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IL PIEMONTE
NELL'ETÀ SVEVA
3. In Val ài Scrivici
DA ALESSANDRIA A LEGNANO
2. La fondazione di Alessandria
5- L'assedio di Messaniria
I veri rapporti tra il Conte di Savoia e l'imperatore apparvero
nel 1174 quando, libero delle questioni tedesche, Federico Barba-
rossa potè pensare all'Italia ed alla rivincita sui comuni.
Naturalmente anche ora la sola via accessibile per venire in
Italia era quella della Savoia e del Cenisio. Nel settembre del 1174
attraversò i paesi savoiardi con un esercito di 8.000 uomini, dice
un cronista milanese. Certo non erano tanti. Federico aveva ar-
ruolato però in Borgogna alcune e ompagnie di quei Brabanzoni
e Coterelli che da qualche anno funestavano quella regione al ser-
vizio di signori imperiali per tormentare i partigiani di Alessan-
dro III. II 29 settembre la popolazione di Susa vide ricom -
parire, pronto alla vendetta, quegli che sei anni prima era stato
costretto a non imperiale fuga. La vendetta fu nello stile di Fede
rico: la popolazione susina fu risparmiata, ma espulsa dalla città e
questa fu bruciata. La sola « Dòtnus Cemitis », la residenza sabauda,
fu risparmiata; il cronista che cK.narra tale episodio, Goflredo di
Viterbo, afferma di essere stato, dall'imperatore, messo a guardia
del castello sabaudo contro i saccheggiatori. Un riguardo verso un
temibile alleato adunque. Ma neppure Ora Umberto III accompa-
gnava Federico Barbarossa e non presenziò la rovina della sua
fedele Susa. Aveva fatto qualche tentativo per salvare la sua città?
Dopo l'incendio vendicativo arrivò l'imperatrice:
Tunc regum genitrix venir regina Beatrix,
Lesa prius gratis, nunc sìbi leta satis Gaudia
regine sunt quas videf ipsa ruine: Hec decet
in fine genti dare dona canme.
La distruzione di Susa era un ammonimento per le città italiane.
Si preparavano di nuovo le tragedie di Tortona, di Crema, di Milano?
Per Torino e per Chieri, l'imperatore giunse alla metà dell'ot-
tobre davanti ad Asti. Questa appariva strettamente legata alla Lega:
L'ASSEDIO D'. ALESSANDRI* 25j
6. A Legnano
2. La nuova Cesarea
minis » che ivi si porta a vendere e tuttociò per lire 1427 e mezzo
che gli vennero subito pagati.
La decadenza dei marchesi di Savona era consumata. Nel 1190
Ottone fu podestà di Genova col titolo di Marchese Del Carretto.
Ora nel secolo XII la storia avrebbe registrato dei marchesi del
Carretto in servizio presso l'imperatore ed altri principi.
ciò III. Come dimostrò con il nome papale che assunse, Umberto
Crivelli, arcivescovo di Milano, aveva una grande coscienza della
dignità papale, della sua superiorità su tutte le autorità mondane,
del diritto alla sottomissione dovutagli da tutti i principi: non era
certamente l'uomo adatto a subire la vigorosa politica federiciana
più di quanto avesse acconsentito il suo predecessore, tanto più ora,
di fronte a] realizzarsi del matrimonio di Enrico e eli Costanza,
matrimonio per il quale la situazione politica del papato non poteva
non peggiorare.
Infatti se da prima si dichiarò disposto a trattare per la difficile
questione dei beni matildini, presto le trattative si ruppero per
l'impossibilità di un accordo, e neppure Federico riuscì ad ottenere
da Urbano III il desiderato consenso perché incoronasse il figlio
.suo collega nell'impero, li papa assunse un atteggiamento ostile al-
l'imperatore, anzi vietò ai vescovi italiani di prendere parte alla spe-
dizione federiciana contro Crernona, affermando che l'impero non
aveva nessun diritto di imporre questo obbligo feudale e militare
ai vescovi in Italia dove « nequaquam hactenus fuerit consueturn
hanc servitutem imponete ». Questa azione del papa sui vescovi non
poteva non influire anche sui comuni e presto Urbano III si sentì
accusare di osteggiare la politica imperiale.
È probabile che all'atteggiamento assunto dal papa si colleghino
le nuove agitazioni comunali sorte in Lombardia ed in Toscana.
Così mentre ancora Federico attendeva alla repressione di Cfemona,
il figlio Enrico era in Toscana per combattere contro i ribelli e per
cassare poi nello stato romano per occuparlo come rappresaglia contro
Urbano III. Nel maggio del 1186 fu colpita Lucca, che si vide
togliere privilegi giurisdizionali prima goduti; poi Enrico assediò
Siena, che non trovò appoggio in nessuna città toscana, neppure
in Firenze. I senesi furono costretti ad arrendersi: la città fu privata
di tutti i diritti regali, di tutta la giurisdizione, del diritto di batter
monete, di stabilire e riscuotere pedaggi. Anche Orvieto se resistette
energicamente all'assedio, dovette da ultimo cedere: successivamente
tutte le città del Patrimonio di San Pietro furono occupate da En-
rico VI; dovunque furono messi dei capitani imperiali ed applicate
le disposizioni prese da Federico 1 negli anni precedenti per l'Italia
superiore. Anche le Romagne vennero occupate, e dovunque furono
rafforzate le vecchie forze politiche, feudo ed episcopio.
Urbano III tuttavia non cedeva. Non sappiamo quali progetti
avesse l'energico papa. Intendeva ricorrere all'appoggio dei principi
LE PRIME IMPRESE DI ENRICO VI 291
del castello di Rivalla: tenendolo per mano gli aveva fatto varcare
la porta, alla presenza di tutta la corte vescovile.
Ma il vecchio vassallo Ulrico di Rivaita che parteggiava per
il conte era rientrato nel castello subito dopo! Il vescovo andò a
chiedere ad Enrico VI alla dieta di Borgo San Donnino il suo inter-
vento (aprile 1187).
Ancora nel 1187, nell'autunno, il Re dei Romani decise una
spedizione contro Umberto III di Savoia che evidentemente non
s'era curato troppo della sentenza lanciata nel 1185 contro di lui.
Riunì Enrico VI un esercito tornito al solito dai comuni lombardi;
da Pavia dove avvenne il concentramento —■- e di dove il 17 set-
tembre prendeva sotto la sua protezione il comune d'Alba con tutti
i suoi abitanti ed i suoi beni — per Torino, si avviò verso la Valle
di Susa. Nell'ottobre, pare, pose l'assedio al castello di Avigliana,
lo prese dopo quindici giorni e lo distrasse. Ma non osò risalire la
valle. Infatti il 24 ottobre già era a Torino ed al principio del
novembre a Milano. O prima o dopo la spedizione, Enrico VI lanciò
contro il Conte di Savoia una solenne condanna: Umberto III era
messo al bando dell'impero, dichiarato decaduto di tutti i suoi feudi
e naturalmente i suoi sudditi erano secondo l'uso prosciolti dall'ob-
bligo di fedeltà.
Così l'impero sfruttava in questo momento l'alleanza di Milano
e delia Lega Lombarda; invece Papato e Savoia erano dall'altra parte.
Come già era successo mezzo secolo prima per Umberto III,
quando il padre suo Amedeo III era morto alla seconda crociata,
anche per il nuovo Conte fu necessario organizzare una tutela e reg-
genza: la composero la madre Beatrice di Màcoli con il vescovo di
San Giovanni di Moriana ed il marchese Bonifacio di Monferrato che
era cugino di Umberto III. Il marchese Bonifacio che nel gennaio ci
compare a VercelH, si recò in Savoia alla morte del Conte: la sua
presenza nel difficile momento, dati i rapporti con l'impero, era più
che utile, era necessaria. Il 16 marzo ad Aiguebelle nella sua qualità
dì tutore assistette ad un atto del giovane Conte a favore dell'ospi-
zio del San Bernardo e vi diede autorità.
Soprattutto per risolvere la grave questione con l'impero, era
necessario ai Savoia l'appoggio di Bonifacio di Monferrato. Fortuna-
tamente, gli Staufer si trovavano in un momento imbarazzante, Fe-
derico Barbarossa nella primavera del 1189 stava facendo gli ultimi
preparativi per la crociata a Regensburg e l'il maggio saliva sulla
nave che doveva portarlo per il Danubio a raggiungere l'esercito già
in marcia. Enrico VI dopo avere assistito alla fine dell'aprile alla
grande dieta in cui il padre gli aveva conferito solennemente il
governo per il tempo della sua assenza, congedatosi da Federico,
si era avviato verso la Borgogna; giunto a Basilea egli vi trovò il
marchese di Monferrato che accompagnato dai due vescovi di San
Giovanni di Moriana e di Aosta veniva ad intercedere per il nuovo
Conte di Savoia.
Il Re dei Romani credette saggio assumere un atteggiamento
prudente. Non abbiamo il diploma solenne che esso emanò per riti-
rare i provvedimenti presi contro i Savoia, ma sappiamo che esso
ricevette Tommaso I in grazia dell'impero e lo reintegrò nei suoi
feudi e diritti. Però approfittò dell'occasione per costringere il Conte
a rinunciare ad ogni diritto sul vescovado di Sfon ed infatti ancora
da Basilea il 7 maggio 1189 Enrico VI investì il vescovo di Sion
di tutti i diritti regali nel suo episcopato che venne a dipendere
direttamente ed unicamente dall'autorità imperiale. Né bastò. Evi-
dentemente per compiacere il vescovo di Aosta ed averlo favorevole,
Tommaso I dovette, poco dopo, forse nel 1191, restituire alla sede
augustana possessi e diritti che il vescovo pretendeva suoi: anche
qui i Savoia erano adunque in ritirata. Così la vertenza con l'impero
si chiudeva per i Savoia in completa perdita: era fallita tutta l'atti-
vità di un secolo per sottomettere i tre vescovadi di Torino, di
Tarentasia, di Sion.
298 LA PACE DI C0STAN2A E LA NUOVA POLITICA SVEVA NELL'ITALIA OCC.
vano davvero dei diritti da far valere? Già nella primavera del 1190
il maresciallo imperiale Enrico di Kalden, dalla Romagna ove si tro-
vava, entrò nel Regno con un piccolo corpo di truppe tedesche; si
spinse sin nelle Puglie, ma nell'estate i calori e le malattie più che
la resistenza armata ebbero ragione dell'invasione tedesca.
Giunse intanto la notizia della tragica morte di Federico I
avvenuta il 10 giugno 1190 nelle acque del Salef in Cilicia. Enrico VI
vide ora ingrandire l'importanza della sua progettata spedizione in
Italia: assumere la corona imperiale in Roma, liberare dall'usurpa-
tore il regno di Sicilia e farsi incoronare in Palermo, formarono ora
un programma unico. L'Italia era destinata a diventare un sicuro
dominio degli Staufer. Legnano era un vago ricordo.
Il 6 gennaio del 1191 il nuovo imperatore scendeva dal Bren-
nero a Bolzano: il 18 dello stesso mese teneva dieta a Lodi. Attorno
ad Enrico VI si radunarono vescovi, feudatari, rappresentanti di
comuni. Dopo tre anni di assenza dall'Italia, aveva ora l'imperatore
da risolvere non poche vertenze, non pochi contrasti di comuni e
di feudi. Dal Piemonte erano accorsi a Lodi il marchese di Monfer-
rato, Bonifacio, il conte di Biandrate, Raineri, i vescovi di Asti e
di Novara: così anche le questioni del Piemonte furono presentate
ad Enrico VI.
Le linee direttive dell'atteggiamento di Enrico VI in tutte que-
ste vertenze dell'Italia superiore non potevano non essere precise:
appoggiare sì i vecchi e sicuri fedeli dell'impero, ma cercare di paci-
ficare le parti, riconciliare i comuni, eliminare le cause di conflitti
armati. In questo modo egli avrebbe potuto assicurarsi la possibilità
di attingere alle forze militari e finanziarie del mondo comunale per
provvedere ai bisogni delle spedizioni a Roma ed in Sicilia; Cle-
mente III e Tancredi non avrebbero potuto sperare di trovare ap-
poggi nell'Italia settentrionale.
Praticamente però, l'azione esercitata da Enrico VI nelle que-
stioni comunali fu tale da mettere a repentaglio l'auspicata pace.
L'imperatore parve prima rimanere fedele al gruppo Milano-Piacen-
za, ma bisognoso, per la spedizione a Roma, di denaro, fu costretto
ad accettare le offerte dei piacentini ed a dar loro in pegno Borgo
San Donnino e Bargone per due mila lire piacentine, e di conse-
guenza dovette sacrificare le aspirazioni dei parmigiani che diventa-
rono freddi, anzi ostili. I rapporti di Enrico con il comune di Pia-
cenza acquistarono il carattere di formale alleanza, stipulata appunto
a Lodi; i piacentini si impegnarono ad aiutarlo nel ricuperare1 tutti
LA POLITICA DEL NUOVO IMPERATORE 301
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mesi ogni anno con due cavalieri e tre arcieri a cavallo. Uguali
obblighi avevano verso di lui gli astigiani, non avrebbero pagato
però tributi e pedaggi nel territorio del marchese, se non 'à vecchio
pedaggio della vecchia via, per Savona si capisce.
Pochi giorni dopo anche il marchese di Saluzzo, Manfredi TI,
venne ad accordi con Asti: cedette al comune tutti i diritti che aveva
in Romanisio (vecchia corte episcopale che sorgeva tra Stura e Grana
a pochi chilometri dal luogo dove poi sorse Fossano) in Castiglione,
in Saluzzo, riavendoli però in feudo, con l'obbligo anche di far giu-
rare il patto dalia consorte sua, la contessa Adelasia, e da tutti i
suoi vassalli e rustici dei tre luoghi, che avrebbero dovuto pagare
ogni anno il fodro al comune d'Asti.
Anche il marchese di Saluzzo stipulò un trattato con Asti: si
obbligò a non imporre ai cittadini e sudditi del comune nessun
pedaggio od altri tributi se non il vecchio e consueto pedaggio;
ad aiutare il comune nelle sue guerre con dieci cavalieri e dieci arcieri
a cavallo, esclusi però i conflitti eventuali con il marchese di Mon-
ferrato. Analoghi impegni prendevano gli astigiani di aiutare Man-
fredi II. Qualche accenno ai motivi di conflitto qui troviamo: il
marchese doveva restituire ad un cittadino di Asti, il prezzo del
riscatto imposto, doveva pagare i suoi debiti verso gli astigiani se-
condo la sentenza dei consoli d'Asti; doveva liberare gli astigiani
imprigionati, doveva consegnare Solere ai consoli perché potessero
mettere d'accordo il Marchese ed i castellani, così doveva restituire
ai castellani di Manzano, di Sarmatorio e di Monfakone tutti i feudi
ed allodi che possedevano un mese prima che incominciasse la guerra.
Si può dunque pensare che Asti ad un tempo si fosse trovata in
lotta con i marchesi di Saluzzo, di Ceva, di Savona. Per quanto
riguardava gli Aleramici di Ceva e di Savona il conflitto concerneva
l'eredità di Bonifacìo di Cortemilìa. Aveva questi stipulato patti con
Asti che noi non conosciamo? Probabilmente sì, e perciò Asti pre-
tendeva di essere indennizzato dai suoi eredi. Ma il conflitto più
grave era, pare, quello con Manfredi II di Saluzzo, e probabilmente
la questione era quella dei signori di Sarmatorio, alleati di Asti, che
avevano combattuto contro il marchese ostacolando le sue aspirazioni
sui Solere, su "Verzuolo ed avevano protetto i vassalli, i signori di
Saluzzo, minacciati dal marchese. Corollari del trattato di maggio
furono due accordi conchiusi il 1° giugno ed il 23 ottobre dello stesso
anno da Manfredi II con i signori di Sarmatorio. In tal modo il
comune astigiano salvò i signori di Sarmatorio e tutti i loro
diritti
310 COMUNI E FEUDATARI IN PIEMONTE NELL'ETÀ DI ENRICO VI
e non avrebbero saputo che fare — Che con nessuna, la giovinezza vi fece
peccare.
Cento cavalieri vi ho visto arricchire — E cento altri distruggere e cacciare,
— I buoni sollevare, i falsi, ì cattivi abbassare. — Nessun lusingatore non
vi piacque mai. — Tante vedove, tanti orfani consigliare —■ E tanti meschini
vi ho visto soccorrere — Che in Paradiso vi dovrebbero condurre, ■— Se
per mercé alcun uomo dove entrarci — Che con mercé voleste sempre reg-
gere, — Che mai a nessun uomo, degno di ottener mercé — Se ve la chiese,
non la sapeste negare — E se alcun vuoi dire e contare il vero -— Alessandro
vi lasciò la sua liberalità — E l'ardire Rolando ed i dodici pari — Ed il prode
Berardo galanterìa ed il genti! parlare. •— Nella vostra corte dominano tutti i
bei portamenti -— Doni e dortneamenti, bel vestire e belle armi — Trombe
e giochi e viole e canti...
venir meno all'impegno del 1183 di tenere per amici tutti gli amici
dell'impero? E pure ancora nel settembre del 1191 Alessandria appa-
riva in buoni rapporti con Tommaso di Annone, il castellano impe-
riale; questi cedeva al comune di Cesarea — così ufficialmente ancora
si chiamava Alessandria — la metà del pedaggio di Basaluzzo che
teneva per l'impero.
Tra Asti ed Alessandria vi era coincidenza di interessi: l'ac-
cordo per assicurarsi il dominio della vallata del Tanaro, per con-
trastare agli sforzi che il marchese faceva a sud del fiume. Già nel
1190 i due comuni strinsero un convenzione per la questione di
Masio, Vecchia corte dell'episcopato astigiano, posto sul Tanaro ed
importante per il pedaggio che pagavano le navi sul fiume, già alla
metà del secolo XII Masio era organizzato in comune a cui parte-
cipavano milites et pedites, vassalli vescovili, rustici e nel 1152
conchiudeva accordi con il maggior comune di Asti.
Ma se nel 1190 gli astigiani acconsentirono che quei di Masio
stipulassero patti anche con Alessandria, è da pensare che questo
avvenisse per il timore che l'espansione alessandrina portasse a peg-
gio. Così i consoli di Masio promisero che avrebbero aiutato ed Asti
e Cesarea contro qualsiasi nemico, esclusi i signori loro, che avreb-
bero fatto esercito, oste, cavalcata, fossato, così per l'una come per
l'altra città, pagando fodro ed in Asti ed in Alessandria, esentando
gli abitanti dell'uno e dell'altra città del pedaggio deUe navi. E le
due città promettevano di considerare quei di Masio come loro cit-
tadini. Atto importante adunque: in questo modo i due comuni
rendevano difficili le comunicazioni del marchese di Monferrato con
i suoi possessi a sud del Tanaro.
Bonifacio I, dopo la vittoria su Asti volle armarsi anche contro
l'altro comune. Così Enrico VI, per ricompensare il marchese del-
l'aiuto accordato ai comuni lombardi, l'8 dicembre del 1191 gli
concedeva un diploma di riconferma del possesso di Gamondio, di
Marengo, di Foro con tutti i diritti feudali e con tutti i diritti regali,
come già nel 1164 aveva concesso Federico Barbarossa a Gugliel-
mo V. Non era dunque una concessione nuova, ma era l'affermazione
che né imperatore né marchese intendevano abbandonare i loro di-
ritti, era l'affermazione che tutt'attorno ad Alessandria vi era la giu-
risdizione marchionale sulle antiche corti che continuavano a vivere,
libere da Alessandria.
Ma un brutto regalo faceva l'imperatore al Piemonte associando
il Monferrato al blocco antimilanese! Legava infatti le vertenze di
LA GUERRA ATTORNO A TORINO 315
Soltanto nel luglio del 1193 parve ristabilirsi la pace e ne pagò ora
le spese la signoria episcopale. Infatti il vescovo concedette ai
consoli di Torino il diritto di poter usare in guerra dei castelli
episcopali di Testona, di Rivoli, di Montosolo e di tutti gli altri
suoi; esentò tutti i cittadini torinesi dal pagamento dei pedaggi e
di altri tributi a Testona. In compenso il comune di Torino inden-
nizzò i signori della Rovere ed i signori di Piossasco perché rinun-
ciassero a favore del vescovo per i diritti che avevano quelli in Pio-
besi, questi in Testona. Così il comune di Torino riusciva a met-
tere le mani sui castelli del vescovo ed a stabilire delle proprie
basi nel territorio. Dopo questo primo accordo fu possibile un trat-
tato più importante tra il vescovo ed i signori di Piossasco: questi
abbandonarono al vescovo tutti i diritti in Testona, ebbero invece
in cambio come feudo il castello di Piobesi con certe restrizioni e
limiti; inoltre rinunciarono a discutere i loro diritti su Rivoli, rin-
viando la questione di quindici anni. La pacificazione fu fatta alla
presenza di Tommaso di Annone e con la sua approvazione: appa-
rentemente la signoria episcopale torinese era intatta, ma le conces-
sioni fatte alle varie parti erano ben notevoli ed indicavano che la
trasformazione dell'assetto politico locale non era lontano.
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329
Rientrato in Germania già alla fine del tragico 1191, per due
anni l'imperatore fu tutto occupato nelle questioni politiche tedesche.
Alle cose d'Italia provvedevano come potevano i suoi vicari; vita
grassa facevano quei suoi capitani e presidi che aveva lasciato in
varie città e castelli dell'Italia meridionale. Enrico VI però rifiutò
energicamente ogni offerta di mediazione che papa Celestino III fece
ed attendeva con impazienza il momento di poter ridiscendere nella
penisola e riprendere l'offensiva. A nulla servi il tentativo di un'in-
tesa che il re Tancredi fece liberando generosamente l'imperatrice
Costanza.
In correlazione con le intenzioni di Enrico VI per l'Italia è
da giudicare il viaggio in Germania di Bonifacio di Monferrato nel-
l'estate del 1193. Probabilmente doveva riferire sulla situazione del-
l'Italia superiore, inevitabile base di qualsiasi operazione militare
contro il regno normanno.
L'imperatore poteva constatare oramai che la sua politica lom
barda di appoggiarsi soltanto al eruDoo mmn™»» ----
330 LE LOTTE COMUNAU IN PIEMONTE DOPO IL 1194
i tributi del comune come altro cittadino, per 400 lire astesi e di
avere in Alba una casa per 100 lire; maggiori impegni, e militari,
come i suoi consanguinei di Ceva, non si arrischiava a contrarre,
dati i suoi legami feudali con Asti.
Il passaggio di Enrico VI dava qualche animo ai nemici di
Asti: è vero che l'imperatore cercò di compiere l'opera di pacifica-
zione iniziata da Drushard di Kestenburg nei mesi precedenti: nei
maggio Drushard aveva ottenuto dai cremonesi l'adesione alla pace
di Vercelli, Ora le due parti liberarono i prigionieri per ordine di
Enrico VI; solo Piacenza ed i Malaspina rifiutarono.
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prima del 1050. Guido VI, il vecchio, il figlio Guigo VII il grasso
(Guigo pinguis) sono ricordati da diversi documenti nella metà del
secolo senza che sia individuata la loro situazione politica; solo
Guigo Vili nel 1079 è detto « oppidi Albionis cornes ». E questo
Guigo Vili nella curiosa ricostruzione — storica? — del De Man-
teyer, avrebbe sposato, grazie all'abilità di Sant'Anselmo d'Aosta
arcivescovo di Canterbury una Mahaut « regina de natione Angliae »
che Io stesso erudito è convinto debba essere stata una figlia di
Edgardo, quel principe anglo-sassone cugino di Edoardo il confes-
sore, re d'Inghilterra prima della conquista di Guglielmo di Nor-
mandia. In questo modo il De Manteyer spiegherebbe come uno dei
■figli di Guigo Vili e di Mahaut oltre al nome famigliare di Guigo
ricevesse anche quello di Delfino per ricordare uno zio materno
forse di Mahaut, Delfino conte di Cumberland.
La sola cosa certa è che Guigo IX — numerando secondo la
cronologia del De Manteyer — ebbe anche il nome di Delfino e che
da lui j conti d'Albon assunsero il secondo nome di Delfino che
più tardi diventò soprannome e poi titolo dei principi ed infine diede
il nome di Delfinato alla regione stessa. Nel secolo XII al titolo di
conte d'Alban spesso venne sostituito in diplomi ufficiali quello di
conte di Grenoble ed anche quello di conte di Vienne,
Non sappiamo quali rapporti abbiano avuto i Conti di Savoia ed i
conti d'Albon al principio del secolo XI e se vi sia stata quell'unità
di interesse di cui parla il De Manteyer. Non sappiamo neppure
l'orìgine dei possedimenti che i conti d'Albon già prima della metà
del secolo XI ebbero in Val di Susa, al di qua del Monginevro. Qualche
cosa di meno vago sappiamo solo per il secolo XII: Amedeo III di
Savoia sposò in seconde nozze Matilde figlia di Guigo Vili, ma nel
1142 Amedeo III ed il cognato Guigo IX Delfino erano in guerra
e l'ultimo moriva appunto in quell'anno in battaglia a La Buissière
presso Mommegliano. Da' questo momento i Savoia e gli Albon
sono in lotta: lotta che divenne più netta, quando i Savoia si
affermarono sul versante italiano delle Alpi.
Il dissidio tra Savoia ed Albon molto probabilmente si collegò
alla metà del secolo XII con quello tra Savoia ed impero Federico
Barbarossa non sposò Beatrice di Borgogna nipote di Clemenza di
Borgogna consorte di Guigo IX Delfino? Certo l'imperatore ebbe
buoni rapporti con i conti d'Albon: già nel 1155 il nipote dell'im-
peratrice Guigo X Delfino venne a Torino a rendere omaggio a
Federico I e ne ottenne la conferma, dal campo di Rivarolo, di tutti
I CONTI DI ALBON ED I CONTI DEL GENEVESE
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vescovi, con altri signori, con comuni sono parziali, locali e non
intaccano la caratteristica indipendenza dei Conti di Savoia. Quali
sono i domini che formano lo stato sabaudo? Quando Tommaso I
saliva al potere essi si dividevano in due gruppi: il gruppo alpino-
burgundìco ed il gruppo italiano.
II gruppo burgundico comprendeva le contee di Savoia, di
Belley, di Moriana, di Tarentasia, del Chiablese vecchio, di Aosta,
ed in più le proprietà nel Sermorens, nel Viennese, nel Lionese, nel
Genevese, nel Chiablese nuovo, nel Vaud.
II gruppo italiano comprendeva la Valle di Susa sino ad Àvi-
gliana, e qualche possesso non bene organizzato tra le Alpi Cozie
ed il corso del Po, come Miradolo, i diritti non bene precisati su
Pinerolo.
La lotta con l'impero aveva infatti voluto dire gravi perdite
per Umberto III: «perduti nel Torinese vari castelli ritornati al
vescovado di Torino, perduti oltre le Alpi i diritti sui vescovadi di
Sion, di Tarentasia, di Beliey. Al nuovo Conte la ripresa del terreno
perduto e l'avanzata.
La fisionomia politica del giovane conte Tommaso non appare
certo perspicua: per moki anni ben scarsi sono i documenti che ci
permettano di seguire Tommaso I di Savoia e di intravederne le
intenzioni, l'attività, la politica.
Sebbene non sia possibile ricostruire le linee della sua azione
politica, è utile seguire Tommaso I attraverso alla documentazione
della sua attività per questi anni.
Così, come già si accennò sopra, il 7 agosto del 1191 il giovane
Conte era a Susa e nel giardino dell'abazia di San Giusto faceva
donazione ai certosini di Santa Maria di Losa di quanto egli pos-
sedeva in questa località, esonerando inoltre i monaci e le loro case
da ogni obbligo di pedaggio. La certosa di Losa era stata fondata
poco prima in una regione sopra Gravere, a circa 1200 m. di altezza,
a poca distanza da Susa; Tommaso I aveva appunto nel 1189 fatto
una donazione ai monaci fondatori: il suo primo atto politico
in Italia.
Pure nel 1191 il Conte di Savoia ci appare a Thonon nel
Nuovo Chiablese: circondato dai vescovi di San Giovanni di Mo-
riana, di Sion, di Aosta, dagli abati di Agauno e di Abbondanza
e da molti vassalli sovrintende alla soluzione di un conflitto di giuxi-
sdmone tra Nantelmo vescovo di Ginevra e Pietro prevosto del
Gran S. Bernardo. Ed ancora nello stesso anno, in compagnia del
TOMMASO DI SAVOIA IN VAL D'AOSTA 359
7. Midons de Savoia
poiché è prode e franca e di buona stirpe — Cosi non starà più in pace di
suo padre — Ché è tornato a trar la lancia e di balestra.
Dame di Versiglia - voglion venire nell'oste, - Sebelina e Giuglia — E
donna Enrichetta tosto; - La madre e la figlia - D'Incisa, ad ogni
costo;
- Poi viene da Lenta donna Agnese — E da Ventimiglia donna
Guglielma
di nascosto. - Presto la città sarà sorta, - Dal Canavese viene una gran
compagnia - E pur dalla Toscana, e le dame di Romagna, _ E donna Torna-
sina e la dama di Soragna, - Inglese e Garisenda e Palmiera e donna Aldice
- E donna Adda e donna Berlenda - E donna Agnese e donna Eloisa -
Vogliono che loro renda la giovinezza donna Beatrice; - Se no, le dame di
Ponzone le chiederanno emenda; - E là dalle parti del Moncenisio - La
città
spinge Contessina. - Che ora guerreggi colei che è tanto buona e bella -
e novello.
M a ria d a S a rd a - E la d a d i S a n G io rg io - B e rta e la
B a s ta rd a - M a n d a n o tu tto il lo ro sfo rz o : - C h e n e s su n a
g io v a n e lo m b a rd a - N o n s e n e re s ti,
di qui, ai confini! - Ed io so che a donna Beatrice piace - Perché la
loro retroguardia - Non può essere tanto forte - Da abbattere il
suo pregio verace - Dànno i loro segnali, cavalcano con
grangioia: - Han fatto la città e le hanno dato nome Troia '
Podestà fanno Madonna di Savoia.
Donna Beatrice, ben mi piace che siate scampata — Alle vecchie, che il vostro
gentil corpo porta — Pregio e gioventù, ed ha ucciso la vostra prodezza.
Bel cavaliere, LI vostro amore mi conforta, — Mi dona gioia, ed allegria mi
concede. — Quando altra gente si smarrisce e si sconforta.
LA DOMINAZIONE DI FEDERICO II
IN PIEMONTE
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tra Adda e Ticino, per la cospicua somma di lire 10.000. Per fare
tali acquisti Bonifacio II avrebbe dovuto impiegare i proventi del
pedaggio di Chivasso, che sarebbe stato quindi sotto il controllo di
un funzionario milanese sino al compimento della operazione.
La restituzione di Chivasso doveva subire però ancora altre
condizioni: le fortificazioni del luogo sarebbero state abbattute né mai
più avrebbero potuto essere ricostruite; per ogni futuro contrasto
con i comuni vicini — Alessandria, Vercelli, Torino — arbitri sareb-
bero stati i milanesi; questi avrebbero avuto libertà di transito per i
territori marchionali, mentre a richiesta di Milano, il marchese avrebbe
dovuto vietare il passo a chi gli fosse stato indicato, inoltre Bonifacio
dichiarava di rinunciare a qualsiasi pretesa di risarcimento di danni
dai vari comuni che avevano partecipato all'assedio di Chivasso e si
impegnava ad ottenere dal marchese di Saluzzo la liberazione di quei
milanesi od altri leghisti che erano stati catturati nel Cuneese
l'anno prima.
A quale condizione era ridotto Bonifacio II ! Le glorie dei grandi
avi, Guglielmo V, Corrado, Bonifacio I, erano cadute nel fango.
Ma nel 1232 a Bonifacio II non era possibile nessuna altra via:
l'imperatore era lontano e disarmato di fronte alla Lega potentissima;
il partito imperiale nell'Italia occidentale era depresso, II marchese
aveva compiuto l'errore di accettare i legami con la Lega negli anni
precedenti; ora Federico II doveva avere massima diffidenza per quel
marchese aleramico troppo pronto ad accordarsi con i comuni.
Male assai rimasero i vercellesi quando seppero del voltafaccia
di Milano. E lo seppero in maio modo, poiché il 6 maggio di quel-
l'anno 1232 il marchese si presentò alle porte di Chivasso accom-
pagnato da ambasciatori milanesi e da circa 300 armati. I milanesi
comunicarono l'accordo, ma non riuscirono naturalmente a convincere
i vercellesi perché si ritirassero dalla loro conquista. I milanesi ricor-
sero allora alla violenza e ruppero le porte della villa per immettervi
il loro illustre vassallo; il podestà vercellese si ritirò protestando
nel castello e quando venne anche di là espulso non gli restò che
avviarsi con i suoi, mortificato, in patria: « tristis et dolens recessit ».
Le proteste di Vercelli arrivarono a Milano, ma con quale frutto
ormai? Se si fossero per ripicco ritirati dalla Lega avrebbero fatto
il gioco di Bonifacio di Monferrato.
Già la ricomparsa del marchese a Chivasso servì a rinvigorire
tutti i nemici di Vercelli nella regione canavesana e novarese. Il com-
promesso di Padova servì a Milano per giustificare un'energica azione
632 LA DOMINAZIONE DI FEDERICO II IN PIEMONTE
erano nel 1233 alleati con Alba, e forse anche Mondovl: ci si parla
infatti di spedizioni militari appunto nel 1233, verso quest'ul-
timo luogo.
La spedizione milanese aveva messo la regione in subbuglio. I
nuovi comuni attiravano a sé le popolazioni rurali, desiderose di
sfuggire, andando ad abitate in città, ai molti, gravosi obblighi feudali.
La classe feudale costretta a combattere, a difendersi, diventava sem-
pre più pesante. Di qui l'agitazione degli elementi rurali che già
abbiamo riscontrato al principio del secolo. Ed i signori protestano,
osservano che pur andando a respirare l'aria di città, quell'aria che
secondo un detto tedesco dell'epoca rendeva liberi, i loro rustici
non hanno il diritto di sfuggire al pagamento delle imposizioni feudali.
Protestano pure gli ecclesiastici delle chiese, gli abati e più alto di
tutti il vescovo di Asti: si protesta di volere il rispetto delle libertà
ecclesiastiche che erano poi semplicemente l'esonero dal fodro e dalle
varie imposizioni fiscali che i nuovi comuni a tutti imponevano per le
necessità della loro organizzazione e difesa. E verso il 1231 il vescovo
d'Asti colpì per questo di scomunica il comune di Cuneo.
d'Asti e dei vassalli suoi del luogo. La signorìa feudale del vescovo
era quindi in disgregazione. Né il comune d'Asti si accontentava di
togliere i diritti militari alla Chiesa, ma mirava anche ad una presa
di possesso nel campo economico. Già sulla fine del 1231 il comune
nominava una commissione di sedici cittadini nobili per procedere
alla registrazione dei beni e dei fitti dovuti alla chiesa astense. Era
una ventata davvero di antiguelfismo economico.
Mondovì e Cuneo dovevano dunque il riconoscimento del loro
diritto ad esistere ad un atto ufficiale del podestà di Asti che rap-
presentava la maestà imperiale. Non erano però ancora città, non
avevano vescovo, non diocesi. Il vescovo di Asti, qui dominava, e lo
avrebbe impedito per evitare concorrenti!
Sulle relazioni di Asti con Alessandria non abbiamo dopo il 1233
notizie precise. Ad Alba durante il 1233 comparve un personaggio im-
portante del partito guelfo, il francescano fra Enrico di Padova, per
fare inserire negli statuti comunali i capitoli contro gli eretici, l'usura
ed i giochi d'azzardo. I signori di Monforte vennero invitati a prestar
fedeltà al comune solo nel novembre del 1233, secondo gli accordi
presi con il marchese di Monferrato, e nel febbraio seguente anche
i rustici furono chiamati al loro dovere. Nell'aprile ancora del 1234
il comune di Alba accettava la pace con Asti, ma respingeva le clausole
riguardanti Novello e Monchiero in cui erano evidentemente favoriti
i marchesi di Carretto. Ed il nuovo podestà era un genovese; di nuovo
ritornava Guglielmo Embriaco.
Nella zona dove era il più grave dissidio con Alessandria, la
regione tra Bormida e Belbo, nel maggio del 1235 gli astigiani otten-
nero dei vantaggi con la sottomissione dei Catena comproprietari di
Malamorte, ma anche gli alessandrini si radicarono nella regione.
Il loro centro nuovo era Nizza su un contrafforte all'incontro del
torrente Nizza con il Belbo. Quivi in questi anni andarono riunendosi
gli uomini di Lanerio, di Calamandrana, di Garbazola, di Quinziano,
di Lintiliano, di Belmonte, sotto la signoria di Alessandria, mentre i
signori del consortile di Canelli e di Calamandrana rimanevano legati
ad Asti.
Un'altra villa nuova o rinnovata era Bistagno. Il vescovo di
Acqui di tanti possessi aveva conservato Bistagno: nel 1253 trasportò
il suo popolo su una altura,
Ancora nel 1235 gli astigiani riuscivano a stabilirsi — definitiva-
mente essi speravano — sul Po, costringendo gli abitanti di Carignano
a giurare il cittadinatico nel loro comune, obbligandosi a pagare fodro
L'ATTIVITÀ DI GENOVA VERSO IL PIEMONTE 641
Mal capitò però al podestà che per via, tra Vogherà e Pavia,
venne assalito da una banda di pavesi, trattato « contumeliose » ma
poi lasciato proseguire. Infatti Genova, Tortona, Pavia, Milano erano
pur sempre legate in vario modo alla questione della strada dal Po
al mare e nella questione poco o nulla valevano le ideologie guelfe
e ghibelline, I genovesi erano per la strada in dissidio con i tortonesi
ed i pavesi, pur essendo fedeli tutti all'imperatore, invece erano uniti
da buoni accordi ai milanesi.
La questione di Arquata era pur sempre aperta tra Genova e
Tortona. In contrasto con la Lega Lombarda, i tortonesi inviarono
nel dicembre del 1231 i loro rappresentanti alla dieta imperiale di
Ravenna e Federico II per ricompensare la loro fedeltà concedette al
comune di Tortona la strada per Genova con tutti i diritti su di
essa, che tradizionalmente già possedevano, È vero che l'imperatore
cercò subito dopo — nei primi mesi del 1232 — di venire incontro
agli interessi genovesi e di conciliarli con quelli di Tortona, poiché
con un altro diploma dichiarò che i genovesi quando fossero tornati
alla devozione per l'impero avrebbero potuto anch'essi usare libera-
mente della strada di Tortona. Ma come conciliare le due città?
Nel 1228 si era rinviata la questione di Arquata al giudizio di una
commissione arbitrale mista, presieduta da milanesi, che si sarebbe
riunita dopo quattro anni, nel 1232. Dati i dissidi tra i vari comuni,
nel 1232 non si fece nulla: ma i milanesi acconsentirono poi alle
richieste dei genovesi di riunire la commissione per il lodo. Alla
fine quasi dell'anno, nel dicembre, comparvero a Milano due rap-
presentanti di Tortona, uno come arbitro eletto dal comune, l'altro
come procuratore dello stesso comune, ad osservare che l'arbitrato
non poteva avere luogo: come potevano gli arbitri mettersi d'ac-
cordo? I tortonesi amici dei pavesi erano in inimicizia con i milanesi,
quelli fedeli all'imperatore, questi ribelli. I milanesi respinsero queste
obiezioni e decisero che i loro rappresentanti esaminassero la questione
anche solo con i delegati di Genova se i tortonesi rifiutavano di
intervenire.
Ma da Tortona con abili artifici si riuscì a tirare avanti la
discussione per diversi mesi. Comprendevano i tortonesi che tra
Genova e Milano vi era un segreto accordo contro di essi, che Milano
per avere Genova nella Lega era pronto a decidere a suo favore nella
questione di Arquata.
Tra il 1233 ed il 1234 i rapporti peggiorarono: i genovesi ebbero
a combattere contro i tortonesi spalleggiati dai pavesi. Nel dicembre
64
LA BATTAGLIA DI CORTENUOVA ^
5. La battaglia di Cortenuova
II lodo papale del 1233 non piacque né ad una parte né all'altra.
I rettori della Lega sollevarono mille obiezioni; per parte sua
l'imperatore ufficialmente ringraziò Gregorio IX della sua premura per
la pace, ma nella corrispondenza privata mostrò apertamente la sua
delusione.
Durante il 1233 ed il 1234 Federico II rimase a lungo nei regno
di Sicilia occupato nel reprimere movimenti ed in tante cure della
riorganizzazione del regno. In Lombardia la Lega era padrona del
campo. Quando il re dei Romani Enrico VII incominciò ad organizzare
a sua volta una ribellione contro il padre, i comuni della Lega Lom-
barda non esitarono a prestare ascolto alle lusinghe dell'audace prin-
cipe! gli ambasciatori di Enrico VII, Anselmo di Justingen e Walter
di Thaunberg, rispettivamente suoi marescalco e cappellano, vennero
accolti, uditi: nel dicembre del 1234 i rettori della Lega, a. nome di
tutti i comuni aderenti, e anche del marchese di Monferrato, giurarono
fedeltà ad Enrico VII; promisero che non avrebbero partecipato a
nessuna azione contro di lui, anzi che secondo la loro possibilità si
sarebbero opposti, ed avrebbero difeso il suo stato ed il suo onore.
Però con la riserva che non avrebbero dovuto versare tributi né inviare
fanti e cavalli al suo servizio fuori d'Italia; il re Enrico ed i principi
tedeschi avrebbero dovuto aiutare la Lega contro i nemici che essa
aveva in Lombardia « vel alibi ». Si ricordavano solo i comuni di
Cremona e di Pavia, ma il pensiero dei contraenti andava senza dubbio
a Federico II, il grande nemico comune. Si era ottimisti a Milano
in quel 17 dicembre 1234 in cui si firmò l'accordo: già si prevedeva
che Enrico VII riuscisse a soppiantare il padre nell'impero e che Lega
ed impero fossero amici ed alleati.
644 LA DOMINAZIONE DI FEDERICO II IN PIEMONTE
7. Federico li a Torino
tergli aiuto contro tutti i nemici, sì che nel medesimo giorno (16 ago-
sto 1237) il vescovo chiedeva a quel podestà di aiutarlo contro gli
uomini di Cuneo che avevano costretto gli uomini di Morozzo ad
abbandonare il loro luogo ed a recarsi ad abitare nella loro città.
Anche sulla Riviera il guelfismo aveva nel 1237 la prevalenza. A
Genova quando si dovette designare il nuovo podestà, la maggioranza
fu per un milanese, Paolo di Soresina, e questi ebbe l'invito; succe-
deva ad un lodigiano, Oldrado Grosso, sì che le idee dominanti erano
già favorevoli alla Lega. Ed in realtà i genovesi erano di nuovo in
lotta con i tortonesi ed i pavesi che appunto in principio di quell'anno
avevano in odio a Genova riedificato Arquata con palizzate e fosse. Il
podestà di Genova era accorso tosto oltre il Giogo con delle milizie, ma
sebbene i due accampamenti nemici fossero ad appena un miglio di
distanza, né da una parte né dall'altra si era osato attaccare. I tortonesi
e pavesi poi si ritirarono, ed i genovesi si erano accontentati di costruire
un castello a Monte Gavilione. Anche per queste vertenze con i
comuni imperiali d'oltre Appennino, i genovesi inclinavano aper-
tamente verso la Lega Lombarda.
La comparsa dell'imperatore nell'Italia occidentale era necessaria
adunque per schiacciare la parte guelfa. E presto feudatari e comuni
andarono a gara a mettersi sotto la protezione di Federico II; quelli
che erano guelfi si trasformarono in ghibellini. Dove passa l'imperatore
lascia diplomi a dimostrazione della sua benevolenza e della sovranità
imperiale riconosciuta. E dovunque egli colloca al governo delle città
dei suoi ufficiali, perché la vittoria di Cortenuova gli fa credere di es-
sere vicino al trionfo assoluto.
Ad Ivrea Federico II arrivò da Vercelli verso il 12-13 febbraio:
subito dopo (15 febbraio) il governo compare nelle mani di un capi-
tano imperiale, Rinaldo Vasco d'Altessano. Da Torino prende con
solenne diploma sotto la sua protezione l'abazia di Santa Maria di
Pinerolo di cui riconosce i diritti e privilegi, conferma i beni. Da
Cuneo concede vari diplomi ai comuni che ieri ancora erano guelfi,
Cuneo, Savigliano, Mondovì, Chieri; li prende sotto la sua protezione,
accetta la giustificazione dei guai loro recati dai vicini che volevano
dominare su di essi; concede il misto e mero imperio, i pedaggi;
approva i buoni usi tradizionali, consente che per le cause civili e
criminali abbiano a rivolgersi solo alla sua curia od a quella dei suoi
legati e capitani incaricati del governo del luogo. E così a Torino già
il 2 febbraio, ad Asti il 7, compare un signor Vinciguerra vicario e
capitano dell'imperatore a « Papìa superius ».
654 LA DOMINAZIONE DI FEDERICO II IN PIEMONTE
che pagasse tutti i debiti del padre Tommaso I e del fratello Umberto.
La questione non terminò lì, quindi. I due marchesi volevano
impedire al suocero di sfuggire, agli impegni accettati, per mezzo
dei testamenti a favore del fratello. Pare anzi che essendo venuta la
contessa Margherita di Monferrato alla corte paterna, Amedeo IV le
impedisse di ritornare al consorte. Nel 1241 nuovamente Amedeo IV
dovette accettare la proposta insidiosa di compromettere le sue dif-
ferenze con Bonifacio II di Monferrato, nel marchese Manfredi di
Saluzzo, sebbene questi fosse « partialis nomine uxoris sue in dieta
causa ». E Manfredi III il 19 marzo di quell'anno pronunciò, in
Avigliana, la sua sentenza: tutti i vassalli e uomini che il Conte di
Savoia aveva in Lombardia od altrove (vel alibi) dal Palo di Bonizone
sino a Barge dovevano prestare atto di fedeltà al marchese di Monfer-
rato ed a lui stesso, Manfredi, entro otto giorni, a titolo di aumento
della dote delle loro consorti; il Conte doveva perciò ordinare ai
suoi uomini e vassalli di prestare tale omaggio entro il limite fissato
e specialmente doveva curare che la fedeltà la prestassero il castellano
di Susa, il castellano di Avigliana, i signori di Piossasco. Inoltre
Amedeo IV doveva restituire a Bonifacio II la consorte Margherita,
facendola accompagnare od in terre del marchese od almeno in terre
del conte d'Albon, cognato del marchese di Monferrato, pure entro
otto giorni.
Il Conte di Savoia accettò la sentenza e promise di osservarne le
prescrizioni. La soddisfazione dei due marchesi doveva però avere
poca durata. Scomparsa verso il 1241 la consorte di Amedeo IV, Anna
d'Albon, il Conte di Savoia si affrettò nel dicembre del 1243 a
sposare Cecilia di Baux, da cui nacque nel 1244 il sospirato erede
maschio, Bonifacio di Savoia. Le speranze di Bonifacio II e di Man-
fredi di metter le mani sull'eredità sabauda furono deluse del tutto.
C APITOLO XXIV
PAPATO ED IMPERO
IN PIEMONTE
latti, angarii ascripticìi vel cerniti cioè servi della gleba; ordinava pure
che i chierici non venissero sottoposti a nuovi pedaggi, che il comune
potesse obbligare a pagare il fodro quanti vi erano tenuti (18 feb-
braio 1239).
A Torino, l'autorità imperiale pare cercasse di nuovo di concentrare
gli elementi feudali della zona attorno al comune. Il vescovo era
fedelissimo all'imperatore: sebbene Federico II fosse scomunicato, nel
1239 e nel 1240 il vescovo di Torino stette a lungo alla corte
imperiale. Il comune era governato dal capitano imperiale. Nel giugno
dei 1239 l'importante consortile dei signori di Piossasco, alla preserva
del capitano imperiale Gionata di Luco, venne ad accordi definitivi
con il comune torinese: a questo cedette la proprietà del castello e
del luogo di Beinasco, riprendendolo però in feudo: promettevano
come vassalli di fare pace e guerra per il comune, di non ricevere in
cittadini né uomini di Torino, né di Collegno, né di Grugliasco, né
di altre terre della giurisdizione torinese; così il comune di Torino
non doveva ricevere in abitanti nessuno di Beinasco. Inoltre i signori di
Piossasco non dovevano in Torino parteggiare per nessuno dei partiti
del comune; non dovevano accogliere nei loro domini alcun bandito
del comune; dovevano invece tenere e custodire la grande strada di
Torino, cioè la strada romea di Val Dora, vietando che i mercanti
tenuti a transitarvi ed a pagare pedaggio in Torino se ne liberassero
passando per le loro terre. Naturalmente nel trattato vi era l'impegno
di salvare la fedeltà all'imperatore.
Anche la nuova terra di Moncalieri ricevette le grazie imperiali.
Poiché nelle città fedeli all'autorità i redditi andavano alla Camera
imperiale, ad istanza di quel comune Federico II gli concedette la metà
dei proventi ricavati o da ricavare nel 1238, per pagare i debiti della
collettività. La concessione rimase senza effetto ed allora i monca-
lieresi ricorsero di nuovo a Federico II. Questi nel febbraio del 1239
da Padova scrisse al marchese Manfredi II Lancia ordinandogli di
costringere quei di Moncalieri a pagare la metà dei proventi del 1239,
componendo invece con soddisfazione loro per i proventi del 1238.
Ed il vicario imperiale trasmise l'ordine imperiale con l'avvertimento
che doveva essere eseguito scrupolosamente. Gionata di Luco nel
1239-1240 era ad un tempo capitano imperiale così a Torino come a
Moncalieri.
Capitani imperiali sono ricordati in questi anni per varie città
del Piemonte. Così a Casale vi era nel 1240 come capitano e podestà
Bonifacio di San Nazario. Ad Ivrea dal 1238 si seguono nella capita-
IL VICARIATO IMPERIALE DI PIEMONTE
665
neria del comune, Rinaldo Vasco, poi Guglielmo Sivoletti, poi Simone
di Maguelonne; il vescovo pretendeva ch'essi lo aiutassero nel suo
programma di imporsi al comune e quindi i rapporti divennero al-
quanto difficili.
A Vercelli dal 1238 si susseguirono dei podestà imperiali. Come
fossero i rapporti con il vescovo non sappiamo, ma certo è difficile
che il papa ed il vescovo di Novara abbiano, dopo il passaggio del
comune al partito imperiale, acconsentito ad assolvere i vercellesi
dalle scomuniche e dagli interdetti. Certo, l'autorità imperiale rimase
salda. Nel maggio del 1239 in tutti i centri della giurisdizione episco-
pale, a Santhià, a Biella, e dovunque, Manfredi Lancia fece raccogliere
gli uomini per una sua spedizione contro Alessandria. Verso il 1240
II comune di Vercelli sotto l'impulso del vicario imperiale stabilì che
per i debiti dei cittadini e sudditi verso cittadini dei comuni leghisti,
si seguissero le norme stabilite da Federico II, che cioè si pagassero
agli ufficiali imperiali e che non si ammettesse nessun reclamo ulteriore
da parte dei veri creditori.
Ed in quello stesso anno, il podestà imperiale Giliolo Guiberto,
adunata la credenza, concedeva al vicario imperiale Manfredi Lancia
una casa in città, con la condizione che fosse immune da ogni tributo:
il marchese Lancia ebbe così riconosciuto il diritto di cittadinanza.
Era però ovvio che l'attenzione di Manfredi Lancia si rivolgesse
con maggiore interesse alle regioni a sud del Tanaro, alle regioni dove
i suoi avi avevano dominato. Le sue origini ed i suoi interessi lo
portavano ad affiatarsi con le vere dinastie aleramiche, e specialmente
con Bonifacio II di Monferrato. Questi appunto nel 1239 fu assicu-
rato da Federico II alla sua causa con importanti concessioni: il di-
ploma del 31 agosto 1239 da Pizsighettone gli riconfermava tutti i
feudi imperiali ed in più i diritti che l'imperatore aveva per il testa-
mento, a suo favore, di Demetrio re di Salonicco e per l'eredità della
consorte Ioianda di Brienne, la cui madre era stata appunto Maria
di Monferrato, figlia di Corrado re di Gerusalemme.
II comune che maggiormente attirava le aire sospettose di
Manfredi Lancia era il nemico della sua famiglia, Asti. Ma come fare,
se gli astigiani si comportavano come fedelissimi all'imperatore?
Nel 1239 era podestà di Asti un certo signor Sturbarboto che
non è detto però podestà imperiale, e così non è sicuro se i suoi
successori Enrico Granono e Guido Marazzi di San Nazzaro fossero
di nomina imperiale.
666 PAPATO ED IMPERO IN PIEMONTE
per il quale solo si inserisce nell'atto una vaga riserva: « salvi i diritti
del vescovo d'Alba ». L'investitura concessa ora dal vicario imperiale
al comune comportava il diritto di imporre nelle terre ex-vescovili
esercito, cavalcata, fodro, banni, le contribuzioni necessarie per pagare
le spese che il comune doveva fare in servizio dell'imperatore.
A Mondovì, quasi non si parla del vescovo nel lodo arbitrale
che nell'agosto del 1240 il famoso Bressano, il figlio suo Anselmo e
due altri prescelti, diedero nelle vertenze tra i signori di Morozzo
ed i comuni di Cuneo e di Monteregale. Le decisioni arbitrali corri-
spondono nello spirito al lodo del podestà di Asti del 1234 tra i
nuovi comuni ed i marchesi e castellani: i nuovi comuni infatti non
potevano non inchinarsi alla trama di diritti e di interessi economici
su cui riposava tutta la vita dell'epoca: i legami che dominavano erano
quelli feudali di vassalli a signori, di uomini rustici a proprietari.
Così i signori di Morozzo dovevano conservare decime, debiti,
fitti, successioni loro dovuti dagli uomini rustici, così come l'abate di
San Dalmazzo ed altri feudatari abitanti in Cuneo li avevano dai loro
uomini abitanti in Cuneo e come altri signori ed il vescovo d'Asti
dagli abitanti di Mondovì; avrebbero conservato il diritto d'alpatico
per le loro montagne come l'avevano avuto sino alla venuta di Fede-
rico II in Piemonte, ma non dovevano imporlo agli abitanti di Cuneo
e di Mondovì; avrebbero avuto dai loro uomini parte dei banni e
delle date come l'avevano l'abate di San Dalmazzo e gli altri signori
abitanti al Monteregale sui loro uomini; non avrebbero pagato fodro,
presto, colletta né a Cuneo né al Monte.
Seguono nel lodo altre decisioni importanti: gli uomini che erano
ancora nei castelli di Morozzo al momento del compromesso tra i
signori ed i comuni contrastanti non avrebbero potuto essere costretti
ad abitare né in Cuneo né in Mondovì e neppure avrebbero potuto
abitare nel Villar vecchio fuori dei castelli di Morozzo; dovevano
invece pagare fodro e banni e missioni e fare esercito e cavalcata e
rendere ragione e soddisfare a tutte le altre condizioni come gli
uomini di Santa Margarita e di Rocca de' Baldi. I signori di Morozzo
non dovevano riaccogliere come abitatori nei loro castelli di Morozzo
quelli che se ne fossero partiti per diventare abitatori di Cuneo e
del Monte. Questi due comuni avrebbero dato ai signori di Morozzo
« prò honore » cioè per il servizio feudale che avevano reso loro,
40 lire genovesi ciascuno; i signori a loro volta avrebbero dovuto
fare esercito e cavalcata, pace e guerra, ridotto e milizia per i due
comuni così come gli altri abitatori; in ciascuna città avrebbero dovuto
670 PAPATO ED IMPERO IN PIEMONTE
tenere una casa in cui venissero poi a trascorrere le feste del Natale,
della Pasqua, della Pentecoste. Se poi alcuno dei signori avesse voluto
portarsi ad abitare con la famiglia in uno o nell'altro dei due comuni
avrebbe dovuto essere provvisto dal comune stesso di una casa
conveniente.
Il lodo del signor Bressano mostra adunque i legami vari, stret-
tissimi che vi erano tra feudo e comune, gli addentellati dell'una vita
con l'altra. I feudatari difendevano a stento la loro indipendenza dai
comuni pieni di vita e di brame, come questi rientravano pur sempre
nei quadri della vita economica feudale.
Sulla fine del 1240 o nel principio del 1241 il marchese Manfredi
Lancia lasciò l'ufficio di vicario imperiale « a Papia superius » per
assumere quello analogo « a Papia inferius » cioè il vicariato di
Lombardia e di Emilia dove Federico II aveva bisogno di un uomo
abile, capace di fronteggiare la grave situazione formatavisi.
Nel Piemonte invece tutti erano ghibellini: Pavia, Alessandria,
Tortona, Asti, Alba, Cuneo, Mondovì, Savigliano, Vercelli, Novara,
Ivrea, Torino, Chieri; le varie dinastie marchionali pure erano devote.
Solo la dinastia sabauda si presentava ambigua.
A Manfredo Lancia successe nel vicariato di Piemonte Marino
da Eboli. Però nell'estate del 1241 Manfredi Lancia, lasciato il vica-
riato di Emilia per la venuta di re Enzo in qualità di Legato generale,
ritornò in Piemonte come collaboratore e consigliere, pare, del gio-
vane re.
attuali delle società avrebbero conservato i poteri ora loro dati, anche
quando fossero scaduti ed avessero dovuto essere sostituiti, con il
diritto anche di circolare armati in città e fuori, provvedendo sempre
alla difesa delle mura, delle torri, conservando piena autorità su rutti
i dipendenti. Erano adunque le due società cittadine il centro della
azione ed antivescovile ed anti-imperiale.
Durante il gennaio ed il febbraio si svolsero le trattative segrete
tra il comune di Vercelli ed il Legato pontificio, Gregorio di Monte-
longo che aveva la sua sede ancora sempre a Milano. Ad esse partecipò
attivamente il marchese di Monferrato che si recò appositamente a
Milano per discutere con il Legato sebbene i genovesi lo attendessero
per la lotta contro Savona.
Ai primi di marzo comparve in Vercelli un delegato di Gregorio
di Montelongo, per affrettare le trattative: era accompagnato da
ambasciatori milanesi. Nelle riunioni della credenza vercellese di quei
giorni vennero formulate le richieste del comune: provvedesse il
Legato a che il capitolo rappresentante, in assenza del vescovo, della
chiesa cedesse al comune la giurisdizione episcopale su tutto il terri-
torio, che la cessione fosse approvata dall'arcivescovo di Milano, dal
vescovo di Vercelli che ora venisse eletto, dai cardinali della curia
romana e dal futuro papa; questi avrebbe anche dovuto con solenne
bolla approvare i capitoli statutari fatti dal comune per vietare ai
cittadini di ricorrere alla curia.
Altri punti delle richieste avevano carattere strettamente poli-
tico: se papa e Milano avessero fatto pace con l'imperatore, il comune
di Vercelli avrebbe dovuto essere incluso nel trattato così come gli
altri comuni lombardi; i vercellesi avrebbero dovuto riconoscere di
nuovo i debiti verso cittadini di comuni leghisti, con un trattamento
speciale però per le somme che erano state introitate dagli ufficiali
imperiali. Clausole speciali riguardavano i prigionieri; iniziata la guerra
da parte dei vercellesi, i milanesi avrebbero messo a disposizione loro
500 cavalieri ed avrebbero poi dovuto intervenire a difesa del terri-
torio vercellese con fanti e cavalli.
E, misura di somma prudenza, si chiedeva che il Legato ponti-
ficio venisse a Vercelli solo se e quando le trattative fossero a tal
punto che non vi fosse più altro a fare se non stringere l'accordo.
Sarebbe difficile dire se il desiderio di fare l'accordo fosse di più
nei vercellesi od in Gregorio di Montelongo. Il 15 marzo questi si
trovava ad Angera ad esaminare, insieme con il marchese di Monfer-
rato, il conte di Biandrate ed il podestà di Milano, le richieste di
676 PAPATO ED IMPERO IN PIEMONTE
7. La fondazione di Cherasco
681
8. La risurrezione di Biandrate
Novaresi e Vercellesi avevano distrutto la fortezza, il borgo, ma
i Biandratesi non si erano piegati ai divieti, alle minacce. Erano ritor-
nati, avevano cercato di rifare le loro case. Nel 1190 i loro consoli
scrivevano su un documento « actum in villa des trucia Blanderati
iuxta portam sancti Laurentii ».
Nel 1199 i due comuni presero provvedimenti draconiani: di-
vieto di stabilirsi non solo in Biandrate, ma neanche nelle campagne:
39 famiglie furono trasportate a Novara 35 a Vercelli. Ma molti
rifiutarono.
Il 23 giugno 1216 nel prato dietro la chiesa di San Pietro si
radunarono 54 capi famiglia biandratesi ed in nome di Dio, dei Conti
e del comune crearono una società o Lega giurando di aiutarsi e di
difendersi a vicenda.
Crearono il comune per 10 anni; ogni anno a San Giovanni si
sarebbe rinnovata la consularia. Era una decisione che doveva provo-
care l'opposizione dei due Comuni. Solo il 27 ottobre 1242 si ebbe
la conclusione nella chiesa di San Colombano di Biandrate, presente
la credenza del comune che era però ancora disperso nelle varie bor-
gate, i conti di Biandrate, i rappresentanti di VerceUi e di Novara si
ebbe un lodo pacificatore, I Conti poterono investire il Comune di
tutti i diritti che avevano nella « iustitia » di Biandrate, Vicolungo,
Tosagno, Caselbertrame, Porto della Pieve, Borgo Vecchio, Borgo
Nuovo, Porta Casale, Biscaretto ed in tutto la curia di Biandrate vil-
laggi e cantoni; dovevano concedere l'investitura di tutte le baraggie
e comunalità. Il Comune avrebbe giurato fedeltà, fatto oste, pagato
fodro, eletto podestà, consoli, avrebbero avuto giurisdizione civile
e criminale; non avrebbero potuto fare Società congiure, monopoli.
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INNOCENZO IV E FEDERICO II
sé metà dei forni, dei mulini, il diritto di colpire di banno quei che
tenessero terre dall'abazia, per ricuperare i debiti e gli affitti. Come
indennizzo, i Savoia fecero all'abate alcune concessioni: che l'aba-
zia potesse servirsi dei boschi di Miradolo, che godesse del libero
transito per tutto il comitato per i suoi greggi, che dopo avere otte-
nuto dai pinerolesi il giuramento di fedeltà per i Savoia, si sarebbe
loro imposto l'obbligo di rispettare tutti i diritti dell'abazia. Lo stesso
giorno l'abate comunicò ufficialmente ai pinerolesi di avere fatto
al Conte di Savoia tale cessione di omaggio e di fedeltà, ed ordinò loro
di obbedire al nuovo signore. Ma i pinerolesi, legati da una tradi-
zione di quasi mezzo secolo ai torinesi, nella ostilità ai Savoia, temen-
do per l'autonomia del loro comune, resistettero agli ordini dell'abate.
Anche i monaci dell'abazia protestarono contro ù loro abate,
dipingendolo al legato pontificio Gregorio di Montelongo, quale simo-
niaco, spergiuro, dedito ad una vita dissoluta, dilapidatore e dissipa-
tore dei beni del monastero, che vendeva in onta ai suoi giuramenti
e doveri di abate. II Legato incaricò di fare una ispezione l'abate di
San Benigno di Fruttuaria; purtroppo non conosciamo la sua rela-
zione. Si ebbe per conseguenza un'azione sabauda energica contro il
comune ribelle al vecchio ed al nuovo signore.
Nel maggio del 1244 le genti sabaude — i borgognoni, come
erano comunemente detti — minacciarono da Cumiana l'attacco di
Pinerolo. Si combattè tutt'attorno alla cittadina: le milizie sabaude
espugnarono Poggio Oddone, l'attuale Perosa, e fecero prigionieri
non pochi pinerolesi. Il comunello aveva chiamato a combattere dei
clienti mercenari, forse provvisti da Torino.
In soccorso di Pinerolo accorsero torinesi e moncalieresi ed alla
Marsaglia, nella pianura tra Cumiana e Pinerolo, si combatte una fiera
lotta che venne poi chiamata il « proelium Borgognonorum »? Chi vinse?
Certo è che nel giugno successivo l'abate di Santa Macia ed il podestà
di Pinerolo a nome degli uomini del comune convenivano con i rap-
presentanti dei principi sabaudi, l'abate di Susa e Quaglia di Gorzano,
per la sottomissione di Pinerolo al signore sabaudo del Piemonte,
Tommaso conte di Fiandra.
Nell'accordo (13 giugno 1244) sì faceva riferimento alla « pax
vetus » cioè al trattato del 1235 che doveva essere rispettato in per-
petuo: si stabiliva ora che il principe Tommaso di Savoia non potesse
esigere in Pinerolo qualsiasi tassa sui matrimoni e sulle successioni;
che si liberassero i pinerolesi catturati a Poggio Oddone ed in cambio
i sudditi sabaudi chiusi nelle carceri di Pinerolo.
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