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La formazione imprigionata:
bisogni, diritti e contraddizioni nel
sistema carcere
Relatore:
Prof. Nedo Baracani
Correlatore:
Prof. Andrea Mannucci
Candidato:
Andrea Ciardelli
Prefazione...............................................................................................7
Capitolo 1 - Il trattamento penitenziario nelle
norme e nella teoria..................................15
1.1 Un cenno storico....................................................................15
1.1.1 Dal supplizio all’assoggettamento................................15
1.1.2 Le teorie della pena.......................................................25
1.2 Il trattamento nelle norme.....................................................33
1.2.1 L’Ordinamento Penitenziario........................................33
1.2.2 Le misure alternative alla detenzione............................37
1.3 Gli attori................................................................................40
1.4 I processi del trattamento......................................................42
Capitolo 2 - La realtà penitenziaria.............................57
2.1 La popolazione carceraria.....................................................60
2.2 I reati......................................................................................80
Capitolo 3 - Devianza, controllo ed esclusione sociale
...................................................................103
3.1 L’identità sociale.................................................................103
3.2 L’altro sotto controllo..........................................................125
3.3 L’altro escluso.....................................................................128
3.4 L’allarme sociale.................................................................132
Capitolo 4 - Carcere e contesto quotidiano.
Tensione e incontro.................................141
4.1 Il contesto dell’osservazione.....................................149
4.2 La metodologia dell’osservazione.............................160
3
Indice
4
Prefazione
5
Prefazione
6
Prefazione
7
Prefazione
8
Prefazione
9
Prefazione
10
Prefazione
Ringraziamenti
11
Prefazione
12
Capitolo Primo
Il trattamento penitenziario
nelle norme e nella teoria
13
Capitolo Primo
1
.Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1976. Orig.:
Surveiller et punir. Naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975. Siamo di fronte ad una vera e
propria tecnologia disciplinare volta alla conservazione ed allo sviluppo del potere sovrano. È
possibile, secondo l’autore, “cercare di studiare la metamorfosi dei metodi punitivi, partendo da una
tecnologia politica del corpo, dove potrebbe leggersi una comune storia dei rapporti di potere e delle
relazioni d’oggetto” (p.27).
2
Ecco un chiaro, anche se truce, esempio di cosa ciò volesse dire a metà del secolo XVIII: “Damiens
era stato condannato, era il 2 marzo 1757, a «fare confessione pubblica davanti alla porta principale
della Chiesa di Parigi», dove doveva essere «condotto e posto dentro una carretta a due ruote, nudo,
in camicia, tenendo una torcia di cera ardente del peso di due libbre»; poi «nella detta carretta, alla
piazza di Grève, e su un patibolo che ivi sarà innalzato, tenagliato alle mammelle, braccia, cosce e
grasso delle gambe, la mano destra tenente in essa il coltello con cui ha commesso il detto parricidio
bruciata con fuoco di zolfo e sui posti dove sarà tanagliato, sarà gettato piombo fuso, olio bollente,
pece bollente, cera e zolfo fusi insieme e in seguito il suo corpo tirato e smembrto da quattro cavalli e
le sue membra e il suo corpo consumati dal fuoco, ridotti in cenere e le sue ceneri gettate al vento”.
(Pièces originales et procédure du procès fait a Robert-François Damiens, 1757, tomo III, cit. in
Michel Foucault, Sorvegliare e punire, cit.., p.5)
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Capitolo Primo
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Capitolo Primo
3
Gli obbiettivi primari della nuova strategia per l’esercizio del potere di castigare sono: “fare della
punizione e della repressione degli illegalismi una funzione regolare, suscettibile di estendersi a tutta
la società; non punire meno, ma punire meglio; punire con una severità forse attenuata, ma per
punire con maggior universalità e necessità; inserire nel corpo sociale, in profondità, il potere di
punire”. (Foucault, Sorvegliare e punire, cit, p.89.)
4
Jean Jacques Rousseau, Il contratto sociale, Milano, Rizzoli, 2005. Orig.: Contrat Social, 1762..
“Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della
volontà generale, e noi, costituiti in corpo, riceviamo ogni membro quale parte indivisibile del tutto ”
(p. 67). […] “istantaneamente, al posto della persona singola di ciascun contraente, quest’atto di
associazione produce un corpo morale e collettivo composto da tanti membri quanti sono i voti
dell’assemblea, il quale riceve da questo stesso atto la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua
volontà” (p. 68).
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Capitolo Primo
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Capitolo Primo
carcere; i risultati furono però la negazione dei diritti e delle garanzie dei
detenuti e l’instaurazione di un clima repressivo all’interno degli istituti
penali. Forse non è secondario osservare come il carcere non sia l’unico
istituto basato su di un modello segregativo-correzionale. Gli ospedali, le
scuole, le fabbriche, le caserme, i conventi sono alcuni degli esempi di
istituzioni in cui tramite una precisa tecnologia disciplinare si punta alla
regolazione della vita di un individuo intesto come anima di cui
impossessarsi e su cui intervenire efficacemente. Si parla infatti di
istituzioni totali.
In epoca illuministica, ci ricorda ancora Foucault, l’intervento sulle
“anime” usava come strumento principale il lavoro. Non un lavoro
qualunque, esso doveva avere carattere pubblico, il detenuto lavoratore
doveva essere visto da tutti. Il criminale veniva inviato a lavorare sulle
strade e le piazze. Soltanto così si pensava potessero integrarsi tutte le
funzioni moralizzatrici che i riformisti avevano attribuito alla pena. Le
prigioni, inoltre, avevano costi di manutenzione notevoli per cui i
detenuti erano tenuti a lavorare per rifondere le spese per loro sostenute
dal carcere. Un carcere aveva tra i maggiori costi da sostenere quello
della manutenzione di un adeguato sistema di controllo e sorveglianza
che assicurasse l’attuazione della tecnologia della disciplina. Perché
possa dirsi efficace, la sorveglianza deve essere continua, ma per poter
essere tale il numero dei sorveglianti dovrebbe essere enorme. Una
soluzione pare essere quella di modificare le strutture fisiche degli istituti
penali secondo le intuizioni del filosofo Jeremy Bentham che, nel 1791,
culminarono nell’idea del “Panopticon”.
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Capitolo Primo
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Capitolo Primo
apparato efficace.11
Ciò che è avvenuto, come si può osservare, è una mutazione del
concetto stesso di disciplina. Mutuato dal gergo militare, col termine
disciplina si intendeva, nell’età classica, tutto l’insieme delle pratiche
volte a neutralizzare i pericoli, sia di crimini, sia di diserzioni; adesso,
nell’età moderna, la società borghese ne orienta il significato verso
direzioni più positive: è uno strumento per accrescere le capacità e
9
Cfr. Gaetano De Leo, Psicologia della responsabilità, Roma-Bari, Laterza, 1996
10
Cfr. Di Gennaro, Breda, La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione,
Milano, Giuffré, 1997
11
“La disciplina fabbrica, partendo dai corpi che essa controlla, quatto tipi di individualità, o
piuttosto una individualità che è costituita da quattro caratteri: essa è cellulare (attraverso il gioco
della ripartizione spaziale), è organica (attraverso la codificazione delle attività), è genetica
(attraverso il cumulo del tempo), è combinatoria (attraverso la composizione delle forze). E per far
questo mette in opera quattro grandi tecniche: costruisce dei quadri, prescrive delle manovre, impone
degli esercizi, e infine, per assicurare la combinazione delle forze, organizza delle «tattiche»”.
(Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p.183)
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scopi attribuiti alla punizione. Siamo di fronte a due visioni della finalità
penale, una, cosiddetta positiva, assegna alla pena funzioni di
modificazione del comportamento del detenuto e mira ad obbiettivi
futuri; l’altra, negativa, più pessimisticamente della precedente, intende
la carcerazione come uno strumento per neutralizzare il soggetto.
Entrambe queste finalità sono racchiuse nelle teorie che si rifanno alla
prevenzione speciale. Una prima visione, di tipo moralistico, si basa
sulle scritture sacre e, quindi, sulla concezione espiatoria della punizione
in vista del reinserimento nella società.
Un’altra teoria trae origine dalla visione positivistica che vede il
delinquente come geneticamente o socio-culturalmente inferiore per
distaccarsene, soprattutto laddove si suppone la totale incorreggibilità
del reo e quindi socialmente pericoloso per natura. Al centro della
questione, i sostenitori della Nuova Difesa Sociale, collocavano la
responsabilità sociale che poteva essere recuperata mediante un
intervento che, per molti aspetti, precorreva più di altri quello che ai
nostri giorni chiamiamo trattamento. Si parla, infatti, della necessità di
rimuovere le cause che hanno portato a compiere il reato. Questa
operazione usava strumenti come un trattamento individualizzato, alcune
misure alternative alla pena detentiva e l’osservazione scientifica della
personalità. Quest’ultima doveva consistere in controlli medici e
psichiatrici, nonché in accertamenti sociologici, il tutto finalizzato ad
una prognosi a partire dalla quale veniva eventualmente decisa
l’applicazione della misura alternativa17.
Accanto agli orientamenti moralistico e scientifico troviamo, infine,
le teorie special-preventive della differenziazione personalizzata secondo
17
Cfr. Marc Ancel, La nuova difesa sociale, Milano, Giuffré, 1966
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cui il reo deve essere condannato ad una pena che rispecchi le sue
caratteristiche personali ma che, comunque, non perda di vista ma, anzi,
integri il più possibile le finalità di risocializzazione, intimidazione e
neutralizzazione del condannato.
Tutte queste teorie, pur evidenziando le rispettive differenze, hanno
un punto comune, una sorta di minimo comun denominatore,
rappresentato dalla medesima prospettiva riguardo al reato visto non
tanto come scelta individuale libera ed autodeterminata, quanto,
piuttosto, come sintomo di una malattia della sfera morale, sociale o
naturale. Il carcere non può che essere visto come l’istituzione preposta
alla cura che, differentemente da ciò che avviene laddove di cura si parla
più propriamente, cioè l’ospedale, ciò su cui agisce la “terapia” non è la
fisicità ma la personalità dell’individuo. Che si sia orientati alla sua
neutralizzazione o alla sua trasformazione ciò che emerge è la natura
manipolatoria che la pena deve mantenere viva in se stessa. La sanzione
non riesce ancora a uscire dalla rigida e ripetitiva conformazione, di
stampo feudale, che la assimila ad un percorso unidirezionale il cui
punto di partenza è sempre il sovrano, chiunque egli sia, dotato di potere
discrezionale sui subordinati destinati, loro malgrado, a subire tale
potere. L’uomo non è più un corpo su cui mandare in scena la
rappresentazione del dolore, egli è un’anima bacata da modificare, una
vita da porre “sulla retta via”. Ma chi stabilisce quale sia la “retta via”?
Le sacre scritture, il contratto sociale o l’utile? Oppure qualcos’altro?
Inoltre, le finalità di risocializzazione, intimidazione e neutralizzazione
si rivelano puramente teoriche e si scontrano con alcuni dati di fatto
come l’alto tasso di recidività, la dimostrata azione criminogena della
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Esse, infatti, “assegnano alle pene funzioni di integrazione sociale tramite il generale
rafforzamento della fedeltà allo Stato nonché la promozione del conformismo delle condotte” (Luigi
Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, Laterza, 1989, p. 263)
19
Emile Durkheim, Due leggi dell’evoluzione penale, in Emilio Santoro (a cura di), Carcere e società
liberale, Torino, Giappichelli, 1997.
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Sentenza Corte Costituzionale n.313 del 26 giugno 1990
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Erving Goffman,.Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza,
Torino, Einaudi, 2003. Orig. Asylums. Essays on the social situation of mental patients and other
inmates, Random House, 1961. L’autore definisce così le istituzioni totali: “Nella nostra società
occidentale ci sono tipi diversi di istituzioni, alcune delle quali agiscono con un potere inglobante –
seppur discontinuo – più penetrante di altre. Questo carattere inglobante o totale è simbolizzato
nell’impedimento dello scambio sociale e all’uscita verso il mondo esterno, spesso concretamente
fondato nelle stesse strutture fisiche dell’istituzione: porte chiuse, alte mura, filo spinato, rocce, corsi
d’acqua, foreste o brughiere. Questo tipo di istituzioni il lo chiamo «istituzioni totali»”(p.34). Secondo
Goffman le istituzioni totali, compreso il carcere, sono luoghi dove troviamo integrate in un unico luogo
caratteristiche riscontrabili singolarmente in altre istituzioni:
1. attività che normalmente l’uomo svolge in luoghi diversi, con compagni diversi sotto diverse
autorità o senza alcuno schema razionale di carattere globale, come dormire, divertirsi e lavorare,
vengono praticate nello stesso luogo e sotto la stessa, unica autorità;
2. queste attività quotidiane si svolgono a stretto contatto con un enorme gruppo di persone (gli
internati) trattati allo stesso modo ed obbligati a fare le stesse cose;
3. le medesime attività sono programmate rigidamente tramite un sistema di regole formali imposte
dall’alto la cui esecuzione è controllata da addetti speciali (lo staff)
4. il tutto è finalizzato al raggiungimento degli scopi ufficiali che la stessa istituzione si prefigge
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Secondo alcuni studiosi, l’appartenenza ad alcune categorie, in particolare i migranti, costituirebbe
elemento sufficiente a determinarne la propensione a delinquere. (Cfr. Marzio Barbagli, Immigrazione
e criminalità in Italia, Bologna, Il Mulino, 1998)
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Capitolo Primo
pena pur se con i dovuti distinguo fondati sulle diverse prospettive da cui
esse vengono analizzate.
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Per il testo integrale (in inglese) vedi: http://www.ohchr.org/english/law/treatmentprisoners.htm
25
Ivi, Art.49
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In particolare all’Art.27 c.3 Cost.: Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso
di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato
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Capitolo Primo
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Per comprendere in cosa dovrebbe consistere la scientificità dell’osservazione della personalità, è
forse utile fare un passo indietro fino agli inizi degli anni ’60. Siamo negli anni in cui si sperimentano
i primi istituti di osservazione, Rebibbia in primis, e si coltiva l’illusione che la risoluzione dei
problemi dei detenuti passi unicamente attraverso la rilevazione e la classificazione scientifica delle
loro anomalie biopsichiche. La scientificità dell’operazione viene assicurata dall’integrazione degli
interventi di professionisti specializzati: psicologi, psichiatri, medici internisti, elettroencefalografisti,
educatori e assistenti sociali. È su queste basi “scientifiche” che si basa, nel giugno del 1960, l’allora
ministro Gonella, quando coordina un gruppo di magistrati della Direzione Generale degli Istituti di
Prevenzione e Pena nell’elaborazione di un progetto di legge sul carcere che opera nel chiuso di un
comitato di studio ben lontano dall’assemblea parlamentare, particolare tra l’altro di cui alcuni
studiosi hanno annotato l’autocentrismo e la preoccupante mancanza di controllo democratico (Cfr.
Guido Neppi Modona, Appunti per una storia parlamentare della riforma penitenziaria, in La
questione criminale, 1976, n.2-3).
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Atti parlamentari, Senato della Repubblica Italiana, VI Legislatura, Commissione Giustizia, seduta
del 7 novembre 1973. È difficile poter pensare che, parlando di incomunicabilità tra carcere e mondo
esterno, il ministro non avesse in mente anche il comitato di studio del disegno di legge Gonella del
1960.
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Art.47 O.P. come modificato dall’art.2 della Legge del 27 maggio 1998 n.165, Legge Simeone-
Saraceni
30
Art.94 D.P.R. 309/90, Testo unico in materia di stupefacenti, che va a sostituire l’Art.47-bis
dell’Ordinamento Penitenziario che riguardava l’affidamento in prova in casi particolari.
Lo stesso decreto sugli stupefacenti, all’Art.90, prevede la misura della sospensione della pena
detentiva per coloro che, tossicodipendenti al momento del reato, abbiano già in corso un programma
terapeutico o lo abbiano positivamente concluso. Da notare che, nei due casi qui sopra descritti, per
poter usufruire del beneficio la pena detentiva, inflitta o residua, non deve essere superiore a quattro
anni, uno in più rispetto a persone non tossicodipendenti.
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Art.47-ter O.P. introdotto dalla Legge 663 del 10 ottobre 1986, Legge Gozzini, e rivisto dalla già
citata Legge Simeone-Saraceni del ’98 che ha ampliato le possibilità di usufruire del beneficio.
32
Regolamentata dall’art.48 O.P. e delineata nei requisiti di ammissione con il successivo art.50
33
Indicati nello stesso Ordinamento Penitenziario all’art.4-bis c.1
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Capitolo Primo
dell’analisi dei bisogni del soggetto portando l’attenzione, oltre che sugli
aspetti “fisio-psichici” di lombrosiana memoria, anche sulla sfera
affettivo-relazionale37.
Il successivo art.29 indica coloro che sono preposti alla redazione
del documento di sintesi sul trattamento individualizzato riunendoli nel
“Gruppo di Osservazione e Trattamento (GOT)” che deve essere
composto dal “personale e dagli esperti che hanno svolto le attività di
osservazione”.
Uno dei motivi che hanno spinto il legislatore a spostare il
Magistrato fuori dal carcere vero e proprio sta, con tutta probabilità,
nella filosofia che lo ha spinto ad elaborare l’intera legge di riforma. Il
tentativo era quello di spostare il baricentro della pena dalla funzione
retributiva, giuridico-centrica per natura, verso prospettive
maggiormente inclini a considerare il detenuto come un uomo da
sostenere e condurre verso una completa riabilitazione sociale.
Probabilmente, si è pensato, il fatto di lasciare il trattamento
maggiormente in mano alle nuove figure introdotte proprio dalla riforma,
l’educatore e l’assistente sociale dell’area esterna, avrebbe dato una
spallata decisiva alla mentalità securitaria allora, come oggi, tuttavia,
preminente. Nella realtà molte di queste buone intenzioni sono rimaste
sulla carta non completate da un’adeguata e coerente distribuzione delle
competenze e delle mansioni delle nuove figure professionali. In ipotesi
37
Ivi, Art.27 c. 1 e 2: “[…]l’osservazione scientifica della personalità è diretta all’accertamento dei
bisogni di ciascun soggetto connessi alle eventuali carenze fisio-psichiche, affettive, educative e
sociali che sono state di pregiudizio all’instaurazione di una normale vita di relazione. Ai fini
dell’osservazione si provvede all’acquisizione dei dati giudiziari e penitenziari, biologici, psicologici
e sociali e alla loro valutazione con riferimento al modo in cui il soggetto ha vissuto le sue esperienze
e alla sua attuale disponibilità ad usufruire degli interventi di trattamento
All’inizio dell’esecuzione, l’osservazione è specificamente rivolta, con la collaborazione del
condannato e dell’internato, a desumere elementi per la formulazione del programma
individualizzato di trattamento, il quale è compilato nel termine di nove mesi..”
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Capitolo Primo
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Libert
à
Figura 1 - Metafora grafica del trattamento come percorso formativo ideale nel contesto penale
Percorso formativo
(trattamento)
Fine pena
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Tabella 1 – Atti di autolesionismo e decessi negli istituti di pena italiani per detenuti italiani e
stranieri – anno 2006*
(ns. elaborazione su dati DAP)
Tabella 2 - Atti di autolesionismo e decessi negli istituti di pena italiani per posizione giuridica –
anno 2006*
(ns. elaborazione su dati DAP)
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Capitolo Secondo
La realtà penitenziaria
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Per capire il mondo carcere nella sua realtà un riferimento fondamentale è: S. Anastasia – P.
Gonnella (a cura di), Inchiesta sulle carceri italiane, Roma, Carocci, 2002
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Capitolo Secondo
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Capitolo Secondo
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Capitolo Secondo
Chi sono e quali sono i ruoli dei vari operatori che in esse lavorano?
Quali e quante sono le risorse disponibili per ottemperare alle
disposizioni in tema di trattamento penitenziario?
Queste riteniamo siano alcune delle domande le cui risposte sono
indispensabili per delineare il livello dell’effettività del sistema
carcerario e, soprattutto, della reale applicazione, in questo sistema, dei
principi costituzionali di umanità delle pene e tendenza alla
rieducazione. In sostanza, il dettato costituzionale, nella parte in cui,
seppur timidamente, orienta la pena verso obbiettivi di umanità e
rieducazione, è stato attuato nei fatti, oppure e in quale misura è stato
disatteso o misinterpretato?
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Capitolo Secondo
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Cfr. Regione Toscana – Fondazione Michelucci, Rapporto sugli istituti penitenziari 2006, coord.
Alessandro Margara. Va ricordato che nel 1990 c’era stato un provvedimento di clemenza e che
quindi quell’anno registra un abbassamento della quota di detenuti.
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I dati sulla popolazione detenuta, salvo diversa indicazione, provengono dal Ministero della
Giustizia, Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria e fanno riferimento alla rilevazione di
fine anno 2005. Questa scelta si giustifica con una maggiore stabilità, rispetto agli anni precedenti,
dovuta essenzialmente al varo dell’indulto che, nel corso del 2006, ha sì ridotto la quota dei detenuti
presenti in carcere ma, non essendo stato seguito da sostanziali modifiche strutturali, soprattutto
riguardo alcune leggi che, nel corso degli anni, hanno contribuito al colossale incremento della
prisonizzazione, nei fatti crediamo di poter affermare con una certa tranquillità che i suoi effetti siano
soltanto temporanei e destinati a scomparire entro breve.
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Capitolo Secondo
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Capitolo Secondo
2% 4%
35%
Imputati
42% Condannati
54%
Internati
63%
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Capitolo Secondo
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A titolo esemplificativo possiamo osservare che, come risulta dai dati ISTAT relativi al 2004, a
fronte di un totale di 82.275 persone entrate in carcere nell’arco dell’anno in questione, ben 70.728
varcavano la soglia del penitenziario senza ancora una condanna definitiva e, di questi, 10.703 (circa
uno su sette) venivano successivamente rimessi il libertà con una delle seguenti motivazioni:
decorrenza dei termini, revoca o sospensione della custodia cautelare; mancata convalida e revoca di
fermo e arresto; proscioglimento.
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Capitolo Secondo
Custodia cautelare
posizione
Fino a 3 Da 3 a 6 Da 6 a 12 Da 12 a 18 Oltre 18
giuridica Totale
mesi mesi mesi mesi mesi
in attesa
5.057 2.334 2.423 685 1.042 11.541
primo giudizio
appellanti e
2.353 2.086 1.332 947 1.777 8.495
ricorrenti
Totale
7.410 4.420 3.755 1.632 2.819 20.036
imputati
Tabella 5 - Detenuti imputati presenti al 31 dicembre 2004 negli istituti di prevenzione e pena
per adulti per periodo di custodia cautelare trascorso dalla data di arresto
(ns. elaborazione su dati D.A.P.)
9%
21%
6%
27%
44%
21% 11%
16% 25%
20%
14%
22%
Totale imputati
Grafico 2 - Detenuti imputati presenti al 31 dicembre 2004 negli istituti di prevenzione e pena
per adulti per periodo di custodia cautelare trascorso dalla data di arresto
(ns. elaborazione su dati D.A.P.)
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Capitolo Secondo
Dai grafici uno dei dati che maggiormente risaltano è il 36% delle
persone che, almeno nell’anno preso in questione, hanno superato i sei
mesi di reclusione pur senza aver avuto alcun giudizio penale. Di questi,
ben il 15% è in carcere da più di un anno.
Oltre alle attività trattamentali, la norma prevede che, per i ristretti,
le istituzioni debbano prendersi cura anche della famiglia, in funzione
della verifica delle possibilità e delle modalità di rientro nel proprio
ambiente. Per far questo esiste un apposito settore dell’amministrazione
penitenziaria che fa capo all’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna, già
denominato Centro Servizi Sociali Adulti. Gli scopi dell’UEPE si
possono riassumere con la gestione dei rapporti tra detenuto ed esterno,
in particolare i familiari, da operare, all’interno del carcere, tramite
colloqui personali con i soggetti e, all’esterno, per mezzo di indagini
socio-familiari. L’organizzazione dell’UEPE prevede che esso si attivi
soltanto per i detenuti condannati mentre, come abbiamo visto, questi
rappresentano soltanto una parte del totale dei ristretti e neppure la più
disagiata. Quindi, per la marea di persone che affollano le nostre prigioni
pur senza aver subito condanne definitive, il trattamento, nella parte in
cui prevede l’agevolazione dei rapporti con la famiglia e la comunità
esterna, spesso e volentieri neppure comincia.
Non cambia molto per quanto riguarda il trattamento interno
all’istituto. Per la verità un trattamento valido per tutti esiste ed è quello
applicato dagli anziani, da coloro cioè che hanno acquisito e consolidato
l’identità deviante, nei confronti dei più giovani, soprattutto se si pensa
che quelli al di sotto dei 34 anni, quando cioè l’identità non è ancora del
tutto definita, rappresentano il 45% del totale 48. Per ridurre i danni da
48
Fonte DAP al 31/12/2005
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Capitolo Secondo
49
Il quadro delle presenze del volontariato nelle carceri italiane nel 2004, anno dell’ultima rilevazione
della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, vede un totale di 7.792 operatori di cui 6.611
entrati con l’art.17 e 1.181 con l’art.78, con una media di circa nove detenuti per volontario.
66
Capitolo Secondo
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Capitolo Secondo
68
Capitolo Secondo
51
Molti sono gli autori che sostengono la deriva in senso poliziesco e penale cui la nostra società è
sottoposta dai vari livelli di potere. Tra questi, uno dei maggiormente convincenti con le sue vivaci
argomentazioni è sicuramente Wacquant: Loïc Wacquant, Parola d’ordine: tolleranza zero. La
trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, Milano, Feltrinelli, 2000. Lo stesso autore
prosegue il discorso e rincara la dose con il successivo Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica
penale, Verona, Ombre Corte, 2002.
69
Capitolo Secondo
70
Capitolo Secondo
Graficamente:
Se rie storica de te nuti pre se nti suddivisi pe r ital i ani e strani e ri
70
60
detenuti presenti (migliaia)
50
40 Stranieri
30 Italiani
20
10
0
1977
1978
1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1987
1990
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
1976
1979
1988
1989
1991
71
Capitolo Secondo
120
100
detenuti entrati (migliaia)
80
Ingressi Stranieri
60
Ingressi Italiani
40
20
0
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
Grafico 4 - – Ingressi dalla libertà negli istituti penitenziari italiani suddivisi per italiani e
stranieri
Serie storica 1991-2006
(Ns. elaborazione su dati DAP)
72
Capitolo Secondo
100%
80%
percentuale
60%
ingressi italiani
ingressi stranieri
40%
20%
0%
1997
2000
2002
2005
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1998
1999
2001
2003
2004
2006
anno di rilevazione
Grafico 5 – Andamento grafico del rapporto italiani/stranieri tra gli ingressi dalla libertà dal
1991al 2006
(Ns. elaborazione su dati DAP)
52
Barbagli, Immigrazione e criminalità in Italia, cit.
53
Alessandro Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Milano,
Feltrinelli, 2005
73
Capitolo Secondo
74
Capitolo Secondo
75
Capitolo Secondo
12000
ingressi per T.U immigrazione
10000
8000
6000 11.116
9.800
4000
2000
2.469
0
gen.04-set.04 gen.05-set.05 gen.06-set.06
periodo di rilevaz ione
Grafico 6 – Ingressi in istituto di soggetti provenienti dalla libertà con ascritti reati di cui al T.U.
sull’immigrazione
(Fonte: Rapporto DAP, Popolazione detenuta. Confronto situazione prima e dopo l’indulto , Settembre 2006)
76
Capitolo Secondo
rapporto posizione
Tipo Istituto Totale detenuti
giuridica
CASE DI RECLUSIONE
Condannati 8.466 91%
Imputati 793 9%
Totale 9.259
CASE CIRCONDARIALI
Condannati 29.622 59%
Imputati 20.980 41%
Totale 50.602
ISTITUTI PER LE MISURE DI SICUREZZA
Condannati 1.356 97%
Imputati 47 3%
Totale 1.403
Totale generale 61.264
2.2 I reati
È il momento di andare ad osservare quella che è la conditio sine
qua non della detenzione di un individuo, cioè l’aver commesso un
reato, l’aver subìto una condanna e, di conseguenza, lo scontarla in un
penitenziario. Crediamo che il fenomeno vada studiato su tre livelli:
1. esiste una reale corrispondenza tra il commettere un reato ed il
subirne le conseguenze legali, come sostenuto dai fautori del
77
Capitolo Secondo
55
Dati ISTAT. Per delitti denunciati si fa riferimento ai delitti denunciati per i quali l'Autorità
giudiziaria ha iniziato l'azione penale.
78
Capitolo Secondo
56
In tabella abbiamo riportato i dati aggregati per tipo di delitto. Più approfonditamente l’elencazione
statistica si suddivide in secondo questa nomenclatura:
• Reati contro la persona
o Contro la vita
o Contro l’incolumità e la libertà individuale
o Ingiurie e diffamazioni
• Contro la famiglia, la moralità ecc.
o Contro la famiglia
o Contro la moralità pubblica e il buon costume
o Contro il sentimento per gli animali
o Interruzione della gravidanza
• Contro il patrimonio
o Furto
o Rapina
o Estorsione
o Sequestro di persona
o Danni a cose, animali, terreni ecc.
o Truffa ed altre frodi
• Contro l’economia e la fede pubblica
o Contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio
o Contro l’incolumità pubblica (in cui è compresa la produzione e lo spaccio di
stupefacenti)
o Contro la fede pubblica
• Contro lo Stato, le altre istituzioni sociali e l’ordine pubblico
o Contro la personalità dello Stato
o Contro la pubblica amministrazione (che comprende anche il delitto di violenza e
resistenza)
o Contro l’amministrazione della giustizia
o Contro il sentimento religioso
o Contro l’ordine pubblico (in cui è compreso il reato di associazione di stampo
mafioso)
• Altri delitti
o Tutti i delitti non compresi nei precedenti elencati
79
Capitolo Secondo
80
Capitolo Secondo
57
L’affidamento in prova ai servizi sociali è la prima misura alternativa che si incontra
nell’Ordinamento Penitenziario, all’art.47. Esso può essere concesso se la pena detentiva o parte
residua di essa non sia superiore ai tre anni. Una volta ottenuto l’affidamento ai servizi sociali, il
condannato sconta la pena fuori dal carcere. A loro volta i servizi sociali collocano il soggetto presso
un’azienda, una cooperativa o altro luogo dove egli svolge un lavoro che, di norma, è proposto dallo
stesso condannato. L’affidato, è sostanzialmente una persona libera che deve soltanto seguire degli
obblighi o prescrizioni, come, per esempio, il rientro a casa ad orari prefissati, il divieto di allontanarsi
dalla provincia ecc. Al controllo delle prescrizioni è preposto l’UEPE di competenza.
81
Capitolo Secondo
5%
14%
Fino a 3 anni
Da 3 a 6 anni
19% Da 6 a 20 anni
O ltre 20 anni
62%
82
Capitolo Secondo
83
Capitolo Secondo
84
Capitolo Secondo
60
Nell’anno 2004 si sono sommate 27.358 istanze di affidamento in prova ai servizi sociali di cui ne
sono state approvate la metà circa, 13.452. Mentre, per quanto concerne i permessi premio, sempre
nello stesso anno ne sono stati richiesti 48.853 e concessi 22.982, anche in questo caso più o meno il
cinquanta percento. (Fonte ISTAT)
61
Personalmente abbiamo avuto modo di constatare, durante l’esperienza di tirocinio nel carcere di
Pisa, come alcune istanze di concessione di benefici venissero accettate e rese operative anche dopo
ben sette mesi dalla loro proposizione. Un caso tra molti è quello di una ragazza di origine nigeriana,
arrestata per violazione della legge immigrazione, alla quale l’avvocato consigliò di rinunciare a
proporre l’istanza di detenzione domiciliare in quanto la risposta del giudice sarebbe presumibilmente
giunta oltre la durata della permanenza in carcere.
85
Capitolo Secondo
86
Capitolo Secondo
62
Quest’ultimo dato, come vedremo, è destinato a tornare sui livelli pre-indulto ed a superarli a meno
di improbabili drastici smantellamenti delle leggi Bossi-Fini sull’immigrazione e Fini-Giovanardi
sulle tossicodipendenze.
63
La spesa spesa prevista e finanziata per l’anno 2007 riguardo questi due reparti ammonta a ben
300.000 Euro circa. È, inoltre, all’esame dell’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia la
costituzione della Fanfara a Cavallo del Corpo di Polizia Penitenziaria. Temiamo che questo
indispensabile reparto possa distogliere ulteriore personale, e risorse finanziarie.
64
Fonte DAP.
87
Capitolo Secondo
Rapporto
Numero di Personale di
detenuti/personale di
detenuti custodia
custodia
1 Azerbajan 18.259 183 99,8
2 Ukraine 1.934.489 23.912 80,9
3 UK: Scotland 68.885 3.221 21,4
The former Yugoslav
4 Republic of Macedonia 1.747 250 7,0
5 Poland 79.344 13.410 5,9
6 Moldova 10.383 1.756 5,9
7 Bulgaria 10.935 1.966 5,6
8 Hungary 16.410 3.061 5,4
9 Romania 40.085 7.963 5,0
10 Lithuania 7.827 1.918 4,1
11 Spain: Catalonia 7.922 1.970 4,0
12 Latvia 7.731 2.030 3,8
13 Estonia 4.565 1.232 3,7
14 Spain: Rest of Spain 51.302 13.886 3,7
15 Turkey 71.148 20.004 3,6
16 Bh. Rep. Srpska 977 302 3,2
17 Armenia 2.727 881 3,1
18 Slovak Republic 9.504 3.109 3,1
19 Germany 79.676 28.194 2,8
20 Netherlands 20.075 7.528 2,7
21 France 56.271 21.109 2,7
22 Luxembourg 548 216 2,5
23 BH. Federazion BH 1.247 494 2,5
24 Slovenia 1.126 451 2,5
25 UK: England and Wales 74.488 30.633 2,4
26 Finland 3.446 1.562 2,2
27 Croatia 2.846 1.298 2,2
28 Switzerland 6.021 2.964 2,0
29 Iceland 115 63 1,8
30 Cryprus 546 306 1,8
31 Liechtenstein 7 4 1,8
32 Sweden 7.332 4.725 1,6
33 Denmark 3.762 2.487 1,5
34 ITALY 56.090 40.130 1,4
35 UK: Northern Ireland 1.295 1.171 1,1
Norway 2.975 --- ---
San Marino --- --- ---
Tabella 11 – Rapporto tra detenuti presenti e personale di custodia
nei paesi del Consiglio d’Europa
Situazione al 1 settembre 2004
(Ns. elaborazione su dati COE)65
65
Consiglio d’Europa, SPACE I, Council of Europe Annual Penal Statistics, Survey 2004, a cura di
Marcelo F. Aebi, Università di Losanna e Università Autonoma di Barcellona, Strasburgo, 7
novembre 2005
88
Capitolo Secondo
89
Capitolo Secondo
Distacchi
Forza Forza Assenze % assenti
Istituto penitenziario In Fuori Operante66
amministrata vario titolo su F.O.
sede sede
CR Arezzo 69 4 3 70 24 34%
CCF Empoli 38 2 9 31 14 45%
CC Firenze "Mario Gozzini" 54 3 8 49 21 43%
CC Firenze "Sollicciano" 610 15 92 533 67 13%
CC Grosseto 32 1 1 32 10 31%
CR Isola di Gorgona 143 5 17 131 28 21%
CC Livorno 257 10 22 245 97 40%
CC Lucca 102 2 3 101 32 32%
CR Massa 129 22 5 146 43 29%
CC Massa Marittima 54 2 9 47 14 30%
OPG Montelupo Fiorentino 83 2 3 82 22 27%
CC Pisa 221 7 20 208 83 40%
CC Pistoia 65 6 11 60 19 32%
CR Porto Azzurro 201 7 31 177 83 47%
CC Prato 282 7 26 263 88 33%
CR S.Gimignano 182 1 10 173 73 42%
CC Siena 44 2 4 42 13 31%
CR Volterra 94 0 9 85 36 42%
Totali 2.660 98 283 2.475 767 31%
Tabella 12 - La polizia penitenziaria negli istituti di pena toscani per forza amministrata, forza
operante e assenze in valore assoluto e percentuale sul totale operante.
(ns. elaborazione su dati PRAP riferiti al 27 settembre 2004)
66
Per forza operante si intende quella realmente utilizzabile per i servizi giornalieri. Pertanto dalla
forza amministrata viene defalcato il personale distaccato in uscita ed aggiunto il personale distaccato
in entrata (nel nostro caso 2.660-283+98=2.475).
90
Capitolo Secondo
Forza Detenuti
Istituto penitenziario Detenuti/F.O.
Operante presenti
91
Capitolo Secondo
Personale di Polizia
Detenuti presenti Detenuti/Personale di
Regione Penitenziaria
(31/12/2006) Pol. Penit.
(23/1/2007)
Piemonte 2.738 3.230 0,85
Valle d' aosta 126 163 0,77
Lombardia 6.453 4.887 1,32
Trentino 226 240 0,94
Veneto 1.768 1.691 1,05
Friuli v. Giulia 457 556 0,82
Liguria 833 1.088 0,77
Emilia romagna 2.945 2.124 1,39
Totale NORD 15.546 13.979 1,11
Toscana 2.864 2.696 1,06
Marche 622 718 0,87
Umbria 665 848 0,78
Lazio 3.900 5.136 0,76
Totale CENTRO 8.051 9.398 0,86
Abruzzo 1.062 1.393 0,76
Molise 207 356 0,58
Campania 5.312 4.975 1,07
Basilicata 298 495 0,60
Calabria 1.465 1.830 0,80
Puglia 2.165 2.815 0,77
Sicilia 3.789 5.102 0,74
Sardegna 1.110 1.322 0,84
Totale SUD e ISOLE 15.408 18.288 0,84
Totale Italia 39.005 41.665 0,94
Tabella 14 - Confronto tra personale di Polizia Penitenziaria e detenuti presenti, dopo l’indulto,
suddivisi per regione
(ns. elaborazione su dati DAP)
92
Capitolo Secondo
67
E i detenuti? Non sono forse loro le principali vittime del sovraffollamento, visto che spesso e
volentieri si trovano, loro sì, a dover condividere 24 ore su 24 nove metri quadri di cella con altri due
o tre compagni oltretutto che non si sono neppure scelti? Riguardo l’irreversibile inferiorità numerica
rispetto ai detenuti parrebbe espliciti la visione della sorveglianza come un campo di battaglia dove
l’inferiorità numerica può effettivamente essere determinante per rimediare una sconfitta. Solo che il
carcere non è un campo di battaglia.
68
Ma, se da un lato si chiede la riduzione del numero dei detenuti lasciando in carcere chi veramente
deve starci, perché chiedere nuove assunzioni quando basterebbe destinare altrove il personale (già in
esubero, come abbiamo abbondantemente osservato) attualmente destinato all’esecuzione interna?
93
Capitolo Secondo
94
Capitolo Secondo
e le battaglie tuttora in atto contro questo dispositivo nei paesi dove è utilizzato, ci pare che sia lungi
dal dare di sé prova di indubbia positività.
72
A quale scopo controllare una misura che dà, pur con le normali eccezioni e difetti, prova di
efficacia pur senza polizia penitenziaria e/o dispositivi elettronici di controllo? Se l’intento fosse
quello di evitare la reiterazione dei reati l’innovazione andrebbe a riguardare le migliaia di persone
attualmente in misura alternativa alla detenzione quando coloro che ne subiscono la revoca per
recidiva sarebbero soltanto lo 0,14% (7 recidivi nel primo semestre del 2007 su un totale di 7.304
soggetti in misura alternativa) (Fonte: dati DAP)
73
Comunicato stampa del SAPPE pubblicato da “Redattore Sociale” il 6 dicembre 2007.
95
Capitolo Secondo
96
Capitolo Secondo
77
L.354/75, Art.15 c.1.
97
Capitolo Secondo
98
Capitolo Secondo
78
Sulle domandine dei detenuti e su ciò che rappresentano dell’intera fenomenologia carceraria, una
vera pena nella pena, fondamentale è il testo di Pietro Buffa, I territori della pena, Torino, Gruppo
Abele, 2007.
99
Capitolo Terzo
Devianza, controllo ed esclusione sociale
79
trad.it. William I. Thomas – Florian Znaniecki, Il contadino polacco in Europa e in America,
Milano, Edizioni di Comunità, 1968
100
Capitolo Terzo
101
Capitolo Terzo
102
Capitolo Terzo
85
“La Repubblica romana dell’antichità è un classico esempio di uno stadio di sviluppo in cui
l’appartenenza alla famiglia, alla stirpe o allo Stato, ossia l’identità-Noi del singolo aveva un peso
superiore a quello di oggi nell’equilibrio Io-Noi”. (Elias, La società degli individui, cit., p. 179)
86
“Una delle tante singolarità della situazione attuale è il fatto che anche su questo piano
l’immagine-Noi, l’identità-Noi della maggioranza degli uomini arranca faticosamente dietro la realtà
del livello effettivo di integrazione; l’immagine-Noi resta assai lontana rispetto alla realtà delle
interdipendenze globali e dunque anche della possibile distruzione dello spazio vitale comune ad
opera di singoli gruppi umani”. (Elias, La società degli individui, cit., pp. 259-260)
87
Harold Garfinkel, Che cos'è l'etnometodologia, in: Pier Paolo Giglioli, Alessandro Dal Lago,
Etnometodologia, Bologna, Il Mulino, 1983
103
Capitolo Terzo
88
Quella proposta da Garfinkel è una particolare elaborazione del postulato dell’interpretazione
soggettiva nelle scienze sociali la cui origine si può situare nell’affermazione di Alfred Schütz che
asserisce: “io non posso comprendere un oggetto culturale senza riferirmi all'attività umana che lo ha
prodotto”. (Alfred Schütz, Le chercheur et le quotidien, Paris, Méridiens Klincksieck, 1987, pag.15).
Interessante è anche il concetto di «straniero» così come espresso dallo stesso autore in un saggio del
1944 dove egli afferma che straniero è colui al quale – nel momento in cui accede a una comunità che
gli è estranea e decide di stabilirvisi per un certo tempo – non è più concesso di pensare come al
solito, cioè di condividere istintivamente ciò che secondo i membri di quella comunità rappresenta
l’ordine normale delle cose, ciò che in un certo contesto può esser dato per scontato: “la scoperta che
le cose nel suo nuovo ambiente appaiono molto diverse da come egli si aspettava che fossero
quand’era in patria costituisce generalmente il primo trauma che subisce la fiducia dello straniero
nella validità del suo pensare come al solito”. (Alfred Schütz, Lo straniero: saggio di psicologia
sociale, in Simonetta Tabboni (a cura di), Vicinanza e lontananza. Modelli e figure dello straniero
come categoria sociologica, Milano, Franco Angeli, 1990, p. 135)
104
Capitolo Terzo
89
Secondo Schütz i rapporti intersoggettivi che uniscono i singoli individui agli altri avvengono grazie
ad un bagaglio di esperienze che ognuno possiede e che permette di dare rilevanza a certi aspetti
dell'agire trascurandone altri. (Cfr. Alfred Schütz, Il problema della rilevanza, Torino, Rosenberg &
Sellier, 1975. Orig.: Reflections on the Problem of Relevance, Yale University Press, 1970).
90
Uno degli esempi più densi dell’incontro tra noi e gli altri è rappresentato dalla colonizzazione e
dalla conseguente scoperta di popolazioni fino allora sconosciute. Todorov affronta il problema
partendo dalle spedizioni di Colombo: “Il paradosso della colonizzazione sta nel fatto che essa viene
compiuta in nome di una presunta superiorità di valori. E' possibile, in compenso, stabilire un
criterio etico in base al quale esprimere un giudizio sulla forma delle influenze: l'essenziale, direi,
consiste nel sapere se esse sono imposte o proposte. La cristianizzazione, come l'esportazione di
qualsiasi ideologia o tecnica, è condannabile non appena è imposta, con le armi o in altro modo.
Esistono aspetti di una civiltà che si possono definire superiori o inferiori; ma ciò non significa che
essi possano essere imposti agli altri. Più ancora: imporre agli altri la propria volontà sottintende
che ad essi non viene riconosciuta la nostra stessa umanità (e proprio ciò rappresenta un indice di
inferiorità culturale)” (Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’altro, Torino,
Einaudi, 1992, p.217-218. Orig.: La conquête de l’Amérique. La question de l’autre, 1982). Più oltre,
nell’analisi del pensiero di Las Casas, afferma che “La scoperta dell’«io» attraverso i «loro» che vi
abitano è accompagnata dall’affermazione, ben più allarmante, della scomparsa dell’«io» nel «noi»,
tipica dei regimi totalitari. L’esilio è fecondo se si appartiene contemporaneamente a due culture,
senza identificarsi con nessuna di esse; ma se l’intera società è una società di esiliati, il dialogo delle
culture cessa. […] La storia esemplare della conquista dell’America ci insegna che la civiltà
occidentale ha vinto, fra l’altro, grazie alla sua superiorità nella comunicazione umana; ma ci isegna
anche che questa superiorità si è affermata a spese della comunicazione col mondo”. (Ibid. p.304-
305)
105
Capitolo Terzo
106
Capitolo Terzo
93
Semplificando possiamo dire che l’uomo è l’insieme dei significati attribuiti di volta in volta agli
eventi relativi alla propria storia nella società in cui vive. Sull’argomento, molto interessante è il testo
di Jerome Bruner, La ricerca del significato, Torino, Bollati Boringhieri, 1992
94
“Classificare il reato tra i fenomeni della sociologia normale non significa soltanto dire che esso è
un fenomeno inevitabile benché increscioso, dovuto all’incorreggibile cattiveria degli uomini, ma
significa anche affermare che esso è un fattore della salute pubblica, una parte integrante di ogni
società sana”. (Émile Durkheim, Le regole del metodo sociologico. Sociologia e filosofia (1895),
Milano, Edizioni di Comunità, 2001, p. 23)
107
Capitolo Terzo
108
Capitolo Terzo
venir concepito come un male che è impossibile contenere in limiti troppo angusti; ma quando accade
che esso scenda sensibilmente al di sotto del suo livello ordinario, questo fatto non deve essere per
noi un motivo di soddisfazione, perché questo apparente progresso è certamente contemporaneo e
solidale a qualche turbamento sociale”. (Durkheim, Le regole del metodo sociologico, cit., p. 77).
96
Robert King Merton, Teoria e struttura sociale, Bologna , Il Mulino, 2000. Orig.: “Social Structure
and Anomia” in American Sociological Review, III, 5, 1938
109
Capitolo Terzo
110
Capitolo Terzo
struttura sociale, cit.). In questa analisi bisogna ovviamente tenere conto del contesto storico e socio-
culturale in cui opera lo studioso americano ma, per osservare come sia strettamente attuale, è
sufficiente operare alcune semplici sostituzioni terminologiche senza, per questo, modificarne i
significati.
100
Albert J. Cohen , Ragazzi delinquenti, Milano, Feltrinelli, 1974. Orig.: Delinquent Boys. The
Culture of the Gang, New York, Free Press, 1955
101
Siamo quindi in presenza di “un sistema di qualificazione sociale in cui i giovani di livelli sociali
diversi possono essere e sono posti direttamente a confronto in base allo stesso complesso di criteri
basati sull'acquisività. Differenze sistematiche in questa capacità generale di successo, connesse con
la classe di appartenenza, relegheranno sul fondo della piramide sociale i giovani appartenenti alle
classi sociali più svantaggiate, non direttamente a causa della loro posizione di classe in quanto tale,
ma perché a causa degli handicap connessi con la classe che agiscono da remora per loro, essi
mancano delle qualifiche personali richieste. In breve, dove le opportunità di successo sono connesse
con la classe, si produrrà lo scontento sociale nella misura in cui il sistema di qualificazione è
democratico”. (Cohen, Ragazzi delinquenti, cit., pp. 86-88)
111
Capitolo Terzo
102
In realtà le definizioni che seguono sono state coniate nel 1943 da William Foote White e descritte
nel resoconto della sua osservazione partecipante, durata diversi anni, in uno slum di immigrati italiani
di Boston, anch’esso da lui stesso denominato Cornerville. (William Foote White, Little Italy. Uno
slum italo-Americano, Bari, Laterza, 1968. Orig: Street Corner Society. The Social Structure of an
Italian Slum, Chicago, The University of Chicago Press, 1943).
112
Capitolo Terzo
113
Capitolo Terzo
114
Capitolo Terzo
108
Per Hirschi il delinquente è “una persona relativamente privata degli attaccamenti significativi,
delle aspirazioni e delle credenze morali che legano la maggior parte delle persone ad una vita
all’interno della legge” (Hirschi, Causes of Delinquency, cit, prefazione, trad. nostra)
115
Capitolo Terzo
109
Michael Gottfredson, Travis Hirschi, A General Theory of Cryme, Stanford University Press, 1990.
116
Capitolo Terzo
110
Howard Samuel Becker, Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, Torino, EGA Editore, 1987,
p. 28. Orig.: Outsiders. Studies in the Sociology of Deviance, Glencoe, The Free Press, 1963
111
Edwin M. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, Milano, Giuffrè, 1981. Orig.:
Human Device, Social Problems and Social Control, Prentice Hall, Englewood Cliffs N.J., 1967
117
Capitolo Terzo
118
Capitolo Terzo
119
Capitolo Terzo
117
“…uno stigma è in realtà un genere particolare di rapporto tra l’attributo e lo stereotipo, ma io
non ritengo che si debba continuare a definirlo sempre così, in parte perché ci sono attributi
importanti che, quasi a tutti i livelli della nostra società, sono fonte di discredito. Il termine stigma e i
suoi sinonimi contengono in sé una doppia prospettiva: l’individuo stigmatizzato presuppone che la
propria diversità sia già conosciuta, o a prima vista evidente, oppure presuppone che non sia
conosciuta dai presenti né immediatamente percepibile? Nel primo caso si ha a che fare con la sorte
dello screditato e nel secondo con quella dello screditabile. Questa è un’importante differenza anche
se è probabile che l’individuo stigmatizzato debba subire ambedue le situazioni”. (Erving Goffman,
Stigma. L’identità negata, Verona, Ombre Corte, 2003, p. 4. Orig.: Stigma. Notes on The
Management of Spoiled Identity, Simon & Schuster, 1963).
120
Capitolo Terzo
118
Cfr. David Garland, La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo,
Roma, Il Saggiatore, 2004
121
Capitolo Terzo
controllo sulla società. Fino alla metà degli anni Settanta il paradigma
sociologico prevalente era nella sostanza disciplinare: si pensava, cioè,
di poter intervenire sulle cause della devianza, convinti che, trattando
con opportune “terapie” i fenomeni ritenuti cause di devianza, si potesse
operarne una seria prevenzione e trasformazione positiva.
Successivamente, in particolare dopo la riforma dell’Ordinamento
Penitenziario del ’75, si osserva il fenomeno della socializzazione della
pena, si moltiplicano, cioè, i luoghi e le forme della pena. Il carcere non
è più centrale ma investe anche il territorio esterno con l’allargamento
alla società delle reti di controllo. Le funzioni del controllo escono
quindi dal carcere e si disperdono in molteplici diramazioni all’interno
della società, riguardando un numero sempre maggiore di persone che ne
sono investite più o meno direttamente.
In epoca postfordista non è più possibile esercitare un dominio
disciplinare sui singoli individui. La società capitalistica non può
autopunirsi con il reprimere la cooperazione sociale di cui ha bisogno per
produrre. Il suo dominio diviene così solo esterno e consiste nella
predisposizione di “apparati di cattura in grado di controllare i flussi di
produttività sociale che attraversano la moltitudine”119. Siamo di fronte
ad un regime dell’eccedenza, degli scarti della produzione, che si
esercita tramite la predisposizione di zone d’attesa, luoghi di
119
Alessandro De Giorgi, Il governo dell’eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine,
Ombre Corte, Verona, 2002, p.32. Secondo l’autore il controllo sociale assume un carattere
“attuariale”: esso non è più finalizzato alla produzione di corpi docili e utili alla fabbrica, ma mira
all’incapacitazione di intere classi di soggetti considerati in modo aprioristico portatori di rischio
sociale.
Dello stesso autore, ma più centrato sulla critica alle strategie della cosiddetta “tolleranza zero” messe
in atto per primo dall’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, e usate, come lo stesso testo di De
Giorni non manca di sottolineare, in modo mistificatorio dei dati reali sulla diminuzione della
criminalità messa in relazione con l’applicazione della rigidità nel controllo e nella repressione delle
fasce più marginali, è il precedente saggio Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di
controllo, Roma, Derive Approdi, 2000.
122
Capitolo Terzo
123
Capitolo Terzo
di produzione.” (Georg Rusche, Otto Kirchheimer, Pena e struttura sociale, Il Mulino, Bologna,
1978, Cap.1 - Introduzione).
124
Un interessante ed approfondito studio sulla vulnerabilità sociale si può trovare in Costanzo Ranci,
Le nuove disuguaglianze sociali in Italia, Bologna, Il Mulino, 2002. L’autore definisce, a pag. 13 del
testo citato, la nuova vulnerabilità sociale come un “mix di instabilità lavorativa, fragilità familiare e
territoriale, incertezza sulle garanzie sociali ed economiche acquisite, difficoltà crescente e
fronteggiare le difficoltà derivanti da problemi di tipo abitativo, finanziario, sanitario e relazionale”.
Inoltre: “Se la povertà riguarda una popolazione «sovrannumeraria», che non svolge più funzioni
sociali ed economiche riconosciute nel nuovo ordine economico, la vulnerabilità riguarda una
popolazione che, pur integrata nei principali sistemi di organizzazione della società, sperimenta
direttamente su di sé, la propria organizzazione quotidiana e nei propri comportamenti, gli effetti più
indesiderabili del nuovo ordine socioeconomico”.
124
Capitolo Terzo
125
“I governi, spogliati di gran parte delle loro capacità e prerogative sovrane dalle forze della
globalizzazione che non sono in grado di contrastare – e meno ancora di controllare – non possono
far altro che «scegliere con cura» i bersagli che sono ( presumibilmente) in grado di contrastare e
contro cui possono sparare le loro salve retoriche, e gonfiare i muscoli sotto gli occhi dei loro
sudditi riconoscenti”. (Bauman, Vite di scarto, cit., p. 72)
126
“Lo spazio dei flussi è l’organizzazione materiale delle pratiche sociali di condivisione del tempo
che operano mediante flussi. Per flussi intendo sequenze di scambio e interazione finalizzate,
ripetitive e programmabili tra posizioni fisicamente disgiunte occupate dagli attori sociali nelle
strutture economiche, politiche e simboliche della società”. (Manuel Castells, La nascita della società
in rete, Milano, Università Bocconi Editore, 2002, p. 408. Orig.: The Rise of the Network Society,
Oxford, Blackwell Publishers Ltd, 1996)
127
Alessandro Dal Lago, Non-persone, cit..
125
Capitolo Terzo
126
Capitolo Terzo
immediato alla frontiera. Qualora l’espulsione non sia immediatamente eseguibile viene previsto il
trattenimento degli immigrati per un determinato periodo di tempo (massimo trenta giorni) nei centri
di permanenza temporanea (CPT), per Dal Lago dei “veri e propri campi di detenzione”. Su questo
decreto poggia poi, nel 2001, la cosiddetta “Bossi-Fini”, legge che porta in carcere coloro che sono
privi di permesso di soggiorno.
130
Vd. Art.6 L.286/98
127
Capitolo Terzo
131
L'emigrazione-immigrazione non può che essere pensata, a parere di Sayad, all'interno del quadro
dello stato (nazione), non può essere pensata che come pensiero di stato. Nella autoriflessione dello
stato nazionale sulle migrazioni dobbiamo dunque scorgere uno stato che pensa se stesso, i propri
limiti e con ciò la propria verità. Questa autoriflessione attraversa tutti noi, “[…] figli di uno stato
nazionale, e quindi figli delle categorie nazionali che portiamo in noi stessi e che lo stato ha messo in
noi. Noi tutti pensiamo l'immigrazione (cioè gli «altri» da noi, ciò che sono, ma in questo modo,
attraverso di loro, ciò che noi siamo quando li pensiamo) come lo stato ci chiede e ci addestra a
pensarla, cioè in fin dei conti come la pensa lo stato stesso. Ecco, in sintesi, ciò che può essere il
pensiero di stato” (Abdelmalek Sayad, La doppia pena del migrante. Riflessioni sul "pensiero di
Stato”¸ in Aut Aut, n. 275, 1996, p. 12)
128
Capitolo Terzo
questo tipo verso minoranze interne – come non ricordarsi, per esempio,
delle persecuzioni a danno degli eretici, delle streghe ecc. – o esterne, i
cui epitomi sono gli ebrei, gli zingari e gli immigrati clandestini. Se in
passato la paura collettiva si traduceva in forme estreme di razzismo e
xenofobia, oggi rinasce come patologizzazione degli stranieri in quanto
tali132: stereotipi riposti da tempo nella memoria collettiva (lo straniero
come untore, vagabondo, orco, stupratore, ladro di bambini) tornano in
circolo grazie all’amplificazione dei media che, attraverso un’opera di
costruzione simbolica, riproducono gli stereotipi da loro stessi creati.
Osservando la struttura delle notizie si riscontra un canovaccio narrativo
ricorrente con un meccanismo stabile di produzione della paura, di tipo
tautologico.
129
Capitolo Terzo
130
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131
Capitolo Terzo
133
Agnes Heller, Zehn Thesen zum Asylrecht, “Die Zeit”, n.46, 1992, cit. in Dal Lago, Non-persone,
cit..
134
L. e F. Cavalli Sforza, Chi siamo. La storia della diversità umana, Milano, Mondadori, 1995, cit. in
Dal Lago, Non persone, cit..
132
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133
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134
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137
H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, Torino, Einaudi, 1975, cit. in Dal Lago, Non persone, cit.
138
C. Schmitt, Dottrina della costituzione, Milano, Giuffré, 1984, cit in Dal Lago, Non persone, cit.
135
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136
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Carcere e contesto quotidiano.
Tensione e incontro.
137
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138
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139
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140
Capitolo Quarto
141
Capitolo Quarto
con l’esito di spingere molti di costoro a compiere azioni fuori dai limiti
della legalità salvo, poi, attivare nei loro confronti una solidarietà per lo
più riparatoria o meramente riduttoria del danno.
La maggior probabilità di incontrare contraddizioni, antitesi e,
appunto, tensioni bipolari si trova secondo la nostra esperienza nella
fascia sociale che tocca sia il fuori, la società “per bene”, che il “dentro”,
il carcere. Questo si può osservare da vari punti di vista: sociologico,
andando a pescare nei flussi in entrata ed in uscita dal sistema penale e
nelle fasce che maggiormente rientrano nel rischio carcerario;
pedagogico-formativo, studiando le ragioni per cui uno finisce in carcere
e, soprattutto i sistemi per evitare che ciò avvenga e, qualora sia già
avvenuto, una volta uscito non vi rientri più; giuridico-legale,
osservando gli impianti giuridici che hanno a che fare con le pene e la
loro esecuzione ecc.
Ognuno di questi punti di osservazione copre soltanto parzialmente
ciò che realmente avviene – o non avviene – nella dimensione punitiva
del vivere comunitario.
Ciò che cercheremo di fare in questo capitolo sarà portare il più in
alto possibile il punto di osservazione in modo da coprire quanto più
potrò il raggio di interesse. Questo punto di vista “alto” coincide, per uno
strano paradosso, con quello che intuitivamente parrebbe invece essere il
più basso: il contesto di vita quotidiano.
Come vedremo, ognuno, nel suo contesto quotidiano, ha contatti
più o meno diretti e prolungati col mondo carcere. Giornali e telegiornali
hanno rubriche fisse dedicate alla cronaca giudiziaria, anche se, come
negli ultimi tempi si è potuto verificare sempre maggiormente, spesso
142
Capitolo Quarto
essa deborda dai propri confini per invadere le pagine politiche, sportive
e di costume. Tuttavia il punto di vista comunemente prevalente, pur
essendo permeato dell’idea di carcere, pare esserlo in maniera
sostanzialmente passiva e superficiale. Il consumatore di notizie subisce
letteralmente ciò che media e politica, per loro tramite, intendono
comunicare nell’ottica di quella strategia della conservazione del potere
di cui abbiamo parlato nei capitoli precedenti.
È l’opinione dell’uomo qualunque, spesso utilizzata per fini
utilitaristici. È bene puntualizzare, per inciso, l’inesistenza di fatto di
questa entità talvolta definita anche col termine di uomo medio ma
indefinibile, puramente astratta, qualora si esca dalla metafora per usarla
come sostanza. In termini statistici più precisi il concetto che
maggiormente si avvicina all’uomo medio è il valore modale, il valore
prevalente in una distribuzione di frequenze. Mentre l’uomo medio
abbiamo detto che è una costruzione astratta, il valore modale esiste
sicuramente nella realtà, nel senso che noi possiamo compiere delle
osservazioni sulla vita sociale che ci permettano di individuare una
variabile prevalente e, quindi, un valore prevalente. Possiamo
successivamente e per convenzione attribuire a questa variabile il nome
di uomo medio. Siamo in presenza di un procedimento logico che
presenta, però, i suoi rischi perché un valore modale che compaia in un
campione non dice di per sé niente di certo sulla rappresentatività reale
del mondo che ci interessa. In una rappresentazione grafica della
distribuzione media all’interno di un campione, la ben nota curva a
campana, possono essere molto più rilevanti dal punto di vista scientifico
143
Capitolo Quarto
141
La scientificità degli studi statistici basati sulla distribuzione a campana quando i dati in essa
introdotti riguardino aspetti umani, sia psicologici che antropologici o sociologici, sono stati sovente
confutati proprio per la difficoltà di attribuire agli stessi dati quella certezza che si trova in altre
scienze meno complesse dal punto di vista delle dimensioni e nel numero delle variabili in atto. Per
fornire un piccolo ma a nostro giudizio significativo esempio, si ricorda un libro del 1994, dal titolo
proprio “The Bell Curve”, La Curva a Campana, in cui un sociologo, Charles Murray, ed uno
psicologo, Richard Herrnstein, affermano che la curva di distribuzione del QI dei Neri è spostata
nettamente più a sinistra di quella dei Bianchi: i Neri sono meno intelligenti dei Bianchi per quindici
punti. Le conclusioni dei due autori sono che tale differenza sarebbe fissata addirittura per eredità.
(Richard J. Murray - Charles Herrnstein, The Bell Curve: Intelligence and Class Structure in
American Life, Free Press , 1994)
144
Capitolo Quarto
145
Capitolo Quarto
abbiano già scontato il loro debito con la giustizia ma non siano ancora
in grado di inserirsi in modo sufficientemente autonomo nella società.
Le diverse situazioni che abbiamo incontrato ci hanno consentito, di
volta in volta, di variare il punto di vista dal quale osservare i vari
fenomeni, molti dei quali nascosti alla vista esterna.
Ancora, avendo svolto, nell’arco di tre anni, la funzione di
responsabile del servizio minori e affidamento all’interno di una
Comunità, il focus principale dell’osservazione era logicamente quello
dell’interesse del minore allontanato, o a rischio di allontanamento, dalla
famiglia di origine e la ricerca della famiglia affidataria che lo
accogliesse. Dal punto di vista più formale gli attori concorrenti erano i
tribunali per i minorenni, le famiglie d’origine, quelle affidatarie, i
servizi sociali ecc. Quasi mai, tranne in un caso, questo ruolo per così
dire “tecnico”, mi ha portato direttamente a contatto con il circuito
dell’esecuzione penale. Tuttavia, spesso i fenomeni coi quali avevo a che
fare sembravano far parte di una catena, una sorta di ciclo produttivo
che, partendo dal disagio sociale passa per l’abbandono e il disinteresse
istituzionale prima, per il carcere dopo e successivamente di nuovo nel
disagio sociale, reso a questo punto ancor più pesante e coriaceo di
prima, con la differenza che ciò che si sarebbe potuto fare in giovane età
per evitare il disagio, difficilmente appariva attuabile in età più adulta e,
soprattutto, dopo l’intervento pesante del carcere. Una centrifuga messa
in moto dalla marginalità delle persone ma conservata in tale moto dalle
istituzioni, o meglio dall’interazione delle persone con le istituzioni. Uso
l’immagine della centrifuga soltanto come metafora rafforzativa di tutto
il discorso. Infatti, se volessimo utilizzare questo modello in modo più
146
Capitolo Quarto
147
Capitolo Quarto
142
“Chi legga i giornali, guardi la televisione o comunque sia esposto al discorso pubblico
relativamente al senso di insicurezza, potrebbe ricavare l’impressione che la paura personale della
criminalità sia fortemente cresciuta negli ultimi anni nel nostro Paese. È assai probabile, in effetti,
che la quota di cittadini che teme di subire un reato sia cresciuta nel corso degli anni settanta,
contemporaneamente alla crescita dei reati. Ma senz’altro in Italia da almeno quattordici anni, tale
paura appare stabile, se non addirittura in lieve declino. Dal 1993 l’Istat ha infatti chiesto a un
campione rappresentativo di famiglie italiane se considerasse a rischio di criminalità la zona in cui
vivevano. Nel 2005 meno del 30% dichiara di considerarla molto o abbastanza a rischio, e la quota
corrispondente nel 1993 era di poco superiore al 30%” (Ministero dell’Interno, Rapporto sulla
criminalità in Italia – anno 2006, p. 39)
143
Secondo Luhmann ciascun sottosistema è una scatola nera nei confronti dell’altro, sistema chiuso e
aperto contemporaneamente: chiuso in quanto autoreferenziale, aperto tramite la necessaria
osservazione dell’ambiente esterno ad esso da cui assimilare informazioni. (N.Luhmann, Sistemi
Sociali, Bologna, Il Mulino, 1984, pag. 212 e sgg.). Sull’autopoiesi cfr. anche Maturana e Varela,
Autopoiesi e cognizione, cit.
148
Capitolo Quarto
149
Capitolo Quarto
Molti dei giovani coi quali ho avuto a che fare svolgendo la mia
attività di responsabile minori per la Comunità appartengono a strati
sociali dove la marginalità è talmente radicata da essere integrata
nell’identità individuale. L’appartenenza ad un gruppo di marginali può
frequentemente portare il singolo soggetto ad individuarsi come tale tout
court.
Alcuni esempi chiarificatori.
Nella città di Livorno, nella fattispecie la zona nord, quella
industriale, esistono alcuni quartieri, Corea, Shangay 146, Garibaldi, Le
Sorgenti, ad alta densità di situazioni di disagio, talvolta molto profondo,
economico-sociale-culturale. Come è normale che accada, in vari punti
dei quartieri si riuniscono gruppetti di giovani, perlopiù adolescenti. Alla
nostra domanda sul perché passassero il loro tempo pressoché
esclusivamente in una zona depressa e deprimente come quella, piuttosto
che raggiungere il centro cittadino, distante non più di un chilometro, più
stimolante e colorito, oppure il mare, anch’esso molto vicino, la risposta
unanime è stata molto significativa: “preferiamo stare qui, appartati,
perché ci vergogniamo, non ci sentiamo adeguati ai ragazzi del centro
che ci prenderebbero in giro”. La risposta vera, intrinseca, era quindi:
“noi siamo diversi, inferiori, quindi stiamo qui, ai margini, dove almeno
ci sentiamo all’altezza l’uno dell’altro”.
Si costruisce, così, il senso di appartenenza ad un gruppo sociale, ad
uno strato della società, che possiede già una moltitudine di spigoli
stigmatizzanti ma, cosa su cui credo si debba porre particolare
146
Nella lingua originale, il nome della città cinese si scrive in modo più articolato. Abbiamo riportato
la scrittura esattamente come nella toponomastica livornese.
150
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147
Secondo Orefice una peculiare caratteristica di un essere vivente è l’essere una unità autopoietica:
“Il vivente, ogni vivente, presenta un’organizzazione autopoietica: è esso stesso che definisce e
governa l’insieme dei rapporti tra le sue parti costitutive. Presenta inoltre una struttura autopoietica:
esso stesso mantiene le sue parti e i rapporti tra esse in un sistema autoregolamentato. Pertanto,
quando s’imbatte nei condizionamenti ambientali, è difendendo il suo processo endogeno di
distinzione che trova le risposte adattive di riorganizzazione e ristrutturazione. Nel farlo si comporta
come una unità autonoma: è cioè in grado di trovare le soluzioni adeguate ai problemi della sua
conservazione, relativamente al suo ciclo di vita e alla sua riproduzione. Il suo farsi ci dice nello
stesso tempo chi è e cosa fa, chi sta producendo quella vita e quale vita viene prodotta. Il vivente è
dunque tale in quanto produce e riproduce se stesso, modificandosi: questo vuol dire autopoiesi.”
Paolo Orefice, I domini conoscitivi. Origine, natura e sviluppo dei saperi nell’Homo sapiens sapiens,
Roma, Carocci, 2001, p.23.
151
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152
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Orig.: Human Groups and Social Categories. Studies in Social Psychology, Cambridge, Cambridge
University Press, 1981)
149
Per un’accurata esposizione della teoria del gruppo di riferimento, per cui ogni gruppo sociale si
orienta nel proprio contesto basandosi su gruppi diversi dal proprio, non può mancare la citazione del
testo di Merton in cui egli scrive: “[…] Gli uomini si orientano di frequente su gruppi diversi dal loro
per decidere come agire e valutare, e sono i problemi che ruotano intorno all’orientamento basato su
gruppi di cui non si è membri che costituiscono la preoccupazione distintiva della teoria del gruppo
di riferimento”. Robert K.Merton, Teoria e struttura sociale, cit, p.234.
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155
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Circondariale Don Bosco di Pisa in quella che si può, credo, definire più
propriamente osservazione partecipante, differenziandola così dalla
condivisione diretta all’interno della casa famiglia o quella meno stretta
della frequentazione degli strati sociali più deboli entrambe osservazioni
più di tipo naturalistico.
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Massimo Pavarini, “Dare aiuto nella nuova penologia. Il ruolo degli operatori sociali nelle
politiche tecnocratiche di controllo sociale”, in Quale pena, cit., pp. 109 e sgg.. Per l’esattezza
Pavarini pone la domanda in questo modo: “Chi professionalmente risponde ad un mandato di aiuto
può operare nello spazio sociale della sofferenza legale, cioè in carcere?”.
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Massimo Pavarini, Carcere e territorio revisited…, in La Nuova Città, ottava serie, 2004-2005.
Riportiamo di seguito uno stralcio dell’articolo che riteniamo fondamentale e ricco di spunti di
riflessione. Scrive Pavarini: “[…] io credo che bisogna legittimare ogni intervento di riduzione della
sofferenza penale non perché utile a fini special-preventivi, ma perché comunque altrimenti utile.
Qualche esempio. Forse oggi, dopo un ventennio, cominciamo a sospettare che non esista una terapia
(farmacologica, sociale, comunitaria ecc.) scientificamente sicura per uscire dalla tossicodipendenza.
Forse, chi esce dalla cultura della droga (perché è certo che se ne esce, nel senso che alcuni – pochi
o molti, poco rileva – ne sono usciti), si libera da questa dipendenza, a prescindere o nonostante ogni
possibile volenteroso programma di cura. Forse, altrettanto, siamo costretti a pensare di alcune
psicosi gravi. E che dire poi delle infermità definite «croniche»? Insomma: se dovessimo legittimare
l’azione di soccorso nei confronti dei tossicodipendenti, degli psicotici gravi e degli infermi cronici
solo sulla base delle capacità scientificamente dimostrate, di «guarigione» avremmo… fiato corto.
Eppure, anche se sempre meno, per la verità, continuiamo a curare i drogati, i folli e i cronici. E lo
facciamo perché culturalmente si conviene che tutti costoro, in quanto sofferenti, ne abbiano diritto.
C’è insomma un diritto alla cura che non si regge sulle aspettative di guarigione.” L’autore giunge
poi alla conclusione che “Fare sempre più a meno del manicomio alla fine non si giustifica perché la
psichiatria demanicomizzata abbia più possibilità di guarire la follia di quante ne abbia la psichiatria
manicomiale, ma si legittima perché è più rispettosa dei diritti del sofferente.
E perché questo argomentare non dovrebbe valere anche per la pena?”
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complessità che ciascun soggetto porta con sé, il termine che preferiamo
è la condivisione diretta. In fondo, il bambino disabile, i propri compagni
di classe e le insegnanti non possono che operare in un clima di
condivisione diretta reciproca, fatto salvo ovviamente l’uso di strumenti
specifici variabili a seconda della tipologia di disagio. Moltissimi sono,
al riguardo, gli esempi di successi, talvolta clamorosi, ottenuti in ambito
scolastico sia nei confronti dei bambini disabili sia, cosa ancor più
interessante, da parte degli altri alunni coinvolti e delle stesse insegnanti.
Giusto per appunto finale è bene aggiungere che oggi, oltre alla disabilità
fisica o mentale cui il legislatore del 1992 faceva riferimento, si
sommano altri fattori di esclusione cui andrebbe estesa la suddetta legge,
per esempio i cittadini immigrati, soprattutto quelli provenienti da
culture profondamente diverse dalla nostra, e su questo in effetti pare si
stia lavorando.
Un altro ambito in cui si osserva la distonia tra i principi animatori
delle leggi e la diversa realtà quotidiana in cui vengono calate è quello
dell’affidamento dei minori.
Vediamo cosa dice la legge 149 del 28 marzo 2001 in merito:
"Art. 1.
1. Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell'ambito
della propria famiglia.
2. Le condizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente
la potestà genitoriale non possono essere di ostacolo all'esercizio del
diritto del minore alla propria famiglia. A tal fine a favore della
famiglia sono disposti interventi di sostegno e di aiuto.
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I riferimenti normativi della Regione Toscana sono essenzialmente due: la Legge Regionale 24
febbraio 2005 nr.41, Sistema integrato di interventi e servizi per la tutela dei diritti di cittadinanza
sociale, e il Piano Integrato Sociale Regionale 2007-2010 approvato dal Consiglio Regionale Toscano
il 31 ottobre 2007.
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affatto inconsueto trovare nello stesso letto due detenute durante i vari
giri di perlustrazione.
Se nella sezione femminile il fenomeno emerge in modo palese non
si può asserire la stessa cosa per le sezioni maschili. Probabilmente, ad
una prima e superficiale analisi, ciò potrebbe derivare da due ragioni
fondamentali: la prima fa riferimento alla ipotetica prevalenza della
dimensione sessuale su quella affettiva nelle relazioni intime degli
uomini; la seconda, in qualche modo derivante dalla prima, riguarda la
tabuizzazione della dimensione omosessuale che concerne il mondo
maschile, in particolare nel mondo carcerario dove i rapporti
omosessuali, pur esistenti, vengono fortemente negati. È difficile, infatti,
che un detenuto confessi al proprio educatore di riferimento, al
cappellano, al direttore, al volontario o a chicchessia di aver avuto
rapporti omosessuali con altri detenuti, non solo, egli nega a priori che
tale fenomeno esista. Raccontano, infatti, gli operatori della casa
circondariale, che una volta fu deciso di sperimentare la collocazione di
un apparecchio distributore di preservativi all’interno delle sezioni
maschili allo scopo di evitare, o quanto meno ridurre la possibilità che
dai rapporti fisici derivassero malattie sessualmente trasmissibili.
Ebbene, ne venne fuori una mezza rivolta. Tutti i detenuti, compresi gli
omosessuali dichiarati, negarono recisamente che esistessero tali
comportamenti all’interno delle loro celle. Risultato: non fu installata la
macchinetta.
Al contrario, nella sezione femminile, non sono infrequenti gli
scambi di doni tra fidanzate e le crisi quando questi fidanzamenti
vengono rotti: per un osservatore uomo, e mi riferisco qui alla mia
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156
Art 14, c.3 del D.P.R. del 30 giugno 2000 n.230, Regolamento recante norme sull'ordinamento
penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà.
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come merce di scambio sia per ottenere altre merci, sia per ottenere o
ricambiare favori.
Nell’istituto di Pisa si è ovviato al problema chiudendo la “cantina”
con una decisione condivisa tra direzione del carcere ed una larga
rappresentanza dei detenuti stessi. Oltretutto questa decisione ha avuto
molti altri vantaggi: ridurre il tasso alcolemico medio dei detenuti con
conseguenze utili sulla gestione della disciplina; un migliore e più
affidabile controllo su coloro che escono a vario titolo dal carcere
(semiliberi, detenuti in permesso, art.21 ecc.) che possono essere
sottoposti ad esami, al loro rientro in istituto, per accertare la presenza di
sostanze psicotrope alcol compreso di cui abbiano eventualmente
abusato.
A mio giudizio questo è un altro esempio di come il diritto, quando
espresso sganciato dal senso di responsabilità, invece di condurre ad un
maggiore ordine sociale di fatto talvolta rischi di creare i presupposti per
ulteriori problemi che, nella fattispecie, ricadono sul personale carcerario
dell’area sicurezza, dell’area sanitaria ma, in particolare, dell’area
pedagogica che si trova così ulteriormente gravata e distolta dai compiti
ad essa riservati. Spesso, infatti, l’opera degli educatori è più volta al
contenimento degli effetti del carcere che alla preparazione dei detenuti
al ritorno alla libertà con migliori prospettive di inserimento sociale.
Viene in questo modo suffragata ulteriormente l’affermazione di
coloro che sostengono l’impossibilità del lavoro sociale nel contesto
coercitivo. L’unica possibilità sembrerebbe data dalla fantasia del
singolo operatore e dalle sue capacità di adottare strategie adattive o di
scavalcamento dei rigidi meccanismi dell’amministrazione. Questo è uno
183
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157
Il trattamento si attua avvalendosi “dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività
culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con
la famiglia” (Art.15 L.354/1975 Ordinamento Penitenziario)
158
Art.36 L.354/1975
159
Cfr. Claudio Massa, “Pedagogia penitenziaria e pedagogie reclusive”, in Claudio Massa (a cura di)
L’educatore e la pedagogia penitenziaria. Contributi teorici e metodologici, Cagliari, Cooperativa
Universitaria Editrice Cagliaritana, 2005, p.107
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Gian Enrico Rusconi, Possiamo fare a meno di una religione civile?, Bari, Laterza, 1999, p. 35.
190
Conclusioni
Alain Brossat, filosofo francese, intitola nel 2001 un suo libro Pour
en finir avec la prison163. In effetti, alla fine di questo lavoro
sembrerebbe naturale pensare di farla finita col carcere, e non è
un’emozione, è qualcosa che è in discussione da molto tempo. Certo è
che se da una parte abbiamo l’estrema difficoltà di questo sistema di
automodificarsi, dovuta a secoli di storia che lo hanno incrostato e
irrigidito, dall’altra esiste un’opinione pubblica continuamente orientata
al suo rinforzo.
Secondo Brossat non occorre tanto cercare di capire gli spazi vuoti
dei diritti – non-diritti, in carcere – come unica operazione umanitaria
orientata ai detenuti; occorre fare un passo in più per rendere decisivo e
strutturale un cambiamento del carcere, da cloaca sociale ermeticamente
chiusa, a luogo di effettivo recupero dell’individuo alla società collettiva:
recuperare la comunità intera con i suoi punti di vista collettivi, con
un’azione strategica educativa che riesca a non mandare nessuno in
carcere. Se non adottassimo questa strategia otterremmo al massimo
detenuti più curati ma pur sempre detenuti.
Solitamente, è ancora il pensiero del filosofo francese, si ricerca il
diritto negativo (diritto a non… qualcosa) e individuale; non esiste il
diritto ad una politica, in carcere, ad azioni collettive: “[in carcere] non
si può tollerare che si formi il minimo spazio pubblico, il minimo spazio
di auto-organizzazione o di auto-istituzione di una comunità di detenuti.
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Alain Brossat, Scarcerare la società, Milano, Elèuthera editrice, 2003 (Paris, La Fabrique éditions,
2001)
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smantellamento del carcere. Si può metterla così: se qualcosa formidabile come l'energia nucleare,
con gli interessi e le funzioni che le si intrecciano, viene eliminata entro il 2010, altrettanto si può
fare con il carcere. Le funzioni che garantiscono la sopravvivenza del sistema carcerario sono poco
più rilevanti delle funzioni attribuite all'energia nucleare dalle società che ne fanno uso. E per quanto
riguarda i fini il carcere è, come detto, un puro fiasco, mentre in genere non si può dire altrettanto
per l'energia nucleare: dopotutto produce elettricità, anche se la fonte è pericolosa. L'obiettivo che
dovrebbero porsi le nostre autorità di politica criminale - legislatori ed esecutori - è smantellare il
carcere entro la medesima scadenza posta per lo smantellamento delle centrali nucleari svedesi. Si
tratta di un obiettivo ragionevole e di una ragionevole richiesta. Il 2010 è l'anno decisivo.”[…]
“Nel periodo di tempo prefissato per l'abolizione, i primi due o tre anni vanno dedicati al dibattito e
alla pianificazione. Nel tempo che rimane l'abolizione deve avvenire gradualmente, per poter essere
accettata dalla popolazione. Un periodo di circa venti anni, come vedremo oltre, dovrebbe in effetti
offrire una garanzia per questa accettazione. Più precisamente l'abolizione dovrebbe svolgersi con
rapidità crescente, con un avvio moderato negli anni 1990-95, seguìto da uno smantellamento più
accentuato negli anni 1995-2000, considerevolmente accelerato infine negli anni 2000-10.”
“L'abolizione può avvenire in tre modi: il primo consiste nel diminuire progressivamente i limiti
massimi di pena, seguendo l'andamento della «curva» di abolizione. “[…]
“Il secondo procedimento richiede lo smantellamento materiale della struttura carceraria, che
dovrebbe avvenire parallelamente alla riduzione del numero dei detenuti prodotta dalla diminuzione
dei massimi di pena.” […]
“In terzo luogo l'abolizione dovrebbe avvenire mediante il continuo trasferimento delle risorse
precedentemente assegnate al sistema carcerario, in ragione di metà della somma risparmiata sul
budget delle carceri, al sistema dell'affidamento ai servizi sociali, rivalutando di anno in anno le
somme disinvestite […]. E' molto importante che l'affidamento ai servizi sociali, che sarebbe
rafforzato in modo eccezionale, non sia organizzato in modo da accrescere la funzione di controllo.
E' facile immaginare che sullo sfondo dello smantellamento del carcere possa avvenire qualcosa del
genere e bisogna evitarlo, sia "vincolando" specificamente i mezzi finanziari a tre scopi: lavoro, casa
e trattamento volontario per coloro che - in misura crescente - verrebbero rilasciati; sia con un
"continuo dibattito critico" sulle funzioni di queste misure. Bisogna attendersi che le attività su cui si
vincolano i fondi abbiano al tempo stesso un significativo effetto di prevenzione della criminalità.
Dopo l'abolizione, si dovrebbe impiegare un corrispondente stanziamento per creare opportunità di
lavoro per i gruppi poveri e marginali, ma questo dovrebbe essere integrato amministrativamente nei
servizi sociali, per evitare che si sviluppi un sistema di assistenza separato.”
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appunto) che ha fissato non soltanto gli obbiettivi concreti per realizzare
l’intento iniziale ma ne ha delineato anche i tempi di realizzazione fissati
nell’anno 2010, e cioè: raggiungere un tasso medio di crescita economica
del 3% circa; portare il tasso di occupazione delle persone di età
compresa tra 15 e 64 anni al 70%; far arrivare il tasso di occupazione
femminile al 60%.
Attualmente ci sono paesi che hanno raggiunto già il 75%
dell’occupazione mentre in Italia ci attestiamo intorno al 60%.
Nonostante la discrepanza esistente tra i vari paesi dell’Unione, nel
raggiungimento degli obbiettivi, resta valida la considerazione che una
strategia di questo tipo ha senso nella misura in cui essa viene adottata di
comune accordo da tutti i paesi coinvolti. Si tratta di un compito
comune, il ché di per sé legittima l’intervento, tramite risorse particolari,
verso i singoli paesi che non saranno, per le più svariate ragioni, in grado
di raggiungere quegli obbiettivi. Essa ha senso, altresì, in quanto viene
fornita una scadenza precisa ed è attivo un monitoraggio periodico sul
percorso verso i traguardi prefissati.
L’Unione Europea ci ha assegnato altri obbiettivi di quel tipo,
come, per esempio, quello di risolvere il problema energetico e del
mutamento climatico entro 25 anni. Questo rappresenta un problema di
straordinaria complessità, visto soprattutto che, malgrado si ritenga
comunemente il contrario, per combattere la crisi petrolifera non basta
ridurre il consumo di carburante per autoveicoli. Il petrolio è ovunque,
intorno a noi, fa parte del nostro vivere quotidiano, potremmo dire della
nostra cultura. Quindi, è inutile illudersi, non è soltanto un problema
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Art.5 c.2 della L.395/1990 “Ordinamento del Corpo di Polizia Penitenziaria” : Il Corpo di polizia
penitenziaria attende ad assicurare l'esecuzione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale;
garantisce l'ordine all'interno degli istituti di prevenzione e di pena e ne tutela la sicurezza;
partecipa, anche nell'ambito di gruppi di lavoro, alle attività di osservazione e di trattamento
rieducativo dei detenuti e degli internati […].
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Intervista rilasciata da Adriano Sofri, detenuto a Pisa, a Roberto Delera e pubblicata sul Corriere
della Sera del 15 settembre 2004 con il titolo: Sofri: l’indultino? Una beffa, nelle carceri c’è solo
disperazione
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Così si legge in una nota del Sappe riportata dall’agenzia Ansa il 15 settembre 2004: "[…] Il
Sappe, e tutta la Polizia Penitenziaria si ritengono offesi e vilipesi dalle gravi accuse di «miopia e
sciocca cattiveria» indirizzate dal detenuto Sofri al Corpo, per il solo fatto che i poliziotti penitenziari
(e non «agenti di custodia» o «carcerieri» come ironicamente ci definisce il carcerato) compiono il
proprio dovere elevando rapporti disciplinari a detenuti che infrangono il Regolamento penitenziario.
[…] Non è più possibile per la Polizia Penitenziaria continuare a subire i farneticanti attacchi che un
«signore», condannato e detenuto per gravissimi reati, continua a portare contro un Corpo di Polizia
dello Stato è non più tollerabile che grazie all’uso di mass-media compiacenti un detenuto
condannato definitivamente possa continuare ad offendere lo Stato ed i suoi rappresentanti".
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Giuseppe Pilumeli, commissario di Polizia Penitenziaria, Comandante presso la Casa Circondariale
di Prato, in una sua lettera pubblicata sul sito www.ristretti.it in data 16 settembre 2004
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Bibliografia
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Bibliografia
Berzano, Luigi, La pena del non lavoro, Milano, Franco Angeli, 1994
204
Bibliografia
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Bibliografia
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Bibliografia
Heller, Agnes, Zehn Thesen zum Asylrecht, “Die Zeit”, n.46, 1992
207
Bibliografia
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Bibliografia
209
Bibliografia
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Bibliografia
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Bibliografia
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