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Chateaubriand's Memoirs - Book XXIX

‘Civita Castellana.

At Monte-Luco, Count Potocki buried himself among delightful laurels; but did not
thoughts of Rome follow him there? Did he not think himself transported into the midst of choirs of
young girls? And I too, like St Jerome, “I have spent the day and the night uttering cries, striking
my breast until the moment God gave me peace.” I regret no longer being what I was, plango me
non esse quod fuerim.

Having passed the hermitages of Monte Luco, we began to skirt Somma. I had already taken
this road on my first trip from Florence to Rome via Perugia, accompanying a dying woman…

From the nature of the light and a sort of freshness in the landscape, I might have thought I
was one on of those rounded tops of the Alleghanies, it was merely a lofty aqueduct, surmounted by
a narrow bridge, that recalled a Roman construction, to which the Lombards of Spoleto had set their
hand: the Americans have not yet created those monuments which follow the achievement of
liberty. I climbed to Somma on foot, with the oxen of Clitumnus which were leading Madame the
Ambassadress to her triumph. A lean young goat-girl, as light and nimble as her nanny-goat,
followed me, with her little brother, asking for carita (charity) in that opulent landscape: I gave her
alms in memory of Madame de Beaumont whom these places no longer remembered.

“Alas, regardless of their doom,

The little victims play!

No sense have they of ills to come,

Nor care beyond to-day.”

I found Terni again and its waterfalls. A countryside planted with olive-trees led me to
Narni; then, passing through Otricoli, we came to a halt at mournful Civita Castellana. I would
have preferred to go to Santa Maria di Falleri to see a town which is no more than the shell of its
walls: it is a void within: wretched humanity brought to God. My moment of grandeur past, I will
return to find the city of the Falisci. From Nero’s tomb, I was soon pointing out the cross on St
Peter’s, to my wife, which dominates the city of the Caesars.’

______________________________________________________________________

Da “L'Italia, la Sicilia, le isole Eolie, l'isola d'Elba, la Sardegna,


Malta, l ...”

A ponente un seguito di collinette è distribuito a piani sino alla sommità del Cimino, ed a
settentrione l'orizzonte è chiuso dalle chine verdeggianti di quelle belle montagne. Quivi si trova
raccolta una numerosa popolazione tutta dedita ali' agricoltura. Tra le varie piantagioni sorgono
enormi castagneti. Da ogni parte t'aprono burroni dove la rupe vulcanica, agevolmente scavata dalle
acque, prende svariatissimi aspetti. Dal mezzo delle fenditure delle roccie par che si slancino piante
ed arbusti che projettano le loro ombre sopra i ruscelli erranti nel fondo de'burroni. Le spianate
intermedie sono piantate d'oliveti e di viti, esotto di questa vegetazioneondeggiante secondo i venti,
crescono il frumento, il grano turco, il lino ed i legumi. Questa contrada, poco conosciuta,
somministrerebbe ai pittori di paesetto inesauribili argomenti di studio. Dopo aver lasciato il Soratte
ed i suoi punti di vista, che servono cotanto per l'intelligenza dell'istoria dei primi tempi di Roma, si
giunge a Civita Castellana. Il primo oggetto che da negli sguardi è nn acquidotto sostenuto da due
piani di pìccoli archi, e disteso per procacciare il passo della strada sopra un burrone di
spavenlevole profondità. Ebbi la tentazione di ripetere la prova di Simond. Avendo lasciato cadere
una pietra nella Triglia dall'alto di questo pome, corsero quattro minuti secondi prima ch'ella
colpisse la superficie dell' acqua, dal che si avrebbe ducento quaranta piedi d'elevazione.

Civita Castellana è città povera e neglelta, e vi è una poco ragguardevole cittadella.

Errarono coloro i quali per l'addietro

pretesero che Givita Castellana sergeste nel luogo dove un tempo sorgeva Veia> antica ed
importante capitale dell' Etru« ria. Gli scavi fatti nel 1811, che fecero scoprire un sepolcro e varii
frammenti di statue, indicano in un modo preciso la positura di quella città ali' oriente del luogo
della posta de'cavalli detto della Storta sopra un'eminenza separata dalla pianura da due ruscelli che
poi congiunti formano la Cremera. La città si stendeva sopra un massiccio isolato, lungo quasi due
miglia, una delle cui estremità è ora occupata dalla fattoria dell'isola Farnese (7W. i35), che nel
medio evo era una fortezza ed ora è stanza di poche famiglie e centro di rustica coltivazione. . '. .

La positura di Veia la rendeva naturalmente fortissima ed agevole alle difese, e scorrendo i


burroni ed i preeipizj che la circondano a guisa d'immense fosse, e rialzando mentalmente le mura
che coronovino le cime delle rupi, si comprende meglio come essa potè opporre una lunga
resistenza. La fragilità del masso sul quale era la città edificata , dimostra altresì l'arte adoperata
onde penetrarvi dentro ; ed infatti si potè facilmente scavar una mina in questa sostanza porosa da
uomini che aveano allora aperto il sotterraneo del. fogo Albano. Cosi il valente condottiero, che
avea fatto parlare l'oracolo, non avea avuto in mira altra cosa se non che di far imparare da'suoi
soldati l'arte del minatore. Questiparticolari circostanziati si hanno già trovato il luogo nella
descrizione del lago Albano.

La difesa di Veia è anche ammirabile sotto altro aspetto oltre a quello della sua vantaggiosa
positura. Altre città, anche meglio situate, hanno opposto una minor resistenza, ed i Veienti si sono
conservati liberi per trecento cinquantasette anni, a malgrado di continue guerre. Soventi i loro
figliuoli , accampati sul Gianicolo, fecero tremare i Romani, e dalla loro caduta dipendeva il destino
dell'Italia Centrale. Tali grandi risultamenti sono dovuti principalmente al coraggio ed all'amor
patrio dei cittadini di quel glorioso propugnacolo dell'Etruria , ed all'eccellente loro politico
reggimento. I Romani, innamorati dalla bellezza della nobil lor preda, si annoiarono della loro città
e vollero trasportare i loro penati nelle mura di Vela. Vennero distolti da questo pensiero con
argomenti religiosi; ma, indi a poco, la vinta città servi di rifugio agli avanzi dell'esercito sconfitto
presso il ruscello d'Allia, e nel seno medesimo della sua conquista Camillo preparò i mezzi di
liberare la sua patria. Sembra che questa città venisse poscia dimenticata; ma Livia ne ravvivò la
memoria inviandovi una colonia alla quale si riferiscono i monumenti ultimamente scoperti. La
nuova città peri aneh' essa e si disputò per lungo tempo intorno al luogo dov'ella sorgeva.

Poco lungi da questa era la città d'Aremusia, presso della quale si trovavano delle termo solfuree.
La Cremera scorre a traverso di questa contrada in un letto profondo. Seguendo il suo corso, si
cerca con avidità le traccio della fortezza, prima positura che occuparono i Romani sulla destra
sponda del Tevere, e monumento glorioso della illustre famiglia dei Fabj che la edificò a sue spese
nell'anno di Roma a73, che la difese con 5,ooo de' suoi clieuti e vi sparse il sangue di
3oo Fabj. Ed ecco come il patriziato romano i suoi onori si meritava!

Proseguendo a camminare in questa direzione, s'incontrano ad un tempo la via Flaminia e la valle


del Tevere, a fianco d'un'antica stazione romana detta Sa.ra rubra, dove i Veienti aveano posseduto
una fortezza, e dove lungo tempo dopo seguì la battaglia tra Costernino e Massenzio. Qui la valle
del Tevere è larga e fertile, coperta di campi di grano e di verdeggianti prati. Le sue sponde sono
fatte di coste poco alte, ma ripide. Nel mezzo della pianura gode ali' animo di ritrovare, nei Prati dì
Quinzio, quei medesimi campi che Cincinnato coltivava colle trionfali sue mani.

Di qui giunsi ben presto a Roma e vi rientrai dal Ponte Molle e dalla Piazza del Popolo che
descriverò poscia nel parlare del Monte Pincio.

LA "MADDALENA PENITENTE" IN TERRAGLIA DAL


CANOVA
Maria Grazia Morganti

Opera in apparenza minore, certo penalizzata dal confronto con i numerosi pezzi di
levatura eccezionale contenuti nella collezione Strozzi Sacrati, la Maddalena penitente
copia in terraglia da Canova, si rivela al contrario una testimonianza di grande
interesse, specie sotto il profilo storico.

Va ricordato innanzi tutto che la moda di riprodurre statue o gruppi famosi ricorrendo al biscuit di
porcellana o, in seguito, alla più economica terraglia, era nata a metà del XVIII secolo e col
Neoclassicismo si era diffusa in tutta Europa. Agli inizi del secolo era di bon ton possedere queste
piccole plastiche i cui soggetti, nella stragrande maggioranza dei casi, erano direttamente o
indirettamente riferibili al mondo classico. Anche se i temi religiosi non erano del tutto assenti, si
trattava in genere di copie di statue o gruppi famosi dell’antichità conservati nelle più importanti
collezioni (specie di Roma o Napoli) o di composizioni comunque ispirate al mondo della mitologia
greca. Al massimo si arrivava alle allegorie, con personaggi atteggiati come divinità o eroi classici,
drappeggiati in ampli pepli, tuniche e paludamenti all’antica. Nell’ultimo decennio del secolo,
anche in Italia si afferma sempre più la terraglia, a favore del cui impiego giocava, oltre al costo
ridotto, anche l’agevole modellazione che permetteva di ricorrere a tutte le tecniche note, comprese
quelle che la minore plasticità della porcellana non permetteva.
In Italia, oltre alla Ferniani, si dedicavano alla copia in terraglia di sculture classiche anche la
manifattura palermitana del barone Malvica, l’Aldrovandi di Bologna, l’Antonibon di Este. Qualche
gruppo simile venne realizzato anche dalla Volpato di Civita Castellana, che però preferiva in
genere il biscuit di porcellana per riprodurre i capolavori antichi dei musei romani ma anche, grazie
all’amicizia che legava il suo proprietario ad Antonio Canova, qualche opera di quest’ultimo, i cui
bozzetti venivano forniti direttamente dall’autore.
Si potrà certo discutere sulla qualità finale di queste copie in terraglia, specie se si ragiona in termini
non tanto di fedeltà alla forma complessiva dell’originale ma in riferimento alla resa delle
particolari qualità tattili, visive, di resa luminosa dell’opera in questione, ma è certo che questa
traduzione in termini più accessibili contribuì moltissimo a rendere popolare la scultura, classica o
contemporanea che fosse. In effetti possiamo considerarla in tutto paragonabile all’importanza che
ebbe, dal Cinquecento in avanti, l’incisione su lastra nel diffondere in tutta Europa la conoscenza
della pittura rinascimentale italiana.
Tornando alla nostra Maddalena, possiamo sostenere che l’attribuzione alla Ferniani -
documentabile attraverso il confronto con un esemplare analogo restato sempre in possesso degli
eredi della manifattura faentina1 - appare confermata anche dalla qualità della terraglia impiegata,
specie per quanto riguarda la vernice, che appare caratterizzata da una sfumatura verdastra, tipica
della produzione faentina e riscontrabile anche in altre statuette del periodo. Questa caratteristica ci
permette, fra l’altro, di eliminare ogni possibilità di confusione con l’Aldrovandi di Bologna, con la
quale il contenzioso rimane invece aperto per diverse altre opere di piccola plastica. La vernice
usata dalla manifattura bolognese, infatti, è di un caratteristico tono latteo e presenta in genere una
maggiore brillantezza, a causa dell’ alto tenore di piombo e potassio che contiene.2 La statuetta della
collezione Strozzi Sacrati è in tutto simile a quella tuttora conservata nella residenza delle Case
Grandi Ferniani, ma nell’insieme appare più completa, visto che presenta anche il teschio che
nell’altro esemplare faentino non compare.
A questo punto verrebbe spontaneo chiedersi: perché scegliere proprio la Maddalena, fra le tante
statue realizzate da Canova? La prima - e più ovvia - risposta potrebbe venire dall’ incredibile
successo che quest’opera conobbe subito, forse perché si trattava di una delle poche di soggetto
religioso del Canova ed inoltre anticipava un gusto sentimentale che il Romanticismo di lì a poco
avrebbe diffuso in tutta Europa. Lo conferma, del resto, il fatto che al primo esemplare datato
"Roma 1790" (si tratta dell’opera attualmente conservata a Genova, nel Museo di S. Agostino), fece
seguito una replica commissionata allo scultore nel 1809 da Eugenio de Beauharnais, poi arrivata,
attraverso passaggi successivi, all’Ermitage di San Pietroburgo dove ancora si conserva.3
In effetti la Maddalena aveva tutto per piacere sia agli esteti neoclassici per la sua assoluta purezza
formale (che ne farà il primo modello di riferimento per la Fiducia in Dio di Bartolini), sia ai
romantici che vi scorgevano un’effusione sentimentale particolarmente toccante secondo
un’interpretazione della figura della santa che in seguito Canova caricherà di accenti patetici ancora
più vibranti, come attesta la Maddalena svenuta di Possagno, del 1819. Questa inclinazione ad una
"grazia estenuata dal dolore"4 venne del resto accortamente accentuata dal suo primo proprietario, il
conte Sommariva, con la collocazione dell’opera in una nicchia foderata di sete nere e viola,
illuminata da una lampada d’alabastro che faceva piovere dall’alto un lume velato e diffuso.
La straordinaria popolarità della statua appare confermata anche dalle incisioni realizzate da G.B.
Balestra e A. Bertini, alle quale vanno aggiunte le copie a grandezza naturale che ne furono tratte
negli anni successivi, come quella eseguita dallo scultore alessandrino Carlo Canigia su incarico del
marchese Lascaris di Ventimiglia ed esposta a Torino nel 1833. Veramente impressionante appare
poi la quantità dei riferimenti letterari alla Maddalena, espressi in forma poetica o in prosa da molti
letterati del tempo ed in gran parte raccolti nella Biblioteca Canoviana che venne pubblicata nel
1823 alla morte di Canova. Per quanto riguarda i componimenti poetici si va dai versi indirizzati
unicamente all’opera (come il Sonetto per la Maddalena di Giovan Andrea Rusteghello,5 il Carme
sulla Maddalena Penitente dell’abate Melchiorre Missirini 6 e i Versi sulla Maddalena del duca di
Ventignano 7) a quelli che le vengono rivolti all’interno di una più vasta composizione dedicata a
Canova (è il caso, fra gli altri, della Visione di Antonio Pochini,8 del Canto sui marmi del Canova
esposti al Museo di Parigi dello stesso autore 9). Altrettanto ricca la bibliografia in prosa che
comprende - per non citare che i maggiori - autori come Pietro Giordani 10, Saverio Scrofani 11 e
soprattutto Quatremère de Quincy, uno dei più raffinati estimatori dell’opera canoviana che, a suo
giudizio "parte dal cuore; se ne ammirano i risultamenti, e non si scopre punto per qual mai via sia
giunto sin là." 12 E nelle parole che dedica alla Maddalena affermando che "tutti andranno
d’accordo che questo pezzo è produzione di uno squisito sentimento, e di una rara abilità" 13
possiamo trovare una conferma della grande impressione emotiva che l’opera lasciò
nell’immaginario collettivo dell’epoca.
La Maddalena penitente fu il primo marmo di Canova a giungere a Parigi,14 dove venne esposta al
Salon del 1808 assieme alla Letizia Ramolino Bonaparte (ora a Chatsworth), all’Ebe e all’Amore e
Psiche stanti dell’Ermitage. La risonanza, come si può immaginare, fu enorme, anche perché il
pubblico francese poté giudicare direttamente, davanti a marmi fra i più levigati e patinati della
produzione di Canova, in che cosa consistesse la sua particolare interpretazione del nudo che "si
proponeva di essere naturale, non naturalistico" 15 secondo un idealismo d’ascendenza classica di
pretta marca winckelmanniana.
Fin qui per quanto riguarda la fama europea dell’opera - che per altro basterebbe da sola a
giustificarne la scelta per una riproduzione - ma c’è un altro elemento che lega più strettamente la
vicenda della Maddalena alla storia locale e passa attraverso la figura di una delle donne più
notevoli che la storia del primo Ottocento ricordi. S’impone quindi una piccola digressione che,
come si vedrà in seguito, non è comunque priva d’importanza per l’ argomento in discussione.
Paragonata dai contemporanei ad Aspasia per la sua grande bellezza e la cultura (conosceva le
quattro principali lingue europee, parlava correttamente il latino, commentava l’Iliade
sull’originale, suonava, danzava e cantava con grazia divina) la ventunenne contessina Cornelia
Rossi16 di Lugo aveva sposato nel 1802 Giambattista Martinetti, un architetto assai affermato in
quegli anni,17 che l’aveva condotta nel suo palazzo bolognese di via S. Vitale. Qui, nel grande parco
di stile arcadico che inglobava anche l’ex chiostro delle monache benedettine, allestito dal marito
secondo uno stile pittoresco "all’inglese" animato da vialetti fiancheggiati da alberi secolari,
fontane, un piccolo tempio classico in rovina, scalinate, sedili, colonne antiche, prati e rialzi
ombrosi, Cornelia Martinetti aveva stabilito il suo salotto letterario, variamente ribattezzato dagli
ammiratori "Orto delle Esperidi", "Giardino di Calipso"o anche "Tempio della Venere bruna".
In questa cornice suggestiva sfilarono tutti i personaggi più importanti del periodo che si trovarono
a transitare per Bologna, da Napoleone a Foscolo 18 passando per Giuseppina de Beauharnais (di cui
pare Cornelia fosse amica già prima del matrimonio), Chateaubriand, Ludwig di Baviera, Byron,
Monti, lady Morgan, Stendhal, Leopardi, Maria Luisa d’Austria e, per l’appunto, Canova.
Quest’ultimo - ospite dei Martinetti nel giugno del 1810, 19 in occasione dell’inaugurazione del
busto dedicatogli nell’Accademia di Belle Arti - pare restasse assolutamente incantato dalla giovane
padrona di casa, con la quale stabilì un profondo legame di amicizia che si rafforzò ancor più dopo
il 1818, quando i Martinetti si traferirono a Roma.
E fu proprio grazie a questa amicizia che la Maddalena - insieme alle Grazie, all’Ebe, alla Venere e
alla testa di papa Rezzonico - passò per Bologna.20 A questo punto non è certo troppo azzardato
supporre che anche i Ferniani - romagnoli come Cornelia ed in ogni caso legati all’ambiente della
nobiltà bolognese- frequentassero il suo salotto e avessero quindi la possibilità di vedere
direttamente la Maddalena, ricevendone, come tutti, una grande impressione. Di qui la decisione di
trarne copie in terraglia.21
Un ulteriore problema si pone a questo punto rispetto all’identità del modellatore autore della
Maddalena Ferniani. Per risolverlo occorre innanzi tutto rifarsi alla cronologia dell’opera e all’alta
qualità della modellazione, due elementi che, combinati assieme, ci permettono di restringere la
rosa dei possibili esecutori a pochissimi nomi.
Per quanto riguarda il periodo, sappiamo che Canova iniziò la prima redazione dell’opera negli anni
‘90 ma che la statua si trovava ancora nel suo studio romano nel 1798, quando il suo committente, il
veneziano monsignor Giuseppe Priuli, partì precipitosamente per seguire papa Pio VI nell’esilio.
Gli ultimi anni del secolo andrebbero quindi considerati un sicuro termine post quem se non fosse
che un ulteriore restringimento dell’àmbito cronologico ci può essere offerto da altri dati a nostra
disposizione (e dall’osservazione diretta della terraglia).
Date le note vicende dalla prima Maddalena, che già prima del 1808 si trovava nel palazzo parigino
del conte Sommariva, appare altamente improbabile che possa essere questa l’opera passata per
Bologna. Molto più logico pensare che si trattasse invece della replica Beauharnais. Una conferma
in questo senso potrebbe venire dall’assenza nella copia del crocifisso, un complemento dell’opera
che infatti compare solo - in bronzo, e il fatto non mancò di sollevare polemiche - nel primo
esemplare canoviano e non venne ripetuto nella replica.
Il termine ultimo, invece, va posto in ogni caso non oltre il 1840-50, considerando che a questa data
in Italia e in Francia - ed in Europa in genere 22- la moda delle riproduzioni di sculture famose è
assolutamente tramontata. Anche qui, però, possiamo osservare che l’occasione di vedere a Bologna
la Maddalena va collocata necessariamente entro il 1818 (anno in cui, come si è detto, i Martinetti
si trasferirono a Roma) ed è pensabile che la copia sia riferibile ad anni in cui erano ancora vivi
l’emozione e il ricordo di questo avvenimento. Insomma, appare credibile pensare ad una datazione
compresa fra il 1810 e il 1820-25 al massimo.
Come ulteriore notazione si potrebbe suggerire che una datazione oltre il 1815, cioè in piena
Restaurazione papalina, fornirebbe un elemento in più per giustificare la scelta di un soggetto
religioso.
Passando all’autore, sappiamo che per i Ferniani lavorano in questo periodo diversi illustri
modellatori,23 molti dei quali però interrompono la loro collaborazione proprio a cavallo del secolo:
nel 1799 come il Villa e Giuseppe Ballanti-Graziani o nel 1801 come Antonio Trentanove,
trasferitosi con la famiglia a Carrara. Restano Giovan Battista Sangiorgi, Pasquale Saviotti,
Francesco e Giovan Battista Ballanti-Graziani ed infine il più giovane Giovanni Collina (futuro
genero di Francesco Ballanti-Graziani, dal quale erediterà la conduzione della bottega ed il secondo
cognome). Ci sarebbe anche Raimondo - figlio di Antonio - Trentanove che, dopo un apprendistato
a Carrara presso Lorenzo Bartolini, nel 1814 era passato da Faenza dove riuscì ad ottenere una
borsa di studio per Roma. L’ipotesi sarebbe suggestiva, specie pensando al suo successivo alunnato
presso la bottega di Canova, se non fosse che di lui si conoscono unicamente opere in marmo ed
immaginarlo alle prese con la terraglia proprio in questa occasione parrebbe una forzatura un po’
eccessiva.
Tornando agli altri, sembrerebbe da escludere Saviotti, che pur avendo iniziato la sua carriera
presso la manifattura Ferniani a questa data si era volto completamente alla decorazione murale e
all’incisione. In quest’ottica le statuette di terracotta eseguite per la Farmacia Ubaldini intorno al
1820 24 vanno intese più come il completamento di un intervento globale da "ornatista" - che lo
portò a curare anche l’arredamento dell’ambiente e l’insieme delle suppellettili - che come
l’esercizio di una professione abituale. Quanto a Sangiorgi sappiamo che era impiegato soprattutto
per figure allegoriche e centritavola, mentre Francesco Ballanti va considerato essenzialmente uno
"scultore felicissimo d’ornati".25 Ragion per cui è ipotizzabile che per un’opera di tale impegno si
ricorresse al più prestigioso collaboratore dei Ferniani e cioè a Giovan Battista Ballanti-Graziani
che, per dirla con Golfieri, attraversò proprio "il momento più felice dell’arte sua fra l’ultimo
decennio del Settecento e l’epoca napoleonica fin verso il 1820".26
E’ ben vero che Malagola afferma che Giovanni Collina, all’età di 15-16 anni, eseguì una
Maddalena,27 ma in primo luogo parla di maiolica (e per uno studioso di ceramica come lui, la
confusione fra i due materiali appare impensabile) e poi lo scultore all’epoca sembrerebbe un po’
giovane per vedersi assegnare un incarico di questo genere. Più credibile appare l’ipotesi che vede il
giovanissimo Collina ripetere in un altro materiale il prototipo realizzato una ventina d’anni prima
da Giovan Battista Ballanti.
Un’ ulteriore conferma in questo senso può venire dal confronto con i due gruppi di Bacco e
Arianna e di Ercole e Onfàle - conservati 28 al Museo delle Ceramiche faentino e concordemente
attribuite a mano di G.B. Ballanti-Graziani - 29 specie per quanto riguarda il modellato delle ciocche
di capelli che appare assai simile nelle tre opere in esame, affidato com’è ad una serie di piccoli
solchi tracciati con mano veloce, la cui massa chiaroscurata contrasta con la levigatezza dei corpi.
In particolare vale la pena di sottolineare come proprio nella trattazione della massa dei capelli si
colga una della maggiori differenze fra e la copia e l’originale che proprio per "l’acconciatura de’
suoi capelli, come quelle che un po’ troppo ricordano l’armonia de’ colori" venne tacciata da alcuni
critici di eccessivo pittoricismo.30
Più vicina appare invece semmai la terraglia Ferniani ai bozzetti della Maddalena conservati al
Correr e al Museo Civico di Bassano che, come tutte le opere canoviane di questo genere
presentano una trattazione più mossa ed evidenziata, più "calda", insomma - che costituì poi
storicamente il loro apprezzamento da parte della critica romantica - ma è osservazione piuttosto
oziosa, perché certo l’autore della terraglia non ebbe la possibilità di vederli ed in ogni caso non ne
avrebbe tenuto conto nel realizzare la copia dell’opera finita. E comunque non si vuole certo
attribuire a G.B.Ballanti-Graziani - fra l’altro assolutamente alieno da ogni modernismo romantico e
sensibile piuttosto ai rigori puristi del concittadino Tommaso Minardi - la volontà di rendere più
drammatica l’opera ma solo sottolineare il fatto noto che, specie nei particolari, gli artisti tendono a
ripetere alcuni tratti a loro caratteristici che sono parte essenziale del loro linguaggio espressivo.
In ogni caso è ovvio che il copista che deve non solo cambiare il materiale impiegato ma anche
modificare radicalmente le dimensioni dell’opera (in questo caso riducendole di un terzo, da 95 a 30
cm circa) opera una vera e propria "traduzione" anche perché altra cosa è la "politezza" tipica di
Canova, dalla morbidezza opaca e lucente, e altro è la vernice delle terraglia che per forza di cose
appare specchiante per quanto si possa tentare di smorzarne l’eccessiva brillantezza. Per non parlare
della diversa resa del materiale impiegato.
In più c’è da dire che probabilmente Ballanti non vide personalmente l’opera, ma si basò su disegni
ricavati in occasione dell’esposizione bolognese, come sembrebbe osservando il basamento che non
è più "l’aspro scoglio" del Pochini 31 ma appare suddiviso in una serie di piccoli massi accostati ed
anche il maggior risalto dato alle lacrime che rigano il volto della santa. Un’altra differenza si può
notare nel cordone che stringe la veste della Maddalena che appare interrotto subito dopo il nodo e
non ricadente lungo il fianco come in entrambe le opere di Canova. Anche in questo caso si
potrebbe pensare ad un fraintendimento del disegno di partenza nel quale, forse, il braccio della
santa interrompeva la giusta visuale.
Eppure, a dispetto di queste osservazioni che possono sembrare riduttive, resta il fascino di questa
piccola plastica, testimonianza perfetta di un mondo - che di lì a poco tramonterà, travolto
dall’industrializzazione e dalle esigenze di un mercato di massa - in cui l’aspirazione ad una
produzione di alto livello formale e di contenuto eletto si saldava col desiderio di un’imprenditoria
di stampo aristocratico di non tradire le proprie radici culturali e di classe.

NOTE

1 Cfr. G.MORAZZONI, La terraglia italiana, Milano, Alfieri, 1956, tav. 5 e F. FERNIANI, Le Maioliche Ferniani di Faenza, in "La Ceramica",
luglio 1958, fig. p. 39.

2 Cfr. in proposito G. RONZONI, I "segreti" di fabbrica in F. LIVERANI, Il conte Ferrari Moreni e la ceramica nella prima metà dell’Ottocento a
Sassuolo, Faenza, 1986, p. 49, nota 26.

3 Per le vicende dettagliate delle due Maddalene di Canova, cfr. le relative schede redatte da F. MAZZOCCA e N. K KOSAREVA in Antonio Canova,
catalogo mostra Venezia e Possagno, Venezia, Marsilio, 1992, pp.163-65 e 254-59.

4 G. ROSINI, Saggio sulla vita e sulle opere di Antonio Canova, Pisa, 1825.

5 In Biblioteca Canoviana ossia raccolta delle migliori Prose e de’ più scelti Componimenti poetici sulla vita e sulle opere ed in morte di Antonio
Canova, 4 tomi, Venezia, Giovanni Parolari tipografo editore, 1823-24, t. IV, p. 148.

6 In Biblioteca Canoviana cit., t. IV, pp. 145-47.

7 In Biblioteca Canoviana cit., t. III, pp. 136-37.

8 In Biblioteca Canoviana cit., t. I, p. 111, vv. 127-29.

9 In Biblioteca Canoviana cit., t. II, p. 78, vv. 382-414.

10 P. GIORDANI, Saggio del Panegirico ad Antonio Canova dedicandosi il suo busto nell’Accademia delle Belle Arti in Bologna, 28 giugno 1810,
Milano, Vallardi, 1836, pp. 27-28.

11 Lettera di Saverio Scrofani Siciliano ad Ennio Quirino visconti sopra la Maddalena, Statua del Cav. Antonio Canova, in Biblioteca Canoviana, cit.,
t. IV, pp. 129-44.

12 A.C. QUATREMERE DE QUINCY, Memoria sul Canova e sulle sue quattro statue che si vedono all’Esposizione pubblica del Museo di Parigi
(1808) traduzione italiana di Antonio Pochini, in Biblioteca Canoviana cit., t. I, p. 148.

13 Ibidem, p. 150.

14 Nel 1804, infatti, Canova aveva esposto a Parigi uno dei suoi Pugilatori, insieme al torso di un Genio, ma si trattava di gessi e l’effetto sul pubblico
non fu straordinario.

15 H. HONOUR, Neoclassicismo, Torino, Einaudi, 1980, p. 82 (ed. orig. 1968).


16 Della bella Cornelia Martinetti che "non corrispose a chi l’amava altamente, ardentemente, forsennatamente" parla anche Mario PRAZ in Gusto
neoclassico, 3a ed. riv., Milano, Rizzoli, 1974, p. 232, a proposito delle donne amate da Ugo Foscolo, giudicandola in base ai ritratti noti "la sola
veramente pari alla fama".E certo, il suo fascino doveva essere indubbio se anche Stendhal affermava che "la signora Martinetti farebbe colpo anche a
Parigi" e Monti la paragonava a una dea.

17 G. GUIDICINI, Diario bolognese dall’anno 1796 al 1818, Bologna, 1886-87, pp. 57-58, cita G.B. Martinetti - già autore nel 1800 della Colonna
della Pace - fra i tre progettisti dell’arco di trionfo che venne eretto nel 1805 a Bologna, nei pressi di porta S. Felice per festeggiare "i sovrani di
Francia e Italia". La costruzione, particolarmente elaborata, era ornata da pitture e bassorilievi eseguiti da Felice Giani e da altri decori di mano di
Gaetano Bertolani. Per la fortunata carriera d’architetto di G.B. Martinetti che ha legato il suo nome alla via Porrettana e a Villa Aldini e passò senza
danni dal periodo napoleonico alla Restaurazione, cfr. soprattutto M.T. CHIERICI STAGNI, Giovanni Battista Martinetti Ingegnere e Architetto,
Bologna, Ponte Nuovo, 1994.

18 Foscolo, che cercò invano di dedicarle la sua traduzione del Viaggio sentimentale di Sterne, qualche anno più tardi ne sublimerà l’immagine nel
secondo Inno de Le Grazie, facendone la "Sacerdotessa della Parola" (Ora costei dal Felsineo pendio/ ...mosse, ed a voi / questo eletto tra’ favi offre
sull’ara).

19 Cfr. in proposito M. PRAZ, in Enciclopedia Universale dell’Arte, 1958, vol. VIII, ad vocem "Canova". L’inaugurazione del busto venne
solennizzata anche dalla lettura del Panegirico ad Antonio Canova cit. alla nota 10 composto per l’occasione da Pietro Giordani (che, fra altro, era un
altro ardentissimo ammiratore della Martinetti).

20 Cfr. G. ROSSI, Bologna nella storia nell’arte e nel costume, ed. orig. Bologna, Zanichelli, 1924-37, ristampa Bologna, Forni, 1980, p. 506.

21 Potrebbe stupire notare come fosse la faentina Ferniani e non la manifattura del conte Aldrovandi - appartenente, fra l’altro, allo stesso ambiente
francesizzante dei Martinetti - a realizzare la copia da Canova. In realtà la spiegazione è duplice. Da un lato abbiamo la scarsa propensione (per non
dire la dichiarata avversione) del conte bolognese al Neoclassicismo, dall’altra va ricordato che, dopo il 1810, Carlo Aldrovandi si estrania quasi
completamente dalla vita attiva, lasciando la manifattura nelle mani del pratico Luigi Roversi, più incline a far quadrare i conti attraverso la produzione
di stoviglieria che a dedicarsi ad auliche imprese.

22 In questo campo fa eccezione la sola Inghilterra, dove anzi l’acme sarà raggiunto in epoca vittoriana quando l’invenzione quasi contemporanea
(1843-1844) della porcellana paria e del pantografo tridimensionale provocherà una vera esplosione nella fabbricazione in serie di statuette-copie di
originali antichi e moderni.

23 Cfr. in proposito: C. MALAGOLA, Memorie storiche delle maioliche di Faenza, Bologna, Romagnoli, 1880, pp.198-99; - E. GOLFIERI, L’arte a
Faenza dal Neoclassicismo ai giorni nostri, Faenza, a cura dell’Amministrazione comunale, 1976, v. I, pp. 27-28, 62 e T. STROCCHI, in L’officina di
maioliche dei conti Ferniani, a cura di un gruppo di studiosi, Faenza, Stab. Grafico Lega, 1929, pp. 78-79.

24 Cfr. schede nn. 479-480 redatte da Ennio Golfieri in L’età neoclassica a Faenza 1780 - 1820, catalogo mostra, Bologna, Alfa, 1979, p. 222, ill. n.
364.

25 T. STROCCHI, op. cit., p. 79.

26 E. GOLFIERI, in L’età neoclassica cit., p. 220.

27 C. MALAGOLA, op. cit., p. 205.

28 Inv. nn. 9859 e 9860.

29 In questa occasione non sembra il caso di prendere in considerazione il problema relativo all’autore dei due gruppi (Morazzoni, op. cit., ne pubblica
altri due analoghi con leggere varianti, attribuendone la paternità a Giacomo Rossi, lo scultore-modellatore dell’ Aldrovandi) ma solamente l’esecutore
materiale delle stesse.

30 A.C. QUATREMERE DE QUINCY, Memoria cit., p. 151.

31 A. POCHINI, I Marmi del Canova esposti nel Museo di Parigi in Biblioteca Canoviana cit., t. II, p. 78.

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