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Università degli Studi di Firenze

Facoltà di Scienze della Formazione


Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione

La formazione imprigionata:
bisogni, diritti e contraddizioni nel
sistema carcere

Relatore:
Prof. Nedo Baracani

Correlatore:
Prof. Andrea Mannucci

Candidato:
Andrea Ciardelli

Anno Accademico 2006-2007


A mio padre
Indice

Prefazione...............................................................................................7
Capitolo 1 - Il trattamento penitenziario nelle
norme e nella teoria..................................15
1.1 Un cenno storico....................................................................15
1.1.1 Dal supplizio all’assoggettamento................................15
1.1.2 Le teorie della pena.......................................................25
1.2 Il trattamento nelle norme.....................................................33
1.2.1 L’Ordinamento Penitenziario........................................33
1.2.2 Le misure alternative alla detenzione............................37
1.3 Gli attori................................................................................40
1.4 I processi del trattamento......................................................42
Capitolo 2 - La realtà penitenziaria.............................57
2.1 La popolazione carceraria.....................................................60
2.2 I reati......................................................................................80
Capitolo 3 - Devianza, controllo ed esclusione sociale
...................................................................103
3.1 L’identità sociale.................................................................103
3.2 L’altro sotto controllo..........................................................125
3.3 L’altro escluso.....................................................................128
3.4 L’allarme sociale.................................................................132
Capitolo 4 - Carcere e contesto quotidiano.
Tensione e incontro.................................141
4.1 Il contesto dell’osservazione.....................................149
4.2 La metodologia dell’osservazione.............................160

3
Indice

4.3 Lavoro sociale e coercizione legale..........................163


4.4 Coercizione e formazione. Il “trattamento” nei diversi
contesti......................................................................169
4.5 Quadri di ordinaria coercizione.................................184
4.6 Il terzo (in)comodo: il volontariato...........................190
Conclusioni.........................................................................................195
Bibliografia.........................................................................................207

4
Prefazione

Questo lavoro rappresenta il risultato di una serie di esperienze


maturate nell’arco di circa dieci anni, da quando, cioè, rappresento la
figura paterna in una Casa Famiglia appartenente alla Comunità Papa
Giovanni XXIII di Don Oreste Benzi. Questo, concretamente, significa
condivisione diretta della propria vita con coloro che possiamo definire,
anche in senso laico, gli ultimi, soprattutto attraverso il loro inserimento
all’interno della famiglia di cui entrano a far parte integrante, alcuni per
un breve periodo, altri per sempre, generando nuove esperienze
emozionali e relazionali in un ambiente informale ed autentico.
Una delle regole principali che ci siamo dati fin dall’inizio è quella
di considerare la persona accolta non tanto dall’etichetta che si porta
appresso – la patologia, il reato commesso, il problema che ne origina il
disagio ecc. – quanto, piuttosto, il considerarla soltanto una persona.
D'altronde penso sia fuorviante definire qualcuno anche soltanto
genericamente persona a disagio: quando accogliamo qualcuno viene
spesso da dubitare su chi sia più a disagio, se l’accolto oppure chi
accoglie, visto che per entrambi esiste la fatica e, appunto, il disagio dato
dalla non conoscenza reciproca e, quindi, dalla paura dell’altro ignoto”
oltre che dal dover ricostituire il campo (il nuovo sistema) che si è creato
con l’ingresso del nuovo soggetto, il ché rappresenta sempre una rottura
degli equilibri preesistenti.
Quello di valutare la persona accolta in famiglia attraverso
l’etichetta che lo accompagna è un errore che si rischia di commettere
con estrema facilità. Adolescente, iperattivo, disturbato, psicotico,

5
Prefazione

borderline, sieropositivo, clandestino, sono soltanto alcune di queste


etichette, e nemmeno le più stigmatizzanti. Quando, però, si parla di un
detenuto (che resta tale anche se in misura alternativa, almeno come
stigma), ex-detenuto – o, meno ipocritamente carcerato – ecco che
l’etichetta diviene una vera e propria lettera scarlatta sulla fronte di una
persona che, ad una più accurata osservazione, non è altro che un
soggetto appartenente ad una o più delle categorie sopra elencate e per il
quale non si è attivata alcuna azione di prevenzione in tempo utile.
Credo che il carcere rappresenti, ormai da tempo, non solo in Italia
e per una parte cospicua della sua popolazione, una sorta di punto
d’accumulazione di tutto ciò che si sarebbe potuto fare e non si è fatto, il
luogo di destinazione di molti tra coloro che hanno gridato aiuto e non
abbiamo ascoltato, il luogo in cui si spengono le energie di quelle donne
e quegli uomini che, spinti ai margini della rete sociale, da nodi quali
avrebbero dovuto essere, si sono trovati ad essere soltanto dei terminali
senza possibilità di recupero; è il fondo del Maelström in cui ha
maggiore probabilità di cadere chi ha minori energie, espressione delle
risorse individuali e sociali personali, rispetto a chi appartiene a gruppi
sociali più forti.
Queste sono alcune delle considerazioni che mi hanno portato, col
tempo, ad avvicinarmi in modo particolare al mondo del carcere e delle
persone che con esso hanno, o hanno avuto, a che fare.
Particolarmente importante è stata, per questo, l’esperienza fatta
all’interno di una cooperativa sociale per il reinserimento di persone ex-
detenute, anch’essa parte della Comunità Papa Giovanni XXIII, con sede
in provincia di Massa-Carrara. Si può dire si sia trattato di

6
Prefazione

un’osservazione partecipante poiché l’accesso alle attività è stato non in


qualità di operatore o, comunque, di membro della Comunità con
funzioni educative, come ci si poteva attendere vista l’attività della Casa
Famiglia che gestisco, quanto piuttosto dalla parte opposta, quella della
persona accolta, di colui che deve sottostare alle regole ed ai tempi
dettati dai responsabili della struttura e dai servizi territoriali preposti.
Dopo una certa iniziale diffidenza, peraltro più che naturale, sono
stato accettato nel gruppo dei ragazzi della struttura come uno di loro.
Questo mi ha messo sicuramente in una posizione di privilegio rispetto a
chi, invece, era associato ad un ruolo che, benché con tutte le attenzioni
all’aspetto informale e familiare dell’accoglienza, stabiliva a priori
un’asimmetria tale da rendere impossibile una compenetrazione
completa tra i due mondi.
L’ostacolo principale verso la costruzione di un rapporto di fiducia
il più possibile ampio e incondizionato era rappresentato, come ovvio,
dal timore che la mia presenza non fosse altro che un’infiltrazione a
scopo di controllo. Dopo alcune situazioni conflittuali in cui il progetto è
stato a rischio di insuccesso, si è creato un discreto rapporto di fiducia
che, con alcuni ragazzi, prosegue tutt’oggi.
Per inciso forse vale la pena di rilevare che, malgrado tutte le
migliori intenzioni, la mia presenza di estraneo, seppur inserito ed
accettato nel gruppo, modificava sicuramente di un epsilon
sufficientemente piccolo le interazioni e l’ambiente in cui portavo avanti
l’osservazione. Questo è uno dei punti critici che, come sappiamo dai
tempi di Heisenberg, si accompagnano all’osservazione partecipante.

7
Prefazione

Si sono aperti nuovi orizzonti, come appare evidente, sul mondo


delle persone provenienti dal carcere e, come manifestazione secondaria
ma non per questo meno importante, si è illuminato il mondo della
comunità visto con gli occhi di chi è di là dall’asse di simmetria
educativo.
Come risultato dell’osservazione, più che l’aver ottenuto risposte,
sono aumentate le domande e i dubbi su che cosa realmente fosse il
carcere e, più in generale, il sistema penale.
L’esperienza accumulata in anni di condivisione diretta con le
persone provenienti dal carcere è stata molto importante ed ha un valore
in sé molto grande. Tuttavia, mi sono reso conto che mi ha esposto al
rischio di limitare la mia visione del mondo carcerario al fuori, a quella
fase, vale a dire, in cui il detenuto diventa ex-detenuto. Ho avuto modo
di osservare molto da vicino cosa vuol dire vivere da ex-detenuti o in
misura alternativa, ma questo limita lo sguardo soltanto al dopo, al già
fatto, quando, in altre parole, l’etichetta è già stata affibbiata e l’identità
carceraria si è già formata.
Com’è possibile che un individuo, uomo o donna, esca dal carcere
così destrutturato? Che cosa accade, dentro quelle mura, per far sì che in
una persona si possa creare un’identità tale che divenga difficile evitare
la recidivazione del reato? Quali sono, nella realtà, i processi normativi
ma, soprattutto, professionali che accompagnano un detenuto nella
carriera detentiva?
Nel tentativo di dare risposta a questi ulteriori quesiti è nata l’idea
di svolgere il tirocinio universitario proprio all’interno del mondo

8
Prefazione

carcere, opportunità che si è concretizzata con la disponibilità della Casa


Circondariale “Don Bosco” di Pisa.
Se nel caso della cooperativa, per potermi integrare al meglio nel
gruppo, ho dovuto mettere tra parentesi il ruolo di educatore fino allora
ricoperto, a maggior ragione per potermi inserire nel mondo (meglio
sarebbe dire nei mondi) interno al carcere ho scelto un livello di umiltà e
di rispettoso silenzio ancora maggiore. Dovevo entrare in punta di piedi,
come uno studente qualsiasi.
Le esperienze precedenti erano servite a farmi capire che da quel
mondo avevo moltissimo da imparare e quasi nulla da insegnare. Questo
è stato l’atteggiamento che mi ha consentito di raggiungere un notevole
livello di integrazione con il sistema del carcere pisano che ha reso
profonda in misura superiore alle attese l’intera osservazione.
Durante il periodo di tirocinio ho potuto svolgere, infatti, mansioni
tipiche dell’educatore penitenziario: colloqui coi detenuti: in sezione, in
ufficio oppure informali favoriti dalla particolare collocazione dell’area
educativa all’interno di quella detentiva tipica del carcere pisano;
colloqui di primo ingresso: compito delicatissimo che di per sé è indice
del rapporto di fiducia instaurato con gli operatori ed è stato un notevole
strumento per approfondire alcuni elementi legati alla detenzione;
redazione di relazioni di sintesi: se i colloqui hanno rappresentato
l’acquisizione di conoscenze sul lato umano dei processi e delle relazioni
interne al penitenziario, quest’attività ha mostrato il lato burocratico del
penitenziario; partecipazione ai G.O.T. (Gruppi di Osservazione e
Trattamento): riunioni multiprofessionali di verifica dei progetti
educativi noti, soprattutto, perché è da qui che scaturiscono eventuali

9
Prefazione

proposte di benefici e misure alternative alla detenzione: partecipazione


a Consigli di Disciplina: crocevia tra le prospettive della sicurezza e del
reinserimento, offrono uno spaccato della vita quotidiana e del
linguaggio del carcere; partecipazione alle riunioni intra-area: utili per
osservare le dinamiche e i conflitti tipici di un ambiente soltanto
apparentemente statico ma, in realtà, estremamente turbolento e
stressante.
Inoltre, di particolare importanza si è rivelata la partecipazione al
progetto Help to Help ed a riunioni interne sui casi a rischio suicidario
ed auto-eteroaggressivo.
La sensazione è che la prevalenza dei fini organizzativi sui moventi
personali, della personalità organizzativa su quella individuale, qualifichi
il carcere come organismo troppo spesso autoreferenziale e che perda
sovente di vista l’obbiettivo che dovrebbe porre al centro dell’intervento
la persona detenuta.
Se a questo aggiungiamo il sovraccarico di lavoro dovuto alla
carcerazione della miseria, in atto da anni sull’onda del principio della
tolleranza zero, importato in Italia dalla New York di Rudolph Giuliani
ed esteso dal 2001 ai poveri tra i poveri, i migranti dai paesi a forte
pressione migratoria — reale origine del sovraffollamento delle strutture
carcerarie, rappresentando da soli circa il 75% degli ingressi in una Casa
Circondariale come quella di Pisa — credo venga da porsi seri
interrogativi sui reali significati e le ragioni dell’esistenza stessa di
un’istituzione totale come il carcere e sulle scelte diverse che – pur con i
legittimi dubbi riguardanti la maturità culturale della società attuale –

10
Prefazione

possono essere proposte, quesiti ai quali proveremo a dare risposta nelle


pagine che seguono.

Ringraziamenti

Molte sono le persone che hanno creduto in me e nella possibilità


che io potessi raggiungere questo obbiettivo, per me molto importante.
Sento di dovere a tutte queste persone un sentito ringraziamento. In
particolare, a: mia madre e a mia sorella Veronica; all’amico fraterno
Cosimo Rizzo: senza le sue continue spinte, talvolta anche fisiche,
queste pagine non sarebbero mai state scritte; al prof. Roberto Tartarelli,
Direttore del Dipartimento di Ingegneria Chimica dell’Università di Pisa,
che mi ha concesso di essere ospite nel Dipartimento stesso per tutto il
periodo dei miei studi; al prof. Roberto Mauri per la simpatia e il
supporto morale dimostratimi; al dott. Saverio Migliori, tutor
universitario per il mio tirocinio e amico caro; al dott. Vittorio Cerri,
Direttore della Casa Circondariale “Don Bosco” di Pisa, che ha permesso
che questo tirocinio avesse luogo presso la Casa stessa; agli amici dello
staff dell’area pedagogica del “Don Bosco”, per la loro paziente
collaborazione: a Liberata (tutor interna al penitenziario e paziente mia
guida nel tirocinio), a Orlando, a Piera, ad Alessandra, a Loredana, a
Valentina e Luigi; a Jenny e Giuseppe, agenti dell’area tecnica del
carcere pisano; al dott. Salvatore Rigione del Provveditorato Regionale

11
Prefazione

Toscano per l’Amministrazione Penitenziaria; a tutti gli amici di vecchia


data, come Sergio e Maria Pia, Giulia, Alessandra e Massimo, Roberto e
Gabriella, Alessandro e il Beppe; Don Oreste Benzi, l’uomo che più di
tutti mi ha mostrato come un mondo migliore sia possibile; a Norina e a
tutti i fratelli della Comunità Papa Giovanni XXIII, che mi hanno
sostenuto, spronato e “strigliato” in questi anni di studio.
Infine, un grazie profondo a mia moglie Rosaria, che ha avuto la
pazienza di sopportare per tutto questo periodo le mie frequenti
lamentazioni, degne di Giobbe, ed ai miei figli, Valentina, Alice, Biagio,
Titti, Maurizio, Margherita, Walter e Jonathan, ai quali, per poter
soddisfare agli impegni di studio, ho dovuto togliere parte di quel tempo
che i babbi dedicano, amorevolmente, ai figli.

12
Capitolo Primo
Il trattamento penitenziario
nelle norme e nella teoria

1.1 Un cenno storico


1.1.1 Dal supplizio all’assoggettamento
La storia degli esseri umani è un affresco multicolore eternamente
incompiuto in cui ogni episodio, la vita di ogni singolo individuo, anche
il più sconosciuto e banale, costituisce un’ulteriore pennellata. Possiamo
scegliere di limitare il nostro sguardo al singolo segno universalizzando,
a partire da esso, ciò che presumiamo sia l’intero dipinto, oppure
possiamo tentare di aprire lo sguardo oltre il tratto unitario e cercare di
capire come sia finito in quel preciso punto ed in quel preciso momento
dell’intero processo storico.
I sistemi sociali come quello scolastico, sanitario, di welfare, quello
politico, soprattutto nell’accezione democratico-rappresentativa, sono
continuamente sottoposti a tensioni. Questo accade poiché tutti i sistemi
sono caratterizzati da equilibrio instabile che sviluppa tensioni che ogni
sistema trasmette ad altri. Il sistema politico non fa eccezione. Una delle
possibili qualificazioni delle tensioni caratteristiche del sistema politico è
quella connessa con il controllo del mutamento, spesso rappresentata
come riformatrice. Non c’è giorno che nei notiziari e nei giornali non si
parli di qualche riforma in atto o comunque in discussione. Tutto questo,
benché messo in luce per fini purtroppo spesso sospetti di strumentalità
volta allo scopo di diffondere nella società la sensazione che sia

13
Capitolo Primo

possibile mantenere il controllo e “governare” la storia da parte ora


dell’uno ora dell’altro esponente o partito politico, di fatto precede
l’uomo e le sue leggi che non possono altro che adeguarsi al mutare dei
rapporti e delle relazioni, delle visioni del mondo e dei paradigmi verso i
quali si orienta il sistema culturale.
Il sistema penitenziario, al pari degli altri sopra menzionati, segue il
medesimo modello. Punire non sempre ha significato incarcerare 1, ma
all’identificazione tra pena e carcere si è arrivati attraverso un processo
di costruzione che parte dalla pratica del supplizio, per lo più pubblico,
tipico di quella società che Foucault ama definire classica, l’ancien
régime. 2 Dalla lettura dell’inizio del famoso testo del filosofo francese e
che abbiamo riportato in nota, il lettore dei nostri tempi, anche il più
giustizialista, non può che inorridire di fronte alla brutalità delle
punizioni cui rischiava di venir sottoposto chi subiva una condanna per
un grave reato. Tuttavia, per il numeroso pubblico che, come ad uno
straordinario carnevale, assisteva all’evento, esso faceva parte dei rituali
sociali cui partecipava in modo forse non molto difforme da ciò che

1
.Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1976. Orig.:
Surveiller et punir. Naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975. Siamo di fronte ad una vera e
propria tecnologia disciplinare volta alla conservazione ed allo sviluppo del potere sovrano. È
possibile, secondo l’autore, “cercare di studiare la metamorfosi dei metodi punitivi, partendo da una
tecnologia politica del corpo, dove potrebbe leggersi una comune storia dei rapporti di potere e delle
relazioni d’oggetto” (p.27).
2
Ecco un chiaro, anche se truce, esempio di cosa ciò volesse dire a metà del secolo XVIII: “Damiens
era stato condannato, era il 2 marzo 1757, a «fare confessione pubblica davanti alla porta principale
della Chiesa di Parigi», dove doveva essere «condotto e posto dentro una carretta a due ruote, nudo,
in camicia, tenendo una torcia di cera ardente del peso di due libbre»; poi «nella detta carretta, alla
piazza di Grève, e su un patibolo che ivi sarà innalzato, tenagliato alle mammelle, braccia, cosce e
grasso delle gambe, la mano destra tenente in essa il coltello con cui ha commesso il detto parricidio
bruciata con fuoco di zolfo e sui posti dove sarà tanagliato, sarà gettato piombo fuso, olio bollente,
pece bollente, cera e zolfo fusi insieme e in seguito il suo corpo tirato e smembrto da quattro cavalli e
le sue membra e il suo corpo consumati dal fuoco, ridotti in cenere e le sue ceneri gettate al vento”.
(Pièces originales et procédure du procès fait a Robert-François Damiens, 1757, tomo III, cit. in
Michel Foucault, Sorvegliare e punire, cit.., p.5)

14
Capitolo Primo

succede oggi ad una partita di calcio, ad una corrida o, in un passato più


lontano, nel Colosseo.
La gente richiedeva lo spettacolo dell’orrido ed il sovrano lo
accontentava di buon grado, considerando anche che questo
rappresentava un modo per riaffermare la sua grandezza ed il suo potere
messi in discussione dall’azione del reo. Questa tecnologia della
rappresentazione svolgeva altresì l’importante funzione, nei confronti
degli spettatori, di deterrente, indennizzo e lezione in vista del vero
ordine della società stessa che ne veniva così coinvolta per intero al di là
della volontà arbitraria del sovrano.
Successivamente i mutamenti all’interno della società hanno portato
al sempre più frequente verificarsi di episodi in cui il condannato, prima
sbeffeggiato e dileggiato dagli spettatori, veniva difeso e perfino talvolta
liberato dalla folla configurando un’inversione, imprevista dai redattori
delle norme penali dell’epoca, della pena che spesso ricadeva su coloro
che l’avrebbero dovuta infliggere. Il supplizio pubblico non incuteva più
il timore che il sovrano sperava, ma, anzi, rischiava di essere occasione
di sovversione e ribellione.
Si comincia, quindi, ad allontanare il popolo dai luoghi delle
esecuzioni cui fa seguito successivamente una serie di trasformazioni
delle procedure che spostano il condannato dalla pubblica piazza al
chiuso di cortili ben protetti. Potremmo essere tentati di attribuire la
cessazione del rituale del supplizio pubblico all’accendersi di un nuovo
senso di compassione e umanità del legislatore del XVIII secolo ma, ad
un’osservazione più profonda, sembra emergere la possibilità che questo
mutamento di orientamento penale sia dovuto, piuttosto, alla necessità

15
Capitolo Primo

politica di salvaguardare il potere centrale dagli effetti dell’ambiguità di


questi rituali che avevano, oltre tutto, ormai perso gran parte della
funzione deterrente lasciando scoperta la sola anima vendicativa della
pena. Il filosofo francese fa notare come quello della conferma del potere
sovrano non sia, comunque, l’unico motivo che spinse verso
l’addolcimento delle pene.
È un periodo, la metà del XVIII secolo, denso di mutamenti sociali,
prima che economici o politici. Siamo in un’epoca contrassegnata da una
costante atmosfera riformistica, perfino rivoluzionaria, che segnerà in
maniera determinante i secoli a venire. Il sovrano vede diminuire il suo
peso sulla società e, di converso, la società ne acquisisce rispetto al
potere centrale, o perlomeno, in virtù di una diminuita pressione, può
liberare alcune istanze di diritto fino allora represse. Se non siamo
ancora all’equità delle punizioni, almeno la direzione presa pare essere
quella di una nuova economia del potere di castigare non più promanato
dal sovrano, o dai suoi privilegiati, ma assumesse toni di continuità
distributiva del potere pubblico.3
La principale fonte teorica di questo mutato atteggiamento fu
senz’altro la teoria del contratto sociale4 a partire dalla quale a venir
considerato violato da un crimine non è più il sovrano quanto, piuttosto,

3
Gli obbiettivi primari della nuova strategia per l’esercizio del potere di castigare sono: “fare della
punizione e della repressione degli illegalismi una funzione regolare, suscettibile di estendersi a tutta
la società; non punire meno, ma punire meglio; punire con una severità forse attenuata, ma per
punire con maggior universalità e necessità; inserire nel corpo sociale, in profondità, il potere di
punire”. (Foucault, Sorvegliare e punire, cit, p.89.)
4
Jean Jacques Rousseau, Il contratto sociale, Milano, Rizzoli, 2005. Orig.: Contrat Social, 1762..
“Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della
volontà generale, e noi, costituiti in corpo, riceviamo ogni membro quale parte indivisibile del tutto ”
(p. 67). […] “istantaneamente, al posto della persona singola di ciascun contraente, quest’atto di
associazione produce un corpo morale e collettivo composto da tanti membri quanti sono i voti
dell’assemblea, il quale riceve da questo stesso atto la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua
volontà” (p. 68).

16
Capitolo Primo

la società intesa come insieme di individui uniti da una serie di norme e


regole che ricordano una vera e propria stipula contrattuale. Il crimine
equivale, quindi, alla rottura del contratto.
L’obbiettivo primario era una società ordinata per ottenere la quale
erano necessari da un lato una precisa tecnologia disciplinare e, dall’altro
lato, una maggiore clemenza che puntasse, anziché all’annientamento del
criminale, vero e proprio deviante ante litteram, piuttosto alla sua
correzione e restituzione alla comunità come fonte di produttività. Gli
intellettuali umanisti, titolari della discussione sulla riforma, ebbero così
a portare la centralità della punizione fuori dal circuito della volontà del
sovrano verso la manutenzione dell’ordine della società e, cosa assai
significativa, spostarono l’attenzione dal corpo del criminale, da punire
quindi principalmente fisicamente, alla sua anima, da emendare e
ripulire.
La pena, dunque, si diversifica nelle funzioni. Abbiamo una
funzione deterrente, tipica della manifestazione pubblica del supplizio,
simile negli obbiettivi all’odierna prevenzione generale, mirante a
mostrare in pubblico gli effetti di eventuali comportamenti criminosi;
una funzione riparativa, non nel senso odierno di riparazione del danno
inferto, quanto piuttosto nel senso di ricostruzione della rottura del
contratto sociale; infine, una funzione meramente retributiva tramite la
quale viene inflitta una punizione, che, comunque, ha anch’essa
connotati correzionali miranti ad evitare il ripetersi futuro da parte
dell’individuo di simili comportamenti. Nasce, così, la prigione
moderna.

17
Capitolo Primo

Tra i pensatori illuministi che maggiormente hanno avuto influenza


nella mutazione della concezione delle punizioni non possiamo non
ricordare Cesare Beccaria5. Siamo nella seconda metà del XVIII secolo, i
princìpi illuministici tendono a pervadere qualunque campo del pensiero
e della società e il sistema giuridico non può non esserne coinvolto. Uno
dei fondamenti di questo approccio consiste nell’affermare la necessità
di una protezione sociale, intesa come scopo della pena, e che, per poter
svolgere concretamente tale funzione, la sanzione debba essere utilizzata
soltanto in casi di effettiva ed estrema necessità. Inoltre, altro principio
basilare è la definizione chiara e disponibile a tutti della proporzione tra i
delitti e le pene che ne conseguono. La conoscenza del rapporto tra
delitto commesso e pena subita deve fornire alla società la
consapevolezza di ciò che è lecito e ciò che tale non è. Il contratto
sociale viene quindi sottoposto alla firma dei cittadini che, in quanto
consapevoli, vengono riconosciuti maggiormente portatori di diritti
reciproci. Resta il fatto che la sanzione penale, per conservare l’efficacia
preventiva, doveva necessariamente definirsi in termini di gradualità
rispetto alla gravità del reato commesso, gravità misurata non più
esclusivamente su scala morale ma su norme sociali.6
L’introduzione di criteri con pretese di razionalità nella definizione
delle proporzioni tra delitti e pene ha portato successivamente
all’astrazione del sistema giuridico dal contesto politico-sociale e il suo
irrigidimento su posizioni che, proprio perché ritenute scientifiche,
apparivano date e immutabili. Gli obbiettivi restavano l’ordine e la
sicurezza sociale, gli strumenti la coercizione e la disciplina ferrea del
5
Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Milano, Feltrinelli, 1991, ed. orig. 1764
6
Cfr. Carlo Federico Grosso, “Le grandi correnti del pensiero penalistico italiano tra Ottocento e
Novecento”, in Storia d’Italia. La criminalità, Annali 12, Torino, Einaudi, 1997.

18
Capitolo Primo

carcere; i risultati furono però la negazione dei diritti e delle garanzie dei
detenuti e l’instaurazione di un clima repressivo all’interno degli istituti
penali. Forse non è secondario osservare come il carcere non sia l’unico
istituto basato su di un modello segregativo-correzionale. Gli ospedali, le
scuole, le fabbriche, le caserme, i conventi sono alcuni degli esempi di
istituzioni in cui tramite una precisa tecnologia disciplinare si punta alla
regolazione della vita di un individuo intesto come anima di cui
impossessarsi e su cui intervenire efficacemente. Si parla infatti di
istituzioni totali.
In epoca illuministica, ci ricorda ancora Foucault, l’intervento sulle
“anime” usava come strumento principale il lavoro. Non un lavoro
qualunque, esso doveva avere carattere pubblico, il detenuto lavoratore
doveva essere visto da tutti. Il criminale veniva inviato a lavorare sulle
strade e le piazze. Soltanto così si pensava potessero integrarsi tutte le
funzioni moralizzatrici che i riformisti avevano attribuito alla pena. Le
prigioni, inoltre, avevano costi di manutenzione notevoli per cui i
detenuti erano tenuti a lavorare per rifondere le spese per loro sostenute
dal carcere. Un carcere aveva tra i maggiori costi da sostenere quello
della manutenzione di un adeguato sistema di controllo e sorveglianza
che assicurasse l’attuazione della tecnologia della disciplina. Perché
possa dirsi efficace, la sorveglianza deve essere continua, ma per poter
essere tale il numero dei sorveglianti dovrebbe essere enorme. Una
soluzione pare essere quella di modificare le strutture fisiche degli istituti
penali secondo le intuizioni del filosofo Jeremy Bentham che, nel 1791,
culminarono nell’idea del “Panopticon”.

19
Capitolo Primo

Foucault, nel testo che già abbiamo preso abbondantemente in


esame, fornisce una lucida analisi di quello che, comunque, si è rivelato
un modello realizzato interamente soltanto in pochi casi mentre, quando
effettivamente è stato utilizzato, la maggior parte delle carceri lo ha
attuato soltanto in maniera parziale o con sostanziali modifiche. 7 Il
principio sottostante il dispositivo panottico, ad un’osservazione più
approfondita, torna ad essere ancora il mantenimento di una forma di
potere, soltanto che, questa volta, ciò avviene non più tramite la forza
fisica imposta su un corpo, quanto piuttosto per mezzo di una sottile
tecnologia del controllo che fa sì che il detenuto sia tenuto in una
costante consapevolezza di essere controllato a vista. Il vantaggio
principale del panottismo consiste nell’instillare questa convinzione
senza che tale controllo visivo sia effettivamente continuo; il detenuto
deve essere convinto di essere visto ma non deve poter verificare che
qualcuno lo stia controllando. Il potere deve essere visibile ma non
verificabile.8
Siamo, quindi, di fronte ad un addolcimento delle punizioni, ma
siamo parallelamente all’assoggettamento di corpi che perciò devono
essere resi necessariamente “docili”. Questo obbiettivo è il sogno
politico della borghesia dei Lumi, di irregimentare la società, soprattutto,
7
“Alla periferia una costruzione ad anello; al centro una torre tagliata da larghe finestre che si
aprono verso la faccia interna dell’anello; la costruzione periferica è divisa in celle che occupano
ciascuna tutto lo spessore della costruzione; esse hanno due finestre, una verso l’interno,
corrispondente alla finestra della torre; l’altra, verso l’interno, permette alla luce di attraversare la
cella da parte a parte. Basta allora mettere un sorvegliante nella torre centrale, ed in ogni cella
rinchiudere un pazzo, un ammalato, un condannato, un operaio o uno scolaro. Per effetto del
controluce, si possono cogliere dalla torre, stagliantisi esattamente, le piccole silhouettes prigioniere
nelle celle della periferia. Tante gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui ogni attore è solo,
perfettamente individualizzato e costantemente visibile. Il dispositivo panoptico predispone unità
spaziali che permettono di vedere senza interruzione e di riconoscere immediatamente. […] La
visibilità è una trappola”. (Michel Foucault, Sorvegliare e punire, cit., pag. 218)
8
Jeremy Bentham, Panopticon, in Works, ed. Bowring, tomo IV, cit. in Michel Foucault, Sorvegliare
e punire, cit., p.219

20
Capitolo Primo

diremmo oggi, nell’area della marginalità, in un costrutto modellabile di


dominio su di essa. Il retaggio giusnaturalistico prevale nella privazione
della libertà intesa come somministrazione di sofferenza e di
sospensione dei diritti personali e relazionali, pur se orientati, almeno in
teoria, al cambiamento dell’individuo9, cambiamento che avrebbe dovuto
basarsi sull’ammissione delle proprie responsabilità e la modifica dei
propri comportamenti.10
Per poter costruire e mantenere questa società disciplinare si
devono realizzare almeno quattro condizioni o requisiti:
1. adoperarsi per una ripartizione spaziale degli individui
2. mantenere il totale controllo delle attività individuali
3. costituire e pianificare esercizi di complessità crescente
4. spostare o collocare i singoli con precisione per ottenere un

apparato efficace.11
Ciò che è avvenuto, come si può osservare, è una mutazione del
concetto stesso di disciplina. Mutuato dal gergo militare, col termine
disciplina si intendeva, nell’età classica, tutto l’insieme delle pratiche
volte a neutralizzare i pericoli, sia di crimini, sia di diserzioni; adesso,
nell’età moderna, la società borghese ne orienta il significato verso
direzioni più positive: è uno strumento per accrescere le capacità e

9
Cfr. Gaetano De Leo, Psicologia della responsabilità, Roma-Bari, Laterza, 1996
10
Cfr. Di Gennaro, Breda, La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione,
Milano, Giuffré, 1997
11
“La disciplina fabbrica, partendo dai corpi che essa controlla, quatto tipi di individualità, o
piuttosto una individualità che è costituita da quattro caratteri: essa è cellulare (attraverso il gioco
della ripartizione spaziale), è organica (attraverso la codificazione delle attività), è genetica
(attraverso il cumulo del tempo), è combinatoria (attraverso la composizione delle forze). E per far
questo mette in opera quattro grandi tecniche: costruisce dei quadri, prescrive delle manovre, impone
degli esercizi, e infine, per assicurare la combinazione delle forze, organizza delle «tattiche»”.
(Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p.183)

21
Capitolo Primo

l’efficienza di soldati, lavoratori, scolari ecc., insomma un salto di


efficienza dell’intero ordine sociale.
In precedenza abbiamo visto come l’umanizzazione delle pene
fosse soltanto apparentemente animata da spirito compassionevole ed
egualitario mentre, una volta passata ad un filtro più stretto essa appariva
come uno strumento di conferma del potere 12. Così come in quel caso,
anche nell’analisi della genesi della società disciplinare, soprattutto ad
opera di Michel Foucault, le norme e gli standard, vera ossessione della
società borghese, lungi dall’essere strumento di parificazione sociale e
clausole di un contratto democratico come apparirebbero se ci si
fermasse alla loro formale omogeneità, non sono che ulteriori strumenti
12
Non soltanto gli atti di sanzionare, condannare ed infliggere sofferenze sono da mettere in relazione
al potere, anche il perdono, in particolare la Grazia, possono essere strumenti nelle mani del sovrano
per rimarcare la sua supremazia. Esiste una splendida pagina di Elias Canetti, scritta con il suo
caratteristico stile per immagini, per dare colore e profondità all’argomento. Scrive: “[…] Il potente
non perdona mai veramente. Egli registra con precisione ogni atto ostile e lo tiene in serbo, fingendo
d’averlo dimenticato: potrà servirgli per barattarlo con una completa sottomissione. Le azioni
magnanime dei potenti hanno sempre questo scopo: essi ambiscono sottomettere tutto ciò che si
oppone loro, a tal punto da pagare spesso un prezzo esageratamente alto per quella sottomissione.”
“Il debole – continua Canetti –, cui il potente sembra enormemente forte, non si accorge di quanto
sia importante per il potente stesso la completa sottomissione di tutti. Egli può valutare un
accrescimento di potere solo in base al suo peso effettivo e non riesce ad afferrare quanto conti per il
sovrano in maestà la genuflsessione dell’ultimo, dimenticato, miserabile suddito. L’interesse del Dio
biblico per ogni uomo, la tenacia e la cura con cui il Dio non dimentica alcun’anima, può essere di
alto esempio per tutti i potenti. Il Dio, inoltre, ha istituito un complesso traffico di indulgenze: chi gli
si sottomette, riacquista la sua grazia. Egli però, dopo, osserva attentamente il comportamento dello
schiavo, e nella sua onniscienza scopre facilmente se quegli torna a ingannarlo.”
“È fuor di dubbio – insiste il premio Nobel per la letteratura – che molti divieti hanno l’unica funzione
di sorreggere il potere di coloro che possono punirne e perdonare le trasgressioni. La grazia è un atto
di potere eccezionalmente alto e concentrato proprio perché presuppone la condanna; se non è stata
pronunciata una condanna, non può aver luogo alcun atto di grazia. La grazia implica anche
un’elezione. Di regola, non si grazia più di un determinato, limitato, numero di condannati. Il
punitore si guarda bene dall’essere troppo mite: anche quando fa mostra che la durezza
dell’esecuzione contrasti con la sua intima natura, egli si dice costretto a fondare il suo
comportamento sulla sacra necessità della punizione. Egli però lascia sempre aperta la via alla
grazia, sia che la conceda egli stesso in determinati, singoli casi, sia che raccomandi di concederla
alla superiore istanza cui può essere affidato il giudizio.
Il potere si manifesta al culmine della sua crescita là dove la grazia giunge all’ultimo momento.
Quando l’uccisione che è stata decretata sta per essere compiuta, sotto la forca o dinanzi al plotone
d’esecuzione, la grazia giunge come una nuova vita. Il potere ha un limite giacché non gli è possibile
restituire alla vita chi è stato davvero ucciso: ma con l’atto di grazia che giunge dopo lungo
temporeggiare, il potente sembra spesso aver quasi superato quel limite.” Elias Canetti, Massa e
potere, Milano, Adelphi,1981, p.360

22
Capitolo Primo

di classificazione, gerarchizzazione e di distribuzione dei ranghi sociali


che evidenzia e cristallizza le differenze tra una classe sociale e l’altra
consentendo alle classi dominanti di conservare, anzi, di rafforzare, il
potere sugli uomini appartenenti alle classi sociali più deboli.

1.1.2 Le teorie della pena


In modo evidentemente contraddittorio, per i giuristi, con il termine
pena si deve intendere contemporaneamente sia sofferenza inflitta, che
riabilitazione. Sebbene delle funzioni attribuite alla pena13 l’unica
espressamente ricordata nella Costituzione sia quella rieducativa, non ci
pare tuttavia che questa sia tra le funzioni che, nel concreto, siano assolte
con maggiore intensità e frequenza. Anzi, nella maggior parte dei casi
essa sembrerebbe completamente disattesa.
Una delle ragioni sta probabilmente nei significati che, nel corso del
tempo e del susseguirsi degli atti legislativi in materia giudiziaria, via via
hanno assunto la funzioni retributiva e riabilitativa della pena. A seconda
dell’orientamento ideologico e politico del momento anche il
bilanciamento tra gli scopi che avrebbero dovuto assolvere le sanzioni ha
13
È consolidato attribuire alla sanzione penale almeno tre funzioni principali:
1. la funzione retributiva, o afflittiva, che consiste nella sofferenza attribuita al condannato
come retribuzione per il male commesso;
2. la funzione riparativa che, con la risoluzione adottata dall’Economic and Social Council
(ECOSOC) nella sessione 2000, nel definire i Principi base sull’uso dei programmi di
giustizia riparativa in ambito penale (Risoluzione 2000/14) afferma al punto 3 che per
“giustizia riparativa va inteso quel procedimento nel quale la vittima e il reo, e se
appropriato, ogni altro individuo o membro e della comunità lesi da un reato partecipano
insieme attivamente alla risoluzione delle questioni sorte dall’illecito penale, generalmente
con l’aiuto di un facilitatore…”. Si tratta pertanto di un modello di giustizia che coinvolge
nella ricerca di soluzioni agli effetti del conflitto generato dal fatto delittuoso, oltre al reo
anche la vittima e la comunità, al fine di promuovere la riparazione del danno, la
riconciliazione fra le parti e il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo. (Cfr.
Ministero della Giustizia – Commissione di Studio “Mediazione Penale e Giustizia
Riparativa”, Giustizia riparativa e mediazione penale. Linee di indirizzo sull’applicazione
nell’ambito dell’esecuzione penale di condannati adulti, Marzo 2005);
3. la funzione rieducativa, o di emenda, che, almeno in teoria, dovrebbe mirare alla
riabilitazione del condannato per cercare di reinserirlo nella vita sociale.

23
Capitolo Primo

subito modifiche. Al giorno d’oggi si sommano molteplici approcci


teorici, alcuni maggiormente sbilanciati verso la quota retributiva, altri
verso la parte riabilitativa.
Il filosofo Seneca, nel De Ira, scrive: Nam, ut Plato ait, nemo
prudens punit quia peccatum est, sed ne peccetur, revocari enim
praetererita non possunt, futura prohibentur14. Questa massima
racchiude in sé i fondamenti di due importanti filoni teorici sulle
modalità dell’esecuzione penale. I fautori della funzione retributiva come
orientamento principale considerano preminente la punizione per il fatto
commesso, il quia peccatum est, mentre i riabilitazionisti mirano
maggiormente alla prevenzione di fatti criminosi futuri, ne peccetur.
Prevale, nei retributivisti, il fattore morale della pena che deve
servire prima di tutto a ristabilire l’ordine, naturale prima che sociale,
violato dall’azione criminale. Il paradigma retribuzionista, come molte
teorie meccanicistiche e deterministiche, pare sgretolarsi inesorabilmente
di fronte alla complessità dell’essere umano. Innanzitutto non si parla di
una astratta riduzione di molte libertà di un individuo ma, in concreto, di
una serie di afflizioni rivolte a persone che non hanno commesso alcun
reato, come i familiari del condannato costretti loro malgrado a far fronte
a disagi, talvolta oltremodo insormontabili, derivanti dalla detenzione del
loro caro, di prescrizioni penali generaliste che non prendono in
considerazione il fatto che il peso effettivo di una data condanna può
gravare in modo diverso a seconda delle caratteristiche personali
dell’individuo, come l’età, il grado di salute, le risorse economiche,
personali e sociali ecc. Ciò non vale soltanto per la parte della pena da
14
Lucio Anneo Seneca, Dialogorum libri – I dialoghi. Volume 1: De Ira – L’ira, Milano, Mursia,
1993. [Così infatti dice Platone: «Nessun uomo prudente infligge una punizione perché c’è una colpa,
ma perché non si commetta colpa: il passato non si può revocare, il futuro lo si previene»].

24
Capitolo Primo

scontare all’interno delle mura di un carcere, cosa che appare più


evidente, ma anche qualora la pena si svolga in una misura alternativa. Si
pensi, per esempio, al caso di un giovane extracomunitario e di un ricco
imprenditore, ad entrambi i quali vengano accettate le istanze di
detenzione domiciliare. Quest’ultimo potrà scontare la misura all’interno
della propria villa con piscina e vari comfort, oltre magari ad esercitare
liberamente la propria professione da casa; molto probabilmente, invece,
il migrante con domicilio precario e lavoro saltuario, artigianale, magari
pure in nero, rischia di trovarsi paradossalmente in una situazione ancora
peggiore che permanere nel carcere dove, per lo meno, vitto e alloggio
sono garantiti. Si badi che quest’esempio rappresenta un’estremizzazione
del problema soltanto per quanto riguarda il caso del ricco imprenditore
mentre è molto probabile imbattersi in persone con scarse risorse sia
individuali che sociali, condizioni queste spesso irrinunciabili per
l’ottenimento di un livello minimo di diritti e benefici15
Chi invece preferisce dare maggior credito alla seconda parte della
massima di Seneca e, quindi, guardare con più decisione al futuro del
“peccatore” ed al suo reinserimento nella società si rifà sovente ai
principi della prevenzione speciale, che ha lo scopo di impedire ad un
soggetto di delinquere normalmente, e prevenzione generale, orientata
verso il potere deterrente sull’intera società della pena inflitta ad un
individuo.16 Le teorie che si rifanno al principio della prevenzione
speciale hanno, al loro interno, un’ulteriore divisione a seconda degli
15
Cfr. Luigi Berzano, La pena del non lavoro, Milano, Franco Angeli, 1994.
16
Così scriveva in proposito il Beccaria: “[…] il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un
essere sensibile, né disfare un delitto già commesso […] il fine dunque non è altro che d’impedire il
reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque
e quel metodo d’infliggerle deve essere prescelto che, serbata la proporzione, farà un’impressione
più efficace e durevole sugli animi degli uomini e la meno tormentata sul corpo del reo (Beccaria, Dei
delitti e delle pene, cit., p.31)

25
Capitolo Primo

scopi attribuiti alla punizione. Siamo di fronte a due visioni della finalità
penale, una, cosiddetta positiva, assegna alla pena funzioni di
modificazione del comportamento del detenuto e mira ad obbiettivi
futuri; l’altra, negativa, più pessimisticamente della precedente, intende
la carcerazione come uno strumento per neutralizzare il soggetto.
Entrambe queste finalità sono racchiuse nelle teorie che si rifanno alla
prevenzione speciale. Una prima visione, di tipo moralistico, si basa
sulle scritture sacre e, quindi, sulla concezione espiatoria della punizione
in vista del reinserimento nella società.
Un’altra teoria trae origine dalla visione positivistica che vede il
delinquente come geneticamente o socio-culturalmente inferiore per
distaccarsene, soprattutto laddove si suppone la totale incorreggibilità
del reo e quindi socialmente pericoloso per natura. Al centro della
questione, i sostenitori della Nuova Difesa Sociale, collocavano la
responsabilità sociale che poteva essere recuperata mediante un
intervento che, per molti aspetti, precorreva più di altri quello che ai
nostri giorni chiamiamo trattamento. Si parla, infatti, della necessità di
rimuovere le cause che hanno portato a compiere il reato. Questa
operazione usava strumenti come un trattamento individualizzato, alcune
misure alternative alla pena detentiva e l’osservazione scientifica della
personalità. Quest’ultima doveva consistere in controlli medici e
psichiatrici, nonché in accertamenti sociologici, il tutto finalizzato ad
una prognosi a partire dalla quale veniva eventualmente decisa
l’applicazione della misura alternativa17.
Accanto agli orientamenti moralistico e scientifico troviamo, infine,
le teorie special-preventive della differenziazione personalizzata secondo
17
Cfr. Marc Ancel, La nuova difesa sociale, Milano, Giuffré, 1966

26
Capitolo Primo

cui il reo deve essere condannato ad una pena che rispecchi le sue
caratteristiche personali ma che, comunque, non perda di vista ma, anzi,
integri il più possibile le finalità di risocializzazione, intimidazione e
neutralizzazione del condannato.
Tutte queste teorie, pur evidenziando le rispettive differenze, hanno
un punto comune, una sorta di minimo comun denominatore,
rappresentato dalla medesima prospettiva riguardo al reato visto non
tanto come scelta individuale libera ed autodeterminata, quanto,
piuttosto, come sintomo di una malattia della sfera morale, sociale o
naturale. Il carcere non può che essere visto come l’istituzione preposta
alla cura che, differentemente da ciò che avviene laddove di cura si parla
più propriamente, cioè l’ospedale, ciò su cui agisce la “terapia” non è la
fisicità ma la personalità dell’individuo. Che si sia orientati alla sua
neutralizzazione o alla sua trasformazione ciò che emerge è la natura
manipolatoria che la pena deve mantenere viva in se stessa. La sanzione
non riesce ancora a uscire dalla rigida e ripetitiva conformazione, di
stampo feudale, che la assimila ad un percorso unidirezionale il cui
punto di partenza è sempre il sovrano, chiunque egli sia, dotato di potere
discrezionale sui subordinati destinati, loro malgrado, a subire tale
potere. L’uomo non è più un corpo su cui mandare in scena la
rappresentazione del dolore, egli è un’anima bacata da modificare, una
vita da porre “sulla retta via”. Ma chi stabilisce quale sia la “retta via”?
Le sacre scritture, il contratto sociale o l’utile? Oppure qualcos’altro?
Inoltre, le finalità di risocializzazione, intimidazione e neutralizzazione
si rivelano puramente teoriche e si scontrano con alcuni dati di fatto
come l’alto tasso di recidività, la dimostrata azione criminogena della

27
Capitolo Primo

detenzione e, soprattutto, la dignità dell’uomo che, anche se criminale,


non può essere mai considerato inferiore al punto da doversi vedere
attribuiti bisogni rieducativi e pratiche risocializzanti standardizzate ma
deve, invece, aver riconosciuto il diritto alla propria autodeterminazione
e, soprattutto se soggetto marginale, di liberare le proprie capacità di
sviluppo.
Le teorie della prevenzione generale seguono lo stesso canovaccio.
Si sposta il fulcro della leva dall’individuo alla società ma il risultato
cambia ben poco: chi esercita la forza è sempre chi detiene il potere. Le
dottrine general-preventive di tipo positivo mirano all’integrazione
sociale, ad un’integrazione, comunque, ad alto tasso di conformismo ed
assimilazione18 che ha principalmente un effetto sedativo sull’allarme
sociale, generato specialmente da alcuni crimini, e una riaffermazione
della solidarietà sociale19.
La visione negativa dell’approccio della prevenzione generale porta
a considerare che la pena debba avere il compito di fornire un esempio e,
di conseguenza, viene lasciato in evidenza il valore deterrente della
minaccia della pena. Questa lettura della punizione lascia molti dubbi
sull’eticità di una punizione che utilizzi, di fatto, il singolo individuo per
fini di manutenzione sociale. Ne consegue la legittimità della condanna
di un innocente se l’effetto ottenuto è la pace sociale, il prevalere della
ragion di Stato. Vengono subito a mente vari esempi che hanno segnato
la parte più buia della nostra Repubblica negli ultimi decenni.

18
Esse, infatti, “assegnano alle pene funzioni di integrazione sociale tramite il generale
rafforzamento della fedeltà allo Stato nonché la promozione del conformismo delle condotte” (Luigi
Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, Laterza, 1989, p. 263)
19
Emile Durkheim, Due leggi dell’evoluzione penale, in Emilio Santoro (a cura di), Carcere e società
liberale, Torino, Giappichelli, 1997.

28
Capitolo Primo

Il tema della rassicurazione dell’opinione pubblica, come possiamo


vedere quotidianamente, è oggi molto sentito e viene da chiedersi fino a
che punto sia la criminalità a portare il sistema politico a dover
rassicurare la società o, piuttosto, non sia lo stesso sistema politico ad
allargare il fronte dell’illegalismo popolare su cui costruire sia l’allarme
sociale che le soluzioni legislative che gratifichino l’elettorato.
L’ordinamento di epoca fascista partiva dall’assunto che la pena
dovesse avere il duplice carattere di pura retribuzione e difesa sociale
mentre la Corte Costituzionale, ha orientato la giurisprudenza
penitenziaria in senso sempre più rieducativo 20 e risocializzante della
pena partendo dal fatto che difesa sociale e prevenzione, soprattutto
visto il carattere chiuso dell’istituzione carceraria che può rendere non
facilmente controllabile ciò che realmente avviene al suo interno, fanno
correre “il rischio di strumentalizzare l'individuo per fini generali di
20
Cfr., Alessandro Margara, “Il destino del carcere” in Ordine e Disordine, volume a cura della
Fondazione Michelucci, 2007, pp.17-49: «Si parte dalla sentenza costituzionale n. 204/74, nella quale
si legge: “Con l’art. 27, comma 3, Cost.,” “il fine ultimo e risolutivo della pena stessa, quello, cioè,
di tendere al recupero sociale del condannato”, “ha assunto un peso ed un valore più incisivo di
quello che non avesse in origine; rappresenta, in sostanza, un peculiare aspetto del trattamento
penale e il suo ambito di applicazione presuppone un obbligo tassativo per il legislatore di tenere non
solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a
realizzarle e le forme atte a garantirle. Sulla base del precetto costituzionale sorge, di conseguenza, il
diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il
protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in
effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo e tale
diritto deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale”.»
«In questa sentenza troviamo l’affermazione di un principio, costruito come diritto soggettivo del
condannato a vedere riesaminare, durante la esecuzione della pena, nei tempi e modi stabiliti dalla
legge ordinaria, se la parte di pena espiata abbia già assolto positivamente o meno al suo fine
rieducativi: se è così, la esecuzione deve proseguire in misura alternativa alla detenzione, ovvero, nel
caso deciso dalla Corte Costituzionale, in liberazione condizionale (allora, prima dell’entrata in vigore
dell’Ordinamento penitenziario, unica misura alternativa). Si noti che la individuazione di tale diritto
soggettivo è centrale nella sentenza, perché, dal riconoscimento di tale posizione giuridica del
soggetto, deriva la affermazione della competenza a decidere del giudice ordinario in materia di
liberazione condizionale e la dichiarata incostituzionalità della competenza del ministro della
giustizia, prevista dalla normativa allora vigente. Nella sentenza costituzionale si costruisce, in modo
esplicito, il rapporto esecutivo penale come quello in cui lo Stato afferma la sua pretesa punitiva e il
condannato ha però il diritto soggettivo che si è descritto, nato, come la sentenza chiarisce, dall’
“obbligo tassativo, per il legislatore, di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena,
ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle”.»

29
Capitolo Primo

politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare la


soddisfazione di bisogni collettivi di stabilità e sicurezza (difesa
sociale), sacrificando il singolo attraverso l'esemplarità della sanzione.
È per questo che, in uno Stato evoluto, la finalità rieducativa non può
essere ritenuta estranea alla legittimazione e alla funzione stesse della
pena "21. Il carattere di istituzione totale22, autoritaria e chiusa verso
l’esterno, del carcere rischia di fungere da impedimento alla trasparenza
e il controllo da parte dell’opinione pubblica sulle attività svolte
all’interno. L’aspetto pubblico è confinato, per lo più, alla fase
preliminare l’incarcerazione, all’accusa, all’allarme sociale generato dal
reato, sia individuale che come effetto, almeno presunto,
dell’appartenenza, a determinate classi o categorie sociali 23, con la
sempre disponibile grancassa della maggior parte dei mezzi di
comunicazione di massa.
Fin qui abbiamo preso in esame le teorie cosiddette
giustificazioniste, quelle teorie, cioè, che in definitiva giustificano la

21
Sentenza Corte Costituzionale n.313 del 26 giugno 1990
22
Erving Goffman,.Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza,
Torino, Einaudi, 2003. Orig. Asylums. Essays on the social situation of mental patients and other
inmates, Random House, 1961. L’autore definisce così le istituzioni totali: “Nella nostra società
occidentale ci sono tipi diversi di istituzioni, alcune delle quali agiscono con un potere inglobante –
seppur discontinuo – più penetrante di altre. Questo carattere inglobante o totale è simbolizzato
nell’impedimento dello scambio sociale e all’uscita verso il mondo esterno, spesso concretamente
fondato nelle stesse strutture fisiche dell’istituzione: porte chiuse, alte mura, filo spinato, rocce, corsi
d’acqua, foreste o brughiere. Questo tipo di istituzioni il lo chiamo «istituzioni totali»”(p.34). Secondo
Goffman le istituzioni totali, compreso il carcere, sono luoghi dove troviamo integrate in un unico luogo
caratteristiche riscontrabili singolarmente in altre istituzioni:
1. attività che normalmente l’uomo svolge in luoghi diversi, con compagni diversi sotto diverse
autorità o senza alcuno schema razionale di carattere globale, come dormire, divertirsi e lavorare,
vengono praticate nello stesso luogo e sotto la stessa, unica autorità;
2. queste attività quotidiane si svolgono a stretto contatto con un enorme gruppo di persone (gli
internati) trattati allo stesso modo ed obbligati a fare le stesse cose;
3. le medesime attività sono programmate rigidamente tramite un sistema di regole formali imposte
dall’alto la cui esecuzione è controllata da addetti speciali (lo staff)
4. il tutto è finalizzato al raggiungimento degli scopi ufficiali che la stessa istituzione si prefigge
23
Secondo alcuni studiosi, l’appartenenza ad alcune categorie, in particolare i migranti, costituirebbe
elemento sufficiente a determinarne la propensione a delinquere. (Cfr. Marzio Barbagli, Immigrazione
e criminalità in Italia, Bologna, Il Mulino, 1998)

30
Capitolo Primo

pena pur se con i dovuti distinguo fondati sulle diverse prospettive da cui
esse vengono analizzate.

1.2 Il trattamento nelle norme


1.2.1 L’Ordinamento Penitenziario
Il 30 Agosto del 1955 l’ONU emanava la risoluzione “Regole
minime standard per il trattamento dei detenuti24” apportando la novità
del personale specialistico per il trattamento rieducativo, anche se
prudentemente viene auspicato “laddove possibile” ed “in numero
sufficiente”.25 Si tratta per l’appunto di regole minime sulle quali
ciascuno Stato avrebbe dovuto poi costruire la propria legislazione in
materia penitenziaria.
Per ciò che riguarda il nostro Paese la funzione rieducativa della
pena era stata riaffermata nella legislazione con la Costituzione della
Repubblica Italiana26. Per attuare i dettami della Costituzione e delle
Nazioni Unite, come quasi sempre è accaduto in tema di giustizia, a fare
da pilota per gli esperimenti di riforma giudiziaria è stato il sistema
penale minorile. Soltanto un anno dopo la Risoluzione ONU, infatti,
nascono, con la Legge n.888 del 25 Luglio 1956, nuove figure giuridiche
come l’Istituto di Osservazione, l’Ufficio di Servizio Sociale e l’Istituto
Medico-Psico-Pedagogico. Di fatto, seppur nel solo settore minorile,
fanno l’ingresso nel sistema carcerario italiano l’educatore, lo psicologo
e l’assistente sociale. A onor del vero qualcosa si è sperimentato anche
nel settore degli adulti, anche se soltanto dei più giovani, con l’Istituto di

24
Per il testo integrale (in inglese) vedi: http://www.ohchr.org/english/law/treatmentprisoners.htm
25
Ivi, Art.49
26
In particolare all’Art.27 c.3 Cost.: Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso
di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato

31
Capitolo Primo

Osservazione di Rebibbia, al quale si è affiancato nel 1959 il primo


Istituto di Trattamento, a Milano il Centro di Osservazione (nel 1960) e
l’Istituto di Trattamento (1963) e a Napoli Poggioreale l’istituto
sperimentale nel 1969.
A metà degli anni ‘70 arriva finalmente la riforma
dell’Ordinamento Penitenziario con la Legge del 26 Luglio 1975 n.354
concernente “Norme sull’Ordinamento Penitenziario e sulla esecuzione
delle misure preventive e limitative della libertà personale” e con il DPR
del 29 Aprile 1976 n.431 che approva il “Regolamento di esecuzione”
della legge e che determina i significati dell’osservazione e del
trattamento nonché le competenze degli operatori e, importante novità, la
previsione delle figure di esperti specialisti in psichiatria, criminologia,
pedagogia e servizio sociale. La Legge 354/75, che d’ora in poi per
comodità definiremo semplicemente O.P., Ordinamento Penitenziario,
stabilisce fin dai primi commi quale siano gli intenti ufficiali che ne
hanno dato origine.
All’art. 1 O.P. si legge, infatti: “Il trattamento penitenziario deve
essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità
della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità,
senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni
economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose. […]
Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un
trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con
l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è
attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle
specifiche condizioni dei soggetti.”

32
Capitolo Primo

Più avanti, il dispositivo entra nello specifico indicando, al Capo


III, le modalità secondo cui il trattamento deve essere realizzato. In
particolare l’Art.13 riguarda la cosiddetta individualizzazione del
trattamento. Se pensiamo al dettato costituzionale, nella parte in cui fa
riferimento alla tendenza al recupero sociale della persona detenuta,
difficilmente ci potrebbe venire in mente che questa si possa realizzare in
modo collettivo prescindendo dai bisogni, dalle prerogative e
propensioni individuali. Ed infatti in questo articolo si rende esplicita la
necessità, per il trattamento penitenziario, di “rispondere ai particolari
bisogni della personalità di ciascun soggetto” la ricerca dei quali si
dovrebbe attuare mediante “l’osservazione scientifica della personalità
per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento
sociale […] compiuta all’inizio dell’esecuzione [penale] e proseguita nel
corso di essa”.27 Al termine dell’osservazione “sono formulate
indicazioni in merito al trattamento rieducativo da effettuare ed è
compilato il relativo programma, che è integrato o modificato secondo
le esigenze che si prospettano nel corso dell’esecuzione”. Molto
interessante è l’ultimo comma nel quale si dice testualmente che “deve
essere favorita la collaborazione dei condannati e degli internati alle

27
Per comprendere in cosa dovrebbe consistere la scientificità dell’osservazione della personalità, è
forse utile fare un passo indietro fino agli inizi degli anni ’60. Siamo negli anni in cui si sperimentano
i primi istituti di osservazione, Rebibbia in primis, e si coltiva l’illusione che la risoluzione dei
problemi dei detenuti passi unicamente attraverso la rilevazione e la classificazione scientifica delle
loro anomalie biopsichiche. La scientificità dell’operazione viene assicurata dall’integrazione degli
interventi di professionisti specializzati: psicologi, psichiatri, medici internisti, elettroencefalografisti,
educatori e assistenti sociali. È su queste basi “scientifiche” che si basa, nel giugno del 1960, l’allora
ministro Gonella, quando coordina un gruppo di magistrati della Direzione Generale degli Istituti di
Prevenzione e Pena nell’elaborazione di un progetto di legge sul carcere che opera nel chiuso di un
comitato di studio ben lontano dall’assemblea parlamentare, particolare tra l’altro di cui alcuni
studiosi hanno annotato l’autocentrismo e la preoccupante mancanza di controllo democratico (Cfr.
Guido Neppi Modona, Appunti per una storia parlamentare della riforma penitenziaria, in La
questione criminale, 1976, n.2-3).

33
Capitolo Primo

attività di osservazione e di trattamento” che sottolinea il carattere non


coercitivo dell’osservazione e del trattamento.
Ora, se andiamo oltre nella lettura dell’Ordinamento Penitenziario,
all’art.15 scopriamo che, secondo il legislatore, “il trattamento del
condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente
dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali,
ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo
esterno ed i rapporti con la famiglia.” Inoltre: “Ai fini del trattamento
rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è
assicurato il lavoro. Gli imputati sono ammessi, a loro richiesta, a
partecipare ad attività educative, culturali e ricreative e, salvo
giustificati motivi o contrarie disposizioni dell’autorità giudiziaria, a
svolgere attività lavorativa o di formazione professionale, possibilmente
di loro scelta e, comunque, in condizioni adeguate alla loro posizione
giuridica.” Sia dal dettato costituzionale che dai primi commi
dell’Ordinamento Penitenziario parrebbe che al centro dell’attenzione sia
messo il soggetto detenuto verso il quale l’amministrazione penitenziaria
e, in senso più esteso, l’intero meccanismo giudiziario, si debba attivare
ai fini di una ricostruzione dell’integrazione sociale ma, proseguendo
nella lettura, emergono dal sottosuolo elementi che nella realtà
quotidiana del carcere sono effettivamente i principali riferimenti
dell’intero processo trattamentale e, in definitiva, la ragione d’essere del
carcere stesso.

34
Capitolo Primo

1.2.2 Le misure alternative alla detenzione


Rispetto al disegno di legge Gonella del giugno 1960, verso la metà
degli anni ’70, si assiste ad un mutamento del paradigma alla base della
concezione della punizione e della riabilitazione del condannato. Siamo
nel novembre 1973, quando il ministro Zagari può affermare: “[…]
bisogna considerare il carcere non più come una realtà separata [ma
come] una delle tante formazioni sociali in cui vivono quei cittadini che,
se pure hanno violato la legge penale, non devono per questo sentirsi
definitivamente esclusi dal contesto sociale” e “bisogna spezzare in
modo irreversibile quella spirale di incomunicabilità che aveva
caratterizzato in passato i rapporti tra il carcere e il mondo esterno” 28.
È su queste basi che poggia l’inserimento dell’affidamento in prova ai
servizi sociali tra le misure alternative alla detenzione, pene che possono
essere scontate fuori dal carcere, previste nell’ordinamento penitenziario
in discussione nelle aule parlamentari e che, almeno in teoria, collocano
il carcere tra le sanzioni penali da usare in casi estremi e laddove venga
esclusa la pericolosità sociale del soggetto. A proposito della variabile
pericolosità sociale giova forse ricordare che la sussistenza o meno di
tale connotazione doveva comunque essere vagliata tramite un periodo di
osservazione da trascorrere all’interno dell’istituto di pena, presupposto
in seguito progressivamente abbandonato rendendo oggi le misure
alternative accessibili anche senza entrare in carcere.
La riforma del ’75 sembra, quindi, maggiormente orientata verso
una prospettiva che mira alle fonti dei fenomeni di criminalità, le basi

28
Atti parlamentari, Senato della Repubblica Italiana, VI Legislatura, Commissione Giustizia, seduta
del 7 novembre 1973. È difficile poter pensare che, parlando di incomunicabilità tra carcere e mondo
esterno, il ministro non avesse in mente anche il comitato di studio del disegno di legge Gonella del
1960.

35
Capitolo Primo

sociali, economiche e culturali, rispetto alla prevalente visione repressiva


del mondo della devianza che caratterizzava i precedenti sistemi
legislativi. Cresce la sensazione, nell’opinione pubblica, che la
responsabilità individuale da sola non basti a motivare le azioni del reo
ma sia presente un quid di collettivo, all’interno di esse, di cui la società
in qualche modo debba farsi carico. Una manifestazione di questo
mutato atteggiamento è l’introduzione, all’interno dell’osservazione del
detenuto, degli aspetti socio-culturali e relazionali che si vanno ad
aggiungere alle componenti bio-psicologiche del soggetto.
Uno dei frutti tangibili di questo viraggio di mentalità è
l’introduzione dello strumento delle misure alternative alla detenzione
che sono:
1 L’affidamento in prova al servizio sociale 29, concesso, in
assenza di pericolosità sociale e rischio di recidiva, a coloro
che abbiano un residuo di pena non superiore a tre anni.
Consiste nella possibilità, pur con l’obbligo di seguire
particolari prescrizioni, di scontare la pena fuori dall’Istituto.
Nel caso di persone dipendenti da sostanze (droga e alcool) è
possibile, qualora lo vogliano, espiare la pena in comunità
terapeutica30.

29
Art.47 O.P. come modificato dall’art.2 della Legge del 27 maggio 1998 n.165, Legge Simeone-
Saraceni
30
Art.94 D.P.R. 309/90, Testo unico in materia di stupefacenti, che va a sostituire l’Art.47-bis
dell’Ordinamento Penitenziario che riguardava l’affidamento in prova in casi particolari.
Lo stesso decreto sugli stupefacenti, all’Art.90, prevede la misura della sospensione della pena
detentiva per coloro che, tossicodipendenti al momento del reato, abbiano già in corso un programma
terapeutico o lo abbiano positivamente concluso. Da notare che, nei due casi qui sopra descritti, per
poter usufruire del beneficio la pena detentiva, inflitta o residua, non deve essere superiore a quattro
anni, uno in più rispetto a persone non tossicodipendenti.

36
Capitolo Primo

2 La detenzione domiciliare31 dà, anch’essa, la possibilità al


condannato di eseguire o proseguire la pena detentiva al di
fuori delle mura del carcere in un’abitazione privata o in una
clinica/comunità. Questa misura segue più di altre principi di
natura umanitaria riservandone l’applicazione a persone in
particolari condizioni di disagio: donne incinte, anziani,
giovani, disabili ecc.
3 La semilibertà32 non è una vera e propria misura alternativa,
dato che la persona condannata non perde lo status di detenuto
dovendo passare comunque la notte in istituto, ma la si può
considerare l’anticamera di misure più ampie e uno dei
principali strumenti del graduale reinserimento nella società. Di
solito essa è concedibile a patto di aver scontato almeno la
metà della pena. Fanno eccezione persone che abbiano
commesso reati a particolarmente elevato tasso di pericolosità
sociale33 per cui è previsto che debbano aver scontato almeno i
due terzi della pena, i condannati all’ergastolo che devono
avere, invece, scontato almeno venti anni. Infine, elemento di
particolare rilievo per le implicazioni che interessano più
specificamente questo lavoro, coloro cui non sono riconosciuti
i presupposti per la concessione dell’affidamento in prova ai
servizi sociali possono usufruire della semilibertà anche prima
dell’espiazione di metà della pena.

31
Art.47-ter O.P. introdotto dalla Legge 663 del 10 ottobre 1986, Legge Gozzini, e rivisto dalla già
citata Legge Simeone-Saraceni del ’98 che ha ampliato le possibilità di usufruire del beneficio.
32
Regolamentata dall’art.48 O.P. e delineata nei requisiti di ammissione con il successivo art.50
33
Indicati nello stesso Ordinamento Penitenziario all’art.4-bis c.1

37
Capitolo Primo

4 La liberazione anticipata34 o, nel linguaggio carcerario


informale, i «giorni», è a tutti gli effetti il premio, sotto forma
di riduzione della pena pari a quarantacinque giorni ogni sei
mesi di detenzione effettivamente scontata, che viene elargito a
coloro che diano “prova di partecipazione all’opera di
rieducazione”, così recita l’articolo di legge, non incorrendo
mai in sanzioni disciplinari nel periodo di detenzione e
partecipando alle attività trattamentali.
5 Il lavoro esterno35 non è tecnicamente una misura alternativa
alla detenzione quanto piuttosto un beneficio concesso dal
direttore del carcere che, collocando presso datori di lavoro
esterni all’istituto la persona detenuta, si assume totalmente le
responsabilità della decisione e di tutto ciò che da essa possa
eventualmente conseguire. Questo rende questa misura
teoricamente forse la tappa più significativa del percorso
retributivo-trattamentale del detenuto, in pratica scarsamente
utilizzata e lasciata alla professionalità e al coraggio del singolo
direttore penitenziario che è comprensibile preferisca lasciare
un detenuto dentro piuttosto che rischiare personalmente
perfino il proprio posto di lavoro.

1.3 Gli attori


L’osservazione della personalità del detenuto e dell’internato è
maggiormente delineata nel Regolamento di Esecuzione
dell’Ordinamento Penitenziario36 che, all’Art.27 amplia il raggio
34
Art.54 OP
35
Art.21 OP e art.48 RE
36
D.P.R. n.431 del 29 Aprile 1976 e successive modifiche

38
Capitolo Primo

dell’analisi dei bisogni del soggetto portando l’attenzione, oltre che sugli
aspetti “fisio-psichici” di lombrosiana memoria, anche sulla sfera
affettivo-relazionale37.
Il successivo art.29 indica coloro che sono preposti alla redazione
del documento di sintesi sul trattamento individualizzato riunendoli nel
“Gruppo di Osservazione e Trattamento (GOT)” che deve essere
composto dal “personale e dagli esperti che hanno svolto le attività di
osservazione”.
Uno dei motivi che hanno spinto il legislatore a spostare il
Magistrato fuori dal carcere vero e proprio sta, con tutta probabilità,
nella filosofia che lo ha spinto ad elaborare l’intera legge di riforma. Il
tentativo era quello di spostare il baricentro della pena dalla funzione
retributiva, giuridico-centrica per natura, verso prospettive
maggiormente inclini a considerare il detenuto come un uomo da
sostenere e condurre verso una completa riabilitazione sociale.
Probabilmente, si è pensato, il fatto di lasciare il trattamento
maggiormente in mano alle nuove figure introdotte proprio dalla riforma,
l’educatore e l’assistente sociale dell’area esterna, avrebbe dato una
spallata decisiva alla mentalità securitaria allora, come oggi, tuttavia,
preminente. Nella realtà molte di queste buone intenzioni sono rimaste
sulla carta non completate da un’adeguata e coerente distribuzione delle
competenze e delle mansioni delle nuove figure professionali. In ipotesi
37
Ivi, Art.27 c. 1 e 2: “[…]l’osservazione scientifica della personalità è diretta all’accertamento dei
bisogni di ciascun soggetto connessi alle eventuali carenze fisio-psichiche, affettive, educative e
sociali che sono state di pregiudizio all’instaurazione di una normale vita di relazione. Ai fini
dell’osservazione si provvede all’acquisizione dei dati giudiziari e penitenziari, biologici, psicologici
e sociali e alla loro valutazione con riferimento al modo in cui il soggetto ha vissuto le sue esperienze
e alla sua attuale disponibilità ad usufruire degli interventi di trattamento
All’inizio dell’esecuzione, l’osservazione è specificamente rivolta, con la collaborazione del
condannato e dell’internato, a desumere elementi per la formulazione del programma
individualizzato di trattamento, il quale è compilato nel termine di nove mesi..”

39
Capitolo Primo

potremmo supporre che ciò sia avvenuto in conseguenza della notevole


compressione cui la legge, al suo stadio embrionale, fu sottoposta in sede
di dibattito parlamentare e, come del resto si può osservare con
qualunque disegno di legge, ciò che ne è emerso è un qualcosa che vede
molto diluiti al suo interno i princìpi base che guidarono i suoi ideatori.
Per adesso ci limitiamo alla descrizione dei fenomeni legati al
trattamento mentre ci riserviamo il successivo capitolo per approfondire
le ragioni delle contraddizioni che, comunque, già a livello intuitivo
emergono in gran quantità.
È l’art.80 OP ad indicare gli operatori professionali preposti al
trattamento penitenziario. Così recita, al comma 1: “Presso gli istituti di
prevenzione e di pena per adulti, oltre al personale previsto dalle leggi
vigenti, operano gli educatori per adulti e gli assistenti sociali
dipendenti dai centri di servizio sociale previsti dall’articolo 72”

1.4 I processi del trattamento


Il trattamento è un processo che, nella teoria, deve iniziare al
momento esatto in cui un soggetto raggiunge lo status di condannato,
quindi a seguito della sentenza definitiva. Nella pratica, questo non
avviene oppure, nel migliore dei casi, si risolve nella mera sottoscrizione
del patto trattamentale senza tuttavia che da esso derivi direttamente
l’azione formativa.
A seconda dell’orientamento teorico o della particolare sensibilità
che caratterizza chi affronta l’argomento si possono incontrare, per
indicare lo sia lo scopo che i mezzi del trattamento penitenziario, i
termini rieducazione, riabilitazione oppure risocializzazione. Nessuno di

40
Capitolo Primo

questi concetti, preso a sé, ci pare possa rappresentare da solo


l’obbiettivo che, solo teoricamente, ribadiamo, la sanzione penale si
pone quando esce dalla funzione retributiva ed affronta l’uomo nel suo
essere complesso. Rieducazione, riabilitazione e risocializzazione ci
paiono essere, più che fonti di costruzione di capacità e competenze
personali di un essere umano destinato a vivere in un contesto sociale,
gli effetti di una progressiva ma solida integrazione col mondo che lo
circonda e nel quale, al pari di chi non ha mai avuto la ventura di
“toccare” il carcere, è destinato a vivere. L’uomo e la donna che
usciranno dal carcere dovranno, quindi, essere capaci di pensare ed agire
non soltanto allo scopo di evitare di ritornare nel circuito penale ma
anche di mettere a disposizione della società che li circonda e di se stessi
le proprie competenze, i propri pensieri e la propria soggettività.
I concetti di rieducazione, riabilitazione e risocializzazione, perché
si concretizzino in azioni formative hanno, sia pure con qualche
sfumatura, un fondo autoritario che tende a limitare, se non ad escludere
in toto, la partecipazione dell’individuo al processo formativo. C’è
sempre qualcuno al di sopra del detenuto che formula la diagnosi e
stabilisce la terapia alla quale egli, come un “paziente”, dovrà
uniformarsi se vorrà guarire. Alcune circolari interne al DAP mirano allo
scopo di favorire la partecipazione del detenuto al “programma di
trattamento”, sia all’atto della redazione del progetto che durante il suo
svolgimento, ma l’enorme asimmetria generata dal formidabile potere
che l’istituzione carcere, in tutte le sue espressioni, compresa quella
educativa, pare non perdere occasione di rimarcare non può che portare

41
Capitolo Primo

il soggetto ad adeguarsi alle indicazioni ed alle prescrizioni che i gruppi


di osservazione e trattamento stabiliscono per lui.
Per indicare gli effetti cui il trattamento dovrebbe tendere saremmo
tentati di utilizzare il termine inclusività, intendendo con questo indicare
il punto di confluenza degli obbiettivi del trattamento comunque inteso,
rieducativo, riabilitativo, risocializzativo ecc., ottenibile tramite lo
sviluppo delle potenzialità individuali in un contesto di
compartecipazione alle norme sociali. Quindi, non soltanto
interiorizzazione delle norme sociali, utile se non altro ad impedirne il
ritorno in carcere, ma, piuttosto, rimozione delle cause di devianza e, più
nello specifico, di azioni criminose, cause che possiamo ipotizzare,
semplificando al massimo e riservandoci di approfondire il tema nelle
pagine che seguiranno, si racchiudano nel concetto di inclusione sociale.
Anche la finalità inclusiva presenta, tuttavia, numerose problematicità
che la rendono insufficiente, per alcuni versi, addirittura fuorviante, per
altri. Non si scosta, infatti, dalla tendenza autoritaria che, come abbiamo
visto, vale per altre definizioni di cui abbiamo parlato poco sopra. Quali
siano i modelli di società cui far tendere l’individuo non è dato sapere
con certezza e, più che altro, senza il rischio di configurare un
appiattimento dei modelli di società che, estremizzando, sta alla base di
molti regimi totalitari del passato ma anche del presente. Per queste
ragioni, per indicare il processo formativo da attuare in carcere, pur nella
consapevolezza dei molti aspetti critici che esso rappresenta, alcuni dei
quali tenterò di evidenziare nel prosieguo del presente lavoro, userò il
termine usato nell’ordinamento penitenziario attuale: il trattamento.

42
Capitolo Primo

Trattamento, quindi, come processo e come percorso che una


persona intraprende a partire dal suo ingresso in carcere o meglio, come
vedremo, dal momento in cui viene condannato. Per dare un abbozzo di
idea su come questo percorso si snodi attraverso gli spazi e i tempi della
carcerazione proponiamo la seguente metafora grafica:
Trattamento

Libert
à

Figura 1 - Metafora grafica del trattamento come percorso formativo ideale nel contesto penale

Percorso formativo
(trattamento)

Fine pena

Detenzione Misure alternative Libertà


Condanna
Sistema penale Sistema sociale

43
Capitolo Primo

Abbiamo definito la figura una metafora grafica in quanto ci deve


fornire soltanto uno spunto di immaginazione su cosa si intenda per
trattamento penitenziario e come si sviluppi nella teoria e, come
vedremo, nella pratica.
In questo modello ideale, le esigenze di sicurezza dovrebbero avere
un andamento simmetrico, partendo dal massimo per arrivare ad un
minimo in prossimità del fine pena e potendo registrare delle
“accelerazioni” nei momenti di passaggio (ai permessi prima, alla
semilibertà poi e all’affidamento in prova). Allo sviluppo massimo del
trattamento dovrebbe corrispondere una minima esigenza di custodia.
Supponiamo che il percorso formativo ideale abbia la forma
descritta in figura partendo dalla considerazione che il processo
formativo si possa suddividere in più fasi principali:
I fase: l’adattamento alla condizione detenuta. È la fase iniziale,
quella della conoscenza reciproca tra operatori e detenuto,
dove è lecito supporre che l’andamento della curva sia al
livello più basso.
II fase: l’assimilazione massima. Ormai l’individuo si è adattato
alla situazione e il piano individualizzato di trattamento
può fornire risultati ottimizzati e di maggiore efficienza ed
efficacia. L’andamento della curva si ipotizza più ripido
della precedente fase.
III fase: Ormai siamo in vista dell’uscita e il grosso del lavoro è
stato fatto. Il detenuto comincia a saggiare l’uscita dal
carcere tramite i benefici.

44
Capitolo Primo

IV fase: Le misure alternative prima, la libertà dopo fanno sì che la


curva tenda a conformarsi all’andamento dello sviluppo
personale di ciascun individuo adulto libero.

Questa, come sarà meglio specificato in seguito, è una


rappresentazione grafica dell’idealtipo di trattamento penitenziario – per
questo l’abbiamo definita metafora grafica – che, nell’ipotesi della teoria
emendativa si dovrebbe realizzare all’interno della sanzione penale. In
realtà, molte sono le ipotesi che fanno da sfondo a questo modello e che
ne rendono, come avremo modo di osservare, concretamente
improbabile la realizzazione.
Potremmo essere tentati di definire la curva, che qui abbiamo
denominato percorso formativo (trattamento), una funzione, visto la
forma che abbiamo dato all’oggetto grafico. In realtà, senza peraltro
avanzare pretese di scientificità dell’operazione, potremmo forse dire che
se di funzione si tratta, allora il trattamento dipende da alcuni fattori, tra i
quali ricordiamo:
1) i meccanismi giuridici, in particolare quelli legati alle
misure alternative alla detenzione e i cosiddetti giorni,
la liberazione anticipata da scalare nella misura di
novanta giorni all’anno in caso di buona condotta;
2) i progetti formativi. Pensiamo ai percorsi pedagogici,
alla scuola, all’università, al lavoro e alla formazione
ecc.;
3) la vita quotidiana in carcere.

45
Capitolo Primo

Saremmo tentati di dare ai tre fattori enunciati un ordine mettendo


al primo posto i progetti formativi e i meccanismi giuridici. In realtà
queste due condizioni non sono possibili se non si sia realizzato, prima
di tutto, un ambiente quotidiano che consenta il raggiungimento dei
minimi base per poter fare formazione e per attuare l’istituto delle misure
alternative.
Occorre quindi che il sistema garantisca alle persone detenute una
vita quotidiana conforme all’ordinamento, cioè che le docce debbano
funzionare, non debba esservi sovraffollamento, i locali siano puliti, non
vi si verifichino atti di violenza, sia presente personale qualificato in
ambito trattamentale, sia presente ed attivo il servizio sanitario, sia data
la possibilità alla persona detenuta di iscriversi ad una scuola compresa
l’università ecc.. Questo, se da un lato è l’elemento strutturale sottostante
alla formazione in carcere, dall’altro esso è la formazione. Infatti, la
Costituzione ci indica che la persona condannata deve essere rispettata
come persona e il fatto che la struttura penitenziaria si configuri anche
come istituzione educativa per adulti dipende dalle sue condizioni
strutturali.
In realtà, per il clima ancora oggi preponderante nelle nostre carceri
accade che, per esempio, ci si iscriva a scuola perché convinti che ciò
faciliti la concessione del lavoro interno o, comunque, venga considerato
dalla struttura come un elemento di valutazione positiva che possa
portare vantaggi in termini di concessione di benefici premiali.
All’interno della nostra metafora grafica, pur non essendo
rappresentata fisicamente, la quotidianità, il milieu penitenziario, va
considerata come la conditio sine qua non affinché si possa realizzare un

46
Capitolo Primo

percorso trattamentale positivo, e se proprio volessimo renderla in forma


grafica essa non potrebbe che essere una linea costante poiché la qualità
della vita quotidiana in carcere deve essere garantita fin dall’inizio della
pena e per tutta la sua durata.
Per capire il perché di questo basti pensare alla rottura nella vita di
una persona che ha commesso un reato pesante. La sua condizione avrà
bisogno, in qualche modo, di essere ricostruita e ciò non è possibile in un
ambiente quotidiano carcerario farcito di afflittività inutile che, tra
l’altro, sia detto en passant, per il momento – riprenderemo l’argomento
in seguito –, si pensa di estendere alle misure alternative, con il
passaggio del controllo delle stesse misure nelle mani del Corpo di
Polizia Penitenziaria.
Un indicatore di come la quotidianità non sia garantita fin
dall’inizio dal sistema penale è l’alto numero di atti autolesionistici,
tentati suicidi e suicidi – in gergo carcerario eventi critici – che si
verificano negli istituti di pena:

47
Capitolo Primo

Italiani Stranieri Totale


Atti di autolesionismo 2.052 2.224 4.276
6,13% 13.48% 8,56%
Tentati suicidi 413 227 640
1,23% 1.38% 1,28%
Suicidi 41 9 50
0,12% 0.05% 0,10%
Decessi per cause naturali 70 11 81
0,21% 0.07% 0,16%
Totale eventi critici 2.576 2.471 5.047
4,98% 4.78% 9,75%

Tabella 1 – Atti di autolesionismo e decessi negli istituti di pena italiani per detenuti italiani e
stranieri – anno 2006*
(ns. elaborazione su dati DAP)

Imputati Condannati Internati Totale


Atti di autolesionismo 1.835 2.383 58 4.276
8,42% 8,88% 4,43% 8,56%
Tentati suicidi 279 339 22 640
1,28% 1,26% 1,68% 1,28%
Suicidi 23 21 6 50
0,11% 0,08% 0,46% 0,10%
Decessi per cause naturali 21 49 11 81
0,10% 0,18% 0,84% 0,16%
Totale eventi critici 2.158 2.792 97 5.047
4,17% 5,40% 0,19% 9,75%

Tabella 2 - Atti di autolesionismo e decessi negli istituti di pena italiani per posizione giuridica –
anno 2006*
(ns. elaborazione su dati DAP)

Un carcere che si presenti in modo tale da comportare una così alta


percentuale di gesti inconsulti, che si verificano soprattutto nei
primissimi momenti della reclusione, sembrerebbe di per sé rendere vana
ogni ipotesi di trattamento.
In altri paesi, per esempio in Olanda, si è pensato di limitare gli
ingressi ad un numero massimo di detenuti lasciando gli altri agli arresti
*
I tassi sono calcolati rispetto alla popolazione detenuta mediamente presente nell'anno 2006 (51.748)
*
Come nella precedente tabella i tassi sono calcolati rispetto alla popolazione detenuta mediamente
presente nell'anno 2006 (51.748)

48
Capitolo Primo

domiciliari, in una sorta di lista di attesa che, da un lato evita il


sovraffollamento, con palese beneficio per chi in galera c’è già, dall’altro
evita il duro impatto col carcere, con i rischi che abbiamo appena visto, a
coloro che non hanno commesso reati di gravità tale da dover essere
messi immediatamente in sicurezza.
Nel nostro paese qualcosa si sta muovendo nell’intento di porre un
limite allo stillicidio di suicidi e atti di autolesionismo nei nuovi giunti e,
nel giugno del 2007, il Dipartimento per l’Amministrazione
Penitenziaria ha prodotto una circolare dal titolo “I detenuti provenienti
dalla libertà: regole di accoglienza. Linee di indirizzo”38. Nella circolare
si delinea un protocollo operativo per l’accoglienza dei nuovi giunti
centrato soprattutto sugli aspetti medici, ma una parte interessante è
dedicata alla “creazione della sezione di accoglienza e di attenzione”
nella quale si legge, testualmente:
“In ciascun Istituto viene individuata un'apposita struttura
separata dalle normali sezioni, composta da camere di due - tre posti,
con maggiore comfort rispetto a quelle comuni. Il numero delle stanze
potrà variare a seconda della capienza degli Istituti Penitenziari e le
medesime dovranno trovarsi, se possibile, in prossimità dell'infermeria
o del centro clinico, laddove presente.”
“Tutti i detenuti fruiscono di tale servizio di accoglienza. Questo,
in particolare, è rivolto:
• alle persone alla prima esperienza detentiva;
• a giovani che, compiuta la maggiore età, transitano dagli
istituti minorili al circuito penitenziario degli adulti;
38
Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, Direzione Generale Detenuti e Trattamento, lettera
circolare n° 0181045-2007 del 6 giugno 2007, reperibile sul sito Internet del Ministero della Giustizia:
www.giustizia.it

49
Capitolo Primo

• a coloro che affrontano una detenzione a lunga distanza di


tempo da una precedente esperienza di restrizione.
“Si ribadisce ulteriormente come la ratio di tale sistemazione si
fondi su una doppia esigenza: da un lato, effettuare un filtro di carattere
sanitario, rapido ma accurato, dall'altro, fornire un'informazione
dettagliata dei servizi offerti dal carcere.”
“Nel corso delle procedure di filtro, laddove necessario - si
ribadisce - verranno intrapresi i contatti con gli specialisti e gli
operatori maggiormente idonei ad affrontare le problematiche di natura
psichica e/o fisica riscontrate.”
“La collocazione nella sezione di accoglienza non può protrarsi
oltre un certo termine (una settimana), altrimenti risulterebbe palese
l'impossibilità del detenuto ad essere ammesso a vita in comune ed alla
fruizione delle offerte trattamentali, così come previsto dall'art. 15 O.P.
Laddove necessario, per particolari esigenze sanitarie, ci si attiverà
fornendo la dovuta assistenza agli organi giudiziari competenti, affinché
essi siano posti nella condizione di adottare altri più idonei strumenti
(richiesta di custodia cautelare in luogo di cura ai sensi dell'art. 286
c.p.p. ovvero richiesta di un periodo di osservazione ai sensi dell'art.
112 del D.P.R. n. 230 del 2000).”
“La sezione di accoglienza permette di concentrare gli impegni
dello staff multiprofessionale, costituito da operatori stabilmente
impiegati nel servizio e da operatori di altri servizi chiamati in causa
all'occorrenza.
“L'infermiere svolge il ruolo di trait d'union tra le figure che
operano nello staff multiprofessionale ed il restante personale in

50
Capitolo Primo

servizio in Istituto, raccogliendo le informazioni provenienti dalle


sezioni sullo stato psichico dei detenuti.”
Filtro sanitario e informazione dettagliata, quindi, come scopo
ufficiale assicurato da strumenti fisici, le stanze confortevoli, e
professionali, lo staff multiprofessionale, per addolcire l’impatto con la
detenzione. Peccato che, come da anni tutti coloro che si occupano a
vario titolo di carcere vanno lamentandosi, il tutto si scontri con le
pesantissime carenze strutturali (mancanza di docce, locali per la vita
comune, palestre, cronico sovraffollamento ecc.) e professionali (scarso
numero di professionisti in campo educativo, psicologico e medico).
Quindi, i due livelli di trattamento, la vita quotidiana e la
formazione, devono essere tenuti entrambi presenti e va ribadito con
forza che non ha senso pensare a un trattamento orientato alla
ricostruzione della condizione di libertà se non si garantiscono le
condizioni minime di vita culturalmente definite all’interno di un
sistema.
Abbiamo definito culturalmente cosa significhi oggi per noi italiani
la retribuzione del lavoro, per esempio, così come dice la Costituzione 39,
concepita come un insieme di risorse che permetta ad una persona una
vita dignitosa laddove, nella nostra cultura, per vita dignitosa
intendiamo, per esempio, poter avere un’abitazione, potersi garantire
l’alimentazione, l’istruzione per i propri figli, avere luce, gas e telefono
in casa ecc. Al punto che chi lavora ma non riesce a far fronte a queste
esigenze si sente, in qualche misura, ferito nella propria dignità di
persona. Che la dignità di persona sia definita culturalmente ce lo dice
39
Art. 36 c.1 Cost: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità
del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e
dignitosa”.

51
Capitolo Primo

anche l’immigrato per cui le condizioni culturalmente accettabili per una


vita dignitosa sono talvolta molto diverse dalle nostre.
Esiste una cultura diffusa per cui un trattamento che violi la vita
quotidiana sia comunque utile a piegare la persona (attraverso la
neutralizzazione, l’incapacitazione ecc.). Sia chiaro, questo è un
elemento diffuso della cultura generale, non soltanto del carcere. È lo
stesso elemento che sosteneva la legittimità del picchiare la moglie, per
esempio. Nel carcere vi sono fattori aggiuntivi che lo rendono
particolare, tra questi, probabilmente, c’è una condizione di paura più o
meno latente nei confronti dei detenuti dovuta, almeno in parte al fatto
che sono ancora in servizio le persone che hanno vissuto le rivolte come
quella di Porto Azzurro. La vita in sezione è intrisa di elementi che
rappresentano sempre una minaccia, e questa è una cosa che corrode,
non c’è il rapporto che c’è tra medico o infermiere da un lato e paziente
dall’altro, lì c’è un rapporto molto diverso. Neutralizzare e incapacitare
rende possibile al carcere di funzionare con ordine; ma questa, se
osserviamo con attenzione, non è una condizione specifica del carcere, è
una condizione di tutti i sistemi ed è un meccanismo molto diffuso che
nel carcere si trova potenziato dalla struttura.
Se vogliamo che il trattamento sia veramente efficace occorre che si
realizzino, quindi, le condizioni di vita quotidiana tali da consentire un
percorso effettivamente utile alla persona detenuta, ma per ottenere
questo bisogna, a nostro giudizio, puntare ad una modifica radicale della
cultura sottostante al sistema, nello stesso modo in cui si sono modificate
le culture in altri sistemi: oggi non è più culturalmente ammesso
picchiare la moglie.

52
Capitolo Primo

Non sarà un’operazione facile – siamo abituati ai servizi pubblici


che non funzionano, agli ospedali sovraffollati al punto da collocare i
pazienti sulle barelle nei corridoi e siamo anche abituati ad un carcere
discarica sociale sovraffollata – e occorrerà molto tempo, ma crediamo
non esistano molte altre possibili strade.
In questo capitolo abbiamo, quindi, centrato l’attenzione
sull’ambito del dover essere riguardo al sistema penale, con le sue teorie,
la storia, le norme. Tuttavia, come d’altronde per altri sistemi sociali,
anche per il carcerario si osserva facilmente la discrepanza tra ciò che
dovrebbe essere e ciò che, invece, esso è nella realtà.
Inoltre, con la pena detentiva siamo di fronte in tutta evidenza ad un
processo formativo tra i più complessi che si possano immaginare, per di
più in un contesto straordinario ed estremo come la coercizione.
Probabilmente i fattori che orientano questo processo sono infiniti.
Tenteremo in seguito di analizzarne alcuni mettendoli in relazione con
l’ipotesi appena fatta di un progetto formativo ideale procedendo così ad
osservarne gli scostamenti, le eventuali incongruenze e contraddizioni.

53
Capitolo Secondo
La realtà penitenziaria

Fin qui abbiamo delineato, seppur in forma sintetica, quello che,


nelle norme, dovrebbe essere il carcere e, più estesamente, il sistema
carcerario. Nel presente capitolo tenteremo di far emergere quello che,
nella realtà quotidiana, soprattutto nella società attuale, complessa e
incerta, il carcere rappresenta con tutte le contraddizioni ed i paradossi
che esso evidenzia.40
Nell’immaginario comune, la prigione si propone come una tappa
necessaria e ineluttabile, una vera e propria minaccia, per coloro che
commettono crimini o reati, scelgono di deviare dal tracciato fissato
dalle norme giuridiche che, almeno nella nostra cultura, la società ha
costruito per scopi autoconservativi. In effetti così è, almeno dal punto di
vista della reazione istintiva immediata ad un crimine.
È forse opportuno precisare che si debba chiaramente distinguere
tra reato e crimine. Emettere un assegno scoperto è un reato, ma non ci
sentiremmo di definirlo un crimine. Tuttavia ci sono dei criminali che
emettono assegni a vuoto. Come ha detto Nils Christie "«Crimine» è
solo uno dei modi possibili di classificare atti deplorevoli. Alcune
ricerche riportano casi di maltrattamenti fisici su infermieri da parte
degli anziani di cui si occupano, molti dei nostri figli talvolta hanno

40
Per capire il mondo carcere nella sua realtà un riferimento fondamentale è: S. Anastasia – P.
Gonnella (a cura di), Inchiesta sulle carceri italiane, Roma, Carocci, 2002

54
Capitolo Secondo

rubato qualche soldo dai nostri portafogli, ma nessuno si sognerebbe di


definire crimini queste azioni e criminali chi le compie”41
Nel linguaggio del senso comune, il termine criminale viene usato,
oltre che per designare persone che hanno commesso dei crimini
acclarati, giudicati e condannati, anche come appellativo indirizzato a
persone che non compiono dei reati semplicemente perché non ci sono
norme che ne facciano divieto. Basti pensare alle violenze in famiglia,
per le quali le norme prevedevano reati come eccesso dei mezzi di
correzione o, nel caso delle donne, le violenze sessuali su di loro non
venivano (e molto spesso) punite. Si trattava di comportamenti criminali
(così molti li avrebbero definiti) per i quali le norme non sancivano il
loro essere reato. Insomma, la distinzione tra crimine e reato è
importante, dal momento che il crimine ha sì una valenza giuridica, ma
ne ha una altrettanto forte sul piano morale, laddove il termine reato è di
tipo squisitamente giuridico e si riferisce a comportamenti non sempre
censurabili. Un affamato che ruba degli alimenti commette un reato
(anche se il giudice potrebbe sentenziare la non sussistenza del reato
stesso), ma non si tratta certamente di un crimine. Che le norme abbiano
una funzione autoconservativa dell’ordine sociale è assolutamente
dimostrabile, ma lo è allo stesso tempo la circostanza che le norme sono
nelle mani principalmente di gruppi sociali favoriti (un tempo si diceva
che le leggi si interpretano per gli amici e si applicano ai nemici).
Dalla lettura della storia della pena, cui abbiamo fatto appena un
cenno, si osserva come vi sia stata un’evoluzione in più fasi. Una prima
fase, primaria, in cui ha prevalso l’istinto vendicativo ed in cui l’uomo
41
Nils Christie, A suitable amount of crime. Una modica quantità di crimine, intervista curata da
Maurizio Giambalvo e pubblicata sulla rivista Segno, n.256, Giugno 2004 e, in forma ridotta, su Il
Manifesto del 3 Marzo 2004

55
Capitolo Secondo

era considerato semplicemente un corpo, la nuda vita, su cui scaricare la


rivalsa del sovrano; poi, il modificarsi della concezione dell’uomo ha
portato ad un graduale affioramento, prima, ed un’affermazione, poi,
della sua soggettività, unicità e irripetibilità che, tuttavia, lo pongono al
centro dell’attenzione soltanto nominalmente, non ancora nei fatti.
Lo schema del trattamento in funzione della pena, illustrato in
precedenza, ci porterebbe a pensare che il carcere risolva, in qualche
modo, il problema dell’istinto di vendetta di fronte al crimine e, al
contempo, si prenda cura del reo confortandoci anche sull’aspetto morale
e umano della punizione.
L’anima più dura dell’opinione pubblica, quella in cui prevalgono i
residui dell’istinto vendicativo, pensa il carcere come una sequenza di
questo tipo: reato, processo, condanna, carcere e restituzione alla società
di un individuo marchiato, reso inferiore dal discredito e perciò
bisognoso di controllo e limitazioni. L’anima più morbida, potremmo
dire più evoluta, ritiene, invece, che la sequenza sia: reato, processo,
condanna, carcere e, mediante adeguato trattamento, restituzione alla
società in un individuo nuovo, letteralmente lavato nell’anima di tutte le
storture che lo hanno portato a delinquere, magari utilizzando anche le
misure alternative alla detenzione. Entrambe queste visioni della penalità
presentano differenze soltanto nella parte finale del percorso penale: il
carcere pare essere sempre necessario e presente nella vita delle nostre
comunità.
Ma chi sono le persone che popolano le galere? Quali sono i motivi
che portano una persona ad incontrare il sistema penale?

56
Capitolo Secondo

Chi sono e quali sono i ruoli dei vari operatori che in esse lavorano?
Quali e quante sono le risorse disponibili per ottemperare alle
disposizioni in tema di trattamento penitenziario?
Queste riteniamo siano alcune delle domande le cui risposte sono
indispensabili per delineare il livello dell’effettività del sistema
carcerario e, soprattutto, della reale applicazione, in questo sistema, dei
principi costituzionali di umanità delle pene e tendenza alla
rieducazione. In sostanza, il dettato costituzionale, nella parte in cui,
seppur timidamente, orienta la pena verso obbiettivi di umanità e
rieducazione, è stato attuato nei fatti, oppure e in quale misura è stato
disatteso o misinterpretato?

2.1 La popolazione carceraria


Lo scopo di questo lavoro è centrato sull’analisi del trattamento
penitenziario, quindi sui processi formativi da attuare dentro il carcere, a
pena detentiva avviata, quindi il gruppo di interesse è principalmente
composto da coloro che effettivamente vengono in contatto con la
struttura, gli operatori e i processi della prigione. Tuttavia, essi
rappresentano soltanto una parte della cosiddetta area della penalità,
quell’area, cioè, che comprende sia coloro per i quali la pena sia
esecutiva, sia quelle persone che hanno subìto una condanna ma, per
diverse ragioni, non sono effettivamente in carcere42.
Prima dell’indulto, l’area della penalità risulta così composta:
61.000 persone detenute
42
Una chiara definizione dell’area della penalità è la seguente: “il complesso della presenza
contemporanea di condanne penali in esecuzione o da eseguire: più precisamente, di quelle condanne
che si esprimono con la pena detentiva, anche se tale pena può essere eseguita in misura
alternativa”. (Regione Toscana – Fondazione Michelucci, Rapporto sugli istituti penitenziari 2006,
coord. Alessandro Margara)

57
Capitolo Secondo

50.000 in misura alternativa


70.000 in regime di sospensione dell’esecuzione penale e quindi in
bilico tra la misura alternativa e il carcere.
I soggetti, quindi, che si trovano all’interno dell’area della penalità
superano abbondantemente quota 180.000.
Questa enorme cifra risulta ancora più significativa se osservata in
senso diacronico: nel 1990, quindi soltanto sedici anni fa, quest’area era
rappresentata da meno di quarantamila soggetti, di cui circa trentamila
detenuti e poco più di seimila in misura alternativa. In questo breve arco
di tempo paiono essere entrate nella rete penale più del quintuplo delle
persone. Il tutto, si badi bene, in assenza di un aumento del numero dei
reati tale da giustificare questo vero e proprio boom penitenziario.43
Torniamo entro i limiti che ci siamo prefissati, quindi all’area della
prisonizzazione, di coloro che sono detenuti in carcere. I dati ministeriali
sulla composizione della popolazione detenuta sono molto significativi.44

Totale presenti Stranieri Tossicodipendenti


59.523 19.836 16.135
Tabella 3- Detenuti stranieri e tossicodipendenti
(Fonte: DAP. Dati riferiti al 31 dicembre 2005)

43
Cfr. Regione Toscana – Fondazione Michelucci, Rapporto sugli istituti penitenziari 2006, coord.
Alessandro Margara. Va ricordato che nel 1990 c’era stato un provvedimento di clemenza e che
quindi quell’anno registra un abbassamento della quota di detenuti.
44
I dati sulla popolazione detenuta, salvo diversa indicazione, provengono dal Ministero della
Giustizia, Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria e fanno riferimento alla rilevazione di
fine anno 2005. Questa scelta si giustifica con una maggiore stabilità, rispetto agli anni precedenti,
dovuta essenzialmente al varo dell’indulto che, nel corso del 2006, ha sì ridotto la quota dei detenuti
presenti in carcere ma, non essendo stato seguito da sostanziali modifiche strutturali, soprattutto
riguardo alcune leggi che, nel corso degli anni, hanno contribuito al colossale incremento della
prisonizzazione, nei fatti crediamo di poter affermare con una certa tranquillità che i suoi effetti siano
soltanto temporanei e destinati a scomparire entro breve.

58
Capitolo Secondo

In percentuale troviamo che la quota di detenuti stranieri presente


nelle nostre carceri è pari a circa il 33% del totale, mentre quella che
riguarda i tossicodipendenti risulta del 27%45.
Immigrati, tossicodipendenti, alcooldipendenti, senza fissa dimora,
zingari e psichiatrici compongono circa i due terzi dell’intera
popolazione detenuta nel nostro paese46
Nonostante si osservi la tendenza ad usare il carcere come luogo di
omologazione sociale, il sistema penitenziario necessariamente opera al
suo interno tante sezionature quante sono le categorie in cui riesce a
distinguere gli esseri umani. Così, oltre alla succitata suddivisione di
stampo socio-sanitario, un’ulteriore classificazione è data in base alla
posizione giuridica, ovvero allo status di imputato o condannato del
soggetto.
Le implicazioni della posizione giuridica sulle possibilità di
trattamento penitenziario non mancano. L’Ordinamento Penitenziario,
all’art.15, recita: “Il trattamento del condannato e dell’internato è svolto
avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione,
delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni
contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia. Ai fini del
45
“Una ulteriore area del disagio sociale di vario genere può arrivare all’8-10%, ma anche
superarlo largamente: in essa sono compresi i dipendenti dall’alcool, i soggetti con problemi
psichiatrici, i “senza fissa dimora”. Un esempio: nel carcere di Sollicciano, su una media di circa
1000 detenuti, sono all’attenzione degli psichiatri 200 persone. Una ricerca nazionale stima nel 15%
dei detenuti quelli che presentano problemi di disagio psichico”.(Rapporto sugli istituti penitenziari –
2006, cit.)
46
È l’area che Alessandro Margara definisce della Detenzione sociale: “[l’area] comprendente in
buona parte tossicodipendenti, alcooldipendenti, immigrati, persone che presentano problemi psichici
o di abbandono sociale: un’area, questa, che interessa circa i due terzi dei reclusi, cioè la netta
maggioranza. Per quest’area, il carcere rappresenta spesso una non-risposta e allo stesso
dovrebbero essere preferiti interventi sociali, sia in prevenzione, così da impedire il conflitto con la
norma penale, sia nella stessa risposta penale, che più utilmente potrebbe attuarsi con programmi di
recupero in alternativa alla detenzione.” (Alessandro Margara, Relazione sulla proposta di legge
denominata: “Nuovo ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle pene e delle altre misure
privative o limitative della libertà” che intende sostituire la L.26/7/1975, n.354, Ottobre 2005)

59
Capitolo Secondo

trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e


all’internato è assicurato il lavoro. Gli imputati sono ammessi, a loro
richiesta, a partecipare ad attività educative, culturali e ricreative e,
salvo giustificati motivi o contrarie disposizioni dell’autorità
giudiziaria, a svolgere attività lavorativa o di formazione professionale,
possibilmente di loro scelta e, comunque, in condizioni adeguate alla
loro posizione giuridica”. Come si può vedere, il trattamento vero e
proprio, comunque lo si voglia intendere, secondo il legislatore deve
attivarsi al momento della condanna definitiva mentre, prima o in
assenza di quest’ultima, la partecipazione alle attività presenti nel
carcere è demandata alla volontà dell’individuo e, ovviamente,
all’autorizzazione degli organi di controllo.
Al di là della norma, il trattamento penitenziario, per le
caratteristiche che ad esso il legislatore attribuisce, difficilmente si può
attuare per gli imputati per diverse cause, tra le quali possiamo
segnalare:
a. l’impossibilità di procedere per obbiettivi su scala temporale
poiché è ignota, per questi soggetti, la scadenza della
detenzione e la scarcerazione potrebbe avvenire in qualunque
momento;
b. la difficile apertura di un rapporto interpersonale costruttivo tra
operatori e detenuto, base, come abbiamo appena accennato, di
qualsiasi progetto formativo;
c. la tendenza generalizzata di concedere minore libertà, leggasi
maggior tempo di apertura delle celle, ai detenuti dei reparti
giudiziari per ragioni di “sicurezza”;

60
Capitolo Secondo

d. l’inaccessibilità al lavoro interno da parte dei suddetti ristretti.


Se osserviamo i grafici sotto riportati risulta evidente che questo
fenomeno riguarda una grossa fetta delle persone presenti all’interno
delle carceri. Addirittura, dopo il recente indulto, più della metà dei
ristretti non ha avviato un progetto trattamentale né interno al carcere,
né, tantomeno, in coordinazione con l’area esterna ad esso. Se, da un
lato, i detenuti definitivi possono usufruire di un impianto trattamentale
che, pur con le incongruenze e le contraddizioni cui abbiamo fatto
appena un cenno, purtuttavia esiste, dall’altro lato per la maggior parte
delle persone presenti nelle strutture carcerarie vige un grande
paradosso: ancora la nostra Costituzione dà risalto alla presunzione di
innocenza fino alla condanna definitiva, se ne deduce che non si debba
applicare alcuna afflizione e sofferenza, secondo una delle accezioni
della pena, ad alcuno che non sia dimostrato essere colpevole di reati
punibili con la detenzione. Ma non sembra essere così. Se è vero che le
carceri sono piene di imputati e che il trattamento, sia intramurario che,
diciamo così, socio-familiare, non può essere attivato se non per i
definitivi parrebbe configurarsi addirittura una violazione del dettato
Costituzionale, nonché dei principi più elementari, cosa del resto che ha
messo il carcere sotto i riflettori del Comitato per la Prevenzione della
Tortura dell’Unione Europea: non c’è forse peggiore tortura dell’essere
obbligati a non fare nulla.

61
Capitolo Secondo

Al 31 luglio 2006 Al 30 settembre 2006


Posizione (prima dell’indulto) (dopo l’indulto)
giuridica
Valori assoluti percentuali Valori assoluti percentuali
Imputati 21.330 35,13 21.008 54,81
Condannati 38.134 62,81 15.950 41,62
Internati 1.246 2,05 1.368 3,57
Totale 60.710 100,00 38.326 100,00
Tabella 4 - Detenuti presenti per posizione giuridica prima e dopo l'indulto
(Ns. elaborazione su dati DAP)

2% 4%

35%
Imputati
42% Condannati
54%
Internati

63%

Prima dell’indulto Dopo l’indulto

Grafico 1 – Detenuti presenti per posizione giuridica prima e dopo l'indulto


(Ns. elaborazione su dati DAP)

Dalla tabella e dai grafici si può facilmente osservare come, in


senso assoluto, il numero dei detenuti che ancora non hanno ottenuto lo
status di definitivo e per cui non è ancora possibile attivare un progetto di
trattamento era molto elevato prima dell’indulto e, ad oggi, risulta
ulteriormente aumentato. Questo vuol dire che, in termini relativi, il
trattamento è utilizzabile da una quantità di detenuti inferiore alla metà
del totale, mentre, di converso, per più della metà della popolazione
detenuta il carcere parrebbe non offrire alcuno strumento formativo utile
ad un reinserimento sociale efficace.
Tutte le iniziative che l’istituzione carceraria pone in essere anche
ad uso dei soggetti non definitivi sembrerebbero assumere, così,
nient’altro che una funzione palliativa, un passatempo con cui riempire il
tempo vuoto della detenzione.

62
Capitolo Secondo

Va comunque sempre ricordata la grande variabilità da situazione a


situazione. Nella tabella appena riportata vi è certamente una quota di
imputati che accede ad attività culturali, di istruzione, di legami
familiari, tutti elementi compresi nel trattamento.
A questo proposito vale forse la pena di spendere due righe sul
significato della custodia cautelare in carcere dal punto di vista di chi la
subisce. In una Casa Circondariale le situazioni peggiori, dal punto di
vista umano, si vivono all’interno delle sezioni e dei reparti giudiziari,
quelle cioè dove sono collocate le migliaia di persone di varie nazionalità
che non hanno subìto una condanna definitiva. Anzi, molti di loro, come
abbiamo visto dai dati riportati sopra, non sono stati ancora neppure
giudicati. È una marea di esseri umani, uomini e donne, spesso ragazzi
poco più che maggiorenni, alcuni dei quali addirittura saranno
riconosciuti innocenti, assolti e successivamente liberati47. Ma intanto
sono stati settimane, mesi e, in alcuni casi, anni, rinchiusi in celle senza
mai uscire, visto che in alcune carceri sembra invalsa l’idea che, dato che
non si sa chi possa annidarsi all’interno di reparti così variegati, allora è
meglio tenere le celle chiuse tutto il giorno. Insomma, nonostante la
Costituzione proclami la presunzione di innocenza fino alla condanna
definitiva, sembra di trovarsi di fronte ad una condanna, di fatto, al nulla
sia nello spazio che nel tempo.

47
A titolo esemplificativo possiamo osservare che, come risulta dai dati ISTAT relativi al 2004, a
fronte di un totale di 82.275 persone entrate in carcere nell’arco dell’anno in questione, ben 70.728
varcavano la soglia del penitenziario senza ancora una condanna definitiva e, di questi, 10.703 (circa
uno su sette) venivano successivamente rimessi il libertà con una delle seguenti motivazioni:
decorrenza dei termini, revoca o sospensione della custodia cautelare; mancata convalida e revoca di
fermo e arresto; proscioglimento.

63
Capitolo Secondo

Custodia cautelare
posizione
Fino a 3 Da 3 a 6 Da 6 a 12 Da 12 a 18 Oltre 18
giuridica Totale
mesi mesi mesi mesi mesi
in attesa
5.057 2.334 2.423 685 1.042 11.541
primo giudizio
appellanti e
2.353 2.086 1.332 947 1.777 8.495
ricorrenti
Totale
7.410 4.420 3.755 1.632 2.819 20.036
imputati
Tabella 5 - Detenuti imputati presenti al 31 dicembre 2004 negli istituti di prevenzione e pena
per adulti per periodo di custodia cautelare trascorso dalla data di arresto
(ns. elaborazione su dati D.A.P.)

9%
21%
6%
27%

44%
21% 11%

16% 25%
20%

In attesa di primo giudizio Appellanti e ricorrenti

14%

8% 37% Fino a 3 mesi


Da 3 a 6 mesi
Da 6 a 12 mesi
Da 12 a 18 mesi
19% Oltre 18 mesi

22%

Totale imputati

Grafico 2 - Detenuti imputati presenti al 31 dicembre 2004 negli istituti di prevenzione e pena
per adulti per periodo di custodia cautelare trascorso dalla data di arresto
(ns. elaborazione su dati D.A.P.)

64
Capitolo Secondo

Dai grafici uno dei dati che maggiormente risaltano è il 36% delle
persone che, almeno nell’anno preso in questione, hanno superato i sei
mesi di reclusione pur senza aver avuto alcun giudizio penale. Di questi,
ben il 15% è in carcere da più di un anno.
Oltre alle attività trattamentali, la norma prevede che, per i ristretti,
le istituzioni debbano prendersi cura anche della famiglia, in funzione
della verifica delle possibilità e delle modalità di rientro nel proprio
ambiente. Per far questo esiste un apposito settore dell’amministrazione
penitenziaria che fa capo all’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna, già
denominato Centro Servizi Sociali Adulti. Gli scopi dell’UEPE si
possono riassumere con la gestione dei rapporti tra detenuto ed esterno,
in particolare i familiari, da operare, all’interno del carcere, tramite
colloqui personali con i soggetti e, all’esterno, per mezzo di indagini
socio-familiari. L’organizzazione dell’UEPE prevede che esso si attivi
soltanto per i detenuti condannati mentre, come abbiamo visto, questi
rappresentano soltanto una parte del totale dei ristretti e neppure la più
disagiata. Quindi, per la marea di persone che affollano le nostre prigioni
pur senza aver subito condanne definitive, il trattamento, nella parte in
cui prevede l’agevolazione dei rapporti con la famiglia e la comunità
esterna, spesso e volentieri neppure comincia.
Non cambia molto per quanto riguarda il trattamento interno
all’istituto. Per la verità un trattamento valido per tutti esiste ed è quello
applicato dagli anziani, da coloro cioè che hanno acquisito e consolidato
l’identità deviante, nei confronti dei più giovani, soprattutto se si pensa
che quelli al di sotto dei 34 anni, quando cioè l’identità non è ancora del
tutto definita, rappresentano il 45% del totale 48. Per ridurre i danni da
48
Fonte DAP al 31/12/2005

65
Capitolo Secondo

carcerizzazione, soprattutto nei confronti dei soggetti giovani, pur se


imputati, è compito dell’area pedagogica fornire supporto e sostegno
mediante attività culturali, ricreative e sportive, ma se non fosse per la
presenza determinante di volontari non sarebbe possibile la
progettazione di alcuna attività.49
I numeri relativi alle presenze in carcere sono significativi di uno
stato attuale ma nulla ci dicono sulle dinamiche che hanno portato
all’affollamento delle nostre prigioni di cui molto si è parlato in
occasione dell’indulto. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, al 31
luglio 2006, cioè prima dell’indulto, a fronte di una capienza
regolamentare dei 207 istituti di prevenzione e pena attivi in Italia
prevista in 43.213 individui, ne erano effettivamente presenti ben 60.710.
In termini relativi, questo significa che erano detenute ben 17.497
persone in più, pari al quaranta percento, rispetto al massimo strutturale
previsto. La soluzione scelta dall’attuale governo di centro-sinistra, è
stata, come abbiamo detto, un indulto che prevede lo sconto di tre anni
sulla pena residua con l’esclusione di alcuni reati per i quali esso non si
può applicare. Giova ricordare, per correttezza, che durante il suo
discorso al Parlamento Italiano del 14 novembre 2002, Giovanni Paolo
II, quando richiese una riduzione della pena per i detenuti non pericolosi
come risorsa per ridurre il sovraffollamento delle carceri e come gesto di
clemenza, ricevette una vera e propria standing ovation da entrambi i lati
dell’emiciclo, anche da coloro, quindi, che più avanti si sono opposti,
seppur in modo assai vario, a tale provvedimento.

49
Il quadro delle presenze del volontariato nelle carceri italiane nel 2004, anno dell’ultima rilevazione
della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, vede un totale di 7.792 operatori di cui 6.611
entrati con l’art.17 e 1.181 con l’art.78, con una media di circa nove detenuti per volontario.

66
Capitolo Secondo

Altre soluzioni, soprattutto evocate dal precedente governo di


centro-destra ed in particolare dall’allora Ministro della Giustizia
Castelli, andavano in senso opposto, e cioè in direzione securitaria con
un sostanzioso aumento delle carceri e delle capacità di reclusione.
A nostro giudizio entrambi i provvedimenti hanno avuto come
obbiettivo principale quello prettamente politico, mentre poco o nulla si
è fatto e pensato per rimuovere le cause che portano le persone in carcere
e, di conseguenza, all’affollamento degli istituti penali in Italia e non
solo. Se osserviamo, infatti, l’incremento della carcerazione è collegato
alla definizione di norme che puniscono col carcere reati che potrebbero
prevedere sbocchi sanzionatori diversi. Un esempio tra tanti riguarda il
fenomeno delle migrazioni globali da paesi ad alto flusso migratorio. Se
viene definita come reato penale la migrazione non autorizzata è chiaro
che l’indice di prisonizzazione subisce un’impennata fino a rendere
necessari provvedimenti come l’indulto: non potremmo mai avere
carceri a sufficienza per applicare per intero la norma. Altro esempio è
dato dalla tossicodipendenza, anch’essa, come abbiamo visto dai dati
dello stesso DAP, fortemente punita col carcere. Anche coloro che sono
detenuti per problemi legati alla tossicodipendenza hanno seguito la
stessa sorte dei colleghi stranieri vedendosi applicato un indulto che, non
ci stancheremo di ripetere nel corso del presente lavoro, ha avuto un
forte sapore demagogico. Una considerazione tra le tante possibili è che
il provvedimento dell’indulto, andando ad interessare chi avesse un
residuo di pena fino a tre anni, poteva essere tranquillamente evitato
semplicemente applicando la legge già esistente sulle misure alternative
alla detenzione: chi è uscito con l’indulto, perché non era già fuori in

67
Capitolo Secondo

misura alternativa? In prima battuta verrebbe da suggerire che ciò


dipenda in gran parte dalla frequente mancanza di alcuni requisiti base
per l’ottenimento dei benefici, pensiamo soprattutto a coloro che, in gran
parte stranieri, non posseggono domicilio ufficiale, elemento che
l’indulto ha elegantemente consentito di bypassare sbattendo
letteralmente per le strade del paese una torma di disgraziati senza
dimora e senza progetti concreti di vita.50
Da anni si parla di modificare in senso depenalizzatorio il Codice
Penale, cosa che non rimuoverebbe le cause né della tossicodipendenza,
né della migrazione forzata, ma probabilmente darebbe maggiori
responsabilità alla società verso coloro che altrimenti, con il solo uso
dello strumento penitenziario, andrebbero incontro ad una
marginalizzazione quasi sempre difficile da recuperare. Riprenderemo
più oltre questi temi.
Ricorriamo nuovamente ai dati ufficiali del DAP. Un semplice
calcolo matematico ci porta ad osservare che, a fronte di una
media/carcere prevista nella capienza regolamentare di circa 209 ristretti,
le presenze effettive, prima dell’indulto, portano tale media a 293. Se
scegliessimo, come nell’idea dell’ex ministro Castelli, di costruire un
numero sufficiente di carceri che riportasse la media dei detenuti alla
soglia regolamentare, dovremmo avviare ben 84 cantieri. Ottantaquattro
nuove carceri avrebbero bisogno, poi, di un adeguato numero di addetti
alle varie aree che lo compongono. Focalizzandoci sull’area preferita
dalla parte politica di appartenenza dell’ex-ministro, quella della
50
Per un approfondimento sui problemi legati al trattamento rivolto a detenuti provenienti da paesi ad
elevato flusso migratorio cfr. anche Fabio Berti – Fausto Malevoli (a cura di), Carcere e detenuti
stranieri. Percorsi trattamentali e reinserimento, Milano, Franco Angeli, 2004. Più in generale, sulla
condizione di esclusione cui certe categorie di detenuti sono particolarmente soggette: Helen Alford,
Alberto Lo Presti, Il carcere degli esclusi, Milano, San Paolo, 2005

68
Capitolo Secondo

sicurezza, vediamo che avremmo dovuto aumentare il personale di


polizia penitenziaria dagli attuali 42.267 all’assurdo numero, perlomeno
in uno Stato che non sia di polizia, di quasi 60.000 addetti, cifra che
rappresenta, inoltre, un rapporto uno a uno tra agenti penitenziari e
detenuti.
Lasciamo le osservazioni sui costi economici che quest’operazione
comporterebbe agli addetti ai lavori che, comunque, si intuisce avrebbero
sicuramente molto da rilevare sulla reale praticabilità di una scelta
politica esclusivamente securitario-carceraria ed ad altissimo tasso
demagogico.
Non molto differente si presenta la strategia politica che, tramite
l’indulto, è stata avanzata dai politici attualmente al governo. Dando
un’occhiata allo sviluppo delle presenze, disaggregate per italiani e
stranieri, a partire dal 1991 si nota subito quanto l’incremento della
popolazione carceraria sia strettamente correlato all’incremento
dell’incarcerazione dell’area del disagio che, da poco più di un decennio,
è ben rappresentata dalle persone provenienti da paesi a forte pressione
migratoria.51
Le serie storiche ufficiali, fornite dal Ministero della Giustizia, si
presentano come segue:

51
Molti sono gli autori che sostengono la deriva in senso poliziesco e penale cui la nostra società è
sottoposta dai vari livelli di potere. Tra questi, uno dei maggiormente convincenti con le sue vivaci
argomentazioni è sicuramente Wacquant: Loïc Wacquant, Parola d’ordine: tolleranza zero. La
trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, Milano, Feltrinelli, 2000. Lo stesso autore
prosegue il discorso e rincara la dose con il successivo Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica
penale, Verona, Ombre Corte, 2002.

69
Capitolo Secondo

Data di Totale detenuti % stranieri sul


Italiani Stranieri
rilevazione presenti totale presenti

31-12-1976 29.973 29.973 --- ---


31-12-1977 32.337 32.337 --- ---
31-12-1978 26.424 26.424 --- ---
31-12-1979 28.606 28.606 --- ---
31-12-1980 31.765 31.765 --- ---
31-12-1981 29.506 29.506 --- ---
31-12-1982 35.043 35.043 --- ---
31-12-1983 40.225 40.225 --- ---
31-12-1984 42.795 42.795 --- ---
31-12-1985 41.536 41.536 --- ---
31-12-1986 33.609 33.609 --- ---
31-12-1987 31.773 31.773 --- ---
31-12-1988 31.382 31.382 --- ---
31-12-1989 30.680 30.680 --- ---
31-12-1990 26.150 26.150 --- ---
31-12-1991 35.469 30.104 5.365 15,1%
31-12-1992 47.316 40.079 7.237 15,3%
31-12-1993 50.348 42.456 7.892 15,7%
31-12-1994 51.165 42.684 8.481 16,6%
31-12-1995 46.908 38.574 8.334 17,8%
31-12-1996 47.709 38.336 9.373 19,6%
31-12-1997 48.495 37.670 10.825 22,3%
31-12-1998 47.811 35.838 11.973 25,0%
31-12-1999 51.814 37.757 14.057 27,1%
31-12-2000 53.165 37.583 15.582 29,3%
31-12-2001 55.275 38.981 16.294 29,5%
31-12-2002 55.670 38.882 16.788 30,2%
31-12-2003 54.237 37.230 17.007 31,4%
31-12-2004 56.068 38.249 17.819 31,8%
31-12-2005 59.523 39.687 19.836 33,3%
Tabella 6 – Detenuti presenti suddivisi per italiani e stranieri
Serie storica 1976-2005
(Ns. elaborazione su dati ISTAT e DAP)

70
Capitolo Secondo

Graficamente:
Se rie storica de te nuti pre se nti suddivisi pe r ital i ani e strani e ri

70

60
detenuti presenti (migliaia)

50

40 Stranieri

30 Italiani

20

10

0
1977
1978

1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1987

1990

1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
1976

1979

1988
1989

1991

anno di ri le vaz ione

Grafico 3 – Detenuti presenti suddivisi per italiani e stranieri


Serie storica 1976-2005
(Ns. elaborazione su dati ISTAT e DAP)

Come si vede dalla tabella e dal grafico, spicca la tendenza al


rapido aumento del numero dei migranti reclusi che, nell’anno 2005,
superano il 33% dei detenuti presenti.
Se esaminiamo, invece, gli ingressi dalla libertà, cioè il flusso in
entrata nel serbatoio umano rappresentato dal carcere, i dati relativi al
periodo in cui figurano soggetti stranieri, quindi a partire dall’anno 1991,
appaiono ancora più significativi.

71
Capitolo Secondo

Data di % stranieri sul


Totale ingressi Ingressi Italiani Ingressi Stranieri totale ingressi
rilevazione
1991 75.786 62.644 13.142 17%
1992 93.328 77.609 15.719 17%
1993 98.119 77.396 20.723 21%
1994 98.245 73.530 24.715 25%
1995 88.415 64.692 23.723 27%
1996 87.649 62.997 24.652 28%
1997 88.305 61.329 26.976 31%
1998 87.134 58.403 28.731 33%
1999 87.862 58.501 29.361 33%
2000 81.397 52.776 28.621 35%
2001 78.649 50.535 28.114 36%
2002 81.185 51.035 30.150 37%
2003 81.790 49.938 31.852 39%
2004 82.275 50.026 32.249 39%
2005 89.887 49.281 40.606 45%
2006 90.714 47.426 43.288 48%
Tabella 7 – Ingressi dalla libertà negli istituti penitenziari italiani suddivisi per italiani e
stranieri
Serie storica 1991-2006
(Ns. elaborazione su dati DAP)

Graficamente, l’andamento degli ingressi nel tempo si presenta


quindi così:
Ingressi dalla libertà suddivisi per italiani e stranieri

120

100
detenuti entrati (migliaia)

80
Ingressi Stranieri
60
Ingressi Italiani
40

20

0
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006

anno di rile vaz ione

Grafico 4 - – Ingressi dalla libertà negli istituti penitenziari italiani suddivisi per italiani e
stranieri
Serie storica 1991-2006
(Ns. elaborazione su dati DAP)

72
Capitolo Secondo

Da questo grafico operiamo un ulteriore approfondimento andando


ad estrarre, sempre graficamente, l’incidenza dei detenuti stranieri in
rapporto al totale dei soggetti entrati in carcere dal 1991 ad oggi:
Andame nto de l rapporto italiani/stranieri tra gli ingressi dalla libertà

100%

80%
percentuale

60%
ingressi italiani
ingressi stranieri
40%

20%

0%
1997

2000

2002

2005
1991
1992
1993
1994
1995
1996

1998
1999

2001

2003
2004

2006
anno di rilevazione

Grafico 5 – Andamento grafico del rapporto italiani/stranieri tra gli ingressi dalla libertà dal
1991al 2006
(Ns. elaborazione su dati DAP)

Questo vero e proprio boom della prisonizzazione dei soggetti


migranti può essere letto da almeno due punti di vista. Il primo, che,
almeno nel nostro paese, ha come principale sostenitore il sociologo
Marzio Barbagli52, si attesta sulla propensione a delinquere dei soggetti
migranti. Il secondo punto di vista, che, seppur con i debiti distinguo,
ritengo più vicino alla realtà, si può riassumere, per quanto riguarda gli
studiosi italiani, nelle tesi di Alessandro Dal Lago 53 in cui afferma
l’esistenza di un’azione mirata alla criminalizzazione dei migranti, da
parte sia delle istituzioni che del controllo sociale informale, migranti
che non fanno altro che andare a riempire il vuoto lasciato dai marginali

52
Barbagli, Immigrazione e criminalità in Italia, cit.
53
Alessandro Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Milano,
Feltrinelli, 2005

73
Capitolo Secondo

italiani nelle nicchie del microcrimine come lo spaccio, il piccolo furto


ecc., oltre, ovviamente, soprattutto per mezzo delle leggi anti-
clandestino, ad assurgere a livello di crimine, in quanto tale punibile con
il carcere, il solo fatto di soggiornare nel nostro paese senza averne
l’autorizzazione.
Durante l’esperienza nel carcere di Pisa abbiamo avuto modo di
constatare di persona l’entità del fenomeno. Ogni mattina, nella Casa
Circondariale Don Bosco, come in ogni altro carcere italiano, viene
stampato a cura dell’ufficio matricola l’elenco dei detenuti entrati ed
usciti nel giorno precedente. Questo documento, chiamato in gergo
“giornaliera”, è fondamentale per mettere in moto tutti i meccanismi che
si attivano attorno ad un individuo che entra in contatto con il carcere. In
particolare serve agli educatori per programmare i colloqui di primo
ingresso, per i detenuti entrati, e per aggiornare i fascicoli personali, nel
caso dei detenuti usciti. A fianco del nome del detenuto, sulla giornaliera
sono riportati altri dati, come l’origine geografica, la cittadinanza e,
soprattutto, il reato per cui la persona si trova ristretta, oltre alla
posizione giuridica che lo contraddistingue. Per evidenti ragioni di
riservatezza non possiamo approfondire i contenuti delle giornaliere che
abbiamo avuto modo di analizzare, tuttavia credo di poter almeno
confermare i dati sopra riportati riguardo agli ingressi dei detenuti
stranieri rispetto agli italiani. Essendo una Casa Circondariale, è normale
vi sia un flusso maggiore di persone sia in entrata che in uscita rispetto,
ad esempio, ad una Casa di Reclusione 54. Le giornaliere che abbiamo
54
All’interno dei 207 istituti penali in Italia si opera la seguente distinzione:
a. Istituti di Custodia Preventiva (162 istituti)
• Case Mandamentali: hanno sede, di norma, nelle piccole città ed assicurano, su
disposizione del Tribunale ordinario, la custodia degli imputati e dei fermati o
arrestati dalle forze dell’ordine.

74
Capitolo Secondo

analizzato riguardano un periodo che comprende i tre mesi circa in cui si


è svolta l’attività formativa interna all’istituto, in cui se ne sono potute
visionare circa un centinaio, ed un certo numero di quelle conservate
nell’archivio dell’area educativa risalenti a periodi precedenti, per un
totale di circa duecento documenti.
Ebbene, dall’analisi sommaria dei flussi reali d’ingresso nel carcere
di Pisa si è potuto osservare che effettivamente, circa il settantacinque
percento degli individui entrati in carcere erano originari di paesi esteri,
la quasi totalità provenienti da paesi a forte pressione migratoria, e, di
questi, almeno la metà si presentavano alle porte del carcere con la sola
imputazione di clandestinità, la violazione della legge Bossi-Fini.
Un’ulteriore conferma di questo ci viene fornita direttamente dal
Ministero che, in un rapporto sulla situazione penitenziaria prima e dopo
l’indulto, quantifica così questo processo relativamente agli ultimi due
anni:

• Case Circondariali: hanno sede nei capoluoghi di circondario e si occupano, almeno


teoricamente, su disposizione di ogni autorità giudiziaria, della custodia degli
imputati, fermati o arrestati dalle forze dell’ordine.
b. Istituti per l’Esecuzione delle Pene (37 istituti):
• Case di Reclusione: sono gli istituti penitenziari nei quali vengono collocati coloro
che sono stati condannati definitivamente alla pena della reclusione.
c. Istituti per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (8 istituti):
• Colonie Agricole: vi vengono internati coloro ai quali è assegnato il lavoro agricolo
come prescrizione interna alla misura di sicurezza
• Case di Lavoro: come le colonie agricole ma, a differenza da queste ultime,
destinate principalmente ad attività di tipo artigianale o industriale.
• Case di Cura e Custodia: sono popolate da internati per i quali il trattamento
prescritto debba consistere principalmente in tecniche psichiatriche
• Ospedali Psichiatrici Giudiziari, meglio conosciuti con l’acronimo OPG: sono quelli
istituti che, non molto tempo fa, erano denominati “Manicomi Giudiziari”. Al loro
interno vivono gli internati che l’autorità giudiziaria ha precedentemente dichiarato
seminfermi o infermi totali di mente.
Questa serie di suddivisioni non è rigida e stagna ma si accompagna ad una serie di sovrapposizioni
come, per esempio, quella che vede le case circondariali non soltanto deputate alla collocazione di
soggetti imputati ma anch’esse, come le case di reclusione, sedi di sezioni riservate a coloro che
devono scontare la pena in via definitiva. Questo è il caso della Casa Circondariale “Don Bosco” di
Pisa in cui abbiamo svolto l’esperienza di tirocinio che riporto in più punti nel presente lavoro.

75
Capitolo Secondo

INGRESSI IN ISTITUTO DI SO GGETTI PRO VENIENTI DALLA LIBERTA'


con ascritti reati di cui al Testo Unico sull'immigraz ione

12000
ingressi per T.U immigrazione
10000

8000

6000 11.116
9.800
4000

2000
2.469
0
gen.04-set.04 gen.05-set.05 gen.06-set.06
periodo di rilevaz ione

Grafico 6 – Ingressi in istituto di soggetti provenienti dalla libertà con ascritti reati di cui al T.U.
sull’immigrazione
(Fonte: Rapporto DAP, Popolazione detenuta. Confronto situazione prima e dopo l’indulto , Settembre 2006)

Si potrà obbiettare che vi sia una notevole discrepanza tra il dato


ministeriale ufficiale che quantifica la proporzione di stranieri rispetto ai
detenuti italiani nel 48% del flusso in ingresso e il numero molto più
elevato da noi direttamente osservato nel carcere di Pisa. A
giustificazione di questa apparente differenza bisogna effettuare una
operazione di filtraggio dei dati che, per la fonte ufficiale, risulta essere
una media sul totale degli ingressi, indipendentemente dal tipo di istituto
cui si fa riferimento, mentre, nel caso della nostra osservazione, il
riferimento è evidentemente al solo istituto di Pisa che, essendo Casa
Circondariale, è destinato ad essere sede principale dei flussi sia in
entrata che in uscita. Per meglio illustrare ciò che intendiamo, facciamo
nuovamente ricorso ai numeri.

76
Capitolo Secondo

rapporto posizione
Tipo Istituto Totale detenuti
giuridica
CASE DI RECLUSIONE
Condannati 8.466 91%
Imputati 793 9%
Totale 9.259
CASE CIRCONDARIALI
Condannati 29.622 59%
Imputati 20.980 41%
Totale 50.602
ISTITUTI PER LE MISURE DI SICUREZZA
Condannati 1.356 97%
Imputati 47 3%
Totale 1.403
Totale generale 61.264

Tabella 8 – Detenuti presenti per tipo di istituto e posizione giuridica


situazione al 30 giugno 2006
(Ns. elaborazione su dati DAP)

Come si vede dalla tabella qui sopra, la casa circondariale è il


luogo, nell’universo carcerario, dove i flussi sono maggiormente
turbolenti e più immediatamente esposti alle variazioni delle strategie
penali, una delle quali è quella che qualifica gli immigrati come
criminali, ma potremmo aggiungervi i tossicodipendenti, gli zingari ed
altri che hanno come caratteristica principale quella di essere persone in
situazione di disagio psico-sociale o semplicemente esclusi dai circuiti
della cosiddetta normalità: il lavoro, il reddito e, di conseguenza, i
consumi.

2.2 I reati
È il momento di andare ad osservare quella che è la conditio sine
qua non della detenzione di un individuo, cioè l’aver commesso un
reato, l’aver subìto una condanna e, di conseguenza, lo scontarla in un
penitenziario. Crediamo che il fenomeno vada studiato su tre livelli:
1. esiste una reale corrispondenza tra il commettere un reato ed il
subirne le conseguenze legali, come sostenuto dai fautori del

77
Capitolo Secondo

valore preventivo del carcere, e dalla mitologia legata alla


“certezza della pena”?
2. La durata delle pene inflitte è compatibile con la necessaria
tendenza alla rieducazione evocata dalla Costituzione, oppure è
indice di qualcosa che sembrerebbe paragonare il carcere ad un
parcheggio, o meglio ad un deposito, di materiale di scarto, mentre
potrebbe, tale periodo di detenzione, essere tranquillamente
sostituito da più consone ed economiche soluzioni alternative alla
detenzione?
3. I reati che conducono alla galera, in che misura rispecchiano la
reale pericolosità dei soggetti coinvolti per cui si pone necessaria
la loro esclusione dal circuito sociale e la messa in sicurezza
all’interno delle mura penali?
Nell’anno 2004 vi sono stati 2.968.594 delitti denunciati55 di cui
ben 2.397.118 di autori ignoti, pari cioè all’81%. Del 19% rimanente, di
coloro, quindi, che sono stati identificati, ne sono stati condannati
239.391, circa quattro su dieci. Di questi ultimi, quelli condannati alla
reclusione, sempre nello stesso anno 2004, risultano essere, però,
156.718, per una percentuale del 27% sugli autori identificati e del 65%
sul totale dei condannati. Quindi, in definitiva, risulta che i condannati a
pena detentiva, rispetto al numero totale dei delitti denunciati, superano
di poco il 5%. Detto in altri termini, risulterebbe che su cento delitti
denunciati di cui l’autorità giudiziaria ha avviato procedimenti penali,
ben 95 non danno seguito a condanne alla reclusione.

55
Dati ISTAT. Per delitti denunciati si fa riferimento ai delitti denunciati per i quali l'Autorità
giudiziaria ha iniziato l'azione penale.

78
Capitolo Secondo

Di primo acchito verrebbe da ipotizzare che questa bassa


percentuale di condannati sia colma di detenuti pericolosi per cui il
carcere sia l’unica misura applicabile. Vediamo in dettaglio la situazione
dell’anno 200456:

56
In tabella abbiamo riportato i dati aggregati per tipo di delitto. Più approfonditamente l’elencazione
statistica si suddivide in secondo questa nomenclatura:
• Reati contro la persona
o Contro la vita
o Contro l’incolumità e la libertà individuale
o Ingiurie e diffamazioni
• Contro la famiglia, la moralità ecc.
o Contro la famiglia
o Contro la moralità pubblica e il buon costume
o Contro il sentimento per gli animali
o Interruzione della gravidanza
• Contro il patrimonio
o Furto
o Rapina
o Estorsione
o Sequestro di persona
o Danni a cose, animali, terreni ecc.
o Truffa ed altre frodi
• Contro l’economia e la fede pubblica
o Contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio
o Contro l’incolumità pubblica (in cui è compresa la produzione e lo spaccio di
stupefacenti)
o Contro la fede pubblica
• Contro lo Stato, le altre istituzioni sociali e l’ordine pubblico
o Contro la personalità dello Stato
o Contro la pubblica amministrazione (che comprende anche il delitto di violenza e
resistenza)
o Contro l’amministrazione della giustizia
o Contro il sentimento religioso
o Contro l’ordine pubblico (in cui è compreso il reato di associazione di stampo
mafioso)
• Altri delitti
o Tutti i delitti non compresi nei precedenti elencati

79
Capitolo Secondo

delitti denunciati perc.


persone
TIPO DI DELITTO Condannati su
Di autori condannate
In totale denunciati
ignoti

Contro la persona 306.680 138.640 (45%) 35.879 (21%)


Contro la famiglia, la moralità pubblica, il buon
costume ed il sentimento per gli animali 18.180 1.679 (9%) 6.196 (38%)
Contro il patrimonio 2.180.151 2.005.193 (92%) 83.421 (48%)

Contro l'economia e la fede pubblica 235.095 147.161 (63%) 44.532 (51%)


Contro lo Stato, le altre istituzioni sociali e l'ordine
pubblico 74.610 12.328 (17%) 28.245 (45%)
Altri delitti 153.878 92.117 (60%) 41.118 (67%)
2.968.59
TOTALE 4 2.397.118 (81%) 239.391 (42%)
Di cui condannati a reclusione: 156.718 (27%)
Tabella 9 – Delitti denunciati per i quali l’autorità giudiziaria ha iniziato l’azione penale e
persone effettivamente condannate
anno 2004
(Ns. elaborazione su dati ISTAT)

Sulla base di questi dati sembra crollare miseramente tutta la


mitologia collegata alla prevenzione generale che sarebbe attivata dalla
minaccia della punizione del carcere. Prendiamo, per esempio, il dato
numericamente più consistente, quello che riguarda i delitti contro il
patrimonio. Soltanto otto su cento hanno un autore e di questi otto
soltanto la metà portano alla condanna di un responsabile. Se ci poniamo
dalla parte di chi, per bisogno o per “diletto”, scelga la strada del furto o
della rapina, quel quattro percento di probabilità che la cosa finisca male
non pare proprio possa rappresentare il più valido dei deterrenti. Inoltre,
su 239.391 soggetti condannati nel 2004, ben 146.988 hanno subìto una
pena entro i tre anni di reclusione, il ché equivale al 94% del totale.
Giova ricordare che l’Ordinamento Penitenziario attuale prevede la
possibilità che una persona possa usufruire di misure alternative alla
detenzione per il periodo di pena residuo. L’art.47 OP stabilisce, per
esempio, in tre anni il limite di pena residua tale che il detenuto possa
proporre istanza di affidamento in prova ai servizi sociali, e quindi finire

80
Capitolo Secondo

di scontare la pena in luoghi diversi dal carcere e nel rispetto di


specifiche prescrizioni.57
Quanti siano, numericamente, coloro che, almeno in teoria
potrebbero aver diritto ad usufruire di misure alternative e, quindi, di
uscire dal carcere, è riportato nella tabella sottostante.

Pena residua Condannati


Fino a 1 anno 11.313
Da 1 a 2 anni 7.266
Da 2 a 3 anni 5.369
Da 3 a 4 anni 3.690
Da 4 a 5 anni 2.245
Da 5 a 6 anni 1.404
Da 6 a 7 anni 1.080
Da 7 a 8 anni 790
Da 8 a 9 anni 578
Da 9 a 10 anni 436
Da 10 a 20 anni 2.303
Oltre 20 anni 486
Ergastolo 1.233
Totale 38.193
Tabella 10 – Condannati definitivi per durata della pena residua
Situazione al 30 giugno 2006
(Ns. elaborazione su dati DAP)

57
L’affidamento in prova ai servizi sociali è la prima misura alternativa che si incontra
nell’Ordinamento Penitenziario, all’art.47. Esso può essere concesso se la pena detentiva o parte
residua di essa non sia superiore ai tre anni. Una volta ottenuto l’affidamento ai servizi sociali, il
condannato sconta la pena fuori dal carcere. A loro volta i servizi sociali collocano il soggetto presso
un’azienda, una cooperativa o altro luogo dove egli svolge un lavoro che, di norma, è proposto dallo
stesso condannato. L’affidato, è sostanzialmente una persona libera che deve soltanto seguire degli
obblighi o prescrizioni, come, per esempio, il rientro a casa ad orari prefissati, il divieto di allontanarsi
dalla provincia ecc. Al controllo delle prescrizioni è preposto l’UEPE di competenza.

81
Capitolo Secondo

C ondannati pe r durata della pe na re sidua


Situazione al 30 giugno 2006

5%
14%

Fino a 3 anni
Da 3 a 6 anni
19% Da 6 a 20 anni
O ltre 20 anni
62%

Grafico 7 – Condannati per durata della pena residua


Situazione al 30 giugno 2006
(Ns. elaborazione su dati DAP)

La cosa interessante è osservare come la politica, di fronte al


sovraffollamento delle carceri ed alla situazione giuridica che abbiamo
fin qui analizzato, abbia preferito percorrere la strada di un indulto
generalizzato e spersonalizzato piuttosto che rendere maggiormente
efficaci le norme che già esistono e che, contrariamente a quanto ritenuto
valido da una parte dell’opinione pubblica, pur spinta, se vogliamo, da
un certo atteggiamento generale assunto dai mezzi di comunicazione,
non sono applicate nella misura auspicata dai Padri Costituenti e dagli
illuminati legislatori della riforma del ’75 e seguenti. In sostanza, quel
sessantadue percento di detenuti con pena residua rientrante nel minimo
richiesto per le misure alternative, che ci faceva ancora dentro, il 30
giugno 2006? Possibile che fossero tutti personaggi di una tale
pericolosità per cui l’unica risposta possibile avesse luogo nel
rinchiuderli e sottoporli alla privazione delle proprie libertà? Alcuni

82
Capitolo Secondo

studiosi58 mettono in relazione le situazioni preesistenti la detenzione di


un individuo, in particolare le risorse sociali ed individuali, intendendo
con le prime la famiglia, gli amici, il lavoro ecc., e con le seconde le
proprie capacità culturali, intellettive, relazionali, e le competenze
specifiche raggiunte con lo studio e la formazione. Vi sono soggetti in
cui coesistono buone risorse sia dell’uno che dell’altro tipo che
difficilmente si incontrano in carcere se non per alcuni reati molto
particolari – i cosiddetti delitti dei “colletti bianchi” – e numericamente
poco significativi.
Una grossa fetta dei ristretti in carcere è formata dalla zona grigia
che vede persone dotate di risorse sociali ma con scarse capacità
individuali o viceversa. Costoro, comunque, hanno pur sempre un
margine di manovra che consente di orientare la propria detenzione nel
senso del maggiore diritto possibile. Per ottenere i benefici, comprese le
misure alternative di cui parlavamo poc’anzi, si possono attivare le
relazioni costruite fuori dal carcere oppure le proprie competenze
individuali, con la speranza di vedere i propri propositi soddisfatti.
Esiste, tuttavia, una quarta categoria, all’interno della quale
troviamo persone prive di risorse sociali e, al contempo, scarsamente
dotate di capacità individuali. Sono coloro che – come abbiamo potuto
constatare de visu durante l’esperienza al “Don Bosco” – hanno
difficoltà di comunicazione, per differenze linguistiche o “culturali”, per
cui diventa difficile attivare le già scarse risorse che l’istituzione mette a
loro disposizione; giungono in carcere già pressoché prive di diritti, o
quanto meno incapaci di esercitarli, quali la cittadinanza ed i diritti ad
essa connessi, come quello alla salute, alla formazione, per esempio, e,
58
Cfr. in particolare Luigi Berzano – Franco Prina, Sociologia della devianza, Roma, Carocci, 1995.

83
Capitolo Secondo

soprattutto, con la coscienza di “non aver diritto ai diritti”; l’estrema


burocratizzazione del sistema carcerario, per la maggior parte di costoro
assolutamente incomprensibile, non aiuta certamente a dissipare la nube
nella quale vengono immersi. Il risultato più frequente, a meno di
piuttosto rari “miracoli”, è la trasformazione di questi individui in
materiale di scarto da immagazzinare per la durata decisa dal giudice.
Le eccezioni, si potrà obbiettare, ci sono. È vero, ma riguardano per
lo più detenuti in condizioni particolari, per esempio i tossicodipendenti,
e sono per la maggior parte lasciate alla sensibilità dei direttori e del
personale, soprattutto dell’area educativa, che, talvolta per puro caso,
vengono a conoscenza del singolo caso e se ne fanno carico.59
Il Magistrato di Sorveglianza decide per lo più in base alle carte,
alle relazioni che gli vengono inviate dai vari uffici dell’amministrazione
penitenziaria e non potrebbe essere altrimenti, se osserviamo, anche in
questo caso, l’enorme numero di istanze che gli vengono inoltrate
quotidianamente, la rigidità delle norme da seguire e la straordinaria
responsabilità del ruolo. Purtroppo il risultato va a scapito del detenuto
che spesso e volentieri ottiene risposta con un considerevole ritardo. Nel
caso di Pisa si è potuto constatare che tale ritardo si misurava nell’ordine
dei mesi, fino a sei-sette, durante i quali la persona detenuta subiva
59
[…] “La normativa vigente e gli stessi magistrati di sorveglianza tenuti alla sua applicazione fanno
riferimento a criteri prognostici
- regolare comportamento
- possibilità di inserimento lavorativo
- sostegno e disponibilità del contesto familiare
che finiscono col discriminare i diversi soggetti proprio sul piano sociale premiando il conformismo e
le risorse sociali già attivate. Il che vuol dire dare un vantaggio non necessariamente meritato ai
soggetti maggiormente acculturati, o fortunati, o, peggio, più saldamente ancorati alle organizzazioni
criminali. E vuol dire, per converso, penalizzare la minore adattabilità agli schemi comportamentali
codificati ed i portatori di un disagio spesso più grave e profondo: i tossicodipendenti, i nomadi, gli
immigrati, i malati di aids, vere e proprie nuove aree di marginalità all’interno del carcere.” (Gianni
Del Rio, Patrizia Ciardiello, “La questione del ruolo tra cultura correzionalista e nuova penologia”, in
Patrizia Ciardiello [a cura di], Quale Pena, Milano, Unicopli, 2004, pag. 58, corsivo nostro)

84
Capitolo Secondo

l’attesa della decisione come una delle molte meta-pene che


l’amministrazione penitenziaria elargisce con grande generosità ai suoi
utenti.
Le istanze di permesso premio o di affidamento in prova ai servizi
sociali pervengono al Magistrato di Sorveglianza accompagnate dalla
documentazione relativa all’osservazione sul detenuto.
In alcuni casi60 avviene che un’istanza venga approvata. Ciò si dà
in base alle notizie pervenute al Magistrato risalenti, al massimo, al
periodo in cui l’istanza è stata inoltrata. Se la misura viene concessa
significa banalmente che viene accertato che il detenuto aveva maturato
il diritto al beneficio al momento della redazione dell’istanza e della
documentazione di sintesi. La discrepanza esistente tra il momento in cui
il soggetto raggiunge i requisiti necessari alla misura e il giorno in cui il
beneficio diviene usufruibile presenta oggettivamente alcune
problematicità che, qualora tale differenziale temporale si limitasse ad
alcuni giorni, potrebbe essere annoverato nella categoria dei tempi
ancora “umani”, ma, se il provvedimento viene assunto, come purtroppo
avviene sovente, con un ritardo che può raggiungere in alcuni l’ordine
dei mesi61, può sorgere il dubbio che esista una indebita ed arbitraria
sospensione dell’esercizio dei più semplici diritti di una persona.
Ovviamente nessun detenuto, che risulti, ha mai avuto da obbiettare

60
Nell’anno 2004 si sono sommate 27.358 istanze di affidamento in prova ai servizi sociali di cui ne
sono state approvate la metà circa, 13.452. Mentre, per quanto concerne i permessi premio, sempre
nello stesso anno ne sono stati richiesti 48.853 e concessi 22.982, anche in questo caso più o meno il
cinquanta percento. (Fonte ISTAT)
61
Personalmente abbiamo avuto modo di constatare, durante l’esperienza di tirocinio nel carcere di
Pisa, come alcune istanze di concessione di benefici venissero accettate e rese operative anche dopo
ben sette mesi dalla loro proposizione. Un caso tra molti è quello di una ragazza di origine nigeriana,
arrestata per violazione della legge immigrazione, alla quale l’avvocato consigliò di rinunciare a
proporre l’istanza di detenzione domiciliare in quanto la risposta del giudice sarebbe presumibilmente
giunta oltre la durata della permanenza in carcere.

85
Capitolo Secondo

contentandosi della concessione della misura richiesta, seppur con


notevole ritardo, avendo come unico obbiettivo quello di lasciarsi al più
presto alle spalle tutta l’amministrazione penitenziaria, giudice
compreso.
Appare interessante notare come, durante la sperimentazione di
Rebibbia, il gruppo di osservazione fosse rappresentato da tutte le figure
che avevano a che fare col detenuto, tra cui anche gli insegnanti, e la
discussione finale fosse presieduta da un giudice che, pur non facendo
parte dell’istituto, si coordinava con la direzione del carcere per le
attività di osservazione. Se fosse ancora attiva ai giorni nostri, quella
configurazione, avrebbe potuto rappresentare un accorciamento del
diagramma di flusso che, partendo dall’acquisizione dei requisiti
necessari da parte delle aree competenti sull’osservazione, porta infine
alla decisione da parte del Magistrato che, invece, rischia di dover
effettuare le sue scelte basandosi perlopiù su documenti standardizzati e
spersonalizzati talvolta messi insieme alla meglio ed in fretta e furia
dagli educatori penitenziari.
Non è tanto la professionalità degli operatori ad essere messa in
dubbio quanto, ancora una volta, le condizioni in cui essi si trovano ad
operare. Se confrontiamo i dati sugli ingressi annuali con il numero degli
operatori penitenziari preposti al trattamento abbiamo conferma
numerica della preponderanza dell’aspetto securitario retributivo sulla
riabilitazione ma soprattutto che il trattamento penitenziario non sia
attuabile nella pratica. Gli educatori che operano all’interno delle
strutture carcerarie sono cinquecentotrenta a fronte di un flusso annuale
di quasi novantamila ingressi, tra imputati e condannati con una media di

86
Capitolo Secondo

sessantamila, prima dell’indulto, e quarantamila soggetti presenti ogni


giorno62.
Gli agenti di polizia penitenziaria, invece, ammontano a circa
quarantaduemila unità, compresi i reparti cinofili e a cavallo 63. Il sistema
penitenziario francese, molto simile al nostro, vede 55.000 detenuti
mediamente presenti a fronte di 2.000 educatori, in numero quindi
quattro volte superiore ai nostri 500, e soltanto 26.000 agenti di polizia
penitenziaria, la metà circa dei nostri. Nonostante questo i sindacati della
polizia penitenziaria nostrana sono sempre sul piede di guerra
lamentando carenze di organico e carichi di lavoro, secondo loro,
assolutamente insostenibili anche in ragione del forte assenteismo,
mediamente ammontante al 30% circa, con punte che superano il 40% 64,
che domina tra i loro assistiti.
Per capire da dove tragga origine la doglianza della polizia
penitenziaria e se essa abbia consistenza nella realtà dei numeri,
ricorriamo nuovamente ai dati ufficiali:

62
Quest’ultimo dato, come vedremo, è destinato a tornare sui livelli pre-indulto ed a superarli a meno
di improbabili drastici smantellamenti delle leggi Bossi-Fini sull’immigrazione e Fini-Giovanardi
sulle tossicodipendenze.
63
La spesa spesa prevista e finanziata per l’anno 2007 riguardo questi due reparti ammonta a ben
300.000 Euro circa. È, inoltre, all’esame dell’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia la
costituzione della Fanfara a Cavallo del Corpo di Polizia Penitenziaria. Temiamo che questo
indispensabile reparto possa distogliere ulteriore personale, e risorse finanziarie.
64
Fonte DAP.

87
Capitolo Secondo

Rapporto
Numero di Personale di
detenuti/personale di
detenuti custodia
custodia
1 Azerbajan 18.259 183 99,8
2 Ukraine 1.934.489 23.912 80,9
3 UK: Scotland 68.885 3.221 21,4
The former Yugoslav
4 Republic of Macedonia 1.747 250 7,0
5 Poland 79.344 13.410 5,9
6 Moldova 10.383 1.756 5,9
7 Bulgaria 10.935 1.966 5,6
8 Hungary 16.410 3.061 5,4
9 Romania 40.085 7.963 5,0
10 Lithuania 7.827 1.918 4,1
11 Spain: Catalonia 7.922 1.970 4,0
12 Latvia 7.731 2.030 3,8
13 Estonia 4.565 1.232 3,7
14 Spain: Rest of Spain 51.302 13.886 3,7
15 Turkey 71.148 20.004 3,6
16 Bh. Rep. Srpska 977 302 3,2
17 Armenia 2.727 881 3,1
18 Slovak Republic 9.504 3.109 3,1
19 Germany 79.676 28.194 2,8
20 Netherlands 20.075 7.528 2,7
21 France 56.271 21.109 2,7
22 Luxembourg 548 216 2,5
23 BH. Federazion BH 1.247 494 2,5
24 Slovenia 1.126 451 2,5
25 UK: England and Wales 74.488 30.633 2,4
26 Finland 3.446 1.562 2,2
27 Croatia 2.846 1.298 2,2
28 Switzerland 6.021 2.964 2,0
29 Iceland 115 63 1,8
30 Cryprus 546 306 1,8
31 Liechtenstein 7 4 1,8
32 Sweden 7.332 4.725 1,6
33 Denmark 3.762 2.487 1,5
34 ITALY 56.090 40.130 1,4
35 UK: Northern Ireland 1.295 1.171 1,1
Norway 2.975 --- ---
San Marino --- --- ---
Tabella 11 – Rapporto tra detenuti presenti e personale di custodia
nei paesi del Consiglio d’Europa
Situazione al 1 settembre 2004
(Ns. elaborazione su dati COE)65

65
Consiglio d’Europa, SPACE I, Council of Europe Annual Penal Statistics, Survey 2004, a cura di
Marcelo F. Aebi, Università di Losanna e Università Autonoma di Barcellona, Strasburgo, 7
novembre 2005

88
Capitolo Secondo

Il dato che risalta in particolar modo è la posizione dell’Italia che,


seguendo l’ordine di carico di lavoro per ogni addetto alla custodia-
sorveglianza, si ritrova al 34° posto che diventa l’ultimo se accorpiamo il
dato dell’Irlanda del Nord con il resto del Regno unito. Quindi, dalla
lettura di questi dati, peraltro forniti al Consiglio d’Europa dal nostro
Ministero della Giustizia e, per questo, senz’altro ufficiali e veritieri,
potremmo formulare alcune ipotesi:
1. Siamo in presenza di un enorme, quanto ingiustificato,
esubero di personale di Polizia Penitenziaria
2. I dati riportati sono pre-indulto. Se osassimo rapportarli alle
presenze negli istituti di pena italiani a seguito del
provvedimento del luglio 2006 il rateo di supervisione – il
rapporto tra detenuti e agenti – sarebbe notevolmente
inferiore.
3. In Italia l’organizzazione del lavoro nel comparto sicurezza
del sistema penitenziario è particolarmente inefficiente ed in
palese contraddizione rispetto agli obbiettivi di efficacia ed
efficienza tipici di un’organizzazione moderna. Nonostante
ciò, si osserva, da parte sia dei sindacati che della politica
penitenziaria, il paradossale lamento della carenza di
personale di custodia come motivo di inefficienza
dell’intero sistema.
4. Il sistema penitenziario, nella principale accezione
custodiale, ha svolto egregiamente la funzione di
assorbimento della domanda di lavoro, soprattutto nelle

89
Capitolo Secondo

zone dove il fenomeno del voto di scambio è storicamente


più radicato.
Queste, ed altre che ad esse possono aggiungersi con un po’ di
fantasia, sono tutte ipotesi piuttosto suggestive ma non è certo che
racchiudano la vera ragione dell’enormità delle cifre sopra riportate.
In Toscana, nel 2004, la situazione si presentava così:

Distacchi
Forza Forza Assenze % assenti
Istituto penitenziario In Fuori Operante66
amministrata vario titolo su F.O.
sede sede
CR Arezzo 69 4 3 70 24 34%
CCF Empoli 38 2 9 31 14 45%
CC Firenze "Mario Gozzini" 54 3 8 49 21 43%
CC Firenze "Sollicciano" 610 15 92 533 67 13%
CC Grosseto 32 1 1 32 10 31%
CR Isola di Gorgona 143 5 17 131 28 21%
CC Livorno 257 10 22 245 97 40%
CC Lucca 102 2 3 101 32 32%
CR Massa 129 22 5 146 43 29%
CC Massa Marittima 54 2 9 47 14 30%
OPG Montelupo Fiorentino 83 2 3 82 22 27%
CC Pisa 221 7 20 208 83 40%
CC Pistoia 65 6 11 60 19 32%
CR Porto Azzurro 201 7 31 177 83 47%
CC Prato 282 7 26 263 88 33%
CR S.Gimignano 182 1 10 173 73 42%
CC Siena 44 2 4 42 13 31%
CR Volterra 94 0 9 85 36 42%
Totali 2.660 98 283 2.475 767 31%

Tabella 12 - La polizia penitenziaria negli istituti di pena toscani per forza amministrata, forza
operante e assenze in valore assoluto e percentuale sul totale operante.
(ns. elaborazione su dati PRAP riferiti al 27 settembre 2004)

66
Per forza operante si intende quella realmente utilizzabile per i servizi giornalieri. Pertanto dalla
forza amministrata viene defalcato il personale distaccato in uscita ed aggiunto il personale distaccato
in entrata (nel nostro caso 2.660-283+98=2.475).

90
Capitolo Secondo

Forza Detenuti
Istituto penitenziario Detenuti/F.O.
Operante presenti

CR Arezzo 70 105 1,5


CCF Empoli 31 13 0,4
CC Firenze "Mario Gozzini" 49 35 0,7
CC Firenze "Sollicciano" 533 954 1,8
CC Grosseto 32 13 0,4
CR Isola di Gorgona 131 35 0,3
CC Livorno 245 365 1,5
CC Lucca 101 146 1,4
CR Massa 146 190 1,3
CC Massa Marittima 47 20 0,4
OPG Montelupo Fiorentino 82 125 1,5
CC Pisa 208 314 1,5
CC Pistoia 60 137 2,3
CR Porto Azzurro 177 265 1,5
CC Prato 263 586 2,2
CR S.Gimignano 173 287 1,7
CC Siena 42 58 1,4
CR Volterra 85 170 2,0
Totali 2.475 3.818 1,5

Tabella 13 - Confronto tra Polizia Penitenziaria e detenuti presenti


(ns. elaborazione su dati PRAP riferiti al 27 settembre 2004)

Dalle tabelle qui sopra si potrebbe confermare il dato pubblicato dal


Consiglio d’Europa sul carico di lavoro del personale di custodia e,
aggiungiamo, qualora volessimo includere anche i numeri delle assenze
verrebbe da constatare che queste ultime non possano arrecare grandi
difficoltà di gestione dell’apparato della sicurezza in carcere, o almeno
non in maniera significativa. Altrimenti in paesi come la Francia o la
Germania, con un rapporto detenuti/agenti pressoché doppio del nostro,
si rischierebbe la rivolta delle forze di polizia penitenziaria.
Successivamente all’indulto, la situazione si presenta così:

91
Capitolo Secondo

Personale di Polizia
Detenuti presenti Detenuti/Personale di
Regione Penitenziaria
(31/12/2006) Pol. Penit.
(23/1/2007)
Piemonte 2.738 3.230 0,85
Valle d' aosta 126 163 0,77
Lombardia 6.453 4.887 1,32
Trentino 226 240 0,94
Veneto 1.768 1.691 1,05
Friuli v. Giulia 457 556 0,82
Liguria 833 1.088 0,77
Emilia romagna 2.945 2.124 1,39
Totale NORD 15.546 13.979 1,11
Toscana 2.864 2.696 1,06
Marche 622 718 0,87
Umbria 665 848 0,78
Lazio 3.900 5.136 0,76
Totale CENTRO 8.051 9.398 0,86
Abruzzo 1.062 1.393 0,76
Molise 207 356 0,58
Campania 5.312 4.975 1,07
Basilicata 298 495 0,60
Calabria 1.465 1.830 0,80
Puglia 2.165 2.815 0,77
Sicilia 3.789 5.102 0,74
Sardegna 1.110 1.322 0,84
Totale SUD e ISOLE 15.408 18.288 0,84
Totale Italia 39.005 41.665 0,94

Tabella 14 - Confronto tra personale di Polizia Penitenziaria e detenuti presenti, dopo l’indulto,
suddivisi per regione
(ns. elaborazione su dati DAP)

Nonostante le cifre mostrino l’eccessiva presenza con, tra l’altro


una certa differenza tra Nord, Centro e Sud del Paese, delle forze di
sorveglianza all’interno delle carceri italiane questo è stato il commento
della Segreteria Generale del Sindacato Autonomo di Polizia
Penitenziaria (Sappe), il più rappresentativo della Polizia Penitenziaria
con oltre 12mila iscritti, circa gli effetti dell’approvazione dell’indulto:
“A nemmeno un mese dall’approvazione della legge sull’indulto, sono
più di 20mila i detenuti usciti fino ad oggi dalle carceri del Paese per
effetto dell’indulto. […] Ciò ha comportato naturalmente un parziale

92
Capitolo Secondo

alleggerimento delle drammatiche condizioni di lavoro del Personale di


Polizia Penitenziaria, considerato che il sovraffollamento dei
penitenziari ricade principalmente proprio sui poliziotti penitenziari,
che sono impiegati nelle sezioni detentive 24 ore su 24, 365 giorni
all’anno, con notevole stress psico-fisico ormai in una irreversibile
inferiorità numerica rispetto ai detenuti presenti 67. Ora è necessario che
Governo e Parlamento si diano da fare per interventi strutturali al
sistema penitenziario nazionale. È ora opportuno che per non vanificare
in pochi mesi questo atto di clemenza Governo e Parlamento prendano
con urgenza provvedimenti concreti di potenziamento dell’area penale
esterna, che tengano in carcere chi veramente deve starci ed
incrementando quindi gli organici di Polizia Penitenziaria cui affidare i
compiti di controllo sull’esecuzione penale68; un maggior ricorso alle
misure alternative alla detenzione non legato ad automatismi ma a un
concetto davvero premiale; una legge sugli extracomunitari che
permetta espulsioni più facili piuttosto che la detenzione in Italia (a
livello nazionale sono il 30% - circa 20mila - i detenuti stranieri,
percentuale che si raddoppia negli Istituti del Nord Italia). È davvero
necessario ripensare il carcere. Bisogna adottare con urgenza rimedi di
fondo al sistema penitenziario, come chiesto anche dal Capo dello Stato
Giorgio Napolitano.”

67
E i detenuti? Non sono forse loro le principali vittime del sovraffollamento, visto che spesso e
volentieri si trovano, loro sì, a dover condividere 24 ore su 24 nove metri quadri di cella con altri due
o tre compagni oltretutto che non si sono neppure scelti? Riguardo l’irreversibile inferiorità numerica
rispetto ai detenuti parrebbe espliciti la visione della sorveglianza come un campo di battaglia dove
l’inferiorità numerica può effettivamente essere determinante per rimediare una sconfitta. Solo che il
carcere non è un campo di battaglia.
68
Ma, se da un lato si chiede la riduzione del numero dei detenuti lasciando in carcere chi veramente
deve starci, perché chiedere nuove assunzioni quando basterebbe destinare altrove il personale (già in
esubero, come abbiamo abbondantemente osservato) attualmente destinato all’esecuzione interna?

93
Capitolo Secondo

“All’approvazione dell’indulto dunque devono seguire interventi


strutturali sull’esecuzione della pena, che garantiscano la giusta
sanzione a chi commette reati soprattutto a tutela delle vittime della
criminalità e che rendano la pena uno strumento efficace per ripagare
la società del reato commesso. Oggi chi sconta la pena in carcere non
ha nulla da fare: è forse il caso di ripensare all’introduzione del lavoro
obbligatorio per i detenuti, con un 50% della retribuzione destinato a
chi lavora e l’altro 50% in un Fondo dello Stato da destinare alle
vittime della criminalità. Altrimenti qual’è l’aspetto sanzionatorio ed
afflittivo della pena? "69.
"Adesso auspichiamo che Governo e Parlamento assumano i
provvedimenti di competenza a cominciare dalla riassunzione in servizio
dei circa 530 agenti di polizia penitenziaria ausiliari, licenziati a fine
2005 e dall’individuazione di provvedimenti legislativi che potenzino
maggiormente l’area penale esterna".70
In un secondo round, sempre la segreteria del Sappe emana una
nota nella quale si afferma: “Una nuova politica della pena, necessaria
e indifferibile deve prevedere un «ripensamento» organico del carcere e
dell’istituzione penitenziaria, e un maggiore ricorso alle misure
alternative alla detenzione e l’adozione di procedure di controllo
mediante strumenti elettronici o altri dispositivi tecnici (come il
braccialetto elettronico) che hanno finora fornito in molti Paesi europei
una prova indubbiamente positiva71. E se la pena evolve verso soluzioni
69
Quindi sembrerebbe auspicarsi un sistema penitenziario esecutore materiale delle pulsioni di rivalsa
e vendetta da parte della vittime della criminalità nei confronti di chi tali crimini commette e dove la
polizia penitenziaria abbia funzioni di garante della regolarità e rigidità della pena inflitta anche
mediante il ritorno all’uso dei lavori forzati.
70
Comunicato pubblicato dall’agenzia di stampa APCOM del 29 agosto 2006.
71
Tranne proprio in Italia: introdotto nel 2001 (Decreto legge n. 341/2000, convertito in legge il 17
gennaio 2001), è miseramente fallito nel 2003 ancora in fase sperimentale. Inoltre, viste le polemiche

94
Capitolo Secondo

diverse da quella detentiva, anche la polizia penitenziaria dovrà


spostare le sue competenze al di là delle mura del carcere,
parallelamente all’affermarsi del suo ruolo quale quello di vera e
propria polizia dell’esecuzione penale. Il controllo sulle pene eseguite
all’esterno e sull’adozione del braccialetto elettronico, oltre che
qualificare il ruolo della polizia penitenziaria, potrà avere quale
conseguenza il recupero di efficacia dei controlli sulle misure
alternative alla detenzione72. Efficienza delle misure esterne e garanzia
della funzione di recupero fuori dal carcere potranno far sì che cresca
la considerazione della pubblica opinione su queste misure, che nella
considerazione pubblica, non vengono attualmente riconosciute come
vere e proprie pene"73
Sembrerebbero proclami dal forte sapore demagogico e strumentale
confermato dalla continua e pressante richiesta di ampliamento di
organico presentata dalle compagini sindacali del corpo di polizia
penitenziaria nel nostro paese.
Tornando ai problemi veri del carcere, un altro problema è
rappresentato dallo stesso principio insito nelle norme sulle misure
alternative che, se apparentemente si presentano come un premio alla
buona condotta intramuraria con al centro il detenuto, in realtà da un lato
forniscono un formidabile strumento di controllo interno alle strutture
detentive mentre dall’altro occultano all’osservazione degli operatori

e le battaglie tuttora in atto contro questo dispositivo nei paesi dove è utilizzato, ci pare che sia lungi
dal dare di sé prova di indubbia positività.
72
A quale scopo controllare una misura che dà, pur con le normali eccezioni e difetti, prova di
efficacia pur senza polizia penitenziaria e/o dispositivi elettronici di controllo? Se l’intento fosse
quello di evitare la reiterazione dei reati l’innovazione andrebbe a riguardare le migliaia di persone
attualmente in misura alternativa alla detenzione quando coloro che ne subiscono la revoca per
recidiva sarebbero soltanto lo 0,14% (7 recidivi nel primo semestre del 2007 su un totale di 7.304
soggetti in misura alternativa) (Fonte: dati DAP)
73
Comunicato stampa del SAPPE pubblicato da “Redattore Sociale” il 6 dicembre 2007.

95
Capitolo Secondo

parte della personalità del soggetto che tenderà a mostrare di sé soltanto


ciò che, in modo strumentale, può concorrere alla migliore relazione di
sintesi possibile. Non sorprende, quindi, come l’introduzione di norme
che premiano la buona condotta intramuraria segni anche la fine delle
rivolte carcerarie. Questo apre a nuove problematicità piuttosto spinose
riguardo al significato di rieducazione, all’axiologia di riferimento per il
piano rieducativo, al monitoraggio e agli indicatori necessari per la
verifica del progetto prima, durante e dopo la sua realizzazione.
Componente essenziale del concetto stesso di trattamento è il
campo di valori da scegliere nella proposta rieducativa e che non
possono essere formulati dallo Stato che, dovendo muoversi in una
cornice pluralistica, deve necessariamente perseguire la neutralità più
assoluta negli interventi pedagogici74. Nella realtà, invece, è proprio ciò
che avviene allorquando la classe politica predominante, nell’ottica di
realizzare la propria strategia, mette in campo i propri valori allo scopo
di confermare od accrescere il proprio potere.75
Come confermato da numerosi studiosi76, stiamo vivendo da alcuni
anni, nei paesi occidentali, un periodo di notevole incremento della
carcerazione soprattutto nelle fasce sociali più deboli ed emarginate. La
popolazione detenuta è cresciuta di numero ed ha modificato la propria
composizione con, come logica conseguenza, una pesante influenza sia
sulla gestione degli istituti che sulla funzione che ad essi è assegnata, il
trattamento in primis. Abbiamo visto che, secondo la legge, il
trattamento va inteso come elemento qualificante la prevalenza della
74
Cfr. Renato Breda, L’educatore per adulti nel sistema penitenziario, in F. Saverio Fortuna (a cura
di), Operatori penitenziari e legge di riforma, Milano, Franco Angeli, 1985.
75
Cfr. Foucault, Sorvegliare e punire ,cit..
76
Cfr. Lucia Re, Carcere e globalizzazione. Il boom penitenziario negli Stati Uniti e in Europa,
Roma-Bari, Laterza, 2006.

96
Capitolo Secondo

funzione riabilitativa su quella retributiva in vista della risocializzazione


e del reinserimento del detenuto nella società. Tuttavia si percepisce in
maniera evidente la permanenza come residuo storico della visione
medico-terapeutica della pena.
Nell’osservazione della personalità, punto cardine per la diagnosi e
successivamente la stesura del piano trattamentale, prevale il modello
biopsichico, tendente a focalizzare l’attenzione degli operatori
esclusivamente sui fattori mentali che hanno condotto alla commissione
del reato, su quello biografico, molto meno rassicurante e forse proprio
per questo messo in secondo ordine, che vorrebbe che al centro
dell’osservazione vi fosse la storia del soggetto, comprese le cause che lo
hanno condotto a commettere l’azione criminale. Il modello medico
correzionale in definitiva può mettere in forse l’incolumità psico-fisica
del detenuto andando in conflitto con la prima parte dell’art.27 Cost
(diritto all’umanità del trattamento). Nella realtà la salvaguardia della
personalità individuale è messa a grave rischio dalla carcerazione nel
momento stesso in cui essa ha luogo.
La legge prevede che il trattamento si debba svolgere tramite
l’istruzione, il lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e
sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i
rapporti con la famiglia.77
È fin troppo chiaro che una delle cause dell’inadeguatezza
dell’attuale sistema sanzionatorio sia proprio nella rigidità
dell’esecuzione penale di fronte all’imprevedibilità, alla vastità infinita
della fenomenologia umana, per certi versi misteriosa ed oscura.

77
L.354/75, Art.15 c.1.

97
Capitolo Secondo

Qui, come un paradosso, si innesta il concetto di


individualizzazione del trattamento. Individualizzazione significa
profonda conoscenza reciproca, allo stesso modo in cui un padre non può
usare con tutti i figli lo stesso identico tono educativo ma dovrà, bensì,
adeguarlo ad ognuno di essi in base ad una serie infinita di parametri tra
cui spiccano la personalità del soggetto, il contesto spaziale (dove), il
contesto temporale (quando), la cognizione del periodo dello sviluppo
del figlio, le sue propensioni, caratteristiche individuali, capacità di
adattamento ecc.. Non vogliamo qui proporre un nuovo metodo
paternalistico nel trattamento dei detenuti, ma soltanto ricordare che, allo
stesso modo in cui noi trattiamo i nostri figli come persone, così
un’amministrazione della giustizia dovrebbe fare con coloro che, oltre
tutto molto spesso appartengono alle classi più deboli della società.
Una prima contraddizione è rappresentata dalla scelta del legislatore
di effettuare l’osservazione “in vitro”, nel carcere, in un contesto avulso
dall’ambiente in cui il soggetto era cresciuto e nel quale si sono
verosimilmente sviluppate le cause del comportamento, tagliando così di
netto dalla valutazione l’incidenza che l’influenza ambientale d’origine
aveva nei diversi periodi dell’esistenza, in particolar modo nell’infanzia.
Solo l’assistente sociale, e con grandi limiti dovuti principalmente
alla cronica scarsità delle risorse disponibili, prende in considerazione, o
meglio dovrebbe prendere in considerazione, ciò che concerne i luoghi e
i tempi in cui il soggetto si è sviluppato, le relazioni che ha intessuto, il
territorio col quale ha interagito, in quella che viene comunemente
chiamata “indagine socio-familiare”. In realtà il limitato organico a
disposizione dell’UEPE, unitamente al sovrabbondante numero di

98
Capitolo Secondo

“utenti” in carico nonché, dato non indifferente, alla strutturale rigidità


normativa nella quale si muovono gli operatori, fa sì che nella prassi
quotidiana spesso e volentieri il lavoro si riduca ad una sommaria
valutazione dei documenti e delle relazioni già esistenti e, se va bene, ad
un solo breve colloquio col detenuto. A proposito del colloquio è
interessante osservare il numero di “domandine” di richiesta di incontro
con l’assistente sociale dell’UEPE inevase. Durante la mia esperienza
nel carcere di Pisa abbiamo potuto constatare che tali richieste si erano
accumulate in gran quantità e le meno recenti risalivano addirittura ad un
anno prima con l’alta probabilità che appartenessero a detenuti ormai
usciti dall’istituto.78

78
Sulle domandine dei detenuti e su ciò che rappresentano dell’intera fenomenologia carceraria, una
vera pena nella pena, fondamentale è il testo di Pietro Buffa, I territori della pena, Torino, Gruppo
Abele, 2007.

99
Capitolo Terzo
Devianza, controllo ed esclusione sociale

3.1 L’identità sociale


“Se gli uomini definiscono reali le situazioni esse saranno reali
nelle loro conseguenze”. Questo è il cosiddetto “teorema di Thomas”,
enunciato nel 1928 dal sociologo statunitense William I. Thomas. Non è
un caso che questa asserzione sia stata elaborata dallo studioso pochi
anni dopo aver scritto, insieme al sociologo polacco Florian Znaniecki,
un’opera classica della disciplina: The Polish Peasant in Europe and
America (1918-20)79, uno studio empirico sulla condizione degli
immigrati polacchi negli USA. Come si può notare, l’impostazione del
problema dell’inclusione, soprattutto riguardo l’integrazione
interculturale, ha radici molto più antiche di quanto generalmente si
creda. Il teorema di Thomas è alla base di gran parte della sociologia
americana di questo secolo, che si è sempre più orientata verso le
capacità dei singoli e dei gruppi di creare/ricreare la realtà sociale per
mezzo dei propri “atteggiamenti” (un altro concetto che deve molto a
Thomas e Znaniecki).
Alcuni autori hanno sistematizzato questo orientamento con il
concetto di “definizione della situazione”, secondo cui ogni significato è
costruito socialmente e non esistono (a grandissime linee) concetti dati
che non possano essere ridefiniti da singoli o gruppi con un processo di

79
trad.it. William I. Thomas – Florian Znaniecki, Il contadino polacco in Europa e in America,
Milano, Edizioni di Comunità, 1968

100
Capitolo Terzo

interpretazione. George Herbert Mead80 mette chiaramente in luce come


il Sé sia costituito da una componente esogena di origine sociale, il Me,
e da un’altra componente, endogena, rappresentata dall’Io. Il Sé di un
soggetto si struttura, all’interno di un contesto sociale in cui esiste
interazione fra il soggetto e gli altri, sulla base di meccanismi di
retroazione forniti dai segnali di riconoscimento o di rifiuto che gli altri
gli indirizzano.81
Mead considera, nel processo di elaborazione della identità, il
contributo dato dall’ambito culturale e sociale all’interno del quale il
soggetto è cresciuto e che gli ha fornito quei modelli di identificazione,
sulla base dei quali egli ha costruito una propria linea di condotta e di
pensiero, ma, nello stesso tempo, non trascura i fattori soggettivi, unici e
irripetibili, che rappresentano la base delle differenze individuali che si
osservano nella realtà. Questa, secondo Mead, è la ragione della
distinzione del Sé in due aspetti ben differenziati fra loro: l’Io che
raffigura il Sé come soggetto, e il Me, che rappresenta il Sé come
oggetto.82
Il Sé rappresenterebbe, quindi, il risultato di una tensione dialettica
fra le due polarità, esogena ed endogena, dove l’Io incarna i fattori
diversificanti e costruttivi del Sé — l’approccio innovativo che ogni
80
Georg Herbert Mead, Mente, Sé e Società, Giunti Barbera, Firenze, 1972, orig.: Mind Self and
Society, Chicago, The Univ. of Chicago Press, 1934 . Scrive l’autore a p. 203: “Non conosco altri
modi in cui l’intelligenza o la mente potrebbero sorgere o essere sorte se non attraverso
l’interiorizzazione da parte dell’individuo dei processi sociali dell’esperienza e del comportamento”
81
“Il fatto che tutti i Sé siano formati nei termini o attraverso i termini del processo sociale e siano
dei riflessi individuali di esso - o piuttosto di quel modello di comportamento organizzato che il
processo sociale rivela che gli individui assumono nelle loro rispettive strutture - non è minimamente
incompatibile con il fatto che ciascun Sé individuale ha la sua propria peculiare individualità, il suo
proprio modello irripetibile” (G.H.Mead, Mente, Sé e Società, cit., p. 211)
82
“L’Io è la risposta dell’organismo agli atteggiamenti degli altri che un individuo assume. Gli
atteggiamenti degli altri costituiscono il Me organizzato ed allora un individuo reagisce ad esso come
un «Io» [...]. L’Io ed il Me [vanno considerati] come elementi costitutivi del S” (G.H.Mead, Mente, Sé
e Società, cit., p. 189).

101
Capitolo Terzo

soggetto può adottare di fronte a qualsiasi problema posto dalla vita


sociale —, il Me, invece, riflette le informazioni retroattive che
emergono nei rapporti interpersonali. Quella sorta di conversazione fra
Io e Me costituisce lo spazio di sviluppo del Sé 83. Il Sé quindi avrebbe
per Mead il significato di un processo, i cui protagonisti sarebbero
l’individuo e la società, all’interno del quale entrano in gioco fattori
soggettivi ed elementi appartenenti al mondo sociale, la rappresentazione
dell’altro ed il sistema di relazioni.
L’ipotesi che ne consegue suggerisce l’idea di un uomo che vive in
società non solo come individuo tra individui ma come soggetto capace
di autoriflessione che si costituisce nell’interazione con gli altri
attraverso il linguaggio, ossia attraverso la comunicazione di simboli
significativi. All’interno dell’interazione con gli altri ognuno sviluppa la
propria peculiare individualità con l’assunzione di ruoli sociali e con la
capacità di rappresentarsi come centro di elaborazione autonoma dei
significati delle esperienze di relazione. L’identità si manifesterebbe,
quindi, nell’equilibrio tra due facce apparentemente opposte, l’io ed il
noi. Equilibrio dinamico che, a seconda del prevalere dell’uno sull’altro
aspetto, arriva a connotare i diversi stadi di sviluppo dell’habitus sociale.
A tal proposito giova forse ricordare la prospettiva evidenziata da
Elias84 secondo cui il bilanciamento tra le due forme dell’identità muta
83
Interessante è la distinzione che Mead opera tra l’Io creativo e il Me conformista. "Noi parliamo di
una persona come di un individuo convenzionale; le sue idee sono esattamente le stesse di quelle dei
suoi vicini; in queste circostanze egli non è niente più che un Me, i suoi sono soltanto degli
adattamenti superficiali che hanno luogo, come sosteniamo, inconsciamente. In contrapposizione,
esiste il soggetto che ha una personalità ben definita, che replica all’atteggiamento organizzato in un
modo significativamente differente. In questo soggetto è l’Io la fase più importante dell’esperienza.
Queste due fasi, costantemente manifestantisi, sono le fasi più importanti del Sé” (G.H.Mead, Mente,
Sé e Società, cit., p. 210).
84
.“Non esiste un’identità-Io senza un’identità-Noi; mutano soltanto le accentuazioni nell’equilibrio
Io-Noi, il modello del rapporto Io-Noi” (Norbert Elias, La società degli individui, Bologna, Il Mulino,
1990, pagg. 177-271)

102
Capitolo Terzo

nel tempo segnando il transitare tra i periodi storici in cui l’identità-Noi


ha prevalso sull’identità-Io e viceversa85. Per, esempio, nota Elias, dalla
fine del Medioevo, con la riscoperta dell’individuo, l’ago della bilancia
comincia a pendere verso l’Io. La necessaria compensazione questo
sbilanciamento avviene con la cessione del ruolo di identità-Noi agli
Stati, passando per “Lo Stato sono io” di Luigi XIV e la più matura
identità nazionale nata dalla rivoluzione francese. Oggi, osserva il
sociologo tedesco, nell’era della globalizzazione, questa identificazione
collettiva è venuta meno e ciò costituisce il principio della crisi attuale 86
e la nascita, vale la pena di aggiungere, della società complessa,
numerosa nelle parti e nelle differenze interne al sistema sociale e ricca
nelle relazioni fra queste stesse parti che tuttavia appaiono disarticolate e
dissociate.
Una posizione abbastanza radicale, in merito ai rapporti a volte
contraddittori che contraddistinguono il rapporto dialettico fra le due
componenti del Sé, è quella di Garfinkel87 e della scuola
etnometodologica da lui fondata negli anni ’60, secondo cui
caratteristiche dell’azione sociale sono l’indicalità e la riflessività.
Con il termine indicalità gli etnometologi intendono significare che
ogni spiegazione indica molto di più di quanto essa esprime
letteralmente, la sua comprensione è problematica e il suo senso non può

85
“La Repubblica romana dell’antichità è un classico esempio di uno stadio di sviluppo in cui
l’appartenenza alla famiglia, alla stirpe o allo Stato, ossia l’identità-Noi del singolo aveva un peso
superiore a quello di oggi nell’equilibrio Io-Noi”. (Elias, La società degli individui, cit., p. 179)
86
“Una delle tante singolarità della situazione attuale è il fatto che anche su questo piano
l’immagine-Noi, l’identità-Noi della maggioranza degli uomini arranca faticosamente dietro la realtà
del livello effettivo di integrazione; l’immagine-Noi resta assai lontana rispetto alla realtà delle
interdipendenze globali e dunque anche della possibile distruzione dello spazio vitale comune ad
opera di singoli gruppi umani”. (Elias, La società degli individui, cit., pp. 259-260)
87
Harold Garfinkel, Che cos'è l'etnometodologia, in: Pier Paolo Giglioli, Alessandro Dal Lago,
Etnometodologia, Bologna, Il Mulino, 1983

103
Capitolo Terzo

essere definito pienamente avulso dai particolari contestuali della


situazione in cui esso viene dato. Il concetto di riflessività, invece
implica l’inesistenza di una realtà sociale oggettiva, reificata, separata
dal modo di osservarla. Secondo gli etnometodologi, le due cose, la
società e il modo di osservarla e descriverla, sono connesse. Esso si
riferisce all'idea che un'affermazione è riferibile solo a sé stessa e non fa
riferimento a nessuna realtà diversa da sé stessa. Non esistono, cioè, una
realtà oggettiva e modi di osservarla per descriverla, ma ogni
osservazione costituisce la realtà stessa.88 Secondo questo approccio, i
membri di un gruppo etnico, nell’agire conferiscono senso alla loro
azione, lo spiegano, ed il senso del loro agire è l’azione stessa. Inoltre,
indicalità e riflessività, essendo elementi costitutivi delle
rappresentazioni del mondo che ognuno determina e del linguaggio usato
per determinarlo, collaborano alla costruzione della situazione che si
descrive. In altre parole, ad una modifica del contesto segue una diversa
interpretazione della realtà e questo è reso possibile grazie a continue
negoziazioni di criteri e presupposti presenti nel contesto stesso.
La realtà che circonda un individuo viene, quindi, messa in luce
mediante costrutti schematici che si basano necessariamente

88
Quella proposta da Garfinkel è una particolare elaborazione del postulato dell’interpretazione
soggettiva nelle scienze sociali la cui origine si può situare nell’affermazione di Alfred Schütz che
asserisce: “io non posso comprendere un oggetto culturale senza riferirmi all'attività umana che lo ha
prodotto”. (Alfred Schütz, Le chercheur et le quotidien, Paris, Méridiens Klincksieck, 1987, pag.15).
Interessante è anche il concetto di «straniero» così come espresso dallo stesso autore in un saggio del
1944 dove egli afferma che straniero è colui al quale – nel momento in cui accede a una comunità che
gli è estranea e decide di stabilirvisi per un certo tempo – non è più concesso di pensare come al
solito, cioè di condividere istintivamente ciò che secondo i membri di quella comunità rappresenta
l’ordine normale delle cose, ciò che in un certo contesto può esser dato per scontato: “la scoperta che
le cose nel suo nuovo ambiente appaiono molto diverse da come egli si aspettava che fossero
quand’era in patria costituisce generalmente il primo trauma che subisce la fiducia dello straniero
nella validità del suo pensare come al solito”. (Alfred Schütz, Lo straniero: saggio di psicologia
sociale, in Simonetta Tabboni (a cura di), Vicinanza e lontananza. Modelli e figure dello straniero
come categoria sociologica, Milano, Franco Angeli, 1990, p. 135)

104
Capitolo Terzo

sull’esperienza vissuta del singolo soggetto. Sono tipizzazioni89, nel


linguaggio degli etnometodologi, che se da un lato rendono interpretabile
la realtà sociale, dall’altro rischiano di irrigidirla e di renderne illeggibile
lo stesso processo di costruzione. Questo approccio, di chiara
derivazione fenomenologica, porta a concludere che i rapporti
intersoggettivi che avvengono tra i singoli individui e gli altri agiscono
in funzione del bagaglio di esperienze — l’erlebnis di Husserl —
posseduto da ognuno che fa sì che si dia rilievo a particolari aspetti
dell'agire e se ne trascurino altri. Uno degli effetti di questo modo di
relazionarsi è che l’altro viene percepito semplificato, ricondotto cioè a
schemi tipici, nella misura in cui egli è più o meno anonimo 90. Maggiore
è la distanza dal soggetto più le sue azioni vengono standardizzate, o,
come direbbe Schütz, tipizzate, con il rischio conseguente di percepire

89
Secondo Schütz i rapporti intersoggettivi che uniscono i singoli individui agli altri avvengono grazie
ad un bagaglio di esperienze che ognuno possiede e che permette di dare rilevanza a certi aspetti
dell'agire trascurandone altri. (Cfr. Alfred Schütz, Il problema della rilevanza, Torino, Rosenberg &
Sellier, 1975. Orig.: Reflections on the Problem of Relevance, Yale University Press, 1970).
90
Uno degli esempi più densi dell’incontro tra noi e gli altri è rappresentato dalla colonizzazione e
dalla conseguente scoperta di popolazioni fino allora sconosciute. Todorov affronta il problema
partendo dalle spedizioni di Colombo: “Il paradosso della colonizzazione sta nel fatto che essa viene
compiuta in nome di una presunta superiorità di valori. E' possibile, in compenso, stabilire un
criterio etico in base al quale esprimere un giudizio sulla forma delle influenze: l'essenziale, direi,
consiste nel sapere se esse sono imposte o proposte. La cristianizzazione, come l'esportazione di
qualsiasi ideologia o tecnica, è condannabile non appena è imposta, con le armi o in altro modo.
Esistono aspetti di una civiltà che si possono definire superiori o inferiori; ma ciò non significa che
essi possano essere imposti agli altri. Più ancora: imporre agli altri la propria volontà sottintende
che ad essi non viene riconosciuta la nostra stessa umanità (e proprio ciò rappresenta un indice di
inferiorità culturale)” (Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’altro, Torino,
Einaudi, 1992, p.217-218. Orig.: La conquête de l’Amérique. La question de l’autre, 1982). Più oltre,
nell’analisi del pensiero di Las Casas, afferma che “La scoperta dell’«io» attraverso i «loro» che vi
abitano è accompagnata dall’affermazione, ben più allarmante, della scomparsa dell’«io» nel «noi»,
tipica dei regimi totalitari. L’esilio è fecondo se si appartiene contemporaneamente a due culture,
senza identificarsi con nessuna di esse; ma se l’intera società è una società di esiliati, il dialogo delle
culture cessa. […] La storia esemplare della conquista dell’America ci insegna che la civiltà
occidentale ha vinto, fra l’altro, grazie alla sua superiorità nella comunicazione umana; ma ci isegna
anche che questa superiorità si è affermata a spese della comunicazione col mondo”. (Ibid. p.304-
305)

105
Capitolo Terzo

soltanto l’azione commessa dall’individuo e non l’individuo stesso,


soprattutto le sue motivazioni.91
Pregiudizio, etichettamento, stereotipizzazione dell’altro si
identificano, quindi, con i suoi comportamenti che, quando si scontrano
con gli schemi consolidati all’interno di un gruppo prendono la loro
forma a partire da qualcosa che somiglia molto ad un fenomeno
collettivo di dissonanza cognitiva.92 Interpretare e rappresentare la realtà
sociale è un processo che necessita di regole che ci permettono, se
seguite, di mantenere il controllo del nostro mondo. Esse appaiono, più
che norme imposte autoritariamente, regolarità di rappresentazione della
realtà, tipizzazioni, appunto, che vanno a costituire quei sistemi
simbolici, normativi e culturali che, presenti all’interno della società,
definiscono a loro volta i campi di significato all’interno dei quali gli
91
“La nostra relazione con il mondo sociale si basa sul presupposto che nonostante tutte le variazioni
individuali gli stessi oggeetti siano esperiti dai nostri simili sostanzialmente nello stesso modo in cui
li sperimentiamo noi, e viceversa, e anche sul presupposto ch i nostri e il loro schemi di
interpretazione mostrino la stessa struttura tipica di rilevanze. Se questa fiducia nella sostanziale
identità dell’esperienza intersoggettiva del mondo si infrange, è distutta la stessa possibilità di
stabilire una comunicazione con i nostri simili” (Alfred Schütz, Don Chisciotte e il problema della
realtà, Roma, Armando, 2002, p.36. Orig.: Don Quixote and the Problem of Reality, 1955).
92
La teoria della “dissonanza cognitiva” sviluppata da Leon Festinger suggerisce che di fronte
all’apprendimento di nuovi saperi, in contrasto con quelli già posseduti, gli esseri umani tendono ad
opporre resistenza.. Tale teoria si basa sull’osservazione che gli esseri umani manifestano una
“tensione verso la coerenza” che li porta a cercare di mantenere coerenza (o consonanza) tra i propri
atteggiamenti, le proprie opinioni e il proprio comportamento. Quando un individuo si trova davanti
ad una situazione o conoscenza in contrasto con i suoi comportamenti od opinioni, si crea
“dissonanza”. I principi della teoria della “dissonanza cognitiva” sono così riassumibili:
- L’esistenza della dissonanza, provocando un disagio psicologico spingerà l’individuo a
tentare di ridurlo per ottenere la consonanza.
- Quando la dissonanza è presente, l’individuo, oltre a cercare di ridurla, eviterà attivamente
situazioni e conoscenze che aumenterebbe probabilmente la dissonanza.
Imparare qualcosa di nuovo significa sempre confrontarsi con il dubbio, mettere in discussione le
proprie certezze e rischiare l’insorgere di uno stato di “dissonanza”. Se questo provoca un’ansia
eccessiva, può essere di ostacolo all’apprendimento e, in certi momenti, potrebbe generare addirittura
fenomeni di rifiuto verso l’apprendimento, proprio come lo stress eccessivo negli incontri
interculturali può portare a cercare di terminare l’interazione il più presto possibile. È anche a causa di
queste dinamiche che parallelamente alla crescente esigenza di formazioni per adulti si è sviluppata la
figura professionale del coacher con il compito di sostenere e aiutare l’adulto in formazione a passare
da una credenza all’altra senza mettere in discussione se stessa e vivere momenti di crisi a livello
affettivo- identitario. (Cfr. Leon Festinger, Teoria della dissonanza cognitiva, Milano, Franco Angeli,
1997. Orig.: A theory of cognitive dissonance, Stanford University Press, 1957)

106
Capitolo Terzo

uomini si devono muovere per mantenere l’appartenenza alla stessa


società93. La struttura sociale sembra esercitare, quindi, una decisiva
influenza sul comportamento degli individui che ad essa appartengono.
Parrebbero di questo avviso alcuni autori che affrontano lo studio
della società raffigurandola come un insieme di strutture tra loro
interdipendenti. Ognuna di queste strutture svolgerebbe una funzione
determinata sia al mantenimento del sistema sociale, sia alla sua
riproduzione. Siamo nel pieno del paradigma funzionalista tra i cui
principali precursori troviamo Emile Durkheim che pone alla base della
sua metodologia la separazione tra la causa efficiente di un fenomeno
sociale e la funzione che esso assolve. Lo stesso crimine avrebbe dunque
una funzione sociale e non sarebbe soltanto una patologia della società
ma agirebbe in modo da cooperare nella conservazione dell’ordine
sociale94.
La vita collettiva priva di manifestazioni di uscita dai
comportamenti normali, cioè di comportamenti devianti, sarebbe quindi
inconcepibile. Anzi, la devianza svolgerebbe funzioni positive volte al
rafforzamento della struttura normativa nell'insieme delle credenze e dei
sentimenti comuni alla media dei membri di una società che lo stesso
sociologo francese definisce coscienza collettiva. È la teoria
dell’interazionismo simbolico, di cui abbiamo dato accenno qui sopra, a
fornire i riferimenti per la comprensione della devianza come

93
Semplificando possiamo dire che l’uomo è l’insieme dei significati attribuiti di volta in volta agli
eventi relativi alla propria storia nella società in cui vive. Sull’argomento, molto interessante è il testo
di Jerome Bruner, La ricerca del significato, Torino, Bollati Boringhieri, 1992
94
“Classificare il reato tra i fenomeni della sociologia normale non significa soltanto dire che esso è
un fenomeno inevitabile benché increscioso, dovuto all’incorreggibile cattiveria degli uomini, ma
significa anche affermare che esso è un fattore della salute pubblica, una parte integrante di ogni
società sana”. (Émile Durkheim, Le regole del metodo sociologico. Sociologia e filosofia (1895),
Milano, Edizioni di Comunità, 2001, p. 23)

107
Capitolo Terzo

comportamento che nasce necessariamente dai processi di


comunicazione simbolica tra individui all’interno di una determinata
situazione o contesto nel quale essi si trovano. La devianza non è un
concetto assoluto, invariante, ma, al contrario, è fortemente radicato al
contesto sociale e storico all’interno del quale si situa. È una questione di
percezione reciproca del comportamento e delle norme all’interno delle
quali le azioni individuali o collettive si muovono.
La relatività dei confini della normalità può, tuttavia, dar luogo
anche a misinterpretazioni nel meccanismo di interazione reciproca e,
quindi, al pregiudizio e, come vedremo, ai processi di stigmatizzazione e
di etichettamento. La società tende necessariamente al mantenimento
dell’unione reciproca e quindi di se stessa, perseguendo la staticità
conformistica e osteggiando gli atteggiamenti e i comportamenti che da
essa fuoriescono. Per far ciò adotta le contromisure alla devianza sotto la
forma del controllo sociale. Quello dato dalla devianza e dal conseguente
controllo su di essa è un processo bipolare che è insito nella natura
sociale dell’essere umano ed è stato largamente studiato.
La devianza è un processo che contribuisce attivamente a
mantenere l’unione reciproca tra le persone normali, concordi nella
condanna dell’azione deviante o criminale e chi tale azione ha commesso
e ben contente di trovare conferma della propria realtà comunitaria come
giusta e dotata di senso. Questo parrebbe confermare uno degli assunti di
fondo di tutto questo lavoro per cui la pena sarebbe privata della sua
funzione riabilitatrice ed avrebbe come scopo primario quello di
riconfermare l’autorità morale della società.95
95
“Contrariamente alle idee correnti, il criminale non appare più come un essere radicalmente non-
socievole, una specie di elemento parassita, di corpo estraneo e non assimilabile introdotto in seno
alla società; egli è invece un agente regolare della vita sociale. Il reato, da parte sua, non deve più

108
Capitolo Terzo

La tipizzazione dei comportamenti degli individui all’interno della


società cui appartengono è funzione, quindi, delle norme e delle regole
come pure dei campi di significato, forniti dalla storia personale o
collettiva di un determinato gruppo, che ad esse vengono attribuiti in uno
specifico contesto o situazione. Quando, in una società, le regole ed i
sistemi di controllo votati alla loro applicazione e la realtà vissuta,
soprattutto all’interno alcuni gruppi o classi sociali, entrano in
dissonanza cognitiva si verifica quel fenomeno si rottura delle regole che
Durkheim definisce anomia.
Sul concetto di anomia si fonda uno dei più importanti quadri di
riferimento della teoria sociologica della devianza, quello costruito da
Robert K. Merton in un saggio del 1938 96 in cui attribuisce la maggior
frequenza nell’insorgenza di comportamenti devianti alla percezione
contraddittoria delle norme di una determinata struttura sociale. Sarebbe
la stessa struttura sociale, per il sociologo americano, a fornire la spinta
verso la devianza quando le mete culturalmente condivise — per
esempio la ricchezza e il successo ma anche una certa visione della
sicurezza sociale — ed i mezzi istituzionali socialmente accettati per la
loro conquista subiscono una dissociazione. Se rapportiamo la teoria di
Merton al nostro tempo possiamo osservare come alcuni obbiettivi che
vengono proposti alla società siano straordinariamente sovrastimati e
come, di converso, non siano forniti adeguati strumenti istituzionali utili
al perseguimento degli scopi condivisi. L’individuo, teso al

venir concepito come un male che è impossibile contenere in limiti troppo angusti; ma quando accade
che esso scenda sensibilmente al di sotto del suo livello ordinario, questo fatto non deve essere per
noi un motivo di soddisfazione, perché questo apparente progresso è certamente contemporaneo e
solidale a qualche turbamento sociale”. (Durkheim, Le regole del metodo sociologico, cit., p. 77).
96
Robert King Merton, Teoria e struttura sociale, Bologna , Il Mulino, 2000. Orig.: “Social Structure
and Anomia” in American Sociological Review, III, 5, 1938

109
Capitolo Terzo

raggiungimento della sua meta socialmente condivisa, risolverebbe,


quindi, questa distonia andando alla ricerca di procedure per lui più
efficaci tecnicamente indipendentemente dalla loro legittimità
culturale.97 La struttura sociale stessa, insistendo su particolari mete, non
ugualmente raggiungibili da tutti gli individui o strati sociali, secondo
Merton, contribuisce a produrre anomia e, quindi, devianza che, per
Merton è un fenomeno che si sviluppa nel rapporto fra struttura sociale e
struttura culturale.98
Il sociologo americano prende ad esempio il sistema socio-
economico del suo paese ed individua nella ricchezza uno degli
obbiettivi più largamente perseguiti dalla società americana. Tuttavia, il
sistema della stratificazione evidenzia che gli strati inferiori della
società, pur accettando anch’essi il mito della ricchezza si trovano nel
palese svantaggio, rispetto agli strati superiori, di essere privi, di fatto,
delle possibilità reali a loro disposizione per agire istituzionalmente sia
per arricchirsi che per criticare la struttura sociale e politica che li
colloca in tale posizione. L’incompatibilità reciproca di queste
condizioni, secondo il pensiero del sociologo americano, produrrebbe
devianza oppure, in alternativa, la rinuncia, l’abbandono del gioco
definito dalla struttura socio-culturale in termini di esasperata
competitività e, quindi, l’emarginazione e l’esclusione.99
97
“Via via che questo processo di attenuazione continua la società diventa instabile; e si sviluppa ciò
che Durkheim ha chiamato «anomia» (o mancanza di norme)”. (Robert K. Merton, Teoria e struttura
sociale, cit.)
98
“La struttura sociale si comporta di volta in volta come una barriera o una porta aperta nei
confronti della realizzazione dei mandati culturali: quando la struttura culturale e la struttura sociale
non sono integrate e la prima richiede dei comportamenti che la seconda impedisce, ne consegue una
tensione che porta alla violazione delle norme o all’assenza di norme”. (Robert K. Merton, Teoria e
struttura sociale, cit.).
99
I rinunciatari cui Merton si riferisce sono coloro che abbandonano gli obbiettivi e non accettano i
mezzi istituzionali previsti per raggiungerli sono: “gli psicotici, i visionari, i paria, i reietti, i
mendicanti, i vagabondi, i girovaghi, gli ubriaconi cronici e i drogati”. (Robert K. Merton, Teoria e

110
Capitolo Terzo

Una particolare applicazione della prospettiva di Merton è


rappresentata dalle osservazioni sulle subculture giovanili devianti
presentate da Albert Cohen100 e dalla sua ipotesi che la devianza e la
delinquenza giovanili siano comportamenti tipici degli strati sociali
inferiori e ciò sia conseguenza proprio della discrepanza tra valori e
norme che crea problemi di integrazione laddove, per esempio nella
scuola, bambini delle classi inferiori si trovino a confrontarsi con
bambini appartenenti alla classe media, di fatto estranei alla loro realtà
quotidiana ma verosimilmente più vicini alla realtà degli insegnanti.
Questi ultimi rappresentano il prolungamento delle norme nella vita
scolastica dei bambini ma portano con sé i propri valori culturali.101
La definizione di disadattato in riferimento ad un ragazzo che adotti
comportamenti devianti non nasce dal nulla. Il problema è stabilire quali
siano gli standard cui egli debba adattarsi e da chi essi debbano essere
forniti. Solitamente la produzione delle norme e dei valori standard
avviene ad opera delle classi sociali medio-alte, per cui l’unica risposta,
in senso mertoniano, possibile da parte di chi appartiene agli strati più
disagiati della società consiste nel comportamento deviante se non
delinquente.

struttura sociale, cit.). In questa analisi bisogna ovviamente tenere conto del contesto storico e socio-
culturale in cui opera lo studioso americano ma, per osservare come sia strettamente attuale, è
sufficiente operare alcune semplici sostituzioni terminologiche senza, per questo, modificarne i
significati.
100
Albert J. Cohen , Ragazzi delinquenti, Milano, Feltrinelli, 1974. Orig.: Delinquent Boys. The
Culture of the Gang, New York, Free Press, 1955
101
Siamo quindi in presenza di “un sistema di qualificazione sociale in cui i giovani di livelli sociali
diversi possono essere e sono posti direttamente a confronto in base allo stesso complesso di criteri
basati sull'acquisività. Differenze sistematiche in questa capacità generale di successo, connesse con
la classe di appartenenza, relegheranno sul fondo della piramide sociale i giovani appartenenti alle
classi sociali più svantaggiate, non direttamente a causa della loro posizione di classe in quanto tale,
ma perché a causa degli handicap connessi con la classe che agiscono da remora per loro, essi
mancano delle qualifiche personali richieste. In breve, dove le opportunità di successo sono connesse
con la classe, si produrrà lo scontento sociale nella misura in cui il sistema di qualificazione è
democratico”. (Cohen, Ragazzi delinquenti, cit., pp. 86-88)

111
Capitolo Terzo

Il rispetto della proprietà ed il senso del lavoro come mezzo di


convivenza sociale e di raggiungimento dei propri obbiettivi sono valori
che appartengono a chi possiede proprietà ed ha un lavoro ed a chi cresce
e vive in un ambiente sociale e familiare dove è normale pensare in
prospettiva. Chi non ha niente, od ha appena a sufficienza per
sopravvivere, chi è abituato a vivere in un mondo in cui il lavoro è
soltanto una parola sganciata dall’esperienza può non riuscire mai a
condividere obbiettivi a lungo termine con coloro che appartengono alla
classe dominante. Questo milieu, secondo Cohen può contribuire
largamente alla devianza ed alla delinquenza nelle subculture giovanili
ma non ne è condizione sufficiente.
I giovani appartenenti alle classi subalterne hanno possibilità di
scegliere tra più opportunità. Cohen individua tre principali opzioni
disponibili e, con un’operazione che richiama il lavoro di Merton,
sintetizza altrettante tipologie di soluzione adattiva.102
Prima risposta: i college boys, orientati verso lo schema tradizionale
usato dai coetanei della Middle Class, si conformano ai valori dominanti
e considerano la scuola ed il successo scolastico come strumento di
successo in generale. Sono i conformisti.
Seconda risposta: i corner boys sono coloro che sperimentano il
fallimento del proprio percorso scolastico e si adattano ad un lavoro con
scarsi stimoli in un atteggiamento che non è ancora conflitto ma,
piuttosto, rinuncia.

102
In realtà le definizioni che seguono sono state coniate nel 1943 da William Foote White e descritte
nel resoconto della sua osservazione partecipante, durata diversi anni, in uno slum di immigrati italiani
di Boston, anch’esso da lui stesso denominato Cornerville. (William Foote White, Little Italy. Uno
slum italo-Americano, Bari, Laterza, 1968. Orig: Street Corner Society. The Social Structure of an
Italian Slum, Chicago, The University of Chicago Press, 1943).

112
Capitolo Terzo

Terza risposta: i delinquent boys. Sono coloro che rifiutano gli


standard della classe media ma vanno in cerca, soprattutto mediante
l’unione reciproca in bande, di stimoli per il proprio processo di
autostima e di legittimazione sociale. Per la teoria della subcultura,
norme ed individuo che viola la legge sembrano essere corpi
reciprocamente autonomi ed indipendenti.
Un passo importante nell’approfondimento della questione
dell’interiorizzazione o meno delle norme legittimate socialmente da
parte degli individui è dato dal lavoro di David Matza 103 e, come
vedremo in seguito, dalle teorie dell’etichettamento. La società, secondo
Matza, non recide il legame da chi adotta comportamenti devianti ma,
anzi, aumenta la sua pressione su di essi in un meccanismo di vero e
proprio controllo sociale. La devianza non è tanto una discrepanza tra
norme sociali e risorse individuali quanto, piuttosto, deriva dal conflitto
tra il significato attribuito alle azioni devianti da parte dei devianti e il
diverso significato dato agli stessi atti dagli altri membri della società cui
egli appartiene. In sostanza, il deviante è un individuo che vive
all’interno del sistema valoriale legittimato socialmente e ne è
consapevole ma si comporta in modo da violare le stesse norme per un
diverso significato che egli attribuisce ad esse. 104 Il soggetto deviante
autolegittima le proprie azioni non mediante la sottoscrizione di un
nuovo ordine normativo dato da una ipotetica sottocultura quanto,
piuttosto, utilizzando strategie di neutralizzazione delle norme morali e
legali della società dominante che egli non smette comunque di
103
David Matza, Come si diventa devianti, Il Mulino, Bologna, 1976. Orig.: Becoming Deviant,
Prentice Hall, Englewood Cliffs, New Jersey, 1969.
104
“Il processo del divenire devianti ha poco senso, umanamente, se non si comprende l’attività
filosofica interiore del soggetto man mano che questi attribuisce significato agli eventi e alle cose che
lo circondano”(Matza, Come si diventa devianti, cit., p. 273)

113
Capitolo Terzo

considerare legittime. Le tecniche di neutralizzazione, che Matza


individua insieme a Gresham Sykes in un articolo del 1957105, sono
cinque: la negazione della responsabilità, la negazione del danno, la
negazione della vittima, la condanna del giudice e il richiamo a lealtà di
ordine superiore. Sono, queste, tecniche che chi ha modo di frequentare
il carcere vede di frequente utilizzate dai detenuti. Non bisogna
trascurare il fatto, tuttavia, che entro certi limiti, in un’accezione che
ricorda seppur vagamente i meccanismi di difesa di freudiana memoria,
queste dinamiche sono in qualche modo “naturali” nell’essere umano e,
qualora raggiungessero in intensità e volume quote socialmente rilevanti,
non possono essere attribuite deterministicamente a soggetti aventi a che
fare col sistema giudiziario.106 Non si tratterebbe, quindi, di un
misconoscimento dei valori sociali dominanti quanto, piuttosto, una
sospensione della fedeltà nei confronti delle stesse norme messa in opera
da individui anche soltanto temporaneamente. Matza lascia aperta la
porta ad un eventuale rientro nella conformità delle norme sociali da
parte di coloro che si pongono alla deriva. La strada della devianza, per
Sykes e Matza, è quindi una libera scelta che l’individuo persegue con il
ricorso alle tecniche di neutralizzazione.
La libera scelta presuppone, però, una forza morale che secondo un
altro autore, Travis Hirschi, gli individui non posseggono 107. Secondo
Hirschi gli individui sono naturalmente portati a trasgredire le regole e
ciò che lo studioso della società deve approfondire non è tanto il perché
105
Gresham Sykes e David Matza, “Techniques of Neutralization: A Theory of Delinquency” in
American Sociological Review, 22, 1957.
106
Come non ricordare, sia detto per inciso, il famoso discorso parlamentare di Bettino Craxi che, il 3
luglio 1992, in pieno clima “Tangentopoli”, giustificò i sovvenzionamenti illeciti ai partiti con un
pirandelliano “così fan tutti”
107
Travis Hirschi, Causes of Delinquency in Berzano - Prina, Sociologia della devianza, cit., p. 24.
Orig.: Causes of Delinquency, Berkeley (California), University of California Press, 1969

114
Capitolo Terzo

le persone divengano devianti quanto, piuttosto, i motivi che le spingono


a conformarsi alle norme. La chiave del problema è situata nella natura
dei legami sociali che, in caso di loro indebolimento o rottura, possono
aver luogo fenomeni di devianza e di delinquenza. Inoltre la cultura delle
classi inferiori sarebbe una cultura di deprivazioni, soprattutto
relazionali, non una cultura separata.
La teoria del controllo sociale che Hirschi propone si basa quindi
sulla coesistenza dinamica di alcuni elementi che costituirebbero il
legame di ciascun individuo con gli altri. Tali elementi sono:
- l’attaccamento dell’individuo agli altri, soprattutto soggetti
significativi come genitori o insegnanti (concetto che l’autore
preferisce all’idea dell’interiorizzazione delle norme sociali)
- l’impegno nel perseguire la conformità e le linee di azione
convenzionali come lo studio, il lavoro ecc.
- il coinvolgimento personale nelle attività convenzionali come
studio, lavoro e famiglia.
- il credere nelle norme sociali non soltanto prima della devianza
ma anche quando le regole siano violate.
In buona sostanza, un individuo viola una norma perché come
soggetto crede che quel tal comportamento non sia vietato poiché, a
causa dell’indebolimento dei legami sociali, egli perde di vista ciò in cui
la maggior parte delle persone crede. 108 È una visione chiaramente
pessimistica della fragile natura dell’uomo che vede come costantemente
bisognoso di freni e controlli per limitarne la tendenza centrifuga.

108
Per Hirschi il delinquente è “una persona relativamente privata degli attaccamenti significativi,
delle aspirazioni e delle credenze morali che legano la maggior parte delle persone ad una vita
all’interno della legge” (Hirschi, Causes of Delinquency, cit, prefazione, trad. nostra)

115
Capitolo Terzo

Più recentemente, Hirschi, in un testo redatto assieme al collega


Gottfredson109, introduce l’autocontrollo come ulteriore variabile nella
traiettoria tra l’azione conformistica e quella deviante. L’autocontrollo
nascerebbe e si svilupperebbe durante i primi processi di socializzazione
di ogni individuo. Dal successo o dal fallimento di questi processi di
socializzazione deriverebbe una maggiore o minore capacità personale di
controllo sulle pulsioni egoistiche e, di conseguenza, una maggiore o
minore probabilità di sviluppare una carriera deviante.
Un punto di vista che si eleva sugli altri, anche perché comprende al
suo interno molti aspetti di essi, è quello che afferisce alla cosiddetta
teoria dell’etichettamento (o Labelling Theory). Secondo gli autori che
convergono su questo paradigma teorico la devianza non un’azione
definita come tale oggettivamente (la qualità dell’atto di cui vedremo
parlare Becker), ma è l’effetto che scaturisce dalla reciproca attribuzione
di specifiche qualifiche (etichette) da parte di alcuni che si pongono dal
lato di chi accudisce le norme sociali (gli etichettatori) rispetto ad altri
che, viceversa, tali norme trasgrediscono (gli outsiders). La devianza è,
anche per i Labelling Theorysts, un concetto dipendente dal contesto
sociale: sono i gruppi sociali a definire i termini di cosa sia e che cosa
non sia un azione deviante. L’interesse si sposta, quindi, dall’azione
deviante e da colui che la commette verso le reazioni della società
rispetto a tali azioni ed ai devianti che si concretizzano, in particolar
modo, nei processi di etichettamento.
In questa prospettiva il controllo sociale non è più conseguenza
della devianza ma, al contrario, ne è una delle origini.

109
Michael Gottfredson, Travis Hirschi, A General Theory of Cryme, Stanford University Press, 1990.

116
Capitolo Terzo

Questo concetto è ben espresso da uno dei fondatori della teoria


dell’etichettamento, Howard S. Becker, che scrive: “I gruppi sociali
creano la devianza istituendo norme la cui infrazione costituisce la
devianza stessa applicando quelle norme a determinate persone e
attribuendo loro l’etichetta di outsiders. Da questo punto di vista, la
devianza non è una qualità dell’atto commesso da una persona, ma
piuttosto una conseguenza dell’applicazione, da parte di altri, di norme
e di sanzioni nei confronti di un «colpevole». Il deviante è una persona
alla quale questa etichetta è stata applicata con successo; un
comportamento deviante è un comportamento che la gente etichetta
come tale”.110
In seguito Edwin M. Lemert111 approfondirà l’argomento
distinguendo tra devianza primaria e devianza secondaria. Per devianza
primaria si intende un comportamento che, seppur riconosciuto come
deviante, non dà adito ad operazioni di censura e, di conseguenza, non
viene intaccato né ridefinito lo status sociale del trasgressore. Tuttavia,
se il comportamento deviante acquisisce particolare evidenza e visibilità,
per la frequenza con cui viene ripetuto, e conseguentemente provoca la
reazione sociale, si trasforma in devianza secondaria.
Il passaggio da un tipo all’altro di devianza è frutto di un processo
graduale che coinvolge anche, e soprattutto, l’autovalutazione del
soggetto autore di tali comportamenti che può giungere ad identificarsi
con le sue stesse azioni e, cosa assai significativa, con le reazioni

110
Howard Samuel Becker, Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, Torino, EGA Editore, 1987,
p. 28. Orig.: Outsiders. Studies in the Sociology of Deviance, Glencoe, The Free Press, 1963
111
Edwin M. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, Milano, Giuffrè, 1981. Orig.:
Human Device, Social Problems and Social Control, Prentice Hall, Englewood Cliffs N.J., 1967

117
Capitolo Terzo

sanzionatorie e di stigmatizzazione112 da parte della società, adattando


l’insieme dei propri ruoli (il suo Me, come probabilmente direbbe Mead)
alla nuova condizione di soggetto deviante.
Una trasgressione alle norme socialmente condivise non significa,
perciò, necessariamente l’appartenenza alla categoria dei devianti. Ciò
che determina la carriera deviante è la presenza di una reazione della
società sotto forma di disapprovazione, degradazione o esclusione del
trasgressore. A seguito di tale reazione sociale, il trasgressore, non resta
totalmente passivo ma opera a sua volta una reazione mediante ulteriori
comportamenti devianti in una spirale sequenziale che, superati certi
limiti, rischia di divenire irreversibile. È interessante osservare,
comunque, come non vi sia sempre una correlazione diretta e biunivoca
tra comportamento e conseguente stigmatizzazione sociale 113. In altre
parole, mentre Becker sostiene che la carriera deviante sia funzione
dell’apprendimento sociale di motivazioni e interessi devianti, Lemert fa
un passo avanti mettendo in luce come possa esistere sproporzione tra la
reazione sociale, e conseguente etichettamento del deviante, e il suo
comportamento effettivo. Una certa quota di devianza putativa o di falsa
imputazione possono dipendere, ai nostri giorni, come in altre parti di
questo lavoro abbiamo sottolineato, da un uso strumentale della devianza
per la conservazione del potere da parte dei gruppi dominanti, ma non
dobbiamo escludere variabili importanti come la carenza di meccanismi
realmente efficaci di verifica e controllo e l’allontanamento dalla reale
112
Lemert definisce la stigmatizzazione come “un processo che conduce a contrassegnare
pubblicamente delle persone come moralmente inferiori, mediante etichette negative, marchi,
bollature, o informazioni pubblicamente diffuse”. (Lemert,. Devianza, problemi sociali e forme di
controllo, cit., p. 91)
113
“Lo stesso comportamento può essere un'infrazione delle norme in un certo momento, e non in un
altro; può essere un'infrazione se è commesso da una certa persona, ma non se commesso da
un'altra; certe norme sono infrante con impunità, e altre no” (Becker, Outsiders, cit, p. 26).

118
Capitolo Terzo

consistenza dei problemi cui l’opinione pubblica viene sottoposta


soprattutto ad opera dei media114
Uno dei nodi su cui focalizzare l’attenzione nel tentativo di
comprendere i meccanismi della devianza e della delinquenza è, quindi,
l’identità sociale ed i processi con cui essa si costruisce.
Secondo Goffman115 identità sociale e ruolo sono strettamente
collegati. Il sociologo canadese affronta l’analisi mediante
un’interessantissima e molto proficua metafora drammaturgica. Nel
teatro, come nella vita, l’individuo assume contemporaneamente il ruolo
sia dell’attore che del personaggio ed è imprescindibile la presenza – e il
giudizio – del pubblico per attribuire significato sociale all’esistenza
dell’individuo e, quindi, fornire la spinta per la sua identificazione
sociale.116 In tal senso per Goffman, come per Mead, il sé è il frutto di
una costruzione sociale che si genera e si produce nei processi interattivi.
Il ruolo di un individuo, secondo Goffman, si gioca su di una
componente normativa, ciò che tipicamente viene attribuito al ruolo
giocato dalla persona ed infine l’interpretazione che gli altri forniscono
alla rappresentazione del ruolo dell’individuo. Il ruolo interpretato può
variare con la diversa situazione nella quale si trova l’individuo che, di
conseguenza, si può trovare ad interpretare più ruoli anche differenti tra
loro. L’identità sociale di un soggetto nasce da un processo interattivo in
cui le persone valutano gli estranei per approssimazioni successive,
114
Baudrillard, in una sua famosa frase, dice: “la televisione si mangia la realtà”. È sulla realtà
proposta dalla televisione che si costruisce l’opinione della maggioranza ed è nella realtà virtuale della
televisione accesa continuamente che si annienta il reale del detenuto e nella quale si costruisce la sua
second life.
115
Cfr. Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, Il Mulino, 1969. Orig.:
The Presentation of Self in Everyday Life, Anchor Books, Doubleday, 1956.
116
“Nella nostra società il personaggio che uno rappresenta e il proprio sé sono in un certo modo
identificati e il sé, in quanto personaggio, è in genere visto come qualcosa che alberga nel corpo di
colui che lo possiede”. (Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, cit., p. 288).

119
Capitolo Terzo

attraverso il confronto tra le caratteristiche esteriori dell’individuo e gli


attributi che si suppone debba possedere per appartenere ad un
determinato status, la categoria cui egli pare appartenere. Se i risultati di
questo processo si fermano alle semplici supposizioni il rischio è la
creazione di pregiudizi che nulla hanno a che fare con i fatti. È una sorta
di identità sociale virtuale che contiene stereotipi talvolta mediati da veri
e propri complessi di inferiorità, da sentimenti di paura e di rifiuto che,
possono dar luogo ad azioni di esclusione anche violente.
Un esempio, come vedremo in seguito analizzando il pensiero di
Dal Lago, ci viene fornito dall’immigrato visto come probabile
criminale, destabilizzatore dell’ordine costituito e fruitore in modo
indebito di attenzioni sociali sotto forma di abitazioni, assistenza
sanitaria, servizi socio-educativi. Goffman definisce come stigma
quell’attributo personale, come il colore della pelle, l’omosessualità,
l’appartenenza religiosa, che mette in dubbio, agli occhi degli altri,
l’identità sociale dell’individuo fino a produrre un intenso discredito. 117
Lo screditabile può, a questo punto, tentare di coprire la sua vera identità
e, quindi, lo stigma, mirando a controllare le informazioni che possano
far emergere gli elementi dello stigma. È un operazione assai faticosa ma
la prospettiva dello screditamento costituisce una valida ed efficace
motivazione a resistere. Nella malaugurata ipotesi che egli venga

117
“…uno stigma è in realtà un genere particolare di rapporto tra l’attributo e lo stereotipo, ma io
non ritengo che si debba continuare a definirlo sempre così, in parte perché ci sono attributi
importanti che, quasi a tutti i livelli della nostra società, sono fonte di discredito. Il termine stigma e i
suoi sinonimi contengono in sé una doppia prospettiva: l’individuo stigmatizzato presuppone che la
propria diversità sia già conosciuta, o a prima vista evidente, oppure presuppone che non sia
conosciuta dai presenti né immediatamente percepibile? Nel primo caso si ha a che fare con la sorte
dello screditato e nel secondo con quella dello screditabile. Questa è un’importante differenza anche
se è probabile che l’individuo stigmatizzato debba subire ambedue le situazioni”. (Erving Goffman,
Stigma. L’identità negata, Verona, Ombre Corte, 2003, p. 4. Orig.: Stigma. Notes on The
Management of Spoiled Identity, Simon & Schuster, 1963).

120
Capitolo Terzo

scoperto e, conseguentemente, screditato prende corpo una vera e propria


carriera morale che, partendo dall’interiorizzazione della prospettiva dei
membri della società, porta alla modifica dell’identità personale
dell’individuo che impara a considerarsi come persona in possesso di
uno stigma, con tutto quel che comporta per la sua vita.
Per essere devianti, secondo Goffman, bisogna essere portatori di
uno stigma, avere scarse possibilità di controllo sull’informazione
screditante e vivere in contesti sfavorevoli per la gestione dell’identità
stigmatizzata.
Non esiste etichettato senza etichettatore, ma chi può etichettare se
non chi detiene il potere di controllo? Più avanti vedremo come il
controllo sociale di interi gruppi sia attuato tramite meccanismi di
etichettamento come devianti a partire non dalla condizione oggettiva di
devianza dei comportamenti da essi adottati quanto, piuttosto, dal mutare
delle norme in modo da trasformarli in comportamenti devianti. Il tutto
passando attraverso la manipolazione dell’opinione pubblica mediante
l’uso strumentale dei mezzi di comunicazione e dell’allarme sociale da
questi ultimi sovente propagato

3.1 L’altro sotto controllo


Abbiamo visto come sia possibile ipotizzare uno stretto legame tra
centri di potere e istituzioni punitive. Il fine è la conferma del potere ed i
mezzi per realizzarlo sono la disciplina e il controllo sociale.118
Nel succedersi delle varie epoche storiche si è osservato un
mutamento del bilancio che vede prevalere ora pratiche disciplinari ora il

118
Cfr. David Garland, La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo,
Roma, Il Saggiatore, 2004

121
Capitolo Terzo

controllo sulla società. Fino alla metà degli anni Settanta il paradigma
sociologico prevalente era nella sostanza disciplinare: si pensava, cioè,
di poter intervenire sulle cause della devianza, convinti che, trattando
con opportune “terapie” i fenomeni ritenuti cause di devianza, si potesse
operarne una seria prevenzione e trasformazione positiva.
Successivamente, in particolare dopo la riforma dell’Ordinamento
Penitenziario del ’75, si osserva il fenomeno della socializzazione della
pena, si moltiplicano, cioè, i luoghi e le forme della pena. Il carcere non
è più centrale ma investe anche il territorio esterno con l’allargamento
alla società delle reti di controllo. Le funzioni del controllo escono
quindi dal carcere e si disperdono in molteplici diramazioni all’interno
della società, riguardando un numero sempre maggiore di persone che ne
sono investite più o meno direttamente.
In epoca postfordista non è più possibile esercitare un dominio
disciplinare sui singoli individui. La società capitalistica non può
autopunirsi con il reprimere la cooperazione sociale di cui ha bisogno per
produrre. Il suo dominio diviene così solo esterno e consiste nella
predisposizione di “apparati di cattura in grado di controllare i flussi di
produttività sociale che attraversano la moltitudine”119. Siamo di fronte
ad un regime dell’eccedenza, degli scarti della produzione, che si
esercita tramite la predisposizione di zone d’attesa, luoghi di
119
Alessandro De Giorgi, Il governo dell’eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine,
Ombre Corte, Verona, 2002, p.32. Secondo l’autore il controllo sociale assume un carattere
“attuariale”: esso non è più finalizzato alla produzione di corpi docili e utili alla fabbrica, ma mira
all’incapacitazione di intere classi di soggetti considerati in modo aprioristico portatori di rischio
sociale.
Dello stesso autore, ma più centrato sulla critica alle strategie della cosiddetta “tolleranza zero” messe
in atto per primo dall’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, e usate, come lo stesso testo di De
Giorni non manca di sottolineare, in modo mistificatorio dei dati reali sulla diminuzione della
criminalità messa in relazione con l’applicazione della rigidità nel controllo e nella repressione delle
fasce più marginali, è il precedente saggio Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di
controllo, Roma, Derive Approdi, 2000.

122
Capitolo Terzo

neutralizzazione, nei quali i soggetti non devono essere più “prodotti”


ma semplicemente distrutti.120
Il modello del libero mercato, predominante nella società
postmoderna, è luogo di produzione di rifiuti e di esseri umani di scarto.
I rifiuti della società dei consumi sono persone private dei loro modi e
mezzi di sopravvivenza, gli esuli, i richiedenti asilo, i migranti e rifugiati
contemporanei. La modernità, in quanto progettazione delle forme della
comunità umana, è luogo di scarti umani, quelli che mal si adattano al
modello progettato121.
Lo Stato nazionale è cresciuto sulle macerie degli scarti umani,
allorquando i popoli di uno Stato escludano popoli senza Stato122.
L’identità di uno Stato si costruisce proprio sulla doppia forza esercitata
da opposizione ed esclusione, secondo una coincidenza tra identità di un
popolo e i confini dello Stato nazione, entro cui questo popolo cresce e
sviluppa la propria coesione escludente.
Non può essere evitato il richiamo allo studio di Rusche e
Kirchheimer sulla relazione tra pena e struttura sociale, secondo cui ad
ogni tipo di società, o meglio, ad ogni modello di produzione tipico di
una certa società fa seguito un determinato modello punitivo in un
collegamento diretto con gli specifici modi di produzione.123 Al sistema
120
Il carcere, in primis, come pure i Centri di Permanenza Temporanea sembrano svolgere
egregiamente questa funzione inceneritrice nella nostra epoca. Vedi sull’argomento l’interessante
testo di F. Rahola, Zone definitivamente temporanee. I luoghi dell’umanità in eccesso, Verona, Ombre
Corte, 2003. Sempre sui CPT degno di nota e ricco di testimonianze è il libro di Marco Rovelli, Lager
italiani, Milano, RCS Libri, 2006
121
“Nella società dei consumatori non c’è posto per consumatori difettosi, incompleti, insoddisfatti.
[…] I consumatori difettosi potrebbero essere dichiarati criminali in qualsiasi momento e a loro
insaputa”. (Zigmunt Bauman, Vite di scarto. Roma-Bari, Laterza, 2005, p.19. Orig.: Wasted Lives.
Modernity and its Outcasts. Polity Press, Cambridge, 2004).
122
Cfr. Bauman, Vite di scarto, cit, pp. 42-43
123
“La pena come tale non esiste; esistono solo concrete forme punitive e specifiche prassi penali.
[…] La trasformazione dei moduli punitivi non si può spiegare solo sulla base delle trasformazioni
nei bisogni della lotta contro il delitto, sebbene questa lotta, certo, vi abbia giocato un suo ruolo.
Ogni modo di produzione tende a scoprire delle forme punitive che corrispondono ai propri rapporti

123
Capitolo Terzo

di produzione e di riordino politico ed economico, che in modi sempre


diversi ha connotato i differenti passaggi della modernità, si è sempre
accompagnato un sistema altrettanto importante di smaltimento dei
rifiuti, materiali ed umani. Un’industria la cui crisi segnala, rende
visibile e definisce come problema da affrontare con qualunque mezzo,
la presenza di masse ingenti di rifiuti umani che, ribadiamo, non sono
rappresentati soltanto da esuli e rifugiati ma vedono al loro interno un
numero sempre maggiore di persone tradite dalla vulnerabilità cui il
sistema socio-economico attuale mette di fronte124. Questi cittadini di
seconda fascia, eccedenti ed inutili per il sistema produttivo che
caratterizza l’odierna società dei consumi, sono scarti superflui da
marginalizzare ed eventualmente da smaltire in via definitiva attraverso
le carceri, i centri di permanenza temporanea, i campi nomadi e i vari
ghetti urbani sempre più assomiglianti – compresa la costruzione di muri
di recinzione – a vere e proprie prigioni dove trovano posto i cittadini
eccedenti che sono già dentro cui si aggiunge la parte più visibile di tutto
il processo di esclusione, i rifiuti umani che vengono da fuori.

3.2 L’altro escluso

di produzione.” (Georg Rusche, Otto Kirchheimer, Pena e struttura sociale, Il Mulino, Bologna,
1978, Cap.1 - Introduzione).
124
Un interessante ed approfondito studio sulla vulnerabilità sociale si può trovare in Costanzo Ranci,
Le nuove disuguaglianze sociali in Italia, Bologna, Il Mulino, 2002. L’autore definisce, a pag. 13 del
testo citato, la nuova vulnerabilità sociale come un “mix di instabilità lavorativa, fragilità familiare e
territoriale, incertezza sulle garanzie sociali ed economiche acquisite, difficoltà crescente e
fronteggiare le difficoltà derivanti da problemi di tipo abitativo, finanziario, sanitario e relazionale”.
Inoltre: “Se la povertà riguarda una popolazione «sovrannumeraria», che non svolge più funzioni
sociali ed economiche riconosciute nel nuovo ordine economico, la vulnerabilità riguarda una
popolazione che, pur integrata nei principali sistemi di organizzazione della società, sperimenta
direttamente su di sé, la propria organizzazione quotidiana e nei propri comportamenti, gli effetti più
indesiderabili del nuovo ordine socioeconomico”.

124
Capitolo Terzo

Il potere politico cerca le conferme di cui ha bisogno anche


attraverso temi come la sicurezza e la paura tautologica degli scarti
umani.125 Uno dei risultati è il passaggio, più o meno silente, dai sistemi
di Welfare State, dismessi e smontati, ad un nuovo modello di Stato
penale che vede centrali le politiche repressive, la cosiddetta tolleranza
zero, soprattutto a carico delle fasce più deboli della popolazione. Si
tratta di una vera e propria operazione di criminalizzazione della miseria
e della marginalità che vede il carcere come il terminale cui destinare
coloro che non possono essere espulsi fisicamente dal territorio
nazionale ma che, di fatto, lo sono dallo spazio sociale senza possibilità
di reinserimento. L’esclusione dei marginali si perpetua, prima ancora
che nello spazio fisico, nello spazio impalpabile ma pervadente che è lo
spazio dei flussi126, o meglio si esclude dallo spazio dei flussi.
Vediamo più in dettaglio come nasce questa tautologia della paura
utilizzando uno dei maggiori teorici sull’argomento, Alessandro Dal
Lago, che, nel suo Non-persone127 traccia uno schema ideale sulla nascita
della strategia dell’allarme sociale. Egli lo fa parlando della
criminalizzazione dei migranti ma, per esteso, i risultati teorici ottenuti
possono essere tranquillamente adattati a chiunque appartenga alle fasce
sociali che hanno, nell’ottica della criminalizzazione della miseria, il

125
“I governi, spogliati di gran parte delle loro capacità e prerogative sovrane dalle forze della
globalizzazione che non sono in grado di contrastare – e meno ancora di controllare – non possono
far altro che «scegliere con cura» i bersagli che sono ( presumibilmente) in grado di contrastare e
contro cui possono sparare le loro salve retoriche, e gonfiare i muscoli sotto gli occhi dei loro
sudditi riconoscenti”. (Bauman, Vite di scarto, cit., p. 72)
126
“Lo spazio dei flussi è l’organizzazione materiale delle pratiche sociali di condivisione del tempo
che operano mediante flussi. Per flussi intendo sequenze di scambio e interazione finalizzate,
ripetitive e programmabili tra posizioni fisicamente disgiunte occupate dagli attori sociali nelle
strutture economiche, politiche e simboliche della società”. (Manuel Castells, La nascita della società
in rete, Milano, Università Bocconi Editore, 2002, p. 408. Orig.: The Rise of the Network Society,
Oxford, Blackwell Publishers Ltd, 1996)
127
Alessandro Dal Lago, Non-persone, cit..

125
Capitolo Terzo

carcere come parte del percorso vitale. La cittadinanza stessa si


configura a questo proposito come fattore di esclusione valido per tutti i
marginali che per i migranti emerge maggiormente soprattutto per la
maggiore vulnerabilità e riconoscibilità di questi ultimi come altri. Dal
Lago analizza la condizione degli immigrati e dei meccanismi di
esclusione in Italia mediante le rappresentazioni del discorso politico,
pubblico e mediatico. La retorica dello straniero come nemico che
minaccia il territorio nazionale, dell’invasione criminale, della sub-
umanità degli immigrati si riproduce attraverso meccanismi che l’autore
definisce tautologici. Ciò significa che la semplice enunciazione
dell’allarme dimostra la realtà che esso stesso denuncia.
L’opinione pubblica concentra la propria attenzione sul fenomeno
immigrazione a partire dagli anni Novanta, quando ad una sostanziale
indifferenza subentra un’ostilità simbolica e materiale sempre più decisa,
con atteggiamenti diffusi di repulsione, se non di vera e propria
xenofobia, ai quali hanno contribuito in forma indiretta anche le forze
politiche di centro-sinistra.
Il decreto Dini del novembre 1995128 e la legge Turco-Napolitano
del marzo 1998129 hanno finito per stigmatizzare l’immigrazione come
128
D.L. n.489 del 19 novembre 1995. Conteneva una serie di norme relative alle politiche sociali per
gli immigrati, un nuovo provvedimento di sanatoria maggiormente restrittivo rispetto ai precedenti e
disciplinava alcuni casi particolari in materia di ingresso e di soggiorno. Esso ha introdotto, inoltre, i
flussi d’ingresso per lavoratori stagionali e una nuova regolamentazione delle espulsioni, previste
come misure di sicurezza, di prevenzione o a richiesta di parte e di competenza del giudice penale. Il
decreto sarà più volte reiterato fino a decadere nell’estate del 1996.
129
L. n.286 del 16 ottobre 1998. intesa a regolare la materia in modo unitario “al posto del ricorso a
provvedimenti di emergenza o a ripetute sanatorie” (Vincenzo Cesareo, 2005, Dopo l’emergenza,
verso l’integrazione, in Fondazione ISMU, 2005), la legge si occupava di numerose questioni escluso
il diritto di asilo a cui doveva essere dedicato un apposito provvedimento di legge (mai realizzato, per
cui la materia continuava ad essere regolata dalla legge 39/1990). La legge si basa su di una politica di
ingressi programmati attraverso il sistema delle quote (che stabilisce un numero fissato di ingressi
regolari), e sul ruolo centrale assegnato al contrasto dell’immigrazione clandestina (potenziato
attraverso misure più incisive di controllo e coordinamento e attraverso norme sanzionatorie più
severe). Per quanto riguarda le espulsioni, sono infatti ridotte le ipotesi di espulsione con intimazione
a lasciare il territorio mentre si ha un aumento di quelle che prevedono l’accompagnamento

126
Capitolo Terzo

problema sociale. La legge del 1998, pur con misure innovative di


parificazione formale tra stranieri regolari e italiani, riconfermava nei
fatti la logica della chiusura con provvedimenti come l’espulsione dei
sospetti o dei soggetti socialmente pericolosi e con l’istituzione di campi
di detenzione per gli stranieri in attesa di espulsione. A fianco di misure
legislative fondamentalmente repressive si sono diffuse manifestazioni
capillari di razzismo: dall’analisi delle cronache emerge un gran numero
di aggressioni e omicidi di stranieri, spesso minimizzati o ignorati nella
loro accezione razzista da parte della stampa. A queste vittime vanno
aggiunti quegli stranieri oggetto di episodi di brutalità da parte delle
forze di pubblica sicurezza. Il carcere è diventato per molti migranti, in
quanto tali, la destinazione inevitabile del loro percorso migratorio,
indipendentemente dal fatto di aver commesso reati o di un’effettiva
pericolosità sociale.
Dal punto di vista legislativo colpisce la distinzione nella legge
Turco-Napolitano tra i diritti fondamentali della persona umana garantiti
a tutti gli stranieri e i diritti civili garantiti solamente agli stranieri
regolari. Espulsioni e campi di permanenza temporanea diventano ambiti
in cui gli stranieri sono sottratti alle garanzie giuridiche ordinarie e
affidati alla discrezione degli organi di polizia. Ma per la legge anche gli
stranieri regolari sono sottratti alle garanzie istituzionali in tema di
privacy, essendo sottoponibili a controlli arbitrari delle forze
dell’ordine130.

immediato alla frontiera. Qualora l’espulsione non sia immediatamente eseguibile viene previsto il
trattenimento degli immigrati per un determinato periodo di tempo (massimo trenta giorni) nei centri
di permanenza temporanea (CPT), per Dal Lago dei “veri e propri campi di detenzione”. Su questo
decreto poggia poi, nel 2001, la cosiddetta “Bossi-Fini”, legge che porta in carcere coloro che sono
privi di permesso di soggiorno.
130
Vd. Art.6 L.286/98

127
Capitolo Terzo

Alle forme empiriche di violenza e discriminazione fin qui


esaminate va aggiunta tutta una serie di pratiche politiche e discorsive
che trasformano distinzioni relative in opposizioni ontologiche ed
esclusive. Queste pratiche sono espressione, seguendo Sayad131, del
pensiero di stato: il migrante è, nella sua essenza, un nemico perché
minaccia il fondamento stesso dell’ordine statale, la nazione. Lo stato ha
bisogno dei migranti per escluderli come nemici ed ai nemici sospesi (gli
immigrati regolari) affianca i nemici infiltrati (gli immigrati irregolari,
strategicamente definiti clandestini). La migrazione diventa, sotto tutti
questi aspetti, un formidabile catalizzatore di conflitti materiali e
simbolici, di retoriche nazionali e locali, di campagne comunicative.
Studiare i fenomeni migratori si trasforma nello studio del senso
comune, di ciò che tutti pensano, delle opinioni che, anziché descrivere il
mondo, lo costituiscono proprio per il loro valore performativo e
produttivo.
La discriminazione e la persecuzione degli altri che, nel testo di Dal
Lago sono rappresentati dagli stranieri ma potrebbero tranquillamente,
come abbiamo già sottolineato, essere metafora e campione del deviante
e dei marginali nostrani, viene tradizionalmente attivata mediante
meccanismi di vittimizzazione dell’aggressore e colpevolizzazione delle
vittime. La storia europea è interamente segnata da atteggiamenti di

131
L'emigrazione-immigrazione non può che essere pensata, a parere di Sayad, all'interno del quadro
dello stato (nazione), non può essere pensata che come pensiero di stato. Nella autoriflessione dello
stato nazionale sulle migrazioni dobbiamo dunque scorgere uno stato che pensa se stesso, i propri
limiti e con ciò la propria verità. Questa autoriflessione attraversa tutti noi, “[…] figli di uno stato
nazionale, e quindi figli delle categorie nazionali che portiamo in noi stessi e che lo stato ha messo in
noi. Noi tutti pensiamo l'immigrazione (cioè gli «altri» da noi, ciò che sono, ma in questo modo,
attraverso di loro, ciò che noi siamo quando li pensiamo) come lo stato ci chiede e ci addestra a
pensarla, cioè in fin dei conti come la pensa lo stato stesso. Ecco, in sintesi, ciò che può essere il
pensiero di stato” (Abdelmalek Sayad, La doppia pena del migrante. Riflessioni sul "pensiero di
Stato”¸ in Aut Aut, n. 275, 1996, p. 12)

128
Capitolo Terzo

questo tipo verso minoranze interne – come non ricordarsi, per esempio,
delle persecuzioni a danno degli eretici, delle streghe ecc. – o esterne, i
cui epitomi sono gli ebrei, gli zingari e gli immigrati clandestini. Se in
passato la paura collettiva si traduceva in forme estreme di razzismo e
xenofobia, oggi rinasce come patologizzazione degli stranieri in quanto
tali132: stereotipi riposti da tempo nella memoria collettiva (lo straniero
come untore, vagabondo, orco, stupratore, ladro di bambini) tornano in
circolo grazie all’amplificazione dei media che, attraverso un’opera di
costruzione simbolica, riproducono gli stereotipi da loro stessi creati.
Osservando la struttura delle notizie si riscontra un canovaccio narrativo
ricorrente con un meccanismo stabile di produzione della paura, di tipo
tautologico.

3.3 L’allarme sociale


Nel processo di costruzione tautologica dell’allarme una posizione
strategica è assunta dal cittadino nella veste di imprenditore morale o
definitore soggettivo della situazione, un ruolo nuovo acquisito a partire
dai primi anni Novanta con gli eventi di “Tangentopoli” e poi
successivamente capitalizzato da movimenti popolari come la Lega
Nord. I comitati di quartiere sono l’espressione più evidente di questo
nuovo attivismo dei cittadini, caratterizzato dal prevalere della
territorialità e dall’abbandono delle tradizionali matrici politiche. La
retorica dell’immigrato come nemico e deviante utilizza due principali
operazioni di senso comune: l’estensione della categoria di criminalità a
comportamenti che criminali non sono – come, per esempio, la
prostituzione e l’assunzione di stupefacenti – e la selettività di tale
132
Dal Lago, Non persone, cit., p.42

129
Capitolo Terzo

estensione, applicata solo agli stranieri e non genericamente a tutti i


membri della società.
La principale conseguenza culturale di questa tautologia della
paura è la ridefinizione neorazzista degli immigrati: dall’analisi
dell’iconografia quotidiana operata da Dal Lago emerge una
straordinaria coincidenza tra delinquenza ed etnicità, tra la straniera
donna come corpo da offendere e l’uomo straniero come corpo
offensivo, tra gli stranieri e i loro corpi omicidi, ipersessuati, bestiali,
alieni e informi che vanno, a seconda delle metafore, recisi, evacuati,
eliminati. Mentre il razzismo del passato proponeva una divisione
iperbolica tra il bianco e le razze inferiori, quello di oggi assume forme
plurali e non necessariamente vincolate alla mitologia razziale, godendo
per questo di straordinaria libertà di parola e d’immagine.
Nel modello della tautologia della paura, all’uscita di scena dei
cittadini in carne e ossa corrisponde l’acquisizione dell’emergenza
immigrazione all’interno dell’agenda politica. Sicurezza e immigrazione,
una volta diventate preoccupazioni dominanti fra i cittadini, sono ideali
per il mercato politico date le loro caratteristiche. Sono cicliche e
possono essere affrontate con una certa pianificazione, sono
essenzialmente simboliche e possono essere soddisfatte a buon mercato
con risposte simboliche e infine sono ingombranti, poiché occupano la
scena politico-mediale, emarginando altre questioni spinose e
controverse.
Questa retorica della legalità riguarda soprattutto la
microcriminalità poiché i suoi effetti sono i primi a coinvolgere i
cittadini. La presenza di microcriminalità è trasformata in allarme

130
Capitolo Terzo

permanente e dunque in risorsa politica attraverso tre operazioni: si


rendono retoricamente omogenee criminalità organizzata e piccola
criminalità, si equiparano le devianze al crimine, si trova nello straniero
il personaggio rappresentativo della crescente illegalità. La mobilitazione
contro gli stranieri ha avuto in Italia un carattere consensuale,
unanimistico e “democratico”, accomunando i partiti di destra a quelli di
sinistra.
Il migrante, come secessionista nel mercato ufficiale a causa del suo
lavoro nero, è rappresentato come una minaccia anche da quei partiti che
tradizionalmente si sono schierati in difesa delle classi subalterne. Allo
stesso modo stupiscono la posizioni di molti intellettuali di sinistra che,
attraverso articoli e interventi pubblici, hanno riflettuto sulla devianza
esclusivamente come fenomeno criminale e non come fenomeno sociale.
Nella percezione pubblica degli immigrati un ruolo fondamentale è
rivestito dalle posizioni e dalle teorie diffuse da scienziati e studiosi.
Poco si è riflettuto sul ruolo che il discorso scientifico ha nel formare
l’opinione dei cittadini e politici. La voce degli esperti è amplificata
negli ampi spazi riservati loro da carta stampata e televisione e la
legittimazione del dibattito pubblico dipende in primo luogo dalla
posizione professionale, indipendentemente dall’attendibilità degli
interventi. Tra le retoriche scientifiche più interessanti da decostruire vi
sono quelle morali, in cui si discutono diritti e doveri degli immigrati,
quelle demografiche, in cui si dà conto dell’evoluzione quantitativa dei
fenomeni migratori, e quelle culturali, in cui si discute l’impatto degli
immigrati nella nostra cultura. Nelle retoriche morali all’immigrato va
chiesto di rispettare diritti e doveri del nuovo paese, contrapponendo una

131
Capitolo Terzo

progressiva tolleranza della nostra cultura in materia morale alla rigidità


etica quando si parla di loro. Agnes Heller133, ad esempio, rappresenta
l’immigrato come ospite (poiché la sfera pubblica viene assimilata a una
casa) e come infante perché non conosce la lingua ed è bisognoso di
educazione. Per evitare conflitti razzisti, attitudine intrinseca alla
condizione umana, è opportuno soppesare attentamente diritti e doveri di
stranieri e nativi. Altri studiosi, come Cavalli Sforza 134, pur
abbandonando l’ideologia razziale di matrice biologica, continuano a
parlare di inferiorità culturale.
La retorica demografica vede rappresentare l’immigrazione come
un’ondata inarrestabile che ci sommergerà, poiché un crescente
squilibrio demografico tra Nord e Sud si tradurrà nel conseguente
travaso di popolazione secondo un modello idraulico. Le retoriche
culturali mostrano l’immigrazione come un problema etnico, che
riguarda collettività uniformi, senza considerare che esistono tante
identità plurali quante sono le appartenenze dei soggetti che si
trasformano nel corso della loro esperienza. Queste retoriche presentano
un’irriducibile asimmetria tra noi e loro, noi con diritti naturali, loro con
diritti particolari, noi adulti, loro bambini, noi flessibili e ragionevoli,
loro meccanici e impreparati. Il differenzialismo culturale, nelle diverse
forme dello “scontro fra culture”, del “multiculturalismo ragionevole” e
del “multiculturalismo felice”, è del tutto speculare alle procedure
politico-statali di interiorizzazione e controllo dei migranti. La
trasformazione di un passaporto in marker etnico-culturale è il riflesso di

133
Agnes Heller, Zehn Thesen zum Asylrecht, “Die Zeit”, n.46, 1992, cit. in Dal Lago, Non-persone,
cit..
134
L. e F. Cavalli Sforza, Chi siamo. La storia della diversità umana, Milano, Mondadori, 1995, cit. in
Dal Lago, Non persone, cit..

132
Capitolo Terzo

un particolarismo culturale incompatibile con i principi


dell’universalismo giuridico-politico.
Per approfondire ulteriormente l’analisi di questo sistema di
interiorizzazione dello straniero, l’autore di Non-persone, prende ad
esempio il caso dell’immigrazione albanese. L’Italia è legata all’Albania
fin dal 1939, quando, sotto il regime fascista, quel paese rappresentava
un’estensione del Regno; poi, dopo il crollo del Muro di Berlino e
l’impegno italiano in prima linea per aiutare i rifugiati politici del
regime, l’intensificarsi degli arrivi di profughi comincia a preoccupare
l’opinione pubblica nostrana e modifica le retoriche solidaristiche in
retoriche dell’invasione. Nell’agosto del 1991 si ha l’episodio dello
stadio di Bari, dove migliaia di profughi vengono concentrati in attesa di
rimpatrio, in una condizione di extraterritorialità giuridica nella quale si
assiste a una forma inedita di spersonalizzazione. Un’incredibile
campagna mediatica sul pericolo albanese porta alla totale indifferenza
nella quale è vissuto il tragico affondamento di una barca e la morte di
novanta passeggeri al largo delle coste italiane nel marzo del 1997.
Questa campagna mediatica ha operato secondo una precisa logica:
costruzione consensuale degli albanesi come minaccia, recita
consensuale di un copione concluso con il culmine dell’affondamento,
deviazione del significato dell’evento. Un aspetto importante della
vicenda, taciuto dalle retoriche ufficiali, sono i grossi interessi coltivati
dagli imprenditori italiani in terra albanese. La minaccia di questi
interessi, in seguito ai disordini politici, ha legittimato interventi più o
meno scoperti di autodifesa armata: ciò ha rivelato ancora una volta la
totale interiorizzazione dell’altro fatta propria consolo dalle politiche

133
Capitolo Terzo

sull’immigrazione ma anche dal sistema delle relazioni internazionali e


degli interventi all’estero.
È così che gli immigrati irregolari, o clandestini, possono essere
anche definiti come non-persone135, poiché, pur essendo vivi e
conducendo un’esistenza più o meno analoga a quella dei nazionali, sono
passibili di uscire, contro la loro volontà, dalla condizione di persone.
Con il termine persona si intende il singolo in un senso che eccede la sua
natura biologica, come essere sociale. Corpo e persona sono i due aspetti
che le istituzioni totali tendono a controllare 136: da una parte si colpisce
l’uomo attraverso la persona – mediante la carcerazione – dall’altra si
colpisce la persona attraverso l’uomo – guerra totale, campi di
concentramento, sterminio organizzato. Nella retorica morale prevalente
nella società occidentale la prima strategia di controllo è legalmente
ammessa mentre la seconda è considerata illegittima, anche se di fatto
queste due modalità si sovrappongono in uno spazio controverso. I
dilemmi morali e politici riguardo a quest’area di sovrapposizione
vengono risolti attraverso uno spostamento implicito di significati che
consentono di parlare dei processi di distruzione delle persone in termini
letteralmente spersonalizzati. La censura linguistica è una delle forme
più comuni di annullamento delle persone: lo straniero è definito di volta
in volta extracomunitario, clandestino, irregolare, secondo ciò che egli
non è rispetto alle nostre categorie. A questa opacità linguistica
corrisponde tutta una serie di pratiche sociali riservate alle non-persone
tra cui l’infantilizzazione e la privazione di diritti.
135
Se riprendiamo il pensiero di Goffman possiamo osservare come questa sia soltanto la punta
estrema del processo di costruzione dello stigma. Scrive il sociologo: “Nella nostra mente, viene così
declassato da persona completa e a cui siamo comunemente abituati, a persona segnata, screditata” .
(Goffman, Stigma, cit, p. 3)
136
Cfr. anche Giorgio Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995.

134
Capitolo Terzo

Il concetto di persona è strettamente legato al diritto nello stato


moderno poiché la persona può esistere socialmente solo in quanto
persona giuridico-politica – nell’accezione di “sistema di diritti e
doveri”, come sostiene Kelsen137, o in quella di “soggetto di un
ordinamento politico”, tesi sostenuta da Schmitt 138. Chi è escluso dagli
ordinamenti giuridico-politici nazionali è quindi uomo solo in senso
naturale, non sociale, e non può godere dei diritti della persona. Siamo di
fronte alla costituzione di un doppio regime giuridico per chi incluso e
per chi è escluso, come le norme sull’espulsione e i centri di permanenza
temporanea dimostrano.
A differenza di altri soggetti che pure loro subiscono forme di
esclusione sociale radicale – pensiamo agli homeless ma anche ai
tossicodipendenti – ma restano dotati di diritti civili, gli immigrati
vivono, secondo Dal Lago, nel limbo, ai margini del diritto. Si può
parlare a questo proposito di a-legalismo poiché il diritto si arresta di
fronte agli stranieri, nel senso che li esclude dal proprio ambito. La
necessità sociale della sparizione degli immigrati è superiore quella del
diritto formale, come dimostrano le espulsioni praticate prima
dell’espiazione della pena. Esempio limite di sparizioni socialmente
tollerate è l’affondamento di navi-carretta in acque internazionali,
giuridicamente neutre e per questo non riconosciute.
Siamo di fronte, in maniera del tutto evidente, all’esplosione di
infiniti paradossi globali.
La globalizzazione economica costituisce l’orizzonte delle
trasformazioni sociali e politiche attuali, un orizzonte mobile e incerto.

137
H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, Torino, Einaudi, 1975, cit. in Dal Lago, Non persone, cit.
138
C. Schmitt, Dottrina della costituzione, Milano, Giuffré, 1984, cit in Dal Lago, Non persone, cit.

135
Capitolo Terzo

La perdita di sovranità in materia di economia e di politica sociale è un


fenomeno che riguarda non solo i paesi poveri ma anche quelli più
ricchi: gli stati nazionali controllano in misura sempre minore i grandi
apparati di trasmissione e riproduzione della cultura, i sistemi educativi e
le comunicazioni di massa, allo stesso modo in cu hanno dovuto
rinunciare alla sovranità in politica economica e internazionale. Ma se gli
stati nazionali perdono influenza in molti settori, in altri mantengono
forti le loro prerogative: gli apparati di controllo sociale rimangono il
campo di investimento maggiore.
Ad un’apparente unificazione del pianeta corrisponde una ferrea
gerarchizzazione dei mercati, delle economie e delle società periferiche:
così i migranti rappresentano uno dei paradossi più vistosi della
globalizzazione. La circolazione di beni, di merci e di persone che
definisce l’attuale mercato mondializzato è possibile esclusivamente a
senso unico; quando i migranti riescono a filtrare tra le maglie dei paesi
più ricchi, lo fanno solo come forza lavoro priva di diritti sostanziali.
L’unico modo per superare questo paradosso è che i diritti umani non
vengano considerati condizione della cittadinanza o dell’inclusione, ma
diventino l’unica strada per il riconoscimento dei diritti della persona.

136
Capitolo Quarto
Carcere e contesto quotidiano.
Tensione e incontro.

Nei capitoli precedenti abbiamo discusso del e sul carcere partendo


da punti di vista, in definitiva i più usuali, di volta in volta legali,
giuridici, sociologici, storici ecc.
Tuttavia, come in più punti abbiamo tentato di far emergere, il
carcere è un sistema che esiste soltanto se al suo interno vi sono persone
ciascuna con la sua storia, le sue relazioni, le sue prospettive, emozioni e
sentimenti. È un sistema fluido, che si inserisce in più punti e momenti
nella vita sociale quotidiana, ma è anche una struttura rigida, quasi del
tutto indifferente persino alle variazioni congiunturali politiche.
Esso è, di per sé, socialmente costruito come socialmente costruita è
la privazione del bene vitale della libertà. È al contempo conseguenza
della spesso affermata, storica – sia ben chiaro, almeno per la nostra
cultura - propensione alla vendetta ed al gusto di veder puniti coloro che
trasgrediscono regole comuni o, meglio ancora, appartengono a strati
sociali ostili.
Abbiamo voluto intenzionalmente usare un termine come vendetta
che può apparire senz’altro forte ma è utile per chiarire alcuni aspetti
della reattività immediata della società di fronte a fatti che essa considera
devianti dalle proprie norme. Tuttavia questo termine non può varcare i
limiti della metafora. Non possiamo considerare un fatto naturale né il
sistema sociale né le sue reazioni, come, appunto il senso di vendetta ed

137
Capitolo Quarto

il gusto della punizione del trasgressore, ammesso che con il termine


naturale si intenda significare insito nella natura umana. Le reazioni
istintive sono collegate a settori ben definiti che possono riguardare la
propria sicurezza personale, la propria difesa, la propria sopravvivenza, e
ciò perché le reazioni difensive appartengono alle caratteristiche dei
sistemi viventi. Potremmo sostenere l’idea che questo particolare sistema
sociale, in quanto sistema naturale, si comporta secondo le modalità di
un sistema naturale e, quindi, ha insite in sé le reazioni di difesa
conseguenti a ciò che è diverso e ostile. Quali siano queste reazioni,
però, non è possibile stabilire con certezza assoluta. Potremmo avere
reazioni di sorpresa, di disapprovazione, di approvazione, di solidarietà e
così via. L’importante è che il sistema reagisce ad una sollecitazione che,
nel nostro specifico caso, assumiamo sia una reazione vendicativa.
Potremmo tentare di annoverare tra le reazioni possibili anche
l’indifferenza ma ciò si renderebbe possibile soltanto a fronte di una
scelta, una reazione voluta, consapevole, altrimenti l’indifferenza
avrebbe come unico significato possibile l’assenza di reazione. Per
esemplificare, oggi non osserviamo più – o quasi – una reazione sociale
provocata dal fatto che due persone vivano insieme senza essere sposati.
La reazione della società, rispetto a certi comportamenti, già negli anni
’50 non era più quella di un secolo fa e oggi il sistema sociale mantiene
tranquillamente il suo equilibrio a fronte di comportamenti molto
differenziati.
Parlare di vendetta, quindi, come unica reazione sociale al mancato
rispetto di regole sociali andrebbe bene se avessimo di fronte un sistema
molto rigido, prevedibile. Quando ci troviamo al cospetto di un sistema

138
Capitolo Quarto

molto differenziato, con infiniti meccanismi di trattamento delle


diversità, le reazioni passano attraverso vari livelli di mediazione
culturale. Un esempio di cosa significhi mediazione culturale delle
pulsioni è dato dallo storico bisogno di controllare la vendetta così come
Beccaria illustra in tutto il suo famoso “Dei delitti e delle pene” (cit.). La
sua proposta consiste, sostanzialmente, nella razionalizzazione dell’uso
degli strumenti penali che fino ad allora era arbitrario: per uno stesso
reato molteplici e varie erano le pene – più che altro torture e supplizi –
cui si poteva andare incontro. La giustizia ha una sua razionalità, solo
così possiamo controllare la parte belluina di noi stessi. Quindi, la
reazione che abbiamo chiamato vendetta, esiste ma viene ricondotta
entro canali controllabili e più facilmente finalizzabili ad un più esteso
controllo sociale. Potrebbero, comunque, restare aperte questioni spinose
come il dubbio che essa non possa soltanto aver cambiato nome ed
essere ricondotta ad un più istituzionale ed apparentemente meno feroce
dimensione retributiva della pena fermo restando che la forzatura che
abbiamo utilizzato nell’uso del termine vendetta, è dovuta
principalmente all’intenzione di uscire per un attimo dal gergo giuridico
teorico per scendere al livello del vivere quotidiano: ciò che per il
giudice è retributività, per il cittadino è vendetta.
La vendetta è una reazione tra le tante possibili, non certo l’unica. E
neppure la più frequente. Una delle reazioni sociali possibili è, tra l’altro,
l’opposto della vendetta: il perdono.
Su questo tema è recentemente intervenuto il Dalai Lama in un
articolo in cui egli argomenta che il bisogno psicologico delle vittime di
ottenere giustizia non porta necessariamente ad una certa pratica della

139
Capitolo Quarto

giustizia, ma può portare anche al perdono. Scrive, infatti: “[…] il


perdono ci dà la libertà: perdonare non significa farla passare liscia ai
colpevoli, a coloro che si sono macchiati di qualcosa. Perdonare
significa liberare la vittima. Se si riesce a perdonare, non ci si deve più
preoccupare di chi ha commesso qualcosa di male nei nostri confronti,
di come gliela faremo pagare. Si sarà liberi, liberi da questo pesante
fardello”.139
Un perdono, quindi, visto come liberazione della vittima e
liberazione anche del colpevole. Quest’ultimo liberato dal peso di aver
commesso un’azione dannosa e la vittima affrancata dal peso di dover
cercare la vendetta. È, evidentemente, un approccio buddista, che
appartiene quindi ad un tipo particolare di cultura e di fatto le reazioni
sociali effettive sono strettamente dipendenti dall’impianto culturale
all’interno del quale il fatto avviene. L’omicidio di un cristiano da parte
di un musulmano, come dicono molti, è un atto che fa meritare il
paradiso. In un certo periodo storico-culturale, i cristiani facevano
meritare il paradiso a coloro che bruciavano gli eretici.
Il sistema penale, come tutti i sistemi sociali – scuola, sanità ecc. –
è un sistema artificiale per cui l’uso dell’analogia del sistema sociale
come organismo naturale sembrerebbe fuorviante. Per questa ragione è
da ritenersi preferibile la visione di un sistema sociale come sistema
artificiale, nel senso più proprio di sistema socialmente costruito
nell’ambito spazio-temporale di un ben determinato impianto culturale.
Il particolare sistema sociale, il penale, è un sistema che si dichiara
antidoto alla criminalità ma che in assenza di criminali non avrebbe
ragione di esistere – salvo inventarne di nuovi -; fa di tutto per proporsi
139
“La Repubblica”, mercoledì 26 settembre 2007

140
Capitolo Quarto

come metodo rieducativo, ma, al contempo, osteggia pressoché


sistematicamente le proposte concrete di attività volte alla riabilitazione
dei detenuti. Quando i nemici non ci sono, il sistema li crea perché di
essi ha bisogno per sopravvivere. È un processo per certi versi
autopoietico140 ma che, al contempo, possiede strette analogie con il
processo identitario che agisce in presenza di una negazione di se stesso.
È la diversità dagli altri con cui ci si confronta che rafforza l’identità. Se
non si ha un diverso su cui costruire la propria identità bisogna
inventarselo.
Queste sono soltanto alcune delle tensioni che prendono vita nel
mondo dell’esecuzione penale.
Alcune tensioni nascono e vivono principalmente all’interno del
carcere, per esempio la sicurezza come opposto della rieducazione
quando queste si riferiscono al trattamento penitenziario nelle
realizzazioni pratiche. Altre si ritrovano nel mondo esterno, nel contesto
quotidiano, e sono più legate a sistemi di credenze ma pur sempre ricche
e complesse: fanno parte di queste, a nostro giudizio, tutte le politiche
che, più o meno esplicitamente, tendono a segregare le fasce più deboli
della popolazione – delle popolazioni, potremmo dire, visti i flussi
migratori degli ultimi anni – ai margini della società “civile” e ordinata,
140
“La caratteristica più peculiare di un sistema autopoietico è che si mantiene con i suoi stessi mezzi
e si costituisce come distinto dall’ambiente circostante mediante la sua stessa dinamica, in modo tale
che le due cose sono inscindibili”. (Humberto Maturana, Francisco Varela, Autopoiesi e cognizione,
Marsilio, Venezia, 1985, p.62.) I due biologi cileni elaborano la teoria dell’autopoiesi in una ricerca
dal forte sapore filosofico. Maturana e Varela, osservano che i sistemi viventi sono caratterizzati da
relazioni organizzative di tipo autoreferenziale. Caratteristica tipica dei sistemi autopoietici è la loro
chiusura organizzativa – la rete delle relazioni interne all’organismo si riferisce solo a se stessa, non
all’ambiente – che, tuttavia, non contraddice il concetto di sistema vivente come sistema aperto già
elaborata dalla teoria generale dei sistemi di Bertalanffy. La non contraddizione risiederebbe nel fatto
che tale apertura riguarderebbe soltanto la parte strutturale dei sistemi e non la loro organizzazione
che rimane, invece, autonoma, o meglio, autoreferenziale. Con l’esterno, i sistemi, come gli organismi
viventi, scambiano materia, energia, idee, espressioni ecc.. Mentre la loro organizzazione interna
rimane circolare dunque chiusa.

141
Capitolo Quarto

con l’esito di spingere molti di costoro a compiere azioni fuori dai limiti
della legalità salvo, poi, attivare nei loro confronti una solidarietà per lo
più riparatoria o meramente riduttoria del danno.
La maggior probabilità di incontrare contraddizioni, antitesi e,
appunto, tensioni bipolari si trova secondo la nostra esperienza nella
fascia sociale che tocca sia il fuori, la società “per bene”, che il “dentro”,
il carcere. Questo si può osservare da vari punti di vista: sociologico,
andando a pescare nei flussi in entrata ed in uscita dal sistema penale e
nelle fasce che maggiormente rientrano nel rischio carcerario;
pedagogico-formativo, studiando le ragioni per cui uno finisce in carcere
e, soprattutto i sistemi per evitare che ciò avvenga e, qualora sia già
avvenuto, una volta uscito non vi rientri più; giuridico-legale,
osservando gli impianti giuridici che hanno a che fare con le pene e la
loro esecuzione ecc.
Ognuno di questi punti di osservazione copre soltanto parzialmente
ciò che realmente avviene – o non avviene – nella dimensione punitiva
del vivere comunitario.
Ciò che cercheremo di fare in questo capitolo sarà portare il più in
alto possibile il punto di osservazione in modo da coprire quanto più
potrò il raggio di interesse. Questo punto di vista “alto” coincide, per uno
strano paradosso, con quello che intuitivamente parrebbe invece essere il
più basso: il contesto di vita quotidiano.
Come vedremo, ognuno, nel suo contesto quotidiano, ha contatti
più o meno diretti e prolungati col mondo carcere. Giornali e telegiornali
hanno rubriche fisse dedicate alla cronaca giudiziaria, anche se, come
negli ultimi tempi si è potuto verificare sempre maggiormente, spesso

142
Capitolo Quarto

essa deborda dai propri confini per invadere le pagine politiche, sportive
e di costume. Tuttavia il punto di vista comunemente prevalente, pur
essendo permeato dell’idea di carcere, pare esserlo in maniera
sostanzialmente passiva e superficiale. Il consumatore di notizie subisce
letteralmente ciò che media e politica, per loro tramite, intendono
comunicare nell’ottica di quella strategia della conservazione del potere
di cui abbiamo parlato nei capitoli precedenti.
È l’opinione dell’uomo qualunque, spesso utilizzata per fini
utilitaristici. È bene puntualizzare, per inciso, l’inesistenza di fatto di
questa entità talvolta definita anche col termine di uomo medio ma
indefinibile, puramente astratta, qualora si esca dalla metafora per usarla
come sostanza. In termini statistici più precisi il concetto che
maggiormente si avvicina all’uomo medio è il valore modale, il valore
prevalente in una distribuzione di frequenze. Mentre l’uomo medio
abbiamo detto che è una costruzione astratta, il valore modale esiste
sicuramente nella realtà, nel senso che noi possiamo compiere delle
osservazioni sulla vita sociale che ci permettano di individuare una
variabile prevalente e, quindi, un valore prevalente. Possiamo
successivamente e per convenzione attribuire a questa variabile il nome
di uomo medio. Siamo in presenza di un procedimento logico che
presenta, però, i suoi rischi perché un valore modale che compaia in un
campione non dice di per sé niente di certo sulla rappresentatività reale
del mondo che ci interessa. In una rappresentazione grafica della
distribuzione media all’interno di un campione, la ben nota curva a
campana, possono essere molto più rilevanti dal punto di vista scientifico

143
Capitolo Quarto

le code, i valori meno frequenti, piuttosto che il suo massimo, la


media141. Questa potrebbe confermare elementi già conosciuti; ma capire
in profondità i fenomeni sociali significa andare a frugare negli elementi
fuori media, in qualche modo anomali ma che talvolta posseggono al
proprio interno forze tali da portare in un certo periodo di tempo a
modifiche dell’intero sistema. Allora, per usare ancora termini statistici,
più che la media, ecco che assume importanza fondamentale, nello
studio dei fenomeni sociali, la deviazione standard.
È la ricerca di ciò che avviene al di là delle statistiche e dei grafici,
sul terreno calpestato dalle persone che vivono il carcere che volgeremo
l’attenzione durante questo capitolo.
Per capire meglio cosa accade in una realtà sociale – come il
carcere, ma non solo - occorre abbassare ulteriormente il livello fino a
giungere al punto di toccare con mano, di condividere la propria vita,
con coloro che di fatto sono all’interno delle correnti cicliche che fanno
aprire e chiudere le porte delle carceri. Intendo precisare che non parlo
soltanto di persone che commettono reati per cui subiscono la
carcerazione ma di tutti coloro che vivono parte della propria esistenza
nel carcere e per il carcere, compresi, quindi, coloro che nel carcere
lavorano e operano a vario titolo.

141
La scientificità degli studi statistici basati sulla distribuzione a campana quando i dati in essa
introdotti riguardino aspetti umani, sia psicologici che antropologici o sociologici, sono stati sovente
confutati proprio per la difficoltà di attribuire agli stessi dati quella certezza che si trova in altre
scienze meno complesse dal punto di vista delle dimensioni e nel numero delle variabili in atto. Per
fornire un piccolo ma a nostro giudizio significativo esempio, si ricorda un libro del 1994, dal titolo
proprio “The Bell Curve”, La Curva a Campana, in cui un sociologo, Charles Murray, ed uno
psicologo, Richard Herrnstein, affermano che la curva di distribuzione del QI dei Neri è spostata
nettamente più a sinistra di quella dei Bianchi: i Neri sono meno intelligenti dei Bianchi per quindici
punti. Le conclusioni dei due autori sono che tale differenza sarebbe fissata addirittura per eredità.
(Richard J. Murray - Charles Herrnstein, The Bell Curve: Intelligence and Class Structure in
American Life, Free Press , 1994)

144
Capitolo Quarto

Scopo preminente di questo capitolo sarà, quindi, riprendere i temi


trattati nelle pagine precedenti ed analizzarne contraddizioni, tensioni e
dicotomie tramite il filtro della nostra osservazione, in gran parte
partecipante, maturata in più di dieci anni di condivisione diretta con
persone a vario titolo appartenenti alla categoria degli esclusi, dei
marginali e degli “ultimi”.

4.1 Il contesto dell’osservazione


Ritengo necessario, prima di approfondire nella sostanza le varie
questioni di nostro interesse, spendere due parole sul tipo di
osservazione da me condotto e sul contesto nella quale essa è avvenuta
nel corso di questi anni.
Prima di tutto il contesto – o, per meglio dire, i contesti.
Da circa dieci anni vivo l’esperienza della Associazione Comunità
Papa Giovanni XXIII di Don Oreste Benzi: nello specifico sono
responsabile di una Casa Famiglia a Livorno. La struttura, come è nello
stile della Comunità, è volta all’accoglienza di persone con una
vastissima tipologia di disagio. Si va dal minore allontanato a vario titolo
dalla famiglia d’origine, alla persona proveniente da situazioni di
schiavitù e prostituzione; dalla donna maltrattata dall’uomo che vive con
lei alle persone – soprattutto bambini – che, in condizioni di grave
disabilità, rischiano di avere come unica possibilità quella di una
collocazione in un istituto. Un’importante specifica di questa mia
esperienza è la condivisione diretta con persone provenienti dal circuito
penale, siano esse in misura alternativa alla detenzione e, quindi, in
qualche modo ancora legate al “mondo carcere”, o siano persone che

145
Capitolo Quarto

abbiano già scontato il loro debito con la giustizia ma non siano ancora
in grado di inserirsi in modo sufficientemente autonomo nella società.
Le diverse situazioni che abbiamo incontrato ci hanno consentito, di
volta in volta, di variare il punto di vista dal quale osservare i vari
fenomeni, molti dei quali nascosti alla vista esterna.
Ancora, avendo svolto, nell’arco di tre anni, la funzione di
responsabile del servizio minori e affidamento all’interno di una
Comunità, il focus principale dell’osservazione era logicamente quello
dell’interesse del minore allontanato, o a rischio di allontanamento, dalla
famiglia di origine e la ricerca della famiglia affidataria che lo
accogliesse. Dal punto di vista più formale gli attori concorrenti erano i
tribunali per i minorenni, le famiglie d’origine, quelle affidatarie, i
servizi sociali ecc. Quasi mai, tranne in un caso, questo ruolo per così
dire “tecnico”, mi ha portato direttamente a contatto con il circuito
dell’esecuzione penale. Tuttavia, spesso i fenomeni coi quali avevo a che
fare sembravano far parte di una catena, una sorta di ciclo produttivo
che, partendo dal disagio sociale passa per l’abbandono e il disinteresse
istituzionale prima, per il carcere dopo e successivamente di nuovo nel
disagio sociale, reso a questo punto ancor più pesante e coriaceo di
prima, con la differenza che ciò che si sarebbe potuto fare in giovane età
per evitare il disagio, difficilmente appariva attuabile in età più adulta e,
soprattutto, dopo l’intervento pesante del carcere. Una centrifuga messa
in moto dalla marginalità delle persone ma conservata in tale moto dalle
istituzioni, o meglio dall’interazione delle persone con le istituzioni. Uso
l’immagine della centrifuga soltanto come metafora rafforzativa di tutto
il discorso. Infatti, se volessimo utilizzare questo modello in modo più

146
Capitolo Quarto

scientifico andremmo incontro ad almeno due classi di problemi. La


prima rimanda alla questione centro-periferia: il sistema sociale
ruoterebbe intorno ad un centro. Dal punto di vista dell’analisi, la
contestabilità del modello deriverebbe dal fatto che il sistema sociale non
è rigido e non ha un centro ma, bensì, è un complesso di sistemi ognuno
dei quali ruota intorno al suo centro definito dalla sua funzione nel
rapporto con altri sistemi: l’immagine più appropriata parrebbe piuttosto
quella di una galassia di centrifughe. L’immagine della centrifuga
rimanda ai processi di marginalizzazione di diversi sistemi che tendono
ad escludere, cosicché alla fine, un insieme di marginalità tende ad
essere ricondotto ad un sistema di controllo-neutralizzazione-
incapacitazione.
Quindi è assodato che si tratti di una realtà molto complessa per cui
l’immagine di un sistema sociale come unico corpo è evidentemente un
po’ stretta e confinabile nell’ambito dell’uso convenzionale del termine e
della metafora. Il sistema penale, che è quello che maggiormente
interessa il nostro lavoro, raccoglie ciò che gli altri sistemi, la scuola, il
lavoro, la vita sociale, respingono in un processo che alimenta la
marginalità e, come estrema ratio, il carcere stesso. La metafora della
centrifuga è in risonanza con quella, spesso evocata, del carcere come
discarica sociale.
Il secondo problema riguarda l’energia che muove il sistema. Il
sistema penale appare spinto dall’energia che proviene dalla risposta
della società rispetto ai comportamenti devianti allo stesso modo in cui,
per esempio, il sistema economico è mosso dalla ricerca del guadagno e
del successo. Più precisamente l’energia sembra derivare dalle risorse

147
Capitolo Quarto

che i diversi poteri mettono in movimento per mantenersi, aumentare il


loro controllo, rispondere ai condizionamenti dell’ambiente. Per esempio
la reazione di paura che sembrerebbe pervadere in maniera perniciosa
tutta la nostra società attuale, almeno secondo gli organi di informazione,
perde assolutamente di consistenza alla luce delle verifiche statistiche
che pongono in confronto l’andamento della sensazione di insicurezza e
paura nella popolazione con quello dei reati che tale paura dovrebbero
cagionare. A fronte di una sostanziale diminuzione della consistenza dei
reati dovremmo aspettarci un corrispondente calo della sensazione di
paura, invece accade qualcosa di diverso 142. Una delle ragioni di questo
fenomeno sembrerebbe nuovamente confermare l’esistenza di poteri che
mettono in moto le proprie risorse per aumentare il controllo sulla
società.
Appare così un complesso sistema a sua volta composto da un
insieme di sottosistemi, ciascuno dotato di proprie caratteristiche, simili
a scatole nere143 dotate di un proprio senso, ed in questo ambiente
complesso, da questo caos, può emergere un ordine “determinato dalla
complessità dei sistemi che lo rendono possibile, ma indipendente dal

142
“Chi legga i giornali, guardi la televisione o comunque sia esposto al discorso pubblico
relativamente al senso di insicurezza, potrebbe ricavare l’impressione che la paura personale della
criminalità sia fortemente cresciuta negli ultimi anni nel nostro Paese. È assai probabile, in effetti,
che la quota di cittadini che teme di subire un reato sia cresciuta nel corso degli anni settanta,
contemporaneamente alla crescita dei reati. Ma senz’altro in Italia da almeno quattordici anni, tale
paura appare stabile, se non addirittura in lieve declino. Dal 1993 l’Istat ha infatti chiesto a un
campione rappresentativo di famiglie italiane se considerasse a rischio di criminalità la zona in cui
vivevano. Nel 2005 meno del 30% dichiara di considerarla molto o abbastanza a rischio, e la quota
corrispondente nel 1993 era di poco superiore al 30%” (Ministero dell’Interno, Rapporto sulla
criminalità in Italia – anno 2006, p. 39)
143
Secondo Luhmann ciascun sottosistema è una scatola nera nei confronti dell’altro, sistema chiuso e
aperto contemporaneamente: chiuso in quanto autoreferenziale, aperto tramite la necessaria
osservazione dell’ambiente esterno ad esso da cui assimilare informazioni. (N.Luhmann, Sistemi
Sociali, Bologna, Il Mulino, 1984, pag. 212 e sgg.). Sull’autopoiesi cfr. anche Maturana e Varela,
Autopoiesi e cognizione, cit.

148
Capitolo Quarto

fatto che questa complessità possa o meno venire calcolata e


controllata. Questo ordine emergente sarà chiamato sistema sociale”.144
La circolarità delle informazioni tra i vari sistemi è evidente: ciò
che è output per un sistema è input per un altro. Per esempio, i
comportamenti che violano la norme sono output per i sistemi
economico, politico e relazionale ma sono input per il sistema penale. Il
sistema politico è, da questo punto di vista, particolarmente privilegiato
poiché fa dello strumento legislativo la base della comunicazione
intersistemica, cioè con l’ambiente ad esso circostante. Del resto è
intuitivo come ciascun sistema – o sottosistema – persegua il proprio
orientamento di senso mediante l’uso di logiche e linguaggi precisi ad
esso propri. Più degli altri, il sistema penale comunica attraverso il
diritto e il denaro. L’importanza della sua funzione giustifica
l’emanazione continua di leggi e la crescente destinazione di risorse 145
Scegliamo, nonostante i distinguo appena formulati, di mantenere
comunque l’idea di istituzione penale come centrifuga soprattutto per il
forte richiamo che essa comporta sulla realtà di carcere inteso come vera
e propria discarica sociale.
Il carcere, alla luce sia di quanto detto nei capitoli precedenti, sia da
quanto osservato direttamente sul campo, parrebbe consistere più che
nello spauracchio deterrente, come vorrebbero le teorie general-
preventive, in un bacino di neutralizzazione ed incapacitazione nel quale
far confluire chi non è riuscito ad innalzare il proprio livello sociale
almeno di quel tanto che basta per condurre una vita dignitosa e
normale.
144
Luhmann, Sistemi sociali, cit., p.213
145
Nelle opere di Luhmann traspare chiaramente, per esempio, che il linguaggio specifico usato dal
sistema politico per comunicare con gli altri sistemi è quello del diritto e del denaro.

149
Capitolo Quarto

Molti dei giovani coi quali ho avuto a che fare svolgendo la mia
attività di responsabile minori per la Comunità appartengono a strati
sociali dove la marginalità è talmente radicata da essere integrata
nell’identità individuale. L’appartenenza ad un gruppo di marginali può
frequentemente portare il singolo soggetto ad individuarsi come tale tout
court.
Alcuni esempi chiarificatori.
Nella città di Livorno, nella fattispecie la zona nord, quella
industriale, esistono alcuni quartieri, Corea, Shangay 146, Garibaldi, Le
Sorgenti, ad alta densità di situazioni di disagio, talvolta molto profondo,
economico-sociale-culturale. Come è normale che accada, in vari punti
dei quartieri si riuniscono gruppetti di giovani, perlopiù adolescenti. Alla
nostra domanda sul perché passassero il loro tempo pressoché
esclusivamente in una zona depressa e deprimente come quella, piuttosto
che raggiungere il centro cittadino, distante non più di un chilometro, più
stimolante e colorito, oppure il mare, anch’esso molto vicino, la risposta
unanime è stata molto significativa: “preferiamo stare qui, appartati,
perché ci vergogniamo, non ci sentiamo adeguati ai ragazzi del centro
che ci prenderebbero in giro”. La risposta vera, intrinseca, era quindi:
“noi siamo diversi, inferiori, quindi stiamo qui, ai margini, dove almeno
ci sentiamo all’altezza l’uno dell’altro”.
Si costruisce, così, il senso di appartenenza ad un gruppo sociale, ad
uno strato della società, che possiede già una moltitudine di spigoli
stigmatizzanti ma, cosa su cui credo si debba porre particolare

146
Nella lingua originale, il nome della città cinese si scrive in modo più articolato. Abbiamo riportato
la scrittura esattamente come nella toponomastica livornese.

150
Capitolo Quarto

attenzione, questo è un processo prettamente autopoietico147. È


l’emarginato che costruisce la figura di altro-da-sé socialmente superiore
a partire dalla propria autostigmatizzazione di marginale. Crediamo che
questo processo debba essere tenuto ben in vista quando si parla di
esclusione ed inclusione sociale. Così come è vero che il gruppo in
possesso di un plus sociale tenderà ad escludere l’altro meno dotato di
risorse, sembrerebbe essere altrettanto vero che il gruppo minus, compia
la stessa operazione nei confronti dell’altro. Non sarà una reciprocità
speculare, soprattutto a causa dello sbilancio di potere e risorse a favore
dello strato sociale superiore, ma sempre di reciproca esclusione
crediamo si possa parlare.
Non è un caso che spesso i quartieri cui abbiamo appena accennato
siano definiti ghetti. Non saranno ghetti dove le persone sono murate
all’interno, come una certa filmografia degli orrori della shoah ci ricorda
con una certa – seppur necessaria per la memoria – pedissequità, ma
sovente l’unica differenza è soltanto l’assenza del muro. Quel muro,
però, esiste e si chiama carcere.
Quei ragazzi che adesso si sentono esclusi da quelli del centro
cittadino è probabile che si sentano di appartenere al gruppo degli sfigati,
e tendano a riprodurne i comportamenti: elevato tasso di drop-out

147
Secondo Orefice una peculiare caratteristica di un essere vivente è l’essere una unità autopoietica:
“Il vivente, ogni vivente, presenta un’organizzazione autopoietica: è esso stesso che definisce e
governa l’insieme dei rapporti tra le sue parti costitutive. Presenta inoltre una struttura autopoietica:
esso stesso mantiene le sue parti e i rapporti tra esse in un sistema autoregolamentato. Pertanto,
quando s’imbatte nei condizionamenti ambientali, è difendendo il suo processo endogeno di
distinzione che trova le risposte adattive di riorganizzazione e ristrutturazione. Nel farlo si comporta
come una unità autonoma: è cioè in grado di trovare le soluzioni adeguate ai problemi della sua
conservazione, relativamente al suo ciclo di vita e alla sua riproduzione. Il suo farsi ci dice nello
stesso tempo chi è e cosa fa, chi sta producendo quella vita e quale vita viene prodotta. Il vivente è
dunque tale in quanto produce e riproduce se stesso, modificandosi: questo vuol dire autopoiesi.”
Paolo Orefice, I domini conoscitivi. Origine, natura e sviluppo dei saperi nell’Homo sapiens sapiens,
Roma, Carocci, 2001, p.23.

151
Capitolo Quarto

scolastico, relazioni verbali caratterizzate da povertà sia lessicale che di


contenuti, scarsità di risorse sociali utili a migliorare la propria
condizione economico-sociale, scarsità di ottimizzazione nell’utilizzo
delle pur presenti risorse tecnologiche difficilmente, comunque usate,
come accesso ad una quantità virtualmente infinita di informazione:
quasi tutti hanno internet ma essa viene relegata a strumento di
conversazione elettronica o di download più o meno pirata di musica e
film preferendole piuttosto PSP, Game Boy, X-Box, la stessa televisione
– seppur limitatamente a fiction e cartoni animati –, tecnologie, cioè, a
basso tenore informativo ma ad alto contenuto anestetico. Alcune di
queste caratteristiche, si può obbiettare, accomunano entrambi i fronti
della discussione anche se è scarsamente dubitabile che, in presenza di
risorse economiche maggiori, di un substrato culturale virtualmente più
ricco, modelli di riferimento più frequentemente positivi, coloro che
fanno parte della città abbiano qualche possibilità in più.
Vorremmo sottolineare che abbiamo usato, per delineare la
contrapposizione tra i vari strati sociali, i termini di gruppo plus e gruppo
minus, evitandone, almeno per ora, altri maggiormente usati, e forse
scientificamente corretti, per porre maggiore risalto alla caratteristica di
relatività e, come vedremo in seguito, di elasticità e modularità di
entrambe le connotazioni. 148
148
Identità sociale positiva ed identità sociale negativa sono comunque due aspetti del bisogno di
differenziazione della specificità psicologica tra gruppi espressa in modo approfondito da Tajfel con la
sequenza: categorizzazione sociale – identità sociale – confronto sociale. Scrive l’autore: “Le
caratteristiche di un gruppo inteso nel suo complesso (come il suo status, la sua ricchezza o povertà,
il colore della pelle o la capacità di raggiungere i propri scopi) acquistano gran parte del loro
significato in rapporto alla percezione di differenze rispetto ad altri gruppi e alla connotazione di
valore ad essa assegnata. […]Di conseguenza, l’identità sociale di un individuo, concepita come la
sua consapevolezza di appartenere a certi gruppi sociali, oltre al rilievo emozionale e di valore
collegato alla sua condizione di membro, può essere definita solo attraverso gli effetti della
categorizzazione sociale che divide l’ambiente sociale di un individuo nel gruppo cui egli appartiene
e in altri gruppi”. (Henri Tajfel, Gruppi umani e categorie sociali, Bologna, Il Mulino, 1995, p.319.

152
Capitolo Quarto

In sostanza, un gruppo minus ha sempre un gruppo che è a sua volta


minus nei suoi confronti e di cui, per converso, è gruppo plus. E così
pure nel senso inverso.
Nel caso dei ragazzi che si attribuiscono lo status di gruppo minus
rispetto ai plus del centro cittadino essi hanno comportamenti e
caratteristiche da gruppo plus verso coloro che, almeno nella loro
percezione, appartengono ai minus.149
Anche se a prima vista potrebbe apparire un approccio
eccessivamente deterministico crediamo sarebbe possibile stilare una
classificazione di gruppi sociali ordinata secondo il criterio di
riferimento reciproco.
Nel corso di questi anni di attività come responsabile di Casa
Famiglia ho potuto verificare personalmente una sequenzialità
nell’autocollocarsi di ciascun individuo a seconda del gruppo cui egli
ritiene di appartenere. Questo si è reso possibile partendo dalle persone
accolte fisicamente in casa e, quindi, se vogliamo più direttamente
osservabili ma anche maggiormente influenzate dalla presenza
dell’osservatore e, cosa non da poco, dallo squilibrio di potere generato
dai diversi ruoli che, seppur con i dovuti sforzi volti a mitigarne gli
effetti, tendono a porre l’accolto in posizione gerarchicamente inferiore.

Orig.: Human Groups and Social Categories. Studies in Social Psychology, Cambridge, Cambridge
University Press, 1981)
149
Per un’accurata esposizione della teoria del gruppo di riferimento, per cui ogni gruppo sociale si
orienta nel proprio contesto basandosi su gruppi diversi dal proprio, non può mancare la citazione del
testo di Merton in cui egli scrive: “[…] Gli uomini si orientano di frequente su gruppi diversi dal loro
per decidere come agire e valutare, e sono i problemi che ruotano intorno all’orientamento basato su
gruppi di cui non si è membri che costituiscono la preoccupazione distintiva della teoria del gruppo
di riferimento”. Robert K.Merton, Teoria e struttura sociale, cit, p.234.

153
Capitolo Quarto

Tuttavia, lo stile familiare e spontaneo che queste persone trovano,


dà loro la possibilità di far emergere aspetti che altrimenti rischierebbero
di restare chiusi dietro maschere protettive.
La posizione privilegiata dalla quale ho potuto osservare le varie
situazioni che si sono presentate durante quest’esperienza mi ha
consentito di comunicare con mondi e culture di volta in volta differenti
e, soprattutto, incomunicanti tra loro.
Ho fatto poco fa l’esempio del gruppo di adolescenti che si
percepisce e si autodetermina ghettizzato, in opposizione al gruppo di
riferimento dei ragazzi della città, con i quali assume un reciproco
atteggiamento di impermeabilità, ma la stessa impermeabilità reciproca
la possiamo ritrovare tra differenti gruppi etnici – gli albanesi non
possono soffrire i nordafricani; i nordafricani non sopportano i rumeni; i
cinesi non sopportano nessuno; gli zingari sono universalmente sgraditi
– oppure tra gruppi le cui differenze si basano su altri criteri.
Un piccolo ma, a mio giudizio, significativo esempio che
confermerebbe l’esistenza di una certa classificabilità – fittizia, si
intende, in quanto facilmente smontabile mediante argomentazioni
semplici e lineari – degli esseri umani in base al gruppo loro attribuito, è
dato da un’esperienza personale vissuta.
Fin dai primi momenti della nostra presenza come struttura a
Livorno si è mossa una sempre crescente rete di solidarietà e appoggio.
In particolare, proprio di fronte alla casa, vi era un panificio che aveva
preso l’abitudine di donarci il pane invenduto, a fine giornata. Questa
usanza, per così dire, è durata regolarmente per molti mesi fino a
quando, una sera, recandoci come al solito a prendere il pane ci siamo

154
Capitolo Quarto

trovati di fronte ad un rifiuto, seppur mortificato ed estremamente


dispiaciuto. Alla nostra richiesta di spiegazioni – non capivamo proprio
quale potesse essere il motivo di questo cambiamento di atteggiamento –
la signora che si occupava di consegnarci il pane disse una frase che mi è
rimasta impressa in memoria soprattutto per la ricchezza di contenuti
latenti ma estremamente illuminante: “Non posso più darvi il pane
perché i vicini me lo hanno imposto. Sai, finché accogliete i bambini,
quelli fanno tenerezza e va bene così; anche quando prendete in casa
quelle donne [le ragazze vittime della prostituzione coatta], io non le
metterei mai con i bimbi, non si sa mai che malattie possano portare, ma
voi sapete quello che fate; i carcerati… ma vedo che quelli che avete
preso tutto sommato sono bravi ragazzi; ma gli zingari… quelli proprio
no. Finché fate entrare in casa gli zingari mi hanno detto di non darvi
più il pane.” Ovviamente la cosa finì lì: la signora continua tuttora a
darci il pane, anzi ne siamo divenuti i fornitori per le famiglie povere
della zona, e gli zingari continuano a frequentare pressoché
quotidianamente la nostra casa. A nostro giudizio questo è un chiaro
esempio di messa in sequenza di gruppi di riferimento facendo uso di
criteri derivanti da pregiudizi soggettivi piuttosto che economici e quindi
più misurabili.
Credo che sia così per la maggior parte dei fenomeni in cui agisca il
processo inclusione-esclusione dove il carcere rappresenta lo strato più
esterno della centrifuga sociale.
Quest’ultima affermazione, dura quanto si voglia, nasce
dall’osservazione più diretta del mondo penitenziario, effettuata
nell’arco di quasi un anno di tirocinio svolto all’interno della Casa

155
Capitolo Quarto

Circondariale Don Bosco di Pisa in quella che si può, credo, definire più
propriamente osservazione partecipante, differenziandola così dalla
condivisione diretta all’interno della casa famiglia o quella meno stretta
della frequentazione degli strati sociali più deboli entrambe osservazioni
più di tipo naturalistico.

4.2 La metodologia dell’osservazione


In termini di ricerca sociale l’osservazione è impostata come un
processo conoscitivo che si basa sull’aver predeterminato che cosa,
come, quando e perché osservare. Nell’accezione più stretta
l’osservazione è un lavoro sistematico che si realizza sulla base di un
progetto legato eventualmente ad un’ipotesi e ad un piano di variabili da
osservare. Nella realtà questo tipo di osservazione parrebbe puramente
ideale perché il ricercatore dovrebbe essere una persona che per un certo
periodo di tempo decida di uscire dal mondo, cosa ovviamente
impossibile. Si tratta quindi di un modello.
Se scegliamo questo modello per studiare un sistema come quello
carcerario dobbiamo tener presenti alcune considerazioni.
Nell’osservazione sistematica ci troveremo, presto o tardi, a dover
contrastare le variabili di disturbo con la necessità di controllarle per
mantenere il più possibile la fedeltà al piano di lavoro iniziale. Non
potremmo mai dire se l’ipotesi è confermata o meno se l’osservazione è
inquinata da elementi spuri. Tuttavia, che questo sia un modello astratto,
che in pratica non esiste, ci parrebbe confermato dal fatto che esso si
basa su un modello cognitivo di tipo positivo, quindi sulla fiducia che
noi siamo in grado di oggettivare la realtà e che la nostra osservazione

156
Capitolo Quarto

corrisponda a ciò che è effettivamente la realtà. Sul piano della ricerca


sociale quando il ricercatore si avvicina ad un argomento quest’ultimo si
modifica inesorabilmente per effetto del già citato principio di
indeterminazione di Heisenberg. Questo apre la strada all’osservazione
partecipante, perché l’osservazione partecipante è uno studio che non
prevede un piano preciso e dettagliato, sistematico, ma si basa
sull’ingresso del ricercatore nel campo di ricerca come accolto in esso,
quindi ne diventa un partecipante. Attraverso la disposizione del
ricercatore che accetta il condizionamento che il campo di ricerca gli
pone possono venire alla luce modalità di lettura dei fenomeni altamente
interessanti perché si basano su una sensibilità che si sviluppa su un
processo di comunicazione progressiva tra le persone e non soltanto sulla
fredda raccolta di dati su di esse.
Nell’osservazione partecipante decidiamo di osservare dall’interno
della situazione ma non sappiamo dire, all’inizio, che cosa osserveremo
come invece abbiamo stabilito nell’osservazione sistematica.
Uno dei luoghi dove emerge in modo particolare la debolezza
dell’osservazione sistematica è proprio il carcere. Agli educatori viene
chiesto dalla legge di svolgere un’osservazione scientifica (quindi
sistematica) della personalità dei detenuti. Questo, nella realtà, si traduce
in qualche sporadico colloquio finalizzato nella maggior parte dei casi al
disbrigo di pratiche amministrative, nella relazione di sintesi spesso
redatta in modo formalistico, e nell’acquisizione delle informazioni
dall’area della sicurezza e quindi da un’area in possesso di una logica
diversa, talvolta opposta, a quella dell’educatore (cosa che di per sé

157
Capitolo Quarto

basterebbe a far dubitare della scientificità dell’osservazione) e dall’area


sociale (informazioni socio-familiari).
Questi sono i motivi per cui ho preferito, soprattutto per la parte
relativa al tirocinio nel carcere di Pisa, un’osservazione partecipante ad
uno studio più sistematico e predeterminato.
Ho cercato di attenermi ad un piano di osservazione anche rigoroso,
ma quello è un ambiente in cui le variabili di disturbo sono infinite. Non
solo, se mi fossi presentato per il tirocinio proponendo il lavoro come
un’osservazione sistematica avrei trovato quasi certamente la porta
chiusa. Invece, usando un approccio costruttivistico, una buona dose di
umiltà – sincera, del resto: era la prima volta che entravo in carcere
mentre le persone con cui avrei avuto a che fare vivevano al suo interno
da anni –, ma, soprattutto la piena disponibilità al rapporto umano come
condizione necessaria per ottenere migliori frutti dal lavoro, tutto ciò ha
fatto sì che la mia permanenza nel carcere di Pisa si sia rivelata portatrice
di un grandissima esperienza professionale ma soprattutto umana.
L’intreccio del sistema carcerario nella sua fase esecutiva, il
carcere, con il mondo esterno, soprattutto visto dal lato delle cooperative
sociali della comunità cui appartengo ha portato all’emergere di varie
contraddizioni, dicotomie, tensioni percorrendo le quali credo possiamo
avere un quadro generale più completo riguardo l’intero processo che dal
generico disagio sociale porta all’esclusione attraverso il carcere,
comprese quelle proposte che, almeno nelle intenzioni, sembrerebbero
mirare alla limitazione dell’uso del carcere ma, nella sostanza, come
vedremo, non ottengono grandi risultati.

158
Capitolo Quarto

4.3 Lavoro sociale e coercizione legale


Inizieremo con una domanda molto precisa: è possibile il lavoro
sociale in un contesto di coercizione legale?
In un suo saggio150 Massimo Pavarini nega che ciò sia possibile per
almeno quattro motivi:
1. Il carcere offre un setting negativo per la formazione e ciò è
dovuto principalmente al fatto che l’operatore d’aiuto si
trova preso tra due fuochi: deve fare contemporaneamente
sia gli interessi dell’istituzione che egli rappresenta, sia
quelli del detenuto verso cui è chiamato ad intervenire;
2. Il rapporto operatore-detenuto è inquinato – o almeno
rischia fortemente di esserlo – dalle funzioni utilitaristiche
messe in moto dal meccanismo che premia le “buone
condotte” con la graduale riconquista della libertà del
detenuto;
3. Se è vero che uno degli obbiettivi dell’educazione di un
soggetto consiste nella riduzione di suoi eventuali deficit e
condizioni di bisogno, è altrettanto vero che non tutti i
detenuti presenti nelle nostre carceri sono tali in
conseguenza di deficit personali ma a causa di processi di
criminalizzazione. Per esempio i detenuti incarcerati per
violazione delle norme sull’immigrazione oppure
tossicodipendenti.

150
Massimo Pavarini, “Dare aiuto nella nuova penologia. Il ruolo degli operatori sociali nelle
politiche tecnocratiche di controllo sociale”, in Quale pena, cit., pp. 109 e sgg.. Per l’esattezza
Pavarini pone la domanda in questo modo: “Chi professionalmente risponde ad un mandato di aiuto
può operare nello spazio sociale della sofferenza legale, cioè in carcere?”.

159
Capitolo Quarto

4. Infine vi è il paradosso che vede l’educatore carcerario


occuparsi principalmente di ridurre il deficit formativo
causato dalla stessa carcerazione.
A commento di queste considerazioni Alessandro Margara151
asserisce esplicitamente che la contraddizione deriva dal fatto che il
carcere semplicemente non è stato fatto per questo. Secondo l’autore il
dibattito sul sistema penale ha tre protagonisti: l’intelligenza, la retorica
e – riprendendo il sovrano di Foucault – il re. L’intelligenza è quella
della “riflessione scientifica sulla pena e sul carcere”; la retorica traccia
le indicazioni del “dover essere”; il re non è altro che il “sistema penale
organizzato dagli stati”. Margara si schiera apertamente “con questa
retorica, soprattutto perché riesce a difenderci dalla intelligenza” e,
partendo dall’art.27 Cost., comma 3, constata il rifiuto, da parte del
carcere, delle regole in esso contenute: “il dover essere [di queste regole]
è contrastato da quello che il carcere è, dal suo funzionamento,
fisiologico e non patologico, che è quello di chiudere e di escludere
uomini e umanità, come l’analisi dell’intelligenza puntualmente rileva.”
E ancora: “Si devono accettare le dinamiche reali colte non
arbitrariamente dalla intelligenza o credere e impegnarsi nella modifica
di tali dinamiche e della realtà che determinano?” La risposta, secondo
Margara, sta nella scelta del “senso di umanità” inserito nell’articolo
della Costituzione, il senso di umanità come fede nell’uomo:
l’intelligenza potrebbe portarci a credere che esistano situazioni in cui
tutto è impossibile, una critica acuta all’istituzione ci potrebbe portare a
rinunciare, un intervento pesante del potere ci potrebbe impedire di
agire. Un riferimento alle affermazioni di principi come quelli
151
Alessandro Margara, Il destino del carcere, cit.

160
Capitolo Quarto

costituzionali, che vengono classificati come retorica, apre uno spazio


incerto in cui poter comunque sviluppare un senso di umanità fatto
principalmente di reciprocità.
Nel proseguire il dibattito a distanza, Massimo Pavarini, pur
restando lucidissimo nel suo pessimismo, in un suo recente saggio, prova
a fare un passo oltre consigliandoci di abbandonare i vecchi miti del
trattamento e dell’educazione penitenziaria in quanto incompatibili con
la struttura stessa152. Inoltre egli propone un ammonimento nei confronti
di quell’operatore che, ritenendosi più o meno a ragione scaltro a
sufficienza, tenti in qualche modo aggirare il sistema, ricordandogli che
il sistema è sempre più scaltro di lui e, di fatto, lo può neutralizzare in
qualunque momento puramente e semplicemente.
Pavarini ci invita, dunque, a compiere un salto logico chiedendosi –
e chiedendoci – perché tendiamo a curare persone per le quali non esiste
aspettativa di guarigione. Uno dei motivi consiste nell’elaborazione, da
parte della nostra cultura, della considerazione della cura come un
diritto. Ed è proprio con questo principio, con queste motivazioni,

152
Massimo Pavarini, Carcere e territorio revisited…, in La Nuova Città, ottava serie, 2004-2005.
Riportiamo di seguito uno stralcio dell’articolo che riteniamo fondamentale e ricco di spunti di
riflessione. Scrive Pavarini: “[…] io credo che bisogna legittimare ogni intervento di riduzione della
sofferenza penale non perché utile a fini special-preventivi, ma perché comunque altrimenti utile.
Qualche esempio. Forse oggi, dopo un ventennio, cominciamo a sospettare che non esista una terapia
(farmacologica, sociale, comunitaria ecc.) scientificamente sicura per uscire dalla tossicodipendenza.
Forse, chi esce dalla cultura della droga (perché è certo che se ne esce, nel senso che alcuni – pochi
o molti, poco rileva – ne sono usciti), si libera da questa dipendenza, a prescindere o nonostante ogni
possibile volenteroso programma di cura. Forse, altrettanto, siamo costretti a pensare di alcune
psicosi gravi. E che dire poi delle infermità definite «croniche»? Insomma: se dovessimo legittimare
l’azione di soccorso nei confronti dei tossicodipendenti, degli psicotici gravi e degli infermi cronici
solo sulla base delle capacità scientificamente dimostrate, di «guarigione» avremmo… fiato corto.
Eppure, anche se sempre meno, per la verità, continuiamo a curare i drogati, i folli e i cronici. E lo
facciamo perché culturalmente si conviene che tutti costoro, in quanto sofferenti, ne abbiano diritto.
C’è insomma un diritto alla cura che non si regge sulle aspettative di guarigione.” L’autore giunge
poi alla conclusione che “Fare sempre più a meno del manicomio alla fine non si giustifica perché la
psichiatria demanicomizzata abbia più possibilità di guarire la follia di quante ne abbia la psichiatria
manicomiale, ma si legittima perché è più rispettosa dei diritti del sofferente.
E perché questo argomentare non dovrebbe valere anche per la pena?”

161
Capitolo Quarto

dovremmo andare ad operare all’interno del carcere. Dobbiamo


occuparci di queste persone anche senza l’aspettativa che questo nostro
impegno porti ad un mutamento della loro condizione, ma soltanto per il
fatto che sono persone. Nel frattempo, va detto, però, si osserva che in
Europa comincia a vacillare anche il diritto di cura. Quindi il rischio è
che si assuma come modello per giustificare un certo intervento ciò che
altrove si sta modificando. Ma questo non è che un esempio della
difficoltà di costruire certezze attorno ai problemi sociali in un mondo
così complesso.
Quindi, per tornare alla domanda iniziale, è possibile il lavoro
sociale in un ambiente di coercizione legale? La risposta non può che
essere negativa anche in considerazione del fatto che non possiamo
affermare, in una situazione di limitazione di libertà come il carcere, che
stiamo operando per dare ad una persona una prospettiva di libertà. Ciò è
falso in principio. Per costruire una prospettiva di libertà occorre
praticare la libertà, farne esperienza da cui apprendere, ma questa
esperienza è limitata dalla permanenza in carcere. Vi sono istituti,
pensiamo al carcere che ha sede sull’isola di Gorgona, al largo di
Livorno, dove il grado di libertà di cui godono i detenuti è relativamente
molto ampio, specialmente in confronto alle venti ore al giorno durante
le quali i detenuti “normali” devono permanere tra le quattro pareti della
propria cella.
Il carcere toglie, tra le varie libertà palesemente riconosciute, anche
quelle aree di vita umana come gli affetti, la varietà del contesto sociale,
la scelta dei propri spazi e dei propri tempi, l’autodeterminazione. Alcuni
di questi aspetti, come abbiamo visto, vengono facilmente sostituiti da

162
Capitolo Quarto

surrogati taroccati come le relazioni interpersonali raramente basate su


reciprocità e affinità ma quasi esclusivamente funzionali o alla mera
sopravvivenza o a quella mobilità sociale parallela tipica della socialità
carceraria.
Il lavoro sociale, per poter essere davvero considerato tale,
dovrebbe avvenire in una struttura che riproduca, in qualche modo, il
contesto sociale e, quindi, con la possibilità di vivere anche relazioni
soddisfacenti, di non perdere la dimensione degli affetti, cosa possibile
soltanto se non se ne perde la consuetudine. I benefici della legge
Gozzini, per esempio, hanno la finalità di proporre una messa in libertà,
pur graduale, a certe categorie di detenuti. Ma come si può
somministrare questi diversi gradi i libertà se sono vincolati, da un lato,
ai requisiti che definiscono i benefici come veri e propri premi di buona
condotta mentre, dall’altro lato, come si accompagna alla riconquista
della libertà e dell’autonomia un soggetto che non la pratica da tempo,
magari da anni? La libertà non è una cosa che si può raccontare,
insegnare o altro, essa va praticata con tutti i rischi che ciò comporta.
Una soluzione, almeno inizialmente, sarebbe quella di combinare gradi
di libertà sempre maggiore con soluzioni organizzative adeguate, sia
interne che esterne al carcere, il tutto congiuntamente ad una gradualità
della messa in libertà intesa come formazione alla libertà e non soltanto
come premio per l’autocontrollo o la scaltrezza del detenuto. Dando
spazio alla formazione si potrebbe innalzare, se non proprio annullare,
anche il limite di pena entro il quale poter riconoscere il diritto ai
benefici.

163
Capitolo Quarto

Devono essere, comunque, soluzioni che concorrano a ricostruire


un tessuto di vita, di relazioni dove il detenuto entra in un sistema di
rapporti costanti nel lavoro, nello studio, nel tempo libero ecc. che, cosa
importante, siano frutto di una libera scelta.
Nel carcere attuale non è che la possibilità di scegliere sia
totalmente preclusa, ne è un esempio la libera scelta dello studio. Ci
riferiamo in particolar modo allo studio universitario, diverso dal
frequentare un corso scolastico interno al carcere nel quale il gruppo di
insegnanti non è scelto personalmente dall’allievo ma gli viene
assegnato, per così dire, d’ufficio. La scelta di un gruppo di persone, gli
insegnanti universitari, i tutor ecc., diviene importante ed ha un grosso
valore formativo in sé. Il lavoro sociale va incontro alle scelte dei singoli
detenuti studenti e si dota finalmente di connotati personali. Il connubio
lavoro sociale-coercizione legale sembrerebbe, a questo punto, possibile
in una cornice culturale che fa delle persone il punto di riferimento.
L’orientamento prevalente, tuttavia, non è affatto quello umanitario.
L’esistenza e la funzionalità dei Poli Universitari Penitenziari, tra l’altro
quello da noi osservato direttamente, è costantemente messa alla prova
da correnti oppositive animate soprattutto da ragioni securitarie – quasi
sempre immotivate e paranoiche - e atteggiamenti autoconservativi
dell’intero sistema penitenziario.
Qui, tra l’altro, risiede il punto di convergenza delle tesi di Pavarini,
sulla cura delle persone per cui non è attesa una guarigione, e quelle di
Margara, con l’idea del senso di umanità come via di superamento del
blocco logico dell’intelligenza e della retorica sul carcere e la pena.

164
Capitolo Quarto

I limiti illustrati da Pavarini riguardano non soltanto il sistema


carcerario ma, anzi, si pongono in tutti i sistemi, come la scuola, il
lavoro, l’ospedaliero ecc., nella misura in cui essi si dotano di
meccanismi di disciplinamento. Non c’è dubbio che siano sistemi diversi
dal carcere, ciononostante posseggono tutti una logica comune: il
disciplinamento ha la stessa cifra dappertutto. Esiste una gradualità di
pressione del disciplinamento, una molteplicità di stumenti con cui tale
disciplinamento funziona ma la logica sottostante è comunque una logica
dell’ordine, della razionalità. L’analisi di Foucault, di cui abbiamo
parlato nel primo capitolo, mostra chiaramente che il processo di
disciplinamento agisce sull’intero sistema e si dota di specifiche
tecnologie.

4.4 Coercizione e formazione. Il “trattamento” nei diversi


contesti
Da qui in avanti, alla luce di quanto detto sulla prospettiva del senso
di umanità, usiamo ancora il termine trattamento ma con un nuovo
significato, più completo. Togliamo dal trattamento i connotati freddi
della cosiddetta scientificità e aggiungiamo tinte meno certe, meno
standardizzate ma più affini alla considerazione dell’oggetto del
trattamento come persona unica e irripetibile, oltre che impossibile da
conoscere completamente, dei cui bisogni ci si faccia carico per un certo
periodo e con determinati scopi e obbiettivi.
Desideriamo proporre un’ulteriore specificazione semantica. Nel
gergo proprio della nostra Associazione, piuttosto che presa in carico,
preferiamo a usare altri termini, poiché questo implica una serie di

165
Capitolo Quarto

problematicità. La presa in carico è un processo complesso e sempre


problematico, talvolta addirittura sbagliato, che tuttavia viene nominato
regolarmente all’interno delle funzioni dei servizi sociali e talvolta nello
stesso carcere. Un assistente sociale del distretto Nord di Livorno,
quello, per intendersi, che riguarda i quartieri più poveri, ha mediamente
un numero di cittadini presi in carico abbondantemente superiore alle
proprie possibilità fisiche per poter effettivamente essere loro utile. In
più, la presa in carico differisce da persona a persona, richiede la
possibilità/capacità di affrontare e risolvere problemi tra loro diversi:
insomma, è una espressione che evoca qualcosa di impossibile data
l’infinita varietà di bisogni a cui si dovrebbe rispondere. Infine, è una
espressione che evoca più un lavoro che somiglia più a quello del
magazziniere: alla presa in carico dovrebbe corrispondere uno “scarico”,
cosa che puntualmente si osserva nella pratica di taluni servizi sociali e
professioni di aiuto. Lo stesso si può dire degli operatori carcerari,
pensiamo al rapporto tra le ore lavorative degli psicologi in carcere e il
numero dei detenuti presi in carico. Il servizio sociale, il carcere e, più
estesamente, il complesso delle istituzioni sociali non possono, nelle
condizioni strutturali in cui si trovano, prendere in carico alcuno. Per
completare l’esempio e riferirci al sistema che maggiormente interessa
questo lavoro, il carcere non può prendersi in carico le persone
semplicemente perché non è fatto per questo, esso svolge la sua funzione
e ad essa si limita. Basta guardare la sanità penitenziaria, oppure il modo
in cui il carcere gestisce il rapporto con le famiglie, per capire che non è
certamente una struttura assistenziale che può prendersi in carico le
persone. Possiamo osservare, è bene aggiungere, una certa evoluzione

166
Capitolo Quarto

dell’approccio da parte dei servizi di aiuto verso una maggiore


umanizzazione degli interventi (altro mito, direbbe Pavarini), pensiamo
soprattutto all’area sanitaria, agli ospedali, dove si tende a considerare
l’ammalato come una persona affetta da malattia e quindi bisognoso di
cure che vanno al di là delle pure e semplici terapie mediche. L’ambito
sociale, data la strutturale impossibilità, di cui all’esempio precedente, di
prendersi in carico gli utenti singolarmente da parte degli operatori, si è
attrezzato costituendo sorte di reti formate da sottosistemi funzionali
ognuno ad un settore diverso del bisogno. Questo fatto apre, però,
un’altra questione: presumerebbe che i bisogni di una persona umana
fossero settorializzabili e quindi scindibili in parti finite cui assegnare un
servizio apposito. Come è facile intuire e come peraltro si osserva nella
realtà quotidiana questo è impossibile. È comunque un modo per
intervenire ed è meglio di niente ma dire che così ci si prenda in carico
un individuo parrebbe effettivamente esagerato.
La modalità suddivisoria degli interventi di aiuto tende ad essere
estesa anche a quello che comunemente viene chiamato il “privato
sociale”. Questo è un argomento che personalmente mi tocca da vicino
visto che nel privato sociale sono comprese anche le strutture di
accoglienza e le case famiglia che sono parte integrante della mia
quotidianità.
Nel nostro paese è in atto, ormai da qualche anno, una sorta di
devoluzione sociale che vede ciascuna regione legiferare a modo suo
riguardo alle problematiche socio-assistenziali. Per esempio, la Toscana,
ha un pacchetto normativo in materia che regola in tutto e per tutto le
modalità strutturali e funzionali delle strutture di accoglienza delle

167
Capitolo Quarto

persone in disagio socio-sanitario secondo uno schema suddiviso per


tipologia di disagio ed età. Non è possibile, secondo la nostra
legislazione regionale, accogliere, e quindi prendersi in carico,
contemporaneamente nella stessa struttura minori ed adulti, disabili e
normodotati, tossicodipendenti e non tossicodipendenti, e così via.
Questo per limitare il discorso alle tipologie di accoglienza. Se
estendiamo l’analisi ai requisiti strutturali che sono richiesti per poter
prendersi in carico le persone si nota che la tendenza parrebbe quella di
rendere tali strutture il più possibile simili a istituti e meno a normali
contesti abitativi. Nella mia esperienza personale di casa famiglia della
Associazione Papa Giovanni ho potuto osservare, invece, come la
mescolanza di più tipi di problematicità svolga la funzione di
amplificatore delle capacità di adattamento e di sviluppo di tutte le
persone coinvolte in una struttura. Più specificamente, per portare alcuni
esempi, una struttura gestita da una famiglia e al cui interno vivano
contemporaneamente disabili, minori e adulti, ex-detenuti ecc. può
offrire a tutte le persone coinvolte una serie di stimoli e di modelli
infinitamente superiore, per esempio, a quello che può fare una struttura
al cui interno si trovino soltanto persone disabili o soltanto
tossicodipendenti o, per sovrammercato, persone che hanno commesso
reati. Le istituzioni non sempre sono state cieche di fronte alla realtà
multidimensionale dell’essere uomo nella società, ne è un esempio la pur
sofferta integrazione scolastica delle persone disabili 153, passo importante
verso una maggiore umanizzazione della pena della diversità. Siamo
quindi ad una nuova definizione della presa in carico. Vista l’infinita
153
Legge 5 febbraio 1992, n. 104. Articolo 1, comma a): La Repubblica garantisce il pieno rispetto
della dignità umana e i diritti di libertà e di autonomia della persona handicappata e ne promuove la
piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società;

168
Capitolo Quarto

complessità che ciascun soggetto porta con sé, il termine che preferiamo
è la condivisione diretta. In fondo, il bambino disabile, i propri compagni
di classe e le insegnanti non possono che operare in un clima di
condivisione diretta reciproca, fatto salvo ovviamente l’uso di strumenti
specifici variabili a seconda della tipologia di disagio. Moltissimi sono,
al riguardo, gli esempi di successi, talvolta clamorosi, ottenuti in ambito
scolastico sia nei confronti dei bambini disabili sia, cosa ancor più
interessante, da parte degli altri alunni coinvolti e delle stesse insegnanti.
Giusto per appunto finale è bene aggiungere che oggi, oltre alla disabilità
fisica o mentale cui il legislatore del 1992 faceva riferimento, si
sommano altri fattori di esclusione cui andrebbe estesa la suddetta legge,
per esempio i cittadini immigrati, soprattutto quelli provenienti da
culture profondamente diverse dalla nostra, e su questo in effetti pare si
stia lavorando.
Un altro ambito in cui si osserva la distonia tra i principi animatori
delle leggi e la diversa realtà quotidiana in cui vengono calate è quello
dell’affidamento dei minori.
Vediamo cosa dice la legge 149 del 28 marzo 2001 in merito:
"Art. 1.
1. Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell'ambito
della propria famiglia.
2. Le condizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente
la potestà genitoriale non possono essere di ostacolo all'esercizio del
diritto del minore alla propria famiglia. A tal fine a favore della
famiglia sono disposti interventi di sostegno e di aiuto.

169
Capitolo Quarto

3. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle proprie


competenze, sostengono, con idonei interventi, nel rispetto della loro
autonomia e nei limiti delle risorse finanziarie disponibili, i nuclei
familiari a rischio, al fine di prevenire l'abbandono e di consentire al
minore di essere educato nell'ambito della propria famiglia. Essi
promuovono altresì iniziative di formazione dell'opinione pubblica
sull'affidamento e l'adozione e di sostegno all'attività delle comunità di
tipo familiare, organizzano corsi di preparazione ed aggiornamento
professionale degli operatori sociali nonché incontri di formazione e
preparazione per le famiglie e le persone che intendono avere in
affidamento o in adozione minori. I medesimi enti possono stipulare
convenzioni con enti o associazioni senza fini di lucro che operano nel
campo della tutela dei minori e delle famiglie per la realizzazione delle
attività di cui al presente comma.
4. Quando la famiglia non e' in grado di provvedere alla crescita e
all'eduzione del minore, si applicano gli istituti di cui alla presente
legge.
5. Il diritto del minore a vivere, crescere ed essere educato
nell'ambito di una famiglia e' assicurato senza distinzione di sesso, di
etnia, di età, di lingua, di religione e nel rispetto della identità' culturale
del minore e comunque non in contrasto con i princìpi fondamentali
dell'ordinamento.
Art. 2. –
1. Il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare
idoneo, nonostante gli interventi di sostegno e aiuto disposti ai sensi
dell'articolo 1, e' affidato ad una famiglia, preferibilmente con figli

170
Capitolo Quarto

minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il


mantenimento, l'educazione, l'istruzione e le relazioni affettive di cui
egli ha bisogno.
2. Ove non sia possibile l'affidamento nei termini di cui al comma
1, e' consentito l'inserimento del minore in una comunità di tipo
familiare o, in mancanza, in un istituto di assistenza pubblico o privato,
che abbia sede preferibilmente nel luogo più vicino a quello in cui
stabilmente risiede il nucleo familiare di provenienza. Per i minori di
età inferiore a sei anni l'inserimento può avvenire solo presso una
comunità di tipo familiare.
3. In caso di necessità e urgenza l'affidamento può essere disposto
anche senza porre in essere gli interventi di cui all'articolo 1, commi 2 e
3.
4. Il ricovero in istituto deve essere superato entro il 31 dicembre
2006 mediante affidamento ad una famiglia e, ove ciò non sia possibile,
mediante inserimento in comunità di tipo familiare caratterizzate da
organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una
famiglia.
5. Le regioni, nell'ambito delle proprie competenze e sulla base di
criteri stabiliti dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato,
le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, definiscono gli
standard minimi dei servizi e dell'assistenza che devono essere forniti
dalle comunità di tipo familiare e dagli istituti e verificano
periodicamente il rispetto dei medesimi".
Il titolo della legge è abbastanza emblematico: “Del diritto del
minore ad una famiglia”. I principi base sono chiari. Il legislatore ha

171
Capitolo Quarto

puntato sulla famiglia di sostegno, nel caso dell’affido, o sostitutiva, con


l’adozione, o comunque all’applicazione laddove possibile del modello
familiare come principio su cui poggiare lo sviluppo di minori
provenienti da situazioni disgregate.
Questi bei principi si sono scontrati con la dura realtà
dell’inadeguatezza degli strumenti a disposizione sul territorio. Se
riflettiamo in breve, per poter funzionare in un ambito istituzionale
frammentato e sezionato per funzioni quale è il servizio sociale nel
nostro paese, un singolo affidamento avrebbe bisogno di un assistente
sociale che si occupasse della famiglia d’origine del minore, un
assistente sociale che si facesse carico della formazione e del sostegno
degli affidatari prima, durante e dopo l’affidamento, di un terzo
operatore che si prendesse cura del minore e ne seguisse lo sviluppo
nell’ambito dell’operazione affido, il tutto magari in rete con la scuola e
gli altri ambiti di vita del ragazzo. La realtà è ben diversa. Se va bene
abbiamo un/a assistente sociale solo/a che si occupa
contemporaneamente di dover rispondere alle istanze della famiglia di
origine, spesso ostile anche perché scarsamente preparata e sostenuta nel
momento critico dell’allontanamento – seppur temporaneo – dei propri
figli, per ragioni di mancanza di tempo dello scarso personale addetto;
della famiglia affidataria, sovente abbandonata a se stessa subito dopo il
collocamento della “patata bollente”; infine del minore che rischia di
perdere i punti di riferimento su cui poggiare il proprio sviluppo.
La scarsità di personale e di risorse economiche nei servizi sociali,
oltre al clima di emergenza ed urgenza in cui quasi sempre avvengono
gli allontanamenti e i successivi affidamenti dei minori, portano con

172
Capitolo Quarto

estrema frequenza ad adottare misure in qualche modo comode e, per


colorire un po’ polemicamente il discorso, di scarico del problema come
il collocamento presso istituti – i vecchi orfanotrofi, per intenderci –. Il
legislatore della legge 149, per la verità, ha pensato anche a questa
evenienza e ha posto addirittura un termine massimo, il 31 dicembre
2006, entro il quale detti istituti avrebbero dovuto chiudere o,
quantomeno, cessare di essere utilizzati come strutture di accoglienza per
minori preferendo ad essi, come abbiamo visto all’art.2 c.4 citato sopra,
l’affidamento ad una famiglia e, ove ciò non sia possibile,
[l’]inserimento in comunità di tipo familiare caratterizzate da
organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una
famiglia.
I principi che stanno alla base di questa legge e sono del tutto simili
a quelli che hanno condotto alla chiusura degli istituti per malati di
mente – i manicomi – mediante la Legge 180 del 13 maggio 1978, la
legge Basaglia, conosciuta come la legge che ha chiuso i “manicomi”.
Più studiosi andavano ormai da tempo affermando che
l’istituzionalizzazione di soggetti deboli provocava più danni di quanti
sarebbero stati eventualmente i benefici che essi ne avrebbero potuto
trarre. Goffman, nel già citato Asylums, nel trattare le istituzioni totali
dedica un intero capitolo alle carriere morali degli internati.
È chiaro che vi sono differenze tra soggetti deboli quali possono
essere minori privi di genitori, o allontanati da questi ultimi per
qualsivoglia motivo, e persone che hanno una malattia mentale, ma
l’effetto della chiusura in istituto è per entrambi portatore di effetti che
possono agire pesantemente sullo sviluppo delle proprie potenzialità.

173
Capitolo Quarto

Primo tra tutti la capacità di muoversi nel contesto quotidiano fatto di


relazioni, incontri, spazi e tempi che devono potersi adattare e riadattare
per l’intero corso della vita. È altresì accertato che lo sviluppo di un
essere umano non si ferma con la maggiore età ma prosegue per l’intero
corso della vita. Ciò che cambia è la responsabilità individuale che
sull’esercizio di tale libertà grava in proporzione allo sviluppo e al
succedersi dei ruoli che nel corso della propria esistenza ognuno è
chiamato a ricoprire.
Aver a che fare con persone la cui libertà sia limitata deve
necessariamente, quindi, portare ad accrescere la coscienza dei
significati della libertà e, di pari passo, delle responsabilità che ne
regolano i limiti in un contesto di vita sociale attiva e partecipata.
Questo, parrebbe evidente, è molto difficile laddove la libertà sia
confinata all’interno di quattro ore giornaliere – quando va bene – da
poter passare fuori dalla propria cella. Se è vero che ognuno cresce in
base alle proprie esperienze, la coscienza della responsabilità nella
libertà si sviluppa necessariamente facendo esperienza di libertà. Questo
principio non è ignoto ai padri legislatori penali ma, anzi, ha scaturito
leggi come la Simeone-Saraceni o la Gozzini ma, come per la legge
sull’affidamento dei minori e sulla legge Basaglia si è scontrata con la
realtà di un sistema rigido sulle proprie posizioni burocratiche, una vera
gabbia d’acciaio.
Molti istituti per minori che avrebbero dovuto essere chiusi a fine
2006 di fatto si sono attrezzati e con qualche piccolo adattamento
cosmetico si sono trasformati in aggregati di comunità di tipo familiare,
più piccole come dimensioni ma identiche nello stile dell’istituto;

174
Capitolo Quarto

qualche recente tentativo di introdurre l’affidamento familiare anche per


malati di mente – tra l’altro offrendo cospicui rimborsi alle famiglie
disponibili all’accoglienza – non ha avuto gli effetti sperati soprattutto
per la cronica mancanza di fondi e di personale preposto
sufficientemente preparato e motivato; è degli ultimi giorni il tentativo
sempre più pressante di rivedere la legge Gozzini sfruttando i rarissimi
casi di recidiva da parte di soggetti in misura alternativa alla detenzione.
Anche dove si sia fatto qualche passo in più verso la realizzazione
pratica del principio deistituzionalizzante della legge sull’affidamento
dei minori, si tende ad assumere il controllo delle strutture che nella
legge dovrebbero essere caratterizzate da organizzazione e da rapporti
interpersonali analoghi a quelli di una famiglia mediante una
regolamentazione su base regionale molto rigida riguardo i requisiti
strutturali e del personale addetto che dilata l’analogia familiare e
ricostituisce entità sempre più simili a istituti.154
La tendenza attuale sembra confermare anche nell’ambito
dell’affidamento dei minori quello che traspare dal mondo carcerario: un
progressivo raffreddamento del senso di umanità sacrificato alla
crescente professionalizzazione e, di fatto, istituzionalizzazione delle
relazioni umane, a partire proprio da quelle maggiormente critiche e
bisognose di sostegno e calore.
Si apre, dunque, un nuovo problema. L’idea che in un particolare
sistema vengano elaborati criteri di disciplinamento generalistici, da
applicare sempre e dappertutto, va in crisi di fronte alla realtà di

154
I riferimenti normativi della Regione Toscana sono essenzialmente due: la Legge Regionale 24
febbraio 2005 nr.41, Sistema integrato di interventi e servizi per la tutela dei diritti di cittadinanza
sociale, e il Piano Integrato Sociale Regionale 2007-2010 approvato dal Consiglio Regionale Toscano
il 31 ottobre 2007.

175
Capitolo Quarto

un’umanità che è tutto fuorché generalizzabile. Le regole di uno dei


sistemi più rigidi in assoluto, che poi è quello che interessa il presente
lavoro, il carcere, vanno in tilt nelle situazioni in cui si fuoriesca dalla
ristretta schematicità che tali regole ha costruito 155. Alcuni esempi
chiarificatori: le sezioni a custodia attenuata presenti in alcuni istituti,
per esempio quello da me osservato da vicino, il carcere di Pisa. In
queste sezioni è evidente che continuano a valere, almeno sulla carta, le
stesse norme riservate al resto dei detenuti ma con una differenza: vi è
una maggiore attenzione alla storia ed alla particolarità di ciascun
individuo ivi collocato indipendentemente, si badi bene, dalla pena da
scontare. Non è improbabile trovare, per esempio nel Polo Universitario
Penitenziario di Pisa, detenuti condannati ad una lunga pena per gravi
reati ma che sono sottoposti, in quanto inseriti in quella specifica
sezione, ad una pressione securitaria sensibilmente inferiore rispetto a
quello che le norme generali prevederebbero per tali tipologie di
detenuti. Le sezioni a custodia attenuata dovrebbero essere il frutto di
politiche concrete elaborate dagli istituti sulle condizioni dell’istituto.
Questo non contrasta con l’Ordinamento Penitenziario che lascia, invece,
alcuni spazi di manovra ai direttori degli istituti.
Un altro esempio è dato dal fenomeno della tossicodipendenza che
ha introdotto la pretesa di criteri uniformi, perché vista come fenomeno
generale da affrontare, ma difficilmente attuabili. Nell’istituto a custodia
attenuata di Empoli, riservato a detenute tossicodipendenti, uno dei
criteri base era che la detenuta volesse andare in quella particolare realtà.
155
“L’inflazione di norme e regole può paradossalmente determinare il non rispetto delle stesse, da un
lato: ma dall’altro, ancora peggio il fatto che gli operatori penitenziari possano vivere questa specie di
cappa di regole minuziose come un rischio perenne, quello di non sapere se sono nel giusto o nello
sbagliato.” Così Pietro Buffa, direttore del carcere di “Le Vallette” di Torino in un intervista a Ornella
Favero reperibile sul sito internet www.ristretti.it

176
Capitolo Quarto

Difficilmente, però, una persona, anche se detenuta e tossicodipendente,


può prendere la decisione di recarsi in una struttura di per sé
stigmatizzante: significherebbe autoidentificarsi contemporaneamente
detenute e tossicodipendenti. Questo è precisamente la sintassi logica
che ha portato l’istituto di Empoli a restare vuoto a lungo, almeno finché
non si rendessero meno rigidi i criteri di ingresso oppure non si
allentassero i controlli sull’applicazione di tali norme da parte del
personale preposto.
Per le strutture di accoglienza vale lo stesso discorso. Per ottenere
dalla Regione l’autorizzazione al funzionamento e successivamente
l’accreditamento, condizioni teoricamente basilari per poter esercitare
sul territorio, sono previsti una serie di requisiti tanto restrittivi quanto
variabili da Regione a Regione. La variabilità su scala locale coinvolge,
comunque, non soltanto la base normativa necessaria per il
funzionamento delle strutture ma, soprattutto, la disponibilità delle
istituzioni e delle persone incaricate dalle istituzioni di segnalare ed
eventualmente collocare i vari soggetti nelle medesime strutture a
scavalcare alcune di queste norme per raggiungere un minimo di
obbiettivo. La nostra Casa Famiglia, per esempio, essendo una struttura
adibita ad accoglienze eterogenee dal punto di vista sia del tipo di
disagio (handicap, tossicodipendenza, detenzione, abbandono ecc.) che
dell’età (minori, adulti o anziani), non ha possibilità, con le leggi attuali,
di ottenere la formale autorizzazione al funzionamento. Ciononostante
riceviamo quotidianamente richieste di accoglienza dalle istituzioni
pubbliche e dai servizi sociali che, pur essendo a conoscenza ovviamente
sia delle norme che della tipologia della nostra struttura, riconoscono e

177
Capitolo Quarto

usano la nostra struttura come risorsa territoriale che risponde a


determinati bisogni sociali. Va detto, ad onor del vero, che questo
dipende molto dai professionisti istituzionali in gioco e che abbiamo
assistito, nel corso degli anni di attività, ad episodi in cui il professionista
sociale istituzionale più timoroso e conservatore delle procedure
burocratiche abbia preferito non offrire alcuna risposta ai bisogni di
taluni soggetti disagiati piuttosto che proporre il nostro sostegno.
I regolamenti generali si scontrano con la molteplicità delle
situazioni e devono gioco forza flettersi se vogliamo conservare
l’obbiettivo primario dell’aiuto alla persona. Nascono, così, i
riconoscimenti e le autorizzazioni provvisorie o, come previsto dalla
legge quadro della Regione Toscana, le sperimentazioni.
Chi fa esperienza quotidiana, per professione, vocazione o
volontariato, di queste dinamiche fa emergere un bisogno crescente di
autonomia e di responsabilità: non affidare alle regole ma alla
responsabilizzazione e alla professionalità. Le regole devono essere
quelle della professionalità.
Anche questo è un fenomeno di sistema analogo, per esempio, a
quanto avviene nel sistema scolastico. Quando, per esempio, si è
introdotta l’autonomia scolastica lo si è fatto perché ci si è resi conto che
esso era un sistema ingestibile, nel senso che è costruito su territori,
scuole e sistemi di relazione molto differenziati e complessi.
Queste situazioni ci insegnano qualcosa di generale. Una società
complessa non si lascia irretire nei regolamenti uguali per tutti ma, anzi,
sopravvive se si diffonde l’idea della responsabilità. Per cui, se una

178
Capitolo Quarto

persona competente mette in piedi una situazione che rispetta alcuni


criteri generali, il resto deve essere affidato alla sua responsabilità.
Nel caso del carcere il tentativo lo si è fatto quando si è pensato al
regolamento di istituto, che hanno a loro volta le loro controindicazioni:
ci sono direttori che decidono in un modo ed altri che semplicemente,
rifacendosi all’ordinamento tout court, non decidono o decidono il
contrario. Ma se viene redatto un regolamento d’istituto e
successivamente muta la composizione della detenzione è d’obbligo, se
vogliamo mantenerne l’efficacia, cambiare anche il regolamento.
Tuttavia, se osserviamo le procedure che sottostanno la costruzione e
l’applicazione di un regolamento d’istituto, la cosa si complica alquanto.
Per essere approvato, un regolamento, deve passare dal Provveditorato
Regionale per l’Amministrazione Penitenziaria (PRAP),
successivamente al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria
(DAP) e poi nuovamente al PRAP ed infine all’istituto di provenienza.
Tutto questo processo rischia di scoraggiare la maggior parte dei direttori
d’istituto ad apportare modifiche a regolamenti già esistenti anche se
obsoleti. Vengono allora usati gli Ordini di Servizio, veri e propri
emendamenti al regolamento base, che, di fatto, sostituiscono il
regolamento stesso. La responsabilità e la professionalità dei direttori
d’istituto e dei loro collaboratori, soprattutto dell’area pedagogica, è la
vera fonte di attaccamento alla realtà situazionale in continua evoluzione
e fermento di un carcere, cosa che un regolamento generalistico uguale
per tutti, rigido e burocratico, perde rapidamente di vista.

179
Capitolo Quarto

4.5 Quadri di ordinaria coercizione


Lo stato di coercizione è un contenitore concettuale che rischia di
rimanere vuoto se non ci occupiamo di riempirlo con le storie cui
veniamo in contatto quando si entra nell’universo carcerario di persona.
La mia esperienza nel carcere di Pisa, nelle cooperative sociali e
nelle strutture di accoglienza si è arricchita, nel corso degli anni, di storie
individuali che nell’insieme possono aiutare a dare un quadro più
completo, al di là delle pur necessarie teorizzazioni,
sull’istituzionalizzazione che, incidentalmente, ciascuno di noi può
incontrare nel corso della propria esistenza.
Riporto, di seguito, alcune sfaccettature ed esempi che mi hanno
particolarmente colpito nel corso di queste esperienze.
Nel carcere di Pisa esiste una sezione femminile dotata di una
ventina circa di posti, anche se talvolta si sono raggiunte le quaranta
presenze. È una sezione molto variegata, dal punto di vista sia dei reati
ascritti alle persone in essa ristrette, sia alle loro caratteristiche culturali.
La cosa che ci ha colpito fin dall’inizio è l’elevata incidenza di
comportamenti omosessuali tra le detenute.
È abbastanza frequente che nei colloqui individuali si faccia
riferimento a relazioni amorose, quindi non soltanto sessuali, tra le
donne detenute nella sezione. Non solo, ho assistito con inquietante
frequenza a consigli di disciplina originati da litigi, spesso furiosi e con
conseguenze fisiche sulle contendenti, dovuti a gelosie verso compagne
di detenzione. Intervistando le agenti di Polizia Penitenziaria dislocate
nel reparto la cosa si fa ancora più nitida. Queste riferiscono che non è

180
Capitolo Quarto

affatto inconsueto trovare nello stesso letto due detenute durante i vari
giri di perlustrazione.
Se nella sezione femminile il fenomeno emerge in modo palese non
si può asserire la stessa cosa per le sezioni maschili. Probabilmente, ad
una prima e superficiale analisi, ciò potrebbe derivare da due ragioni
fondamentali: la prima fa riferimento alla ipotetica prevalenza della
dimensione sessuale su quella affettiva nelle relazioni intime degli
uomini; la seconda, in qualche modo derivante dalla prima, riguarda la
tabuizzazione della dimensione omosessuale che concerne il mondo
maschile, in particolare nel mondo carcerario dove i rapporti
omosessuali, pur esistenti, vengono fortemente negati. È difficile, infatti,
che un detenuto confessi al proprio educatore di riferimento, al
cappellano, al direttore, al volontario o a chicchessia di aver avuto
rapporti omosessuali con altri detenuti, non solo, egli nega a priori che
tale fenomeno esista. Raccontano, infatti, gli operatori della casa
circondariale, che una volta fu deciso di sperimentare la collocazione di
un apparecchio distributore di preservativi all’interno delle sezioni
maschili allo scopo di evitare, o quanto meno ridurre la possibilità che
dai rapporti fisici derivassero malattie sessualmente trasmissibili.
Ebbene, ne venne fuori una mezza rivolta. Tutti i detenuti, compresi gli
omosessuali dichiarati, negarono recisamente che esistessero tali
comportamenti all’interno delle loro celle. Risultato: non fu installata la
macchinetta.
Al contrario, nella sezione femminile, non sono infrequenti gli
scambi di doni tra fidanzate e le crisi quando questi fidanzamenti
vengono rotti: per un osservatore uomo, e mi riferisco qui alla mia

181
Capitolo Quarto

personale esperienza, assistere a tali fenomeni è alquanto imbarazzante e,


al tempo stesso, interessante.
Nella quasi totalità, queste donne, sono, nella vita esterna al carcere,
o sposate con figli, o, almeno, fidanzate. Hanno, insomma una vita
sentimentale e sessuale normale. La coercizione, la privazione della
libertà riguardo la sfera affettiva e sentimentale, si può tradurre, così, in
distorsioni emotive che comunque sono a carico degli operatori del
trattamento e che, in ogni caso, poco hanno a che fare con la
rieducazione e lo sviluppo personale di questi soggetti in vista del ritorno
alla libertà ma, piuttosto, rappresentano fattori per cui vale quasi
unicamente la funzione di contenimento e regolazione interne alla vita
carceraria.
Un altro spaccato di vita carceraria come universo sociale parallelo
è fornito dal commercio, traffico nel gergo carcerario, di beni di ogni
tipo che poco ha a che fare con l’ordinario scambio di beni e denaro che
avviene nella società. Chi finisce in carcere impara presto o tardi a
seguire un modello economico del tutto particolare. Per esempio, il
regolamento penitenziario prevede che sia consentito l'acquisto presso
lo spaccio interno e il consumo giornaliero di vino in misura non
superiore a mezzo litro e di gradazione non superiore a dodici gradi o di
birra in misura non superiore ad un litro156 da parte di qualunque
detenuto, indipendentemente dal fatto che ne faccia effettivo consumo o
meno, può accadere che, visto che una buona metà dei soggetti che
popolano le nostre carceri non fa uso di alcolici per motivi religiosi,
pensiamo soprattutto a quelli di fede islamica, si utilizzi il vino o la birra

156
Art 14, c.3 del D.P.R. del 30 giugno 2000 n.230, Regolamento recante norme sull'ordinamento
penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà.

182
Capitolo Quarto

come merce di scambio sia per ottenere altre merci, sia per ottenere o
ricambiare favori.
Nell’istituto di Pisa si è ovviato al problema chiudendo la “cantina”
con una decisione condivisa tra direzione del carcere ed una larga
rappresentanza dei detenuti stessi. Oltretutto questa decisione ha avuto
molti altri vantaggi: ridurre il tasso alcolemico medio dei detenuti con
conseguenze utili sulla gestione della disciplina; un migliore e più
affidabile controllo su coloro che escono a vario titolo dal carcere
(semiliberi, detenuti in permesso, art.21 ecc.) che possono essere
sottoposti ad esami, al loro rientro in istituto, per accertare la presenza di
sostanze psicotrope alcol compreso di cui abbiano eventualmente
abusato.
A mio giudizio questo è un altro esempio di come il diritto, quando
espresso sganciato dal senso di responsabilità, invece di condurre ad un
maggiore ordine sociale di fatto talvolta rischi di creare i presupposti per
ulteriori problemi che, nella fattispecie, ricadono sul personale carcerario
dell’area sicurezza, dell’area sanitaria ma, in particolare, dell’area
pedagogica che si trova così ulteriormente gravata e distolta dai compiti
ad essa riservati. Spesso, infatti, l’opera degli educatori è più volta al
contenimento degli effetti del carcere che alla preparazione dei detenuti
al ritorno alla libertà con migliori prospettive di inserimento sociale.
Viene in questo modo suffragata ulteriormente l’affermazione di
coloro che sostengono l’impossibilità del lavoro sociale nel contesto
coercitivo. L’unica possibilità sembrerebbe data dalla fantasia del
singolo operatore e dalle sue capacità di adottare strategie adattive o di
scavalcamento dei rigidi meccanismi dell’amministrazione. Questo è uno

183
Capitolo Quarto

dei motivi, probabilmente il principale, per cui la maggior parte del


trattamento, quello vero, quello che più si avvicina al “senso di umanità”
inserito dai Padri Costituenti nell’art. 27 della Costituzione, viene
dall’esterno. Volontari, associazioni, cooperative sono sempre più i veri
animatori del mondo carcere. Non possiamo meravigliarci troppo di
questo visto che, come dice Margara, il carcere è nato per escludere e
non possiamo chiedere ad una struttura costruita per questo di occuparsi
dell’inclusione sociale. O meglio, il senso di umanità esiste in forma
espressa nella Costituzione, si manifesta in forma evidente nei volontari
e nelle associazioni esterne all’amministrazione carceraria ma, in coloro
che la stessa amministrazione ha deputato allo scopo in via istituzionale
questo senso umanitario sembra rimanere schiacciato dalla pressione
esercitata dalla prospettiva correzionalistica e meramente punitiva
tutt’oggi prevalente.
La dimensione punitiva, tra l’altro, tende ad invadere gli spazi
altrimenti tipici del trattamento penitenziario157. La tecnologia
disciplinare, fondata sul sistema sanzioni-ricompense laddove chiamata a
“stimolare il senso di responsabilità e la capacità di autocontrollo” dei
detenuti158, di fatto è storicamente quasi inalterata, ad eccezione delle
punizioni corporali, e vede nel Consiglio di disciplina la manifestazione
evidente della sua supremazia sul trattamento rieducativo vero e
proprio.159

157
Il trattamento si attua avvalendosi “dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività
culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con
la famiglia” (Art.15 L.354/1975 Ordinamento Penitenziario)
158
Art.36 L.354/1975
159
Cfr. Claudio Massa, “Pedagogia penitenziaria e pedagogie reclusive”, in Claudio Massa (a cura di)
L’educatore e la pedagogia penitenziaria. Contributi teorici e metodologici, Cagliari, Cooperativa
Universitaria Editrice Cagliaritana, 2005, p.107

184
Capitolo Quarto

Avendo avuto la ventura di partecipare a vari consigli di disciplina


durante il tirocinio nel carcere di Pisa, le impressioni che ne ho tratto
confermano ciò che la letteratura sul tema riporta diffusamente ed in
modo variamente argomentato. La fonte di informazioni prevalente, e
quella che ha peso determinante sul giudizio finale, è senz’altro la
sorveglianza. Ovviamente è molto frequente che la segnalazione
dell’infrazione regolamentare sia effettuata dall’agente di polizia
penitenziaria, data la sua vicinanza ai luoghi fisici della detenzione ma,
come capita quasi sempre, questo è l’unico testimone diretto del fatto
che viene portato in consiglio di disciplina e, quindi, il rapporto
disciplinare è lasciato alla sua soggettiva valutazione. Il peso dell’area
della sorveglianza in tutta la vita dell’istituzione totale carcere si misura
in modo chiaro proprio durante quella sorta di processo, talvolta, mi sia
consentito, grottesco, che è il consiglio di disciplina dove il direttore fa
da giudice, pubblico ministero e avvocato difensore e il Gruppo di
Osservazione e Trattamento, qualora preso in considerazione, viene
trattato allo stesso modo in cui una volta si trattava, nello stesso
consiglio, il cappellano di cui, tra l’altro, con la riforma penitenziaria ha
preso il posto. Il detenuto viene ascoltato ma, come è facile intuire, la
sua collaborazione, specie dove venga chiamato a riferire sul
comportamento di compagni, è fortemente limitata dai timori, fondati, di
ritorsioni, vendette ed etichettamenti infamanti da parte di questi ultimi.
Sembrerebbe che, in alcuni casi, come conseguenza di una lite tra
due compagni di cella si sia giunti a punire l’intera sezione con svariati
giorni di interdizione dalle attività sportive e ricreative. Il tutto contro il

185
Capitolo Quarto

parere degli educatori che ritenevano inutile, anzi dannosa la punizione


generalizzata.
Il reale vantaggio che il consiglio di disciplina parrebbe aver portato
al sistema carcerario è la riduzione delle azioni repressive, se non
proprio violente, da parte della sorveglianza nei confronti di detenuti
particolarmente “difficili” ed una maggiore presa di controllo da parte
della direzione sui fatti critici che avvengono in istituto. Tuttavia, resta
invariata la considerazione della sua scarsa utilità dal punti di vista
trattamentale e rieducativo, soprattutto visto lo sganciamento dal piano
dell’osservazione e del trattamento propriamente inteso che in esso viene
operato tramite la marginalità del coinvolgimento, nelle decisioni
assunte, dell’area trattamentale.

4.6 Il terzo (in)comodo: il volontariato


Una delle novità degli ultimi anni è senz’altro l’aumento della
partecipazione dei volontari alla vita del carcere. Un tempo essi erano
rappresentati in larghissima parte da religiosi, soprattutto suore, che
portavano conforto spirituale ai condannati senza influire minimamente
sulla vita dell’istituzione.
Oggi il volontariato rappresenta una delle componenti più
importanti nello svolgimento delle attività interne, ma anche esterne, al
carcere, al punto che è legittimo chiedersi come potrebbe sopravvivere
l’intero impianto penitenziario in assenza della “partecipazione della
comunità esterna”.
A Pisa, attualmente, le persone che possono accedere al
penitenziario tramite autorizzazione come da articolo 17 OP sono una

186
Capitolo Quarto

sessantina, molte delle quali insegnanti o formatori assegnati alle scuole


od ai corsi professionali interni, altre persone, invece, si occupano di
colmare alcune lacune, talvolta clamorose, soprattutto per quel che
riguarda l’igiene personale ed il vestiario dei detenuti. Basti pensare che
spazzolino e dentifricio, in un carcere, sono considerati sopravvitto,
quindi a carico del detenuto che può acquistarli nel magazzino interno,
se ha soldi, altrimenti, evidentemente, si ritiene possa farne a meno. Per i
vestiti il discorso è un po’ più articolato. Può capitare, con una frequenza
maggiore di quello che ci si aspetterebbe, che un detenuto subisca un
trasferimento in un altro istituto, quello che in gergo viene chiamato
sfollamento. Egli porterà con sé soltanto ciò che entrerà nel sacco
consentito dalla norma che, significativamente, è solitamente uno di
quelli destinati alla spazzatura condominiale. Il resto delle sue cose
resteranno nella cella. Un fenomeno tipico della dinamica carceraria è
l’iter dei pacchi portati dai familiari o, comunque, provenienti
dall’esterno che stazionano anche per mesi nel magazzino dell’istituto,
ufficialmente per essere accuratamente controllati. Solitamente questi
pacchi contengono vestiario ma anche altri oggetti dai più profondi
significati, come, per esempio, fotografie di familiari, figli, mogli,
fidanzate ecc.. Ora, durate uno di questi sfollamenti, può capitare che il
pacco presente in magazzino non segua automaticamente il detenuto nel
luogo del trasferimento ma, anzi, può rischiare di andare anche perduto a
meno che non intervenga un volontario che, posto a conoscenza della
cosa, si interessi attivamente del recupero dei beni del detenuto ed abbia
la costanza e la motivazione per affrontare il muro burocratico che
sicuramente gli si parerà di fronte durante tutta l’operazione.

187
Capitolo Quarto

Il più delle volte il lavoro dei volontari è oscuro ma indispensabile


allo svolgimento di molte delle attività veramente formative all’interno
del carcere. Spesso gli educatori, come abbiamo altrove affermato,
hanno la maggior parte del tempo lavorativo impegnato a risolvere
problemi di ordine amministrativo-burocratico ed i volontari, siano essi
insegnanti, formatori o semplici assistenti, consentono che il carcere sia
un po’ meno una scatola vuota e grigia per chi vi vive all’interno e, al
contempo, consentono all’istituzione stessa di sentirsi e mostrarsi
pubblicamente in una forma più presentabile.
Cosa spinga una persona ad entrare in un carcere come volontario è
argomento molto interessante che in questa sede tratteremo soltanto
marginalmente. Tuttavia vale la pena di riflettere sul dualismo altruismo-
egoismo che, a seconda della loro miscelazione, possono dar vita a
diversi comportamenti e motivazioni negli stessi operatori volontari, sia
carcerari che rivolti ad altri settori, per esempio le case-famiglia.
La tensione interna tra spinte altruistiche e pulsioni egoistiche, così
come analizzata da Moscovici 160, dà vita ad un continuum ai cui estremi
abbiamo situazioni di altruismo egoistico ed egoismo altruistico. Con
questo si intende sostenere che non esista un totale disinteresse, nella
relazione altruistica, ma che, anzi essa si fondi essenzialmente
sull’interesse per l’altro ma anche per la realizzazione, più o meno
consapevole, di propri obbiettivi personali.
Una divertente ma calzante classificazione delle tipologie di
volontari presenti nel carcere di Prato ma estensibile a tutto il sistema
penitenziario è stata stilata da Pasquale Scala, responsabile dell’area
160
Serge Moscovici, “Le forme elementari dell’altruismo”, in Serge Moscovici (a cura di), La
relazione con l’altro, Milano, Cortina, 1997, p. 100. Orig.: Psychologie sociale des relations à altrui,
Paris, Nathan, 1994

188
Capitolo Quarto

pedagogica del suddetto istituto, durante una lezione nell’ambito di un


corso per volontari carcerari tenutosi a Firenze nel novembre del 2005 161.
Abbiamo così il volontario missionario, spinto dall’obbiettivo di
diffondere un qualche messaggio, inteso in senso ampio, quindi sia
politico che religioso; il filantropo, l’altruista perbenista che ha bisogno
di sentirsi utile per qualcuno; il semplice curioso che sfida la paura del
carcere per vedere in faccia i detenuti; l’esistenzialista in cerca della
propria identità e dell’approvazione altrui che forse non è riuscito a
trovare in altri ambiti e spera di trovare laddove la situazione di bisogno
spinge il detenuto ad aggrapparsi a qualunque fonte di aiuto; il
materialista che vuole aiutare ma in concreto, senza troppe chiacchiere:
è il volontario che maggiormente riesce ad ottenere con tenacia ciò che
di materiale il detenuto ha bisogno; l’opportunista è colui che cerca,
attraverso l’esperienza del carcere, di approfondire i suoi studi, di fare
ricerca nel carcere come in un campo-laboratorio, per trarre vantaggi
personali; gli empirici sono coloro che si avvicinano al carcere per trarne
un’esperienza estrema, “esotica”; gli idealisti, invece, lo fanno per il
bisogno intimo di confutare i propri ideali, di metterli in discussione
tramite il carcere, per dar loro ancora più forza; infine troviamo i
volontari pragmatici, quelli, cioè, che non si pongono troppe domande:
hanno la necessità di impiegare in modo produttivo il proprio tempo e se
poi questo tempo impiegato può aprire qualche spiraglio lavorativo tanto
meglio.
Si tratta sicuramente di una classificazione incompleta, come nella
natura delle classificazioni umane, ma a nostro giudizio abbastanza
significativa delle motivazioni che portano una persona ad avvicinarsi al
161
Corso tenutosi a Firenze a cura del CESVOT.

189
Capitolo Quarto

mondo carcere e, soprattutto, utile a togliere il velo buonista dall’opera


dei volontari per ricollocarli nel novero delle persone normali anche se
fanno cose non-normali.
Purtroppo, in questa classificazione manca una fattispecie che è
quella della pratica della cittadinanza. I beni di cittadinanza (come lo
sono, fra gli altri, la libertà, la salute, la formazione, il riconoscimento
della dignità di persone), sono costosi, ci ricorda Enrico Rusconi:
“Essere cittadini non significa soltanto fruire di beni-diritti soggettivi,
ma impegnarsi a contribuire alla loro produzione. I diritti sono beni
costosi e l’impegno dei cittadini ad assumersene la propria parte non è
frutto di altruismo, ma un comportamento intrinseco allo status di
cittadini, che riconoscono di avere vincoli di reciprocità.[...] I motivi
che portano i cittadini ad assumersi i costi della cittadinanza implicano
il riconoscimento che dimensioni significative della loro identità sono
parte della identità collettiva storicamente condivisa con altri cittadini.
Questa condivisione identitaria si traduce in accettazione di impegni
reciproci di solidarietà, non a titolo privato ma a titolo pubblico, perché
toccano lo status di cittadini che si sono costituiti storicamente in
nazione, la nazione-di-cittadini, appunto”.162

162
Gian Enrico Rusconi, Possiamo fare a meno di una religione civile?, Bari, Laterza, 1999, p. 35.

190
Conclusioni

Alain Brossat, filosofo francese, intitola nel 2001 un suo libro Pour
en finir avec la prison163. In effetti, alla fine di questo lavoro
sembrerebbe naturale pensare di farla finita col carcere, e non è
un’emozione, è qualcosa che è in discussione da molto tempo. Certo è
che se da una parte abbiamo l’estrema difficoltà di questo sistema di
automodificarsi, dovuta a secoli di storia che lo hanno incrostato e
irrigidito, dall’altra esiste un’opinione pubblica continuamente orientata
al suo rinforzo.
Secondo Brossat non occorre tanto cercare di capire gli spazi vuoti
dei diritti – non-diritti, in carcere – come unica operazione umanitaria
orientata ai detenuti; occorre fare un passo in più per rendere decisivo e
strutturale un cambiamento del carcere, da cloaca sociale ermeticamente
chiusa, a luogo di effettivo recupero dell’individuo alla società collettiva:
recuperare la comunità intera con i suoi punti di vista collettivi, con
un’azione strategica educativa che riesca a non mandare nessuno in
carcere. Se non adottassimo questa strategia otterremmo al massimo
detenuti più curati ma pur sempre detenuti.
Solitamente, è ancora il pensiero del filosofo francese, si ricerca il
diritto negativo (diritto a non… qualcosa) e individuale; non esiste il
diritto ad una politica, in carcere, ad azioni collettive: “[in carcere] non
si può tollerare che si formi il minimo spazio pubblico, il minimo spazio
di auto-organizzazione o di auto-istituzione di una comunità di detenuti.

163
Alain Brossat, Scarcerare la società, Milano, Elèuthera editrice, 2003 (Paris, La Fabrique éditions,
2001)

191
Conclusioni

[…] Anche quando conserva i diritti civili il detenuto è disconnesso da


tutte le condizioni della cittadinanza (chi vota in carcere e come?). […]
In carcere gli imperativi della sicurezza hanno regolarmente la meglio
su tutto il resto e l’ideologia securitaria del personale penitenziario è
l’alibi sempre invocato da una politica penitenziaria finalizzata a
perpetuare lo stato di gregge amministrativo della popolazione
carceraria”164. Più oltre, egli afferma che “quando il diritto avrà fatto il
suo ingresso in carcere non saremo entrati nell’era del «dopo-carcere»
ma avremo un diritto incarcerato”165.
Le tesi abolizioniste si potrebbero inquadrare nella categoria delle
utopie, oppure darne una lettura pessimistica ricordandoci che i
principali teorizzatori dell’abolizione del carcere o, più in generale, del
sistema penale, provengono da paesi, come l’Olanda e la Scandinavia,
che sembrano non conoscere tutte le perfidie latine del sistema penale,
come l'accentuazione della pena nella pena e la politica delle emergenze
continue; neppure hanno conosciuto bene, come farina del proprio sacco,
le deviazioni totalitarie della democrazia come il fascismo e il nazismo;
neppure il totalitarismo sovietico. Alcuni di loro, lo svedese Christie in
particolare166, sembrano ignorare i risultati del caso italiano, del paese di
164
Brossat, cit., 2003, p.101
165
Brossat, cit., 2003, p.108
166
Il riferimento è a Nils Christie, Abolire le pene? Il paradosso del sistema penale (1981), Torino,
Edizioni Gruppo Abele, 1985. Orig.: Limits to pain, Oxford, Martin Robertson Comp., 1981. Lo
studioso propone un’abolizione della pena, più che del carcere in sé, sostituendola con un sistema
alternativo che sia in grado di fungere da mediatore nel conflitto generato tra vittima e reo. In
un’intervista rilasciata a Zenone Sovilla e pubblicata su “Nonluoghi” il 27 ottobre 2000, egli afferma,
comunque: “L'abolizionismo va oltre le mie intenzioni, mi sembra poco realistico. Credo che da un
lato vada trasferita a metodi di soluzione alternativi - sul modello del giudice di pace - la gran parte
dei reati, ma che dall'altro si debba conservare un sistema di garanzie cui una delle parti (la più
debole) possa ricorrere per evitare un accordo iniquo. Se io ti ho spaccato il naso con un pugno e poi
tu - che sei socialmente più attrezzato e potente - pretendi da me, oltre alle scuse e alle spiegazioni,
un risarcimento che mi renderebbe schiavo, devo poter optare per un normale processo in un'aula di
tribunale. Insomma, non si tratta di gettare alle ortiche la forma di difesa dei diritti individuali
sviluppata nel corso dei secoli; si tratta di migliorarla... “

192
Conclusioni

quel dottor Stranamore che fu il positivista-socialista Lombroso, del


paese che oggi ha conosciuto il neopositivismo penale. Nella maggior
parte dei paesi europei che non siano l'Italia le pene sono più brevi, c'è
più certezza sulla quantità di pena da scontare perché c'è meno
esasperazione premiale, i benefici ti vengono in genere concessi
automaticamente a meno che tu non abbia combinato qualche guaio in
carcere, guaio in ogni caso da dimostrare. Qui da noi tutto dipende dal
giudizio dell'équipe che si occupa di te. La prigione delle menti che si
nasconde dietro alla trasformazione del detenuto in un paziente si
aggiunge alla prigione del corpo e aumenta pure quest'ultima.167
Questa ipotesi, tuttavia, ci pare porga il destro a coloro che
affermano, come Tancredi nel “Gattopardo”, che nel nostro paese
bisogna cambiare tutto per non cambiare nulla per lasciare, quindi,
un’istituzione obsoleta nella struttura, inefficace nelle funzioni ed
economicamente assolutamente fallimentare come il carcere, così com’è
oppure, nella migliore delle ipotesi, appoggiarsi ad una distaccata
solidarietà come tappeto sotto il quale nascondere lo sporco.
Una via d’uscita, se non altro metodologica, ce la offre Thomas
Mathiesen, norvegese, che nel 1987 delinea un piano operativo per
l’abolizione del carcere, da lui stesso definito indifendibile168.
167
Vincenzo Guagliardo, Dei dolori e delle pene. Saggio abolizionista e sull'obiezione di coscienza,
Tivoli, Sensibili alle Foglie, 1997. Reperito sul sito www.ristretti.it il 20 gennaio 2008.
168
Thomas Mathiesen, Perché il carcere?, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1996. (Oslo, Pax Forlag,
1987). Scrive, l’autore: “Abbiamo mostrato, in precedenza, la doppiezza delle autorità sul problema
del carcere. Da un lato abbiamo presentato una serie di loro dichiarazioni, secondo cui il carcere è
indifendibile; e d'altro canto, esse stesse vanno costantemente in cerca di argomenti in suo favore e si
tengono stretto il sistema carcerario. Prenderemo allora come punto di partenza la percezione, che
esiste ai livelli superiori della politica criminale, del fiasco del carcere. Idealistico? Certo! Ma sono
pronto ad accettare critiche di questo tipo, perché ormai è importante, una buona volta, prendere in
parola i responsabili della politica criminale per quanto riguarda la loro opinione più fondata.
Alcuni anni fa, in Svezia, un ampio dibattito sull'energia nucleare sfociò in una consultazione
popolare. I sostenitori del nucleare, noti come il «partito del sì», vinsero. Ma essi stessi ritenevano
che l'energia nucleare dovesse essere eliminata entro il 2010. Resta loro una ventina d'anni di tempo.
I tempi di smantellamento delle centrali nucleari svedesi possono essere seguiti anche per lo

193
Conclusioni

Sulla cui falsariga potremmo assegnarci ora, in Europa, una serie di


obbiettivi come del resto si sta facendo in altri settori come, per esempio,
il lavoro oppure l’ambiente.
A proposito del lavoro e dell’occupazione, soprattutto giovanile,
bisogna ricordare che, nel marzo del 2000, si è tenuto a Lisbona un
Consiglio europeo straordinario con l’intento dichiarato di fare
dell’Unione l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e
dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica
sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione
sociale. La discussione ha prodotto una strategia (la Strategia di Lisbona,

smantellamento del carcere. Si può metterla così: se qualcosa formidabile come l'energia nucleare,
con gli interessi e le funzioni che le si intrecciano, viene eliminata entro il 2010, altrettanto si può
fare con il carcere. Le funzioni che garantiscono la sopravvivenza del sistema carcerario sono poco
più rilevanti delle funzioni attribuite all'energia nucleare dalle società che ne fanno uso. E per quanto
riguarda i fini il carcere è, come detto, un puro fiasco, mentre in genere non si può dire altrettanto
per l'energia nucleare: dopotutto produce elettricità, anche se la fonte è pericolosa. L'obiettivo che
dovrebbero porsi le nostre autorità di politica criminale - legislatori ed esecutori - è smantellare il
carcere entro la medesima scadenza posta per lo smantellamento delle centrali nucleari svedesi. Si
tratta di un obiettivo ragionevole e di una ragionevole richiesta. Il 2010 è l'anno decisivo.”[…]
“Nel periodo di tempo prefissato per l'abolizione, i primi due o tre anni vanno dedicati al dibattito e
alla pianificazione. Nel tempo che rimane l'abolizione deve avvenire gradualmente, per poter essere
accettata dalla popolazione. Un periodo di circa venti anni, come vedremo oltre, dovrebbe in effetti
offrire una garanzia per questa accettazione. Più precisamente l'abolizione dovrebbe svolgersi con
rapidità crescente, con un avvio moderato negli anni 1990-95, seguìto da uno smantellamento più
accentuato negli anni 1995-2000, considerevolmente accelerato infine negli anni 2000-10.”
“L'abolizione può avvenire in tre modi: il primo consiste nel diminuire progressivamente i limiti
massimi di pena, seguendo l'andamento della «curva» di abolizione. “[…]
“Il secondo procedimento richiede lo smantellamento materiale della struttura carceraria, che
dovrebbe avvenire parallelamente alla riduzione del numero dei detenuti prodotta dalla diminuzione
dei massimi di pena.” […]
“In terzo luogo l'abolizione dovrebbe avvenire mediante il continuo trasferimento delle risorse
precedentemente assegnate al sistema carcerario, in ragione di metà della somma risparmiata sul
budget delle carceri, al sistema dell'affidamento ai servizi sociali, rivalutando di anno in anno le
somme disinvestite […]. E' molto importante che l'affidamento ai servizi sociali, che sarebbe
rafforzato in modo eccezionale, non sia organizzato in modo da accrescere la funzione di controllo.
E' facile immaginare che sullo sfondo dello smantellamento del carcere possa avvenire qualcosa del
genere e bisogna evitarlo, sia "vincolando" specificamente i mezzi finanziari a tre scopi: lavoro, casa
e trattamento volontario per coloro che - in misura crescente - verrebbero rilasciati; sia con un
"continuo dibattito critico" sulle funzioni di queste misure. Bisogna attendersi che le attività su cui si
vincolano i fondi abbiano al tempo stesso un significativo effetto di prevenzione della criminalità.
Dopo l'abolizione, si dovrebbe impiegare un corrispondente stanziamento per creare opportunità di
lavoro per i gruppi poveri e marginali, ma questo dovrebbe essere integrato amministrativamente nei
servizi sociali, per evitare che si sviluppi un sistema di assistenza separato.”

194
Conclusioni

appunto) che ha fissato non soltanto gli obbiettivi concreti per realizzare
l’intento iniziale ma ne ha delineato anche i tempi di realizzazione fissati
nell’anno 2010, e cioè: raggiungere un tasso medio di crescita economica
del 3% circa; portare il tasso di occupazione delle persone di età
compresa tra 15 e 64 anni al 70%; far arrivare il tasso di occupazione
femminile al 60%.
Attualmente ci sono paesi che hanno raggiunto già il 75%
dell’occupazione mentre in Italia ci attestiamo intorno al 60%.
Nonostante la discrepanza esistente tra i vari paesi dell’Unione, nel
raggiungimento degli obbiettivi, resta valida la considerazione che una
strategia di questo tipo ha senso nella misura in cui essa viene adottata di
comune accordo da tutti i paesi coinvolti. Si tratta di un compito
comune, il ché di per sé legittima l’intervento, tramite risorse particolari,
verso i singoli paesi che non saranno, per le più svariate ragioni, in grado
di raggiungere quegli obbiettivi. Essa ha senso, altresì, in quanto viene
fornita una scadenza precisa ed è attivo un monitoraggio periodico sul
percorso verso i traguardi prefissati.
L’Unione Europea ci ha assegnato altri obbiettivi di quel tipo,
come, per esempio, quello di risolvere il problema energetico e del
mutamento climatico entro 25 anni. Questo rappresenta un problema di
straordinaria complessità, visto soprattutto che, malgrado si ritenga
comunemente il contrario, per combattere la crisi petrolifera non basta
ridurre il consumo di carburante per autoveicoli. Il petrolio è ovunque,
intorno a noi, fa parte del nostro vivere quotidiano, potremmo dire della
nostra cultura. Quindi, è inutile illudersi, non è soltanto un problema

195
Conclusioni

tecnologico di riduzione dell’inquinamento, va affrontato un mutamento


culturale, e non è poco.
Viene da chiedersi se sia più facile risolvere il problema del
mutamento climatico mondiale oppure fare a meno del carcere.
Sicuramente il carcere offre minori difficoltà oggettive, rispetto al
problema ambientale come pure confrontato col problema della
disoccupazione.
Ma per poter affrontare un tale mutamento occorre che ciascuno si
senta parte di quel mutamento: una volta a conoscenza del problema
nessuno ci legittima a tirarci indietro. Sarebbe, questa, una posizione
moralmente non censurabile ma eticamente discutibile, non ce la
possiamo cavare così a buon mercato. Come dice Rusconi nel brano
riportato in conclusione del precedente capitolo, i beni collettivi costano
e bisogna produrli, non nascono da soli.
Sembrerebbe un problema senza soluzioni; però, la cosa importante,
è che l’idea di farla finita con questi sistemi debba entrare nella cultura.
Entrare nella cultura vuol dire che occorre del tempo, molto tempo, ma
da qualche parte bisogna pur iniziare. Per esempio si potrebbe iniziare
dalla formazione delle persone: bisogna che molte persone, nella loro
formazione, acquistino consapevolezza della possibilità di fare
diversamente, a quel punto tutto diviene possibile.
Potremmo intanto porci l’obbiettivo realistico di avere un sistema
carcerario fatto di ventimila detenuti trattati dignitosamente, piuttosto
che sessantamila trattati in maniera disumana. Questo lo potremmo fare
senza molti sforzi, visto che basterebbe applicare le misure alternative
prima del carcere, togliere di mezzo alcune leggi che non servono a

196
Conclusioni

nient’altro che a riempire le galere di poveri disgraziati e,


contemporaneamente, potenziare ed attrezzare meglio l’esterno, magari
valorizzando le potenzialità di un privato sociale che, malgrado tutto,
viene ancora considerato secondario rispetto all’istituto.
La legge Basaglia, per portare un altro esempio, è nata in
conseguenza di un mutamento culturale progressivo che ha portato a
ritenere obsoleti i manicomi e, quindi, a chiuderli. Obbiezione facile
sarebbe, a questo punto, quella di affermare che, in quel caso, poco si è
fatto per attrezzare l’esterno, visto che si sono sì svuotati i manicomi ma
si sono messe in crisi le famiglie, quando i pazienti vi hanno fatto
ritorno, e si sono riempite le strade – e le prigioni – di barboni
psichiatrici. Questo, però, ci dovrebbe servire da monito affinché, nel
caso del carcere, si proceda per gradi e pensando contemporaneamente
allo sviluppo delle soluzioni esterne al carcere.
Si creeranno dei sostituti al carcere? Può darsi. Non ci dobbiamo
stupire di fronte all’ipotesi di equivalenti funzionali del carcere, del resto
il carcere stesso rappresenta un equivalente di altri sistemi più cruenti ma
orientati ai medesimi scopi. Dobbiamo, invece, avere ben chiaro che la
convivenza umana si costruisce storicamente, non è già scritta. Se
abbiamo, qui ed ora, gli strumenti e le conoscenze per poter decidere di
fare a meno del carcere, per poterci assegnare obbiettivi analoghi a quelli
delineati da Mathiesen per arrivare ad una certa data alla chiusura delle
carceri, o, comunque per metterci in cammino verso quella direzione,
vuol dire che avremo ancora più conoscenze e strumenti ancora più
avanzati per affrontare gli eventuali equivalenti funzionali.

197
Conclusioni

I problemi del sistema penitenziario, alcuni dei quali sono emersi


nel corso del presente lavoro, esistono però qui ed ora e non possiamo
aspettare che maturino determinate condizioni per agire nella direzione
del suo superamento. Alcuni elementi assumono, quindi, estrema
rilevanza ed una priorità assoluta. Ad esempio la formazione
professionale di coloro che hanno, a vario titolo, contatto con i detenuti,
a partire dagli educatori penitenziari ma, è bene sottolineare, senza
escludere, anzi considerandolo integrato a pieno titolo, anche del
personale di polizia penitenziaria cui è assegnata per legge una parte
attiva nel trattamento penitenziario169: non è più tempo di guardiani o di
“miopi carcerieri”.
Adriano Sofri, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera
rispose così alla domanda dell’intervistatore che chiedeva da dove
avrebbe dovuto cominciare un politico “lungimirante” per risolvere il
problema del sovraffollamento nelle carceri italiane: “Dalla giustizia.
Infatti quella che viene chiamata «questione carceraria» è la
quintessenza della «questione giustizia». Si continua a separare il
momento del pronunciamento della giustizia dal momento del
trattamento dei corpi.”
“La giustizia si ferma al momento dell’emissione di un verdetto.
Poi l’imputato diventa un corpo che viene passato agli esperti del
trattamento del corpo, che lo buttano in una cella. Invece la chiave di
volta è imparare a tenere in cella solo chi è davvero pericoloso.”

169
Art.5 c.2 della L.395/1990 “Ordinamento del Corpo di Polizia Penitenziaria” : Il Corpo di polizia
penitenziaria attende ad assicurare l'esecuzione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale;
garantisce l'ordine all'interno degli istituti di prevenzione e di pena e ne tutela la sicurezza;
partecipa, anche nell'ambito di gruppi di lavoro, alle attività di osservazione e di trattamento
rieducativo dei detenuti e degli internati […].

198
Conclusioni

“La vera modernità è mettere la gente fuori, non metterla dentro.


Puntando sulla reciproca trasparenza della società esterna e dei luoghi
chiusi”[…] “Per esempio migliorando il sistema delle pene alternative e
dei permessi, che è assolutamente inadeguato. Anche per colpa della
miopia e della sciocca cattiveria di chi applica queste leggi. I carcerieri.
Perché sono loro che, come si dice in gergo carcerario, «scrivono».
Cioè ti fanno un «rapporto» se ti capita un qualunque piccolo incidente.
Poco importano le tue ragioni. Il «rapporto» automaticamente ti toglie
qualunque beneficio. Non dei magistrati, ma alcune persone qualunque
che si trovano a fare gli agenti di custodia in una prigione decidono
della tua libertà, delle tue speranze, delle tue aspettative. E’ giusto?”170.
Naturalmente immediata fu la levata di scudi del Sindacato
Autonomo di Polizia Penitenziaria che indirizzò all’allora ministro
Castelli, una vibrata protesta minacciando azioni legali contro il
“carcerato” (sic) Sofri ed il giornale che aveva pubblicato l’articolo. 171
Tuttavia, dal coro degli agenti, si levò una voce nuova e controcorrente.
Un Commissario di Polizia Penitenziaria rispose, infatti: “[…] è
sbagliato assumere posizioni drastiche come quella assunta dal
sindacato, che addirittura dice di non poter tollerare oltre la libertà
concessa ad un carcerato che fruisce di agevolazioni di giornali

170
Intervista rilasciata da Adriano Sofri, detenuto a Pisa, a Roberto Delera e pubblicata sul Corriere
della Sera del 15 settembre 2004 con il titolo: Sofri: l’indultino? Una beffa, nelle carceri c’è solo
disperazione
171
Così si legge in una nota del Sappe riportata dall’agenzia Ansa il 15 settembre 2004: "[…] Il
Sappe, e tutta la Polizia Penitenziaria si ritengono offesi e vilipesi dalle gravi accuse di «miopia e
sciocca cattiveria» indirizzate dal detenuto Sofri al Corpo, per il solo fatto che i poliziotti penitenziari
(e non «agenti di custodia» o «carcerieri» come ironicamente ci definisce il carcerato) compiono il
proprio dovere elevando rapporti disciplinari a detenuti che infrangono il Regolamento penitenziario.
[…] Non è più possibile per la Polizia Penitenziaria continuare a subire i farneticanti attacchi che un
«signore», condannato e detenuto per gravissimi reati, continua a portare contro un Corpo di Polizia
dello Stato è non più tollerabile che grazie all’uso di mass-media compiacenti un detenuto
condannato definitivamente possa continuare ad offendere lo Stato ed i suoi rappresentanti".

199
Conclusioni

compiacenti. In primo luogo credo che queste affermazioni siano


sbagliate solo per il semplice assunto di non concepire che un detenuto,
che rimane un cittadino privo della libertà personale ma ancora titolare
dei diritti civili costituzionalmente garantiti, possa avere questa
possibilità. Non esistono norme che vietino espressamente la possibilità
di usufruire di queste opportunità […]. In secondo luogo, e questa è la
parte secondo me più grave, si rischia la miopia quando si
stigmatizzano affermazioni di questo tenore, lette senza farle rientrare
nel senso generale contenuto nell’articolo, e si ritiene di essere offesi
dal carcerato che può scrivere liberamente sui giornali. Non è ai
fronzoli che bisogna guardare, a mio giudizio, ma alla sostanza. Un
detenuto parla di condizioni inumane, ed in fondo stuzzica il lettore
sull’azione, che egli giudica miope, del carceriere.”
“Io ritengo che un agente debba segnalare i comportamenti
contrari alle norme regolamentari, per il semplice fatto che rientra nei
suoi doveri. Semmai è al livello decisionale che vanno eventualmente
mosse critiche: non si decide con lo stampino, ma le situazioni riferite
dal personale di polizia sui fatti che sono registrati nel quotidiano
devono assumere, con l’eventuale azione disciplinare, un contenuto
educativo. È questa la ratio della parte di regolamento riserva alle
norme sulla disciplina in ambito penitenziario; non esiste, o meglio non
dovrebbe esistere punizione fine a se stessa, ma la comminazione della
sanzione, lo dicono le norme, devono cercare di sortire l’effetto
educativo nei confronti del sanzionato. E peraltro non esiste
automatismo sancito per norma che precluda ad un detenuto rapportato
di usufruire dei benefici; probabilmente è la magistratura di

200
Conclusioni

sorveglianza che non funziona adeguatamente, perché se si regola solo


sulla presenza o sull’assenza di procedimenti disciplinari per decidere
se concedere o meno un beneficio, allora proprio non ci siamo.”
“Dalla visuale del detenuto l’essere rapportato, per come vanno le
cose, significa non poter sperare nei benefici. Le norme invece
prevedono, per l’accesso ai benefici, anche altri elementi di valutazione,
che insieme al comportamento del soggetto devono portare ad una
valutazione sull’ammissione o meno. Anche questa volta, purtroppo,
credo che ci siamo persi una occasione di sereno e proficuo confronto.
Invece, purtroppo, le occasioni per le polemiche vengono colte al volo,
ed i problemi rimangono al palo.”
“Per finire poi, sul disciplinamento il discorso sarebbe lungo.
Foucault, nel suo "Sorvegliare e punire", ha spiegato molte cose. Credo
che un testo del genere, nell’ambito della formazione del personale di
polizia penitenziaria, sia indispensabile. Ma questi tempi sono lunghi a
venire. Peccato.”172
Quest’ultima nota ci fa capire che il sistema penitenziario non è
omogeneo quanto si pensi; soprattutto continuano a vivere al suo interno
elementi che fanno ben sperare per un suo cambiamento. È su queste
basi che deve poggiare il percorso di modifica del sistema. Non
dobbiamo correre il rischio di gettare il bambino con l’acqua sporca.
Così come esistono agenti lungimiranti e preparati esistono anche
dirigenti, magistrati e politici responsabili, coscienti e motivati di cui non
possiamo fare a meno.

172
Giuseppe Pilumeli, commissario di Polizia Penitenziaria, Comandante presso la Casa Circondariale
di Prato, in una sua lettera pubblicata sul sito www.ristretti.it in data 16 settembre 2004

201
Conclusioni

Per questo riteniamo si debba andare nella direzione di un


superamento del sistema penale attuale partendo dalla sensibilizzazione
di tutti attraverso un coinvolgimento ed una responsabilizzazione
collettiva facendo tuttavia attenzione ad evitare compromessi di comodo,
come il recente indulto. Don Oreste Benzi, a coloro che obbiettavano
sulla reale possibilità di realizzare effettivamente le sue proposte audaci
e proponevano soluzioni di compromesso, rispondeva: “Non dobbiamo
cercare le soluzioni possibili ma rendere possibili le soluzioni”.

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www.ristretti.it: sito del Centro di Documentazione Due Palazzi, attivo


nella Casa di Reclusione di Padova da circa sette anni. Ne fanno parte il
Gruppo Rassegna Stampa e la redazione del periodico Ristretti
Orizzonti. Complessivamente vi lavorano oltre settanta persone, tra
detenuti e volontari esterni.

www.ohchr.org/english/law/treatmentprisoners.htm: sito dell’Alto


Commissariato per i Diritti Umani presso le Nazioni Unite. L’indirizzo
completo riportato conduce al testo delle Regole Standard Minime per il
Trattamento dei Detenuti adottate dal primo congresso delle Nazioni
Unite sulla prevenzione del crimine

www.giustizia.it: sito del Ministero della Giustizia italiano da cui


abbiamo estrapolato molti dei dati statistici del Dipartimento
dell’Amministrazione Penitenziaria utilizzati nel presente lavoro.

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