal gelo. E cancellati anche dalla conoscenza e dalla
coscienza dell'Occidente.
Nel 1979, quando la guerra in Afghanistan era anche il teatro dello
scontro tra le due superpotenze, l'URSS e gli USA, i riflettori delle
"istituzioni umanitarie" illuminavano almeno a tratti quel dramma:
l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati aveva stanziato
23 milioni di dollari di aiuti. Poi i riflettori si sono spenti. Nel 2000 gli
stanziamenti dell'Alto Commissariato dell'ONU si sono ridotti a 2
milioni di dollari.
Zoia, Marian e le donne del RAWA vivono tutti i giorni la realt dei
campi profughi: "Organizziamo scuole per le donne e per i bambini.
Portiamo un minimo soccorso sanitario - dice Marian -, siamo
impegnate con tutte le nostre risorse a tentare di rendere pi umane
le condizioni di vita nei campi, specialmente per le donne sulle quali
oltre
alla
miseria
continua
a
pesare
l'oppressione
del
fondamentalismo religioso". Quali risorse? "I fondi che raccogliamo da
persone e gruppi che all'estero conoscono il nostro impegno risponde Zoia. I soldi che ricaviamo dalla vendita dei tappeti, tessuti a
mano dalle nostre donne. Quando la polizia pakistana non chiude i
nostri conti postali come successo da poco. Siamo considerate un
rischio dalle autorit pakistane, e delle criminali dai fondamentalisti; il
pericolo di essere arrestate e picchiate continuo. Eppure il 10
dicembre a Islamabad siamo riuscite a scendere in piazza con pi di
duemila donne contro il fondamentalismo; la manifestazione stata
attaccata dagli integralisti incoraggiati dall'indifferenza della polizia,
ma riuscita". Con orgoglio conclude che: "Circa duecento di quelle
donne erano venute apposta dall'Afghanistan per parteciparvi".
Dall'Afghanistan? "Andiamo e veniamo dall'Afghanistan. Anche l noi
del RAWA istituiamo scuole clandestine nelle case private, facciamo
propaganda, organizziamo le donne: siamo riuscite cos a portarle
anche alla manifestazione a Islamabad". Sotto il naso dei taliban?
Zoia si apre in un sorriso divertito: "Il burqa, la veste che copre
interamente il volto e il corpo delle nostre donne, proprio il burqa che

i taliban ci hanno imposto come strumento di negazione e di


umiliazione, il nostro passaporto. Sotto il burqa siamo tutte uguali,
alla frontiera non ci possono guardare in faccia e quindi non riescono
a identificarci. Sotto il burqa facciamo entrare libri e pubblicazioni. Ci
vogliono come i fantasmi? I fantasmi possono oltrepassare i muri.
Figuriamoci le frontiere".
Quando raccontano, le voci di Marian e di Zoia si riempiono di colore.
Perdono la piattezza delle risposte alle prime domande,
angustamente politiche, e acquistano la concretezza e la fantasia di
chi trova e spende la dimensione politica nella realt di tutti i giorni,
accettando il rischio dell'ingenuit; come quando mi dicono di contare
sul vecchio re Zahir Shah come punto di riferimento per la
costituzione di un consiglio di governo nazionale che le comprenda
ma escluda tutti i fondamentalisti. Quel re, che vive a Roma,
nemmeno sa dell'esistenza del RAWA.
Davvero siete convinte che la vostra azione possa qualcosa contro il
potente intreccio di interessi che strangola l'Afghanistan, contro una
condizione che trova radici in tradizioni secolari? "Se non fossimo
certe che la situazione pu cambiare, almeno per le future
generazioni di donne, non ci resterebbe che il suicidio". No, donne
come Zoia e Marian non si suicideranno.
KABUL.
ARRIVO A KABUL
di Giulietto Chiesa
L'immensa conca, un cratere lunare di 100 chilometri di diametro, a
1800 metri d'altezza, coperta di neve. Attorno, vette ripide innevate
s'innalzano oltre i 3000 metri. Le loro lunghissime ombre sono
adagiate come spade nere sulla pianura color ocra chiazzata di
bianco. L'aereo delle Nazioni Unite, un piccolo bimotore, scende
veloce sulla pista nera scavata tra due onde bianche di ghiaccio.
Ricordo altri atterraggi su questa pista, a bordo di Tupolev e Ilyushin
partiti da Dushanb o Tashkent.
Gli aerei sovietici arrivavano allora altissimi sulla conca - lontane,
all'orizzonte, le vette dell'Indukush e quelle dell'Himalaya - e poi
scendevano, velocissimi da togliere il fiato, in cerchi verticali stretti
per tenersi lontani dai fianchi delle montagne, da dove poteva partire
ad ogni istante uno Stinger made in USA, lanciato da uno qualunque
dei gruppi di mujaheddin allora onnipresenti, incombenti come indici
inesorabili di un tremendo errore politico e storico. Era la guerra
contro gli shu-ravy, i sovietici senza Dio.
Il cielo, dietro e sotto le ali, era una fantasmagoria di coriandoli caldi
e luminosi. Traiettorie preziose: per stornare i missili, per attirarli con
i loro fuochi lontano dalle fusoliere degli aerei; fuochi d'artificio dettati
dalla paura che attanagliava tutti, equipaggi e passeggeri. Adesso

tutto diverso e irriconoscibile. Niente cerchi concentrici, niente razzi


termici. La guerra sembra lontana, assente. Eppure prima ancora di
toccare terra sentiamo che essa c' e non lontana. Un'altra guerra.
Ma i giornali di Islamabad, da cui siamo appena partiti, descrivono
anzi qualcosa di peggio d'una guerra: una catastrofe umanitaria cos
enorme da rendere inevitabile chiedersi com' possibile che non ne
sapessimo nulla, o quasi nulla, perfino noi che, per professione,
dovremmo almeno saperne qualcosa. Ma che razza di villaggio
globale quello in cui viviamo?
"Ehi, buongiorno cari passeggeri! Ma, in confidenza, che ci andate a
fare in quell'inferno?". Lo spiritoso pilota danese del bimotore
dell'ONU aveva salutato cos gli otto passeggeri, tra cui due giornalisti
e gli altri tutti membri di organizzazioni umanitarie e funzionari di
agenzie delle Nazioni Unite. Domanda tanto legittima da apparire
sarcastica. Le agenzie dell'ONU lanciano appelli a donatori sempre pi
avari e insensibili, ma non affatto chiaro come vengono spesi i pochi
denari che arrivano. A Islamabad sono ancora concentrate tutte le
organizzazioni umanitarie per l'Afghanistan. Molto strano. Tutti sanno
che i pi ostinati, insistenti attacchi alla sovranit e alla pace
dell'Afghanistan sono venuti e vengono da influenti circoli politici ed
economici pakistani. Non sarebbe tempo di rivedere questa
situazione?
I profughi dall'Afghanistan verso il Pakistan stanno aumentando. Negli
ultimi mesi, anche dopo la chiusura della frontiera pakistana, il 9
novembre scorso, nei campi attorno a Pe-shawar sono arrivate 150
mila persone, in gran parte donne e bambini. Altre centinaia di
migliaia si stanno muovendo dentro l'Afghanistan, verso est e nord,
nella disperata ricerca di caldo, di cibo, per sopravvivere. Non solo
la guerra che continua, l'effetto delle sue distruzioni irreversibili che
segnala un collasso definitivo dello stato e della societ afghana.
Significa che nemmeno la relativa pacificazione prodotta dalla
conquista del potere sul 90 per cento del territorio - si dice, ma chi
pu misurarlo? - da parte dei taliban riesce a dare risposta al
problema della sopravvivenza per milioni di derelitti intrappolati - o
addirittura nati e da sempre vissuti - in questo buco nero.
L'aeroporto di Kabul ormai un cimitero di carcasse d'aerei. Sulle
piazzuole due Antonov della Ariana Airlines ricoperti di teli, ancora in
funzione per radi voli interni di personaggi autorevoli. Mentre
atterriamo sono in partenza, gi con i motori accesi, due aerei della
Croce Rossa Internazionale. Portano via stranieri bene imbacuccati e
frettolosi. Nessun passeggero locale. Le guardie di frontiera non
hanno divise, si riconoscono dai turbanti neri. Non ci sono divise in
Afghanistan, almeno quelle cui siamo abituati nel resto del mondo e
che servono a distinguere i soldati dai civili. I turbanti neri scrutano
sospettosi passaporti e visti, senza sorrisi. Gli stranieri non suscitano
entusiasmo, sono intrusi di cui si farebbe volentieri a meno. Sulla
pista, accompagnati da un rumore assordante, sbucati da chiss

quale hangar, sfrecciano uno dopo l'altro due vecchi Mig 21. Vanno a
bombardare da qualche parte i caposaldi di Ahmad Shah Massud,
l'unico rimasto a contrastare il potere degli "studenti pii" che da
cinque anni comandano a Kabul e che sono ancora circondati di
mistero.
Come il loro capo, il maulvi Mohammad Omar, che se ne sta gran
parte del tempo a Kandahar e che si dice abbia perduto l'occhio
destro combattendo contro i sovietici quando militava nel partito
Hezb-i-Islami di Yunus Khales, una delle sette fazioni dei mujaheddin
che ora gli sono nemiche. Di Mohammad Omar si sa quasi nulla. Non
mai stato intervistato da un giornalista occidentale, non ci sono
fotografie che lo ritraggano. Della Shura, o Consiglio, che governa
Kabul sono pochi i personaggi esposti pubblicamente: interni,
informazione, affari sociali, esteri, pochi altri. La loro et media di
circa 35 anni. Quando conquistarono Kabul, la notte tra il 26 e il 27
settembre 1996, erano quasi tutti dei trentenni.
Si detto e scritto che erano capi di moltitudini emerse e formate
dalle poverissime madrassas, le scuole religiose islamiche fiorite in
Pakistan tra i profughi pushtun afghani e tra i pashtun che il destino
(e la "Linea Durand" dei colonialisti inglesi) volle restassero nei confini
poi divenuti pakistani. Ma restano troppe cose da spiegare. Ad
esempio come da scuole coraniche molto primitive e povere siano
usciti migliaia di combattenti bene addestrati, e di come dalla povert
siano emerse armi moderne e in grande abbondanza. C' pi che un
sospetto che, dietro le mitologie create attorno ai taliban, vi sia
anche, se non soprattutto, la concretissima azione di finanziamento e
addestramento militare attuata dal Corpo di Frontiera e dai
distaccamenti scelti di commandos dell'esercito pakistano, sotto la
supervisione del generale Naseerullah Babar, ex ministro dell'interno
nel governo di Benazir Bhutto.
Ma ora, passato il tempo, molte cose si sono sedimentate. Quel
disegno - di assoggettare l'Afghanistan sotto protettorato pakistano risulta al tempo stesso sbiadito e pericoloso. Quei trentenni si stanno
rivelando non all'altezza dei compiti loro assegnati. Il principale dei
quali era di unificare il Paese sotto un potere certificabile, per rendere
l'Afghanistan transitabile, senza troppi rischi, ai colossali flussi di
petrolio e di gas del Mar Caspio. Altri compiti non erano stati loro
assegnati. Non era loro compito quello di ricostruire, di avviare una
qualche rinascita. E, infatti, non lo stanno facendo. C' pi d'un
segnale che non sappiano come farlo, o che non vogliano. Cos, chiusi
in angolo, minacciano di diventare scomodi anche per i loro mentori.
La tremenda crisi afghana rischia di debordare in Pakistan, come un
boomerang. Osama bin-Laden, ex agente della CIA, dichiara guerra
agli Stati Uniti dal territorio dell'Afghanistan. Delta Oil, Unocal e altri
giganti petroliferi statunitensi, che hanno tenuto bordone, forse non
gradiscono questi sviluppi, certo scomodi.
E, dentro il territorio afghano, si addestrano a future diversioni (o

come merce di scambio per futuri negoziati) gruppi guerriglieri


islamici che puntano alla destabilizzazione dei nuovi regimi postcomunisti in Tagikistan, Uzbekistan, Kirghizia. Anche la Cina ha
qualche cosa da temere. E non niente affatto lontana. Kabul pullula
di strani arabi, di ceceni mascherati da arabi, di tagiki mascherati da
taliban. Sia l'Hezb-i-Takhrir (Partito Islamico di Liberazione) della
Kirghizia, sia il Movimento Islamico di Uzbekistan, entrambi illegali in
patria, trovano aiuto e rifugio nell'Afghanistan dei taliban. Gli interessi
petroliferi occidentali, che puntano ad aprire il passaggio, attraverso
Afghanistan e Pakistan, delle risorse energetiche del Caspio,
bypassando la Russia e l'Iran, non sono ancora stati soddisfatti.
L'immensa partita per il controllo delle vie della droga, che
s'incrociano in Afghanistan, ancora tutta aperta e vale 30 miliardi di
dollari all'anno.
Faccio un giro per le vie di Kabul, dal centro fino al palazzo reale di
Darulaman, poi lungo la via Maiwand, un tempo perla dei ricchi
commerci di tutta l'Asia centrale, fino al Forte di Baia Hissar. Sono
tutti ex luoghi, che conservano soltanto il loro nome. Paesaggi lunari
di una citt distrutta. Dall'ottobre 1996, quando vi giunsi, meno d'un
mese dopo la vittoria dei taliban sul dilaniato governo di Burhanuddin
Rabbani, non cambiato nulla, non una casa stata ricostruita, non
una strada asfaltata. Eppure nel frattempo, almeno a Kabul, non si
combattuto.
Tutto immobile. Anche l'andirivieni caotico e rumoroso della
Maiwand, ora divenuta grande posteggio per autobus e camion, tra le
macerie dei negozi di tappeti, dei caff di un tempo, appare piuttosto
come un regresso ai traffici medievali di scambio tra merci. Nemmeno
esistono pi (o forse sono rintanati altrove) i ricchi cambiavalute,
simili agli antichi banchieri genovesi, dove si poteva spendere perfino ai tempi sovietici - un assegno cartaceo, in lire, di una banca
italiana.
Ricostruire difficile anche per chi volesse provarci. Non c' pi una
fabbrica di cemento, n esistono materiali per l'edilizia diversi da
quelli importati. Non c' pi nemmeno la grande fabbrica del pane,
costruita da Daud prima che arrivassero i sovietici. Le uniche divise
che ancora si vedono sono quelle, irrimediabilmente stinte, dei rari
vigili urbani agli incroci principali ormai orfani di semafori. Qualcuno
lo riconosco ancora: vecchi questuanti ormai barbuti, come tutti gli
altri, con i loro fischietti afoni, in attesa di qualche mancia.
Le altre divise sono quelle del tristissimo esercito dei burqa:
cappuccio che nasconde le donne da capo a piedi, per legge. Allo
stadio, quasi ogni venerd, si mozzano mani e dita e si frustano in
pubblico i violatori delle leggi coraniche nell'interpretazione taliban.
Qualche volta i giornali occidentali se ne ricordano e s'indignano.
Mentre non si ricordano mai che le stesse cose, o quasi, accadono da
sempre anche a Rijad. Due pesi e due misure, perch l'Arabia Saudita
gode di ampie e ottime relazioni con tutto il nostro Occidente, cos

attento ai diritti umani. Lo ricordo non per regalare attenuanti ai


taliban: solo per toglierne qualcuna a noi.
Gli "studenti pii" sono il nuovo esercito, con i loro turbanti bianchi o
neri. Sono tanti, gli unici cui permesso portare armi. Stazionano
dappertutto, silenziosi e spavaldi, come solo i provinciali che arrivano
nella capitale possono essere. Ma i loro sguardi curiosi rivelano il
complesso d'inferiorit, mescolato all'odio per la miserabile modernit
che ancora Kabul riesce, suo malgrado, a offrire. Pattugliano le strade
dentro macchine civili senza contrassegni, le punte dei kalashnikov
che emergono dai finestrini. A pranzo, in uno dei pochissimi ristoranti
ancora degni di questo nome, dopo essere transitati tra due ali di
bambini e di burqa questuanti, il proprietario ci ricorda - e scongiura di uscire in fretta prima dell'ora della preghiera. Prima cio dell'arrivo
della speciale milizia del Ministero della Virt, a verificare che
l'esercizio sia chiuso.
I taliban non hanno letto Orwell e non gliene importerebbe nulla
anche se sapessero che esistito. Ma credo di capire, da questi
piccoli dettagli, perch i profughi aumentino invece che diminuire,
anche in assenza di operazioni belliche di grande portata. E non solo
perch vanno in cerca di maggiori libert. In queste condizioni
l'Afghanistan non potr risollevarsi, nemmeno mangiare.
Il pilota aveva ragione: questo un inferno. Creato da un destino
infelice che ha messo l'Afghanistan in un crocevia dove s'intersecano
troppi interessi. Da Karmal, creato dai sovietici, fino a Omar, creato
da americani, sauditi e pakistani, continua l'antico gioco che da
queste parti ricordano come buzkashi. Lo si gioca fin dai tempi di
Genghiz Khan, non c' limite al numero dei giocatori e si pu entrare
in gioco in qualsiasi momento. Un tempo si puntavano gli schiavi e i
giocatori erano guerrieri a cavallo che potevano ucciderli sotto i loro
zoccoli. Quelli che restavano vivi erano la posta. Ora l'Afghanistan la
posta, non importa se vivo o morto, in questo buzkashi a cavallo tra
due secoli.
UNA CITTA' INVISIBILE
di Vauro
un piccolo aereo bimotore delle Nazioni Unite quello che ci porter
da Islamabad a Kabul. Ma qualche sedile resta comunque vuoto. Oltre
a noi c' solo qualche funzionario dell'ONU.
Ride il pilota danese affacciandosi dall'abitacolo: "Vedo che anche
oggi il nostro Kabul tour ha attirato un bel po' di turisti". Dall'obl
dell'aereo la terra sembra uniforme e monotona come il ronzio delle
eliche. Poi, all'improvviso, le montagne. La neve sulle cime da
un'impronta di sacralit al paesaggio. Le montagne ci accompagnano
finch l'aereo non inizia la manovra di atterraggio nella grande conca
di Kabul. L'aeroporto innevato e semideserto. Appena scesi

dall'aereo il vento gelato ci accoglie insieme ad un surreale silenzio


rotto improvvisamente dal rombo di Mig in decollo per chiss quale
missione di morte. Sagome scure di uomini, avvolte da coperte e col
turbante, si muovono lente stagliandosi nella neve. Vicino alla pista lo
scheletro contorto di una vecchia postazione radar russa si proietta
inutilmente verso il cielo, accanto la carcassa di un camion militare
sta perdendo la sua ultima battaglia con la ruggine, archeologia della
guerra.
Il terminal un edificio grigio e basso. Al posto delle vetrate, fogli di
plastica sporchi, o nulla. Un unico vetro rimasto su per scommessa
nonostante i fori di proiettile. Negli avvallamenti del pavimento
l'acqua della neve sciolta entra dal tetto e fa pozzanghere. Dal
soffitto, come liane, pendono cavi elettrici strappati. Il taliban che
controlla i nostri passaporti avvolto dal turbante e dalla coperta,
colpiscono per contrasto con la folta barba scura i suoi bellissimi occhi
verdi. Ha modi gentili, non da sbirro.
Appena fuori dell'aeroporto un anacronistico cartello, rimasto in piedi
chiss da quando, recita "Welcome to Kabul" con caratteri sbiaditi. Ma
la miseria a darti subito il benvenuto, i volti e le mani dei bambini
che ti si aggrappano addosso per chiedere l'elemosina. Questa la
parte della citt pi vicina alla montagna, la pi protetta dai razzi e
dalle distruzioni, ma i segni della guerra ti saltano subito addosso
come i bambini, come i bambini invadenti. Gli squarci nell'asfalto che
nemmeno la neve riesce a ricoprire, i muri delle case basse
massacrati di fori di schegge e proiettili. I buchi, come le finestre
senza vetri. Ma pi ci si avvicina al centro della citt e pi le macerie
inglobano tutto: colori, odori, persone, movimento, vite.
Le macerie non sono ovunque, le macerie sono tutto. Le vecchie case
sono solo cumuli di mattoni di fango secco dai quali a volte spunta la
sagoma di un pezzo di muro ancora in piedi, come una grottesca
stalagmite. Altri edifici, quelli pi moderni, si sono afflosciati su se
stessi, i tetti di catrame, come brandelli di pelle secca, ne coprono in
parte le ossa di cemento.
Il colore delle macerie un non colore, come un buco nero, che
assorbe, risucchia tutti gli altri colori. Hanno il non colore delle
macerie le montagne che circondano Kabul. Le macerie si
arrampicano alle loro pendici mostrando le orbite vuote di quelle che
erano finestre, porte di povere case. Sembrano quasi mangiare la
montagna, inglobarla nel loro magma di distruzione o, al contrario,
sembra che la montagna richiuda in s la conca di Kabul per
nasconderne pietosamente lo scempio. Il bianco della neve non riesce
a spiccare sul non colore, non copre niente con il suo manto, porta
solo l'insulto del gelo.
Non una consolazione vedere come le strade, tra questi ammassi di
ruderi, siano movimentate. Gli uomini avvolti nel pat (cos si chiama
la specie di coperta che dovrebbe proteggerli dal freddo) hanno il
capo coperto da turbanti o da vecchi colbacchi dell'armata rossa, i

volti scuriti dalle lunghe barbe. Nascosti dal burqa sono i volti e i corpi
delle donne, lenzuoli informi che spesso avvolgono anche i bambini
che portano in braccio. Cos pare che Kabul, la citt che non ha pi un
volto, abbia voluto privarne anche i suoi abitanti.
Il silenzio assordante delle macerie pi forte del rumore del traffico
di auto gialle, dei vecchi taxi mezzi scassati e dei potenti fuoristrada
dei taliban, che pure tentano di invadere quelle che erano strade.
Vigili urbani dalle barbe lunghe e con divise rattoppate completano la
parodia di caos urbano, una triste imitazione di fermento, di vita
quotidiana. Nell'area del bazar baracche di lamiera e di cartone sono
cresciute come mutte attaccate ai mozziconi di mura, ai moncherini di
metallo contorto dei pali della luce, le mercanzie esposte non si
distinguono dai rottami che le circondano. Non basta il colore dei
mandarini n l'odore delle spezie a far rivivere, nemmeno
lontanamente, il fascino di un mercato orientale. La polvere della
distruzine rende tutto opaco, uniforme.
Non basta nemmeno la folla di persone che si aggira nel bazar a
dargli una pennellata di vitalit. Si muovono, si spostano ma non
sembrano animate, in attivit, in fermento. Sembrano piuttosto
comparse disorientate che si spostano a caso tra le quinte di una
scenografia devastata. Sarebbe bello poter scrivere che tra tanta
distruzione la vita continua. Ma qui a Kabul non vero. Questa una
citt morta che succhia via la vita ai suoi abitanti giorno dopo giorno,
sera dopo sera. Assorbiti dalle macerie, trasformati in sassi, in
calcinacci. S, i bambini afghani forse hanno occhi bellissimi. Ma non li
puoi vedere perch impari subito ad evitare il loro sguardo quando ti
si avvicinano a frotte per chiedere la carit. Da lontano gli occhi non
si vedono, si vedono i corpi, piccoli, resi minuti dalla fame, che fanno
apparire sproporzionate le teste: nani fuggiti da un circo macabro.
Accovacciata su un marciapiede c' una bambina, vende e sposta su
un piatto di latta la sua mercanzia: una decina di piccoli fogli rosa di
carta igienica.
Se non lo sapessi, se non si muovessero per correre verso di te, non
penseresti mai che sotto quei teli informi e azzurrini c' un essere
umano. Ma c' una parte del corpo che, a quanto pare, i taliban
consentono alle donne di sottrarre al burqa: la mano, la mano che
elemosina. Penso a quante volte ho protestato contro la rimozione di
queste tragedie da parte dell'Occidente evoluto, a quante volte mi
sono comodamente indignato. Bene, io la mia rimozione l'ho
cominciata qui, ho imparato subito a non guardare gli occhi dei
bambini e le mani delle donne. La miseria imbarazzante per chi non
povero. Ti mette davanti alla tua impotenza ed labile il confine tra
impotenza e arroganza.
Il palazzo reale tenta ancora di ergersi sprezzante tra le altre rovine.
Ma solo un rudere sventrato e squarciato come lo la pi misera
delle case. Delle sue cupole resta lo scheletro. Ricorda quello
dell'osservatorio di Hiroshima, monumento all'olocausto nucleare, o

forse non ricorda nulla. Kabul una citt invisibile.


Delle sue cupole resta lo scheletro.
IL TURBANTE E IL KALASHNIKOV
di Vauro
Le uniche uniformi che si vedono nelle strade di Kabul sono quelle
verde marcio dei vigili urbani. Vecchie divise addosso a vecchi dalle
lunghe barbe grigie. Sono tutti vecchi i vigili urbani di Kabul, rimasti
pateticamente attaccati al loro antico mestiere, come le assurde
pareti di qualche casa restate in piedi tra i cumuli di calcinacci. Non
percepiscono alcuno stipendio e vivono delle mance che ricevono dal
personale straniero delle varie organizzazioni umanitarie che hanno
sede a Kabul.
Tra i fantasmi dei burqa, quasi tutti di un azzurro sbiadito, e il
marrone sporco dei pat, le coperte che avvolgono gli uomini, la folla
di Kabul sembra fatta di stracci che si muovono spinti dal vento
freddo che a tratti scende dalle montagne. difficile notare tra gli
altri i turbanti neri dei taliban, distinguerne le barbe, obbligatorie per
tutti i maschi adulti. Ma quando da un lembo sollevato del pat si
intravede il ferro brunito della canna di un kalashnikov, quello un
taliban. Non hanno divise, non hanno gradi, basta un capo per ogni
gruppo. Si riconoscono solo dall'arma, impugnata negligentemente
come un bastone da pastore. Pastori erano i taliban, pastori poveri di
etnia pushtun, prima che il Pakistan per allargare la sua influenza
sull'Afghanistan li trasformasse nei feroci pacificatori di una Kabul
dilaniata dagli scontri tra mujaheddin "liberatori". I gruppi di
Hekmatjar, Dostum, Massud e Rabbani impegnati a scannarsi tra loro
e a radere al suolo la citt: distrutta l'universit, distrutta la fabbrica
del pane, distrutte le case, distrutto il museo, distrutto lo zoo,
distrutte le scuole, con una sistematicit terrificante.
Non furono gli invasori sovietici a trasformare Kabul nella citt spettro
che oggi , furono i suoi liberatori. In citt ora non si spara pi, se
non la domenica per le esecuzioni capitali che, tra le macerie dello
stadio, si alternano al taglio delle mani per ladri o blasfemi, uniche
distrazioni in un Paese dove vietato il cinema, la televisione,
qualsiasi immagine, fare o ascoltare musica; dove l'unico giornale il
foglio dei taliban, le uniche scuole le madrassas, rozze scuole
religiose, serbatoi di carne da macello per il fronte.
A Kabul il coprifuoco scatta ben prima delle 21 e 30, l'ora ufficiale,
avvolgendo nel buio e nel silenzio tutta la citt. Una pacificazione buia
quella dei taliban. Non una casa stata ricostruita dal loro arrivo nel
1996, n consentita una qualche attivit sociale o culturale.
Gestione del potere da anno zero che trae la sua forza dall'impedire la
rinascita o l'affacciarsi di qualsiasi accenno di modernit. Una
gestione tragicamente simile a quella dei khmer rossi nella Cambogia

di Pol Pot.
"Le origini sociali dei taliban sono poverissime - dice Sabjar Latif -.
Per loro un pugno di riso era un sogno, non avevano mai conosciuto
l'energia elettrica. La condizione miserabile nella quale vivono e fanno
vivere Kabul comunque un miglioramento rispetto al loro
precedente modo di vita. Perch dovrebbero temere le sanzioni? Non
gli importa niente di quello che potrebbero perdere: il caff, quel poco
di sistema elettrico che restato? Ne possono benissimo fare a
meno". Sabjar Latif una specie di rappresentante afghano, non
ufficiale, degli interessi della Bridas, multinazionale petrolifera
argentina in competizione con la Unical americana per la costruzione
dell'oleodotto che partendo dal Tagikistan dovrebbe attraversare
l'Afghanistan per giungere in Pakistan.
Perch sotto le macerie della guerra combattuta ce n' un'altra tra le
multinazionali, tra gli interessi economici che vedono nell'Afghanistan
un crocevia strategico per le loro politiche mondiali di dominio
finanziario; il petrolio e il traffico di droga sono i perni intrecciati della
sussistenza di questo Paese senza stato. Una guerra sotterranea,
come le mine, e che come le mine reclama i suoi morti.
Il controllo dei taliban a Kabul non evidente come lo sono le rovine,
vi si nasconde. E un'aria di paura che si respira nello strano silenzio
dei bazar affollati, che si legge nelle espressioni preoccupate dei
venditori all'ora della preghiera, quando la polizia religiosa gira per
assicurarsi che tutto si fermi. E davvero il
tempo si fermato qui a Kabul. Il tempo il primo nemico dei taliban
perch significa cambiamento, progresso; e loro possono governare
soltanto una societ immobile, bloccata a livelli primitivi, senza
progetti n competenze.
Sbaglierebbe chi immaginasse tutte barbare e feroci le facce dei
taliban. Rahmatullah ha 29 anni, un'espressione vivace, e un ciuffo di
capelli castani che esce ribelle dal cupo turbante nero. Accetta di
parlare, anzi ne sembra anche divertito: "Sono di Hellman vicino
Kandahar - racconta. Fino a 17 anni ho studiato, ho il diploma di un
corso superiore. C'erano i russi, i mujaheddin bruciarono la scuola,
era una scuola comunista - aggiunge come fosse una spiegazione
naturale -. Io sono andato con loro, con il gruppo di Hekmatjar, a
combattere contro i sovietici, era un obbligo morale. Ma non ho ucciso
nessuno, anzi una volta ho dato dei soldi a due prigionieri afghani
dell'esercito filosovietico di Najibullah perch potessero fuggire in
Pakistan. Quando i russi se ne sono andati ho pensato che fosse la
pace ma durata solo pochi giorni, e sono cominciati gli scontri tra
mujaheddin. Allora sono entrato nei taliban. Pensavo fossero gli unici
a poter imporre pace e sicurezza".
"La pace e la sicurezza di Kabul ti piacciono, Rahmatullah? - gli chiedo
-. Ti bastano? Non c' niente che non ti va nel governo dei taliban?".
"Qualcosa che non mi piace c', ma non te lo posso dire" inizia. Poi
invece parla, quasi con foga: "Hanno distrutto il sistema educativo,

non ci sono pi scuole, questo non mi piace, non mi piace affatto".


Forse avrebbe voluto continuare a studiare, il taliban Rahmatullah...
Mi saluta portandosi la mano al cuore come si usa qui, sulla mano ha
una cicatrice. Con un tatuaggio l'ha trasformata in un disegno: la
mezza luna dell'Islam.
CADRANNO PRESTO?
di Giulietto Chiesa
Sono al potere da quattro anni e non hanno ricostruito nulla.
Colpisce. Eppure non sono i denari che mancano. come se l'antica
Kabul, capitale di un regno orgoglioso che sconfisse gli inglesi, non li
interessasse. Tant' vero che il loro capo supremo, il maulvi
Mohammad Omar, non si degna neppure di lasciare la sua nativa
Kandahar, terra di pushtun, terra di sunniti. Non c' segno di un
qualunque progetto. Dove vogliono andare? Anche questo un
mistero, come il loro arrivo improvviso apparve misterioso. Apparve
ma non lo era. Venivano, vengono tutt'ora, dalle madrassas, le scuole
coraniche nate in Pakistan, finanziate da chi aveva interessi e denaro:
i mercanti della droga.
E anche chi ha armato i taliban non affatto misterioso: sono i servizi
segreti pakistani, e settori dell'esercito di Islamabad, che non detto
perseguano gli stessi obiettivi del governo di Islamabad. stato cos
fin dall'intervento sovietico, ma allora quei circoli pakistani
finanziarono, armarono, istruirono, protessero i mujaheddin, i sette
partiti di Peshawar, chi pi, chi meno. Poi i sovietici se ne andarono,
rest Najibullah, sempre pi solo, finch nella primavera del 1992 i
mujaheddin entrarono a Kabul, sotto la guida formale di Abdul Haq e
sotto quella sostanziale di Ahmad Shah Massud e di Gulbuddin
Hekmatjar.
a quel punto che cominci la nuova, inattesa tragedia. I vincitori
cominciarono a scannarsi. E, mentre prima si combatteva nelle
campagne, da quel momento si combatt dentro le citt conquistate,
casa per casa. Kabul fu distrutta dai mujaheddin. E, poich essi non
avevano saputo corrispondere ai voleri dei loro burattinai, ecco la
ricerca di una soluzione inedita, che garantisse i corridoi della droga,
quelli degli altri commerci minori, e quelli del petrolio che, dal Caspio,
dovrebbe fluire agli utilizzatori occidentali, attraverso un Afghanistan
pacificato, "a tutti i costi", e il Pakistan meridionale, fino al Golfo
Persico. Con il doppio risultato (utile per Washington, per Rijad e
ovviamente per Islamabad) di tagliare fuori in un colpo solo la Russia
e l'Iran.
Qualcuno li ha chiamati - appropriatamente - i "khmer verdi".
Qualcuno, certo una acuta mente postcoloniale, deve aver pensato
che solo un esercito di lanzichenecchi fanatici poteva ricominciare il
discorso in un Afghanistan distrutto. E la parola d'ordine, l'unica, che

ha consentito loro la vittoria, stata questa: "Con noi arriva la pace".


Hanno potuto mantenerla solo in parte. A Kabul non si combatte pi,
a Kandahar, Jalalabad, Herat, Mazar-i-Sharif neppure. I mujaheddin
sono stati sgominati, Rabbani sta in Pakistan, Hekmatjar sta in Iran,
Abdul Haq fa affari negli Emirati del Golfo. Ma Ahmad Massud non
stato sloggiato dal Panshir e nel nord ancora si combatte. E non
passano oleodotti - esattamente come in Cecenia - dove chiunque
pu farli saltare ogni notte.
Si dice che combattano male, i taliban. Raccontano che vanno
all'assalto senza rispettare le minime cautele tecniche. Muoiono come
le mosche. L'addestramento attorno alle madrassas non deve andare
troppo per il sottile. Imparano a usare il kalashnikov e poco pi. Poco
importa. Se ne muoiono mille, dopo qualche giorno aerei senza
insegne sbarcano altre schiere cenciose. Combattono "quasi" gratis,
non come ai tempi dei mujaheddin, quando i dollari correvano facili.
Adesso il Corano che tiene bassi i prezzi. Se perdono una battaglia
ricompaiono moltiplicati, come se sorgessero dalla terra. Nei campi
profughi pakistani la forza lavoro disoccupata pi che sufficiente alla
bisogna.
Idea geniale e tragicamente democratica. Anche i loro leader sono
della stessa pasta, hanno la stessa provenienza. "Chi non ha mai
mangiato due volte al giorno scopre adesso, salendo sulla Mercedes
nera che lo porta nel suo ministero, che tre pasti di riso e carne sono
un paradiso. S'inebria della prospettiva di tornare a casa, la sera,
dalle sue due o tre mogli. Non provi a dire loro che, nel mondo,
esistono altri paradisi, ben pi suggestivi di questo appena
conquistato: non la capiranno, non gli interessa, non possono fare un
balzo pi lungo della loro gamba. E sono abbastanza astuti da
pensare che cedere alle tentazioni potrebbe portarli a perdere ci che
hanno".
Chi ragiona cos un giovane imprenditore di Kabul di cui bene
tacere il nome. Ha 32 anni, chiamiamolo Hadij. Ha la barba e
vorrebbe non averla: " pericoloso". Ha dei soldi, ma sa che, con
questi governanti, non potr farne di pi. " gente - continua - che
non ha mai usato aerei e non intende usarne; che non ha mai bevuto
vino e non intende berne. Bevevano t in case di fango o in tende di
profughi. Se vietano la televisione anche perch non l'hanno mai
vista. I loro mullah recitano litanie semplici come quelle dei loro
credenti. E sono l'unica fonte d'informazione che essi abbiano mai
avuto".
Coincide con quello che ho visto e sentito raccontare. All'aeroporto di
Kabul, il commissario politico dei taliban appena sceso da una
Toyota bianca quasi nuova. Ha l'aria di uno che si appena alzato, e
sono le undici. La barba pettinata, la camicia e pulita. Porge una
mano molle e neghittosa allo straniero. Gli occhi sfuggenti pensano
ad altro. Poi tira fuori una biro inesorabilmente occidentale e se la
infila in un orecchio, perlustrandolo a fondo. Quello che ne esce viene

nettato con un lembo del turbante nero a righe gialle e sottili, quasi
elegante.
Il ministero degli esteri il pi pulito dei dicasteri della capitale. Ma
deserto. Non c' una politica estera da fare. E come potrebbe farla
quel giovane poco pi che trentenne che ci ha convocato
semplicemente per vederci in faccia e magari prendere una tazza di
t con questi stranieri incomprensibili che vengono da un Paese
incomprensibile, vestiti come dei buffoni? Se si passa dal ministero
per gli affari sociali si percorrono scale maleodoranti, stamberghe con
i pavimenti luridi, ancora ricoperti di pezzi di moquette dell'era
sovietica. Sbirciando tra le porte si vede gente seduta per terra. Un
alto funzionario riceve i visitatori togliendosi le scarpe e pulendosi le
unghie delle dita dei piedi, accovacciato nella poltrona.
Adesso vogliono fare anche loro tabula rasa, proprio come i khmer.
Non sono loro che hanno distrutto l'Afghanistan, ma stanno
diventando, ogni giorno che passa, coloro che impediranno
all'Afghanistan di rinascere. Vietato di guardare ogni tipo d'immagini.
Vietato tutto, obbligatorio il resto. Echi di lontananze bibliche, come
se il mondo - che erroneamente ci appare contemporaneo sprofondasse all'indietro nel tempo. "Dio uno - proclama da
Kandahar il maulvi Mohammad Omar, capo e guida unica dei taliban ma le statue sono state costruite per essere adorate. E questo
male. Affinch esse non siano adorate necessario distruggerle". Non
un'esagerazione. notizia ufficiale dell'agenzia Bakhtar, unico
strumento d'informazione e di comunicazione con il mondo esterno
del governo di questo "emirato" islamico. Governo di un Paese che si
avvia a diventare analfabeta al cento per cento e che non ha scuole,
n universit degne di questo nome, e che si accontenta di scuole
coraniche dove non s'impara a scrivere, n a leggere, ma solo a
ripetere a memoria un catechismo elementare e brutale non meno
lontano dal messaggio di Maometto di quanto lo siano le peggiori
eresie degli "infedeli". Non sar facile, ai miliziani del ministero della
virt, trovare statue e simulacri di qualche sorta - dopo avere
abbattuto le statue di Bamiyan - da distruggere in un Paese gi
distrutto, dove non esistono pi musei, n raccolte private d'arte, n
immagini di sorta.
Non ha salvato i Buddha di Bamiyan n il fatto che essi risalissero ai
secoli dal terzo al settimo dopo Cristo, n che essi fossero
antecedenti a Maometto. L'UNESCO li aveva proclamati patrimonio
della cultura mondiale. Niente da fare. "Le statue - aveva rincarato la
dose il portavoce del maulvi supremo, Abdul Hal Momait - quale che
sia l'anno di costruzione, sono un insulto ad Allah". Insulti, anche se
postdatati; bestemmie di granito degne soltanto dei pi acerrimi
nemici e denigratori dell'Islam.
Solo fanatismo? Se si trattasse soltanto di mullah ignoranti, lo si
potrebbe anche pensare. Ma si ha ragione di sospettare che essi
abbiano suggeritori meno sprovveduti, e che dunque vi siano

motivazioni politiche nascoste sotto decisioni che appaiono fatte


apposta per isolare e screditare il regime. Forse si tratta di decisioni
ben meditate, per rispondere alle sanzioni decise dall'ONU contro i
taliban. Una ripicca elementare, oppure moneta di scambio per
qualche segreta trattativa che sta molto a cuore ai taliban e ai loro
amici pakistani. Quanto reggeranno i taliban? Difficile dirlo. Ma se
cadranno non sar per tutto questo, n per le donne col burqa (che
non sono diverse, in questo, da quelle che stanno dalla parte di
Massud). Cadranno, forse, perch non sono pi utili a nessuno
Residuati dei secoli, riportati alla superficie da calcoli maldestri
comunque pi grandi di loro.
HANNO SPENTO LA LUCE
di Giulietto Chiesa
"Vedi? Quello Ahmed, lui sa parlare russo". In uno stentato inglese
il ragazzo mi indica un signore allampanato, con la barba grigia e
lunga e un copricapo bianco, rotondo, pulito. Vuoi farmi un piacere,
questo ragazzo dagli occhi svegli, una mano intatta, l'altra, la sinistra,
senza anulare e mignolo. Mi ha sentito dire qualche parola in russo.
Forse ha pensato di rendersi utile. E io, come spesso capita agli
stranieri incauti, che non conoscono abbastanza il posto in cui si
trovano, mi avvicino ad Ahmed con aria allegra e gli tendo la mano:
"Kak del?", come va?
Una scossa elettrica sarebbe stata meno forte della reazione che
provoco. Gli occhi piccoli e neri di Ahmed sembrano affogare nella
paura, cercano una via di fuga, esplorano fulminei lo spazio
circostante. Qualcuno ha sentito? Qualcuno ha captato il suo scatto
rivelatore? Ahmed sembra molto pi vecchio dei suoi quarantadue
anni. Ha studiato a Mosca per otto anni: da ingegnere. E ovviamente
ha imparato il russo, alla perfezione. L'ha quasi dimenticato e non
soltanto perch non aveva con chi parlarlo. Tenerlo in testa equivale a
portarsi dentro una colpa, pericoloso. la lingua degli atei shumvy,
e parlarla come insozzare Dio. Qui ancora ricordano le "puttane"
russe che giravano sfrontate per Kabul con le gonne corte, i capelli al
vento e le braccia nude.
Adesso Ahmed vende farina, che cava da un sacco bianco arrivato
chiss da dove, attraverso i tornanti del passo che, da Jalalabad, sale
verso l'altopiano di Kabul. Ahmed non pu fare l'ingegnere perch da
queste parti non si costruisce nulla, da gran tempo ormai. E quella
farina, che vende a bicchieri ad acquirenti rari, non sua. Lui solo
un venditore. Il suo stipendio rimane molto lontano dal mitico dollaro
giornaliero delle statistiche con cui il Fondo Monetario Internazionale
descrive i Paesi poveri.
Tanto lontano che ci vogliono tre giorni interi di lavoro per fare quel
dollaro. I quattro figli maschi, tutti sotto i dieci anni, sono fuori casa,

a caccia di cibo, di legna da bruciare o da vendere, legna preziosa


come l'oro. Ahmed un intellettuale e se ne vergogna. Vorrebbe che i
suoi figli imparassero a scrivere e leggere, per bene, come capit a
lui. Ma solo la sera, dopo l'inizio del coprifuoco, al buio o quasi, se
non fa troppo freddo, si pu insegnare loro qualcosa. Ma il fatto che
non si vivrebbe senza il loro aiuto. La moglie lavorava, in altri tempi
di cui si pu solo sussurrare, in un ministero. Adesso non pu uscire
di casa da sola, nemmeno a prendere un secchio d'acqua.
rigorosamente vietato. Met della popolazione afghana vive reclusa
senza avere mai subito condanne. Basta quella decretata da
Mohammad Omar.
Tutta Kabul come sempre stata: un formicaio impegnato in un
incessante movimento in cerca di cibo, di kerosene per scaldarsi, di
qualche litro di benzina. Ma si vede che tutto invecchiato, che i
banchi dei venditori sono pi sgangherati di un tempo. Negozi degni
di questo nome ne restano pochi, con le vetrine impolverate e i vetri
rattoppati con lo scotch. Rimangono visibili le mille e una farmacie,
con qualche medicina occidentale, tanta aspirina e altre cose
misteriose che vengono dall'India e dal Pakistan. Sono gli unici
"esercizi" che - chiss perch - possono affiggere un'insegna in
inglese: pharmacy. Ma la loro frequenza dice solo come facile
morire da queste parti. Gli altri negozi si sono trasferiti sui
marciapiedi, man mano che le case venivano sventrate dai
combattimenti.
Se si guarda meglio sui banchetti sbilenchi, possibile distinguere
all'incirca due flussi di merci: ortaggi, semi, spezie, frutta secca e
fresca, carne di capretto, tutta roba che viene dalle campagne
circostanti. Il resto, tutti i manufatti, dalle saponette alle forbici, alle
biro, alla stoffa per turbanti, alle coperte che fungono da scialle e
cappotto per gli uomini, alle camicie jeans, viene da fuori. Carovane
di tir si muovono a passo d'uomo per non spezzare gli assali tra le
voragini delle strade. I loro padroni, i mercanti ricchi, non si vedono
mai. Non certo tra i rigagnoli di escrementi delle vie del centro. Ma
sono loro, dalle ville di Peshawar e di Islamabad, che assicurano la
sussistenza, impiegando gli spiccioli del grande traffico d'oppio in
uscita per acquistare a basso prezzo generi di consumo che i loro
uomini venderanno a caro prezzo ai contadini che hanno prodotto
l'oppio che permette loro di vivere nelle ville di Peshawar e di
Islamabad.
Tasse, nel senso che noi attribuiamo al termine, non esistono. Gli
uffici pubblici, quelli che non sono stati sventrati dalle bombe, sono
coperti di ragnatele. E poi: chi saprebbe fare i conti? E chi potrebbe
fare le verifiche dei redditi? I taliban sono truppa d'occupazione e
altro non sanno fare. Perfino la posta non esiste pi, anche se riesce
difficile immaginare che gli afghani ne abbiano bisogno. Esistono
invece le tangenti su tutti i traffici, evento pi inesorabile di ogni
tassa.

Adesso metteranno sui panni la striscia, forse gialla, per distinguere


al volo i non musulmani, o forse i non pushtun. A noi questa idea non
torna nuova e suscita associazioni immediate tutt'altro che gradevoli.
Ma questi ministri barbuti non sanno niente della storia europea. E
del mondo. Del resto le strisce gialle saranno poche. Gli ind e i
gurkha, che vendevano le sete dell'Asia orientale nei loro negozietti
bui e lunghi, puliti e ombreggiati, con i loro turbanti neri e azzurri e la
retina sottile a imbrigliare la barba, sono gi scappati quasi tutti da
tempo.
Sulle bancarelle ci sono anche le pile. Chiss a cosa servono, visto
che la musica rigorosamente vietata, come il cinema, come la
televisione. Qua e l, appese ai tralicci, ghirlande di nastri di
videocassette o di cassette musicali oscillano al vento coperte di
polvere. Nessuno le tocca. Sono i trofei dei taliban nella lotta contro
le degenerazioni portate dagli stranieri. Civilt senza immagini, senza
luce, senza telefoni, senza giornali, senza comunicazione, senza
trasmissione d'idee che non siano quelle dei muezzin e quelle,
anch'esse esclusivamente orali, che avvengono all'interno delle mura
domestiche. Che, a loro volta, sono il perimetro rigido dentro cui
raccolto tutto intero l'universo culturale degli individui.
Nessuno dei lumi, che da trecento anni almeno rischiarano (e talvolta
accecano) le menti degli uomini e delle donne occidentali, mai
giunto fino ai villaggi afghani. Chi pensa che i taliban siano soltanto
una mostruosa degenerazione oscurantista rischia di farsi illusioni.
L'Afghanistan , nella sua enorme prevalenza, non importa da che
parte dei fronti volta a volta ci si trovi, nelle stesse analoghe
condizioni che qui si descrivono. Per esempio le donne - tutte le
donne - afghane vivono tutta intera la loro vita (quella piccola parte
che consentita al di fuori della casa-fortezza in cui sono nate)
sepolte sotto il burqa, a prescindere da dove si trovino. I mujaheddin
che sconfissero i sovietici (e che vennero reclamizzati in Occidente
come combattenti per la libert) non erano e non sono pi
"progressisti" - in questo senso - dei taliban che li sconfissero e che
ora sono al potere.
La distruzione delle statue dei Buddha di Bamiyan - esaminata sotto
questo angolo - una "aberrazione razionale" per gente che vive
mentalmente e organizzativamente e istituzionalmente nei primi
secoli del millennio precedente a questo. Intendo dire che non
dovremmo stupircene pi di tanto. Il che non significa che dobbiamo
disinteressarcene, o che non dobbiamo provare dolore e sgomento
per un patrimonio dell'umanit che va in fumo. Ma un approccio pi
realistico e pi utile ai fini pratici quello "relativistico", che evita gli
sdegni facili e le esclamazioni a effetto.
La vera domanda che ci si deve porre questa: la societ afghana
andata avanti o indietro in questi anni? Se per "avanti" s'intende un
avvicinamento ai valori di libert individuale, economica, istituzionale,
alla cultura, al progresso civile delle societ occidentali, la risposta,

univoca, inequivocabile, no. La societ afghana oggi pi "indietro"


di quanto non lo fosse ai tempi di Daud; pi indietro di quanto non lo
fosse ai tempi dell'intervento sovietico; pi indietro dei tempi di
Najibullah. Difficilmente, in quei diversi e non lontanissimi passati,
sarebbe venuta in mente a qualcuno dei governanti afghani l'idea di
bombardare statue. E, infatti, nessuno le distrusse. Dunque siamo di
fronte a un arretramento secco, a un allontanamento dalla civilt.
una risposta, evidentemente, densa di implicazioni e corollari.
In ogni caso non avremmo il diritto comunque di attenderci da loro,
nella migliore delle ipotesi, che un percorso di avvicinamento
graduale, con i loro tempi, alla nostra sensibilit. Avvicinamento che
potrebbe non significare mai identificazione, omologazione. E
dovremmo essere pronti ad accettare una diversit "perenne" tra noi
e loro come un fatto inevitabile, come una legge della natura. Nello
stesso tempo credo che sarebbe profondamente disonesto concludere
questo ragionamento senza riconoscere autocriticamente che il
mondo esterno ha gravi responsabilit per tutto ci che accaduto,
per i passi indietro che sono stati compiuti. Dico mondo esterno
perch in questo caso non solo l'Occidente a dover fare autocritica.
Stati Uniti, Russia, Cina, Pakistan, Arabia Saudita, India, Iran: tutti,
ciascuno con la propria e diversa misura di peso che gli compete,
hanno responsabilit. La Gran Bretagna coloniale, a sua volta, sparse
i primi segni di disordine e di odio, che hanno fruttato nel tempo.
Gli afghani hanno demolito il proprio Paese perch armati, sospinti,
consigliati, costretti da potenti forze esterne. Pensare che essi
possano oggi rimettersi in piedi e in cammino da soli cosa senza
senso. Naturalmente sarebbe altrettanto sciocco ritenere che si debba
costringerli con la forza. Non funzionerebbe, perch i secoli non lo
consentirebbero. Ma un aiuto rispettoso e prudente indispensabile.
In primo luogo costringendo - questo s - i mestatori esterni a
smetterla. Sono forze potenti, che controllano con la droga ingenti
quantit di denaro, di armi, di uomini, e che hanno nelle loro mani
potenti leve di ricatto, in grado di agire anche da molto lontano,
attraverso meccanismi bancari, finanziari, riciclaggi, corruzione,
terrorismo.
Per fare questo indispensabile un'iniziativa politica e diplomatica
congiunta, finalmente saggia, che coinvolga anche quegli stessi Paesi
e governi che hanno creato il "problema afghano". Problema inedito:
quello di una colossale emergenza umanitaria creata dall'insipienza
politica e dall'egoismo dei potenti, non solo e non tanto
dall'arretratezza degli afghani. Questo pensavo davanti al palazzo
diroccato di Darulaman, isola austroungarica costruita da Zahir Shah
nel mezzo della piana di Kabul.
Ahmed ha conservato un mangianastri - racconta a bassa voce - ben
nascosto in un buco del muro di tufo della sua capanna sulle alture.
Ma non pu farlo funzionare. "Solo qualche volta, di notte, quando i
bambini dormono". Ma guai se una nota fuggisse al di fuori.

Dovunque si mette in funzione il Grande Fratello ecco spuntare spie e


delatori. Quando scende la sera, e l'ora del coprifuoco s'avvicina,
nessuno sembra affrettarsi. Ciascuno sa quanto gli occorre per
togliersi di mezzo, arrivare prima non ha senso. Kabul, vista dall'alto,
nei pochi momenti che restano prima di rinchiudersi in una casa,
sembra una grande bocca con pochi denti. Due terzi della citt sono
senza luce. Non ci sono n pali, n fili, e larghissime chiazze nere si
distendono nella conca.
Solo qua e l, dove abitano gli stranieri delle organizzazioni
umanitarie, dove sono alloggiati i "diplomatici" di misteriose legazioni
senza bandiere, dove alloggiano i taliban, restano chiazze di luce. Poi
si dorme, gli occhi dei bambini sbarrati nel buio, e sussurri di
preghiera, e forse fruscii di atti d'amore, consumati sullo stesso
giaciglio dove si dorme tutti assieme, per scaldarsi.
L'OSPEDALE KARTE-SE DI KABUL
di Vauro
La via che porta all'ospedale Karte-se di Kabul una sequenza di
macerie. Case sventrate, palazzi accartocciati da un lato e dall'altro di
un'ampia strada sconquassata da buche e crateri. Ogni tanto, a
rompere la monotonia del colore della distruzione, una bandierina
rossa su un mucchio di calcinacci. Segnala la presenza di mine. Le
mine sono il cancro invisibile della terra dell'Afghanistan. Si celano
ovunque, come una inarrestabile metastasi. Ma sono fiori che
sbocciano a primavera. Ora che inverno uccidono e strappano meno
arti. La neve, il gelo fanno s che gli uomini e i bambini escano pi di
rado per lavorare o per giocare. con l'arrivo della stagione pi mite
che il letargo della morte finisce. Si salvano spesso solo le donne:
l'oppressione religiosa che le costringe nel burqa le costringe anche,
qualsiasi sia la stagione, a non allontanarsi mai dalle mura
domestiche o da ci che ne resta. Cos le priva, insieme ad ogni altro
diritto, anche di quello di saltare sulle mine con i loro figli.
"Con l'arrivo della primavera giungono in ospedale quattro o cinque
feriti da mina alla settimana, la media si alza con il progredire della
stagione" dice un capo infermiere dalla immancabile lunga barba: ne
parla con il fatalismo di un contadino che descrive i tempi del
raccolto. un cartello esterno con su disegnata la sagoma nera di un
kalashnikov barrata da una striscia rossa e la scritta "No weapons",
niente armi, che distingue l'ospedale dalle macerie che lo circondano;
altrimenti, da fuori, la sua struttura bassa e incolore con le finestre
vuote o coperte da stracci di plastica strappati, si confonderebbe
facilmente con il resto della desolazione.
L'ospedale fu costruito nel 1988 dalla Croce Rossa Internazionale che
ora lo gestisce a distanza - il personale tutto afghano - occupandosi
di rifornirlo di attrezzature e medicine - che per per lo pi finiscono

poi nel mercato nero - e di "incentivare" gli stipendi dei dipendenti.


"Incentivi" di 65 dollari al mese a fronte del salario di 8 dollari mensili
che un medico percepisce dallo stato. I "corsi" per formare medici
sono organizzati dal governo dei taliban, lo stesso che ha distrutto
totalmente tutto il sistema educativo e scolastico: facile immaginarne
il livello. Anche un analfabeta con le giuste conoscenze pu accedervi.
Perch non la Croce Rossa a farsi direttamente carico della
formazione del personale locale, invece di abbandonare a se stesse le
proprie strutture? Abbandono, abbandono di cose e di uomini: la
sensazione che si prova subito entrando in una stanzona bassa,
semibuia, le finestre oscurate dai pochi vetri opachi rimasti o da teli
di plastica. Prima che gli occhi si abituino alla semioscurit l'odore
dell'abbandono che aggredisce alla gola: odore di feci, di orina, di
marcio. Una puzza terribile, l'odore di chi si attacca alla vita pur
miserabile che sia. La puzza si condensa in un liquame scivoloso,
umido sotto le scarpe. I volti, le facce si vedono appena nella
penombra. Emergono da mucchi di stracci sudici che sono le lenzuola
e le coperte dei settanta giacigli stipati in questa corsia. Sono facce
scurite dalla barba, illividite dal dolore; se a tratti il biancore di uno
sguardo senza curiosit non desse loro un movimento, avrebbero lo
stesso colore del buio.
Negli spazi all'aperto, tra un padiglione e l'altro dell'ospedale, sembra
di respirare aria pulita nonostante l'immondizia ammucchiata qua e l
e i pitali sporchi abbandonati. Arrivano voci di donne da una bassa
costruzione cinta da un muro, le finestre sono accecate da teli
pesanti, l dentro il buio deve essere ancora pi fitto. Si pu solo
immaginarlo, perch l non si entra, il padiglione femminile. La
legge dei taliban non transige, le donne, cancellate nella vita, devono
esserlo anche nella sofferenza, il loro dolore invisibile come i loro
volti. Cos ha deciso il mullah taliban che dirige l'ospedale della Croce
Rossa Internazionale. Eppure nello sguardo degli infermieri e dei
medici che ci accompagnano non c' solo diffidenza per il disgusto
che questo sfacelo potrebbe ispirare a visitatori occidentali; c' anche
orgoglio, orgoglio legittimo, perch questo, fatta eccezione per
l'ospedale militare riservato ai taliban, il miglior ospedale non solo
di Kabul, ma di tutto l'Afghanistan.
La stanza dove sono ricoverati i bambini pi piccola, anche l entra
poca luce. Poca anche la luce rimasta nei loro occhi, guardano seri,
quasi assenti, non rispondono al sorriso n al cenno di saluto della
mano. Sono visi di bambini quelli che spuntano dagli stracci lerci
sopra le brande ma si fatica a riconoscerli cos svuotati dall'infanzia.
Vuoti, come i vuoti dei corpicini che si vedono quando un infermiere
scosta i panni che li coprono: vuoto dove c'erano le gambe, vuoto
dove c'erano manine, moncherini avvolti in bende sporche restano ad
indicare quei vuoti che non saranno mai pi colmati dal movimento,
se non da quello di qualche riflesso di contrazione muscolare.
Su una branda, a un angolo, in fondo alla corsia c' qualcosa che

sembra un mucchietto di garza sanguinolenta gettato via, immobile.


una bocca gonfia, tumefatta, l'unica cosa che si scorge di Khalil tra le
bende. La bocca emette un lamento flebile, quasi timido, quando
l'infermiere lo tocca, nient'altro. A Khalil la mina non ha rubato solo lo
sguardo dell'infanzia, gli ha cavato tutti e due gli occhi, gli ha
cancellato la faccia, gli ha strappato le dita dalle mani. Quanti anni
avr Khalil? difficile dare un'et a un mucchietto di garza e a una
bocca ustionata. Ma che importa, Khalil e gli altri bambini di questa
corsia sono solo i frutti prematuri di un raccolto, pi abbondante, di
braccia, di mani, di occhi, di vite che verr quando sar la stagione, la
stagione dei fiori.
L'ISOLA BIANCA DI EMERGENCY
di Vauro
La neve caduta su Kabul. Ma qui la neve non bianca, inghiottita
dal lezzo delle strade, la sua lucentezza persa nella opacit smorta
dei cumuli di macerie, intrisa dalla polvere invisibile della distruzione
che annulla ogni colore. Forse per questo che il bianco candido,
luminoso, delle mura del nuovo ospedale di Emergency sorto nel
centro di Kabul, sembra riflettere mille colori, come la pennellata di
un pittore pazzo impressa di forza su un quadro grigio di desolazione.
Sembra davvero un pittore pazzo, pi che un chirurgo, Gino Strada, il
medico di Emergency che ci conduce dentro l'ospedale. alto,
barbuto e spettinato, ha un naso a becco d'uccello e l'andatura un po'
curva e saltellante che hanno i piccioni quando passeggiano nelle
nostre piazze. "L'ospedale ancora vuoto - dice Strada - sar
operativo entro marzo". Ci mostra gli spazi aperti, tra i diversi
padiglioni resi luminosissimi dal bianco pulito delle mura e da ampie e
ariose finestre, e gesticola con le mani: "L pianteremo le
buganvillee, qui ci sar un giardino di gelsomini, e l alberi, alberi
frondosi che d'estate diano frescura e ombra ai nostri pazienti che
potranno mangiare all'aperto. Qui una siepe, questo il padiglione
femminile - i taliban non transigono, deve essere delimitato - e io ci
metto una bella siepe, verde, mica un muro".
Gesticolano le mani di Gino e sembrano pennelli che dipingono
nell'aria i fiori e i giardini nei quali sar immerso l'ospedale, gi pare
di vederli e sentirne il profumo: "I malati e i feriti che verranno qui
hanno negli occhi la guerra e la miseria, l'ospedale non pu essere
solo un luogo di sofferenza, hanno diritto a un po' di bellezza!".
Hanno infatti l'espressione serena di chi sta costruendo qualcosa di
bello gli operai, i pittori, i muratori, i carpentieri afghani
affaccendatissimi a rifinire ogni angolo dell'ospedale. Non sembrano
la stessa gente che fuori dalle basse mura di cinta, anch'esse
bianchissime.
Fuori non si costruisce n si ricostruisce niente da anni, dall'arrivo dei

taliban. Fuori avere una competenza e volerla mettere a frutto un


rischio, un motivo per essere sospettati.
Forse per questo che, insieme all'orgoglio, si legge anche timidezza
nello sguardo di Hafizullah, l'ingegnere afghano che ha progettato
l'ospedale, mentre ce ne mostra un modellino. Hafizullah ha studiato
a Mosca nelle scuole degli "infedeli". "Oggi qui lavorano operai, tecnici
afghani, domani ci saranno inservienti, infermieri, medici afghani dice Gino -. Intorno alla costruzione e alla gestione dell'ospedale si
ricrea un tessuto economico ma soprattutto sociale che si pu
ampliare, diffondere come un contagio, il contagio della civilt. La
guerra potr ridurre in macerie anche le mura di questo ospedale, ma
non cancellare l'esperienza di umanit, di cultura che le persone
avranno vissuto qui. I medici, gli inservienti, gli infermieri che si
formeranno nei corsi che istituiremo resteranno qui".
Intorno alla gestione dell'ospedale si ricrea un tessuto economico ma
soprattutto sociale che si pu diffondere come un contagio, il contagio
della civilt.
Il 50% del personale sar formato da donne, incredibile in un Paese
dove alle donne non riconosciuto nessun diritto. Con un paziente e
intelligente lavoro diplomatico con il governo dei taliban Gino ed
Emergency hanno saputo strappare questo accordo, e quello che
garantisce loro la completa gestione dell'ospedale. Le donne sono gi
l al cancello dell'ospedale. Una fila di pi di cento burqa, dalla quale
si affaccia ogni tanto il visetto curioso di un bambino. Sono venute a
ritirare il modulo per la domanda di lavoro, declinano le loro
generalit; e si scopre che sotto i burqa tutti uguali si celano
insegnanti, sarte o donne analfabete. Alcune scarpe con i tacchi
spuntano dal velo come un timido accenno di ostinata femminilit.
"Sai che non riusciamo a trovare in Italia un solo chirurgo oculista
disposto a venire qui a insegnare per tre mesi? - continua Gino -. Tre
mesi! E lo pagheremmo 3.000 dollari al mese, mica gratis!
Niente, fanno troppi soldi l, non mollano. E anche i chirurghi plastici,
sono troppo impegnati a rifare tette, sai che gliene frega della pelle
ustionata dei bambini bruciati dalle esplosioni delle mine!". "Eppure gli dico - in Italia e in tutti i Paesi occidentali di diritti umani si parla
molto, si fanno addirittura guerre in nome dei diritti umani". "Stiamo
andando verso un mondo virtuale, virtuali sono anche le guerre,
tranne per chi le subisce. Appelli, tavole rotonde, grandi
organizzazioni internazionali, fondi... tutto per i diritti umani, eccetto
praticarli. Le vittime della guerra hanno facce, nomi, storie, ognuno la
sua, non sono dati statistici. Da quando nata, nel 1994, Emergency
riuscita a curarne 150 mila di questi sfigati. Siamo tra le pochissime
organizzazioni specializzate in vittime di guerra, quella che ha pi
ospedali nel mondo: tre nel Kurdistan iracheno, uno in Cambogia, uno
in Sierra Leone, due qui in Afghanistan, questo a Kabul e quello nel
Panshir di Massud. Ne stiamo progettando altri in Serbia, in Eritrea, in
Palestina".

Ecco le corsie, le sale operatorie. I telai dei letti gi pronti odorano di


legno e di vernice fresca. Le macerie di Kabul sembrano lontanissime.
Solo in un cortile dell'ospedale ce n' qualche pezzo: lamiera e stracci
colorati formano una piccola casetta circondata da sassi, monumento
umile a ricordo di un'intera famiglia che proprio qui morta dilaniata
da un missile.
Le mani di Gino ora dipingono attrezzature mediche e medicinali,
riempiendo i padiglioni ancora vuoti dell'ospedale: "E in arrivo un
aereo dall'Italia con 45 tonnellate di medicine e attrezzature
ospedaliere - dice - sar un bel segnale per questa gente, tanto pi
ora che le sanzioni dell'ONU rischiano di condannarla al pi completo
disastro umanitario".
"Ma, Gino, come fai a vivere costantemente immerso in queste
tragedie?". Non gli piace, si vede, questa domanda, si schermisce ma
poi risponde: "No, non ci si abitua mai, ancora oggi quando vedo un
bambino sfracellato da una mina mi vengono i conati di vomito.
Quello che mi aiuta davvero a sopportare le tragedie infilarci le
mani dentro, fisicamente, non dimenticare che sono un chirurgo".
Le mani, domani user le mie per disegnare sulle pareti bianche della
corsia dei bambini animaletti buffi e fiori con la faccia. Saranno
probabilmente gli unici disegni per bambini in tutta Kabul, i taliban
proibiscono i disegni; ma se le mine non gli avranno strappato gli
occhi, qualche bambino potr forse guardarli e sorridere un attimo,
almeno dentro di s. Ma le mani di Gino e di quelli come lui
resteranno qui a dipingere speranze e a ficcarsi nelle ferite, nelle
budella della tragedia. Le mani dentro.
UN CATINO DI GUAI
di Vauro
I visionari come Gino sono contagiosi e io comincio a vedere le pareti
bianche dei padiglioni dei bambini riempirsi di animaletti buffi, di
pupazzi simpatici, un mondo di colori vivaci e allegri. "Bene, allora
domani cominci subito a disegnare le pareti della corsia", mi dice
Gino. Ride. "A Kabul anche i disegni sono proibiti dai taliban.
L'ospedale di Emergency sar una splendida eccezione".
Gino un visionario molto pratico e l'indomani mattina mi trovo
davanti alle pareti bianche con in mano una scatola di carboncini
russi, eredit civile dell'invasione sovietica. Li vedo anch'io i bambini
che presto saranno qui, menomati nel corpo, con negli occhi solo il
dolore e i colori cupi della guerra e della miseria. Allora la mia mano
comincia a correre sul muro. Ne esce un delirio di figure: buffe rane,
farfalle in cravatta, vermetti col salvagente, serpenti in papillon e
cilindro... La parete si riempie fitta fitta di piccole storie di tanti
personaggi di fantasia. I bambini spesso staranno qui per lunghi
periodi, vorrei che ogni giorno potessero giocare a scoprire un

particolare nuovo, una possibile storia diversa, che per qualche attimo
il mondo fantastico sul muro li facesse entrare in una nuova
dimensione gioiosa e allegra lontana dalla sofferenza alla quale le
mine e la guerra li hanno condannati. Su una parete ora c' uno
stagno popolatissimo di animaletti. Sull'altra un cielo pieno di uccelli,
buffi aquiloni, palloncini e nuvole con la faccia e sull'altra ancora un
fondo marino gremito di pesciolini, granchi, stelle marine e calamari.
Ma ancora tutto a carboncino in bianco e nero, domani dobbiamo
partire per il Panjshir. Chi potr colorare, riempire tutto di colore? Mi
viene in mente che gli unici segni che i taliban non vietano sono quelli
della scrittura. I calligrafi afghani costretti a mettere nella pittura dei
caratteri arabi tutta la loro arte sono bravissimi col pennello.
"Cerchiamo un calligrafo!".
L'indomani mattina gi l nella corsia dell'ospedale, guarda i disegni
sulle pareti, ma non pare allibito e incredulo come gli operai, alcuni
ragazzini che stanno lavorando a rifinire la struttura ospedaliera. Loro
hanno l'espressione che dovevano avere gli spettatori del primo film
dei fratelli Lumire all'arrivo del treno. Lui invece li guarda divertito e
calmo come avesse ritrovato un mondo che conosce. Mi mostra i suoi
pennelli, le tinte che ha portato, mi chiede che colori vorrei per i miei
disegni. "Scegli tu", gli dico, "sono sicuro che ne sceglierai di
bellissimi!". Ha un guizzo di orgoglio negli occhi scuri e mobilissimi sul
viso incorniciato dalla lunga barba nera obbligatoria.
"Sai, sono un collega", mi sussurra timidamente. "Un collega??". "S,
un cartoonist come te!".
Piano piano la sua storia vien fuori. "Posso disegnare solo caratteri di
scrittura ma di nascosto faccio un giornale, tutto da solo, un giornale
di satira: lo disegno e lo coloro a mano, una copia sola, che gira di
mano in mano e quando torna da me preparo il numero successivo".
Il suo giornale si chiama Catino di guai. S, perch Kabul, affogata
nella conca, chiusa dalle montagne sembra davvero immersa in un
catino. "Mi firmo Parnion", dice, " il mio nome da vignettista
clandestino", e l mi mostra i giornali fatti a mano. Li ha portati con
s, nascosti in una spessa busta di carta gialla. I suoi disegni
denunciano la barbarie del burqa, l'ottusit di un potere basato solo
sui kalashnikov, l'assurdit di un popolo costretto a scannarsi da solo.
contento quando ci facciamo scattare una foto insieme davanti alla
parete disegnata da noi. "Ma se pubblichi la foto", mi avverte con un
cenno di tristezza, "cancella la mia faccia, per me pericoloso. Se i
taliban la vedessero mi ammazzerebbero". Poi ha un guizzo da
vignettista e aggiunge: "Anzi, perch non me la disegni tu la faccia
sulla foto? E senza barba per favore!". Mentre me ne vado lo vedo l.
Parnion ha un corpo minuto ed piccoletto, sembra appeso alla sua
mano che gi si messa a muoversi alta e veloce sulla parete, a
giocare con i colori e con i segni. Pare davvero solo nella corsia vuota.
Allora ho una visione: e se tornassimo tutti qui, io, Altan, Ellekappa,
Vincine, Bucchi, Mannelli, Staine, tutti con Parnion il vignettista

clandestino a dipingere colori per i bambini di Kabul?


Chiss...

NELLA VALLE DEL PANSHIR


L'AFGHANISTAN SPEZZATO
di Vauro
Alle cinque di mattina, quando partiamo in direzione del fronte, Kabul
ancora avvolta nel buio. Un buio quasi totale (l'elettricit manca in
gran parte della citt) rotto solo qua e l da qualche flebile luce e da
quelle spettrali che illuminano le alte mura grigie del carcere di Pul-iCharki, l'unica struttura che i taliban hanno conservato intatta e in
piena efficienza.
La strada deserta, si incrocia solo, ogni tanto, qualche figura goffa
avvolta in coperte che pedala su pesanti biciclette cinesi. Presto
anche l'asfalto squassato finisce e la strada si trasforma in una pista
pietrosa che inizia ad aggredire la montagna che incombe sulla citt.
Il posto di blocco taliban al limite di Kabul (ci vuole un permesso per
lasciare la citt) una casupola di fango bassa, illuminata a malapena
da una lampada a petrolio. Ne esce un soldato dal turbante nero,
infagottato nelle coperte da cui spunta l'immancabile kalashnikov. E
infreddolito e ha gli occhi arrossati dal sonno, con un cenno della
canna del fucile ci fa segno di proseguire. Andiamo in direzione di
Jalalabad. Dovremo fare un lungo giro tra le montagne per
raggiungere la valle del Panshir perch la strada che da Kabul
permetteva di arrivarci in meno di un'ora di auto stata
completamente minata, impercorribile.
Si entra in una gola stretta, rocce altissime da un lato della pista,
dall'altro un precipizio al fondo del quale scorre un fiume vorticoso
per lo sciogliersi della neve, nelle buche della strada si rapprendono
lastroni di ghiaccio. Appaiono le prime sagome di metallo contorto di
carri armati russi esplosi con i loro cannoni sporgenti, costelleranno il
panorama di tutto il nostro viaggio come alberi pietrificati, macchie di
una assurda vegetazione di ferro arrugginito tra le rocce nude.
Dietro i picchi della montagna comincia ad albeggiare, sacchi bianchi
di farina si confondono con la neve. Il grosso camion che li
trasportava giace rovesciato tra le pietre, abbattuto da un ripido
tornante della pista. Poco pi avanti, caricato all'inverosimile di
informi involti di tela, un dromedario cammina indolente sul bordo del
burrone. gi giorno fatto quando la strada comincia a scendere pi
a valle. Vicino al fiume il sole illumina piccoli villaggi in macerie, ma
anche le macchie verdi dei campi coltivati a grano, terra fertile che gli
abitanti hanno strappato alla montagna e alle mine.
Le mine impestano tutto l'Afghanistan, ce ne sono pi di undici milioni
a fronte di circa otto milioni di abitanti, pi di una mina a testa. Ai
bordi della pista bambini, ne incontreremo tanti, pi piccoli dei lunghi
manici di legno delle pale che impugnano, le usano per gettare
pietrisco e terra nelle buche della strada quando vedono arrivare uno
dei pochi automezzi, camion e furgoni scassati, che attraversano

questo accidentato percorso. Fanno cenno di fermarsi con la mano,


sperano in una mancia dai conducenti, salario della sopravvivenza.
All'altezza della citt di Sarobi lasciamo la strada per Jalalabad e
ricominciamo ad arrampicarci verso la grande diga del lago di Shomal
in direzione di Tagab dove passa la linea del fronte. A un tratto le
pietre del fondo stradale vengono sostituite da lastroni di cemento
dove si aprono, sparse a caso, buche di granata. Conducono a ci che
resta della vasta base militare sovietica che sorgeva ai piedi della
diga. Tra alberi di pino le orbite vuote delle finestre di alcune caserme
restate in piedi, capre tra le macerie di altre, in un piazzale enorme
decine di carri armati e mezzi blindati con la stella rossa finiscono di
arrugginire assediati dagli arbusti. Inutili, come la diga abbandonata
che sovrasta la scena con la sua acqua silenziosa e ferma che non
produce pi elettricit da anni, solo riflette la maestosit della
montagne che la circondano.
Attraversiamo villaggi, i pi sperduti di questa area. Qui l'energia
elettrica non mai arrivata. Sono case basse di fango secco e paglia
aggrappate alle rocce che ne sfalsano la prospettiva. Alberi spogli,
qualche capra sul greto del fiume, uomini accovacciati a piccoli gruppi
vicino ai muri, bambini con vestiti stracciati ma coloratissimi. Anche
qui, unici segni di una modernit inquietante, carcasse di carri armati
arrugginite stanno assumendo il colore antico dei mattoni di fango
secco delle case. Ai limiti dei villaggi cimiteri, rocce piatte e sassi
anonimi piantati nel terreno fungono da lapidi, qua e l sventolano
stracci verdi attaccati a rami secchi, su tumuli di pietre: sono le
tombe dei martiri della Jihad, la guerra santa.
Pi sperduti sono i villaggi, pi grandi sono i cimiteri. Le condizioni di
vita primitive, l'isolamento, forse pi della guerra, pensano a
riempirli.
Avvicinandosi ancora alla linea del fronte si infittiscono i cimiteri e gli
stracci verdi dei martiri come i kalashnikov in mano a gruppi di
uomini con i turbanti scuri. Ciuffi di nastri di video e di musicassette
pendono da pali e canne di mitragliatrice come scalpi, al posto di
blocco dei taliban all'ingresso delle immediate retrovie della prima
linea. Sono gli scalpi della modernit da sconfiggere e vengono
esposti come trofei, attorno il nero dei turbanti, il nero delle barbe, il
nero delle canne dei fucili. Il comando di questo settore del fronte
non si distinguerebbe dalle altre basse costruzioni di fango secco se
non perch circondato da carri armati, non carcasse ma mezzi di
morte perfettamente efficienti.
Accovacciati sui blindati come pastori sulle pietre, gruppi di taliban
armati e immobili.
Immobili sono anche le espressioni dei soldati attorno al comandante
venuto a controllare i nostri permessi. Giacconi mimetici coprono le
loro spalle, sotto, come pigiami, i larghi vestiti afghani. C' la neve,
ma molte caviglie nude spuntano dalle scarpe basse. Non c' n
curiosit n ostilit nei loro sguardi, solo una fissit inquietante e

indecifrabile. Alcuni bambini stanno in disparte, sono addetti a


portare rifornimenti alle postazioni sul fronte e hanno sul viso la
stessa espressione vuota dei soldati. Mentre gli occhi del
comandante, incorniciati da lunghe ciglia nere e da una sottile linea di
kajal, potrebbero sembrare addirittura femminili se non vi si
scorgesse un'intelligenza feroce, selvatica, volta solo alla guerra. La
pista si inerpica ancora fino a scomparire in un torrente pietroso
formato dall'acqua della neve che si scioglie. Il fuoristrada lo risale
arrancando e sobbalzando, tra lo sciabordio della corrente.
Per arrivare alla linea del fuoco bisogna valicare un passo a pi di
2800 metri di altitudine. Ci impantaniamo nella neve e nella melma
vicino a una casamatta scavata nella terra come una tana: un
mortaio piazzato di fronte al buco dal quale vi si accede, un cane nero
accucciato accanto; nella neve, a pochi passi, una bomba inesplosa.
Sembrano ombre che tagliano il bianco della neve i gruppi di taliban
che salgono camminando verso la casamatta, appesantiti dai
portacaricatori allacciati al busto e dalle armi in spalla.
Paiono figure antiche, avvolti come sono da ampie coperte e dai
turbanti, le barbe lunghe.
Li immagineresti armati di lance o spade, invece il ferro che portano
quello brunito dei kalashnikov. Dietro di loro camminano dei bambini,
caricati di grossi fagotti di tela, probabilmente rifornimenti, alcuni
hanno i piedi nudi nella neve gelata. I soldati e i bambini ogni tanto si
fermano a raccogliere una manciata di neve e la mangiano.
L'ultimo avamposto taliban, prima della terra di nessuno, in un
villaggio con case di fango e strade di fango. Da l bisogna proseguire
a piedi per tredici o quattordici chilometri fino alle prime linee dei
mujaheddin. Un gruppo di ragazzine si ferma intimidito e incuriosito
incrociandoci. Le bambine hanno vestiti colorati e brocche d'acqua
presa dal fiume.
Cominciano a seguirci ridendo e cantando una nenia incomprensibile
ma dal chiaro tono canzonatorio. Si fermano ben prima di un cavo di
plastica teso di traverso tra i due lati della strada, dal quale pendono i
soliti scalpi di nastri: l'ultimo confine del territorio controllato dai
taliban. Tre sentinelle lo vigilano, accovacciate accanto a un muretto
di fango, le mani appese al kalashnikov. Se questa guerra da incubo
ha un volto il loro: lo sguardo di odio ottuso e fisso di una, quello
inebetito dell'altra reso selvaggio da una striscia rossa dipinta in
verticale sul volto e dalle lunghe unghie delle mani, rosse di smalto, e
l'indifferenza provocatoria della terza. Il taliban che ci ha scortato fin
qui da Kabul discute animatamente con loro finch non si decidono a
lasciarci passare. "Sono asini, bestie, altrimenti non si troverebbero in
prima linea" mi dice poi, mentre camminiamo sulla strada di pietre
stretta tra la montagna e il precipizio che attraversa la terra di
nessuno. Si tolto il turbante nero, la sua divisa.
Improvvisi come un temporale estivo risuonano colpi di cannone e di
mortaio, l'eco si infrange sulla montagna. Immediatamente dopo un

boato sordo, l'aria ha come un ansimo, un respiro amplificato e roco,


il rumore di un razzo katiusha che passa invisibile. Pare un miraggio
acustico, si sente chiaro il canto di una voce di ragazzo che si fonde
con il rimbombo degli spari. E un giovane pastore con le sue capre: si
vede lontano, in alto, sul fianco della montagna.
Qualcuno venuto a prenderci dall'altro lato del fronte, ci raggiunge,
abbraccia il nostro taliban senza turbante, si scambiano buste e
pacchetti prima che lui torni indietro. Segno che ancora esiste
qualche esile filo di contatto tra i due schieramenti nemici. Noi
proseguiamo. Bisogna passare di traverso, la schiena attaccata alla
roccia, per varcare lo spazio angusto lasciato da un container riempito
di pietre che blocca la pista tra la montagna e il precipizio.
Mujaheddin armati, diversi dai taliban solo per il cappello rotondo
tipico dei montanari afghani e per le espressioni un po' pi aperte,
scendono nella neve dalle alture vicine, per venirci incontro. Siamo
nel territorio di Massud. Ci avviamo verso la stretta gola di roccia
porta della imprendibile fortezza della valle del Panshir.
DA KABUL ALLA VALLE DEL PANSHIR
di Giulietto Chiesa
Da Kabul all'imboccatura della valle del Panshir, in condizioni normali,
cio trent'anni orsono, ci sarebbero volute due ore d'auto. Tutte in
pianura, su strada asfaltata. Adesso ce ne vogliono dieci, in
montagna, salendo a 2900 metri d'altezza. La strada diretta
interamente minata. L'ultimo autobus che ha tentato di passare
saltato in aria. Dieci morti. Allora non resta che farsi i centoventi
chilometri di strade sterrate, che s'inerpicano in mezzo a vallate
lunari di aspra bellezza. Colabrodi che rammentano battaglie
furibonde a colpi di mortaio, voragini, relitti di carri armati e gru e
blindati. Ferraglia di scheletri depredati con cura di ogni suppellettile
utilizzabile. Dalla piana della capitale ci s'immerge nella vertiginosa
discesa che porta a Jalalabad.
Un tempo era una fantastica carrozzabile, progettata dai genieri
coloniali britannici, asfaltata da re Zahir Shah che andava a passare i
fine settimana sul lago artificiale di Shomal e non voleva rompersi la
schiena. Si era costruito una villa, proprio sul pelo dell'acqua, quando
l'invaso raggiungeva il massimo. Uno chalet che avrebbe potuto stare
benissimo in una vallata del Tirolo. Unica abitazione in mattoni, fatti
arrivare allora - si dice - direttamente dall'Europa. Adesso tutta la
strada un incubo di buche, l'asfalto sparito, enormi camion
multicolori e stracarichi procedono a passo d'uomo, in interminabili
colonne, sollevando ondate di melma, o di polvere. Kabul vive dei loro
carichi. Chiudere questa strada equivarrebbe alla resa. Ed per
questo che la strada fu sempre aperta, anche ai tempi sovietici,
anche se per tenerla le truppe governative dovevano giocarsi ogni

giorno dell'anno la vita di decine di pedoni.


Adesso non ci sono combattimenti. I taliban controllano la situazione,
a quanto pare senza problemi. Solo un posto di blocco all'imboccatura
del passo. Ma, appena superato lo strapiombo di 1000 metri che
separa l'altopiano di Kabul dalla pianura fertile di Jalalabad, si svolta a
destra, a Sarobi, verso Tagab, la diga e il lago di Shomal, la lunga
valle del fiume Panshir. Cento chilometri in salita e falsopiano, in
mezzo a una successione di villaggi, case di fango, torme di bambini,
verso la neve alta del passo. Non fosse per l'ansimare della jeep, e
per i rari taxi Toyota che s'incrociano, potremmo pensare di essere
ritornati indietro di cinquecento anni. Non c' mai stata luce, qui, n
turisti. Il buio della notte non figlio della guerra, che abbatte i
lampioni: il buio dei secoli.
Niente luce, niente televisione, niente radio. Il mondo qui non arriva,
con le sue notizie, i suoi rumori, la sua civilt. Ma di qui sono passati i
carri armati. Sulla vetta, a uno degli ultimi controlli taliban prima di
arrivare nella terra di nessuno, c' un intero cimitero di blindati.
Alcuni sono "vivi". Si vedono gli uomini dentro le torrette a scrutare le
montagne tutto attorno. Poi ci s'incammina verso il valico, con le
ruote che affondano nel fango fino al mozzo, in mezzo a bambini
carichi come asini, scalzi nella neve, superando taliban con fucile
mitragliatore e sacchi di munizioni, che vanno a dare il cambio nelle
garitte affondate nella neve. Anche nella terra di nessuno brulica la
vita.
Poi si devono lasciare le macchine e proseguire a piedi. Un chilometro
prima dell'ultimo avamposto. Quattro case appollaiate, tre taliban
sulla strada che attendono torvi. Scrutano il lasciapassare con
grugniti di disapprovazione. Guardano i nostri scarponi, le nostre
facce relativamente glabre. Uno ha le unghie colorate di rosso, l'altro
ha occhi bistrati. normale in campagna, tra i guerrieri, ma qui, in
questo silenzio gelido, sembra un avanspettacolo irreale. Mi chiedo
come questi tre disgraziati se la passino in questo posto, con la
prospettiva, ad ogni momento, di finire ammazzati da un commando
avversario.
Ma non c' spazio per la commiserazione. Il kalashnikov del capo
colpisce il terreno con un rumore secco del calcio metallico. di
cattivo umore. Questi stranieri che passano dall'altra parte non gli
piacciono. Questi stranieri che fumano e gli offrono una sigaretta
peccaminosa. Eppure gli occhi di uno dei tre sono spenti, come se
avesse fumato qualcosa di ben pi pesante della nicotina di una
Marlboro. Infine si passa, chinando il capo sotto un pezzo di corda
addobbato con festoni di nastri di musicassette. Sfregio all'infedele e
monito al fedele che cede alle lusinghe dell'Occidente satanico. la
linea di confine tra due presunte civilt.
Ora bisogna affrontare altri dieci chilometri di strada sterrata e
abbarbicata al fianco della montagna. Dieci chilometri, cosparsi di
casematte deserte, di container riempiti di sassi piazzati alle svolte

strette della stradina per impedire il passaggio dei mezzi pesanti. Non
un viandante, non un contadino. Solo, sui contrafforti della
montagna, un pastore, in mezzo a pecore pericolosamente affacciate
sullo strapiombo, che canta nel silenzio una nenia incomprensibile. Su
quei costoni non ci sono mine, ma tutto attorno alla strada ce ne
devono essere a bizzeffe. Ci hanno spiegato che meglio non uscire
dal sentiero. L'Afghanistan, si gi detto, terra di mine. Quasi una
per abitante, certamente pi di una per ogni bambino. Per gli anni, i
decenni a venire, migliaia di afghani continueranno a cadere dilaniati,
spezzati, mutilati. Ci vorrebbero miliardi di dollari per risanare questa
terra e si sa gi che non si troveranno mai.
Mine piazzate da tutti i contendenti che si sono avvicendati in questi
ventuno anni. Non si salva nessuno. Russi, mujaheddin, pakistani,
taliban. Poi gi verso la piana di Kapisa. La base aerea di Baghram,
Charikar, s'intrawedono lontano. I cannoni suonano litanie lente,
lontane. Ogni tanto il rantolo terribile, ansimante, lacerante di un
katiusha. Massud spara sui taliban, che stanno adesso dall'altra parte
del fiume. Su un cucuzzolo appaiono i mujaheddin, segno che siamo
arrivati dall'altra parte. E la prima differenza che si coglie nel fatto
che molti uomini sono armati. I soliti kalashnikov, ma anche vecchi
fucili ad avancarica, che perfino i bambini portano a tracolla. Una
distribuzione mortale, ma pi "democratica". La differenza non
riguarda le donne, tutte rigorosamente coperte dal burqa. Solo che
sono pi numerose nelle strade. Ma, per intanto, si vede bene
l'estensione delle forze di Ahmad Shah Massud nella pianura.
Pensavo, prima di arrivare fin qui, che fosse chiuso nella sua irta
vallata, invece un bel pezzo della pianura in suo possesso, almeno
adesso. Praticamente tutto il distretto di Kapisa, e la piana che da
Gulbahar, all'imboccatura della valle, si spinge fino ai confini di
Baghram.
Quanto sia terra sicura e quanto precaria non possibile dire. Si
capisce per che una guerra "contigua", dove le spie, gli
informatori, passano ogni giorno il fronte, travestiti da contadini, cio
da se stessi. Proprio come ai tempi dei sovietici, che non potevano
mai dire con sicurezza se un territorio era stato conquistato. Qui
l'unica presenza straniera di nuovo quella di Emergency. Miracolo,
anzi "scandalo evangelico", come l'ospedale che si sta costruendo a
Kabul. L quelle mura bianche, quelle corsie luminose, erano l'unico
segno di vita in una citt morta. Gino Strada riuscito dove nessuno
sta riuscendo: a convincere i taliban che non pu essere un mullah a
decidere come si cura e si opera la gente. Qui, dall'altra parte del
fronte, sei centri di pronto soccorso di Emergency sono sparsi nella
pianura, collegati da ambulanze all'ospedale di Anabah, pi su nella
valle.
raro provare orgoglio nel sentirsi italiano, ma qui e a Kabul - dove si
salva la gente, da una parte e dall'altra del fronte, senza chiedergli
sotto quale straccio stata dilaniata - confesso di averlo provato.

Ospedali, presidi costruiti con i denari della gente italiana e anche


(notizia non meno consolante) con il contributo della Cooperazione
Italiana, del nostro governo cio: "Due miliardi pi mezzo miliardo di
materiali" conferma Strada. Ma c' poco tempo e poche ragioni per
gioire. Ripenso al piccolo Khalil, visto su un lettino dell'ospedale
Karte-se, ancora sotto la sigla della Croce Rossa Internazionale, il
migliore ospedale - mi dicono - di tutto l'Afghanistan.
Khalil saltato su una mina nella regione di Bahmian ed qui da due
giorni. Avr sei anni, e non avr mai pi la vista, perch la mina gli
ha strappato gli occhi, e una parte del viso e quasi tutte le dita delle
mani. Si lamenta con una vocina flebile, che esce da una bocca
ustionata sotto un cumulo di bende sporche. Difficile guardare,
perch ci vuole forza, e io sento di non averla mentre guardo le mie
scarpe confortevoli e asciutte, su un pavimento lercio, e penso alla
mia auto di media cilindrata, parcheggiata sotto una casa lontana
dove c' sempre l'acqua e i termosifoni e un frigorifero con tanta roba
da mangiare, da quando sono nato.
E allora distolgo lo sguardo. Ma Khalil tossisce e la sua tosse debole,
catarrosa mi ricorda che quel bambino cieco ancora sotto quella
coperta verde, sporca non solo del suo sangue, e che la mia
commozione non cambier il suo destino. Che in quell'antro squallido
sembra essere cos smisurato da non poter avere altri padri che Allah
il Grande, e quindi nessun risarcimento, e nessuna spiegazione.
BAMBINI PROFUGHI NELLA TERRA DI NESSUNO
di Vauro
Lasciandosi alle spalle le montagne innevate che segnano e
attraversano la terra di nessuno, la linea del fronte tra i taliban e i
mujaheddin, si entra nel territorio dell'Afghanistan controllato dalle
truppe di Massud.
Attraversando il passo di Kapisa ai bordi delle strade di melma
appaiono i primi villaggi di case basse, misere, fatte con mattoni di
fango essiccato. Di molte non restano in piedi che grotteschi pinnacoli
arrotondati dalla neve che si scioglie. I bombardamenti dei Mig dei
taliban si susseguono, due o tre alla settimana. In questo periodo il
gelo invernale limita i movimenti di truppe, e la guerra di terra si
riduce a scambi sporadici di colpi di mortaio, cannone e razzi katiusha
tra le due parti del fronte, ma i missili che partono dai Mig non
risparmiano le case. Sono bombardamenti rabbiosi, alla cieca, che
distruggono i villaggi pi vicini alla linea del fronte costringendo gli
abitanti alla fuga. Sono probabilmente quelli che si vedono,
attraversando Kapisa avvolti in coperte, riempire i cassoni di vecchi
camion russi che arrancano nella melma, o ammucchiati a decine su
incredibili calessi tirati da asini sfiancati incrociare i gruppi di
mujaheddin armati di kalashnikov che si dirigono, a gruppi silenziosi,

nella direzione opposta, verso il fronte. Vecchi container a file lungo la


strada sono stati trasformati in botteghe con tettoie di fango e paglia
rette da pali di legno. Davanti, a mo' di tettoia, espongono stracci,
pelli mal conciate e puzzolenti, pezzi di carne di montone anneriti.
Vecchi accovacciati su pezzi di muro, gruppi di bambini con facce da
adulto, molti armati di archibugi ad avancarica che ancora gli artigiani
fabbricano per la caccia. Qua e l la fugace apparizione di un burqa, il
cappuccio di tela che nasconde interamente le donne, e poi le
stampelle di legno, tante: sostengono corpi mutilati dalle mine.
Lasciata Kapisa ci si addentra nella stretta gola rocciosa dove scorre il
fiume Anjumar. la porta di ingresso alla valle del Panshir. Una porta
angusta, tra due alte pareti di roccia frastagliata che scendono a picco
verso il letto tortuoso del fiume che ha reso imprendibile il Panshir ai
sovietici e lo rende imprendibile ai taliban.
La pista pietrosa chiazzata di ghiaccio, neve e carcasse schiantate di
vecchi carri armati russi, immobili come giganteschi fossili preistorici.
In una piccola spianata di fango e neve, schiacciata tra la montagna e
il greto del fiume, pezzi di tela grigia sono tesi con corde tra il terreno
e i cannoni che spuntano dai rottami di carro armato, altri sono
attaccati ai cingoli arrugginiti, barriere di fango secco ne chiudono per quel che possono - le aperture lasciando lo spazio di una porta.
il primo dei tanti campi di rifugiati disseminati nel nord
dell'Afghanistan. "Solo nel Panshir ci sono pi di 220 mila rifugiati
dice Nazary Enahitullah, ministro per i rifugiati del governo di Massud
-. Facciamo il possibile per aiutarli, ma molti campi sono
irraggiungibili, non ci sono vie, le montagne sono piene di neve, la
strada da Kabul al Panshir minata, non abbiamo cibo. La siccit
dell'estate scorsa ha fatto salire il prezzo della farina a 3 dollari e
mezzo per 7 chili. Sono costretti a nutrirsi di erba che fanno bollire
nell'acqua della neve sciolta. Non arriva nessun aiuto dalle Nazioni
Unite, che nemmeno li riconosce come rifugiati, perch sono afghani
in territorio afghano. Gli aiuti finiscono tutti in Pakistan per i campi di
Peshawar e sono gestiti dai pakistani, mentre nella zona di Herat in
sole tre notti pi di 500 persone, quasi tutti vecchi e bambini, sono
morte assiderate a 25 gradi sotto zero".
Il gelo ha seccato e reso livida la pelle del viso dei bambini del campo
di Anabah che ci circondano a decine, curiosi, non appena mettiamo
piede nel labirinto di fango e corde e immondizia ghiacciata che si
snoda tra le centinaia di teli tesi che sono l'unica protezione dal
freddo delle pi di 4800 persone che vivono qui. Un muro di bambini
vestiti di stracci colorati che contrastano con l'uniformit del marrone
sporco della melma e delle tende rotta a tratti da cumuli di neve
sudicia.
Il muro di bambini si sgretola e si scompone quando un anziano
avvolto di coperte strappate li fa allontanare per lasciarci libero il
passo, ma poi si ricompatta subito, qualcuno meno timido azzarda un
"How are you?" verso di noi e, ottenuta la risposta, "How are you?" si

moltiplica in cento bocche diverse come un'eco. La curiosit si


trasformata subito in un gioco e noi in un giocattolo mai visto, ma poi
sono gli anziani del campo, molti sono qui gi da diciotto mesi, a
guidarci. Alcuni di loro vengono dal nord di Kabul dove avevano
frutteti, erano di famiglie ricche e nei loro gesti ancora impressa
una ostinata dignit, nessuno chiede elemosina.
Sono di etnie diverse: hazar, pushtun, tagiki. Ma, mentre la guerra
sta assumendo sempre pi i connotati di una pulizia etnica condotta
dai taliban (che sono pushtun, mentre i mujaheddin sono per lo pi
tagiki), qui la miseria ha annullato ogni possibile conflitto tra gruppi e
ha reso obbligatoria la solidariet. Tra le tende montate una a ridosso
dell'altra si apre ogni tanto uno spazio vuoto, un telo sfondato,
spalmato sul fango: sono le tende schiacciate dal peso della neve
ridotte a uno straccio inutilizzabile. Intorno a quel vuoto, in piedi, in
silenzio, fissandolo come fosse un feretro, si raccolgono gruppi di
sfollati. "Le famiglie che vivevano l - ci spiega uno di loro - ora
devono vivere in altre tende con altre famiglie, ci sono tende nelle
quali ormai sono costrette tre intere famiglie di 7 o 8 persone l'una,
in 6-7 metri quadrati".
Le donne non ci accompagnano, le scorgiamo in penombra sotto i teli
delle tende, le intravediamo tra i muretti di fango secco che ne
coprono le aperture per proteggere l'interno dal vento ghiacciato che
scende dalle montagne. Attorno a loro qualche tegame di latta
annerito, in terra vecchi tappeti e mucchi di stracci, altri muretti di
fango secco ad angolo vicino alle tende formano rudimentali focolari,
ma la legna scarseggia e si bruciano cespuglietti secchi, unico dono di
questa terra gelata e brulla. Gli uomini pi validi non ci sono. Fanno
chilometri a piedi ogni giorno per andare nei villaggi a cercare cibo in
cambio di lavoro, ma il mercato della miseria avaro e i segni della
denutrizione sono evidenti nei corpi minuti dei bambini e nelle facce
scavate dei vecchi e delle donne.
Il vento sta alzando nuvole di neve sulle creste delle montagne che si
accendono di un rosso vivo nella luce del tramonto. Uno spettacolo
bellissimo. Ma con la notte il freddo, fino a 25 gradi sotto zero, si
porter probabilmente via altre vite. Mentre ci allontaniamo alcuni
bambini ci rincorrono: "How are you?" gridano.
ANABAH
di Giulietto Chiesa
Hafizullah ha tre anni, scalzo, tossisce a colpi catarrosi da bronchite
acuta, il naso pieno di muco. Vive, temo ancora per poco, in una
tenda a malapena ancorata a terra da mucchi di fango. Con lui, nella
stessa tenda, vivono, si fa per dire, altre quindici persone, otto sono
bambini, quattro vecchi. I quattro adulti restanti sono in cerca di cibo,
forse torneranno pi tardi, non detto che troveranno qualcosa.

Fuori, la notte, la temperatura scende sotto i dieci gradi centigradi.


Tutto attorno altre tende, molte delle quali sfondate dalla neve,
testimoniano tragedie gi consumate.
Come Hafizullah vivono ad Anabah cinquemila persone. A decine
muoiono ogni settimana, quasi tutti bambini. Aspettano una lontana
primavera, a 2700 metri, in mezzo a montagne altissime ancora
coperte di neve scintillante, come una speranza per sopravvivere.
Provengono quasi tutti dai villaggi a nord di Kabul. Sono fuggiti ai
combattimenti tra taliban e mujaheddin, si sono rifugiati nella valle
controllata da Ahmad Shah Massud, scegliendo quello che ritengono il
minore dei mali, visto che temono di pi il governo di Kabul. Ma
improprio chiamarla scelta, perch in mezzo a queste montagne si
muore di fame e di freddo, e laggi, nell'altopiano dove sono rimaste
le loro case, si muore di bombe, di mine cosparse nei campi, dove i
bambini perdono gambe e occhi e mani al ritmo di cinque o sei a
settimana solo nel pugno di villaggi che si affollano attorno
all'imboccatura della valle.
Cosa accada, ogni giorno, nel resto di un Paese divenuto un immenso
campo di mine nessuno in grado di dirlo, d'immaginarlo. Nello
spiazzo deserto, battuto dal vento gelido, appena fuori l'edificio
cadente dell'aeroporto di Kabul, si legge ancora una scritta. Tracciata
da chiss quale organizzazione umanitaria che chiedeva aiuto, in
inglese, che risale ancora a Najibullah: "In Afghanistan ci sono dieci
milioni di mine". Nessuno sa quanti siano oggi gli abitanti di questo
paese martoriato: forse dodici, tredici milioni. Dal momento in cui
quella scritta fu tracciata, sicuramente le mine sono cresciute di
numero, anche tenendo conto di quelle che sono esplose,
adempiendo al loro compito di straziare esseri umani. Una mina a
persona. Credo che non ci sia paese al mondo in queste condizioni.
Nella stretta valle del Panshir, mentre scrivo queste righe, di profughi
come Hafizullah ce ne sono all'incirca 220 mila. Piccoli grumi di stracci
miserabili, tende ancorate a terra da mucchi di pietre, bambini
minuscoli che, lungo la strada, gettano terra sotto le ruote della jeep
che s'inerpica lungo la strada sterrata che dall'imboccatura della valle
porta fino ad Anabah. Aspettano una moneta, un pezzo di pane,
qualcosa che li faccia arrivare all'indomani. Sono bambini senza
sorriso, le faccine gi rugose di pensieri adulti di vita e di morte.
Eppure sono figli di famiglie benestanti. Non nel senso nostro,
europeo, ma in quello afghano, di gente che aveva frutteti e campi.
Adesso non hanno pi niente, come quasi tutti gli altri afghani che ho
incontrato per le strade di montagna e di pianura fino a giungere in
questo ultimo inferno.
Che un inferno relativo, di privilegiati all'interno della tragedia.
Perch i cinquemila profughi di Anabah sono accampati attorno
all'ospedale di Emergency. Ed Emergency - che pure ha costruito
l'ospedale per curare le vittime della guerra e che, quindi, non
avrebbe il compito di aiutare i profughi - ha letteralmente salvato

centinaia di disgraziati fornendo tende, pasti caldi, cisterne per


l'acqua, coperte, gabinetti chimici, perfino una grossa tenda per una
moschea di fortuna. Dell'ospedale italiano dovremmo essere
orgogliosi tutti: non c' in Afghanistan qualcosa che possa essergli
paragonato. Ma di questo racconter ancora, perch Emergency - e
Gino Strada che ne la bandiera - sono esempi assolutamente
straordinari non solo di cooperazione e di solidariet, ma anche di
elaborazione di una strategia del soccorso che meriterebbe di essere
additata ad esempio alle organizzazioni internazionali, governative e
non, che teoricamente dovrebbero fronteggiare emergenze di questo
genere.
Perch constato che nessuno fa nulla per questa gente disperata. E
sono dati mostruosi. Ci sono un milione e 200 mila profughi afghani
in Pakistan; un milione e 300 mila sono in Iran; almeno 300 mila si
trovano dislocati nelle regioni nord-occidentali dell'Afghanistan
attorno alla citt di Herat. Qui nell'ultimo mese sono morte di freddo
altre 500 persone, di nuovo in gran parte bambini. Pi questi nel
Panshir. Cifre approssimative per difetto, che segnalano una tragedia
nazionale e una vergogna internazionale. Gi, perch l'Alto
Commissariato dell'ONU per i Rifugiati (UNHCR) si occupa solo dei
profughi all'estero e non autorizzato a intervenire per gli "internally
displaced", cio per i rifugiati che restano all'interno di un paese.
E i profughi crescono di giorno in giorno, in tutte le direzioni, mentre
il Pakistan e l'Iran hanno chiuso le frontiere. Crescono perch i
taliban, ormai da pi di quattro anni al potere a Kabul, non sembrano
in grado di affrontare nessun problema del paese, n di garantire una
qualche forma di sviluppo.
E la gente fugge perch non ha da mangiare, n da lavorare, oltre a
temere per la sua sorte se si tratta di tagiki, di uzbeki, di hazar, cio
di etnie diverse da quella dei pushtun che compongono
esclusivamente la leadership talibana. Ebbene, di fronte a questo il
programma di aiuti dell'UNHCR che fu, nel 1979 (anno dell'intervento
sovietico), esattamente di 26 milioni e 237 mila dollari, era sceso nel
2000 a 2 milioni 427 mila dollari. E l'altra organizzazione dell'ONU,
World Food Program (WFP), dispone soltanto di 50 mila tonnellate di
farina, il pane per un mese e per il 10 per cento scarso dei rifugiati in
Pakistan. Poi sar un'ecatombe anche per loro.
All'ONU si sono decise sanzioni contro il governo dei taliban, ma
questo non solo non risolve il problema: aggrava le capacit operative
dell'aiuto dall'esterno. Un aiuto che - colmo della vergogna - stato e
continua ad essere incanalato attraverso il Pakistan, il cui governo, i
cui servizi segreti, i cui vertici militari sono - secondo tutte le pi
autorevoli, attendibili e informate analisi - tra i principali organizzatori
della vittoria militare dei taliban e della tragedia che l'ha preceduta
nelle furibonde lotte intestine tra i mujaheddin.
I donatori internazionali di aiuto stanno diventando sempre pi avari:
tanto pi avari quanto pi sono diventati ricchi. Il signor Camdessus,

ex direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale e autore


della teoria del "diventare pi ricchi per aiutare i pi poveri" potrebbe
andare a fare una visitina a Herat. O ad Anabah. Forse uscirebbe
dalla sbornia. E, ad esempio, dov' L'UNICEF, il cui scopo aiutare e
difendere i bambini? Non ho visto molto in queste due settimane
passate in Afghanistan, da una parte e dall'altra del fronte. Anche se
ho visto a Kabul gipponi con tutte le sigle del mondo di ONG
(organizzazioni non governative). Ma dove i profughi muoiono
concretamente ho visto solo un centro di pronto soccorso della Croce
Rossa Internazionale (chiuso), e un centro dell'UNICEF (chiuso
anch'esso). Non spetterebbe a loro mettere in moto un soccorso di
emergenza? Altrimenti a chi spetta? E siamo sicuri che ci vogliano
molti denari per fare tutto questo? Emergency ha messo in piedi,
funzionanti 24 ore su 24, ben sei centri di pronto soccorso nelle zone
di guerra, tra Charikar, Baghram, Gulbahar, tutti collegati con
ambulanze all'ospedale di Anabah. Possibile che tutti gli altri messi
assieme non possano fare altrettanto?
Per questo mi chiedo se cos che dobbiamo aiutare la gente afghana
e, in generale, se non sia giunto il momento di adottare altri criteri
per l'aiuto internazionale. Certo, tutti distribuiscono qualcosa. Mi
viene anzi il sospetto che l'Afghanistan, per quel poco che ancora
esiste di vita organizzata, si regga sul fallout di denaro che proviene
dalla miriade di organizzazioni internazionali dalle sigle varie e strane,
che mettono in pace, con la loro sola esistenza, la coscienza
dell'Occidente. Ma mi chiedo anche quanta parte dei flussi di denaro
stanziati dai governi e raccolti tra la gente vada davvero a finire in
aiuti concreti alle popolazioni e quanta invece rimanga, per cos dire,
impigliata nelle infrastrutture burocratiche, negli stipendi generosi che
il grande business della cooperazione internazionale elargisce ai suoi
funzionari e burocrati.
Scende la notte e il campo di Anabah precipita nel buio, inghiottito
nel silenzio. Non c' petrolio per riscaldarsi, figuriamoci se ne resta
per illuminare. Qualche filo di fumo si staglia contro il cielo
limpidissimo rischiarato dai riflessi della neve. Le donne, con il loro
burqa in testa, escono dalle tende per andare a prendere l'acqua
gelida del fiume Anjumar. Sotto i teli si preparano i giacigli di paglia
sulla terra nuda, indurita dagli escrementi. In nessuna delle tende ho
visto qualcosa che assomigliasse a un letto: solo coperte polverose in
una lordura che permea ogni cosa, in mezzo a un lezzo inesorabile,
pungente.
A ogni svolta della ripida salita che s'incunea tra le montagne, dove si
aprono brevi spiazzi a precipizio sul fiume, altri grumi di tende,
alcune con il marchio sbiadito della mezzaluna rossa, altre senza
nomi di donatori. I carri armati sovietici, monumenti di ruggine,
testimoni di un madornale errore di calcolo, alzano ancora i loro
cannoni contro l'ingresso della valle. Qualcuno di quei giganti di ferro
era riuscito perfino, chiss a quale prezzo, a inerpicarsi all'interno

della valle per qualche chilometro, e ora giace, con la torretta esplosa
scaraventata a decine di metri di distanza, sul bordo stretto, a un
passo dallo strapiombo, della strada di Ahmad Shah Massud.
Ma neanche i taliban hanno finora potuto entrare fin qui. Oggi non
nemmeno passato uno dei loro Mig, residuati dell'aiuto sovietico a
Najibullah. La gente di Anabah racconta che, ogni tanto, il governo di
Kabul manda un aereo per gettare qualche bomba a casaccio, tanto
per dimostrare che esiste. Dove colpisce non fa differenza: le tende
non sono rifugio minore di quello offerto dai mattoni di fango delle
case dei villaggi. Qui la luce elettrica non c' mai stata per nessuno.
Questo un mondo dove non c' nessun "digital divide", e dove non
ci sar per intere, altre generazioni.
Non so se Hafizullah sia ancora vivo quando queste righe andranno in
stampa. Ma ho la sensazione che il suo destino abbia dei responsabili.
Certo non solo tra coloro che si rivelano incapaci di aiutarlo a vivere.
E non riesco a togliermi dalla testa l'idea, sommamente sgradevole,
che ci sia un nesso, mediato ma preciso, tra coloro che hanno
finanziato i signori della guerra afghani, quegli altri che hanno loro
venduto le armi e quegli altri, infine, che controllano ogni mattina le
quotazioni di borsa a Wall Street o a Milano, senza neanche
sospettare di avere a che fare con il destino di un piccolo bambino di
Gulbahar. E non riesco neppure a togliermi dalla testa l'altra idea,
ancora pi sgradevole, che un nesso preciso esista anche tra il
destino di quel bambino scalzo e i miei scarponi impermeabili da
inviato speciale.
In queste tende quelli che hanno avuto la fortuna di trovare qualcosa
da mangiare, stanno cucinando. Per gli altri c' il sonno della fame, e
della morte. L'intera, aspra vallata del Panshir si spegne in un silenzio
irreale. Qui la storia si fermata. Non ci sono nemmeno i pianti dei
bambini. I bambini afghani non hanno tempo per piangere.
LA CITTADELLA DI ANABAH. INCONTRO CON GINO STRADA
di Vauro
Per quasi undici ore consecutive Gino Strada ha guidato il fuoristrada,
con la bandiera bianca di Emergency sul cofano, che attraverso una
pista insidiosa e squassata da buche, fango e neve, valicando passi a
2900 metri di altitudine ci ha condotto da Kabul al Panshir di Massud.
Gino ha attraversato con noi a piedi i quindici chilometri di terra di
nessuno che separano le prime linee dei taliban da quelle dei
mujaheddin, dove si incrociano i colpi di mortaio e i cupi sospiri dei
razzi katiusha. Ci siamo da poco accovacciati sul tappeto in una
stanza della casa di Emergency ad Anabah. Gino dovrebbe essere
stravolto di stanchezza, e probabilmente lo , fuma nervosamente
una sigaretta, ha fretta. Ha fretta di recarsi nell'ospedale che
Emergency ha aperto qui nel dicembre del 1999. Manca solo da poche

settimane ma non ce la fa nemmeno a prendersi il tempo di


sorseggiare con calma un t ristoratore tanta l'ansia di tornare dai
suoi pazienti.
Il t ce lo porta Jalil, il padrone della casa che Emergency ha affittato.
Una casa di due piani, mattoni di fango secco. Ma Gino l'ha fatta
dipingere, ci ha fatto costruire dei bagni, l'ha dotata di generatore per
la corrente elettrica e di un impianto idraulico per l'acqua del
serbatoio.
Lussi da "signore" ad Anabah, come in tutti gli altri centri del Panshir
dove corrente e acqua non sono mai arrivate e le strade sono di fango
in inverno e di polvere in estate.
Infatti Jalil si inventato un altro Jalil. "Coco Jalil" (coco significa
signore, in lingua farsi) perch il proprietario di una cos bella casa
non poteva essere un poveretto come Jalil ma un vero signore, Coco
Jalil appunto. Jalil stato sette anni chiuso nella terribile galera di
Pul-i-Charki a Kabul, prima sospettato di essere un mujaheddin, poi
semplicemente dimenticato. Ma se gli si chiede qualcosa risponde
ridendo che s, Jalil stato in carcere, picchiato e torturato ma "Coco
Jalil" mai! I signori non finiscono in galera.
Non passata un'ora da quando siamo arrivati ad Anabah che gi
attraversiamo l'unico tratto di asfalto di tutto il Panshir: quello che
porta all'ospedale che sorge nell'immediato limitare del villaggio. Le
mura bianchissime, sorvegliate da guardie che Emergency ha voluto
disarmate, per dare un segnale di pace in questo paese dove spesso,
seppur di artigianali archibugi ad avancarica, anche i bambini girano
armati.
A fianco delle mura, le immancabili carcasse di carro armato, "Ma - ci
dice Gino - alcuni pezzi di quelle carcasse ci sono serviti per costruire
l'ospedale. E difficilissimo far arrivare fin qui i materiali da
costruzione, i medicinali e le attrezzature sanitarie. Avete visto, la
strada che porta al Panshir bloccata da container pieni di pietre.
Bisogna portare tutto con gli asini e i muli".
La serenit che regna dentro le mura dell'ospedale non pu fermare
la voracit della guerra che lacera il Paese.
Attorno all'ospedale cresciuto un grande campo profughi, pi di
5000 persone. Le tende, centinaia, sono piantate proprio a ridosso
delle sue mura bianche. L'ospedale sembra una cittadella assediata.
Ma, al contrario, la cittadella che assedia la miseria del campo. Qui
almeno i rifugiati, che in altri campi muoiono dimenticati dal mondo,
hanno ricevuto tende, coperte, cibo, medicinali, addirittura sono stati
impiantati bagni chimici per arginare il disastro sanitario.
Soran, Jussef: alcuni infermieri sono kurdi, vengono da Sulaimaniya.
Si sono formati nell'ospedale di Emergency nel Kurdistan iracheno e
ora sono qui come personale internazionale. Non solo la lingua
kurda, molto simile al farsi afghano, a renderli preziosi, ma
soprattutto la loro conoscenza, vissuta e diretta, dell'orrore della
guerra che li avvicina a chi ne vittima.

Fra le mura di cinta dell'ospedale e i padiglioni bianchi a schiera come


villette, si aprono ampi spazi aperti, curati e pulitissimi che danno
respiro a tutta la struttura: la mensa, la sala giochi per i bambini, la
scuola, il deposito di medicine, il distributore di carburante, la stanza
del generatore, fino al campo di pallavolo e alla piazzola di atterraggio
per l'elicottero, che sarebbe utilissimo viste le enormi difficolt di
spostamento, ma che ancora non c' perch non ci sono sufficienti
fondi per l'acquisto.
Gino gi si dimenticato di farci da guida nell'ospedale impegnato
com' a controllare tutto, a discutere con gli infermieri e il personale.
In una delle sale linde e luminose dell'accettazione, alcuni pazienti
appena arrivati gi indossano i pigiami puliti che passa l'ospedale.
Gino si arrabbia con chi li ha accolti: "Hanno solo dei calcoli renali. Se
i taliban bombardano qualche villaggio e arrivano decine di feriti
gravi, dove li metto se loro occupano i letti?". Questo ospedale e i sei
centri di primo soccorso che Emergency ha costruito sono gli unici
presidi sanitari di tutto il Panshir.
La corsia delle donne e delle bambine piena. C' stato un
bombardamento di Mig sul villaggio di Gulbahar. Ferite da schegge,
da ustioni le donne e le bambine riempiono i letti con lenzuola fresche
e coperte pulite. A viso e capo scoperto, libere dai veli, ritrovano,
seppur nella sofferenza, una dimensione di dignit e umanit
garantita dalla assidua assistenza dei medici e degli infermieri, in un
ambiente ordinato e pulito.
Sul piazzale si fermato un furgone che viene da uno dei centri di
primo soccorso, sorretto da due infermieri, ne scende un uomo. Una
benda bianca gli copre il volto per met, stato colpito all'occhio da
una scheggia di bomba. La serenit che regna dentro le mura
dell'ospedale non pu fermare la voracit della guerra che lacera il
paese ma, ed molto, strappargli alcune delle vittime.
Il bambino steso in uno dei letti ha gli occhi socchiusi, sua madre gli
accarezza la fronte, una infermiera scosta un lembo delle lenzuola
che lo coprono. Gino ha un moto di rabbia: "No, il moncherino della
gamba non deve stare in questa posizione, se il muscolo si atrofizza
cos non sar pi possibile mettere la protesi". Con un movimento
deciso afferra il pezzetto di gamba che resta sotto il ginocchio del
piccolo e lo forza nella giusta posizione. Il bambino grida e si mette a
piangere. "Devi tenerlo cos - gli dice Gino parlando in italiano - se no
non potrai pi camminare". Il bambino lo guarda serio e smette di
piangere, come se avesse capito che qualcuno potr restituirgli la
gamba che una mina gli ha rubato.
L'Afghanistan non terra di miracoli anche se questo ospedale lo
sembra. Sono l'intelligenza, la volont, l'amore e la fantasia di una
piccola organizzazione italiana come Emergency, delle persone che vi
spendono la vita come Gino Strada a farlo sembrare tale.

QUELL'UNICO MADE IN ITALY CHE CI PIACE


di Vauro
"E qui pianteremo le buganvillee, perch questa gente ferita dalla
guerra, con negli occhi solo orrore, ha diritto a un po' di bellezza!".
Era lo scorso febbraio e Gino Strada mi mostrava l'ospedale di
Emergency a Kabul quasi ultimato. Il 25 aprile di quest'anno gi
l'ospedale diventato operativo. Ci sono luoghi che si imprimono nel
cuore oltre che nella memoria e le mura bianche di quell'ospedale,
unica isola di civilt dentro una Kabul martoriata, sono uno di questi.
Siamo a maggio e le buganvillee saranno sicuramente fiorite. Chiss
se i taliban che hanno fatto irruzione nell'ospedale le avranno viste?
Chiss se questi fiori di speranza calpestati susciteranno la stessa
indignazione nel mondo "evoluto" delle statue dei Buddha fatte
saltare? Chiss se in questa nostra Italia dove si riscopre con gran
clamore l'amor di patria, l'orgoglio nazionale si sentir offeso
dall'aggressione al lavoro svolto con intelligenza, amore e fantasia da
alcuni dei suoi migliori "ambasciatori", gli italiani di Emergency, che
hanno portato in quel lontano paese il "made in Italy", non nella
forma di vestiti griffati, ma nella sostanza di un eroico e ostinato
aiuto a un popolo dimenticato e sofferente? Io l'ho provato l'orgoglio
di essere italiano, quando ero tra le mura di quell'ospedale a Kabul,
cogliendo la stima e il rispetto negli sguardi che gli operai afghani che
lavoravano nella struttura rivolgevano al personale di Emergency.
Vadano l a tagliare il nastro tricolore per la riapertura dell'ospedale
di Emergency il presidente della Repubblica, il vecchio o il nuovo
presidente del Consiglio.
Vadano l a dimostrare che l'Italia fiera di essere "rappresentata"
all'estero da cittadini come Gino Strada e soprattutto che non li lascia
soli.

Vous aimerez peut-être aussi