Vous êtes sur la page 1sur 21

LA BUSSOLA DELL'ANTROPOLOGO

Corpi, oggetti e culture aggrovigliate


attraverso il corpo che costruiamo la nostra soggettivit: allo stesso tempo, il corpo il luogo in
cui si manifestano le reti sociali e interculturali di cui siamo parte. La fabbricazione del corpo,
infatti, avviene anche guardando al modo in cui altri, in altri contesti, danno forma ai loro corpi.
Cos per gli oggetti che ci circondano: gli oggetti sono un po come estensioni del nostro corpo e
forse per questo, nell'epoca della realt aumentata online di internet, assistiamo a un ritorno
degli oggetti e al desiderio di recuperare il patrimonio materiale del nostro recente passato.
Globesit
Globesity con questo termine che lo studioso americano Sander Gilman definisce l'ossessione per
i corpi abbondanti che pervade l'Occidente contemporaneo. Una epidemia di obesit si starebbe
pericolosamente diffondendo nel pianeta. Nel 2008 il Centre for Disease Control americano ha dato
all'obesit lo statuto di malattia, permettendo quindi la prescrizione di farmaci. In un mondo in cui,
paradossalmente, una parte consistente dell'umanit soffre cronicamente la fame, la globesit
enfatizzata come un problema maggiore. Un articolo pubblicato sulla rivista Science, firmato da
Rexford e Mitchell, mette ora in discussione non tanto il quadro allarmistico complessivo, quanto il
modo in cui calcolare le condizioni di sovrappeso e di obesit.
Inventato nell'800 dal matematico e criminologo belga Quetelet, il BMI categorizza le persone in
sottopeso, normopeso, sovrappeso e obese, mediante un semplice rapporto tra il peso e l'altezza.
Science propone ora di adottare un indice molto pi complesso che tiene conto del rapporto tra
massa grassa e massa muscolare, delle differenze di genere e di corporatura tra persone appartenenti
a diverse popolazioni. A essere messe seriamente in discussione sono le pretese di definire in modo
semplice, lineare e universale le caratteristiche di un corpo in salute, senza tenere conto delle
variabili sociali, culturali e politiche. Il BMI, tarato su un corpo ideale costruito a partire da modelli
occidentali, soffrirebbe di una malattia concettuale che gli scienziati sociali definiscono
etnocentrismo, il quale consiste nel misurare gli altri con il metro della propria cultura. Nel suo
recente volume Il peso del corpo Gaia Cottino studia la globesit posizionandosi nelle isole del
Pacifico. Osservando la globesit a partire da uno specifico contesto, collocandosi cio in una delle
tante periferie del sistema globale, si possono sfatare molti dei miti che animano i discorsi
sull'obesit. In primo luogo, molte lingue e culture fanno distinzione tra grasso e grosso. In rapporto
agli europei, i polinesiani hanno una corporatura pi robusta. La grande diffusione del rugby a
partire dagli anni 80 del secolo scorso ha ingrossato i maschi polinesiani, per i quali l'essere grossi
un ideale corporeo che riflette la capacit dell'individuo di avere molte relazioni sociali e uno status
elevato. A sua volta, avere molte relazioni sociali comporta il mangiare spesso insieme. Rimane il
fatto che, negli ultimi decenni, l'aspettativa di vita in molte di queste isole scesa, a causa di
malattie come il diabete e i problemi cardiovascolari. I risultati della ricerca di Gaia Cottino
spostano l'attenzione dall'obesit alla malnutrizione. Ci che cambiato, generando rischio e
malattia, non tanto la quantit di cibi, quanto l'infima qualit di quel cibo spazzatura che ha
cominciato a invadere le isole. La miglior cura dell'obesit consisterebbe in una revisione delle
politiche alimentari globali, piuttosto che nell'imposizione di diete e nella prescrizione di farmaci.
I tatuaggi: culture a fior di pelle
Fu James Cook a raccogliere la parola tatau a Tahiti nel 1769, durante il suo primo viaggio di
esplorazione del Pacifico, e a divulgarla in inglese (tattoo) insieme a una descrizione densa della
pratica. Molti occidentali sognano oggi esotici ed autentici marchi polinesiani da esibire a fior di
pelle, mentre i polinesiani si imprimono, oltre alle tradizionali figure geometriche, marchi
occidentali. La storia dei tatuaggi caratterizzata in Occidente da una persistente ambivalenza. A
tatuarsi, nel corso dell'Ottocento, furono soprattutto galeotti, marinai, etc...

Il tatuaggio, in questa prospettiva, veniva interpretato come il marchio di Caino. Accanto a questa
visione negativa convivevano un'attrazione e un fascino che avrebbero determinato due secoli dopo
Cook, il rinascimento del tatuaggio. Alla fine degli anni '60, i giovani americani aderenti al
movimento dei Modern Primitives cominciarono a tatuarsi e a rivendicare le qualit estetiche e
morali dell'antica pratica. Il rifiuto della cultura dell'Occidente a la rivendicazione di un'autopoiesi
del corpo rilanciarono la moda del tatuaggio, che sarebbe poi esplosa nel corso degli anni '80. Fu in
questi stessi anni e nel contesto di una rivalorizzazione delle tradizioni locali che anche i polinesiani
riabilitarono l'antica pratica proibita dai missionari, a partire da Tahiti, dalla Hawaii, da Samoa.
Come ha raccontato Matteo Aria, la tecnica e i segni del tatuaggio polinesiano furono ricreati da
intellettuali e attivisti locali a partire da una ricerca in quelle isole in cui i tatuaggi non erano del
tutto scomparsi. A Samoa, per esempio, i nativi avevano continuato a praticare sui loro corpi il
tatuaggio maschile e quello femminile, anche perch nella cultura samoana il tatuaggio rappresenta
una modalit irrinunciabile per costruire umanit, per accompagnare i giovani nel loro ingresso
all'et adulta. La rinascita del tatuaggio in Polinesia fu resa egualmente possibile da uno studio delle
fonti occidentali: questi stessi occidentali responsabili del venir meno della pratica contribuirono a
salvare qualcosa di essa riproducendo quei segni su supporti di memoria. Imprimere in modo
indelebile su ci che si ha di pi intimo, il corpo, i segni di altre culture, una delle testimonianze
pi forti di quanto siano profondi nell'uomo il desiderio e il bisogno della diversit culturale.
Uno straniero per capello
Le rappresentazioni, i simboli e le mode, come ci ha insegnato Jack Goody, tanto pi hanno
successo quanto pi sono ambivalenti e veicolano significati diversi per persone e gruppi diversi. Il
piacere di modellare i capelli una espressione della creativit umana che si ritrova in ogni cultura.
L'estrema plasticit permette di esprimere e poi di revocare scelte personali o di gruppo:
l'acconciatura pu segnare una presa di distanza critica o un desiderio di appartenenza.
Nella storia dei capelli e dell'arte di modellarli si ritrova il desiderio di affascinare, una sorta di
civetteria universale, secondo la definizione di Le Fur. La dimensione estetica tuttavia, non
esaurisce l'ermeneutica del capello e delle sue innumerevoli forme. Per la loro capacit di resistenza
ben oltre la vita biologica del corpo, i capelli si prestano a divenire simboli dell'esistenza post-morte
Il ritorno degli oggetti
Ridotti dalla societ industriale a cose o merci, molti oggetti della nostra vita quotidiana si stanno
prendendo una decisa rivincita. Scopriamo che hanno un'anima, un valore affettivo e relazionale, la
capacit di custodire memorie. Il ritorno degli oggetti, per usare una formula cara a Orvar Lfgren,
uno dei maggiori teorici di quelli che vengono definiti nuovi studi di cultura materiale, forse
dovuto al recupero del fare artigianale. A fornire concetti e spunti di lettura del fenomeno sono
alcune recenti ricerche antropologiche. La prima quella che Daniel Miller, uno degli studiosi pi
brillanti del consumo, un autore che ha mostrato come gli attori sociali esprimano la loro creativit
anche attraverso i prodotti che depongono nel carrello della spesa. Miller ha svolto le sue ricerche in
un'unica via di Londra: a poco a poco si guadagnati la fiducia dei suoi interlocutori, al punto di
poter entrare e uscire liberamente dalle loro case. un po come se, in un mondo orfano di grandi
narrazioni, le persone fossero chiamate a costruire orizzonti di significato a partire dalla scelta, dalla
disposizione, dalla conservazione degli oggetti densi, che rimandano, con la loro tangibilit, a
esperienze. Gli autori degli articoli pubblicati nella raccolta di Ciabarri seguono gli oggetti della
globalizzazione nei loro percorsi interculturali. Andrew Lattas, per esempio, scopre che macchine
fotografiche e telefonini hanno oggi ruoli importanti nei culti del cargo melanesiani. Nelle sue
indagini di campo in Nuova Britannia, Lattas ha scoperto che le macchine fotografiche vengo
utilizzati nei culti come un medium di comunicazione con il mondo dei morti. Allo stesso modo, i
leader di alcuni culti del cargo hanno cominciato a conversare con i morti attraverso i buchi
telefonici, fessure nel terreno che aprono a rivoli sotterranei, i cui gorghi rappresentano la parola dei

defunti. Anche la scansione del ciclo della vita, e il sopraggiungere della morte in particolare, muta
il significato degli oggetti. Le pratiche di eredit degli Haya (Tanzania), scrive Bradd Weiss,
suggeriscono che la morte stata per molto tempo un momento di definizione del carattere degli
oggetti. Un tempo gli Haya distruggevano gli oggetti intimi; oggi quegli oggetti vengono conservati
dagli eredi, segni di affetto e pegni del ricordo. Gli oggetti haya appartenuti ai defunti fanno parte di
una categoria che gli antropologi definiscono beni inalienabili, un concetto messo a fuoco per la
prima volta da Annette Weiner. In un suo celebre libro propose di affiancare alle categorie delle
merci e dei doni quella dei beni inalienabili. Una categoria che pu comprendere sia oggetti di
grande valore sia semplici oggetti di valore affettivo.
Mille musei etnografici, per una democrazia culturale
A Elva, un comune delle Alpi cuneesi disperso oltre i mille metri di quota in pi di trenta borgate,
c' il Museo dei Pels (i capelli in occitano). Qui, fino agli anni '50 , arrivavano sacchi di capelli da
tutta Italia, ma anche da altre parti del mondo. Soprattutto nei mesi invernali, gli abitanti di Elva
selezionavano i capelli per lunghezza, colore, consistenza, vendendoli a peso d'oro a Parigi e
Londra, dove ne facevano parrucche. Il Museo dei Pels, attraverso oggetti e immagini, racconta
questa storia che unisce locale e globale. A Itri (Latina) da oltre 10 anni operante il Museo del
brigantaggio. stata voluta dalla comunit locale per valorizzare, a livello identitario e turistico, un
concittadino: Michele Pezza detto Fra' Diavolo, famoso brigante vissuto tra la fine del XVIII- XIX.
L'esposizione racconta di come la biografia di un malvivente, di un antieroe del nostro
Risorgimento possa essere oggi considerata un'icona culturale, un patrimonio da salvaguardare.
L'aggettivo etnografico rimanda a una prospettiva disciplinare e fa riferimento all'attenzione
particolare verso mondi altri e locali; verso storie, patrimoni, collezioni radicate in specifiche
comunit. Per lo pi, tuttavia, questi musei portano nei loro nomi la civilt contadina, le genti, gli
usi e costumi, oppure sono i musei di localit, valli, comuni. La museografia etnografica ha una
lunga storia in Italia. Nella seconda parte dell'Ottocento, su impulso di personalit come Paolo
Mantegazza e Luigi Pigorini si formarono le grandi collezioni dedicate alle societ extraeuropee.
Accanto a questo interesse etnologico per le culture esotiche, and sviluppandosi ben presto
un'analoga passione per le diversit interne alle regioni italiane. Nel 1911, in occasione del
cinquantenario dell'Unit, Lamberto Loria organizz la prima mostra di etnografia italiana.
Il Museo nazionale aprir solo nel 1956, con un diverso nome (Museo nazionale delle arti e
tradizioni popolari.
Si fa presto a dire famiglia
Famiglia/famiglie
Negli anni della prima guerra mondiale Bronislaw Malinowski, il fondatore dell'antropologia
sociale britannica, comp una lunga ricerca alle isole Trobriand, al largo di Papua della Nuova
Guinea. Malinowski scopr che in queste isole un individuo apparteneva al gruppo della propria
madre e che la figura del padre biologico era distinta da quella del padre sociale. Il genitore
biologico passava del tempo con i figli, ma abitava altrove: il suo era basato sull'affetto piuttosto
che sull'autorit. Il vero padre sociale era lo zia materno: era costui che educava i figli della sorella,
che trasmetteva loro i diritti sulla terra, le ricchezze e le prerogative politiche. Malinowski mise in
dubbio l'universalit del complesso di Edipo. Gli adolescenti delle Trobriand non sognavano di
uccidere il proprio padre, perch, in effetti, vivevano in una famiglia ben diversa da quella dei loro
contemporanei europei.
Tra i Nuer del Sudan studiati negli anni '30 da Edward Evans-Pritchard, si trovavano vari tipi di
famiglia. Famiglie estese con al centro la famiglia nucleare, ma anche famiglie basate sulla coresidenza di due donne e dei loro figli. Il matrimonio tra donne dei Nuer non era un'unione
omosessuale: quando una donna era sterile, essa finiva per separarsi dal marito e tornare a vivere

con i suoi fratelli. Comportandosi come se fosse uno di loro, assumeva un ruolo maschile, tanto che
i fratelli le cercavano una giovane moglie con cui poteva generare dei figli che la chiamavano
padre. Gli stessi Nuer praticavano quello che venne definito il matrimonio con il fantasma: se un
uomo moriva prima di generare figli, la moglie poteva unirsi sessualmente con qualcuno dei suoi
fratelli, dando alla luce dei figli che erano considerati come progenie del defunto.
In molte societ di nativi americani delle grandi pianure esistevano persone che, non identificandosi
n con il genere maschile n con quello femminile, andavano a occupare una sorta di terzo genere.
Questi individui, detti oggi due anime, occupavano ruoli rituali importanti e potevano anche
sposarsi con altri uomini: in queste unioni, i due coniugi si dividevano i ruoli sociali di marito e
moglie, indipendentemente dal sesso biologico. Tra i Nayar del Kerala in India e tra i Na dello
Yunnan (Cina), le famiglie erano costituite da fratelli e sorelle che vivevano insieme. I compagni
delle sorelle erano uomini con cui esse avevano rapporti sessuali, ma che non potevano essere
considerati in nessun modo marito o padri. Anche in Europa le forme della famiglia si sono
continuamente trasformate in risposta a pressioni di tipo politico, economico e ideologico. Proprio
in questi ultimi anni sono emersi gruppi domestici formati da coniugi divorziati che formano nuove
unioni insieme ai figli avuti da matrimoni precedenti, oltre alla sempre pi pressanti richieste di
coppie omosessuali di potersi unire in matrimonio, generando o adottando a loro volta dei figli.
Piuttosto che difendere la naturalit dei principi strutturali della famiglia nucleare potremmo
osservare che se c' un bisogno universale a cui queste diverse forme di famiglia sembrano
rispondere, questo il bisogno di ovviare alla solitudine dell'individuo.
Genitori condivisi
Le tecnologie della nascita non sono immuni da errori: lo scambio di embrioni, tuttavia, non solo
un drammatico fatto di cronaca, di quella che in Italia viene definita malasanit, ma pone in tutta
evidenza i limiti di una definizione biologica della genitorialit. La genitorialit e, pi in generale,
l'istituzione di relazioni di parentela sono fenomeni che vanno ben al di l dei fatti biologici e anzi,
li trascendono del tutto. La parentela prende forma interamente nel campo della societ e della
cultura e la biologia, almeno nel folklore occidentale, ne semmai una metafora. questa la tesi di
Sahlins che fa ampio ricorso alla comparazione etnografica e mette a confronto concenzioni della
genitorialit e della parentela elaborate da diverse societ. Gli Iupiat dell'Alaska settentrionale e i
Kamea della Nuova Guinea costituiscono casi limite di culture che non riconoscono praticamente
alcuna connessione tra i nati e chi li ha concepiti. Non si tratta di ignoranza scientifica dei
meccanismi di concepimento, ma di scelte culturali. Gli Iupiat attribuiscono al nome che viene
dato al neonato il compito di fornire un'identit sociale: i nomi sono scelti tra quelli appartenuti ad
antenati defunti e i bambini entrano a far parte dei gruppi parentali di questi ultimi. I Kamea invece
considerano madre colei che nutre il bambino dopo la nascita. Altro caso interessante quello degli
abitanti della Nebilyer Valley in Papua Nuova Guinea. Questa popolazione ritiene che la parentela,
frutto di riproduzione sessuale o di una pratica sociale, sia creata dalla trasmissione di grasso o
adipe, che si trova nello sperma, nel latte materno, ma anche nella patata dolce. Ne consegue che in
queste lontane lande melanesiane si diventa parenti sia attraverso un atto sessuale che d origine a
un concepimento, sia attraverso il mangiare insieme. Come scrive Sahlins, una rassegna degli
elementi che concorrono alla formazione della parentela extra-natale includerebbe anche la
commensalit, la residenza comune, la memoria condivisa, etc... Molte societ poi riconoscono il
ruolo di terze persone nella costruzione dei figli. Per Sahlins la parentela indica quell'insieme di
relazioni sociali improntate a quella che egli definisce reciprocit dell'essere. Costruite, a seconda
delle culture, attraverso il concepimento, la convivenza, il fare insieme, queste relazioni sono
caratterizzate da pratiche di condivisione in sui il s e l'altro risultano fortemente sovrapposti o
interconnessi. Riprendendo la definizione che ne dava Aristotele, Sahlins definisce la parentela
come la stessa entit in diversi soggetti. Questa capacit di identificazione e condivisione profonda
con una cerchia pi o meno estesa di parenti universale e tuttavia la definizione di chi ne fa parte
oggetto di scelte culturali e non ha a che fare con fatti di natura biologica. Per l'antropologo
americano la parentale non l'estensione culturali dei fatti della biologia, semmai vero il

contrario. L'enfasi che le nostre culture pongono sul matrimonio genetico piuttosto un'espressione
metaforica della forza di quel principio della reciprocit dell'essere che definisce la parentela.
Come scrive Anne-Christine Taylor attraverso l'esercizio di una relazione condivisa che si diventa
marito o una moglie, un padre o un figlio; che uno impara ad amare quelli che gli stanno vicini,
perch questi gli testimoniano il loro affetto nutrendolo e prendendosi cura di lui.
In principio fu lo zio: parentela e preistoria
La parentela un fenomeno che unisce e differenzia al tempo stesso le societ umane: le unisce
perch nessuna di esse pu esimersi dal dare forma e significato ai fatti della nascita, del
matrimonio e delle discendenza. Alan Barnard, uno dei pi noti antropologi britannici, specialista di
cacciatori e raccoglitori, propone un uso innovativo e, per molti versi, imprevisto degli studi sulla
parentela. Ritiene che gli antropologi sociali dovrebbero mettere a frutto le loro conoscenze sulle
societ contemporanee per comprendere le lontane origini dell'umanit. L'esperienza etnografica, le
teorie e i concetti elaborati nello studio di una variegata molteplicit di culture, se integrati con le
acquisizioni e le conoscenze maturate dalle altre discipline, potrebbero rilevarsi molto produttivi. Il
metodo quello dell'Analogia etnografica proiettare sul passato dati relativi a studi compiuti sul
campo, incrociandoli con le evidenze e le inferenze di altre discipline. Quella proposta da Barnard
una nuova sintesi. La nuova sintesi di Barnard tuttavia lontana dalla sociobiologia: non si tratta
di riportare il sociale al sostrato biologico, ma di proiettare gli studi su parentela, etnicit, scambio,
riti e miti sulle lontane origini dell'umanit. Prendiamo come esempio proprio la parentela e il modo
in cui pu essere connessa alle tre grandi rivoluzioni che, secondo Barnard, caratterizzano il
processo evolutivo che porta a Homo Sapiens. Seguendo i principali lavori sulla co-evoluzione tra
dimensione della neocorteccia e dimensione dei gruppi e quelli sull'evoluzione del linguaggio,
Barnard ipotizza che la prima rivoluzione, detta rivoluzione del significante, abbia avuto luogo nel
lungo passaggio tra le australopitecine e la comparsa di Homo Habilis. In questa lunga fase, gli
Homo impararono a strutturare il campo della parentela. Comparvero probabilmente in questa fase i
termini per designare il padre, la madre, i fratelli. Questa prima rivoluzione detta anche della
condivisione perch i cacciatori e i raccoglitori delle origini,adottata una dieta carne, dovettero
elaborare precise regole per la condivisione del cibo e degli attrezzi. La rivoluzione sintattica
segna il passaggio alle forme arcaiche di Homo Sapiens. Il linguaggio consente ora di formulare
frasi e di distinguere noi e loro. Dal punto di vista della parentela, prende forma la distinzione
tra i fratelli e le sorelle della madre: una distinzione cruciale perch i discendenti degli uni e delle
altre danno vita a gruppi in cui si pu o non si pu trovare un coniuge per il matrimonio. Nasce
insomma l'esogamia, ovvero l'obbligo di sposarsi fuori dal proprio gruppo. la scintilla che innesca
la dinamica dello scambio, di uomini e donne e delle cose che li accompagnano. La terza
rivoluzione o rivoluzione simbolica vede la nascita di Homo sapiens anatomicamente moderno.
La sintassi ormai pienamente sviluppata: domina una forma di parentela universale, quella che
si ritrova praticamente in tutti i gruppi di cacciatori raccoglitori contemporanei. Fondamentale, in
questo sistema sociale, la distinzione tra parenti paralleli e parenti incrociati. La scelta del coniuge
prescritta all'interno dei parenti incrociati. Per il 95% della sua storia, l'umanit moderna vissuta
in gruppi di circa 150 individui, ha praticato la condivisione dei beni e ha distinto i parenti in
paralleli e incrociati. L'approdo al neolitico sconvolse questi schemi, avviando la transizione della
condivisione al possesso e dando vita a quelle che Levi-Strauss chiamava le strutture complesse
della parentela, in cui non esistono norme rigide per la scelta del coniuge. Viene meno la parentela
universale e le persone con cui si hanno relazioni sono distinte in parenti e non parenti. Con il libro
di Barnard nasce dunque, come l'autore auspica, una nuova disciplina, l'antropologia sociale delle
origini umane? La proposta allettante, anche se lascia spazio a qualche dubbio e perplessit.
vero che anche la genetica e l'archeologia, applicate alle origini, fanno ampio uso dell'inferenza: ma
non si rischia cos di di cadere nuovamente in forme di antropologia puramente congetturale? Non
c' il rischio di considerare i cacciatori e raccoglitori contemporanei o le societ orticole egualitarie
come dei fossili viventi? Secondo Barnard bene non indulgere troppo nel politicamente corretto:
i cacciatori raccoglitori sono spesso orgogliosi della profondit storica delle loro radici culturali.

Nella loro visione piuttosto da mettere in dubbio l'umanit di noi uomini agricoli e industrializzati.
Il diritto e la cultura
La questione antica: nonostante la tensione verso l'universale, il diritto e la giurisprudenza sono
condizionati dagli usi, dalle abitudini e dalla cultura. Anche oggi, in non poche societ, esistono
forme di amministrazione della giustizia che non prevedono avvocati, fori e codici scritti. In alcuni
dei suoi territori d'oltremare, per esempio, la Francia, considerata paese assimilazionista per
eccellenza, che impone una laica neutralit ai suoi cittadini, ammette l'esistenza di un diritto
consuetudinario a cui sono soggette le popolazioni aborigene. La coutume, come viene localmente
chiamata, regola la gestione delle terre, ma pu anche intervenire in fatti di grave rilevanza penale.
Un paese multiculturale come il Canada ha adottato di recente il metodo del cosiddetto sentencing
circle, camere di consiglio allargate ai membri del gruppo etnico di appartenenza dell'imputato,
chiamate a interagire con i giudici per armonizzare l'eventuale sanzione con le tradizioni locali. Un
conto, tuttavia, prendere atto dell'esistenza di forme culturalmente modellate di diritto e
giurisprudenza: questione ancor pi delicata chiedersi quanto la cultura di origine di un migrante
possa essere evocata come attenuante o, al contrario, aggravante di un delitto o di un crimine.
Singh un muratore sikh, originario del Punjab indiano. Porta una barba lunga e l'immancabile
turbante. Un giorno, mentre passeggia per le vie di Cremona, viene fermato dalla polizia e
denunciato per porto abusivo di arma da taglio. Nella cintola infatti indossa il kirpan, un pugnale
che simboleggia l'onore, la libert di spirito e la non violenza. La sua cultura gli impone di portare
sempre con s il kirpan, come se fosse una parte del suo corpo, ma la giustizia del paese ospitante
non vuole sentire ragioni. Il giudice lo condanner senza tenere conto delle sue abitudini culturali. I
tribunali italiani si sono occupati pi volte dell'accattonaggio minorile. In una societ che, per lo
meno a livello ideologico, protegge e tutela i bambini anche dalle attivit lavorative, la presenza di
piccoli mendicanti suscita scalpore. Nel caso dei Rom un giudice pu attenuare le colpe dei genitori
per il fatto che il mangel, chiedere elemosina come lavoro, rientra nella tradizione di questi popoli?
La legge n.94 del 2009 punisce chi si avvale di un minore di 14 anni per chiedere l'elemosina: anche
questa una legge decisamente contro la cultura. Il pugnale kirpan e l'elemosina sono questioni non
da poco, ma reazioni ancora pi forti suscitano i crimini che hanno a che fare con la sfera dei
rapporti di genere e dei costumi sessuali. Come riconoscere un reato culturalmente motivato?
Gianaria e Mittone si chiedono, in primo luogo e molto opportunamente, che cosa intendiamo con il
concetto di cultura. Il giudice e l'antropologo finiscono inevitabilmente per incontrarsi su questo
terreno. Le culture non sono entit circoscritte, ritagliabili come figurine. I loro confini sono
vischiosi, spesso arbitrari. Esse si mescolano, si ibridano dando vita a forme di meticciato che il
tempo contribuisce a far evolvere. bene recidere ogni legame meccanico tra cultura e delitto,
introducendo variabili come la durata dell'esperienza migratoria, la qualit dell'integrazione, le
chances che la societ di accoglienza offre al migrante di diventare consapevole delle caratteristiche
della societ che lo ospita. Le condizioni sociali dei migranti, la loro marginalit o integrazione
possono attenuare o accentuare tratti culturali che sono in contrasto con le norme locali. Visto che
il comportamento umano non un prodotto aritmetico che si incolla su un modello culturale, e
neppure il risultato di una scelta indipendente da simboli ereditati, sarebbe insensato affidare la
soluzione a un'improbabile, presuntuosa nuova architettura normativa. Al giudice, insomma, e non
al legislatore l'ardua sentenza!
Verso una medicina interculturale
All'inizio del nuovo millennio, l'antropologa americana Lock pubblic un libro di grande successo
in cui metteva a confronto gli atteggiamenti dei nordamericani e dei giapponesi verso i trapianti e,
pi in generale verso la morte. Lock scopr che in un paese tecnologicamente avanzato come il
Giappone i trapianti erano molto rari perch la gente giudicava innaturale l'idea di morte celebrale e
il prelievo di organi a cuore battente. Inoltre, l'idea di accettare un dono di cos grande importanza
da uno sconosciuto morente, senza dunque la possibilit di ricambiare, suscitava sconcerto e sensi
di colpa. Il corpo in effetti non soltanto un organismo biologico, ma una complessa costruzione

culturale in cui prendono forma credenze, rappresentazioni, concezioni della persona e del suo
destino e che si manifestano in modo particolare nel momento della malattia e della sofferenza. Ivo
Quaranta, uno dei pionieri dell'antropologia medica in Italia, e Mario Ricca, aprono il loro libro
dedicato alla medicina interculturale con un episodio significativo. Un uomo di mezza et,
originario della Malesia e da tempo immigrato in Italia, si presenta al pronto soccorso lamentando
dolori di fegato. L'uomo parla bene l'italiano e traduce il termine malese hati con fegato, una
traduzione corretta, ma non del tutto. Nella cultura malese, infatti, hati non soltanto un organo
biologico, ma anche la sede di quella che noi definiremmo l'intelligenza emotiva. L'uomo si sente
appesantito, affaticato, spossato e narra il suo problema facendo riferimento al fegato. Il medico
gli prescrive una serie di controlli epatici, senza riscontrare problemi particolari. Il paziente morir
da l a poco di infarto: il malessere che lo aveva colpito era dovuto a una crisi cardiaca. Forse, senza
quell'equivoco,il malese sarebbe ancora qui a imparare che negli ospedali italiani hati si dice cuore.
I migranti arrivati in Italia negli ultimi anni, hanno portato con s particolari concezioni del corpo e
della malattia. Inoltre, essi hanno agito come una sorta di specchio, a partire dal quale la
popolazione nativa si scoperta essa stessa pi frammentata, plurale e molteplice di quanto non si
ritenesse in precedenza. Anche noi, a ben vedere, siamo portatori di concezioni del corpo che
appaiono piuttosto lontane e a volte in contrasto con il linguaggio scientifico di una medicina
fondata sul paradigma biologico riduzionista. Come cambia la biomedicina occidentale davanti a
questa eterogenea presenza di pratiche e rappresentazioni del corpo? Il saggio di Quaranta e Ricca,
basato su ricerche condotte anche in ospedali italiani, cerca di rispondere a queste domande e
fornisce interessanti proposte operative per la costruzione di una medicina interculturale. Per i due
autori non si tratta n di dare spazio a forme di sapere medico altre o alternative n di limitarsi
a una critica del riduzionismo biologico insito nella medicina occidentale. Si tratta piuttosto di
constatare che un approccio puramente organico alla malattia rischioso e spesso compromette la
stessa efficacia della cura. I significati che un paziente attribuisce al suo malessere, la narrazione dei
sintomi e di frammenti del suo percorso di vita, sono spesso passaggi essenziali per una diagnosi
corretta, per la cosiddetta compliance e per il successo della cura. Quando medico e paziente
condividono una medesima humus culturale, la traduzione della narrazione soggettiva del dolore e
della malattia nei termini del linguaggio scientifico pi agevole. Il percorso verso una medicina
interculturale senza dubbio complesso e arduo, tanto pi in un periodo di tagli e riduzioni di spese.
Si tratta per, a ben vedere, di una sfida irrinunciabile per una societ impegnata a costruire nuove
sintesi tra persone e gruppi portatori di diversit culturali.
La democrazia negli interstizi del potere
Divenuto famoso per essere uno degli animatori del movimento Occupy Wall Street, da un decennio
a fianco dei movimenti per una globalizzazione alternativa, Graeber si formato come antropologo
studiando le societ rurali in Madagascar. qui che ha maturato l'idea secondo cui la democrazia
semplicemente il modo in cui le comunit risolvono le proprie faccende attraverso un processo di
discussione pubblica relativamente aperto e unitario. Cos definita, la democrazia non una
caratteristica dell'Occidente, n di altre specifiche tradizioni. Non esiste una ragione per cui le
forme decisionali egualitarie delle comunit rurali in Africa o in Brasile non debbano essere degne
di questo termine tanto quanto e in molti casi anche di pi i sistemi costituzionali che governano
gran parte degli Stati-Nazione. La proposta di Graeber incisiva e tutt'altro che relativista: non si
tratta solo di cercare altrove esperienze di democrazia, quanto piuttosto di prendere atto che la
democrazia una pratica egualitaria che nasce e dimora negli interstizi, in quegli spazi da
bracconieri lasciati relativamente liberi dai poteri coercitivi, che si tratti di antichi imperi o di StatiNazione poco importa. L'innovazione democratica trova un terreno particolarmente fertile in quelle
zone di contatto e di improvvisazione interculturale in cui persone diverse, con diverse tradizioni ed
esperienze alle spalle, sono costrette ad inventarsi nuovi modi di rapportarsi agli altri. Le comunit
di frontiera in Madagascar o nell'Islanda medievale, le comunit mercantili dell'Oceano Indiano
sono tutti esempi di esperienze di questo tipo. La democrazia un frutto ibrido e, quando una
tradizione la rivendica a s in modo esclusivo, ne tradisce gli ideali.

Oltre l'homo oeconomicus


L'antropologia culturale trae gran parte dei suoi concetti dal lessico quotidiano. Questi, tuttavia,
viaggiando verso le culture e nella storia si trasformano incessantemente.
Razzismi di ritorno
Chieder al Parlamento di abolire la parola razza dalla nostra Costituzione: cos si esprimeva
Hollande nel 2012; allo stesso modo, si proposta degli antropologi Biondi e Rickards, si chiede di
abolire la parola razza dall'art. 3 della Carta costituzionale. Queste due proposte in realt
andrebbero invertite, perch non la razza a dar via al razzismo, bens viceversa: il venir meno del
razzismo e delle sue molteplici metamorfosi renderebbe privo di significato il termini razza e altri
concetti come etnia e popolo, che sono spesso usati nel lessico politico e giornalistico con un
significato equivalente. L'abolizione del razzismo smaschererebbe la finzione e il mito della razza
che, trasfigurato in termini etnici, torna oggi a vagare nell'Europa. Numerose false credenze
circondano la questione del razzismo. In primo luogo, l'idea secondo cui l'ostilit verso l'altro un
tratto comune a tutte le societ umane. In realt, l'altro che diviene oggetto di atteggiamenti razzisti,
non un dato di natura, me una costruzione sociale che pu basarsi su tratti fisici, su abitudini
culturali, sulla lingua, su credenze prefissate e presunte, sul fatto di essere considerati o meno
cittadini di un certo territorio. In secondo luogo, il razzismo contemporaneo un fenomeno
istituzionale pi che individuale. questa la tesi sostenuta dalla giurista Clelia Bartoli. Parlare di
razzismo istituzionale non significa giustificare o sminuire la responsabilit degli atti individuali,
ma guardare al fenomeno dal punto di vista delle radici piuttosto che delle fronde. Il razzismo
contemporaneo istituzionale perch nasce e si consolida con provvedimenti legislativi, delibere di
amministrazioni locali, dichiarazioni di politici influenti. Esso si nutre non tanto dei fatti eclatanti di
violenza di cui abbondano le cronache, ma di piccoli eventi quotidiani: amministratori che
proibiscono cibi etnici, burocrazie che rallentano le connessioni di permessi di soggiorno, tagli di
risorse che impediscono l'insegnamento dell'italiano ai bambini stranieri, leggi che trasformano
gruppi eterogenei di persone in clandestini, l'ultima delle neo-razze prodotte in Italia dalla contesta
legge Bossi-Fini che dichiar reato la clandestinit. La terza falsa credenza che circonda il razzismo
l'idea secondo cui sono le crisi a scatenare le discriminazioni razziali. In effetti l'estrema povert
spesso all'origine di lotte violente per le risorse, ma non necessariamente su base razzista. Come si
esce dal razzismo e dal razzismo istituzionale? Per esempio spostare l'enfasi dalle culture e dalle
etnie ai contesti di violenza e discriminazione; occorre vigilare sull'uso delle parole che
naturalizzano il razzismo, facendoci perdere di vista le sue profonde radici storiche, sociali e
politiche.
Noi, tribalisti
Il tribalismo quella tendenza a interpretare gli avvenimenti dando priorit assoluta alle origini
etniche, territoriali, se non razziali di un individuo. I modi di agire di persone e gruppi vengono cos
legati, in maniera pressoch automatica, alle loro presunte radici: gli africani hanno la danza nel
sangue, gli indiani sono riflessivi e pacifici, i veneti dei gran lavoratori. Il tribalismo un fenomeno
diffuso, che coinvolge a livelli diversi i sostenitori delle societ multiculturali e, all'opposto, gli
islamofobi di destra. Commentando fatti di cronaca e addentrandosi nella complessa foresta di
simboli e di riti padani, Marco Aime evidenzia i tratti discutibili e contraddittori eppure cos efficaci
del tribalismo politico della Lega Nord: il riferimento a una comune origine celtica, al territorio
solcato dal Po, a un carattere collettivo laborioso e onesto. Aime evidenzia il ricorso a un'arma
tribale molto potente: l'opposizione netta e manichea tra noi e gli altri e il rifiuto di ogni
contaminazione. Il tribalismo leghista sembra non poter fare a meno della xenofobia. Ad Aime fa
eco, sul versante francese, Jean-Loup Amselle, che nei suoi ultimi libri contesta le politiche
tribaliste della destra e dell'estrema destra, ma anche la sinistra multiculturale e post-coloniale,
entrambe prigioniere di un pensiero che trasforma la cultura in una gabbia di ferro. Come se ne
esce? Da antropologi, Aime e Amselle provano a smascherare i trucchi dei tribalisti della politica.
Ad esempio l'uso di un'immagine statica, chiusa e pura delle culture.

La storia e l'antropologia culturale ci insegnano, al contrario, che le culture sono il frutto di processi
trasformativi, di scambi, di rielaborazioni individuali, di invenzioni. Forse occorrerebbe cominciare
con il DE-TRIBALIZZARE il linguaggio, liberandolo dai riferimenti all'identit, alle origini, al
DNA, ad aggettivi come nostro e antropologico.
Il potere e l'homo strategicus
La riflessione sulla natura e sulle trasformazioni del potere occupa di questi tempi molta parte della
produzione saggistica, dalla filosofia della storia, dalla sociologia all'antropologia culturale. La
prova pi evidente costituita dagli usi, ma soprattutto dagli abusi di un lessico tratto da Michel
Foucault e dai suoi interpreti e che comprende termini come biopolitica e biopotere, soggetto,
soggettivazione e dispositivi, governamentalit e stato di eccezione, ancora poco famigliari al
linguaggio quotidiano, ma veri e propri mantra ripetuti senza sosta in molte discipline accademiche.
come se, paradossalmente, il filosofo francese che, smascherando il nesso tra sapere e potere, ha
contribuito a smontare le grandi narrazioni, fosse divenuto suo malgrado l'ispiratore di un'ultima e
nuova grande narrazione sopravvissuta al crollo dei muri. Dei demoni del potere si occupa Marco
Revelli che rileggendo con l'occhio sempre rivolto all'attualit i miti classici di Medusa e Perseo, di
Ulisse e delle Sirene, Revelli dipinge la crisi che stiamo attraversando come un nuovo Mondo dei
vinti che presenta due aspetti. Il primo relativo all'invisibilit del Sovrano. Chi oggi il Sovrano e
dove vive? La crisi dello Stato e della old economy sembra aver realizzato l'intuizione di Foucault:
il potere ovunque, capace di mille trasformazioni e si sottrae ai recinti tradizionali. Il secondo
il crollo definitivo delle mura della Polis che per quasi tre millenni aveva garantito la presenza di un
potere domesticato e posto sotto il controllo del Nomos e del Logos. Viviamo il ritorno a un potere
selvaggio e primordiale, un potere terrificante che pietrifica chi osa guardarlo. I demoni del potere
tornano ad assediare un Occidente ormai vinto dal vecchio virus della mercificazione dei corpi e
delle persone. Il quadro tracciato da Revelli fosco e apocalittico: la crisi economica che ha colpito
prima Atene e la Grecia e poi molti paesi europei esprime simbolicamente il crollo di un'intera
civilt, non ad opera di un'invasione straniera o di una calamit naturale, ma per l'azione di demoni
occulti, travestiti da operatori finanziari. In una situazione come questa, il lavoro di Foucault offre
strumenti di riflessione affascinanti ma non privi di rischi. Il primo quello di non guardare
abbastanza a ci che, nel corso di questi tre millenni, successo fuori dalle mura della Polis.
Rifiutandosi di riconoscere l'esistenza di altre Leggi e altre Parole, l'Occidente, che si vanta di aver
domesticato i demoni del potere, li ha in realt scatenati altrove. Il secondo rischio quello di
ridurre le relazioni sociali a relazioni di potere: il fantasma di un homo strategicus, pronto solo a
sopraffare gli altri, si aggira tra i pensieri di molti studiosi. Il fantasma di un potere che, solo, anima
i pensieri e le azioni degli esseri umani assomiglia un po troppo da vicino all'homo oeconomicus
che molti foucaultiani vorrebbero sconfiggere. Tucidide, Hobbes e l'homo homini lupus tornano ad
occupare il nostro immaginario. I legami sociali e le logiche culturali divengono allora saturi di
potere. Come ha scritto l'antropologo americano Sahlins: il potere il buco nero intellettuale in cui
vengono risucchiati tutti i tipi di contenuti culturali; dove prima era solidariet sociale o vantaggio
materiale. L'enfasi sul potere rischia insomma di mettere in ombra le attitudini al dono, alla
condivisione, alla solidariet che, per fortuna, continuano ad animare la socialit di molti esseri
umani e di molte pratiche culturali.
La crisi e il sapere delle connessioni
In questa crisi, la scienza economica sta forse rivelando il suo carattere pi profondo: quello di una
tecnica di divinazione adatta a identificare un colpevole. L'antropologo si trova cos immerso in un
mondo che conosce bene, quello della magia divinatoria, della stregoneria o della fiducia, garante
quest'ultima delle transazioni nelle societ senza scrittura. Amselle denuncia con queste parole il
fallimento delle analisi economiche della crisi e rivendica un ruolo politico di primo piano per
l'antropologia e pi in generale per le discipline umanistiche. La crisi che viviamo, scriveva qualche
anno fa, solo in parte il prodotto della concorrenza spietata da parte di quelle economie emergenti
che, dall'Asia al Pacifico al Sud America, hanno infranto il monopolio euro-americano sui mercati e
sul sapere. La crisi dell'occidente il frutto di un processo di disgregazione interna: da Nietzsche a

Heidegger, da Sartre a Derrida, dall'etnologia al postmodernismo, intere tradizioni di pensiero, tutte


interne all'Occidente, hanno smontato le pretese di universalismo e oggettivismo del pensiero
occidentale, rivelando il uso carattere imperialista. Il problema che questo pensiero critico che ha
scalfito le pretese egemoniche dell'Occidente ha finito per alimentare la nostalgia di mondi
totalmente altri, dando linfa a un primitivismo concepito come speculare e contrario alla
modernit. La critica che Amselle muove agli studiosi post-coloniali proprio questa: vagheggiare
l'esistenza di un'Africa o di un'India precoloniali come realt totalmente altre e separate rispetto
all'occidente. Divisi tra convinti sostenitori e arcigni decostruttori dello spirito dell'occidente, i
filosofi hanno fallito o deliberatamente evitato il progetto di un pensiero relazionale o interculturale.
La crisi che viviamo il frutto dell'incapacit di produrre un pensiero e pratiche della relazione e
dell'interdipendenza, soverchiati come siamo dal paradigma dell'identit. Amselle ha dedicato molti
dei suoi studi alle societ dell'Africa occidentale. Indagando in chiave storica ed etnografica i
commerci di lunga distanza, la penetrazione dell'Islam, la schiavit, il nazionalismo coloniale e
post-coloniale e le pi recenti migrazioni, l'antropologo francese ha dato vita a una critica profonda
e incisiva del concetto di etnia. Le societ africane che si trovato a studiare gli appaiono come
sistemi ibridi, prodotti di logiche meticce, piuttosto che etnie chiuse in se stesse o sistemi politici
dai confini ben definiti. Logiche meticce il titolo del libro pi famoso di Amselle. A partire dalle
sue esperienze africane, l'antropologo francese vi afferma che non c' mai stato un luogo o un tempo
in cui osservare le societ nella loro autentica purezza: il meticciato alle origini dell'umanit,
perch le culture e le etnie si costruiscono in relazione e in contrapposizione la une alle altre. Le
etnie, formazioni dai confini fluidi e cangianti, non si definiscono in rapporto a caratteri primordiali
come il territorio, il sangue, la lingua, ma scaturiscono da contatti e prestiti, vengono inglobate o
inglobano a seconda delle dinamiche di potere che le percorrono. In un libro successivo, Amselle ha
proposto di sostituire la metafora del mescolamento propria del meticciato, la metafora informatica
delle connessioni. Le societ scaturiscono da operazioni, pi o meno volontarie, di connessione e
deconnessione con il mondo esterno. Il connesionismo e il costruzionismo sono le cornici teoriche
che meglio definiscono la riflessione di Amselle. Costruzionista perch sottolinea l'esigenza di un
metodo, antropologico e storico insieme, che, lavorando a ritroso, metta in luce il carattere costruito
e dunque arbitrario delle distinzioni etniche, non solo in contesti esotici, ma anche in paesi come la
Francia e l'Italia che proprio in questi anni hanno visto riemergere partiti politici su base etnica e
tribale. Connessionista perch si oppone sia al relativismo estremo di alcuni suoi colleghi, sia
all'illuminismo estremo dei sostenitori della ragione occidentale. Nei suoi ultimi lavori e
interventi, Amselle rivendica il ritorno a un'antropologia intesa in senso ampio, un pensiero
sull'essere umano che non rinuncia a porsi obbiettivi universalistici, ma che pu ambire a questo
traguardo solo se assume il compito di cucire pazientemente le ragioni di tutte quelle culture che,
fin dalle origini, si sono costituite come catene di societ, piuttosto che come isole a s stanti.
L'antropologo del futuro
Le societ umane sono legate da una fitta trama di fili che, direttamente o indirettamente, le
connettono le une alle altre, sosteneva Appadurai. La globalizzazione degli ultimi 30 anni ha, per
cos dire, accelerato la corrente che percorre le culture dando vita, allo stesso tempo, a gobbe e
ostacoli che, in alcune parti, ne rallentano i percorsi. Fuor di metafora, la corrente rappresentata
da quegli ingenti flussi di merci, persone e soprattutto rappresentazioni e immaginari che si
dipanano nell'ecumene globale con sorprendente velocit. Ci che rilevante, per Appadurai, non
sono tanto i contenuti che viaggiano sulle reti, quanto i format. Tra questi spiccano la formanazione, le costituzioni e la democrazia a livello politico; i giornali, le soap opera e pi
recentemente i social network a livello mediatico. Anche nelle aree del pianeta considerate pi
remote e periferiche, gli esseri umani continuano a produrre localit, ovvero costruiscono societ
e culture specifiche posizionate localmente, ma a partire da dialoghi, conflitti e negoziazioni con
quei format politici e mediatici che viaggiano senza sosta sulle reti della globalizzazione. Le culture
locali non sono mondi remoti, bens isole nella corrente. Appadurai incarna la figura prototipica
dell'antropologo contemporaneo. Un antropologo che viene da altrove e parla di noi e della

globalizzazione che ci circonda e ci assedia, dando concretezza a quella reciprocit o inversione di


sguardi tanto sepsso evocata. L'antropologo rompe i confini disciplinari e si addentra nei territori
dell'economia, della sociologia, dei media e dei cultural studies. L'ultimo libro di Appadurai, Il
futuro come fatto culturale, nasce dalla scommessa di rilanciare una teoria e una pratica di
modernizzazione, ripartendo proprio da Weber. Appadurai comincia per col criticare la
modernizzazione europea laddove, in modo etnocentrico, si connessa al prgoetto imperialista e
laddove ha confuso l'universalismo con l'imposizione delle proprie traiettorie storiche. Occorre
tener ben presente le sorprese che la modernizzazione d'ancien regime ci ha riservato: il rifiuto
della religione di essere sacrificata sul tavolo dello sviluppismo della scienza moderna; la
paradossale tendenza delle nuove tecnologie di comunicazione a incoraggiare la differenza culturale
invece di rincorrere la somiglianza; la propensione della voce popolare a pretendere sangue,
vendetta, guerra ed etnocidio provando in questo modo la falsit delle correlazioni che ci si
attendeva tra istituzioni democratiche e crescita della tolleranza e della pazienza come virt
politiche. La globalizzazione non ha annullato le diversit culturali, come si era paventato, ma,
ugualmente, non ha indebolito le diseguaglianze. Gli slums di Mumbai in cui Appadurai compie le
ricerche etnografiche che presenta nel libro sono esemplari al proposito. La crescita, in tutto il
mondo, di megalopoli che assumono l'aspetto di nuove citt-Stato ha creato grandi sacche di non
cittadini, abitanti delle citt senza diritto a condividerne le risorse. I poveri di Mumbai abitano
baracche o giacigli provvisori, vagano in cerca di cibo e non hanno posti in cui depositare gli
escrementi. Il panorama dipinto da Appadurai, tuttavia, non cos fosco. La costruzione di pratiche
inclusive e condivise di modernizzazione sar possibile se gli scienziati sociali e gli antropologi in
particolare sapranno guardare al futuro. Nella nostra epoca di pace fredda, caratterizzata da un
basso livello di conflitto internazionale, ma da forti tensioni e violenze interne, il discorso sul futuro
stato monopolizzato da economisti e speculatori. L'economia dei disastri un'attivit quanto mai
lucrosa, basata sul calcolo probabilistico del rischio che qualcosa di grave possa succedere in futuro
in qualche parte di mondo. Riappropriarsi del futuro come fatto culturale significa invece passare da
un'etica della probabilit a un'etica della possibilit, guardando alle speranze e alle immagini della
buona vita che ogni societ elabora al suo interno. ora di indagare i sogni, le costruzioni
culturali del futuro, le aspirazioni, i progetti che germogliano nelle localit del mondo globalizzato.
Possibilit, speranza, immaginazione, futuro sono le parole chiave che Appadurai consegna agli
studiosi delle nuove generazioni, invitandoli a cogliere dal basso le forme dell'improvvisazione e
della creativit culturale.
L'enigma del dono e la forza del mercato
Marce Mauss, uno die pi noti etnologi francesi, scrisse opere acute e pionieristiche tra cui il
celebre Saggio sul Dono. Mauss scopr che in molte societ antiche e in alcune societ primitive
gli scambi non avvenivano in base alla logica dell'interesse individuale e alla legge della domanda e
dell'offerta. Intere culture infatti erano vissute o continuavano a vivere nell'atmosfera del dono,
inteso come una prestazione di beni e servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di
creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone. Mauss identific la logica del dono e i
suoi 3 imperativi (dare, ricevere, ricambiare) nelle culture oceaniane, i maori, i samoani, i tongani.
Nella societ moderna il dono sopravviveva in modo residuale, per esempio a Natale o in occasione
delle cerimonie nuziali e nelle relazioni amicali e famigliari. Mauss era piuttosto pessimista sul
destino del dono nella societ moderna: L'uomo stato per lunghissimo tempo diverso, e solo da
poco diventato una macchina, anzi, una macchina calcolatrice. Eppure, da convinto socialista e
difensore dei valori della solidariet, Mauss vedeva nel ritorno alla logica del dono l'unica via di
redenzione di un mondo in cui andavano crescendo colossali diseguaglianze sociali ed economiche.
Il dono, inteso come il totalmente altro dall'utile , perdita assoluta e incondizionata, affascin
filosofi come Derrida e Levinas. Parallelamente, nonostante la trionfale ascesa dell'homo
oeconomicus globalizzato, l'Occidente ha progressivamente riscoperto, ad alcune isole di dono
protette dalle impetuose correnti del capitalismo: dal volontariato alla donazione del sangue, dai
gruppi di acquisto ai condomini solidali, dalle economie informali alle banche del tempo. Se

l'Occidente ha ritrovato il dono, va detto che il peccato originale del suo pensiero ha finito per
oscurarne il destino in altre societ, come se l'altrove globalizzato non avesse pi nulla da dire.
L'incontro con le societ oceaniane che ispirarono Mauss riserva anche oggi sorprese interessanti.
Le atmosfere del dono vi sono tuttora diffuse e, anzi, sembrano rifiorire in modo creativo proprio in
risposta all'affermarsi della modernit capitalistica. L'ospitalit, i beni di prestigio come i maiali e le
stoffe di corteccia, gran parte dei servizi alle persone rientrano tuttora nella sfera del dono. Le
culture del dono dunque esistono tuttora: in esse tuttavia la presenza del dono forse non esclusiva
come immaginava Mauss. Partecipi della storia e della globalizzazione in corso, gli oceaniani hanno
difeso e mantenuto ampia la sfera del dono, facendola tuttavia convivere da un lato con le merci che
il mercato globale vomita incessantemente sulle loro isole e con la razionalit utilitaristica; dall'altro
con una tipologia di beni che solo di recente hanno attratto l'interesse di antropologi ed economisti:
i beni inalienabili. La circolazione degli oggetti attraverso il dono e lo scambio di mercato in
effetti garantita dal fatto che vi sono cose che non possono e non devono circolare affatto. Laddove
il colonialismo non si imposto con effetti troppo devastanti, la terra e l'acqua, forme di sapere
come la danza e i racconti della tradizione orale, hanno mantenuto il loro status di beni inalienabili,
come scopr Weiner, tornando a studiare negli anni 70 i trobriandesi di Malinowski. Quelli che un
tempo chiamavamo primitivi ci insegnano dunque che solo un'accorta politica dei beni comuni
garantisce la sostenibilit dell'economia di scambio. Gli anni di benessere e crescita economica
senza precedenti del dopoguerra hanno costruito e reso abnorme l'homo oeconomicus che in noi.
Gli anni di crisi e decrescita che stiamo vivendo sembrerebbero viceversa pi propizi a rafforzare il
dono, la relazione e la condivisione. Forse, riflettendo sulle nuove esperienze del dono in occidentee
su quanto sta avvenendo nella societ in cui esso fu scoperto per la prima volta, possiamo
concludere che non si tratta di uccidere l'homo oeconomicus, ma di pensare nuovi e pi ampi spazi
di convivenza tra mercato e dono, smettendo di vedere quest'ultimo come una chimera, un'utopia
radicalmente antitetica al mercato. Il dono continua per molti versi a essere un enigma e la sua
logica non priva di ombre, ambiguit e avvelenamenti: il dono eccessivo distrugge ricchezza,
quello unilaterale e asimmetrico umilia chi lo riceve, creando clientele e corruzione. Nonostante ci,
il dono, se adottiamo una visione slargata dell'umanit, appare alquanto tenace e persistente e,
soprattutto, secondo la lezione di Levi-Strauss, il fondamento stesso della societ. Dono, dunque
siamo.
Elogio del convivialismo
viviamo un'epoca caratterizzata da minacce incombenti: il riscaldamento globale, la crescita delle
diseguaglianze e della disoccupazione, il proliferare delle mafie e della corruzione. L'insicurezza
pervade una contemporaneit che spesso reagisce trasformando la sicurezza in un'ossessione.
Viviamo per un'epoca di speranze e di promesse: la democrazia si diffonde ovunque e anima
movimenti contro i dittatori e contro la finanziarizzazione del mondo; le tecnologie informatiche
promettono una maggior condivisione e partecipazione ai saperi e un accesso partecipato al potere;
la ricerca mette a punto nuovi ed efficaci strumenti per la transizione ecologica verso forme di
economia sostenibile. a partire da queste premesse e su proposta del sociologo francese Caille che
un nutrito gruppo di intellettuali appartenenti a un universit e centri di ricerca americani, asiatici,
mediorientali ed europei ha redatto e sottoscritto il Manifesto convivialista. Dichiarazione
d'interdipendenza. Convivialismo un neologismo coniato ad hoc, un termine che si vuole simbolo
e bandiera di un filo capace di unire le pezze di un patchwork variegato e tuttavia forte e resistente.
I convivialisti promuovono l'arte di vivere insieme che valorizza la relazione e la coperazione e
che permette di contrapporsi senza massacrarsi, prendendosi cura degli altri e della natura.
L'interdipendenza, richiamata nel sottotitolo del Manifesto, esprime una concezione relazionale
della persona. Una concezione diffusa nella humus culturale in cui il testo ha preso forma, quella
del Movimento anti-utilitaristica nelle scienze sociali, che si ispira alle teorie del dono di Mauss. I
convivialisti non sono contro il mercato e la loro ricerca di una migliore cura dell'umanit e del
mondo non prescinde dal conflitto. Il mercato e la ricerca di una redditivit monetaria sono
pienamente legittimi dal momento in cui rispettano i postulati di comune umanit e di comune

socialit, e dal momento in cui sono coerenti con le considerazioni ecologiche. Quattro sono i
principi che, nella filosofia dei convivialisti, dovrebbero animare la buona politica. (1) il principio
di comune umanit afferma che esiste una sola umanit che deve essere rispettata nella persona dei
suoi membri, al di l delle differenze di colore della pelle, nazionalit, genere, ricchezza. (2) il
principio della comune socialit afferma che la pi grande ricchezza dell'umanit sono i rapporti
sociali. (3) il principio di individuazione quello che permette a ciascuno di sviluppare la propria
singolare individualit in divenire. (4) il principio di opposizione controllata quello che garantisce
agli esseri umani il diritto di differenziarsi, accettando e controllando il conflitto. La madre di tutte
le minacce che oggi affliggono l'umanit il neoliberismo, ovvero quella mostruosa e indebita
estensione dell'economia, della competizione e della ricerca del profitto individuale a tutte le sfere
dell'agire umano. La madre di tutte le minacce ugualmente rappresentata dall'idea che l'umanit
possa perseguire una crescita economica infinita. Anche se Latouche tra i firmatari del manifesto,
i convivialisti in realt non sono sostenitori della decrescita. Si tratta piuttosto di immaginare delle
democrazie post-crescita: l'uguaglianza di opportunit, il ben-vivere e la libert di un crescente
numero di persone nel mondo non possono pi essere affidati al sogno di una crescita infinita che
rischia di trasformarsi nel peggior incubo dell'umanit. Per un rinnovamento della politica e
dell'umanit i convivialisti propongono fra tutte una migliore distribuzione delle risorse attraverso
l'adozione di un salario minimo e di un profitto massimo. In secondo luogo l'uso delle tecnologie a
servizio della transizione ecologica; e ancora la considerazione delle reti telematiche come beni
comuni accessibili a tutti.
Imparare a fare
Condividere non un dono!
Sono passati 90anni da quando Mauss scrisse il Saggio sul dono. Mauss aveva scoperto che
numerose societ studiate dagli antropologi all'inizio del 900 scambiavano per lo pi beni e servizi
attraverso la logica del dono, quella forza che crea il legame sociale e che ci fa sentire obbligati a
dare, ricevere e ricambiare. Ma il dono di Mauss comincia a dare segni di invecchiamento: in primo
luogo, al contrario di quanto comunemente si pensa, esso non ritaglia necessariamente un'area di
buoni sentimenti. D'altra parte, il dono esagerato, il dono che non si pu ricambiare crea gerarchie.
C' poi, da Mauss in avanti, uno snodo teorico irrisolto: il dono crea relazioni attraverso lo scambio,
un motore che lavora su tre livelli (dare, ricevere, ricambiare). Parlare di dono come pura e
gratuita spontaneit, di dono senza contraccambio , per Mauss, un non senso. Per ovviare a queste
aporie teoriche opportuno introdurre il concetto di condivisione. La condivisione ha a che fare con
tutte quelle situazioni in cui vi un io diffuso, con quel senso di compartecipazione che crea un noi.
La condivisione il fare insieme, l'agire insieme, il convivere in cui si svincola dal possesso e dalla
gerarchia. La condivisione inevitabilmente legata a gruppi ristretti, ma si tratta di un'esperienza
che pu essere incrementata e pu diffondersi in mille rivoli. Si possono creare comunit di
condivisione in famiglia, ma anche sul luogo di lavoro.
L'acqua e il punto di vista dell'irrigatore
Che l'acqua sia H2O, scrive Maurizio Ferraris, del tutto indipendente dalla mia conoscenza, tant'
che l'acqua era H2O anche prima della nascita della chimica, e lo sarebbe anche se tutti noi
scomparissimo dalla faccia della terra. Non tutti sono di questo avviso. Il libro di Mauro Van Aken
La diversit delle acque. Antropologi di un bene molto comune pu essere considerato come una
lunga, dettagliata e puntuale confutazione della tesi ontologica sull'acqua proposta da Ferraris. Van
Aken, studioso di societ del Pakistan e della Giordania, propone tre punti di riflessione. La
modernizzazione dell'acqua e la missione idraulica hanno finito per nascondere e marginalizzare i
sistemi tradizionali di gestione delle acque. Questi ultimi, sostiene Van Aken, non vanno concepiti
necessariamente come sistemi locali. Ci che distingue la logica moderna dell' H 2O dalle idrologiche elaborate da altre societ non il fatto che abbiano da una parte una prospettiva sistemica e
universalizzante e dall'altra dinamiche locali e chiuse. La differenza che la modernit disconnette
e astrae l'uso dell'acqua dalle relazioni sociali comunitarie, trasformandola in risorsa neutra, in una

roba potenzialmente infinita e destinata, nelle mitologie dello sviluppo, ad alimentare una crescita
altrettanto infinita. Qui si innesta il secondo punto di Van Aken. Il dominio tecnico moderno delle
acque, che si dispiega in forme standardizzate puntando su colture idrovore adatte alle richieste dei
mercati internazionali, viene presentato dai suoi fautori per lo pi come naturale, razionale, e come
tali in opposizione a sistemi tradizionali concepiti come arretrati e poveri e visti solo come un
ostacolo alla modernizzazione. In realt, sono proprio le ideologie dello sviluppo economico ad
essere pervase da credenze e miti, che, in svariati settori, si stanno rivelando come dannose finzioni.
L'aver completamente trascurato quello che Van Aken chiama il punto di vista dell'irrigatore, di chi
materialmente si relaziona con l'acqua, a favore del punto di vista degli ingegneri e tecnici, ha
portato alla costruzione della scarsit dell'acqua. Il terzo punto del lavoro di Van Aken
strettamente legato alla sua frequentazione di irrigatori e irrigatrici del Medio Oriente. La sua
etnografia rivela che i processi egemonici di trasformazione delle acque in H 2O non hanno spazzato
via del tutto i sistemi tradizionali che permangono nascosti, insinuandosi nella modernit come
tattiche quotidiane. Non si tratta del persistere di tradizioni ataviche anti-moderne, ma del recupero
di una dimensione sociale e condivisa nell'uso delle acque che, opponendosi alla rigidit della
gestione burocratica, reintroduce flessibilit e maggiore efficienza.
Sospensioni e decrescite native
Remotti li definisce col termine greco epoch, vale a dire sospensioni. Si tratta di luoghi e di
periodi in cui, programmaticamente e in modo consapevole, una societ sospende le proprie attivit
produttive. I BaNande del Nord Kivu che Remotti ha studiato dagli anni 70, erano e in parte sono
tuttora una societ di coltivatori e di abbattitori di foreste. La progressiva distruzione della foresta
ha permesso nel tempo a questa societ africana di aprire nuovi spazi per la coltivazione dei campi,
di diffondersi in una vasta area del Kivu, di crescere demograficamente. Fino a tempi molto recenti,
tuttavia, i BaNande preservavano lembi di foresta ritenuti sacri e abitati da spiriti malvagi. Queste
piccole foreste, come venivano definite, insieme ad altri luoghi come le tombe arboree che
custodivano i resti ossei dei loro capi, creavano nel territorio aree di vuoto produttivo e zone di
rifugio per la selvaggina, essendo al tempo stesso veri e propri sacrari in cui venivano compiuti
sacrifici e riti propiziatori. Inoltre, in seguito alla morte di un capo, si apriva un periodo di lutto in
cui venivano interdetti sia l'attivit sessuale sia i lavori di disboscamento e persino di coltivazione
dei campi. Che significato avevano queste interdizioni, queste sospensioni, queste credenze negli
spiriti malvagi della foresta che, in gran parte, furono spazzate via dall'avvento della colonizzazione
belga, dei missionari e dello spirito del capitalismo, aprendo cos la strada a uno sfruttamento
indiscriminato del territorio? Secondo Remotti, i BaNande avevano ben chiari i rischi e i limiti della
propria economia ed esprimevano queste preoccupazioni in modo simbolico, attraverso credenze,
riti e l'istituzione di spazi sacri. Ma c' di pi: nei periodi e nei luoghi di sospensione, la societ
nande rifletteva sull'esistenza di possibilit alternative, guardando con curiosit alle scelte di altri
popoli della foresta, come i pigmei BaMbuti. Questi ultimi, al pari di altre societ di cacciatori e
raccoglitori, praticavano un'economia acquisitiva, traendo dalla foresta le risorse necessarie sotto
forma di selvaggina e prodotti spontanei, senza coltivare e senza abbattere gli alberi. In effetti, si
potrebbe dire che i cacciatori-raccoglitori sono forme di societ che hanno scelto la sospensione
come caratteristica permanente della propria economia. Come osserv Sahlins in un celebre saggio,
queste societ dell'abbondanza hanno ridotto al minimo i propri bisogni, ampliando cos il tempo
dedicato alle relazioni sociali. Le piccole foreste dei BaNande preservate dall'azione di
disboscamento non erano solo luoghi sacri abitati dagli spiriti, bens monumenti che ricordavano
loro i rischi della propria economia e l'esistenza di altri modelli di umanit. La grande diffusione in
altre culture del passato o contemporanee di atteggiamenti improntati alla logica dell'epoch
dovrebbe farci riflettere: qual il prezzo, in termini ambientali e sociali, del modello produttivo
occidentale? Quali effetti distruttivi producono gli spiriti del capitalismo?
Crescere senza riti di passaggio
Ho assistito alla scena che descrivo di seguito, mentre viaggiavo su una grande imbarcazione tra 2
isole dell'arcipelago della Nuova Caledonia. Il mio vicino di posto, un kanak ( il nome della

societ autoctona) poco pi che cinquantenne, si era impadronito del quotidiano messo a
disposizione dei viaggiatori: dopo averlo sfogliato e letto con tutta calma, si era appisolato col
giornale in mano. Al suo risveglio, una ragazzo sulla trentina, anch'egli kanak, dopo essersi
accovacciato e senza mai guardare il suo interlocutore negli occhi, gli sussurr: Vecchio, potreste
per favore passarmi il giornale?. L'episodio mi ha colpito per due ragioni: la prima legata
all'atteggiamento di rispetto e ossequio del giovane; la seconda all'uso del termine vecchio. In
molte societ, tuttora, essere vecchi una condizione positiva, a cui si riconoscono autorevolezza e
potere. La categoria dei vecchi definisce, trai kanak come in molte altre culture, una delle tappe del
ciclo di vita di un uomo, una fase caratterizzata dall'assunzione di responsabilit politiche e sociali.
Il tempo della vita di un essere umano, in effetti, non scorre in genere in modo lineare, come un
fiume alla foce, ma scandito da sbarramenti, soste e rapide progressioni. Le societ danno forma
al tempo organizzando la vita in sequenze, separate da momenti rituali che segnano i passaggi.
L'espressione riti di passagio fu resa celebre, a inizio novecento, da Arnold Van Gennep,
antropologo di origine belga che mise a confronto societ esotiche ed europee proprio a partire
dal modo in cui esse ritualizzano passaggi fondamentali quali la nascita, l'ingresso nell'et adulta, il
matrimonio, la morte. Che fine hanno fatto i riti di passaggio in Occidente e in particolare nell'Italia
di oggi? Come si diventa adulti in una societ caratterizzata dall'assenza di lavoro stabile,
dall'indebolirsi di ritualit ampiamente condivise, dal diffuso ricorso a forme compulsive di
consumo? Sono queste le domande che si pongono Marco Aime, antropologo che ha studiato le
classi di et nelle societ africane e Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra e psicoanalista, grande
esperto del modno degli adolescenti e dei giovani. Nel loro dialogo, i due autori convergono nel
sostenre che l'indebolirsi dei riti di iniziazione legato ai cambiamenti nei rapporti
intergenerazionali avvenuti negli ultimi anni. La figura del padre, in modo particolare, mutata. Il
potere che un tempo caratterizzava il suo ruolo sociale stato redistribuito tra i figli, con i quali
spesso si attua un rapporto di complicit; le generazioni sono confuse, la condivisione in famiglia
eccessiva. I padri si vestono come i figli, si tatuano e si fanno il piercing, vogliono essere trattati da
giovani e non da vecchi. Il passaggio dall'adolescenza all'et giovanile avviene presto nella nostra
societ: si diventa in fretta giovani adulti, una categoria inventata di recente, una tappa della vita
che tende a durare per un periodo indefinito. Si vive per un tempo indefinito in una famiglia
lunga; se ci si sposa si va a vivere molto vicino ai genitori che offrono aiuto nell'accudire i figli. Il
bozzolo protettivo rischia di imprigionare il giovane adulto in una sorta di liminalit prolungata. I
riti di iniziazione non sono del tutto scomparsi, ma si sono trasformati in riti a bassa intensit.
Essi cio mancano di un ampio riconoscimento pubblico, di significati socialmente condivisi, e
tendono ad assumere un carattere quasi privato. Manca soprattutto quel rapporto asimmetrico tra le
generazioni che caratterizzava i riti di un tempo. Una certa nostalgia per il recente passato,
caratterizzato da forti scontri generazionali, sei avverte nel libro dei due autori. L'analisi dei rischi a
cui va incontro una societ che ha abolito i riti di passaggio tuttavia convincente: l'incapacit degli
anziani di celebrare i passaggi stata assunta dalle corporations dei consumi. L'acquisto del primo
telefonino; l'accesso al tablet; il motorino e l'automobile personale, la possibilit di tatuarsi
scandiscono il progredire dell'et nella nostra societ. Abbiamo affidato l'iniziazione dei giovani alle
corporations che li conoscono bene; il consumo definisce il loro cursus honorum. Un ruolo
importante svolto anche dal gruppo dei pari, i compagni di scuola o gli amici che, all'interno del
gruppo, definiscono le modalit e le fasi della crescita. Uno dei grandi problemi della nostra societ
che imprigiona i giovani adulti in una fase di transizione dalla durata indeterminata. Ci si pu
chiedere allora se la redistribuzione del potere tra le generazioni descritta dai 2 autori sia reale; o se,
piuttosto, all'origine della crisi dei riti di iniziazione ci sia l'impossibilit per i giovani di oggi di
accedere a quelle posizioni di potere, a cui hanno avuto diritto gli (allora) giovani rivoluzionari
degli anni 60 e 70. la mancanza di riti di iniziazione, allora, il segno di una societ pi egualitaria
nei rapporti intergenerazionali o l'inganno di una civilt dei consumi che costringe i giovani adulti a
vivere in un eterno presente? C' da chiedersi, insomma, se sia davvero un vantaggio non poter
diventare vecchi.
Restituire per decolonizzare

Il 15 agosto del 2002 mi trovavo a Darwin, nel nord dell'Australia. Quel giorno la parte bianca
della citt celebrava la Giornata delle famiglie pioniere. Due giorni prima, nei pressi della spiaggia
pi nota di Darwin, Mindil Beach, era andata in scena un'altra cerimonia. I Larakia, gli aborignei
che vivono in quell'area da tempo immemorabile, avevano celebrato un funerale particolare. I resti
di 87 persone, saccheggiati un secolo prima da un chirurgo della marina militare inglese per essere
venduti all'Universit di Edimburgo, erano stati restituiti alla comunit aborigena e vennero
ritualmente deposti in un memoriale eretto nel 1991, in occasione della restituzione del primo
cranio. Le due cerimonie, la giornata dei pionieri e il funerale larrakia, mostravano con palese
evidenza la contrapposizione tra bianchi e aborigeni, una memoria tuttora scissa e fratturata, ferite
della storia lungi dall'essere rimarginate. Funerali e restituzioni come quelle di Darwin si sono
ripetute con frequenza negli ultimi trent'anni in paesi come gli Stati Uniti, il Canada, l'Australia e la
Nuova Zelanda. Il dibattito sulla opportunit di esibire, studiare e conservare i resti umani nei musei
ha assunto un'ampia dimensione internazionale e prestigiose riviste scientifiche hanno ospitato
articoli e prese di posizione. Tutto ebbe inizio negli anni 70, quando attivisti nativi americani e
australiani, maori e inuit cominciarono a denunciare le modalit di appropriazione dei resti umani
da parte degli scienziati ottocenteschi. Allo stesso modo, a essere denunciate furono le logiche
espositive: non solo per il gusto del macabro che esse suscitavano, ma perch i musei occidentali,
con le loro topologie fisiche e con lo sguardo evoluzionista, hanno rafforzato rappresentazioni a
sfondo razzista. A partire da queste denunce, molti paesi hanno messo a punto revisioni legislative,
provvedendo a distinguere i resti umani e, in alcuni casi, anche gli oggetti sacri da altre tipologie di
beni culturali. La prima fase della protesta ha avuto toni piuttosto radicali e ha portato anche alla
restituzione di resti molto antichi. Una seconda fase della protesta, apertasi a partire dagli anni 90,
ha portato a riflessioni pi meditate. Da un lato emerso che non tutte le societ auspicano la
restituzione. Non sempre possibile stabilire a chi restituire, chi sono i legittimi discendenti, chi
sono coloro che dovranno occuparsi delle cerimonie funebri o comunque di accogliere i resti.
D'altro canto, sono emerse pratiche di restituzione concordata. In Nuova Zelanda, per esempio,
alcuni musei hanno sperimentato forme di custodia condivisa dei resti umani, che sono depositati in
aree sacre all'interno dei musei stessi. Sottratti alle esposizioni, essi possono essere studiati solo
con il consenso delle trib maori che possono vantare di rapporti di discendenza biologica o
affettiva. in queste forme di patrimonializzazione condivisa che risiede uno degli esiti pi
interessanti del dibattito su resti umani e musei.
Viaggiare nelle societ incontattate
Sono passati 90 anni da quando l'antropologo Radcliffe-Brown pubblic la sua celebre monografia
sugli isolani delle Andamane, basata sulla sua personale esperienza di ricerca e su precedenti lavori
di funzionari coloniali e viaggiatori. passato tanto tempo: eppure, il mito delle societ isolate, che
non hanno mai visto l'uomo bianco, continua a essere molto forte se alcune agenzie turistiche
organizzano oggi safari umani, portando i viaggiatori alla scoperta di trib primitive e selvagge.
La ricerca del primitivo, dell'incontaminato un tema molto presente nell'immaginario degli
occidentali. I safari umani dei turisti di oggi richiamano lo sguardo dei visitatori che affollavano
le grandi esposizioni universali tra 800 e 900.
i turisti, si dice, sono affascinati da questi fossili viventi, da queste popolazioni che sembrano
provenire direttamente dalla preistoria e che si possono vedere e a volte toccare. In realt, l'unico
fossile in queste storie quell'atteggiamento che ha una lunga storia nella modernit e che
consiste nel trasformare i nostri simili in altri, in forme di alterit radicalmente lontane, opposte,
incommensurabili. Prima di poterlo vedere e fotografare, il selvaggio, in effetti, va costruito.
Nudit, tecnologie rudimentali, relativo isolamento, rifiuto di tratti di modernit divengono indizi di
disumanit che, ricacciati in foreste inospitali o in deserti privi di risorse, danno vita a una sorta di
specchio rovesciato del noi. Nudi, semplici, naturali, feroci, forse felici. Dall'altro di uno sguardo
che si ritiene superiore, civile, razionale, scientifico, questi esseri-umani-come-noi divengono
altri e selvaggi: verso di essi si prova orrore e attrazione allo stesso tempo. La trasformazione
del simile in altro una negazione della sua umanit. Essa si compie ricacciando i nostri simili in

una dimensione temporale, in uno spazio alternativo alla civilt, a volte perfino in altre forme
corporee. la negazione della possibilit stessa del dialogo, dello scambio, della comunicazione,
della condivisone. anche il sintomo, come direbbe Remotti di un preoccupante impoverimento
culturale, attraverso cui dividiamo il mondo in quelli come noi e quelli altri da noi.
Elogio del fare
Non passa giorno ormai senza che capiti di scoprire che qualche amico ha intrapreso una nuova
attivit manuale. Si avverte un diffuso bisogno di fare, di ricorrere a mani rimaste a lungo
inoperose. forse una reazione al fatto che siamo sempre pi immersi nella realt aumentata del
web, anche se va detto che paradossalmente lo stesso virtuale, di questi tempi, a diffondere il
contagio per i saperi e il gusto del fare. Il recupero del fare anche una reazione al ruolo di
consumatori passivi. Due recenti libri affrontano la questione del fare. Il primo Making di Tim
Ingold, veterano dell'antropologia ecologica. La mano, per Ingold, un'estensione del cervello. Fare
non significa imprimere un'idea o una forma preesistente a un materiale inerte, ma intraprendere un
lavoro di relazione, di negoziazione, un venire a patti creativo con la materialit che implica
maestria, capacit di adattamento e di improvvisazione. Imparare a fare stato il metodo chiave
della ricerca antropologica di Ingold ed sempre attraverso il fare che egli trasmette agli studenti le
sue conoscenze. Il fare di Remotti frutto di una prospettiva di ricerca diversa. Egli ha dedicato
oltre 20 anni di dense e approfondite riflessioni alla questione dell'antropo-poiesi, espressione che
significa letteralmente fare, costruire, fabbricare, ma anche fingere l'umanit. Secondo questa teoria,
l'uomo non ha soltanto da produrre attrezzi e strumenti per far fronte alla sua debolezza e
incompletezza biologica, ma deve anche elaborare e costruire i modelli di umanit a cui, a seconda
delle epoche e delle culture, si incarna. Il fare e il farsi dell'essere umano concerne in primo luogo
il corpo: che si tratti di operazioni quotidiane o rituali, questi tipi di operazione sul corpo si
ritrovano in tutte le culture. In Fare umanit Remotti mette tuttavia in guardia contro alcuni esti
dei processi di costruzione dell'umanit. Quando la fabbricazione di modelli di uomo assume un
carattere pianificato, programmato, centralizzato: quando l'artigianalit e la pluralit dei processi di
costruzione antropo-poietica vengono spazzati via da progetti ingegneristici in cui si persegue l'idea
dell'unicit e dell'esclusivit, allora si possono aprire le vie della devastazione, del furore, della
violenza. In effetti, i totalitarismi novecenteschi sono caratterizzati da progetti che mirano a fare
uomini e societ radicalmente nuove ed esclusive, negando ad altri questa possibilit. proprio su
questo punto che i libri di Ingold e Remotti trovano un terreno fertile di dialogo: la difesa
dell'importanza, della bellezza e della centralit, per i destini dell'umanit, del fare artigianale in
quanto contrapposto al fare industriale e seriale. Che si tratti di fabbricare attrezzi o esseri umani,
l'artigianalit garantisce pluralismo, sperimentazione, creativit. Molti di quelli che oggi celebriamo
come i grandi artisti del rinascimento lavoravano in piccole botteghe artigiane. E non pochi artigiani
dell'informatica hanno dato vita a grandi invenzioni del mondo virtuale contemporaneo.
Umanit senza confini
Le streghe di Papua
Ci sono aree di mondo che, come insetti catturati nella tela del ragno, proprio non riescono a
liberarsi dagli stereotipi che li avvolgono. La Nuova Guinea una di queste. A meno che non siate
appassionati cultori o frequentatori dell'Oceania, difficilmente avrete avuto modo di sapere che la
Nuova Guinea un luogo straordinario in cui si parlano tuttora 850 lingue; in cui racchiusa una
biodiversit eccezionale, per nulla scalfita dalla presenza delle societ native che hanno dato vita
per millenni a economie sostenibili; si tratta di un'isola i cui abitanti hanno inventato, oltre
all'orticoltura, sistemi di scambio basati sulla condivisione, sul dono e sulla reciprocit in alcune
aree. Alla luce dello stereotipo, non stupisce pi di tanto l'enfasi con cui, di recente, i media
dell'Australia hanno diffuso la notizia relativa a casi di stregoneria avvenuti sia nella parte
occidentale dell'isola sia nelle Highlands della parte orientale in cui si trova lo Stato indipendente di
Papua Nuova Guinea. Le testimonianze riportate parlano di donne torturate nei genitali perch
accusate di stregoneria, di donne arse vive e decapitate. Ripetuti report di Amnesty International e

della Ong Oxfam confermano la crescente violenza nei confronti delle donne e il ricorso dei nativi
al linguaggio e alle pratiche della stregoneria. Ma, allora, la stregoneria una realt o la proiezione
mediatizzata di uno stereotipo? I Papua credono e praticano ancora la stregoneria? Il problema di
fondo che domande come queste sono mal poste. Il dato da cui partire infatti la violenza nei
confronti delle donne che, stando alle fonti pi attendibili, in crescita in Papua cos come in tanti
altri paesi del mondo, Italia compresa. Perch questa escalation di violenza? C' in primo luogo un
enorme problema di traduzione. Per un occidentale, infatti, il termine stregoneria evoca
inquisizioni, condanne, roghi perpetuati dalla Chiesa nei confronti di donne ed eretici. I termini di
altre lingue tradotti con stregoneria implicano scenari e immaginari molto differenti, che occorre
conoscere se si vuole davvero combattere il fenomeno. In secondo luogo, la cosiddetta stregoneria
viene di solito presentata come una credenza atavica e irrazionale, frutto di una mentalit primitiva
che dovrebbe essere modernizzata. Un terzo punto rilevante concerne l'idea secondo cui
l'irrazionalit della stregoneria andrebbe combattuta insegnando ai nativi a riconoscere le vere cause
delle malattie e della sventura. il punto pi delicato. Gi nel 1937 Evans-Pritchard aveva mostrato
che la stregoneria non nasce dall'ignoranza della cause ultime di un evento nefasto, ma dal fatto che
pone domande che vanno al di l di esse. Gli Azande sanno bene che quell'uomo morto perch,
andando a caccia, si ferito una gamba, ma il problema : perch proprio lui e proprio adesso? La
stregoneria un pensiero sull'oltre, su quegli ambiti della vita che stanno al di l della possibilit di
controllo degli esseri umani. Ora, nella situazione post-coloniale globalizzata, la stregoneria,
supposto che abbia ancora senso usare una categoria cos ampia e trasversale, si presenta non come
un sistema di credenze chiuso all'interno di societ tradizionali, bens come un tentativo di spiegare
relazioni interculturali che hanno relegato strati sociali e intere comunit native in situazioni di
estrema indigenza e marginalit. Il ritorno delle streghe, in Papua come in Africa, un fenomeno
preoccupante e la violenza sofferta da donne che divengono capri espiatori di una diffusa
insicurezza, non va certo sottovalutata o, peggio ancora, negata. Ma, la stregoneria non una
malattia indigena, frutto di sistemi di credenze ancestrali, bens il sintomo di un disagio molto
moderno, le cui cause vanno ricercate nell'imporsi di modelli sociali e economici fondati
sull'esclusione e non sulla condivisione e di configurazioni della persona che hanno accentuato le
differenze di genere, alimentando sospetti e violenze soprattutto nei confronti delle donne.
Isole d'Europa
Soane un orticoltore della sperduta isola di Futuna. Nei campi situati sulle alture dell'isola coltiva
tabacco, manioca per nutrire i maiali, taro e igname per l'autoconsumo in famiglia. Gli empori
dell'isola sono spesso carenti di prodotti perch l'unica nave che la rifornisce una volta ogni tre
settimane, non pu attraccare se le condizioni del tempo sono sfavorevoli. Paul, un uomo sulla
trentina originario di Lifou, una delle isole della Lealt che fanno parte dell'arcipelago della Nuova
Caledonia il primo kanak ad aver ottenuto un dottorato in storia. Ha studiato a Bordeaux e ora
lavora per la Provincia Nord della Nuova Caledonia. Anche Georgette una donna kanak: vive nel
Sud-Est della Grande Terre caledone. Pesca granchi e polpi. Qualche anno fa venuta a Torino per
partecipare alla manifestazione Terra madre, organizzata da Slow Food. Soane, Paul, Georgette
vivono a 18000 km da Parigi, ma sono a tutti gli effetti cittadini europei, oltre che francesi. C'
un'Europa negletta, dimenticata, invisibile, forse rimossa, ben al di fuori delle Colonne d'Ercole. Per
alcuni si tratta degli ultimi confetti dei grandi imperi del passato. Nel lessico burocratico dell'UE,
queste isole d'Europa sono raggruppate in 2 categorie: gli Overseas Countries and territories (OCT)
e le Outermost Regions (OR). Fanno parte degli OCT le tre collettivit francesi del Pacifico. Le OT
sono isole e territori legati in modo ancora pi netto all'UE. La Guyana francese in Sud America,
Guadalupa nei Caraibi, la Mayotte e la Reunion nell'Oceano Indiano, oltre alle pi note Azzorre.
Sono pi di 5 milioni gli europei d'oltremare. Il mosaico culturale quanto mai variegato. Ci sono
le popolazioni aborigene come i Kanak, i polinesiani di Wallis e Futuna e tante altre. Ci sono i
discendenti di schiavi e deportati nelle Antille e nelle Isole dell'Oceano Indiano. Ci sono trib
bianche, ovvero discendenti di forzati e coloni liberi che ormai da generazioni si sono radicate
nell'oltremare. Ci sono, soprattutto societ creole o meticce, frutto di convivenze pi o meno

obbligate. Sono persone e societ che hanno ispirato i lavori di autori come Frantz Fanon e Aim
Csaire. Qui sta, a mio parere, l'interesse per questa Europa dimenticata, per questo ultra confine
che andrebbe affiancato simbolicamente al confine sud del Mediterraneo e ai drammi quotidiani che
esso produce. L'Europa, qualunque cosa essa sia, si formata anche in queste lontane periferie in
cui uomini e donne, saperi e pratiche originari di diversi orizzonti, si sono scontrati e incontrati,
dando vita nel tempo a inedite forme di convivenza e bricolage cultural. In una fase storica come
quella attuale, che vede la crisi degli Stati nazionali e la crescita della cittadinanza europea, queste
isole d'Europa forniscono straordinari esempi di appartenenze multiple e di creativit culturale. I
loro abitanti sono stati esposti da lungo tempo all'influenza del cristianesimo e dei mercati, pi
recentemente delle tecnologie di comunicazione e delle ideologie e pratiche della democrazia.
Queste correnti globali, impattando in societ tutt'altro che passive al loro riguardo, hanno permesso
di costruire e immaginare inedite configurazioni culturali e politiche. Oggi, complice il declino
delle sovranit nazionali, molte di queste isole chiedono di poter ridefinire le loro interdipendenze,
pi che aspirare a vere e proprie forme di indipendenza. Chiedono di ripristinare alleanze e scambi a
livello regionale, interrotti dal fatto coloniale, evitando un legame univoco con l'antica
madrepatria. Il crescere dell'Europa, come di altre forme di organizzazione sovranazionale,
rappresenta per esse una nuova opportunit nella costruzione di forme di interdipendenza. Sottrarre
queste isole d'Europa all'oblio e alla rimozione, o comunque a uno sguardo esotico e paternalistico,
significa essere disposti a riconoscere le violenze e il buio di molte pagine coloniali; ma anche
scovare inediti modelli di convivenza, a patto di riconoscere il pluralismo e la creativit culturale
come tratto fondante di quella configurazione politica che chiamiamo Europa, la quale dovrebbe
riconoscere nella porosit e apertura dei suoi confini un aspetto importante del suo essere-nelmondo.
Natura o condizione umana?
Gli antropologi sono, per lo pi, studiosi poco noti al grande pubblico. Con qualche eccezione:
l'americano Marshall Sahlins uno di questi. Nel marzo del 2013, la notizia delle sue dimissioni
dalla prestigiosa Accademia Nazionale delle Scienze statunitense fece il giro del mondo e fu
rilanciata anche dai giornalisti italiani. Sahlins si dimise per polemizzare contro un altro
antropologo, Napoleon Changon e contro la sua ammissione all'Accademia. I metodi di ricerca
utilizzati da Changon tra gli Yanomamo dell'Amazzonia e le sue teorie sociobiologiche della
violenza erano gi state oggetto, in passato, di una vivace reazione nel mondo antropologico, che lo
accusava di praticare un'antropologia pseudo-scientifica che avrebbe rafforzato i peggiori pregiudizi
contro i popoli nativi e avrebbe fornito una giustificazione alle violenze perpetuate nei confronti
delle popolazioni amazzoniche. Sahlins si dimise anche per protesta contro la collaborazione
dell'Accademia con l'esercito Americano per ricerche in aree di guerra. L'Aventino di Sahlins ha
tuttavia anche un obbiettivo pi vasto, quello di segnalare il disappunto verso il ritorno prepotente
di una sorta di monopolio delle scienze biologiche nella definizione della condizione umana, con la
conseguente marginalizzazione degli scienziati sociali e degli umanisti. Non si tratta affatto di una
polemica contro la Scienza, bens contro certi suoi abusi politicamente strumentalizzati. L'uscita del
volume di Wilson, il fondatore della sociobiologia, La conquista sociale della terra, destinata ad
aggiungere nuovo pepe a una vecchia diatriba. Wilson ha rivisto, e non poco, le sue teorie
sociobiologiche degli anni 70. Al centro del processo evolutivo che ha portato a Homo Sapiens,
l'etnomologo americano pone oggi in concetto di eusocialit. L'essere umano, al pari di insetti
come le api, ha scoperto nel tempo di vantaggio adattivo di comportamenti di solidariet e di
altruismo con gli altri membri del gruppo. L'eusocialit umana un processo multilivello.
Nell'uomo convivono l'istinto egoistico di riproduzione individuale e l'istinto altruistico di
riproduzione e successo del gruppo. Questa duplice selezione d vita a forti tensioni in una specie
geneticamente ibrida e chimerica, sempre dilaniata tra egoismo e condivisione. Si potrebbe pensare,
a un primo sguardo, che Wilson abbia accolto le critiche che gli antropologi culturali, sulla scorta
dei loro dati etnografici, opposero a met degli anni 70 all'idea della natura umana egoista e della
selezione della parentela. In realt non cos. L'idea della doppia selezione nasconde una

concezione insieme egoistica e tribalista dell'essere umano. Per Wilson, il tribalismo un tratto
umano fondamentale e la guerra una maledizione ereditaria. L'uomo rinuncia all'egoismo
individuale soltanto per massimizzare i vantaggi del proprio gruppo ai danni di altri. La storia
dell'umanit uno scontro ininterrotto di trib e, in seguito, di civilt. Una spiegaizone malevola
che nell'etnografia Wilson troverebbe tutta una serie di fenomeni difficilmente spiegabili con la sua
teoria della selezione individuale e di gruppo. Come spiegare infatti tutto quel variegato insieme di
scambi, collaborazioni, condivisioni e addirittura simbiosi che uniscono molte societ umane? Il
Wilson di La conquista sociale della terra non nega il ruolo della cultura nella costruzione
dell'essere umano. Wilson, anzi, stato uno dei fondatori della cosiddetta teoria delle co-evoluzione
geni-cultura. Il problema per che questa sorta di Sacro Graal che la natura umana continua a
essere per lui e molti altri studiosi del versante biologico soltanto un terreno profondo, indagabile
unicamente con i metodi delle scienze esatte. Ma, vien da chiedersi: davvero si pu definire la
condizione umana senza riferimenti a tutti quei saperi e comportamenti appresi che si inscrivono s
nella mente del singolo interagendo con le sue predisposizioni innate, ma non entrano a far parte del
suo corredo genetico? Davvero i dati a nostra disposizione ci dicono che fu la violenza e non la
cooperazione e gli scambi culturalmente organizzati tra individui, ma anche tra gruppi la chiave del
processo evolutivo? Al tramonto del post.modernismo, le sirene della verit scientifica tornano a
farsi sentire in modo prepotente. In un clima in cui la verit sull'uomo sembra essere appannaggio
dei laboratori genetici e delle tecnologie dei neuroscienziati, ha ancora senso chiedere a uno
yanomamo, a un pigmeo o a una donna samoana che cosa l'essere umano? Per Sahlins s, ed
forse per questo che si dimesso da un'Accademia per la quale, tutto sommato, le teorie di Changon
giustificano a piene mani la collaborazione con gli eserciti.
Animali e persone
Il ministero dell'ambiente e delle foreste dell'India ha proibito di esibire i delfini in cattivit,
utilizzandoli per spettacoli e intrattenimento. Per la loro intelligenza e sensibilit i delfini, scritto
nel comunicato ministeriale, dovrebbero essere visti come persone non umane e come tali avere i
loro specifici diritti. Pi che a una presunta sensibilit indiana per il mondo animale, la decisione
sembra essere legata agli studi che numerosi scienziati hanno compiuto di recente sui tursiopi e altri
cetacei. Ha senso applicare la nozione di persona a delfini e orche, ma anche a scimmie e primati,
elefanti, cani e altri animali? Una possibilit consiste nel chiedersi se e in che modo le societ non
occidentali abbiano applicato la nozione di persona al di fuori del mondo umano. I racconti di molte
isole polinesiane istituiscono una parentela mitologica proprio tra gli esseri umani e i delfini.
Nell'isola di Futuna si racconta che un giovane, costretto a fuggire nel corso di un combattimento, si
gett in mare da un'alta falesia e si trasform in un delfino, motivo per cui questi ultimi anche oggi
amano intrattenersi con gli esseri umani e seguire le loro imbarcazioni. Si pu trovare un punto di
sintesi che spieghi perch, in societ diverse, delfini e altri animali possano essere definiti persone?
Un sentiero interpretativo ce lo offre Remotti. Mentre la scienza occidentale cerca di fondare la
definizione di persone non umane sulla presenza di caratteristiche sostanziali e ontologiche in
alcuni animali, finendo cos per generare nuove gerarchie e giustificazioni allo sfruttamento e alla
riduzione di alcuni animali a cose, altri popoli privilegiano invece le capacit e le possibilit di
relazione, a discapito delle categorie. Attribuire la persona agli animali sarebbe insomma un buon
modo per riconoscere l'interdipendenza dei viventi.
L'uomo artificiale
Il diffuso ricorso al doping e l'uso di protesi nella pratica sportiva sono esempi lampanti di quel
confine sempre pi labile e discusso tra natura e cultura, tra biologia e tecnologia. Fino a che punto
pu e potr spingersi la manipolazione del corpo e la costruzione di un uomo sempre pi artificiale?
L'artificialit dell'essere umano al centro degli interessi dell'ultimo libro di Antonio Marazzi,
antropologo specialista del Giappone. Per Marazzi l'artificialit va indagata in una duplice
direzione: L'avvicinamento tra uomini e robot avviene dalle 2 parti: i robot si fanno umanoidi,
androidi, gli uomini diventano cyborg, esseri in parte naturali e in parte artificiali. La costruzione
dei robot una faccenda che ovviamente ha a che fare con la scienza e le tecnologie pi avanzate,

ma risente ugualmente delle condizioni storico-culturali in cui prodotta. Mentre negli Stati Uniti
domina la robotica militare, in Giappone la ricerca orientata al settore dei servizi. Sostituti
artificiali di infermieri, badanti, baby-sitter e persino animali domestici appaiono quanto mai
importanti per una societ che ha un'aspettativa di vita molto lunga ed sostanzialmente chiusa
all'immigrazione. Anche se non sempre ci si concilia con esigenze pratiche e funzionali, in
Giappone la tendenza a costruire robot dalle fattezze umane molto pronunciata. Ispirare fiducia
e relazionarsi in modo corretto un tratto importante del comportamento di un umanoide e la
ricerca tenta oggi di sviluppare gli aspetti relazionali e connettivi dei robot. Se i robot si
umanizzano, gli uomini si robotizzano. L'uomo cyborg, provvisto di arti meccanici e pezzi di
ricambio artificiali rappresenta una figura destinata a essere sempre pi presente nella realt della
condizione umana contemporanea. Oggetti come i pacemaker, le anche in titanio, le protesi interne
in plastica sono oggi molto diffusi: la ricerca si concentra sul potenziamento della sensorialit, sia
con la costruzione di organi artificiali sia con la messa a punto di strumenti di interfaccia tra
l'organo stesso e il cervello. I progressi delle neuroscienze ci hanno svelato che l'encefalo umano
molto pi complesso, dinamico, plastico di quanto si immaginasse: l'idea della riproducibilit dei
circuiti neuronali si sta rivelando utopica, e tuttavia microchip sono in grado di assicurare
connessioni efficaci tra la volont di un soggetto e l'effettivo funzionamento di una mano o di un
orecchio bionico. Ancora una volta, come ai tempi di Copernico e di Darwin, si ha la sensazione che
l'idea della singolarit e centralit dell'essere umano vacilli: il carattere meticcio dell'uomo non
pi soltanto il prodotto di relazioni e scambi tra le culture, ma di ibridismi con il mondo animale e
chimico-minerale. Forse proprio questo ibridismo che affascina e spaventa al tempo stesso, in
modo particolare una societ come quella occidentale che si a lungo affidata alla tranquillizzante
opposizione tra natura e cultura.

Vous aimerez peut-être aussi