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Antonio Montanari

La fenomenologia
dello «zio Pataca»

In «Amarcord» di Federico Fellini


è un simbolo dei violenti anni Trenta
Nel 1973 Federico Fellini rilasciava a Pietrino Bianchi, celebre
critico cinematografico del quotidiano milanese «Il Giorno»
un’intervista a proposito del film «Amarcord» uscito l’anno prima,
e che nel 1975 avrebbe vinto l’Oscar. Quelle parole di Fellini
aprono il numero 1/2005 della rivista di studi «Fellini Amarcord»,
che l’omonima fondazione riminese dedicata al regista pubblica
trimestralmente da cinque anni. Le precedono due testi, uno del
direttore della fondazione, Vittorio Boarini, e l’altro di Morando
Morandini, anch’egli noto critico cinematografico. La rivista
appare mentre si tiene nel Museo Fellini (sino al 28 agosto) la
mostra «Amarcord. Fantastica Rimini».
Le parole confidate da Fellini a Bianchi, sono un ritratto molto
efficace della vita degli anni Trenta, definiti «un mondo sbagliato,
meschino, gretto e violento». Le assocerei all’osservazione che fa
Morandini poche pagine prima. Quando uscì il film, Morandini non
approvò la parte storica della sceneggiatura. Anzi la bocciò
decisamente, definendola «fiacca e facile». Adesso per «il
malinconico privilegio dell’età», Morandini ammette: «Non è
escluso che le mie severe riserve sul versante storico
dipendessero dalla mia memoria, storica e geografica, cioè dalle
esperienze vissute a Como a metà di quegli stessi anni Trenta». Il
suo «panorama di ricordi», conclude, «era assai diverso da quello
del riminese Fellini».

Portavoce d’una società


Morandini segnala qui un problema che non è soltanto suo, ma
generale: quello della valutazione di un film o di un racconto. E
che gira attorno alla questione: come giudicare la
rappresentazione dei ricordi individuali? Ed anche: sino a che
punto quei ricordi restano semplicemente personali, e dove (o
quando) cominciano ad essere collettivi, a confluire in una
memoria di tutti? Ovvero: Fellini racconta cose soltanto sue,
oppure organizza uno spettacolo in cui egli si fa semplice (ma
artisticamente privilegiato) portavoce di una coralità che
restituisce nelle immagini e nella sceneggiatura le trame
esistenziali d’una società intera, i differenti aspetti d’un
momento storico?
Morandini ricorda pure che «curiosamente» (noi ci permettiamo
di aggiungere, non troppo) Rossana Rossanda sul «manifesto»
era vicina al suo giudizio su «Amarcord». Lei aveva scritto che il
film appariva sommesso e struggente, segreto e composto,
lasciando alla fine la sensazione che non ci fosse «molto da
dire».

L’uomo da poco
Dopo un anno esatto dalla presentazione, Fellini pronunciava con
Pietrino Bianchi le parole che abbiamo riportato, sul «mondo
sbagliato, meschino, gretto e violento» degli anni Trenta. Con
quattro soli aggettivi il regista riminese spiegava molto e più di
tanti studiosi e saggisti (è la tesi di Giovanni Grazzini allora al
«Corriere della Sera»). Poi introduceva nell’«universo familiare»
descritto, la variante del «Pataca» puntualizzando: «Pataca da
noi significa un uomo da poco, un farfallone, che vive ai margini
sognando cose difficili, assolutamente lontane dalle sue
possibilità».
Nel film c’è appunto il personaggio dello «zio Pataca» (Lello) che
non è come faceva dire Bianchi a Fellini, il «fratello del
protagonista» (il padre di Titta, Aurelio), ma della mamma,
Miranda. Il padre ha sì un fratello, Teo, ma è quello «matto»
domato dalla suorina (ce n’era veramente una così nana,
cinquant’anni fa all’ospedale di Rimini), quando in cima ad un
olmo egli grida di volere una donna. La suorina gli intima in
dialetto di «non fare il pataca» e di venir giù. Teo «obbedisce
sollecito», come annota Tullio Kezich nella biografia di Fellini
(1987).
Alle bonarie parole felliniane su Lello lo «zio Pataca», aggiungerei
come leva non tanto nascosta per svelare il segreto del
personaggio, un particolare che pare fondamentale per
comprenderne psicologia e filosofia: è lui che tradisce il cognato
antifascista presso cui vive da vitellone parassita, facendogli
infliggere la lezione dell’olio di ricino.
Inquadrato nella vicenda ridicola della purificazione corporea
nella bagnarola con Titta che commenta: «Che puzza!»,
l’episodio potrebbe rientrare nella categoria che molti critici
considerarono allora fondamentale per spiegare il film felliniano,
quella della «macchietta». In pochi allora compresero quanto
osservò nel 1974 Oreste Del Buono, fine letterato e geniale
creatore di tante iniziative editoriali: «Amarcord» fa «un discorso
civile» in cui non c’è quell’autobiografismo come luogo comune e
scontato di cui parlarono i «critici superficiali».

Verità ed orrore
«Discorso civile» vuol dire anche politico, secondo quanto avvertì
pure, con grande sensibilità autobiografica e letteraria, Natalia
Ginzburg a cui la ricostruzione degli anni Trenta fatta da Fellini
aveva «dati dei brividi»: «Mai mi era successo di vedere evocati
gli anni della mia giovinezza, e il fascismo di allora, con tanta
verità e tanto orrore».
Il fascismo, spiegava la scrittrice (vedova di Leone Ginzburg,
ucciso dalle sevizie subìte come antifascista nel 1944 a Regina
Coeli), era «sordido, miserabile, atroce». Allora i giovani ne
conoscevano «bene soltanto gli aspetti grotteschi, quelli tragici»
li avrebbero «capìti più tardi». In questo film, concludeva Natalia
Ginzburg, riconosciamo «il fascismo bevuto e respirato senza che
lo sapessimo». Nel borgo di Amarcord c’era coralmente l’Italia,
con un’esposizione di quegli anni che le appariva fatta «con
chiarezza e grandezza».
Partendo da questo quadro così magistralmente delineato da Del
Buono e Ginzburg, mi chiedo se non sia il caso di andare un poco
al di là della definizione felliniana del «pataca» come «uomo da
poco, farfallone o sognatore». Proprio per il contesto in cui lettori
così acuti come i due appena citati collocano tutto il film, mi
sembra che quel cognato nello stesso tempo indifferente e
fanatico, parassita e traditore, possa anzi debba indurci a dire
che il tratto psicologico dell’uomo «da poco» può veramente
diventare quello dell’uomo «da niente», cioè senza moralità e
dignità. La sua condotta è quella di chi in apparenza è gelido e
noncurante, mentre in sostanza si dimostra una perfetta
carogna. E se dal tono leggero della raffigurazione scendiamo nei
labirinti della Storia, se dal grottesco ci avviamo cautamente
verso il tragico, allora vengono alla mente pagine ancora peggiori
di quegli anni, quando una soffiata era ricompensata con un
cartoccio di sale, e ci scappava il morto, frutto ed oggetto di
delazione politica.

I contorni di una parola


Alla parola «pataca» Gianni Quondamatteo dedicò nel 1982 una
mezza pagina del suo «Dizionario romagnolo (ragionato)», per
spiegare anche le sfumature geografiche (a Cesena essa sarebbe
«greve e volgare»), e l’origine da un’antica moneta di poco
valore (era di rame), secondo il classico Morri. Altrove si possono
trovare esempi illustri modulati sulla «patacca», finita ai nostri
giorni per indicare moneta od oggetto falso, per cui «rifilare la
patacca» indica un imbroglio, e non soltanto a Roma si dice
«pataccaro» l’ambulante che vende ad esempio orologi preziosi
che vanno soltanto per poche ore: decenni fa a Rimini ne hanno
rifilati interi camion ai turisti tedeschi.
Il contorno della parola sul quale ci siamo soffermati (omettendo
altri più reconditi ed osceni significati), delinea un territorio ben
preciso: nel quale non pascola la verità ma l’imbroglio, agisce più
la volontà della truffa che l’intelligenza di fare uno scherzo.
Dunque un territorio tutto negativo che potremmo collegare con
il contesto storico felliniano, arrivando a confermare che il
fratello della Miranda, è un traditore, un brutto ceffo, non una
simpatica canaglia od un compassionevole illuso.
Quandomatteo elencava le possibili traduzioni della parola
nell’italiano corrente, sottolineandone le «svariate modulazioni».
Si va dal generoso a chi non ha reagito ad un’offesa, passando
attraverso l’inetto e lo spiritoso fuori luogo. Per cui alla fine, non
soltanto si conferma la regola sovrana secondo cui ogni
comunicazione linguistica è in sé perennemente ambigua, ma si
giungerebbe alla conclusione che prevalendo il contesto sul
testo, se ne sconsiglia l’uso sia per non offendere gratuitamente
sia per non correre il rischio di dire cosa inadatta, il che sarebbe
un vero e proprio comportamento «da pataca».

Il parere di Moravia
Dalla rivista felliniana riprendiamo anche alcune parole di Alberto
Moravia che allora (1973) teneva la rubrica cinematografica
dell’«Espresso»: la Romagna che «Amarcord» racconta è «senza
deformazioni satiriche e fantastiche». Ricordiamocene quando
vogliamo fare del film e del suo autore i parametri intellettuali di
una «riminesità» che ad esempio si riassume solitamente nel
gioco degli specchietti dei soprannomi. Che fanno ridere o
sorridere, ma che non debbono chiudere il discorso. Come tutti
gli specchietti, attirano solamente chi vuol divertirsi con poco.
Di recente in occasione della scomparsa di Raffaello Baldini,
ricordavamo che egli ha trasformato il dialetto da sottospecie
letteraria a strumento pienamente degno d'entrare nelle sacre
stanze della Poesia, intesa non come occasione per narrare temi
scherzosi e ridicoli, ma quale modulo espressivo di umori nati dal
basso e nel vivere quotidiano, per diventare alla fine la sintesi di
un pensiero simbolico, e quindi filosofico, come nel Leopardi del
«Canto notturno», con il «semplice pastore» che s'interroga sulla
comune condizione esistenziale.
In Fellini avviene la stessa utilizzazione del tono basso,
dell’immagine plebea, come scrive Grazzini: «In un calcolatissimo
impasto di toni gravi e lievi, con svolte improvvise nel beffardo e
nel fumetto, così ‘Amarcord’ cresce e tempera le ombre, le
smargina d’ogni scoria verista e le muove nel grembo della
leggenda».

«Grosso film politico»


In tale grembo lo «zio Pataca» sembra reclamare un giusto
giudizio per la sua azione di delatore, protagonista non isolato di
un clima ben evidente nella sequenza del grammofono che
dall’alto del campanile diffonde le note dell’Internazionale. E
nella scena degli oppositori portati alla casa del fascio, con la
predica del gerarca paralitico: «Quel che addolora, è che non
vogliano capire». Valerio Riva sull’«Espresso» sostenne che a
quel punto allo spettatore, «Amarcord» appariva non più e
soltanto «una antologia di ricordi» ma «un grosso film politico, il
più esplicito, almeno in questo senso, che abbia fatto Fellini».
Lo zio Lello sarebbe stato collocato da Dante nella Caina (canto
XXXII dell’«Inferno»), fra i traditori dei congiunti nel grande gelo
che dice tutto anche a noi. Lello rappresenta una delle tre
categorie umane che a nostro impavido avviso ci accompagnano
nel cammino esistenziale. Le altre due sono quella alquanto rara
di chi disprezza la menzogna, e in nome della verità è disposto a
sopportare tutto. E quella (alquanto diffusa) di quanti per
convenienza si celano nel proprio «particulare» e fingono di non
vedere per non aver rogne. Anche loro tradiscono i reciproci
doveri su cui si basa l’umana convivenza.

Post scriptum
Quale fondamentale premessa e conclusione ad un tempo di
tutto il discorso, rinviamo al celebre saggio «Le leggi
fondamentali della stupidità umana», nel volume «Allegro ma
non troppo», del prof. Carlo M. Cipolla (il Mulino 1988).
Antonio Montanari (2005)

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