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Antonio Montanari
Malatesti e dintorni
Articoli apparsi
sul settimanale riminese
"il Ponte"
tra 1990 e 2013
Sommario
Tempio, il sorriso del saggio.
Tempio, il segreto delle tombe.
I pianeti di Sigismondo.
Novello Malatesti.
Passioni malatestiane del 1718.
Eruditi e maldicenti, 1756.
Ritrovati i Malatesti dei Lincei.
Sigismondo il terrorista, 1461.
Le spie della Serenissima, 1461.
Un orologio turco per l'Europa.
Il sacerdote che difese Sigismondo.
Paolo e Francesca vittime di un delitto politico?
Il primo Malatesta, detto "il Tedesco".
Cleofe, un concilio, le nozze, un delitto.
Elena, la regina di Cipro.
Malatesti, Petrarca e Visconti, 1357.
Umanesimo riminese.
Tempio Malatestiano, cultura senza segreti.
Recensioni.
Sigismondo, il sogno di Bisanzio.
Le Signorie dei Malatesti.
Cesena tra Quattro e Cinquecento.
Se Dante rassomiglia a Francesca.
anatomica
come
quella
richiesta
dall'apertura
degli
avelli
malatestiani. Alla quale Bianchi non avrebbe mai partecipato, come
conclude, per non autorizzare colla sua presenza, e colla sua
direzione un fatto contro le leggi civili e canoniche.
["il Ponte", 12.01.2003/2)
I pianeti di Sigismondo.
La cultura della corte malatestiana.
Con nuovi volumi della Storia delle Signorie dei Malatesti
prosegue intensa l'attivit del Centro Studi Malatestiani e
dell'editore Bruno Ghigi che lo ha creato e lo sostiene in mezzo ad
enormi difficolt (tra cui l'indifferenza di troppe istituzioni
locali). Di alcuni di questi recenti volumi diamo notizia sommaria
in questo ed in un successivo servizio, avvertendo che la scelta
degli argomenti e dei temi presentati dipende unicamente dal
desiderio di informare circa parti che sono apparse soggettivamente
importanti, senza voler con questo creare graduatorie di merito od
esprimere censure preventive verso chi non verr ricordato se non
con una breve citazione. D'altro canto, la messe delle informazioni
tale che, in un mbito non specialistico come il nostro, dobbiamo
per forza selezionarne alcune, senza svolgere discorsi sui massimi
sistemi che non ci competono.
Buone ragioni
per diffidare
Il testo sulla Cultura letteraria nelle corti dei Malatesti,
curato da Antonio Piromalli (noto studioso riminese di adozione,
recentemente scomparso), offre con Franco Bacchelli dell'Universit
di Bologna un'indagine sulla Cappella dei Pianeti che si trova nel
Tempio malatestiano: un discorso attento sopra un tema spesso
trattato con fanatismo pregiudiziale e fantasioso dai locali circoli
massonici. Non per nulla Bacchelli premette: vi sono certo buone
ragioni
per
diffidare
di
questo
argomento,
dato
che
si
attribuiscono misteriose velleit esoteriche a Sigismondo, partendo
da una citazione ricavata dalla pagina conclusiva del De re
militari di Roberto Valturio.
In tale pagina, Valturio accenna alla suggestione esercitata sopra
Sigismondo dalle parti pi riposte e recondite della filosofia. In
una preziosa nota, Bacchelli riporta la fulminante diagnosi
espressa da Carlo Dionisotti in un volume del 1980, dal quale
leggiamo: Dove fosse in questione la fede cristiana, il Valturio
era intransigente: non poteva fare a meno di registrare la pratica
della divinazione, ma la deplorava e la interdiva nel presente come
arte
diabolica,
anche
nella
forma
allora
e
poi
normale
dell'astrologia giudiziaria. (Basta quest'autorevole diagnosi per
togliere ogni validit sul piano storico e critico alle pur
suggestive ma devianti interpretazioni dei ricordati circoli
massonici locali.)
I bassorilievi della Cappella dei Pianeti, prosegue Bacchelli,
dimostrano la convinzione del committente che nei cieli che
bisogna ricercare la causa, se non di tutti, almeno dei pi
rilevanti
accadimenti
terrestri.
Questo
principio
era
pacificamente accettato nelle corti poste tra Venezia, Ferrara e
Rimini, prima che Giovanni Pico della Mirandola procedesse alla fine
del XV secolo ad una radicale negazione dell'esistenza degli
influssi astrali.
Pico rifiuta
l'astrologia
Occorre a questo punto accennare brevemente alla figura di Pico
della
Mirandola.
Nelle
Disputationes
contra
astrologiam
divinatricem egli considera la materia e non l'influenza degli
astri la sola causa del disordine, delle irregolarit e delle
imperfezioni esistenti nel mondo terreste. In un altro testo,
l'Oratio de hominis dignitate, Pico fa riferimento ad una dottrina
segreta, riservata agli eletti, e sviluppatasi nel seno della
tradizione ebraica. Da questi pochi elementi si comprende perch
Pico sia stato gi in vita considerato un eretico.
Nell'Oratio egli considera l'uomo come creatura dalla natura
illimitata, dominatore dell'Universo, contribuendo grandemente cos
al mito orgoglioso dell'Umanesimo per cui l'uomo stesso pu s
degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti, ma pu anche
rigenerarsi nelle cose superiori che sono divine.
Questo mito sembra proiettarsi nella struttura ideale del nostro
Tempio, dove esso per soccombe davanti all'immagine del Cristo
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Carattere deciso,
media tra i figli
Forte e determinata, la defin Falcioni [Storia di Bellaria, II],
sottolineandone il carattere deciso che si riflette anche sui figli
quando interviene come mediatrice per appianare i dissensi politici
e militari che spesso li dividevano. Richiamando un atto notarile
scoperto da Oreste Delucca, Orlandi ricorda che Antonia si mosse a
compassione dell'indigenza di certi suoi debitori a cui cedette in
uso quasi gratuito la casa che era stata loro confiscata a San
Mauro.
Antonia, prosegue Orlandi, fu molto legata ai suoi figli. A
Sigismondo riserva una stanza nel palazzo di Bellaria, dove Novello
muore quasi a testimoniare (come fu ipotizzato da Delucca) il suo
bisogno di cercare rifugio e conforto presso la madre piuttosto che
con la consorte Violante.
Violante bambina
promessa sposa
Sulle cause di questo bisogno, appaiono illuminanti le intense
pagine di Bravetti Magnoni dedicate appunto a Violante. Nel 1434 il
sedicenne Novello, per iniziativa di Sigismondo, firma il contratto
di matrimonio con Violante che aveva soltanto quattro anni e mezzo:
la premessa ad un accordo politico fra le loro famiglie che si
erano continuamente combattute. Le nozze giungono otto anni dopo, il
4 giugno 1442 a Gubbio, dove la corte feltresca ogni anno
soggiornava a lungo.
Lui ha 24 anni, lei soltanto dodici. Per questa sua et immatura ai
fini coniugali, dopo le gioiose feste pubbliche i due giovani sono
costretti alla separazione. Violante resta ad Urbino, poi spedita
a Roma, mentre sullo sfondo si delinea un inquietante quadro
politico: Il costretto ed indecifrabile soggiorno di Violante a
Roma aumentava il dissidio tra lei ed il fratello Federico, dopo la
morte del padre Guidantonio nuovo duca d'Urbino, contro il quale
s'indirizzavano le accuse dei nemici d'aver cacciato la sorella
dalla propria casa e dai propri beni.
Ed alla fine
va in convento
Violante, nella notte del 23 luglio 1444 quando cui venne ucciso suo
fratello Oddantonio, fa voto di rimanere pura ed illibata per
sempre. Immaginiamo quindi con quale spirito giunga tre anni dopo a
Cesena, accolta dalla citt come se le nozze fossero state celebrate
il giorno prima. Passati pochi giorni Novello cade infermo per
un'emorragia ad una gamba: l'imperizia del suo medico personale lo
costringe a ricorrere alle cure di quello del fratello Sigismondo a
Rimini. Scrisse Fantaguzzi che Domenico, fattosi alazare una vena
grossa d'una gamba, rimase storpiato.
Le cronache del tempo ricordano Violante bella quant'altri mai,
semplice e mansueta, ma anche piena di ogni festevolezza. Nel 1458
avviene il dramma della sorella Sveva, accusata di adulterio e di
tentato veneficio dal marito Alessandro Sforza, signore di Pesaro.
Il fratello Federico, scrivendo al cognato duca di Milano, riesce a
salvare Sveva dai malvagi tentativi del consorte (che per ben tre
volte cerc di farle bere del veleno), rinchiudendola in un convento
di Pesaro. Profondamente scossa nell'anima, Violante volle farsi in
qualche modo partecipe del dolore di Sveva, e decise di astenersi
anche dal cibo. Ma pens anche alla salute dei propri concittadini:
il marito concord con lei quando gli propose la demolizione del
vecchio ospedale di San Gregorio fuori Porta cervese, per
fabbricarne uno nuovo, detto del Crocifisso, nei pressi del duomo.
Novello muore nel novembre 1465 quando Violante ha 35 anni. Qualche
tempo dopo, con il nome di suo Serafina, lei si ritira a Ferrara in
un monastero dove scomparir nel 1493. Violante, scrive Bravetti,
aveva ricevuto una solida formazione umanistica alla quale si
aggiungeva una ricca e precisa conoscenza dei testi sacri. Grazie a
questa sua formazione, dovette partecipare con entusiasmo e
competenza al progetto della biblioteca che ancor oggi costituisce
un vanto tutto cesenate.
Le imposte
per i libri
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per le doti del fisico che per quelle dello spirito. Famoso per
gloria militare, straordinaria eloquenza e forza del corpo, lo
giudica per ignobile per infami costumi ed un genere di vita che
nulla aveva avuto di cristiano. A questo punto Wadding ricorda la
biografia di Sigismondo scritta da Pio II che niente aveva
tralasciato dei presunti delitti del signore di Rimini.
Wadding prosegue sostenendo che Sigismondo dedica s il Tempio alla
memoria di san Francesco, ma lo riempie di immagini con miti pagani
e simboli profani, aggiungendovi pure un mausoleo (di fattura e
materia bellissima) per la sua amante, con un epitaffio chiaramente
pagano (Dedicato alla divina Isotta).
Garuffi taglia corto: Sigismondo stato un eroe insigne non meno
per valore, che per la religione, e Wadding aveva scritto soltanto
una serie di cose falsissime.
Il principe
e le sue donne
Garuffi sapeva che Pio II l'aveva accusato di aver ripudiato la
prima moglie, avvelenata la seconda, strangolata la terza. Ed anche
per papa Piccolomini, il bibliotecario riminese ha pronte le
risposte in difesa di Sigismondo. La prima moglie era la figlia del
Carmagnola: rifiut di sposarla dopo la condanna a morte del futuro
suocero (1432). Per Ginevra d'Este, la seconda (ma in realt la
prima ad essere impalmata), il sospetto di una morte per veleno fu
diffuso dai parenti del Carmagnola. Circa Polissena Sforza, Garuffi
spiega che se anche l'avesse fatto, Sigismondo avrebbe agito per
giusta ragione di Stato avendo lei rivelato al padre, in lettere
intercettate dal marito, alcuni militari segreti del consorte.
Infine Garuffi scrive che Isotta era stata sposata da Sigismondo,
quindi non si poteva definire sua amante.
Nelle pagine successive Garuffi passa alla difesa del Tempio, con la
descrizione delle singole cappelle, riservando la conclusione al
problema della scritta sulla tomba d'Isotta (D. Isottae Ariminensi
B. M. sacrum. MCCCCL). Quel D. sta ad indicare Dominae e non
Divae come aveva interpretato Wadding. Ma se anche fosse come
proponeva lo storico francescano, spiega Garuffi, non ci sarebbe
nulla di male, perch chiamare diva Isotta significava soltanto
usare un titolo degno per la moglie di un principe, senza alcun
sentore di gentilesimo, cio di paganesimo. (Sul B. M. gli
studiosi si sono sbizzarriti: beata o buona memoria, oppure
benemerita.)
La vicenda
di Isotta
Fortunatamente Wadding non sapeva quanto scoperto nel 1912 da
Corrado Ricci. La discussa iscrizione per Isotta era stata
sovrapposta ad un'anteriore, ancora pi compromettente: Isote
ariminensi forma et virtute Italiae decori. MCCCCXLVI. Era di
un'audacia scandalosa quel decoro d'Italia riservato ad una
giovinetta come Isotta che aveva circa tredici anni nel 1446, quando
fu sedotta da Sigismondo mentr'era ancor viva la moglie Polissena.
Isotta nello stesso anno concep da Sigismondo un figlio, Giovanni,
che mor in fasce il 22 maggio 1447.
Wadding ricorda che origine e genealogia riminese dei Malatesti
erano state riassunte da fra Leandro Alberti in una sua opera
(Descrittione di tutta l'Italia e Isole pertinenti ad essa, 1550).
Leandro Alberti osserva: Sigismondo fu valoroso capitano de i
soldati, e la sua vita stata descritta da Pio II che narra i
suoi vitij, et opere mal fatte, anche se nell'ultimo di sua vita,
chiese perdono ad Iddio con lagrime de i suoi errori, et pass di
questa vita da buon Christiano. Neppure una parola per il nostro
Tempio c' in fra Leandro, il quale invece per Malatesta Novello
spiega che essendo letterato, et virtuoso edific quella sontuosa
libraria nel monasterio di San Francesco di Cesena, ove pose
nobilissimi libri tutti in carta pecora, e a mano scritti, et ornati
di belli mini.
L'anonimo
mascherato
A Garuffi nello stesso anno (Rimino, 15 dicembre 1718) risponde un
anonimo con altra Lettera a stampa, prendendo le difese di padre
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Eruditi e maldicenti.
1756, contestata la riapertura degli avelli nel Tempio.
Il 22 luglio 1756 padre Francesco Antonio Righini, procuratore dei
Minori Conventuali di San Francesco, apre furtivamente l'Arca degli
Antenati, nella cappella della Madonna dell'Acqua al Tempio
malatestiano. Con s porta quale esperto il pittore Giambattista
Costa, e come tecnici due muratori: quello che entra all'interno
dell'Arca, ne scompiglia i poveri resti. Il 15 agosto Righini
ispeziona le casse di marmo nella fiancata esterna destra alla
presenza di alcuni testimoni, ed il giorno successivo il sepolcro
d'Isotta davanti a dodici persone.
Il francescano compie l'esplorazione degli avelli proprio mentre
architetta un colpo con cui spera di diventare famoso. Imbroglia le
carte sulla storia della beata Chiara da Rimini, ed inventa la
scoperta d'un manoscritto datato 1362, raschiando la data originale
del 1685.
La sua impresa al Tempio non piace a molti in citt. Le critiche gli
piovono addosso abbondantemente. Il 19 agosto padre Righini scrive a
Giuseppe Garampi, prefetto dell'Archivio Segreto Apostolico Vaticano
e studioso di meritata fama. Invoca una specie d'assoluzione per la
sua iniziativa. Gli confida d'aver agito soltanto per curiosit ed
allo scopo di porre con ogni sincerit il vero della Storia di ci
che concerne questo nostro magnifico Tempio.
In cerca
di notizie
Righini con Garampi non usa la stessa sincerit e non ricorda
tutto il vero. Tralascia la visita fatta il 22 luglio all'Arca
degli Antenati. Cita solamente la seconda esplorazione dell'Arca,
svolta il 16 agosto dopo quella nella tomba d'Isotta. In
quest'occasione nell'Arca si vede soltanto un mucchio d'ossa confuse
fra gli stracci, grazie all'imperizia di quel muratore pasticcione.
Righini sa poco o nulla della storia illustre della chiesa di cui
custode. Lo dimostra quando, nella stessa missiva, chiede a Garampi
di suggerirgli qualche notizia particolare attorno a questo
nostro Tempio, da inserire nella rozza composizione che gli
stata richiesta, ovvero una storia del Malatestiano. Un suo compagno
d'avventura, il filosofo e naturalista Giovanni Antonio Battarra,
scriver in una Lettera a stampa (Milano, 1757) che in citt
attorno alle tombe del Tempio correvano due opposte opinioni. C'era
chi, seguendo la tesi di Giuseppe Malatesta Garuffi (1655-1727),
riteneva che nella maggior parte di esse vi fossero le ceneri dei
'titolari'. Altri invece sostenevano che fossero vuote. Righini,
secondo Battarra, si era mosso per decidere chi dei due partiti
avesse ragione.
Il mistero
d'un silenzio
Il silenzio di Battarra sul progetto del frate (di scrivere qualcosa
sulla vicenda secolare del Tempio), s'accompagna a quello sullo
stesso padre Righini mai citato nella Lettera milanese. Battarra
riferisce vagamente di alcuni Galantuomini che la sera del 15
agosto si portarono a que' Monumenti di Marmo che sono nella
facciata laterale del Tempio dalla parte di mezzod. Resta un
mistero perch non indichi il nome del frate come ideatore di tutta
l'impresa. Neppure nelle note alla Lettera, curate da un suo
allievo (Epifanio Brunelli), si parla di padre Righini, ma si cita
vagamente un Promotore dell'iniziativa.
Battarra (come lo stesso Righini) inizia la Lettera dal 15 agosto,
'dimenticando' l'anteprima del 22 luglio nell'Arca degli Antenati.
L'ha ricordata invece in una Relazione manoscritta inviata
nell'estate del 1756 ad alcuni amici, tra cui lo stesso Garampi che
la conserv a noi posteri. Pu essere stato lo stesso Righini a
suggerire a Battarra di tacere sul 22 luglio.
L'accusa in citt:
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troppo audace
Righini, il 19 agosto, con Garampi osserva che restava da aprire
soltanto un altro sepolcro, quello di Sigismondo: se la curiosit
mi trasporter a farlo voglio farlo con tutta la pulizia possibile,
cercando di avere presenti il vicario generale della Diocesi, il
notaio ed altre persone graduate per testimonj. Il desiderio di
agire, per cos dire, alla luce del sole e con tutta la pulizia
possibile, nasce dalla volont di mettere a tacere le malelingue
che lo hanno tacciato per troppo audace. Padre Righini confida a
Garampi di non curarsi per dei latrati insussistenti e vani
indirizzati alla propria persona. E precisa d'aver agito colla
licenza del vicario generale della Diocesi e del Religioso
superiore dell'Ordine a cui appartiene.
Finalmente il 21 agosto c' la ricognizione alla tomba di
Sigismondo, a cui concorrono pi di trenta amici di padre Righini.
Il vicario non interviene, ma si presenta il Capoconsole pro tempore
Lodovico Battaglini. L'assenza del vicario, il canonico Francesco
Maria Pasini (futuro vescovo di Todi ed educatore, un po'
sfortunato, di Aurelio Bertla), interpretata come un modo
elegante per non approvare un'azione sulla quale gli avversari di
padre Righini avanzavano dubbi circa il rispetto di alcune norme del
Diritto canonico.
Garampi
conosce
dunque
tutti
i
particolari
della
vicenda
malatestiana soltanto dalla Relazione manoscritta di Battarra,
contenente il racconto completo delle esplorazioni, a partire
proprio dal 22 luglio e dall'Arca degli Antenati. Dal confronto tra
questa Relazione di Battarra (senza data) e la lettera del
francescano, Garampi poteva dedurre che padre Righini aveva voluto
nascondere l'atto iniziale della sua impresa per non apparire quello
sprovveduto che apertamente si confessava con il suo silenzio. Il 5
settembre Battarra (provetto disegnatore ed incisore) invia a
Garampi un abbozzo del cadavere di Sigismondo.
Il dottor Bianchi
si offeso
Quando padre Righini scrive a Garampi dei latrati insussistenti e
vani rivolti contro la sua persona, sa con certezza chi poteva
accusare: Giovanni Bianchi (Iano Planco), medico, naturalista,
docente di Anatomia umana a Siena dal 1741 al '44, e rifondatore
dell'Accademia dei Lincei nel '45. Secondo Battarra, il suo maestro
Bianchi era fra quanti militavano nel partito dei cenotafi, cio
delle tombe vuote. Bianchi se l' presa a male perch stato tenuto
fuori dall'impresa. In effetti, in citt egli era l'unico che per
dottrina ed esperienza fosse in grado di esprimere consapevolmente
un parere scientifico e storico sull'esplorazione agli avelli del
Tempio. Alla quale fu presente un suo ex allievo, il medico
Giambattista Brunelli, fratello di Epifanio, assieme al collega
Girolamo Grassi.
Ignoranti
e di poca mente
Quando pubblica sulle Novelle letterarie di Firenze una recensione
delle Notizie intorno ad Isotta da Rimino di Giammaria Mazzuchelli
[vedi Passioni malatestiane del 1718, Ponte, 5.10.2003], Bianchi
sottolinea con studiata malizia d'aver appreso che il sepolcro della
donna di Sigismondo era stato da poco aperto privatamente.
A Bianchi scrivono lo stesso Mazzuchelli ed alcuni redattori
editoriali di Venezia, per saperne qualcosa di pi. Lui risponde a
tutti, ma prima di avviare le missive al corriere, le legge
pubblicamente in citt. Ce lo fa sapere Battarra in una lettera del
7 maggio 1757 ad un suo corrispondente, Ferdinando Bassi: Bianchi
sostiene che quei sepolcri sono stati aperti privatamente da un
Fraticello ignorante che si unito con alcuni di poca mente e che
nottetempo sono andati a frugacciare nelle tombe. Alla lettura di
queste missive, Bianchi accompagna commenti cordialmente osceni in
faccia allo stesso Battarra ed agli altri della compagnia di
Righini.
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Uno stile
da villano
Battarra protesta con Giovanni Lami, direttore delle Novelle per
la recensione di Bianchi dove si parla dell'esplorazione della tomba
di Isotta fatta privatamente, e gli invia una relazione di dette
aperture, che pubblicata il 29 aprile 1757, e che provoca la
furia del dottor Bianchi. Questa lettera di Battarra a Lami port
Alessandro Tosi (1927) ad attribuire a Battarra medesimo la
paternit del testo apparso sulle Novelle.
Lo stile di questo scritto non per quello di Battarra. Fra le
espressioni usate, e che Bianchi critica (per lui sono parole da
villani del nostro contado), ve n' una che si riferisce all'Arca
degli Antenati: in mano ad un cadavere giudicato di donna, fu
trovata una rama d'ulivo. Battarra nel testo inviato manoscritto a
Garampi ha scritto correttamente: in mano un ramo d'Ulivo. Proprio
nelle note di Epifanio Brunelli alla Lettera milanese di Battarra,
appare la stessa espressione censurata da Bianchi: una rama d'ulivo
in una mano. Pu essere questa la prova (stilistica) per attribuire
lo scritto fiorentino non a Battarra ma ad Epifanio Brunelli.
Dal fatto che la Relazione d'apertura d'Avelli sia stata inviata a
Firenze da Battarra, non deriva nulla circa la sua paternit
letteraria. Battarra conosceva Lami, delle cui Novelle Epifanio
Brunelli diventer collaboratore soltanto successivamente. Nel 1759
Epifanio Brunelli vi pubblica la recensione proprio alla Lettera
milanese di Battarra, senza avvisare quest'ultimo (il quale, nel
frattempo, ne aveva inviata a Lami una di suo pugno).
Cose infami
da forca
Il
dottor
Bianchi
reagisce
duramente
alla Relazione. Con
Mazzuchelli dichiarer che l'ha elaborata Battarra, dopo aver letto
nella seconda edizione delle Notizie su Isotta dello stesso
Mazzuchelli (1759), che essa era d'altra penna da quella di
Battarra. Bianchi invia varie lettere a Lami, sostenendo che quello
scritto portava disonore alle Novelle, e che esso era stato
composto male e scioccamente soltanto per combattere la sua
affermazione fatta sull'apertura della tomba d'Isotta compiuta
privatamente. Questi signori, scrive Bianchi, hanno commesso il
reato di violazione di sepolcro, cose infami che hanno in oltre con
s la pena della forca.
Battarra con il suo corrispondente Bassi, il 21 giugno 1757 osserva
che Bianchi lo ha colpito con un esercito d'impertinenze, ed
diventato s fanatico da farsi compatire dappertutto, e da
divenire inavvicinabile. Ma il 29 settembre Battarra ricorre a lui,
per chiedergli una visita urgente al padre aggravato dal mal
d'orina. Pace fatta.
Secondo Battarra, il dottor Bianchi aveva giudicato il mancato
invito alle esplorazioni nel Tempio al pari d'un delitto di lesa
maest. Al nipote di Bianchi, Girolamo (anch'egli medico), Battarra
confida: suo zio se l' presa con me, ed il maggior mio dispiacere
di vederlo rendersi pressocch ridicolo e puerile. Giovanni
Bianchi interpreta la vicenda in modo diverso. Rammenta che cinque
anni prima, proprio dagli ecclesiastici riminesi, stato montato lo
scandalo per la sua lettura ai Lincei del discorso sull'Arte
comica, messo poi all'Indice con una procedura che Giuseppe Garampi
giudic rapida ed improvvisa. Per non dire quasi irregolare.
["il Ponte", 19.10.2003/37]
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Sigismondo il terrorista.
Fu accusato nel 1461 di spingere Maometto II contro
Roma.
Nei fatti della Storia come nei romanzi gialli o nelle indagini
poliziesche, i dettagli vanno raccolti e raccontati con attenzione.
Essi aiutano a comprendere un personaggio, a ricostruire una vicenda
collettiva, a tessere o decifrare una trama che altrimenti
resterebbe lontana e confusa come un paesaggio remoto. Il quale, se
affascina nella sua sommaria sintesi, non offre per la possibilit
di descrivere i tratti caratteristici del suo territorio.
Partiamo da un notizia di cronaca, prima di entrare nel merito
dell'argomento. Londra ha di recente ospitato alla Royal Academy of
Arts una mostra intitolata Turchi, un viaggio lungo mille anni.
Tra i pezzi in mostra c'era il ritratto di Mehemed (Maometto) II
attribuito a Shiblizade Ahmed ed eseguito nel 1480. Maometto II era
nato ad Adrianopoli (Edirne) nel 1430, e mor nel 1481. Il 29 maggio
1453, conquist Costantinopoli ponendo fine al millenario impero
bizantino.
L'antica Bisanzio aveva cambiato nome nel 330 quando Costantino vi
pose
la
sede
imperiale
(prima
detta
Roma
Nuova
poi
Costantinopoli). Nel 293 il riordinamento dell'impero voluto da
Diocleziano aveva creato la doppia capitale, per un pi capillare
controllo dei territori: Nicomedia (Izmit) per lo stesso Diocleziano
che guidava la parte orientale, e Milano per Valerio Massimo che
governava quella occidentale. A Milano emanato nel 313 l'Editto di
tolleranza.
La riforma di Diocleziano prevede oltre ai due Augusti altrettanti
loro vice destinati a succedergli: sono i Cesari, Galerio per
l'Oriente (residente a Sirmio nell'Illiria) e Costanzo Cloro in
Occidente (residente a Treviri nella Gallia e ad Eboracum in
Britannia). Roma diventa cos un nome vuoto.
Tra Occidente
ed Oriente
Nel 476 con la deposizione di Romolo Augustolo, ultimo imperatore
d'Occidente, si apre una nuova fase storica. L'eredit latina
sopravvive ad Oriente con i bizantini. In Italia, Gallia, Spagna ed
Africa nascono i regni romano-barbarici. Inizia formalmente quel
medio evo che si fa concludere con la scoperta dell'America (1492)
o con la conquista nel 1453 di Costantinopoli (che diviene
Istanbul), quando all'impero bizantino subentra l'ottomano che
crolla al termine della prima guerra mondiale (1914-1918) assieme a
quelli austriaco, tedesco e russo.
Nel 553 i bizantini stabiliscono il loro dominio sulla nostra
penisola, con l'esarca (governatore militare e civile) che risiede a
Ravenna, nella regione detta Rmania (da cui Romagna). Rimini fa
parte della Pentapoli marittima con Pesaro, Fano, Senigallia ed
Ancona. Queste citt nell'ottavo secolo passano allo Stato della
Chiesa, nato per l'intervento dei Franchi in Italia (chiesto nel 754
da papa Stefano II).
Nel 1453 Costantinopoli una citt spopolata e in decadenza. Con
Maometto II ridiviene un centro fiorente, abitato da una popolazione
multirazziale e plurireligiosa. Per numero di residenti e per
importanza commerciale essa supera qualsiasi altra citt del mondo
musulmano e cristiano. Maometto nel 1456 sconfitto a Belgrado, e
tre anni dopo conquista il Peloponneso, Trebisonda (ultimo stato
bizantino ancora autonomo), parte dell'Albania, le colonie genovesi
di Crimea e la Serbia. La sua ultima impresa militare nel 1479 la
campagna d'Ungheria che si conclude con una sconfitta.
La caduta di Costantinopoli del 1453 provoca forte tensione
internazionale. Papa Niccol V emana una bolla in cui si parla
dell'avvento
della
bestia
dell'Apocalisse
avanguardia
dell'Anticristo. Le altre potenze politiche invece pensano soltanto
agli affari. Le loro reazioni, stato osservato da Corrado Vivanti,
furono soltanto sentimentali o retoriche. Non va dimenticato che i
cannoni usati per espugnare Costantinopoli erano stati costruiti da
un ingegnere ungherese.
A Rimini nasce
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il Tempio
Il 1453 anche l'anno in cui prende forma il Tempio riminese con
l'innalzamento delle pareti esterne secondo il disegno di Leon
Battista Alberti. Due anni prima Piero della Francesca ha firmato e
datato l'affresco nella cella delle Reliquie, ed il primo maggio
1452 stata consacrata la cappella di san Sigismondo re di
Borgogna, la cui statua opera di Agostino di Duccio.
In
quell'affresco
(interpretazione
laica
di
un
soggetto di
devozione, secondo Roberto Longhi), Sigismondo Pandolfo Malatesti fa
celebrare il proprio protettore con le fattezze dell'omonimo
imperatore (1368-1437) il quale nel 1433 era stato incoronato a Roma
ed aveva visitato Rimini, concedendo il 3 settembre la sua
investitura allo stesso Sigismondo ed al fratello Malatesta Novello.
La
conquista di
Costantinopoli, provoca
sgomento nel
mondo
cristiano, mentre l'Islam esulta dall'Andalusia all'India. Il
vescovo di Siena Enea Silvio Piccolomini (futuro Pio II, e grande
avversario del nostro Sigismondo) scrive a Niccol V: Pudet iam
vitae, feliciter ante hunc casum obiissemus!, mi vergogno di
vivere, almeno fossi morto. Niccol V si converte allo spirito di
crociata contro i turchi. La spada dei turchi pende ormai sulle
nostre teste, e noi ci facciamo la guerra l'un l'altro, scrive lo
stesso Piccolomini al cardinale e filosofo Niccol Cusano.
Il 18 aprile 1454 Venezia stipula un accordo con Maometto II. Pochi
giorni prima, il 9 aprile, stata firmata la pace di Lodi fra gli
Stati italiani, favorita da una generale spossatezza e dalla
conclusione della guerra dei Cento anni (1453) che rendeva
disponibile la Francia ad un intervento in Italia. Tra Stati europei
ed impero ottomano, secondo Luciano Canfora, dal 1453 almeno fino
al tempo del Bonaparte s'instaura un rapporto caratterizzato dal
massimo di retorica demonizzante in Occidente, e sull'altro
versante dal massimo di spregiudicatezza diplomatica.
Su questo scenario internazionale va collocato il dettaglio che
riguarda
Sigismondo.
Siamo
nel
1461.
Maometto,
tramite
l'ambasciatore veneto in Egitto, il nobile Girolamo Michiel, chiede
al signore di Rimini il favore d'inviargli Matteo de' Pasti per
farsi ritrarre. Matteo si trovava nella nostra citt dal 1446,
gelosamente custodito da Sigismondo (come scrisse nel 1909
Giovanni Soranzo), per lavorare all'interno del Tempio. Matteo de'
Pasti soprattutto noto grazie alle medaglie che ritraggono lo
stesso Sigismondo ed Isotta.
Sigismondo di buon grado accetta la richiesta di Maometto II, a cui
invia tramite lo stesso Matteo una lettera in latino composta da
Roberto Valturio, il suo pi dotto e benemerito segretario,
accompagnandola con il dono d'una copia del De re militari opera
dello stesso Valturio, famosa ancor oggi per l'elogio del Malatesti:
... tu, o Sigismondo, che nella difesa della religione e nel
certame della gloria non sei inferiore ai pi illustri condottieri
ed imperatori, dopo la conclusione della guerra italica, nella quale
hai sconfitto ed annientato tutti i nemici grazie all'invincibile
ardimento del tuo animo, volgendo il pensiero dalle armi ai pubblici
affari, con i bottini delle citt assediate e sottomesse, confidando
nella somma religione del santissimo e divino Principe, hai
lasciato, oltre ai sacri edifici posti a tre miglia dalla citt sul
monte e dinanzi al mare, quel Tempio famoso e degno d'ogni
ammirazione, ed anche unico monumento del tuo nome regale, entro le
mura, al centro della citt e nei pressi del foro, costruito dalle
fondamenta e dedicato a Dio, con tanta abbondanza di ricchezza,
tanti meravigliosi ornamenti di pittura e di bassorilievi, di modo
che in questa famosissima citt, quantunque si trovino moltissime
cose degne d'essere conosciute e ricordate, niente vi sia di pi
importante, e niente che di pi sia stimato da vedere, soprattutto
per la grande vastit dell'edificio, per le numerose ed altissime
arcate, costruite con marmo straniero, ornate di pannelli di pietra,
e nelle quali si ammirano bellissime sculture ed insieme le
raffigurazioni
dei
venerabili
antenati,
delle
quattro
virt
cardinali, dei segni zodiacali, dei pianeti, delle Sibille, delle
arti e di altre moltissime nobili cose.
La missione di Matteo de' Pasti non va in porto. Nel novembre 1461
catturato in Candia e condotto a Venezia dove lo processano
riconoscendolo innocente (e pertanto lo rilasciano il 2 dicembre).
Da Venezia si diffonde (tramite la corte milanese) la falsa notizia
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trasferito a
Venezia:
esaminato e forse sottoposto alla tortura dal Consiglio dei Dieci,
fu giudicato innocente e liberato il 2 Dicembre, spiega Soranzo in
una sua celebre opera del 1911 (Pio II e la politica italiana nella
lotta contro i Malatesti 1457-1463, p. 272). Al Consiglio dei Dieci
(che creando un regime di terrore salvaguard l'istituzione
oligarchica), facevano capo anche le spie della Serenissima,
sparpagliate dappertutto. La scarcerazione di Matteo de' Pasti
significava la sua innocenza, secondo Soranzo (1909): avrebbe subto
un diverso trattamento, oltretutto quale suddito della Repubblica,
se ci fosse stata in qualche modo la certezza che egli era complice
di un'impresa che non solo metteva a repentaglio
i pi sacri
interessi della Cristianit, ma minacciava gravemente la potenza,
l'incolumit dei dominii coloniali e la prosperit dei traffici
della Regina dell'Adriatico. L'innocenza di Matteo de' Pasti di
conseguenza un'assoluzione per Sigismondo, ritenuto il mandante
della missione politica presso il Turco. Soranzo aggiunge che il
papa non fa mai parola della presunta colpa del Malatesti n nelle
bolle di scomunica n nei propri scritti. Inoltre ne tacciono i
pubblici documenti di Milano, Venezia, Firenze e Mantova. Ed infine
i contemporanei quando parlavano dei misfatti di Sigismondo non
accennavano a qualsiasi tentativo di accordo con Maometto II.
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Interviene
lo Sforza
Nel 1910 Soranzo pubblic una lettera che il 10 novembre 1461
Antonio Guidobono scrisse da Venezia al duca di Milano Francesco
Sforza, di cui era agente nella citt lagunare, informandolo della
missione di Matteo de' Pasti inviato a Costantinopoli dal Signor
Sigismondo per esortare il Turco a venite in Italia. Guidobono
suggeriva allo Sforza d'informare il papa del contenuto della
missiva. (Sigismondo nel 1441 aveva sposato Polissena Sforza, figlia
di Francesco, morta nel 1449). Sforza diffonde la notizia a Napoli,
Roma e Parigi. Prima scrive ad Antonio da Trezzo suo ambasciatore
presso Ferdinando I d'Aragona re di Napoli. In questa lettera lo
Sforza dice che la richiesta al Turco corrispondeva agli usati
costumi di Sigismondo, ovvero cercare cose nuove.
Il 24 novembre lo Sforza informa Ottone del Carretto, suo
ambasciatore presso la corte pontificia inviandogli anche copia
della lettera di Guidobono con l'ordine di leggerla al papa senza
citare chi ne fosse l'autore e da dove fosse giunta. Il 26 lo Sforza
si rivolge anche ai tre rappresentanti che ha presso la corte di
Parigi, Tommaso da Rieti, Lorenzo Terenzi da Pesaro e Pietro
Pusterla. L'accusa contro Sigismondo al centro di altri documenti.
Ottone del Carretto da Roma risponde allo Sforza il 5 dicembre. Lo
stesso giorno il messo dei Gonzaga a Roma, Bartolomeo Bonatto ne
scrive a Lodovico marchese di Mantova, precisando che Mattia de'
Pasti recava con s el colfo disignato, cio quella carta di cui
parla il cronista forlivese Giovanni di Pedrino.
Penosa
impressione
Come commenta Soranzo (1909), la notizia della cattura del messo di
Sigismondo
si
diffuse
in
tal
mondo
per
tutta
Italia.
L'impressione fu dovunque penosissima: persino a Venezia, dove il
Malatesti aveva i migliori amici e godeva grandi simpatie; a Roma
poi esultarono i suoi nemici, i quali accoglievano con facile
soddisfazione questa novella e stimolavano il papa a volerla finire
con quell'infame nemico del nome cristiano. Bartolomeo Monatto e
Ottone del Carretto raccontano nei loro dispacci le reazioni romane
e veneziane. Ottone osserva prima che il papa era gi stato
informato per altra via et in questa corte divulgata questa cosa
et ogniuno ne dice male. In altro testo del 2 gennaio 1462 aggiunge
che il papa pi che mai deciso a colpire Sigismondo con la
sententia (ovvero scomunica maggiore, interdetto e privazione del
vicariato), ritenendo raggiunta la prova con l'arresto di Matteo de'
Pasti che lo stesso signore riminese aveva cercato di contattare il
Turco, ad invitarlo et confortarlo a venire in Italia.
Il papa ottiene da Venezia di potere esaminare il libro sequestrato
a Matteo de' Pasti. Tardando la sua restituzione, il governo della
Serenissima
il
13
aprile
1463
solleciter
il
pontefice
a
consegnarglielo. Il papa il 5 giugno 1462 rimprovera a Borso d'Este
duca di Modena vari torti, tra cui i favori fatti al nostro
Sigismondo il quale Turcorum impiam gentem studuit advocare.
Commenta Soranzo (1909): Pio II aveva un desiderio di vendetta
contro Sigismondo e per questo da pi mesi manteneva una guerra
forte e resistente contro di lui.
Ad accusare Sigismondo c'era una testimonianza del 4 settembre 1461,
cio precedente la partenza di Matteo de' Pasti: Galeotto Agnense
luogotenente di Pesaro scriveva a Francesco Sforza che Sigismondo
ha incominciato a dire che poi chel re fa venire Scandarbeco
cheesso mandar per lo Turco. Ovvero se l'Aragonese aveva invitato
in Italia il prode albanese Giorgio Scanderbech ad aiutarlo,
Sigismondo avrebbe chiamato Maometto. Quella del Malatesti era una
minaccia o una spavalderia? Conclude Soranzo che era insussistente
l'accusa gravissima rivolta a Sigismondo, mancando validi argomenti
per sostenerla.
La leggenda
del 1462
Contro il signore di Rimini nacque una seconda, infondata leggenda:
d'aver tentato di ripetere nel 1462 la missione presso Maometto II.
Alla fine di quell'aprile, racconta Soranzo, si spargeva la voce del
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nuovo viaggio d'un suo messo, ser Rigo, ovvero Enrico Aquadelli
(siniscalco e maggiordomo della corte riminese). Nasce da Pesaro la
soffiata per mano di Niccol Porcinari da Padule, governatore
provvisorio della citt, che il 29 aprile ne riferisce in termini
non certi al duca di Milano.
Ser Rigo, spiega Porcinari, il giorno 28 si rifiut di partire
perch la luna era in combustione. Il giorno prima Roma aveva
pubblicato la notizia della terribile scomunica contro Sigismondo.
Ser Rigo part successivamente? Impossibile, spiega Soranzo (1910),
perch il 27 aprile 1462 Sigismondo accredita Ser Rigo presso il
duca di Milano. Che lo ricevette il 16 maggio, ricevendone in
omaggio una copia del De re militari, lo stesso titolo che
Sigismondo aveva prescelto per Maometto II come biglietto da visita.
Lo Sforza veniva consultato da Sigismondo per ricevere suggerimenti
come comportarsi con il papa. La risposta del duca di Milano fu:
umiliarsi e chieder perdono.
Ma ormai era tardi. Il 26 aprile 1462 tre fantocci raffiguranti
Sigismondo sono bruciati in tre punti diversi di Roma, ed il giorno
seguente il papa emana la bolla Discipula veritatis per scomunicare
ed interdire il signore di Rimini, inaugurando quella leyenda
negra su di lui, che ritorna successivamente. (Leandro Alberti
nella Descrittione di tutta l'Italia e Isole pertinenti ad essa,
1550, definisce Sigismondo valoroso capitano de i soldati,
ricalcando quanto scritto da Pio II che narra i suoi vitij, et
opere mal fatte. Lo stesso fa negli Annali Francescani del 1628
l'irlandese padre Lucas Wadding (1588-1657), chiamando Sigismondo
uomo da ricordare pi per le doti del fisico che per quelle dello
spirito, per aver condotto una vita che nulla aveva avuto di
cristiano.)
Con la scomunica il papa vuole fermare Sigismondo che, come ha
scritto Anna Falcioni, era sostenuto dalla diplomazia francese e
dall'arrivo di nuovo denaro, e stava preparando con il principe di
Taranto un piano per impossessarsi di Pesaro ed attaccare Urbino. Il
2 dicembre 1463 la Chiesa romana lascer allo splendido Sigismondo
(cos lo chiama Maria Bellonci) una citt privata per lo pi dei
territori che aveva governato fin dai tempi del Comune. Al triste
declino, Sigismondo tenta d'opporsi come condottiero al soldo di
Venezia nella crociata in Morea dal 1464 al 1466. Chiede una
raccomandazione presso il papa. Venezia lo accontenta, anche per
giustificare con Pio II la propria scelta: non si trovava chi
volesse accettare il mandato. La condotta di Sigismondo non approda
a nulla, anzi considerata grandemente dannosa. Il 25 gennaio 1466
egli fa ritorno a casa. Sembra, come in effetti , un uomo
sconfitto. Ma il bottino che reca con s, le ossa del filosofo
Giorgio Gemisto Pletone (nato a Costantinopoli nel 1355 circa e
morto a Mistr, l'antica Sparta capitale della Morea, nel 1452), gli
garantiscono un prestigio perenne. Con la tomba che le accoglie nel
Tempio, Sigismondo offre l'immagine di Rimini quale faro di sapienza
che poteva illuminare Roma, l'antica e lontana Bisanzio e la vicina
Ravenna. Se Pio II non fosse gi morto il 15 agosto 1464, Sigismondo
avrebbe fornito al papa forti motivi per un'altra condanna.
["il Ponte", 8.5.2005/17]
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lanciava in uno scritto del 1705. Tre anni dopo sarebbero uscite le
Riflessioni sopra il buon gusto di Muratori che segnano un punto
fermo nel dibattito letterario sull'argomento, apertosi nel 1674 con
la celebre Art potique di Nicolas Boileau.
Del 1693 il Buon gusto nei componimenti rettrici del gesuita
bolognese Camillo Ettori, mentre nel 1698 appare L'istoria della
volgar poesia di Giovanni Mario Crescimbeni il quale in Arcadia
guida un'operazione non aliena da forti tratti autoritari (R.
Merolla) che, in stretta consonanza con il clima politico, trionfano
su quelli indirizzati al rinnovamento ed alla laicizzazione del
pensiero. Gian Vincenzo Gravina se ne va allora sbattendo la porta,
e assieme a Pietro Metastasio e a Paolo Rolli crea l'Accademia dei
Quiriti.
Le Riflessioni di Muratori, oltre ad invitare i
letterati ad accostare all'erudizione la filosofia perch non esiste
cultura senza spirito critico, contrappongono pulitezza e chiarezza
di stile alla prosa barocca.
Quando scrive delle gonfiezze di elocuzione, che oggi chiamasi del
buon gusto, intendendole come frutto delle nuove concezioni,
Garuffi dimostra una scarsa conoscenza delle novit prodottesi da
Galileo in poi sul piano della pratica stilistica e delle concezioni
estetiche. Non pare accorgersi che il dibattito sul puro fatto
formale, diventa anche un discorso sui contenuti e le finalit della
letteratura. L'attendibilit di Garuffi come studioso era stata
messa in dubbio gi da Bianchi che cos ne scrisse a Muratori:
[...] il Garuffi, come con una mediocre attenzione per ognuno si
conosce e anche i giornalisti di Lissia [Lipsia] modestamente il
notarono, non solamente era poco esatto, ma ha riferite molte cose,
copiate da altri, che non ci sono pi, e Dio sa se ci sono mai
state. La figura di Garuffi, per Turchini, sembra quasi assumere il
valore paradigmatico di quell'ambiente provinciale riminese che era
posto, e per interessi e per problemi, ai margini dell'ideale
Repubblica letteraria italiana del Settecento.
Ritardi
e condanne
Il
ritardo
culturale
del
bibliotecario
gambalunghiano
viene
confermato da un episodio del 1726. Garuffi chiede a Muratori
qualche notizia di libri suoi e d'ultimi. Non avendo ricevuto
risposta, Garuffi pubblica il Genio de' letterati di quell'anno
senza neppure una recensione di un'opera del Muratori. Quel ritardo
culturale (che per certi aspetti sar superato proprio grazie
all'attivit
di
studiosi
come
Bianchi
e
Battarra),
trova
giustificazione e conferma nella censura con cui ci si oppone alla
diffusione delle nuove idee. Monsignor Dava, benemerito alla citt
per tanti motivi, passa alla storia come colui che avvers nel 1722,
quale vescovo di Rimini, la diffusione del Saggio sull'intelligenza
umana di Locke, con molto anticipo sulla condanna romana del 1734,
giudicando
quel
filosofo
cento
volte
pi
pericoloso
del
Machiavelli.
Garuffi s'interess anche d'Astrologia, come dimostra un breve
testo, il De modo figurarum astrologicarum describendi (SC-MS.
462, cc. 99-110, in Gambalunga). Sono istruzioni tecniche su come
compilare un oroscopo. Tra gli autori citati c' Regiomontano,
ovvero Iohannes Mller, il principale astronomo del Quattrocento, le
cui Tabulae directionum (Firenze 1524) Garuffi utilizz (con
rinvii anonimi nel proprio testo), usando l'esemplare tuttora
conservato in Gambalunga (segn. BP. 664).
Tra Terra
e Cielo
Sempre in Gambalunga si conservano altri mss. di Garuffi che per
non sono opera sua, bens copie di testi del gesuita Egidio
Francesco De Gottignies di Bruxelles il quale fu suo maestro a Roma
nel Collegio Romano. Nella Cosmographia (SC-MS. 473) troviamo una
descrizione dei nove corpi dell'Universo: Terra, Luna, Mercurio,
Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, Stelle fisse. Gli sviluppi
successivi della Scienza hanno dimostrato che quei corpi erano
soltanto otto, eliminando le Stelle fisse che tali non erano
proprio. A fianco dell'elenco dei nove corpi c' un foglietto
inserito fra le carte del manoscritto, con tre disegni relativi al
sistema tolemaico, tyconico e copernicano sul tipo di una celebre
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Chiesa latina e quella greca, separate sin dal 1054. Assieme Sofia e
Cleofe s'erano imbarcate a Venezia per Costantinopoli. Il prologo
del viaggio di Cleofe era stato segnato dal triste presagio
dell'imbarcazione costretta dal maltempo a rientrare in porto a
Rimini, per cui dovette compiere via terra il viaggio sino alla
laguna. Anche di Sofia di Monferrato le cronache del tempo offrono
scarse notizie: nell'agosto 1425 Sofia scappa da Costantinopoli,
poco dopo la scomparsa del suocero Manuele II. Cleofe muore nel
1433, lasciando una figlia, Elena, nata tra 1427 e 1428.
["il Ponte", 20.6.2010/37]
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Recensioni.
Sigismondo, il sogno di Bisanzio.
I Malatesti di Pesaro e Rimini sono la trama sulla quale Silvia
Ronchey, docente di Civilt bizantina all'Universit di Siena,
compone un affascinante e colorito arazzo letterario che ha per
centro logico la Flagellazione di Piero Della Francesca ed i suoi
significati allegorici.
L'autrice colloca Sigismondo ed il nostro Tempio in un contesto di
politica internazionale (la contrapposizione tra Roma e Bisanzio),
nel quale il signore di Rimini considerato protagonista del
tentativo (fallito) di salvare Costantinopoli, con la spedizione in
Morea del 1464-1466.
Sigismondo si sarebbe rappacificato con il papa in vista di questa
spedizione che aveva come scopo quello di occupare il trono di
Bisanzio. Dove invano si era atteso un erede proprio da una
Malatesti, Cleofe (o Cleopa), cugina pesarese di Sigismondo e dal
1421 sposa di Teodoro II Paleologo despota di Morea e secondogenito
dell'imperatore di Costantinopoli Manuele II.
Cleofe scompare nel 1433. La sua una morte oscura secondo la
Ronchey. Cleofe era stata minacciata di ripudio per non volere
abiurare la fede cattolica. Altre fonti raccontano diversamente (ed
erroneamente) la fine di Cleofe, e la dicono fuggita da Bisanzio
assieme al fratello Pandolfo, gobbo e sfortunato vescovo di Patrasso
dal 1424.
In questo libro si accenna all'ipotesi che sia di Cleofe la mummia
ritrovata nel 1955 in una chiesta di Mistra l'antica Sparta capitale
della Morea. Se Cleofe fosse stata assassinata, Sigismondo
Malatesta avrebbe avuto da parte sua anche un motivo in pi per
tenere tanto a condurre la crociata in Morea.
Anna Falcioni dell'Universit di Urbino ha spiegato (1999), in
maniera infondata, che Cleofe e Pandolfo nel 1430 fuggirono da
Mistra. Due anni prima Cleofe si era detta sagurata (sciagurata)
scrivendo alla sorella Paola, e si era raccomandata alle di lei
preghiere.
La Ronchey mette in guardia contro le elucubrazioni fantastiche
degli ambienti esoterico-massonici, ma finisce per accettarne
pienamente una che, con il francese Charles Yriarte [1832-1898],
conclude appunto sulla via esoterico-massonica del Tempio pagano,
come confermerebbe il trasferimento in esso da parte di Sigismondo,
delle ossa di Pletone definito da qualcuno capo supremo della
massoneria europea...
Yriarte nel 1882 (Un condottiere au XV sicle) aveva sottolineato
come nelle allegorie e nei simboli del nostro Tempio ritornassero
miti, credenze e spirito dei greci, scartando in tal modo
sbrigativamente ogni influsso cristiano (Non Dio che qui si
adora, Isotta; per lei che bruciano l'incenso e la mirra).
Corrado Ricci nel suo celeberrimo studio sul Tempio parla di
facilit irriflessiva di Yriarte.
Per la Ronchey le ossa di Pletone trasferite a Rimini sono un
messaggio politico, testimonianza della pretesa di Sigismondo di
accampare diritti sul trono bizantino. Su quest'ipotesi si elabora
tutto il discorso del libro, essere cio la Flagellazione un'opera
di propaganda per una crociata diretta a liberare Costantinopoli
caduta nel 1453 in mano ai mussulmani. Il volume (L'enigma di
Piero. L'ultimo bizantino e la crociata fantasma nella rivelazione
di un grande quadro, Rizzoli, pp. 540), ha un'appendice di
completamento su Internet liberamente consultabile.
La Ronchey nel 2003 a Montefiore ha partecipato con Mary de
Rachewiltz (figlia di Ezra Pound) e Giuseppe Scaraffia alla
presentazione dell'opera di Yriarte su Sigismondo, tradotta da
Moreno
Neri
(del
Rito
simbolico
italiano)
e
pubblicata
dall'editore Walter Raffaelli di Rimini.
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eletto
il
terzo
papa
contemporaneamente: quello di Roma Gregorio XII, quello di
Avignone Benedetto XIII, e questo nuovo Alessandro V, che muore
poco dopo.
Carlo Malatesta si adopra per far conoscere ai cardinali ribelli
residenti a Bologna, le "nuove proposte di Gregorio XII per togliere
lo scisma" (pag. 10), ma non viene ascoltato: anzi, i cardinali
eleggono ed incoronano l'antipapa Giovanni XXIII. Poi, dal Concilio
di Costanza, voluto dall'imperatore tedesco Sigismondo, esce
pontefice Martino V (1417): Carlo Malatesta presente, quale
portavoce di Gregorio XII che aveva deciso di ritirarsi (1415) dalla
competizione, prima di morire (1417). Benedetto XIII deposto (26
luglio 1417). Lo scisma finito.
Nel suo saggio, Fiori parla anche del monastero di San Lorenzo in
Monte a Rimini, e dell'abbazia di San Gregorio in Conca a Morciano,
legata al nome di San Pier Damiani e del riminese Bennone:
quest'ultimo un personaggio importante della nostra storia
cittadina, vittima di lotte precomunali di cui parlammo sui queste
colonne, ma di cui non c' traccia n in questo n in altri volumi
successivi alla nostra nota. (Nessuno ci ha letto!).
Giriamo ancora pagina. Antonio G. Luciani tratta delle "Iscrizioni
greche gemelle del Tempio malatestiano", proponendo la sua versione
dell'epigrafe: "A Dio immortale/ Sigismondo Pandolfo Malatesta/ di
Pandolfo, scampato a moltissimi e grandissimi/ pericoli durante la
guerra d'Italia,/ vincitore per le imprese da lui/ compiute con
valore e con fortuna, a Dio/ immortale e alla citt innalz questo
Tempio, come in/ quel frangente aveva fatto voto,/ splendidamente
sostenendone le spese, e / lasci un monumento glorioso e sacro".
Oreste Delucca offre i "primi appunti" sui "Rapporti fra Rimini e la
Dalmazia in et malatestiana". Sono storie di emigrazione: "Le genti
slave (ed anche albanesi) per vari secoli -e particolarmente nel XVsono
emigrate
numerose
sulla
costa
italiana,
premute
dall'espansionismo turco che tendeva a comprimerle verso il mare,
sollecitate dalla precariet delle loro condizioni economico-sociali
su cui influiva non poco la natura sfavorevole di tanto suolo
dalmata, incentivate... da alcune scelte politiche malatestiane.
(...) Anche a Rimini la loro presenza era piuttosto numerosa. La
comunit slava e albanese, nel XV secolo, contava qualche centinaio
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