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L’incredulità del

da

Caravaggio
di Ferdinando Bologna

Storia dell’arte Einaudi 1


Edizione di riferimento:
Ferdinando Bologna, L’incredulità del Caravaggio
e l’esperienza delle «cose naturali», Bollati Boringhie-
ri, Torino 1992 e 1993
© Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino

Storia dell’arte Einaudi 2


Indice

iv. Il «naturalismo» del Caravaggio

1. «Dipinse una fanciulla a sedere sopra una


seggiola (...); la finse per Maddalena»: i
limiti dell’iconologia nella contestazione
del «naturalismo» caravaggesco 5

2. «Imitar bene le cose naturali»:


la dichiarazione d’intenti del Caravaggio
e la testimonianza delle fonti 13

3. «Rem pingendam in conclavi suo tam diu


oculis exponens, donec veritatem colore
assecutus esset»: il «naturalismo» del
Caravaggio come «osservazione» ottica
della «cosa» 20

4. Il quadro dei riferimenti nella cultura


contemporanea: «verificare con la natura»
(G. Bruno); «investigare da sé la natura
delle cose col guardare alle cose stesse»
(T. Campanella); «[Galileo] diceva che
le principali porte per introdursi nel
ricchissimo erario della natural filosofia
erano l’osservazione e l’esperienza, che
per mezzo delle chiavi de’ sensi, da i più
nobili e curiosi intelletti si potevano
aprire» (V. Viviani) 27

Storia dell’arte Einaudi 3


Indice

5. Ancora sul quadro dei riferimenti


nella cultura contemporanea: «le chiavi de’
sensi» (Galileo) e la centralità
dell’esperienza visiva come strumento di
conoscenza nella rivoluzione scientifica;
«non mi fido di nulla se non
della testimonianza degli occhi» (F. Bacon);
«occhi che, se resi vigili, vedono tutto ciò
che è da vedere» (C. Huygens); «vedere
per credere: l’osservazione oculare fa le
veci della dimostrazione» (Comenio).
La cultura pittorica lombarda, le implica-
zioni fiamminghe e il «nominalismo» dei
«Vorläufers Galileis» 46

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Capitolo quarto

Il «naturalismo» del Caravaggio

1. «Dipinse una fanciulla a sedere sopra una seggiola (...); la


finse per Maddalena»: i limiti dell’iconologia nella conte-
stazione del «naturalismo» caravaggesco

L’altra via tenuta dalla critica d’indirizzo iconologi-


co (continuo a chiamarla così per brevità) nel tentativo
di restituire il Caravaggio «al suo tempo» in contrap-
posizione all’interpretazione longhiana, è stata quella di
contestare lo stesso sussistere del suo «naturalismo»:
una contestazione che, già compiutamente spiegata negli
anni anteriori al 1973, è stata ribadita nei successivi
sotto diversi aspetti – e soprattutto mediante l’appello
alla cristologia salvifica della Controriforma –, ma senza
aggiungere nulla che non fosse almeno implicito nelle
tesi prospettate prima.1 Premesso che non di «naturali-
smo» si sarebbe trattato, ma di «realismo», cioè non di
una «brutale mimesi» o di un semplice modo di guardare
oggettivo bensì di un comportamento appartenente
all’ordine etico,2 s’è cercato di mostrare che quel «rea-
lismo», via d’accesso a una realtà «altra», sarebbe intri-
so fino al midollo, e senza mutamenti sostanziali rispet-
to alle pratiche di un passato più o meno recente, di
sensi spiritualistici e intellettuali. Così, specialmente in
quelle opere del maestro – le giovanili – nelle quali
Roberto Longhi e una buona parte della critica a lui vici-
na hanno con maggiore insistenza avvertito la rappre-

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Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

sentazione di frammenti di vita sgombri d’ogni altro


significato, si son voluti rintracciare significati emble-
matici di varia natura, dai quali risulterebbe che anche
il Caravaggio, oltre ad avere attinenze precoci almeno
con i postumi di conventicole eccentriche dell’Italia set-
tentrionale quali l’Accademia della Valle di Bregno di
cui era stato «abate» il Lomazzo,3 fu a parte del più sot-
tile apparato culturale della tradizione cinquecentesca,
nei suoi aspetti letterari, filosofici e morali, ma anche e
specialmente esoterici e simbolico-allegorici. Caravaggio
a mezzo tra Andrea Alciato e Francesco Patrizi, insom-
ma: speculatore scaltrito ed enigmatico di emblemata e
di metafore alchemiche negli attributi iconografici dei
suoi dipinti giovanili d’argomento profano;5 inventore di
opere esoteriche, indecifrabili altro che dalla «devozio-
ne colta dei cardinali», e addette a tessere sotto le alle-
gorie del mito pagano le più raffinate prefigurazioni dei
misteri cristiani in accezione controriformata; ricerca-
tore di onnilucentia, persino in senso magico e miste-
riosofico al modo del Patrizi, nelle virate di luce e negli
«oscuri ingagliarditi» delle sue opere mature.
È stato osservato di recente che il quadro delle let-
ture iconologiche del primo Caravaggio si presenta oggi
non solo «molto tormentato» (vale a dire, caratterizza-
to da proposte interpretative non di rado opposte fra
loro, pur all’interno di una stessa tendenza), ma tale che
in una medesima opera, e in nome di una medesima ico-
nologia, «sembra possibile scoprire tutto e il contrario
di tutto».6 Già Cesare Brandi, per altro, nella sua comu-
nicazione al convegno linceo del 1973 aveva appuntato
le sue critiche proprio contro l’esagerazione di tesi come
quelle or ora riferite,7 trovando consenziente, fra i primi,
chi scrive.8 A me non resta, perciò, che tornare a sotto-
scrivere incondizionatamente quelle critiche. E ne trag-
go motivo per tornare anche in questa occasione sul-
l’assunto che abbozzai allora per la prima volta e a cui

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ho dedicato in seguito trattazioni più analitiche:9 ossia


che l’uso dello strumento iconologico, di per sé capace
di seri progressi interpretativi, ma di cui lo stesso Panof-
sky avvertì presto il rischio di distorsione,10 è obbligato
più degli altri a non smarrire il senso del possibile. Che
invece è stato smarrito tanto spesso, da tanti e in modi
così radicali, da far sbottare anche Ernst H. Gombrich,
il più saggio degli iconologi, in questo sacrosanto memen-
to: «In materia d’iconologia, non meno che nella vita,
la saggezza consiste nel sapere dove fermarsi».11
Il problema è innanzitutto di metodo, giacché se fra
l’«icona simbolica» e la sua concreta attuazione figura-
tiva esiste oggettivamente uno stato di tensione, per
cui occorrerà applicarsi ogni volta a definire il coeffi-
ciente di attrito che dentro quella tensione opera, biso-
gna non perder di vista che, mentre l’«icona simbolica»
tende per sua natura a rimanere uguale a se stessa, pas-
sando di contesto in contesto e d’epoca in epoca, sì da
costituire quel che definiamo una costante tipologica (e
ciò anche nel caso in cui la combinazione dei simboli e
delle allegorie risulti varia, o d’epoca in epoca rinnova-
ta), la concreta attuazione figurativa muta ogni volta, e,
in quanto muta, è essa, solo essa, a caricarsi dei signifi-
cati storici caratterizzanti. L’«icona simbolica» è un
dato comune ed esterno; la concreta attuazione nel lin-
guaggio figurativo è invece singolare e specifica, e in
quanto tale non solo costituisce il «cuore» del significato
di un’opera d’arte, ma è capace di condizionare
l’«icona» stessa. La più aderente storicizzazione di un’o-
pera, perciò, non può non tener conto, sin dal primo
momento, di tale concreta attuazione nel linguaggio
figurativo, e solo su essa autorizzarsi.12
Nel caso del Caravaggio, il quesito metodologico si fa
più acuto che mai, perché il «cuore» pittorico dei suoi
quadri, sempre ineguagliabile nella qualità, fu nuovissi-
mo, e i contemporanei se ne resero conto subito, al

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punto che, dopo aver «visto» solo «quel che si vede»,


non tardarono a percepire distintamente anche il carat-
tere accessorio, addirittura fittizio, che gli «emblemi»
avevano assunto nel contesto di un «cuore» pittorico
così rinnovato. Ecco le descrizioni gia del tutto «sgom-
bre» – certo per prevalenti motivi catalografici, ma non
senza una ragione fortemente sintomatica scaturita dal
carattere dei dipinti stessi –, con cui talune delle opere
giovanili del maestro, vivi ancora il pittore e i suoi com-
mittenti, sono identificate nell’inventario del fiscale di
Paolo V redatto nel 1607: «Un quadro di un giovane che
tiene un canestro di frutti in mano», «Un altro qua-
dretto con un giovinotto con la Ghirlanda d’hellera
intorno, et rampaccio d’uva in mano», «un putto in
tavola con un pomo in mano».13 Al di fuori di un’occa-
sione così «fiscale», non è meno anodino anche il modo
con cui i biografi testimoni degli avvenimenti, il Man-
cini e il Baglione, ci hanno tramandato i titoli di talune
delle stesse opere elencate nell’inventario suddetto e di
altre compagne e coeve. «Un putto che piange per esse-
re stato morso da un racano, che tiene in mano», «Un
putto che mondava una pera con il cortello», «Una Zin-
gara che dà la Bonaventura ad un giovanetto» (Manci-
ni); «Un Bacco con alcuni grappoli d’uve diverse», «Un
fanciullo che da una lucerta, la quale usciva da fiori e da
frutti, era morso», «Una musica di alcuni giovani ritrat-
ti dal naturale», «Un giovane che sonava il lauto»
(Baglione): son tutte descrizioni impassibilmente crona-
chistiche, quasi minimizzanti nella loro pura oggetti-
vità, che dovremmo considerare esempi d’ignoranza, o
di stupefacente sordita culturale e religiosa, qualora le
opere corrispondenti celassero davvero quel che s’è volu-
to sostenere. Ma il fatto capace di apportare un chiari-
mento definitivo fa tutt’uno col criterio in base a cui il
consumato iconografo Giovan Pietro Bellori, il quale
certo deplorava ciò che era costretto a costatare, ma

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costatava con mente lucida, lesse La Maddalena oggi in


casa Doria Pamphilj a Roma:

nel trovare e disporre le figure (...), egli si fermava a quel-


la invenzione di natura, senza altrimente esercitare l’inge-
gno. Dipinse una fanciulla a sedere sopra una seggiola con
le mani in seno in atto di asciugarsi li capelli, la ritrasse in
una camera, ed aggiungendovi in terra un vasello d’un-
guenti, con monili e gemme, la finse per Maddalena.14

Il senso ultimo del passo, a mio modo di vedere,


risiede nell’affermazione conclusiva: «la finse per Mad-
dalena». E tale affermazione prende forza dalla pre-
messa, sebbene negativa: «egli si fermava a quella inven-
zione di natura, senza altrimente esercitare l’ingegno»,
nonché dal giudizio, pur esso negativo, che si legge qual-
che riga a dietro: «lasciando da parte gli altri pensieri
dell’arte».15 Bellori, insomma, intende che per il Cara-
vaggio il primum era la rappresentazione pittorica di
una «fanciulla a sedere ecc.»; «fingerla per Maddalena»,
costituiva un’operazione subordinata. E infatti il rap-
porto fra i due momenti – intende sempre Bellori – può
essere illustrato ricostruendo così il ragionamento del-
l’artista: «Premesso che nella vita terrena, e prima di
farsi santa, la Maddalena fu una ragazza non proprio
morigerata, ma simile a tutte le altre, che stanno a sede-
re nella loro stanzetta, si pettinano, si adornano e si
improfumano; dipingerò semplicemente una fanciulla
che si asciuga i capelli. Dirò solo dopo che questa è la
Maddalena. Ma la cosa importante è che tanto meglio
conseguirò l’intento di rappresentare la Maddalena come
quella semplice donna di questo mondo che di fatto fu,
quanto più intensa ed esistenzialmente credibile riu-
scirò a rendere la rappresentazione della fanciulla». Con-
siste appunto in questo il «fermarsi all’invenzione della
natura (...), lasciando da parte gli altri pensieri dell’ar-

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te». E non v’è bisogno di aggiungere che il ragiona-


mento così ricostruito integra in modo diretto quello che
s’è tentato di ricostruire più a dietro a proposito della
posizione del Caravaggio nei confronti delle norme
paleottiane, specialmente in rapporto al fatto che il mae-
stro, nella rappresentazione delle storie dei santi, aveva
deciso di scegliere «le particolari [loro] azzioni, [che o
sono] conformi necessariamente alla verita, [o] sono
state vere, [ancorché] non sono così notabili e conosciute
dal popolo e (...) induchino novità».16
Naturalmente, il Caravaggio non si comportò in
modo diverso – né, date le premesse, avrebbe potuto –
nei confronti dei temi mitologici o profani, e degli
emblemi veri e propri; i quali, anzi, furono il vero
banco di prova, anche sotto il riguardo della preceden-
za cronologica, su cui le sue petizioni di principio ven-
nero definendosi. Egli rappresentò senza dubbi Bacco
e Amor vincitore; possiamo anche ammettere – per
quanto sia molto difficile provarlo – che conoscesse il
valore emblematico dell’edera e del pallore come sim-
boli del poeta secondo l’Alciato,17 o le implicazioni pla-
tonizzanti connesse con la musica e i suoi strumenti;18
o anche, com’è stato suggerito di recente e più a dietro
abbiamo ricordato, il diverso valore emblematico che
l’attributo dell’edera (magari congiunto a quello delle
unghie sporche) aveva assunto nel culto primitivo e
parodistico di Bacco seguito a Milano dall’Accademia
della Valle di Bregno di cui era stato «abbate» il
Lomazzo sotto il nome di «Compa’ Zavargna», impron-
tandolo al folklore e al gergo popolaresco che alcuni
«facchini» portatori di vino, provenienti appunto dalla
Val di Bregno che si svolge sotto il ghiacciaio di Adula
in Ticino, avevano introdotto nella capitale lombar-
da.19 Ma l’essenziale è che, avendo avvertito per tempo
«l’impossibilità di un recupero archeologico dei sog-
getti tradizionali» (come scrisse Longhi);20 epperò non

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Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

solo perché considerò il soggetto mitologico (come sem-


pre Longhi giudicava) «un flatus vocis da poterlo affib-
biare oggi a questo torbido garzonetto di osteria roma-
na incoronato di pampini ecc.»;21 il Caravaggio volle
ridurre, anzi, ripristinare tutto ciò al mondo della con-
tingenza. Nel momento in cui il mito faceva ancora una
cosa sola con la vita, e la «favola» non era stata anco-
ra tipizzata in un’ipostasi esemplare, Bacco non poté
essere che un ragazzotto ubriacone dalle unghie spor-
che, identico al «garzonetto di osteria romana» di cui
diceva Longhi, il quale s’è messo per celia attorno al
capo certe fogliacce di vite, o un ramo di edera fresca;
il pallore del poeta, se può mai esser preso per un poeta
nel senso aulico dell’Alciato quel giovinastro che l’im-
persona nel quadro Borghese, s’identifica con il colore
verdognolo dell’itterico; il platonismo della musica non
può andare più in là dell’aspetto fisico dei cantatori e
della consistenza lignea dei liuti e dei violini; Amore
stesso poté essere solo un adolescente protervo ed esi-
bizionista, che appiccicatesi alle spalle due ali finte e
impugnando un mannello di frecce ostenta la nudità del
suo corpo e del suo sesso; edera, pampini, uve, vino e
unghie sporche, prima d’essere simboli o metafore ver-
bali, erano e sono cose o aspetti della vita, vegetale o
umana. Nei quadri caravaggeschi d’argomento profano,
per altro, l’intento polemico e dissacratore è più che mai
in evidenza, teso a stabilire per partito preso un attri-
to fortissimo tra l’evidenza oggettiva, aderente all’e-
sperienza quotidiana più comune, e la «finzione» colta;
intento polemico e dissacratore che se pure incluse mai
fra i suoi ascendenti culturali le eccentricità parodisti-
che dell’Accademia della Valle di Bregno, certo le sor-
passò e travolse, revocando anch’esse dall’intellettuali-
smo peculiare della mentalità di un Lomazzo al grado
zero dell’esistente, giusto come stava accadendo negli
stessi mesi – e ancor più sistematicamente sarebbe acca-

Storia dell’arte Einaudi 11


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

duto di lì a poco, bensì con propositi galileianamente


sempre più costruttivi – nel caso delle storie sacre.22
Una prova ultima, d’altronde, della realtà storica di
tutto ciò (nonché della capacità di espandersi e produr-
re effetti già nell’immediato che resta il requisito-con-
dizione di ogni realtà storica efficiente), è costituita dal
fatto che appena qualche decennio più tardi fu esatta-
mente tutto questo a riemergere nelle «mitologie» di un
Diego Velázquez. Non risulta che la critica specializza-
ta l’abbia rilevato espressamente;23 ma quando si affer-
ma che in Los borrachos il tema bacchico «è interpreta-
to col tono e il carattere di un avvenimento quotidiano,
realistico; il modello del Bacco è un robusto giovanotto
(...) lontano da qualsiasi stilizzazione paganeggiante»,
oppure che nella Fucina di Vulcano «gli dèi sono esseri
umani, gli scenari quelli di tutti i giorni, le azioni di una
verità assoluta», o ancora che nel Marte in riposo, nono-
stante i ricordi dell’Ares Ludovisi o del Pensieroso di
Michelangelo, il modello effettivo è «un soldato dai
grandi baffoni, come uno spagnolo del tempo poteva
immaginare dovesse essere uno che esercitava il mestie-
re della guerra»;24 quando si afferma tutto questo, non
occorrono sforzi ermeneutici particolari per dedurne
che, in termini di storia culturale, quelle raffigurazioni
raccolgono e proseguono giusto lo stesso ordine di idee
grazie al quale il Caravaggio (non temo la ripetizione)
aveva ottenuto di attualizzare il mito istituendo un attri-
to fortissimo fra l’evidenza oggettiva e la «finzione»
colta: ossia si era adoprato a sbarazzarlo, con polemica
apertamente dissacratoria, delle incrostazioni rimorte
di cui secoli d’intellettualismo l’avevano avvolto, per
restituirlo alla sua originaria realtà di puro accadimen-
to umano.

Storia dell’arte Einaudi 12


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2. «Imitar bene le cose naturali»: la dichiarazione d’intenti del


Caravaggio e la testimonianza delle fonti

Tutto ciò rimarrebbe ancora nell’indeterminato dal


punto di vista della concreta costituzione figurativa, se
non collocassimo al centro del problema questo fatto:
che il Caravaggio, sia nei quadri d’argomento profano,
sia in quelli d’argomento sacro, riuscì tanto meglio nel-
l’intento di richiamare la mitografia o il tema agiogra-
fico all’evidenza della condizione esistenziale di base,
quanto più a fondo impegnò la ricerca pittorica in una
direzione che, messi da parte i falsi pudori, e procu-
rando di restituire al termine il preciso significato sto-
rico che gli compete nella congiuntura in questione, non
possiamo non definire «naturalistica». Siamo obbliga-
ti a prendere atto, insomma, che la ricerca «naturali-
stica» in senso pittorico, lungi dall’essere il ricetto
ambiguo e meramente occasionale di simboli eruditi o
di emblemi soteriologici, fu per il maestro il cuneo che
fa saltare entrambi, ponendosi come tale proprio per-
ché si pone come momento primario della rappresenta-
zione e si definisce nella sua autonoma specificità di lin-
guaggio. Subito dopo aver detto della «finzione» ico-
nografica nella Maddalena Doria, Bellori passa infatti a
osservare l’aspetto specifico del dipinto, analizzando
con grande finezza l’oggettivazione pittorica della rap-
presentazione:

Posa alquanto da un lato la faccia e s’imprime la guan-


cia, il collo e ’l petto in una tinta pura, facile e vera, accom-
pagnata dalla semplicità di tutta la figura, con le braccia in
camicia e la veste gialla ritirata alle ginocchia dalla sottana
bianca di damasco fiorato. Quella figura abbiamo descrit-
ta particolarmente per indicare li suoi modi naturali e l’i-
mitazione in poche tinte sino alla verità del colore.1

Storia dell’arte Einaudi 13


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

Ma Bellori pubblica Le vite nel 1672: si potrebbe


obiettare che questa è già un’interpretazione. Ecco, allo-
ra, cosa scrisse Karel van Mander nel 1603, sulla base
delle relazioni avute da Roma fra il 16oo e il 16o1 dal
connazionale Floris Claeszoon van Dyck, Caravaggio
presente e operante:

Egli dice (...) che tutte le cose non sono che bagattelle,
fanciullaggini o baggianate, chiunque le abbia dipinte, se
non sono fatte e dipinte dal vero, e che non vi può esser
nulla di buono o di meglio che seguire la natura. Perciò egli
non dà un sol colpo di pennello senza attenersi stretta-
mente al modello vivo, che copia e dipinge.2

In materia di «naturalismo» caravaggesco, del resto,


le fonti sono concordi. Può darsi che l’aggettivo natura-
lista, fino a quel momento inedito – a quanto pare –
come termine definitorio specifico della storiografia arti-
stica, s’incontri riferito al Caravaggio solo nel 1657:
precisamente, a opera del medico forlivese Francesco
Scannelli, il quale nel Microcosmo della pittura, tra
apprezzamento e riprovazione, chiama il Merisi appun-
to «primo capo de’ naturalisti»;3 ciononostante è indub-
bio che nell’opinione che venne formandosi sul pittore,
e non senza la partecipazione del pittore stesso, il con-
cetto a cui quell’aggettivo corrisponde fu di dominio
pubblico fin dai primi momenti e a tutti i livelli.
Al processo del settembre 1603 – quando la notizia
divulgata a stampa dal Van Mander, ma di provenienza
romana, aveva risalito l’Europa da non meno di due anni
–, il Caravaggio in persona affermò che in pittura è
«valenthuomo» chi sa «depinger bene et imitar bene le
cose naturali».4 Nello stesso giro di tempo, se non prima,
un amico personale del maestro, Marzio Milesi, affermò
in versi: «fingha pur le cose altri, adombri e lustri, / voi
vive e vere l’arrecate»: e più a dietro abbiamo rilevato

Storia dell’arte Einaudi 14


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

che qui è offerta una chiave interpretativa addirittura


moderna dell’arte del Merisi.5 Risale alla fine del 16o8
l’episodio, narrato nel 1613 dall’archeologo Vincenzo
Mirabella, per il quale, giusto in forza dell’osservazio-
ne, oltre che dell’imitazione, della «natura» da parte del
Caravaggio, il carcere siracusano della latomia del Para-
diso si ebbe il nome di «Orecchio di Dionisio»:

E mi si ricorda che avendo io condotto a veder questa


carcere quel pittore singolare de’ nostri tempi Michel Ange-
lo da Caravaggio, egli considerando la fortezza di quella,
mosso da quel suo ingegno unico imitatore delle cose della
natura, disse: «Non vedete voi come il tiranno per voler
fare un vaso che per far sentire le cose servisse, non volse
altrove pigliare il modello, che da quello che la natura per
lo medesimo effetto fabbricò? Onde ei fece questa carcere
a somiglianza d’un orecchio». La qual cosa sì come prima
non considerata così dopo saputa, ed esaminata ha portato
a’ più curiosi doppio stupore.6

Persino l’«avviso» del 28 luglio 161o, che divulgò la


notizia della morte del pittore «seguita di suo male in
Port’Ercole», curò di definirlo «famoso et eccellentissi-
mo nel colorire et ritrarre del naturale». Venendo al
seguito del dibattito storiografico, e pur prendendo sem-
pre più fiato l’intento limitativo, troviamo che fra il
1607 e il 1615, nel frammento di Trattato steso duran-
te quegli anni, il bolognese monsignor Agucchi include
questo giudizio: Caravaggio «si deve comparare a Deme-
trio, perche ha lasciato indietro l’Idea della bellezza,
disposto di seguire del tutto la similitudine».8 Nel 1619,
pendendo dal lato opposto, Gerolamo Borsieri ribadisce
in positivo il concetto: «(...) secondo la via aperta per
Michel Angelo da Caravaggio, il quale è stato così dili-
gente, ed ingegnoso imitatore della natura, che dove gli
altri pittori sogliono promettere esso ha fatto».9 Giulio

Storia dell’arte Einaudi 15


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

Mancini, estendendo la considerazione anche ai segua-


ci del maestro, e muovendosi quasi in contemporanea
con Agucchi, scrive da parte sua: «questa schola [la
caravaggesca] è molto osservante del vero, che sempre
lo tien davanti mentre che opera (...)»; e aggiunge: «ma
nella composizione dell’istoria ed esplicar affetto, pen-
dendo questo dall’Immaginazione e non dall’osservan-
za della cosa, per ritrarre il vero che tengon sempre
avanti non mi pare che si vagliano».10 Dove, insieme
all’innegabile efficacia definitoria della dizione «osser-
vanza della cosa», è notevole anche la dichiarazione
d’inconciliabilità fra immaginazione e imitazione del
vero. Nel 1633, introdotto il discorso su «Michael Ange-
lo de Carabaggio», Vicente Carducho esce in quest’al-
tra esclamazione:

Quien pintó jamás y llegó á hazer tan bien como este


monstruo de ingenio, y natural, casi hizo sin preceptos, sin
doctrina, sin estudio, mas solo con la fuerça de su genio, y
con el natural delante, a quien simplemente imitava con
tanta admiración?11

Nel 1638 trattando di Velázquez, e perciò testimo-


niando almeno in implicito che l’opinione aveva rag-
giunto la penisola iberica già vari anni prima che Car-
ducho scrivesse, Francisco Pacheco trova il modo di far
sapere che suo genero Diego, il nuovo astro della pittu-
ra spagnuola, «segue Caravaggio nel tener sempre
davanti il modello naturale».12 Dopo Scannelli, che
all’invenzione terminologica di cui s’è detto aggiunge la
caratterizzazione di «tremenda naturalezza» per opere
del Merisi come l’Emmaus ora a Londra,13 anche Bello-
ri fa una serie di affermazioni del medesimo tenore:

si fissò intento a riguardare la natura;

Storia dell’arte Einaudi 16


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

si propose la sola natura per oggetto del suo pennello;

distese la mano verso una moltitudine di uomini, accen-


nando che la natura l’aveva a sufficienza proveduto di mae-
stri;

perché egli aspirava all’unica lode del colore, siché paresse


vera l’incarnazione, la pelle e ’l sangue e la superficie natu-
rale, a questo solo volgeva intento l’occhio e l’industria,
lasciando da parte gli altri pensieri dell’arte; si fermava a
quella invenzione di natura, senza altrimente esercitare
l’ingegno;

li giovini concorrevano a lui e celebravano lui solo come


unico imitatore della natura (...), ciascuno trovava facil-
mente in piazza e per via il maestro e gli esempi nel copia-
re il naturale;

professavasi egli inoltre tanto ubbidiente al modello che non


si faceva propria né meno una pennellata, la quale diceva
non essere sua ma della natura.14

E si potrebbe continuare, fin dove, a introduzione


delle mini-biografie dei caravaggeschi «che hanno mag-
gior nome», ritorna addirittura il termine categorizzan-
te che lo Scannelli aveva introdotto quindici anni a die-
tro e che lo stesso Bellori aveva ripreso nell’Idea del
1664:15 «Molti furono quelli che imitarono la sua manie-
ra nel colorire dal naturale, chiamati perciò naturalisti».
Ma persino Giambattista Marino, nei versi scritti in
morte del maestro e riportati in extenso dallo stesso Bel-
lori, si esprimeva così:

Fecer crudel congiura


Michele a’ danni tuoi Morte e Natura;
questa restar temea

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Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

da la tua mano in ogni imagin vinta,


ch’era da te creata, e non dipinta;
quella di sdegno ardea,
perché con larga usura,
quante la falce sua genti struggea,
tante il pennello tuo ne rifacea.16

Finalmente nel 1724, nonostante il gran tempo tra-


scorso, anche il messinese Susinno ribadisce il punto,
echeggiando manifestamente il Bellori, ma in termini
ulteriormente messi a fuoco:

Stesa la mano verso una moltitudine di uomini, sog-


giunsegli: or questo è il mio Raffaello. La pittura altro non
è che una imitazione perfetta della natura; e siccome un
savio antico disse: I ritratti non son buoni se sono miglio-
ri dell’originale; soleva egli perciò asserire che allora son
pregiate le pitture, quando son somiglianti alla verità delle
cose, e che bastantemente la natura avealo provveduto di
maestri. Da queste sinistre massime [la mentalità e la super-
stizione precettistica degli accademici avevano fatto passi
rilevanti!] ne seguì che in lui non si trovò mai invenzione,
decoro di storie, disegno, né scienza dell’arte pittoresca,
mentre collo sprezzar ogni precetto, riputava sommo arti-
ficio non essere obbligato all’arte.18

Un così vasto accordo di testimonianze e pareri anti-


chi sul programma del Caravaggio a «seguire la natura»,
«imitar bene le cose naturali», «arrecar vive e vere le
cose», «seguire del tutto la similitudine», stare «all’os-
servanza della cosa», tener sempre «el natural delante,
a quien simplemente imitava con tanta admiración»,
«proporsi la sola natura per oggetto del suo pennello»,
«pregiare le pitture solo quando son somiglianti alla
verità», non può non essere estremamente indicativo per
chi abbia ancora senso storico.

Storia dell’arte Einaudi 18


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

Ma prima di venire a precisare in quale direzione


tutto questo sia indicativo, conviene prevenire un equi-
voco. Come tutti ormai sanno più che bene, in arte non
s’è mai data, ne è per darsi una forma di così radicale
rispecchiamento della realtà, da generare l’immedesi-
mazione dell’opera con il suo modello. Anche la gno-
seologia moderna insegna che l’uomo non conosce per
semplice rispecchiamento, ma per astrazioni successive.
Riadoperando una terminologia di moda, dovremo allo-
ra dire che l’arte produce sempre una natura «iconolo-
gizzata», e i mutamenti dell’arte non fanno che sosti-
tuire un tipo di «iconologia» della natura a un altro. Per
dirla con parole comuni, gli artisti non dipingono la
natura, ma solo ciò che sanno di essa e avanzano a misu-
ra che muta questo loro sapere. Ciò vale anche per i
movimenti astratti e perfino per le tendenze di un pas-
sato molto recente che si sono fondate sull’«oggettua-
lizzazione», sul «comportamento», sulla «concettualiz-
zazione». Deve essere perciò ben chiaro che il pro-
gramma «naturalistico» enunciato dal Caravaggio in
persona al processo del 1603, e illustrato dalle fonti
riferite, va inteso nel senso che il Merisi volle sostitui-
re a quello vigente, o più comunemente ricevuto, un
diverso modo di porsi dinanzi al «vero». Ne consegue
che tal diverso modo non può essere apprezzato se non
in rapporto alle reali condizioni dell’arte nel momento
in cui quel programma fu definito.
Era stato così già per Giotto e Masaccio, che i con-
temporanei elogiarono con uguale unanimità perché
pareva loro che avessero restaurato l’imitazione della
natura. Oggi sappiamo che l’intervento di quei maestri
non si limitò a un programma così semplice, anche se il
loro «naturalismo» fu una componente importante del-
l’operazione che portarono a buon fine. Ma il giudizio
conserva in tutta la sua interezza un adeguato valore sto-
rico se consideriamo che Giotto reagì al formalismo

Storia dell’arte Einaudi 19


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

bizantineggiante e andò oltre la parte di «vero» intra-


vista da Cimabue, Masaccio rifiutò gli schematismi
astrattivi della pittura tardo-trecentesca e l’indetermi-
nazione formale dei movimenti tardogotici.
In definitiva, ciò equivale a dire che il compito dello
storico moderno è sì di definire l’«iconologia» che il
Caravaggio elaborò; ma, prima di abbandonarsi a rites-
sere le trame della rete esclusivamente intellettualistica
che di solito si dà per presupposta in ogni sistema ico-
nologico – quasi che i sistemi iconologici fossero poi
tutti equivalenti, e Caravaggio potesse presentare pro-
blemi di metodo interpretativo simili a quelli di un arti-
sta medievale o del Rinascimento –, dobbiamo doman-
darci se il Merisi non attribuisse un significato nuovo e
speciale all’«imitazione della natura».
Emerge così il problema centrale dell’arte caravag-
gesca: che cosa esattamente il maestro intendesse per
«natura» e in che cosa consistesse l’«imitazione» che
egli ne predicava.19

3. «Rem pingendam in conclavi suo tam diu oculis exponens,


donec veritatem colore assecutus esset»: il «naturalismo»
del Caravaggio come «osservazione» ottica della «cosa»

Fatta questa indispensabile, anche se probabilmente


ovvia, precisazione, proviamoci a riferire i giudizi delle
fonti alle reali condizioni in cui l’arte si trovava quan-
do il Caravaggio comparve.
Ognuno sa che queste condizioni erano caratterizza-
te, in rapida sintesi, dagli estremi bagliori del manieri-
smo, dagli accomodamenti dei riformati, dal ritorno alla
tradizione classica e rinascimentale degli idealisti. In
oltre la stessa dottrina che l’arte è imitazione, rispec-
chiamento, era vigente fin dall’antichità e non era stata
mai contestata.1 Durante il secolo xvi il principio era

Storia dell’arte Einaudi 20


stato ribadito frequentemente, inclusi il Vasari e il
Lomazzo,2 e persino nel Paleotti s’incontra questa defi-
nizione: «Diciamo che per imagine noi pigliamo ogni
figura materiale prodotta dall’arte chiamata il dissegno
e dedotta da un’altra forma per assomigliarla».3 Dal
Paleotti, per altro, abbiamo già udito affermare che
«l’officio del pittore [è] l’imitare le cose nel naturale suo
essere e puramente come si sono mostrate agli occhi de’
mortali».4 Al tempo del Caravaggio, queste massime
erano condivise, con varia gradazione ma senza ecce-
zioni, sia dai manieristi, sia dai riformati, sia dai classi-
cisti, e conosciamo bene che effetti producessero nella
visione del mondo di costoro, volta a volta preconcetta,
accomodata o selezionata. Il principio dell’imitazione
era divenuto anch’esso un luogo comune, un topos dispo-
nibile, a cui ciascuno poteva allacciare programmi che
non ne avrebbero salvato altro che la scorza.
Viceversa, la carica senza dubbi polemica che carat-
terizza le dichiarazioni del Caravaggio in persona, non-
ché l’insistenza delle fonti, le quali si spingono a rileva-
re – quasi sempre, come s’è visto, con deplorazione e
con scandalo – il netto contrasto esistente fra l’imita-
zione indiscriminante che il Merisi aveva preteso d’im-
porre e l’«elezione delle migliori forme» che gli altri ave-
vano seguito a preferenza, lasciano intendere chiara-
mente che questa volta si era trattato di cosa del tutto
diversa. Se finalmente ci risolviamo ad appellarci alle
opere, le quali nel loro testo pittorico specifico (non ci
stancheremo mai di ripeterlo) restano ancora una volta
l’unico banco di prova autorizzante, difficilmente potre-
mo trovarci in disaccordo sul fatto che il Caravaggio
spinse il principio dell’«imitazione» alle conseguenze
estreme, restituendolo per la prima volta nella storia
moderna alla lettera del suo significato elementare.
Fissato, almeno in linea di massima, questo punto
principalissimo, già la notazione del Mancini su cui ho

Storia dell’arte Einaudi 21


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

tentato di attirare l’attenzione più sopra, che il Cara-


vaggio tenne per massima centrale del dipingere l’«osser-
vanza della cosa», può soccorrere ad assegnare un signi-
ficato non generico a quanto si ritrova sempre anche alla
base delle interpretazioni moderne del Longhi: che il
maestro «osservò» la cosa e la ricondusse al suo aspet-
to «feriale». In effetti, l’espressione impiegata dal Man-
cini, che in definitiva equivale ad «attenersi rigorosa-
mente alla cosa», ha a che fare con un’idea disciplinare
di «osservanza» equivalente in primo luogo a ubbidien-
za, rispetto deferente, ossequio; ma proprio per questo,
specialmente perché segue all’espressione «molto osser-
vante del vero» e riguarda un dato moralmente incapa-
ce d’imporre disciplina come la «cosa», essa acquista un
valore intensivo. Rapportata al metodo della «schola»
naturalistica del Caravaggio, «osservanza» diviene così
sinonimo di «osservazione». Di qui un trapasso per il
quale l’«osservazione» del Caravaggio e della sua «scho-
la», in quanto si propone di accedere alla «cosa» senza
intermediari («il vero che tengon sempre davanti»), e al
tempo stesso si dimostra fondata sulla reiterazione e
sulla sistematicità (il Mancini ripete due volte che la
«schola» del Caravaggio ritrae il vero «che sempre lo tien
davanti», e impiega entrambe le volte l’aggettivo «sem-
pre»), finisce col rivelare un criterio sperimentale di
tipo moderno: un atteggiamento nuovo per l’arte, che
nell’immediatezza del rapporto con l’oggetto tenuto
«davanti», e nella sistematicità con cui quel rapporto si
stabilisce e si ripete, annuncia una componente addirit-
tura scientifica. Questo punto risulta chiarissimo, del
resto, dal referto pubblicato nel 1613 da Vincenzo Mira-
bella circa le cose dette dal Merisi a Siracusa durante la
visita del 16o8 all’«Orecchio di Dionisio».5 Facendo
conoscere quel passo per la prima volta, Longhi lamentò
il «tono troppo accademico e direi “notomico” che l’os-
servazione “naturalistica” del Caravaggio» avrebbe

Storia dell’arte Einaudi 22


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

assunto in quell’occasione;6 ma il dato importante è che


si trattò appunto di un’osservazione naturalistica, e che
il testimone si accorse perfettamente sia dell’ecceziona-
lità di essa, sia della specie dei suoi moventi. Secondo
la narrazione del Mirabella, il maestro scoprì (è il caso
di adoperare la parola) che la prigione siracusana è
costruita «a somiglianza d’un orecchio», in base a una
costatazione resa possibile – questo è il punto – dalla
consuetudine del suo «ingegno» con l’«imitazione [leggi:
studio intensivo] delle cose della natura»: «consideran-
do la fortezza di quella, mosso da quel suo ingegno unico
imitatore delle cose della natura, disse ecc.». Non deve
sfuggire, per altro, che sempre in base a quel genere di
«considerazione» il Caravaggio diede della circostanza
una spiegazione squisitamente sperimentale, addirittu-
ra funzionalistica: «Non vedete voi come il tiranno per
voler fare un vaso che per far sentire le cose servisse,
non volse altrove pigliare il modello, che da quello che
la natura per lo medesimo effetto fabbricò?» Altro che
«tono accademico e notomico»! Qui si tratta d’un
discorso già «galileiano» (nell’accezione che cercherò di
chiarire meglio più avanti), attento senza remore a
«quello che l’esperienza e il senso ci dimostra»; tale, per
giunta, da fornire una spiegazione flagrante di ciò che
nel metodo del Caravaggio significasse effettivamente
l’«osservanza della cosa», e di quali fossero i percorsi
conoscitivi sui quali questa «osservanza» si basava.
Venendo all’identificazione degli strumenti concreti
impiegati dal Merisi in questi percorsi, e perciò a rilie-
vi propriamente pittorici, può essere d’aiuto appellarci
di nuovo alla puntualizzazione del Bellori, secondo il
quale il Caravaggio, «perché (...) aspirava all’unica lode
del colore, siché paresse vera l’incarnazione, la pelle e ’l
sangue e la superficie naturale, a questo solo volgeva
intento l’occhio e l’industria, lasciando da parte gli altri
pensieri dell’arte».7 Se non vedo male, ciò consente di

Storia dell’arte Einaudi 23


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

progredire verso il riconoscimento che, perseguendo il


suo programma, il maestro non solo contestò la sempre
affermata priorità della selezione intellettuale assegna-
ta dalle scuole al «disegno» – in quanto opposto al colo-
re, o suo ineliminabile supporto –, ma concepì in puro
colore quella sua straordinaria «presa diretta» attri-
buendo all’«occhio» – citato espressamente dal Bellori
insieme all’«industria», e con l’aggettivo «intento» che
nei dizionari equivale a «fissamente volto a qualche
cosa» – il ruolo di strumento essenziale nell’investiga-
zione della consistenza fisica delle cose: «siché paresse
vera l’incarnazione, la pelle e ’l sangue e la superficie
naturale», sotto la rifrazione rivelatrice della luce e il
giuoco delle ombre. La comprensione della natura «otti-
ca» delle «osservazioni» pittoriche caravaggesche è un
altro merito indiscutibile degli studi di Roberto Longhi;8
ma questo è un punto che, in anticipo sul Bellori e con
una perspicuità degna d’una considerazione che nessu-
no s’è finora mostrato disposto ad accordare, si trova
attestato a tutte lettere nella Teutsche Academie di Joa-
chim von Sandrart, una delle fonti illuminanti per l’in-
telligenza del «vero» Caravaggio:

(...), Italorum primus relicta veteri methodo simplicis-


simam sequebatur naturam atque vitam: unde numquam
penicillum nisi ad viva exemplaria applicabat, rem pingen-
dam in conclavi suo tam diu oculis exponens, donec veri-
tatem colore assecutus esset.9

A integrazione di quanto si riesce a ricavare inter-


mittentemente da tutti gli altri biografi, e anche dal
Bellori, noi troviamo qui spiegato distesamente che
l’applicare il pennello a nient’altro che al modello vivo
tenuto davanti (la formula è ripresa evidentemente dal
Van Mander), o, in altri termini, l’«osservanza della
cosa» di cui aveva parlato Giulio Mancini, per il Cara-

Storia dell’arte Einaudi 24


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

vaggio consiste appunto nella reiterazione di un espe-


rimento che non può non essere definito ottico nel
senso specifico: tenere l’oggetto da dipingere esposto
tanto a lungo ai propri occhi nel proprio studio, fino a
raggiungerne col colore la verità. A considerar bene,
«rem pingendam in conclavi suo tam diu oculis expo-
nens, donec veritatem colore assecutus esset» è un’e-
spressione intercambiabile con la terminologia tecnica
dei fotografi d’oggi; e ciò perché tira in causa non meno
la parola che il concetto di «esposizione», con cui
appunto i fotografi indicano la lunghezza del tempo
durante il quale bisogna che una superficie sensibile
rimanga esposta alla luce attraverso l’«occhio» dell’o-
biettivo, affinché resti «impressionata».
Per tornare al Longhi, non si può altresì non ricor-
dare come, citando il Baglione dove afferma che i primi
quadri del Caravaggio furono «da lui nello specchio
ritratti», egli ne ricavasse non solo che il maestro aveva
in realtà deciso «di ritrarre le cose dallo specchio, ma
senza che esso appaia nel quadro», bensì che egli s’era
comportato così perché, avendo «la rétina, da sé sola,
un campo visivo sempre sfocante, svagante», «era
meglio stagliarlo come ci appare nel quadro veridico
dello specchio che ci dà sempre l’“unità del frammen-
to” immerso nella sua luce»; s’era comportato così,
insomma, perche il «sodo dello specchio vero gli dava
finalmente il vano della visione ottica già al colmo di
verità e privo di vagheggiamenti stilizzati», pervenen-
do «a scoprire – e fu quasi una scoperta scientifica, fu
in ogni caso un’esperienza – la sua personale, empirica
“camera ottica”: ciò che meno sorprende ai tempi del
Porta e, ormai, di Galilei».10
«Osservanza della cosa» come osservazione della
natura in quanto mondo della verità effettuale; autono-
mia mentale rispetto a «tutti gli altri pensieri dell’arte»,
alias alla codificazione disciplinare della correzione for-

Storia dell’arte Einaudi 25


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

male e del «decoro»; sistematicità e reiterazione inten-


siva dell’osservazione, fino a cogliere le ragioni di neces-
sità strumentale nella forma delle cose di natura; fun-
zione privilegiata dell’«occhio» fisico, accanto all’«indu-
stria», nella percezione e nella trasposizione pittorica
dell’immagine da dipingere; inclinazione all’esperimen-
to, mediante l’impiego di specchi e di «camere ottiche»
intesi come strumenti provocatori di esperienza: inco-
mincia con tali precisioni a delinearsi la conclusione che
il problema centrale dell’arte caravaggesca consisté non
già nello stabilire con la «natura» un rapporto d’«imi-
tazione» genericamente o passivamente rispecchiante;
bensì nell’assumere nei confronti dei suoi aspetti un’at-
titudine consapevole e attiva, vòlta – non poi tanto
«empiricamente» – all’esplorazione e alla verifica: una
disposizione, appunto, di tipo già schiettamente speri-
mentale, tesa all’accertamento spregiudicato e alla rap-
presentazione diretta delle «evidenze».
Ma vi sono appigli per ancorare tutto questo a una
situazione contemporanea precisa, in grado di attribui-
re, a preferenza di quello controriformistico, un vero
corpo storico all’atteggiamento caravaggesco? È identi-
ficabile nel quadro della cultura contemporanea una rete
motivante di riferimenti, capace di porsi come termine
di paragone attendibile, se non come ragion sufficiente
di esso?11

Storia dell’arte Einaudi 26


4. Il quadro dei riferimenti nella cultura contemporanea: «veri-
ficare con la natura» (G. Bruno); «investigare da sé la natu-
ra delle cose col guardare alle cose stesse» (T. Campanel-
la); «[Galileo] diceva che le principali porte per introdursi
nel ricchissimo erario della natural filosofia erano l’osser-
vazione e l’esperienza, che per mezzo delle chiavi de’ sensi,
da i più nobili e curiosi intelletti si potevano aprire» (V.
Viviani)

Per avviarci a rispondere in modo non elusivo alla


domanda, occorre tener presente innanzitutto che in
materia di osservazione sistematica della natura il que-
sito interferisce nella biforcazione, di solito sottovalu-
tata dai non specialisti ma in accentuazione giusto negli
anni che ci interessano, fra scienze definibili come
«descrittive» e scienze che, nel Dialogo sopra i due mas-
simi sistemi del mondo, Galileo chiamera ripetutamente
«dimostrative».1 Detto in termini meno ellittici, il que-
sito comporta la consapevolezza del divaricarsi di un
tipo di osservazione puramente descrittiva ed enumera-
tiva dei prodotti naturali, il cui modello metodologico e
il cui fine continuavano a non discostarsi dall’inventa-
rio e dalla classificazione, da un tipo d’osservazione di
ben diversa epistemologia, volto a promuovere median-
te l’integrazione critica dei dati indotti e di quelli dedot-
ti, con l’ausilio della rappresentazione matematica dive-
nuta strumento di valutazione quantitativa e principio
di sistemazione, la conoscenza fattuale della «costitu-
zione del mondo»: negli accidenti che lo compongono e
nelle leggi che li governano. Una conoscenza, vale a
dire, puramente fenomenica e causale della natura nel
suo complesso, svincolata dalla pretesa metafisica di
definirne l’essenza, e perciò coincidente con un sapere
il cui fondamento è l’esperienza: «non nuda osservazio-
ne», dunque, ma – questo è il punto! – «esperimento».2
Alla luce di tale biforcazione, sia quel che è venuto

Storia dell’arte Einaudi 27


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

emergendo nel corso del paragrafo precedente, sia quan-


to abbiamo dovuto costatare a suo luogo circa la sostan-
ziale estraneità del Caravaggio a ogni forma di descrit-
tivismo (fosse quello geo-topografico praticato dagli
affrescatori gesuitici di Santo Stefano Rotondo e di San
Vitale, fosse quello della trascrizione scrupolosamente
devozionale delle sante immagini favorito dagli orato-
riani), ci costringono ad ammettere fin da questo
momento che gli appigli giusti di cui siamo in cerca per
un serio ancoraggio storico delle istanze del Merisi non
si troveranno di certo sul primo dei rami della biforca-
zione descritta. Il che, se non vedo male, comporta l’ac-
cantonamento preliminare anche di un’altra tesi deli-
neatasi durante l’ultimo quarto di secolo, a opera di
Eugenio Battisti innanzi a tutti, ma con l’adesione di
studiosi disposti a consentire con lui, quali Mina Gre-
gori, Giuseppe Olmi, e ora Alberto Cottino, secondo cui
a monte del generale «naturalismo» del Caravaggio, così
delle sue nature morte vegetali come dei diversi tipi
d’animali e parti di animali inclusi nelle sue tele, «vasta
e determinante» sarebbe stata «l’influenza dell’illustra-
zione dei trattati naturalistici» di fine Cinquecento:
segnatamente, delle tavole fatte approntare dal bolo-
gnese Ulisse Aldrovandi per il monumentale catalogo del
mondo naturale a cui attendeva, di quelle di cui era ric-
chissimo il museo mediceo e, fra queste ultime, dei
«capolavori di mimesi scientifica» realizzati a Firenze,
talvolta anche su commissione dell’Aldrovandi, dal vero-
nese Jacopo Ligozzi.3 In una pagina che meriterebbe di
essere trascritta per intero, perché nonostante l’intento
principale essa riesce a porre in valore non poco di quel
che lo merita veramente, Battisti scrisse testualmente
che nei frutti della Fiscella ambrosiana e dei vari «cane-
stri» che il maestro dipinse in giovinezza, nelle serpi
della Medusa, nei caproni del San Giovannino e nelle ali
dell’Amor vincitore, il Caravaggio avrebbe esibito non

Storia dell’arte Einaudi 28


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

solo «“agudezas” di botanico» che sarebbe un errore (...)


scambiare con un generico gusto naturalistico», ma
«parentesi di vero e proprio naturalismo scientifico»,
collegato a «una profonda padronanza della mimesi
scientifica» e addirittura a uno «sguardo quasi di illu-
stratore professionale». Né basta ancora. Sforzando un
noto passo del Bellori a significare che al momento di
entrare nella bottega del Cavalier d’Arpino il giovane
Caravaggio sarebbe già stato in possesso di una «spe-
cializzazione vera e propria “in fiori e frutti”», Battisti
ritenne di potersi impegnare in una riscrittura della bio-
grafia dell’artista:

Nulla (...) vieta di ipotizzare – affermò – che [il pitto-


re], nel suo viaggio dalla pianura padana a Roma, a Bolo-
gna si sia fermato qualche ora presso l’Aldrovandi, e che a
Firenze, dove il suo soggiorno prima del 1590 fu forse
meno fugace [ma, alla luce dei trovamenti documentari che
dànno il Caravaggio ancora presente in patria agli inizi del
1592, è ovvio che questa data non può più esser tenuta per
vera], il giovane Merisi abbia ficcato il naso nel museo
naturale mediceo dove erano ordinatamente esposte le serie
di incisioni e di acquerelli riproducenti tutte le specie natu-
rali, di cui i ricercatori erano venuti a conoscenza. Quan-
do si confronta un disegno come quello (...) del Ligozzi, rap-
presentante un ramo tronco d’un fico (dove le varie affe-
zioni delle foglie e la loro struttura fisica sono così diligen-
temente, ma anche appassionatamente studiate) con i
«canestri» del giovane Caravaggio, e si pensa alla coinci-
denza del suo passaggio a Firenze proprio quando questi
stupendi capolavori di mimesi scientifica erano da poco
realizzati, vien forte la tentazione di vederlo lì accanto al
Ligozzi, piegato sul foglio appena acquerellato dal più anzia-
no collega stupefatto e deciso a rubargli il segreto e a per-
fezionarlo.4

Storia dell’arte Einaudi 29


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

Orbene, a parte il fatto che nell’opera di documen-


tazione scientifica promossa dai naturalisti cosiddetti
enciclopedici del secondo Cinquecento – di cui l’Aldro-
vandi, e con lui il Ligozzi, fu esponente esemplare – un
limite insuperato rimase l’esigenza «di far rientrare in
qualche modo la natura, anche a costo di interventi del
tutto arbitrari, entro schemi noti e consacrati dalla tra-
dizione»5 (sicché, dal momento che «una cosa sono le
enunciazioni programmatiche, un’altra la realizzazione
concreta delle figure»,6 la stessa istanza di «assoluta
aderenza alla realtà»7 finisce con l’essere elusa nella
parte sostanziale), il punto su cui occorre insistere è
che, proprio secondo l’Aldrovandi, nella condotta del
pur «poderoso sforzo di schedatura per immagini della
realtà», «l’unica mente legittimata a intervenire è quel-
la dello scienziato», «l’occhio e la mano del pittore»
devono essere «meri e passivi strumenti di registrazio-
ne», «al pittore non resta che usare la mano “quae est
organum organorum”».8
Seguendo le indicazioni date in nota, il lettore avrà
costatato che nell’enunciare questi ultimi punti sono
state riadoperate senza cambiamenti parole e ammissio-
ni ricorrenti giusto negli scritti del più impegnato ese-
geta, fino a oggi, della posizione dell’Aldrovandi, al
seguito di Battisti: intendo Giuseppe Olmi. Proseguen-
do sulla medesima strada, non si tarda a costatare che il
discorso di Olmi mette in luce un ulteriore punto fon-
damentale: ed è che la «natura» di Aldrovandi ignora gli
uomini. Con «l’habitus del naturalista», scrive lo stu-
dioso, Aldrovandi «finisce pure col trascurare, nel com-
plesso, il soggetto umano». E segue questa citazione, che
torna a chiamare in causa la pittura:

Non è dubbio alcuno che la pittura debbe esser essem-


pio et imitatione di tutte le cose Naturali come il cielo, le
stelle e la terra, et principalmente [corsivo di Olmi] le pian-

Storia dell’arte Einaudi 30


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

te et animali, et altre cose inanimate, che sono metalli, et


pietre, et simili misti sotterranei, et altre cose artificiali che
hanno per materia le Naturali.9

Ebbene, se torniamo di qui al Caravaggio, s’impon-


gono a prima vista due circostanze opposte diametral-
mente alle due emerse dai pareri del «naturalista» bolo-
gnese. La prima è che nessuno ha mai parlato del Meri-
si, né è presumibile che vorrebbe mai parlarne, come
d’un pittore disposto a «spersonalizzarsi», tanto da ridur-
re il proprio «occhio» e la propria «mano» a «meri e pas-
sivi strumenti» del «consiglio» altrui, insomma a un
«braccio» messo al servizio d’una «mente» diversa dalla
propria. A parte le testimonianze concordi sul suo
«soverchio ardimento di spirito» (Baglione) e sui suoi
«costumi torbidi e contenziosi» (Bellori), occorre ammet-
tere che anche sotto questo riguardo, come già sotto il
riguardo della sottomissione alla disciplina post-tridenti-
na, l’intera carriera del maestro è prova d’una indipen-
denza illimitata: da quando lo stesso suo protettore, il
cardinal Del Monte, lo definiva «cervello stravagantissi-
mo, et che pure era stato ricercato dal Principe Doria a
dipingergli una loggia, che voleva dargli sei millia scudi
et non ha voluto accettar il partito, se bene havesse quasi
promesso»,10 fino ai tempi della Resurrezione di Lazzaro
a Messina, per la quale abbiamo la testimonianza addi-
rittura documentale che non aveva esitato a consegnare
al committente un dipinto del quale aveva mutato il sog-
getto di pianta, discostandosi a suo arbitrio da quanto gli
era stato richiesto nel contratto di commissione.11 La
seconda circostanza è che la pittura del Caravaggio non
solo non ignora la figura dell’uomo, ma fa di essa una
sede dell’«imitar bene le cose naturali» la cui importan-
za è dichiaratamente uguale alle «cose di Natura» stric-
tu sensu, che Aldrovandi assegna a oggetto primario della
pittura. Per chiarire questo aspetto del problema, è intan-

Storia dell’arte Einaudi 31


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

to opportuno rilevare il fatto, obiettivamente innegabi-


le, che mentre Aldrovandi scrive alla lettera: «la pittura
debbe essere la vera imitatione delle cose di Natura»,12
al processo del 1603 il Caravaggio, come abbiamo già
ricordato, dichiarò che per lui «pittore valenthuomo» è
un pittore «che sappi dipingere bene et imitar bene le
cose naturali».13 La somiglianza fra le due affermazioni
e a tutta prima così marcata, da sorprendere che non sia
stata messa a partito da chi ne avrebbe avuto l’interes-
se. Nondimeno essa non tarda a rivelarsi puramente ver-
bale, se richiamiamo la non meno nota affermazione del
Merisi riferita agli inizi del secondo decennio del Sei-
cento dal marchese Vincenzo Giustiniani: «Il Caravag-
gio disse che tanta manifattura gli era a fare un quadro
buono di fiori come di figure».14 Questo motto contiene
una complessa concatenazione di giudizi su cui dovremo
tornare a più riprese; ma da chi l’ha finora preso in con-
siderazione, esso è stato assunto a prova pressoché esclu-
siva del ruolo di punta che il maestro avrebbe assolto nel-
l’istaurazione della «pittura di fiori e frutta come argo-
mento autonomo».15 Eppure sembra evidente il rischio
implicito in una lettura così angolata: cioè che si cada
nella trappola di limitare l’intento e i meriti del maestro
al solo ambito della «natura morta», sebbene riscattata
dalla subordinazione a cui stava condannandola una
gerarchia dei «generi» in via di formazione. In effetti, il
Caravaggio intendeva molto di più. Egli specificava che
nell’operazione pittorica («manifattura») tesa alla qualità
del risultato («quadro buono»), le «cose naturali» anno-
veravano i «fiori» come le «figure», ed entrambi sul
medesimo piano di valore e dignità. Poiché invertendo
l’ordine dei fattori il prodotto non cambia, ciò equivale-
va a dire che nella pittura di cui il Caravaggio era fauto-
re, le «figure» erano «cose naturali» non meno dei
«fiori», insomma l’unità e l’uguaglianza interna della
«natura» era il presupposto dell’imitarla «bene».

Storia dell’arte Einaudi 32


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

La differenza che viene così a delinearsi anche nel-


l’ordine teorico fra i «naturalisti» di marca Aldrovandi
(per i quali, sì, «la pittura debbe esser essempio et imi-
tatione di tutte le cose Naturali», ma poi le «cose Natu-
rali», senza riferimento all’uomo nonostante la N maiu-
scola, sono «principalmente le piante et animali, et altre
cose inanimate») e il buon imitatore di «cose naturali»
impersonato dal Caravaggio (per il quale – torno a ripe-
tere – «fiori» e «figure», ossia «piante, animali, et altre
cose inanimate» da un lato, gli uomini dall’altro, si equi-
valgono), risulta incolmabile. E si approfondisce ulte-
riormente se riprendiamo anche il giudizio, pur esso
enunciato da Olmi, che «strumento delle scienze (...) e
addirittura farmaco, l’arte non è comunque mai, per
l’Aldrovandi, una via autonoma di comprensione del
reale».16
È dunque indubbio che per l’osservazione sistemati-
ca e «sperimentale» del Merisi occorre puntare decisa-
mente sull’altra direzione, e secondo i gradi che il con-
creto svolgimento storico di quell’altra direzione com-
portò.

Poiché s’è accennato al problema dell’arte come «via


autonoma di comprensione del reale», un primo spunto
importante può essere fornito dall’affermazione con cui
sul finire della Cena de le ceneri (1584) Giordano Bruno
riassume non senza impazienza un suo argomento fon-
damentale: «Altro è giocare con la geometria, altro è
verificare con la natura».17
Alcuni anni fa Biagio de Giovanni ha dedicato un bel
saggio allo «spazio della vita» fra Bruno e Campanella,18
e nelle pagine di tale saggio dedicate al filosofo di Nola
ha fra l’altro spiegato come l’affermazione su riferita si
rivolgesse proprio contro Copernico, «perché – scrive
Bruno – lui più studioso de la matematica che de la natu-
ra, non ha possuto profondar e penetrar sin tanto che

Storia dell’arte Einaudi 33


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

potesse a fatto toglier le radici de inconvenienti e vani


principii». Bruno, continua de Giovanni,

non ignora né sottovaluta l’importanza dei nuovi studi


matematici («e non è per litigare contra li matematici, per
toglier le lor misure e teorie, alle quali sottoscrive e crede»),
ma dichiara di avere un altro scopo, e che quest’ultimo
«versa circa la natura e verificazione del soggetto di questi
moti». (...) Noi non siamo più centro di niente, ma ogni
cosa costituisce il principio di sé rompendo ogni visione cen-
trata, «atteso che non più la luna è cielo a noi, che noi alla
luna». (...) L’intuizione di Copernico ripensata da Bruno è
volta verso un mondo senza centro, dove tutta la vita infi-
nita è insieme centro e periferia. Il copernicanesimo di
Bruno non mette al centro l’uomo, ma il mondo della vita.19

Nell’adoprarsi a dimostrare questo punto, de Gio-


vanni esce per altro in una serie di enunciazioni che in
questa sede rivestono un interesse affatto speciale, alme-
no in via preliminare:

Fra le linee delle due culture (ermetismo-scienza), il pen-


siero di Bruno esercita in realtà come un’incrinatura profon-
da che fa perno sulla laicizzazione dell’ermetismo e sulla sua
trasformazione in cultura della produttività vitale: le fonti
dell’ermetismo bruniano sono soverchiate dalla intenzio-
nalità filosofico-prammatica di Bruno. In questa intenzio-
nalità (...) c’è la consapevolezza che la realtà sta per rom-
pere il velo dell’occulto e che si sta avvicinando il tempo del
riconoscimento dell’apparenza come apparenza. L’abito magi-
co non è più appartato e separato (...).20

Bruno immagina un mondo non più occultato dalla


metafora, ma non è il linguaggio della matematica, non la
semplificazione della geometria che possono adeguare que-
sta esigenza. Il mondo tende piuttosto a ricostruire la pro-

Storia dell’arte Einaudi 34


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

pria oggettività sollevando la vita al principio della vita. Il


principio vitale è trasportato dentro le forme, preme sotto la
pelle delle cose.21

E principalmente:

La costruzione bruniana dello spazio va guardata come


un’immagine del mondo che si misura criticamente con i
presagi della nuova scienza e che tende a mantenersi in un
proprio linguaggio dove le cose nominate si collocano in un
nuovo orizzonte. Singolare copernicanesimo il suo, che
rivendica l’autonomia del proprio occhio, la singolarità del
proprio «vedere».22

Se mai il Caravaggio ebbe sentore di istanze come


queste (il riconoscimento dell’apparenza come apparen-
za; il principio vitale trasportato dentro le forme, a pre-
mere sotto la pelle delle cose; l’autonomia del proprio
occhio e la singolarità del proprio vedere: che sono le vie
maestre dell’assunto fondamentale: «Altro è giocare con
la geometria, altro è verificare con la natura»), c’è da
scommettere che, quando all’alba del 10 febbraio 1600
– anno santo – Bruno fu messo al rogo dal Sant’Uffizio
in Campo de’ Fiori, con la lingua costretta a tacere fra
i serrami della mordacchia, facesse ben altro che
«segnarsi», come ha voluto immaginare Maurizio Cal-
vesi.23
Sempre nel medesimo saggio, de Giovanni s’è ado-
perato a dimostrare anche come la forte capacità di evo-
luzione operativa del mondo magico-ermetico, già
annunciatasi in Bruno, si accentuasse ulteriormente fra
Giovan Battista Della Porta e Tommaso Campanella;
almeno nel senso, spiega de Giovanni, che un tratto
comune del cammino intellettuale di questi ultimi con-
duce pur esso «a ridurre gli aspetti animistici, demoniaci
e astrologici, per calare lo sguardo nella complessità

Storia dell’arte Einaudi 35


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

vivente dei corpi».24 «Noi assegnaremo le ragioni natu-


rali, e confuteremo le celesti come false e illusorie»,
scrivera Della Porta nel proemio al Della celeste fisiono-
mia del 1616, e de Giovanni aggiunge parafrasando:
«Guarderemo alla qualità dei corpi, alla naturalita delle
cause, alla complessita del vivente».25 Né il fatto che gli
uomini del rinnovamento scientifico più inoltrato, Gali-
lei, Mersenne, Cartesio, mostreranno diffidenze, silen-
zi imbarazzati o aperte riserve nel confronti di un Cam-
panella, può far trascurare, dice ancora de Giovanni, che
lo stesso Campanella, e i novatores della sua estrazione,
si dimostrassero ben diversamente disposti nei confronti
di quelli: il mondo dei «maghi» in accezione campanel-
liana si presentava «più aperto, più fluido, meno chiu-
so e bloccato nei propri confini»; i suoi esponenti erano
convinti di combattere, pur con armi diverse, la stessa
battaglia della nuova scienza; Campanella scrisse addi-
rittura: «Bisogna rinnovare le scienze attenendosi al
mondo, come ho fatto io e come Galilei fa di conti-
nuo».26 Sicché è davvero fondato credere che l’incontro
padovano del 1592, durante il quale si trovarono faccia
a faccia Campanella, Della Porta e il ventottenne Gali-
lei, segnasse «l’ultimo momento – le parole sono sem-
pre di de Giovanni – in cui da una indistinta unità si
avviarono differenze, tagli, separazioni nette, destini
diversi»; tagli e separazioni nette, tuttavia, che com-
portarono una dissimmetria di comportamenti per la
quale il nuovo avrebbe rotto definitivamente con il pas-
sato, e invece «dall’interno di quel “passato”» – ma è
ben inteso: di quel particolare «passato» – si sarebbe
preteso, comunque si sarebbe volenterosamente voluto,
«di continuare a parlare e a comunicare» col nuovo.27 In
ogni caso, «la rottura fra il pre-scientifico e lo scientifi-
co fu la legge di movimento del pensiero nuovo», seb-
bene se ne potesse «comprendere la profondità solo in
presenza dell’avvenuta frattura».28

Storia dell’arte Einaudi 36


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

Da una lettera del 25 maggio 1592 a Ferdinando I,


granduca di Toscana, si apprende che il cardinale Fran-
cesco Maria Del Monte, il quale di lì a poco avrebbe
accolto presso di sé il Caravaggio, s’era interessato a
Campanella, e aveva anche parlato con lui: «finalmen-
te io gli ho parlato»; ma il giudizio ultimo che ne dava
era il seguente: «lo trovo molto ardito; ragiona effica-
cemente, sì come fanno tutti li regnicoli. Di primo lan-
cio entrò nell’opere sue, le quali sono contro alla dot-
trina di Aristotele, promette gran cose e dice bene il suo
concetto; ma li fondamenti sui mi paiono molto sgan-
gherati».29 Questa valutazione di «fondamenti sganghe-
rati» è probabilmente già un sintomo della rottura fra
«pre-scientifico» e «scientifico» che era in corso; ma
nella prospettiva del processo di svecchiamento della cul-
tura che stava fondando l’età moderna mediante la sosti-
tuzione della sapienza basata sull’autorità, sulle «quid-
dità» e sul sentito dire, con il principio del primato del-
l’esperienza, pare della massima importanza che pro-
prio l’«ardito regnicolo» con cui il Del Monte s’era
incontrato fosse già l’autore di una dottrina da cui il gio-
vane Caravaggio, ammesso che di lì a un paio d’anni glie
ne giungesse l’eco, avrebbe potuto sentirsi aiutato a
prendere miglior coscienza di sé. Ecco, infatti, che cosa
si legge nel proemio alla Philosophia sensibus demonstra-
ta, che Campanella aveva scritto nel 1590 per difende-
re le tesi di Telesio dagli attacchi dell’aristotelico Marta
e che gli avrebbe causato l’anno dopo il primo processo
inquisitorio:

Per quanto riguarda l’indagine filosofica della natura


giurando che la filosofia di Aristotele è divina e non pro-
ponendosi d’investigare da sé la natura delle cose col guar-
dare alle cose stesse, suppongono veri i detti di lui e inne-
gabili i suoi principi; anzi dicono che non bisogna neppure
disputare con quelli che riggettano Aristotele, ma occorre

Storia dell’arte Einaudi 37


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

sfuggirli (...). E tra loro disputano di tutto, non della verità.


Di qui, evitando la conoscenza delle cose, consumano il pro-
prio tempo sul soggetto della scienza in Aristotele, sulla loro
nobiltà, sul minimo, sul massimo, sulle conseguenze, sulle
formalità, sulla definizione, sulla divisione dei termini e non
delle cose, sull’univocazione, sulla denominazione, sulla
sostanza, sull’accidente, sul soggetto, sul predicato, sul sil-
logismo, sulle categorie, sugli istanti, sulle parole di Ari-
stotele, discutendo se in un luogo dimostri e in un altro parli
ipoteticamente, qua univocamente e là a priori, o quia o
propter quid. E trattano tutto questo ed altre opinioni in
base alle parole di Aristotele, e non in base alle cose. Di
guisa che mai, per giove, ho visto uno di loro guardare le
cose, andare ai campi al mare ai monti, per fermarsi ad
osservare le cose, neppure nelle proprie case, ma solo sui
libri di Aristotele (...). Per tanto, di fronte a ogni questio-
ne attinente all’esperienza, parlano di per se e di per acci-
dens, in potentia et in actu, logice et physice, primo intentio-
naliter et secundo, formaliter et virtualiter.

Al di là dei referenti dotti e tecnicamente dottrinali,


il passo ha un così alto potenziale irrisorio nei confron-
ti della saccenteria libresca, e un piglio di presa così
immediata dove sbotta a imprecare contro l’ostinazione
di non guardarsi intorno «neppure nelle proprie case»,
da poter incontrare per simpatia istintiva il genio d’un
giovane di «soverchio ardimento di spiriti» qual era il
Caravaggio. Senza dire dell’analogia che un pittore di
nuova intelligenza, come il Caravaggío non è dubbio che
fosse, avrebbe potuto dedurne immediatamente fra la
secchezza intellettualistica degli aristotelici cultori del
«formaliter» e il formalismo allitterante dei «manieristi»
dell’ultima stagione cinquecentesca. Si deve però con-
venire che, nonostante l’importanza manifesta di una
simile rivendicazione del primato dell’esperienza, e del-
l’appello altrettanto decisivo a «investigare da sé la natu-

Storia dell’arte Einaudi 38


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

ra delle cose col guardare alle cose stesse», era proprio


il concetto di «cosa» a conservare un margine ancora
ampio d’indeterminazione, così come non ne uscivano
ancora indicate le specifiche vie d’accesso alle «cose» in
quanto «verità».
Nella nota monografia del 1983, Howard Hibbard
scrisse senza mezzi termini: «Caravaggio has even been
found (rather extravagantly) to be an artistic parallel to
Galileo»,30 e fece riferimento in primo luogo a un punto
di vista che chi scrive aveva sostenuto già nella prima
redazione del presente saggio, oltre che in precedenti
seminari tenuti all’Università di Napoli.31 Eppure, come
tutti i galileisti sanno bene almeno dai tempi di Anto-
nio Favaro, è documentato che per il tramite di Guidu-
baldo Del Monte, «gran matematico di quei tempi»
come lo avrebbe definito lo stesso biografo di Galilei,
Vincenzo Viviani, anche e soprattutto Galilei era entra-
to in rapporti diretti con Francesco Maria Del Monte,
fratello più giovane d’un quadriennio di Guidubaldo; ed
è documentato che a tali rapporti, cresciuti sull’amici-
zia e sulla stima («è mio amico vecchio e stimo molto l’e-
minenza del suo valore», scriverà di Galileo il cardinal
Francesco al granduca di Firenze, nel marzo 1611),
toccò un lungo e mai appannato decorso. Rinforzatosi
nel 1610, quando il prelato chiedeva, e Galileo gli man-
dava, addirittura il cannocchiale, oltre che una copia del
Sidereus nuncius, il decorso dei rapporti fra Galilei e il
cardinale toccò l’acme fra il 1611 e il 1612, al punto che
il 31 maggio del 1611 Del Monte poteva scrivere: «se
noi fussimo ora in quella Repubblica Romana antica,
credo certo che gli sarebbe stata eretta una statua in
Campidoglio, per onorare l’eccellenza del suo valore»;
e proseguì almeno fino al 1615-16, quando Galileo era
ormai alle prese col Sant’Uffizio e il cardinale (in que-
sto confortato, anche più che sollecitato, dal granduca
Cosimo II in persona: si ricordi l’importantissima lette-

Storia dell’arte Einaudi 39


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

ra di Cosimo al Del Monte in data 28 novembre 1615)


non esitò a prenderne la difesa.32
A controllare le congiunture utili per noi, troviamo
esattamente questo: nel maggio 1588, quando France-
sco Maria non era ancora divenuto cardinale, Guidu-
baldo gli raccomandava il giovane scienziato, inviando-
gli a Firenze una lettera che Galilei gli avrebbe conse-
gnato personalmente, anche perché potesse farsi cono-
scere e apprezzare: «Io le mando – scriveva Guidubal-
do a Galilei – la lettera per Monsignor mio fratello: la
gli la dia lei medesima, e spero che quello che toccherà
a lui non mancarà di aiutarlo, havendogl’io scritto in
modo, che credo conoscerà il suo valore et la sua dot-
trina, havendogl’io scritta la verità»;33 nel luglio 1589
tali rapporti si erano stretti al punto che, per l’interes-
samento di entrambi i Del Monte (e intanto Francesco
era stato «esaltato al cardinalato») Galilei ottenne la
nomina di lettore di matematiche presso lo Studio di
Pisa;34 i rapporti erano sempre attivi quando, nell’ago-
sto 1592 Galilei era ospite di Guidubaldo a Pesaro, e nel
settembre, ancora «per consiglio e con l’indirizzo del
signor Marchese Guidubaldo», il che comportò di nuovo
l’interessamento del cardinal Francesco, ottenne «dalla
Serenissima Repubblica di Venezia la lettura delle mate-
matiche in Padova per sei anni».35 Né basta ancora; per-
ché, dalle ultime novità sulla vita del Caravaggio rica-
pitolate recentemente da Mia Cinotti, si apprende che
«in una biografia sul pittore, in corso di stampa, scrit-
ta da Giorgio Mascherpa che (...) ne ha fornito cortesi
anticipazioni, si accerta che Galileo, a Roma dal 1597
al 1603, frequentava assiduamente casa Del Monte».36
Nel momento in cui scrivo, la biografia di Mascherpa
non è stata ancora pubblicata; sicché non so e non posso
controllare in quali precisi modi tale assidua frequenza
si sarebbe avverata (dal 1592 al 1610 Galileo insegnava
a Padova e frequentava Venezia), né quali precise con-

Storia dell’arte Einaudi 40


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

seguenze, annunciate anch’esse dalla Cinotti, Mascher-


pa abbia tratto da tale accertamento nei confronti del
Caravaggio e della sua opera. Ma dall’insieme di questi
dati risulta verosimile che il pittore, presente a Roma
dall’avanzato 1592, ospite e «protetto» del cardinal Del
Monte dal 1594 all’incirca fino a tutto il 16oo, avesse
più che un sentore anche degli indirizzi che Galilei era
gia venuto imprimendo alle sue ricerche, e soprattutto
delle istanze fondamentali a cui tali indirizzi si veniva-
no improntando.
È stato detto bene che la matematica appresa da Gali-
leo giovinetto alla scuola di un allievo di Niccolò Tarta-
glia, Ostilio Ricci da Fermo, era una matematica studia-
ta «con mentalità da ingegnere», un «insieme di ricer-
che legate all’arte militare, all’architettura, e in genere ai
lavori pratici», che aveva assunto «l’aspetto di scienza
pressoché sperimentale», e che aveva individuato in
Archimede «la più perfetta realizzazione della mentalità
matematico-sperimentale ora accennata».37 Galileo ere-
ditò dal Ricci questo «amore per Archimede», e di lì
tolse l’inclinazione a congiungere il carattere operativo
della matematica all’interesse per l’osservazione, per altro
mostrando sin d’allora «la tendenza a trasformare le sco-
perte scientifiche in principî pratici, utili all’uomo».38
Tutto ciò è per altro testimoniato e chiarito a fondo da
quanto riferì a suo tempo il biografo Viviani, con l’in-
tento di porre in evidenza l’aspetto forse più qualifican-
te dell’epistemologia del maestro:

Ben diceva che le principali porte per introdursi nel ric-


chissimo erario della natural filosofia erano l’osservazione
e l’esperienza, che per mezzo delle chiavi de’ sensi, da i più
nobili e curiosi intelletti si potevano aprire.39

Il collegamento dell’«osservazione» e dell’«esperien-


za» in un nesso che presuppone l’operatività, e in cui

Storia dell’arte Einaudi 41


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

questa è intesa non meno come fine che come punto di


partenza, è infatti il dato che attribuisce alla scienza gali-
leiana l’inconfondibile connotato dinamico per il quale,
mediante la verifica, essa promuoveva una conoscenza
attiva; una conoscenza, in altri termini, che di tanto era
diversa da quella meramente compilatoria dei «natura-
listi» nel genere di un Aldrovandi, per quanto era figlia
e madre allo stesso tempo dello spirito d’investigazione,
il quale si proponeva a sua volta d’insegnare a scoprire,
e di valutare via via quanto era stato scoperto. Ad ascol-
tare di nuovo Viviani, il punto dovette esser chiaro a
Galilei fin dalle sue primissime prove, quand’era anco-
ra studente di «medicina e filosofia» a Pisa:

In questo mentre, con la sagacità del suo ingegno


inventò quella semplicissima e regolata misura del tempo
per mezzo del pendulo, non prima da alcun altro avvertita,
pigliando occasione d’osservarla dal moto d’una lampada
(...); facendone esperienze esattissime si accertò dell’egua-
lità delle sue vibrazioni, e per allora sovvennegli di adattarla
all’uso della medicina per la misura della frequenza dei
polsi (...): della quale invenzione si valse poi in varie espe-
rienze e misure di tempi e moti, e fu il primo che l’appli-
casse alle osservazioni celesti, con incredibile acquisto nel-
l’astronomia e nella geografia. Di qui s’accorse che gli effet-
ti della natura, quantunque apparischin minimi e in niun conto
osservabili, non devono mai dal filosofo disprezzarsi, ma tutti
egualmente e grandemente stimarsi; essendo perciò solito dire
che la natura operava molto col poco, e che le sue operazio-
ni eran tutte in pari grado maravigliose.40

L’accertamento enunciato nell’ultimo periodo («Di


qui s’accorse») è evidentemente fondamentale, e con-
tiene già tutte le principali conclusioni a cui s’informò
di lì in avanti l’epistemologia galileiana. Su questa trac-
cia, non essendo io in grado di fare di più, né potendo

Storia dell’arte Einaudi 42


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

disporre dello spazio altrimenti necessario, mi provo a


mettere in fila una breve antologia di citazioni dagli
scritti di Galileo stesso, che, per quanto non rispetti l’or-
dine dei tempi, e si auguri soltanto di non deformare la
consequenzialità metodologica degli assunti, può essere
utile al nostro caso meglio d’ogni altra esposizione.

Cotesto, che voi dite, è il metodo col quale [Aristotele]


ha scritta la sua dottrina, ma non credo già che e’ sia quel-
lo col quale egli la investigò, perché io tengo per fermo ch’e’
procurasse prima, per via de’ sensi, dell’esperienze e delle
osservazioni, di assicurarsi quanto fusse possibile della con-
clusione, e che doppo andasse ricercando i mezzi da poter-
la dimostrare, perché così si fa per lo più nelle scienze
dimostrative. (...) Il medesimo non afferm’egli che quello
che l’esperienza e il senso ci dimostra, si deve anteporre ad
ogni discorso, ancorché ne paresse assai ben fondato? e que-
sto non lo dic’egli resolutamente e senza punto titubare?
(...) bisogna anteporre il senso al discorso (...).41

Io stimo più il trovar un vero, benché di cosa leggiera,


che ‘l disputar lungamente delle massime questioni senza
conseguir verità nissuna.42

Noi non dobbiamo desiderare che la natura si accomo-


di a quello che parrebbe meglio disposto et ordinato a noi,
ma conviene che noi accomodiamo l’intelletto nostro a
quello che ella ha fatto.43

Non son io che voglia che il cielo, come corpo nobilis-


simo, abbia ancora figura nobilissima, qual è la sferica per-
fetta (...); quanto a me, non avendo mai lette le croniche e
le nobiltà particolari delle figure, non so quali sieno più o
men nobili, più o men perfette; ma credo che tutte sieno
antiche e nobili a un modo, o, per dir meglio, che quanto
a loro non sieno né nobili e perfette, né ignobili e imper-

Storia dell’arte Einaudi 43


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

fette, se non in quanto per murare credo che le quadre sien


più perfette che le sferiche, ma per ruzzolare o condurre i
carri stimo più perfette le tonde che le triangolari.44

Ecco insomma l’ossatura d’una posizione che, men-


tre rivendica la priorità anche cronologica dell’«espe-
rienza» sul «discorso», e dell’«osservazione» condotta
«per via dei sensi» sulla pura deduzione logica, scopre
il primato effettuale della «natura» sulle pretese acco-
modanti dell’«intelletto»; e nell’ambito d’una «natura»
così intesa accerta che «nobiltà» e «perfezione» delle
«forme» non coincidono affatto con una presunta «qua-
lità» assoluta di esse data a priori, ma dipendono dal rap-
porto strumentale fra mezzo e fine in cui si trovano coin-
volte, vale a dire dalla maggiore o minore idoneità ope-
rativa che ciascuna di tali forme dimostra quando è
applicata al conseguimento di un dato scopo. E se a que-
sto punto richiamiamo anche quel che abbiamo letto più
sopra in Viviani a proposito del convincimento matura-
to da Galileo fin dai primi tempi, che «gli effetti di natu-
ra (...) devono tutti egualmente e grandemente stimar-
si, essendo perciò solito dire che la natura operava molto
col poco e che le sue operazioni eran tutte in pari grado
maravigliose», ne esce applicato a Galilei un corollario
che altri studiosi hanno tratto da tempo per tutta la
scienza del secolo xvii: che il metodo fondato sull’os-
servazione e sull’esperienza aveva ritrovato «una nuova
natura, composta non più di forme gerarchizzate, ma di
fenomeni fra loro equivalenti», e aveva con ciò deter-
minato una «revisione generale dei valori».45 Una revi-
sione dei valori, aggiungiamo, in forza della quale, men-
tre l’accento si spostava da «ciò che è», vale a dire dalla
trascendenza metafisica della «Verità» data per sempre,
a «ciò che appare», vale a dire agli aspetti sensibili e con-
tingenti di «verità» particolari – e si ricorderà che anche
Giordano Bruno sentiva prossimo il tempo in cui, rotto

Storia dell’arte Einaudi 44


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

il velo dell’occulto, l’«apparenza» sarebbe stata ricono-


sciuta per «apparenza»,46 – uscivano rivalutati non solo,
ma valorizzati, proprio i fenomeni e le apparenze fisiche,
insomma «gli effetti di natura».
Orbene, come non ammettere che tutto questo ha un
corrispettivo puntuale con quanto siamo venuti rile-
vando a proposito del Caravaggio nei paragrafi prece-
denti? Rielenco in sintesi i punti essenziali: osservazio-
ne intensiva, sistematica e senza intermediari delle «cose
naturali» in vista della loro «imitazione» (l’«osservan-
za della cosa» sempre tenuta «davanti»: Mancini); pre-
cedenza dell’«imitar bene le cose naturali» sulla «fin-
zione» iconografica e subordinazione di questa a quella
(«dipinse una fanciulla a sedere [...] e la finse per Mad-
dalena»: Bellori); pareggiamento di uomini e cose nel-
l’equivalenza fenomenica della pittura, di contro alle
gerarchie prestabilite dei «generi» in base alla «teologia»
delle differenze di dignità proiettate all’interno dello
stesso corpo dell’uomo («tanta manifattura gli era a fare
un quadro buono di fiori come di figure»: Giustiniani);
carattere «sperimentale» della traduzione pittorica delle
«cose naturali» osservate e pareggiate, non fosse che nel-
l’utilizzazione dello specchio (quadri «da lui nello spec-
chio ritratti»: Baglione); e, persino, idoneità funziona-
le delle forme nelle «cose naturali» («Non vedete voi
come il tiranno [Dionisio di Siracusa] per voler fare un
vaso che per far sentire le cose servisse [la prigione], non
volse altrove pigliare il modello, che da quello [l’orec-
chio] che la natura per lo medesimo effetto fabbricò?»:
Caravaggio stesso).47
V’è per giunta un dipinto del maestro, databile nel
pieno della sua attività romana, che già per la sua stessa
concezione può essere assunto a ipostasi dell’insieme di
quanto abbiamo fin qui rilevato. È l’Incredulità di san
Tommaso dipinta per Ciriaco Mattei, poi passata a Vin-
cenzo Giustiniani, e ora a Potsdam,48 dove l’atto che sta

Storia dell’arte Einaudi 45


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

compiendo l’uomo della strada in cui è incarnato l’apo-


stolo, di conficcare il dito nella ferita del costato del Cri-
sto, e quasi di cercarvi dentro, non solo costituisce il
«fuoco» dell’opera, ma spinge la lettera dell’unica nar-
razione evangelica disponibile a una così eccezionale e
tremenda fisicità («se non metto il mio dito nel posto dei
chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non cre-
derò»),49 da rappresentare al massimo dell’evidenza la
volontà di verifica – di accertamento per prova –, di
accesso alla convinzione unicamente per «esperienza»
(porta principale della «natural filosofia», in termini che
ora possiamo dire galileiani a ragion veduta), da cui tutta
l’opera del Caravaggio prende il suo vero carattere.50

5. Ancora sul quadro dei riferimenti nella cultura contempo-


ranea: «le chiavi de’ sensi» (Galileo) e la centralità dell’e-
sperienza visiva come strumento di conoscenza nella rivo-
luzione scientifica; «non mi fido di nulla se non della testi-
monianza degli occhi» (F. Bacon); «occhi che, se resi vigi-
li, vedono tutto ciò che è da vedere» (C. Huygens); «vede-
re per credere: l’osservazione oculare fa le veci della dimo-
strazione» (Comenio). La cultura pittorica lombarda, le
implicazioni fiamminghe e il «nominalismo» dei «Vorku-
fers Galileis»

«Per mezzo delle chiavi de’ sensi». «Tengo per


fermo ch’e’ procurasse prima, per via de’ sensi (...), di
assicurarsi quanto fusse possibile della conclusione».
«Quello che l’esperienza e il senso ci dimostra». «Biso-
gna anteporre il senso al discorso». Per Galileo, insom-
ma, il protagonista, anzi lo strumento privilegiato del
conoscere per esperienza è il «senso»: da anteporre al
«discorso», vale a dire al desiderio dell’«intelletto
nostro» «che la natura si accomodi a quello che par-
rebbe meglio disposto et ordinato a noi».1 La questio-

Storia dell’arte Einaudi 46


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

ne non sarebbe ancora a fuoco, però, se non si specifi-


casse che alla fine del secolo xvi, nel quadro del nuovo
tipo di conoscenza di cui si veniva da più parti riven-
dicando il primato, e come avrebbe mostrato de facto
Galileo stesso impiegando il «cannone-occhiale» nelle
osservazioni astronomiche, il «senso» per eccellenza era
divenuta la «vista». Torna subito alla mente, perciò,
quanto è emerso poco a dietro dalle fonti stesse sul
ruolo che occorre riconoscere all’«occhio», al «guarda-
re» intensivo, e in generale all’esperienza ottica, nel pro-
cesso mediante il quale il Caravaggio realizzò l’«osser-
vanza della cosa», ossia l’«imitar bene le cose naturali»
che egli medesimo aveva posto per programma allabase
della sua pittura.2 Ma occorre spiegare il punto nei par-
ticolari. Dopo la dissoluzione del mondo antico, la pre-
minenza del vedere come strumento e fonte di cono-
scenza si trova affermata già da Federico II di Svevia,
che un altro Federico, il Nietzsche, avrebbe definito sei
secoli più tardi «il primo europeo di mio gusto». Con-
vinto che «fides enim certa non provenit ex auditu», lo
svevo riteneva essenziale che ci si rendesse conto degli
eventi (e anche delle punizioni che faceva infliggere a
chi congiurava contro di lui), «con i propri occhi, i quali
danno all’uomo impressioni più profonde di quelle del-
l’orecchio».3 Passando dalla scienza greco-araba a quel-
la degli occamisti, l’esperienza visiva aveva assunto
un’importanza fondamentale nella filosofia nord-euro-
pea della prima metà del Trecento (si pensi in partico-
lare a Giovanni Buridano), ed ebbe un gran seguito
presso i fisici dei decenni successivi; specialmente pres-
so i «perspectivi», da Enrico di Langenstein a Biagio
Pelacani, che s’impegnarono a provare come i fenome-
ni luminosi, liberati da ogni aspetto irrazionale, mira-
coloso o superstizioso, dovessero essere spiegati in sede
ottica.4 Viene quindi il caso ben noto di Leonardo da
Vinci, per il quale l’elogio dell’uomo e dei suoi ritrova-

Storia dell’arte Einaudi 47


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

ti diventa l’elogio esclusivo della vista, e della «divina


pittura» suo strumento maggiore:

Chi perde il vedere, perde la veduta e bellezza dell’uni-


verso e resta a similitudine di un, che sia chiuso in vita in una
sepoltura, nella quale abbia moto e vita. Or non vedi tu che
l’occhio abbraccia la bellezza di tutto il mondo? egli (...) tutte
le umane arti consiglia e corregge (...); questo è principio delle
matematiche, le sue scienze sono certissime questo l’archi-
tettura e prospettiva, questo la divina pittura ha generato.

[La vista è] finestra dell’humano corpo, per la quale l’a-


nima specula e finisce la bellezza del mondo, per questo l’a-
nima si contenta dello humano carcere, e senza questo esso
humano carcere è suo tormento.

Adunque, conoscendo tu pittore non poter esser buono


se non sei universale maestro di contraffare con la tua arte
tutte le qualità delle forme che produce la natura, le quali
non saprai fare se non le vedi e non le ritrai nella mente.5

Circa il ruolo assolto dal «vedere» nella costruzione


della nuova scienza da parte degli scienziati seicenteschi
più avanzati, Ezio Raimondi ha tempo a dietro centra-
to un suo bel saggio appunto sullo «sguardo», sull’e-
sperienza visiva come «visione degli oggetti», in quan-
to «funzione privilegiata di conoscenza, di ordinamen-
to descrittivo del mondo sensibile».6 Per nostro conto,
a riscorrere rapidamente i nomi dei pensatori più in
vista del Cinquecento uscente richiamati nel corso del
precedente paragrafo, troviamo che, tra «le grandi
metafore» della Cena de le ceneri di Giordano Bruno,
«sono il “vedere”, l’insegnare a vedere»; il nolano «ha
donati gli occhi alle talpe, illuminati i ciechi che non pos-
sean fissar gli occhi», ha parlato degli «animanti nati per
vedere il sole» disposti a «ricevere nel centro del globoso

Storia dell’arte Einaudi 48


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

cristallo degli occhi suoi gli tanto bramosi e aspettati


rai».7 Sempre nella Cena delle ceneri è per giunta affer-
mata «l’autonomia del proprio occhio, la singolarità del
proprio “vedere”»:

Ai dì passati vennero doi al Nolano da parte d’un regio


scudiero, facendogl’intendere qualmente colui bramava sua
conversazione, per intendere il suo Copernico ed altri para-
dossi della sua nuova filosofia. Al che rispose il Nolano, che
lui non vedeva per gli occhi di Copernico, né di Ptolomeo,
ma per i proprii, quanto al giudizio e alla determinazione;
benché quanto alle osservazioni, stima dover molto a que-
sti ed altri solleciti matematici.8

Passando a Giovan Battista Della Porta, autore nel


1593 del ben noto De refratione, occorre ricordare che
nella sezione della Magia naturalis (prima stesura, 1589)
dedicata a questioni di ottica, un assunto centrale è che
– cito ancora da de Giovanni – «si tratterà di potenziare
la vista per capire la vita: dove quel potenziamento fini-
sce col restare sospeso fra una grande metafora che uni-
sce Della Porta a Bruno e uno sforzo di determinazione
rigorosamente ottica che troverà il riconoscimento in
Giovanni Keplero».9 Riconoscimento di Della Porta da
parte di Keplero, che fu illustrato ineccepibilmente già
da Antonio Corsano nel 1959.10 Ma non vorremo lasciar-
ci sfuggire che quell’esigenza di «potenziare la vista per
capire la vita» è già in linea con quel che farà Galileo
quando, adottando il cannocchiale, potenzierà la vista
alla lettera, se non proprio per capire la vita, certo per
accertarsi dell’ordine dei cieli nel suo assetto effettivo,
donde un indubbio splash down nel modo d’intendere
appunto la vita e il mondo. Quanto a Campanella, mi
limito a rimandare al passo citato nel paragrafo prece-
dente, dove si afferma la priorità dell’«investigare da sé
la natura delle cose col guardare alle cose stesse».

Storia dell’arte Einaudi 49


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

Naturalmente, non dimentico che anche in Ulisse


Aldrovandi è stato notato che «in una prima fase la vista
giuoca un ruolo essenziale e affatto primario (...). Vede-
re è conoscere e la pittura rappresenta lo strumento di
“fissazione” e verifica delle conoscenze, nonché il vei-
colo privilegiato di trasmissione delle stesse».11 Ritengo
però che occorra rileggere il passo a cui questa afferma-
zione è stata appoggiata:

[A] voler dipingere le piante naturalmente, bisogna esser


non solamente essercitatissimo pittore, ma di più bisogna
havere la pianta fresca e circa cavata all’hora dalla terra:
perché le piante essiccate non si ponno dipingere. Ma chi
haverà la pianta viva innanzi gli occhi, non è dubbio che se
egli è eccellentissimo pittore, l’imitarà in ogni minima parte,
non si partendo da quella un tantino (...).12

Se il problema posto da Aldrovandi al suo «eccellen-


tissimo pittore» non è tanto di «haver la pianta [o in
generale la cosa] innanzi gli occhi», ma di averla «viva»,
«fresca e circa cavata all’hora dalla terra», perché le
«piante essiccate non si ponno dipingere», ciascuno
vede da sé che qui la questione del «vedere è conosce-
re» non si pone affatto, in ogni caso regredisce a una
condizione di mera contingenza tecnico-documentaria.
E infatti Aldrovandi prosegue illustrando la necessità
che abbia «l’occhio il pittore alla varieta dell’età delle
piante, perché la più parte secondo la stagione dell’an-
no mutano l’aspetto, et ancora mutano la figura delle
foglie ecc.». 13 Né, per contro, vorremo dimenticare
quale partito pittorico cavasse il Caravaggio dalla rap-
presentazione delle foglie avvizzite, o «essiccate» addi-
rittura, in tutti i suoi celebri inserti di natura morta
vegetale, e nella stessa Canestra ambrosiana.
L’asserto che «vedere è conoscere», anzi il ricono-
scimento della centralità del vedere come strumento di

Storia dell’arte Einaudi 50


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

conoscenza, all’incontro d’una connessione storicamen-


te convincente fra rivoluzione scientifica e pittura, è
stato posto invece nei termini giusti e nella giusta evi-
denza da Svetlana Alpers. In una serie di scritti sulla pit-
tura olandese del secolo xvii, che s’apre col saggio del
1978 intitolato significativamente Seeing as Knowing: A
Dutch Connection, e che ha messo capo al bel libro The
Art of Describing del 1983, tradotto in italiano già l’an-
no dopo presso Boringhieri,14 la Alpers è partita dall’as-
sunto che ella stessa riassume così: «Uno dei motivi
conduttori della nostra ricerca è che l’arte olandese,
essenzialmente descrittiva, taglia i ponti con [le] basi let-
terarie. La sua insistenza sul sapere visivo e sulla mae-
stria tecnica dell’artista denota una cultura dell’imma-
gine autonoma rispetto alle fonti letterarie».15 Nell’in-
troduzione, l’autrice ha anche specificato il proprio con-
senso con il punto di vista dell’ottocentesco Fromentin,
quando in contrapposizione alla «scuola francese»,
«erede accademica degli italiani», poneva in risalto che
l’arte olandese del Seicento è «un’arte che si adatta alla
natura delle cose, un sapere che dimentica se stesso di
fronte ai singoli casi della vita, niente di preconcetto,
niente che preceda la pura osservazione, vigorosa e sen-
sibile, di ciò che esiste». La Alpers ha aggiunto altresì
che, «in modo significativo e (...) molto opportuno, Fro-
mentin si richiama a un tema enunciato anche da Rey-
nolds, ossia al fatto che il rapporto tra questa arte e il
mondo è come il rapporto tra l’occhio stesso e il
mondo».16
Da ciò la studiosa è partita a lancia in resta contro le
tesi degli iconologi più recenti, che schierandosi contro
queste vedute «hanno assunto come principio l’idea che
nella pittura olandese del Seicento dietro la superficie
descrittiva e realistica si celino significati nascosti».17 E
definendo tale tendenza «una smania di interpretare»,18
non ha avuto remore nell’additarne l’origine in questa

Storia dell’arte Einaudi 51


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

precisa circostanza: che (almeno nei settori di cui la


Alpers mostra maggior pratica) «lo studio dell’arte e
della sua storia è stato condizionato in misura rilevante
dallo studio dell’arte italiana»;19 «la vocazione retorica»
di questa (altrove, si parla addirittura, e facendo tutt’u-
no, di «idea italiana o accademica dell’arte»),20 vale a dire
il dato che in detto ambito «l’onnipresente principio del-
l’ut pictura poësis era chiamato in causa per spiegare e
legittimare le immagini attraverso il loro rapporto con
testi preesistenti e consacrati»,21 aveva determinato lo
stabilirsi di «una tradizione di pensiero, tipicamente
italiana, che attribuisce un rango inferiore all’arte osser-
vativa come quella olandese».22 Perché messo a punto sui
parametri di un’arte di tal natura, e perciò affetto dal
«pregiudizio italiano», il metodo iconologico potrà dun-
que esser considerato idoneo allo studio della «grande
tradizione dell’arte occidentale» condizionata dalla
«vocazione retorica» italiana, ma non a quello dell’arte
fiammingo-olandese».23 «Questa smania di interpretare
costa, in termini di esperienza visiva, un prezzo molto
alto. Ed è la stessa arte olandese a mettere in discussio-
ne la validità di questo atteggiamento».24
Fermo che la messa in discussione, e anzi la repulsa
di questa «smania di interpretare» è un punto da con-
dividere senza riserve – né soltanto per quel che riguar-
da l’arte olandese –, la possibilità di condurre avanti il
discorso dal nostro punto di vista è subordinata a due
chiarimenti preliminari. Il primo è che quanto la Alpers
continua a chiamare «italiano», «idea italiana o acca-
demica dell’arte», in realtà costituisce il retaggio di una
posizione intellettualistica che può esser detta italiana
solo latamente e solo in antefatto. Prova ne sia che, spe-
cialmente nella formulazione originaria di Erwin Panof-
sky, proprio l’iconologia che la Alpers fa dipendere dal-
l’influenza del «pregiudizio italiano», è in realtà il pro-
dotto del più rigoroso e sistematico mentalismo tedesco,

Storia dell’arte Einaudi 52


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

d’origine sette-ottocentesca, coltivante un’idea in defi-


nitiva accademizzante di cultura classica, la quale sulla
linea Grecia e Roma, Platone e Aristotele, Scolastica
razionalistica e Umanesimo in senso letterale, ha per
assunto centrale la superiorità gerarchica della mente sui
sensi. Né dimenticheremo la circostanza, già messa in
evidenza da molti, che l’egemonia politica e culturale
della classe nobiliare europea fu mantenuta anche attra-
verso l’assimilazione dell’esperienza umanistica e il con-
nubio con la cultura classica.
Per quanto attiene al secondo chiarimento, occorre
considerare che, nonostante qualche esplicita attenua-
zione, la Alpers sembra voler radunare sotto l’etichetta
di «arte del descrivere» – dove «descrittivo» equivale
sostanzialmente a «realistico» –,25 pressoché tutta l’ar-
te fiorita nell’Europa settentrionale, inclusi, al limite,
anche un Van Mander e un Rubens;26 mentre sotto l’e-
tichetta di «arte italiana» e «teoria italiana», da un lato
rinvia al «Rinascimento», che per lei coincide con «la
definizione albertiana di quadro» e comporta che «col
termine “albertiano”» ci si riferisca «piuttosto a un
modello generale e duraturo» che non «a un tipo parti-
colare di pittura quattrocentesca»,27 da un altro rinvia
specificamente alla situazione cinquecentesca che pos-
siamo riassumere nella sequenza: Michelangelo-Vasa-
ri-disegno selezionante-idea.28 Orbene, riguardo all’eti-
chettatura generalizzante dell’arte nord-europea come
«arte del descrivere», alias «arte realistico-osservativa»,
sembra davvero difficile non avvertire che un Brueghel
dei Velluti non è Vermeer né Rembrandt, e che anche
lassù bisognerà tener distinta un’arte fondata sull’os-
servazione, ma i cui risultati non vanno al di là della
pura e sedula «descrizione» (in senso ristretto, ovvia-
mente, non in quello alpersiano), e un’arte fondata
ugualmente nell’osservazione, ma i cui risultati colgono
la «natura vista» in profondo, e al punto di renderla

Storia dell’arte Einaudi 53


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

anche soltanto per «macchia di luce», al di là della


mimesi della sua stessa identità: la Alpers mette nel giu-
sto valore il fatto che se in un quadro di Vermeer «con-
centriamo l’attenzione su un particolare – per esempio
la mano del pittore nell’Arte della pittura [di Vienna] –,
ne proviamo un senso di vertigine perché la mano è
costruita con pure sfumature di luce, e non dichiara
affatto la sua identità di mano».29 In oltre, credo per-
sonalmente che occorra guardarsi dal prendere troppo
alla lettera la tesi che «un’immagine pittorica, per avere
un aspetto realistico, richiede una cura estrema»:30 anche
questo sbilancerebbe il discorso nella direzione del
descrittivismo minuto, micrografico addirittura (di un
Jan Brueghel, ad esempio, per citare di nuovo questo pit-
tore),31 in uno con l’esaltazione un po’ fine a se stessa
del «virtuosimo tecnico», anche se in funzione del «regi-
strare la moltitudine di cose che costituiscono il mondo
visibile».32 E dico ciò senza voler intaccare minima-
mente il ruolo fondamentale che occorre riconoscere
alla rivendicazione della «mano schietta» e comunque
dell’aspetto operativo nel processo di realizzazione del-
l’opera d’arte, che fu anch’essa una conseguenza (ma
non da tutti partecipata, come si sa) della rimpostazio-
ne dei valori determinata dalla scientific revolution.
Riguardo all’«arte italiana», è altrettanto difficile non
avvedersi che il modello descritto dalla Alpers coincide
solo col «pregiudizio italiano» che la medesima Alpers
rimprovera giustamente agli iconologi, mentre lascia
fuori troppe cose importanti, che per di più anticipano
proprio la linea maestra della «cultura visiva» fian-
dro-olandese: le tendenze schiettamente naturalistiche
dell’arte federiciana più libera (quelle fondate sul pri-
mato dell’occhio, oltre che sul principio che «fides certa
non provenit ex auditu»); i loro ritorni in certi aspetti
dell’arte di un Simone Martini dopo la svolta del 1330,
che da Avignone, dove si attestarono nel decennio suc-

Storia dell’arte Einaudi 54


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

cessivo, si proietteranno sull’Europa continentale; l’em-


pirismo luministico della miglior pittura lombarda fra
Trecento e Cinquecento; l’intensa mimesi materica della
massima parte della pittura padana del secolo xv e il
naturalismo quasi sperimentale della pittura napoletana
contemporanea, all’incontro con la pittura dei grandi
fiamminghi della prima metà del secolo, della quale alcu-
ni settori della cultura italiana furono per giunta i primi
a insegnare l’apprezzamento; per tacere delle implica-
zioni scientifiche e operative del primo Quattrocento
fiorentino (nell’«ingegneria» di Brunelleschi, innanzi-
tutto), seguaci di «una più grassa Minerva», come dice-
va – guarda caso – proprio Leon Battista Alberti. Ma il
modello italiano della Alpers lascia fuori soprattutto il
Caravaggio, che invece esige d’essere considerato il vero
punto di partenza del ramo innovativo della pittura
moderna europea, e giusto perché improntato, come
veniamo mostrando, a una «cultura essenzialmente visi-
va e non testuale».33
In Arte del descrivere il nome del Caravaggio ricorre
solo tre volte. Nella seconda e nella terza è per sottoli-
neare che il maestro era stato «profondamente attratto
dalla tradizione nordica», aveva «simpatie nordiche».34
Ma nella prima è addotto giusto l’argomento che qui
giova:

Nel Seicento, come pure nell’Ottocento, alcuni degli


artisti più innovatori e più dotati – Caravaggio, Velázquez
e Vermeer, poi Courbet e Manet – adottano un modo pit-
torico essenzialmente descrittivo. Il termine «descrittivo»
è in realtà un modo per caratterizzare molte di quelle opere
che siamo soliti definire realistiche, e che abbracciano, come
sostengo in vari punti della mia ricerca, il modello figura-
tivo della fotografia. Nella Crocifissione di san Pietro del
Caravaggio, nell’Acquaiolo di Velázquez, nella Donna con
la bilancia di Vermeer e nel Déjeuner sur l’herbe di Manet,

Storia dell’arte Einaudi 55


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

le figure sono fermate nell’azione per poter essere ritratte.


(... ) Tra azione e attenzione descrittiva sembra esserci un
rapporto di proporzionalità inversa: l’attenzione per la
superficie del mondo descritto comporta il sacrificio del-
l’aspetto narrativo della rappresentazione.35

Il lettore attento avrà notato che l’osservazione sul


rapporto inverso fra azione e attenzione descrittiva che
in questo passo coinvolge il Caravaggio nella compagnia
altamente significativa di Velázquez, Vermeer e Manet,
coincide con il rimprovero di mancanza d’azione, alias
presentazione «sanza azzione» e senza «storia», mosso
alle pitture del Caravaggio dai tradizionalisti italiani dei
suoi giorni e fino ai classicisti, insomma da Federico
Zuccari a Mancini a Bellori: questi sì campioni indiscussi
in area gia caravaggesca del «pregiudizio italiano» messo
a punto dalla Alpers. Ebbene, poiché il Caravaggio viene
obiettivamente per primo nella serie, e il Bellori, nono-
stante tutto, non fu tra gli ultimi, come s’è visto, a indi-
care il ruolo dell’«occhio» nella sua pittura, è perfetta-
mente legittimo riferire innanzitutto al Caravaggio quel
che, nell’assunto sacrosanto che l’arte non può non esse-
re considerata parte integrante di un sistema culturale,36
la Alpers ha indotto sul rapporto fra l’esperienza e la tec-
nologia ottica propria della rivoluzione scientifica sei-
centesca e la cultura visiva su cui è radicata l’arte olan-
dese. Dentro il vasto mare di esempi solcato dalla
Alpers, mi limito a scegliere l’essenziale, non senza rile-
vare preliminarmente che, subito prima di affermare
«l’Europa del Nord fu il centro della nuova tecnologia
ottica», la studiosa ha ammesso, e non è poco per noi,
«con la sola eccezione di Galileo in Italia».37
La prima tappa non può non coincidere con la gran-
de premessa costituita dalle posizioni assunte in Inghil-
terra da Francis Bacon già agli inizi del Seicento, e qui
riassumibili con la citazione di due passi esemplari:

Storia dell’arte Einaudi 56


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

«L’essenziale è di non allontanare mai l’occhio della


mente dalle cose stesse, onde raccoglierne le immagini
così come sono; non permetta mai Iddio che noi propo-
niamo i sogni della nostra fantasia invece della copia
fedele del mondo»;38 – dal che discende l’importanza
dell’esperimento, che consiste nell’«osservazione empi-
rica di situazioni scelte dall’osservatore come fonti di
esperienza» –;39 quindi il passo più specifico: «Non mi
fido di nulla se non della testimonianza degli occhi».40
«Gli olandesi – ne ricava la Alpers – sono baconiani per
la loro fiducia straordinaria nella capacità di osserva-
zione dell’occhio»,41 e si sofferma innanzitutto su Con-
stantijn Huygens, il quale «guarda in una lente e pensa
subito a una pittura»,42 e nel Daghwerck (Il lavoro di
ogni giorno) include questi versi: «0 tu che dai gli occhi
e il potere / da’ occhi con questo potere: / occhi che, se
resi vigili, / vedono tutto ciò che e da vedere».43 Nel
1665, quando Robert Hooke presenterà la sua Micro-
graphia come contributo a una «riforma della Filoso-
fia», dirà che tale riforma «consiste – cito sempre dalla
Alpers – nel rifiutare l’autorità intellettuale accordata
alle false nozioni, o “idoli”, come li chiamava Bacone,
che in passato avevano tenuto prigioniere le menti
umane. L’osservazione delle cose viste e la loro ripro-
duzione in parole o immagini dovrà essere la base del
nuovo sapere».44
Un’altra tappa potrà essere segnata nel punto in cui,
indagando «la natura del raffigurare» realistico nel-
l’Europa del Nord, dove l’accento è fatto battere
sull’«inseparabilita tra l’autore, la raffigurazione e ciò
che è raffigurato», la Alpers adotta a modello l’«ut pic-
tura ita visio» di Keplero, ossia l’assunto che vedere è
sinonimo di raffigurare. «In termini schematici, Keple-
ro non solo definisce l’immagine sulla retina una rap-
presentazione, ma sposta la sua attenzione dal mondo
reale al mondo “dipinto” sulla retina. Tutto questo

Storia dell’arte Einaudi 57


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

implica un’estrema oggettività e la rinuncia a formula-


re giudizi di valore sul mondo così rappresentato».45
Una terza tappa, forse la più chiarificatrice di tutte,
potrà fissarsi nell’opera pedagogica di Comenio, il gran-
de moravo Jan Amos Komensky, noto all’Europa, spe-
cialmente settentrionale, col nome latinizzato di Come-
nius, e che l’italiano Adolfo Faggi definì nel 1902 «il
Galileo della pedagogia».46 Nel 1658, questi pubbliche-
ra l’Orbis sensualium pictus (Il mondo sensibile dipinto),
riconosciuto come una pietra miliare della pedagogia
perché, mentre sviluppa il punto di vista già affermato
nella Janua linguarum reserta (La porta delle lingue spa-
lancata) del 1631, secondo cui il sapere va appreso per
«autopsia» dalle cose stesse, e non dalla tradizione libre-
sca fondata sull’autorità e sulla memoria (che per altro
Comenio condanna come causa della decadenza degli
studi e della vita spirituale in genere), attribuisce impor-
tanza speciale all’educazione visiva.47 Ma nella Didacti-
ca magna (La grande didattica) del 1641, dove torna l’af-
fermazione importantissima e del tutto baconiana che
«l’osservazione oculare fa le veci della dimostrazione»,48
s’incontra anche un passo destinato a mostrare «in che
modo debba procedere un’osservazione intelligente»,49
che può essere considerato decisivo ai nostri fini:

È ancora da dire sul modo o metodo con cui gli oggetti


devono essere presentati ai sensi perché se ne abbia un’im-
pressione duratura. Il metodo è bene ricavarlo dal proces-
so visivo esterno; per vedere in modo corretto qualcosa è
necessario che 1) l’oggetto sia posto davanti agli occhi, 2)
non lontano ma a giusta distanza, 3) non lateralmente ma
perpendicolarmente agli occhi, 4) non alla rovescia, o sbi-
lenco, ma dritto, 5) in modo che la vista possa vedere dap-
prima l’oggetto nel suo complesso, 6) e poi passare in ras-
segna le parti a una a una, 7) seguendo un certo ordine dal
principio alla fine, 8) poi soffermandosi a lungo su ciascu-

Storia dell’arte Einaudi 58


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

na parte, 9) fintanto che ogni cosa sia conosciuta con le


rispettive differenze (...).50

Se tutto quanto abbiamo annotato sotto la rubrica


delle prime due «tappe», in sostanza conferma, e in
qualche tratto amplia e precisa, ciò che del pensiero di
italiani di punta come Bruno, Campanella e Galileo,
abbiamo già ritenuto confrontabile con le dichiarazioni
del Caravaggio stesso, come con le valutazioni delle
fonti intorno al suo «naturalismo» e alla sua «ottica»;
il passo di Comenio citato per ultimo sembra addirittu-
ra una descrizione del procedimento con cui il Cara-
vaggio «guardò» le cose da raffigurare e si dispose
davanti a esse: oggetti osservati e ritratti a giusta distan-
za, sempre in veduta frontale comunque fossero stati
angolati l’uno rispetto all’altro all’interno della compo-
sizione, perpendicolarmente e mai lateralmente, dritti e
non sbilenchi. Ma quel che più conta è che le racco-
mandazioni elencate ai punti 7, 8 e 9, che poi toccano
l’essenziale, hanno un riscontro sorprendente con quan-
to abbiamo già letto in Sandrart circa l’«osservazione
ottica» diretta e prolungata, e il «raggiungimento pit-
torico» della cosa in tutta la sua verità, da parte del
Caravaggio. Soffermarsi a lungo su ciascuna parte del-
l’oggetto posto davanti agli occhi, fintanto che ogni cosa
sia conosciuta, equivale davvero, e alla lettera, al «rem
pingendam in conclavi suo tam diu oculis exponens, donec
veritatem colore assecutus esset».
Sandrart, tedesco di nascita, fra il 1623 e il 1627 era
stato discepolo di Honthorst a Utrecht e con Honthor-
st era stato in Inghilterra, incontrandovi Orazio Genti-
leschi. Venuto in Italia subito dopo, l’aveva viaggiata in
largo e in lungo, spingendosi fino a Malta per vedere nel-
l’originale La decollazione del Battista del Caravaggio;
prescelta Roma a base dei suoi spostamenti, vi risiede
prevalentemente dal 1629 al 1635-36, ospite d’uno dei

Storia dell’arte Einaudi 59


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

maggiori estimatori del Merisi, il marchese Vincenzo


Giustiniani; nel 1631 collaborò con varie incisioni ai due
splendidi volumi della Galleria Giustiniana pubblicati dal
marchese quell’anno;51 e a Roma, nel 1633, fece visita a
Galileo in Palazzo Firenze, lo frequentò e ne fece il
ritratto proprio mentre lo scienziato subiva il secondo e
più grave processo da parte del Sant’Uffizio. Tornato in
Olanda nel 1636-37, s’insediò finalmente a Norimberga,
dove attese alla redazione della Teutsche Academie, che
pubblico, in due volumi fra il 1675 e il 1679, e di cui nel
1683 curò l’edizione latina.52 Ma ecco quel che Sandrart
stesso narrò più tardi dei suoi rapporti con Galileo:

Magni igitur Viri illius memoria me admonet; quam


familiariter ac benigne hoc ipso, Romae, cum inquisitionis
negotio inibi vacaret, usus sim, in Palatio Mediceo (...). Hic
enim Opticae simul ac Geometriae studiis summopere oblec-
tatus, ab illustri doctore et magistro ea didici, quae uni-
versus orbis splendide mecum ignorabat: quid multa? per
tubum, in cubiculo suo ad Lunam haud difficulter direc-
tum, montes et valles, et sylvas, et regiones, et lucem et
umbram, et omnia ad oculum ostendit. Hic mibi habitus ab
eo honor, ut imaginem Ipsius debitis vicissim honoribus
colerem et concitator fuit.53

Dunque Sandrart era interessato all’ottica e alla «geo-


metria» già prima dell’incontro con Galileo, per giunta
«summopere»; e quell’incontro rinvigorì quell’interesse,
adempiendolo fino ad appoggiare l’occhio al cannoc-
chiale («tubum») puntato senza difficoltà sulla Luna. E
«per tubum» Galileo mostrò all’occhio di Sandrart – «ad
oculum ostendit» – non solo i monti, le valli e le regio-
ni del pianeta, ma «lucem et umbram». Scontata la
valenza (per lo meno la suggestione!) caravaggesca del
nesso «lucem et umbram», vale la pena di notare che l’e-
spressione «in cubiculo suo» ricorre anche nel passo sul

Storia dell’arte Einaudi 60


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

Caravaggio; mentre non è del tutto irrilevante, dall’al-


tro capo della congiuntura, che l’Orbis sensualium pictus
di Comenio fu stampato, con testo latino e tedesco a
fronte, a Norimberga, nel 1658, dove e quando Sandrart
risiedeva ormai da tempo. Si snoda così un filo nitidis-
simo che collega gli interessi ottici di Sandrart a Gali-
leo e alla pedagogia «visiva» di Comenio, e al medesi-
mo tempo ci fa intendere che quando il tedesco presentò
il procedimento caravaggesco nei termini che sappiamo,
egli parlava con piena cognizione di causa, e in forza di
ciò lo presentava a quel modo. Per altro, a quel modo
egli affermava anche che, in quanto l’osservazione siste-
matica del Caravaggio era stata di natura «ottica», e
aveva adottato l’occhio come strumento privilegiato per
l’acquisizione di conoscenze pittoriche più sicure e di
prima mano, la sua opera andava considerata parte inte-
grante del contesto originario in cui quelle vedute e
quelle pratiche furono trovate per la prima volta. Il
Caravaggio, insomma, era stato fra gli scopritori di quel
procedimento; in ogni caso era stato colui che aveva rin-
novato la pittura applicando a essa quel metodo, per la
prima volta. Non esiteremo ad attribuire all’insieme di
queste asserzioni il valore di testimonianza, se riflettia-
mo che Sandrart, il quale era stato in Italia ben prima
che scrivessero Baglione e Bellori (Mancini rimaneva
manoscritto), a Roma era stato ospite di Vincenzo Giu-
stiniani; e il marchese Giustiniani, intenditore di molte
scienze, aveva visto il Caravaggio all’opera, ne aveva
citato per iscritto i pareri, ne possedeva molti dipinti
essenziali, e fra questi – ottenuta molto presto dai Mat-
tei, per i quali era stata eseguita, per di più tenuta così
bene a mente da riconoscerla a prima vista anche in
copia, come accadde a Genova nel 16o6 – giusto quel-
l’Incredulità di san Tommaso, che per le ragioni esposte
a suo luogo a noi piacerebbe di intitolare l’«Incredulità
del Caravaggio».54

Storia dell’arte Einaudi 61


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

Il libro della Alpers è poi fitto di numerose altre


osservazioni particolari suscettibili di essere rapportate
in linea preferenziale alla chiave caravaggesca che a noi
preme. Così, dove sotto il titolo La vocazione cartogra-
fica dell’arte olandese si legge che, «malgrado la rivolu-
zione pittorica rinascimentale, cartografi e artisti nordici
continuarono a concepire il quadro come una superficie
su cui descrivere, o inscrivere il mondo visibile, e non
come un palcoscenico su cui rappresentare le gesta degli
uomini»,55 a mio parere s’individua uno stato di cose in
cui, all’alba dell’età post-rinascimentale di tutta Euro-
pa, il Caravaggio s’incontra per primo. E poiché ciò ha
di nuovo a che fare con la vexata quaestio della pittura
d’azione come pittura di storia, che i critici del Cara-
vaggio (lo ripetiamo) gli rimproveravano di trascurare a
vantaggio di una mera pittura «di ferma», si proietta
necessariamente e in primo luogo sul maestro lombardo
tutta la serie di acute osservazioni che la Alpers fa a pro-
posito della natura morta seicentesca nel Nord: «Gli
oggetti vengono offerti all’esplorazione dello sguardo»;56
«Con buona pace delle interpretazioni moderne, i limo-
ni di Kalf non sono esposti ai guasti del tempo, ma
all’indagine dell’occhio»;57 «Il mondo è immobilizzato,
come nelle nature morte olandesi, per poter essere osser-
vato».58 La stessa Alpers, del resto, quando aveva intro-
dotto il Caravaggio in compagnia di Velázquez, di Ver-
meer, di Courbet e di Manet, non si era lasciata sfuggi-
re che nelle sue opere (ma citava solo La crocifissione di
san Pietro) «le figure sono fermate nell’azione per poter
essere ritratte».59 Il che viene a combaciare a puntino
con il nostro punto di vista, che la «natura morta» del
Caravaggio non si limita ai dipinti di fiori (purtroppo
non pervenutici) o di frutti (la celebre Fiscella dell’Am-
brosiana), ma investe tutta la sua opera, appunto nel
pareggiamento di «fiori» e «figure», come sappiamo,
nell’obiettività di un mondo «immobilizzato per esser

Storia dell’arte Einaudi 62


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

visto».60 Anche questo, del resto, la Alpers trova nel dia-


rio di uno dei suoi autori esemplari: il baconiano Isaac
Beeckman, amico di Cartesio e di Mersennes. «È l’ap-
parenza e in certo senso la natura del mondo ad attira-
re l’interesse di Beeckman: la sua curiosità non fa distin-
zione fra l’uomo, la natura e i rispettivi prodotti».61
Un altro aspetto della Stilleben nordica che ha a che
fare in modo diretto con l’autentico «spirito di natura
morta» di cui l’opera del Caravaggio è pervasa, è quel-
lo che la Alpers indica nei «riflessi luminosi», nei gio-
chi di luce», che «permettono di distinguere il vetro dal
metallo, dal tessuto».62 Altrove, la stessa studiosa scri-
ve che, condividendo «i tradizionali interessi degli arti-
sti nordici», Keplero «rivolse la sua attenzione non solo
alla camera oscura, ma anche alle lenti, agli specchi e
perfino alle bottiglie urinarie riempite di liquido tra-
sparente, che gli servirono per studiare la rifrazione
della luce».63 Bottiglie urinarie a parte, non v’è il mini-
mo dubbio che l’esplorazione dei recipienti di vetro
riempiti a mezzo di liquidi trasparenti, e l’attenzione alla
rifrazione della luce che li attraversa e agli effetti di
proiezione ottico-luminosa che ne derivano, sono tratti
in grande evidenza nell’opera del Caravaggio. Essi anzi
s’impongono, per insistenza e per qualità di risultati
pittorici, almeno fino a quando il maestro non diede il
sopravvento all’«ingagliardire gli oscuri». Dal Bacco
degli Uffizi al Ragazzo morso da un ramarro, dal Riposo
durante la fuga in Egitto alla Maddalena Doria, al Giova-
ne che suona il liuto di San Pietroburgo, alla Cena in
Emmaus di Londra,64 è un susseguirsi di veri exploits in
tal senso, con il culmine nella natura morta dell’Em-
maus, la cui porzione di sinistra include una bottiglia e
un bicchiere di vino bianco attraversati dalla luce, e
riverberati nella parte inferiore dalla polla luminosa con
cui quella luce interrompe l’ombra proiettata sulla tova-
glia dai due recipienti, che si direbbero un’illustrazione

Storia dell’arte Einaudi 63


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

degli studi di Keplero sulla rifrazione della luce, se non


fossero sicuramente anteriori a essi, e soprattutto non
fossero uno dei più alti raggiungimenti della rivoluzio-
ne pittorica che il pittore veniva portando avanti. Le
stesse fonti si soffermano con cura e sorpresa non cela-
ta su questo tratto dell’opera caravaggesca, e la illustra-
no con una terminologia che si direbbe consapevole:
«Dipinse (...) un giovane che sonava il Lauto, che vivo
e vero il tutto parea, con una caraffa di fiori piena d’ac-
qua, che dentro il reflesso d’una finestra eccellente-
mente si scorgea con altri ripercotimenti di quella came-
ra dentro l’acqua (...). E questo (disse) che fu il più bel
pezzo che facesse mai» (G. Baglione, 1642); «Dipinse
una caraffa di fiori con le trasparenze dell’acqua e del
vetro e coi riflessi della fenestra d’una camera, sparsi li
fiori di freschissime rugiade, ed altri quadri eccellente-
mente fece di simile imitazione» (G. P. Bellori, 1672).65
La Alpers ha ragione da vendere quando specifica che
«considerandola dall’osservatorio, privilegiato degli
studi ottici di Keplero, potremmo dire che l’attitudine
della luce a produrre immagini era da molto tempo, nel
Nord, un motivo di interesse. Van Eyck ci mostra, nella
pala d’altare Van der Paele, che ogni superficie illumi-
nata, lucida e riflettente, produce immagini».66 Io stes-
so sono stato da tempo colpito dal fatto che negli spor-
telli dell’altare Werl del Maestro di Flémalle, oggi al
Prado,67 quello col Battista include uno specchio con-
vesso in cui, svolgendo il modo già tenuto da Van Eyck
nei Coniugi Arnolfini, si riflette tutta la scena che abbia-
mo davanti, finestra e luci riverberate comprese; e quel-
lo con la santa Barbara leggente ha brani di natura morta
d’una specularità sbalorditiva, che tocca un culmine
nella bottiglia di vetro, riempita a metà d’un liquido tra-
sparente, che figura in alto a destra, a lato del camino.
Questa bottiglia proietta in tal modo se stessa, e la luce
che la attraversa, sulla parete chiara retrostante, da

Storia dell’arte Einaudi 64


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

costituire l’anticipazione più diretta che si possa indicare


per l’inserto della bottiglia e del bicchiere nell’Emmaus
del Caravaggio a Londra appena ricordato. Solo che il
Caravaggio fu il primo a trasporre tutto questo dalla
dimensione micrografica, più precisamente miniatoria,
che costituiva ancora un tratto tipico della pittura fiam-
minga durante la prima metà del secolo xv, nella scala
a misura d’uomo, e dunque di «verità», che solo l’ap-
propriazione dell’ingrandimento rinascimentale (da Raf-
faello e Michelangelo, per un verso, dal Savoldo al
Moretto, per un altro) poteva consentire.
Senza abbandonare il terreno della valenza innanzi-
tutto caravaggesca delle ricerche sull’«attitudine della
luce a produrre immagini», e venendo perciò al proble-
ma principe dell’opera matura del maestro, il luminismo
come rapporto bruciante di luce e ombra o, come lo
definì Longhi, «fotogramma»; conviene leggere quel
che la Alpers estrae dai procedimenti seguiti da Antony
van Leeuwenhoek nelle sue analisi al microscopio: «Per
rendere visibile l’oggetto – ad esempio dei globuli san-
guigni – Leeuwenhoek dispone la luce e lo sfondo (...)
in modo tale che i globuli “risulteranno come granelli di
sabbia su un pezzo di taffetà nero”». «È come se qui
Leeuwenhoek – osserva la studiosa – stesse pensando
allo sfondo scuro prediletto dai pittori olandesi di natu-
re morte».68 Da parte nostra, come non pensare, inve-
ce, proprio al Caravaggio, quando organizza il dato pri-
mario del buio assoluto, per osservare come operi il rag-
gio di luce che lo squarcia e va ad abbattersi su uomini
e cose, o pezzi di uomini e cose, che incontra nel tra-
gitto, rivelandoli in tutta la loro effettualità dove sono
allumati, e dando forma alle ombre che proiettano?

Proprio di questa scuola [cioè, del Caravaggio], è di


lumeggiar con lume unito che venghi dall’alto senza refles-
si come sarebbe in una stanza da una finestra, con le pare-

Storia dell’arte Einaudi 65


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

ti colorite di negro, che così avendo i chiari e l’ombre molto


chiari e molto oscure, vengano a dar rilievo alla pittura, ma
però con modo non naturale né fatto né pensato da altro
secolo o pittori più antichi, come Raffaello, Tiziano, Cor-
reggio e altri.

Ut autem rotundam corporum molem et naturalem


rerum elevationem eo melius ex-primeret, data opera con-
clavibus utebatur obscurioribus e supernis uno lumine
minore collustratis, ut ideae lumen e fenestra allapsum eo
minus alio lumine impediretur, umbrae autem eo fortiores
prodirent, adeoque debita ex hinc resultaret extuberantia.

Il primo passo citato è di Giulio Mancini, il secondo


ancora di Sandrart, e segue a quello sull’esposizione della
cosa all’occhio commentato nelle pagine precedenti.69
Ma poiché abbiamo visto quali affinità corrano fra que-
st’ultimo e il passo che Sandrart dedica a Galileo, e in
questo ricorre l’esaltazione della scoperta della luna, la
quale «per tubum», insieme ai monti e alle valli, «lucem
et umbram (...) ad oculum ostendit», viene naturale di
ricordarsi delle figure, autografe di Galileo, che accom-
pagnano l’abbozzo manoscritto del Sidereus nuncius con-
servato alla Biblioteca Nazionale di Firenze. In una di
tali figure, a foglio 28, è ritratta sei volte la luna osser-
vata al telescopio, con le sue asperità e nelle sue fasi; ma
quel che più colpisce è che in quattro delle fasi ritratte,
con l’effetto, obiettivamente percepito, del contrasto fra
le parti in luce e le parti in ombra, e persino della penom-
bra quando la luna è còlta al primo quarto, Galileo non
ha trascurato di accampare l’immagine su fondo nero, a
prova di come il satellite appare e si rivela nel buio cosmi-
co.70 Se non si trattasse della riproduzione di osservazioni
astronomiche di fatto, le quattro immagini ritratte da
Galileo si direbbero «caravaggesche» tout court, ed è
sorprendente come si pongano giusto a mezzo fra i dipin-

Storia dell’arte Einaudi 66


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

ti del Merisi eseguiti secondo il metodo descritto da


Mancini e Sandrart, e i «granelli di sabbia su un pezzo
di taffetà nero» visti al microscopio da Leeuwenhoek,
dopo aver «disposto la luce e lo sfondo». Il procedi-
mento scelto dal Caravaggio era in definitiva un esperi-
mento ottico condotto in particolari condizioni di luce,
sostanzialmente provocato e «non naturale» (lo diceva
già Mancini), come lo sarebbe stato in senso tecnico
quello di Leeuwenhoek; in questo, si differenziavano
entrambi dall’osservazione di Galileo; ma colpisce che
tutti e tre, sebbene per vie diverse, esaltino la medesima
condizione di «natura» per cui la luce ha attitudine a pro-
durre immagini e l’oscurità è un primum che condiziona
e mette in valore il rapporto fra luce e ombra.
Sicché, quando si legge qua e là che il luminismo del
Caravaggio avrebbe i suoi precedenti in Luca Cambia-
so o in Tintoretto, e persino nella Sacra Famiglia davan-
ti al focolare di Jan Vermeyen a Vienna;71 o, per tutt’al-
tro verso, quando si legge in Calvesi che l’uso caravag-
gesco della luce-ombra non potrebbe essere valutato
come un «puro e antistorico prodotto dell’immagina-
zione pittorica» al di fuori del «sentire religioso», e
sarebbe errore non vedervi una motivazione di signifi-
cati ideali, posto che «la filosofia del tempo non poteva
offrire altra risposta che non fosse quella religiosa»,72 si
resta quanto meno perplessi. Nella Lampas triginta sta-
tuarum di Giordano Bruno, scritta a Wittenberg fra il
1586 e il 1588, la «notte», sebbene intesa simbolica-
mente, è già considerata «materia prima»;73 e anche
altrove, «in Bruno, il mondo si presenta come oggetto
da illuminare».74 Il che non è senza riscontro con la
costatazione astronomica, dovuta di nuovo a Galileo,
che «i pianeti tutti sono di loro natura tenebrosi». Che,
se poi si volesse dare a ogni costo un «significato idea-
le» a ciò che s’è incontrato per le vie battute finora, e
che palati difficili trovassero esclusivamente «materia-

Storia dell’arte Einaudi 67


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

listico», c’è sempre la possibilità di ricorrere allo spiri-


tualismo sui generis di Tommaso Campanella. Fra le
«poesie filosofiche» pubblicate nel 1622 sotto lo pseu-
donimo di Settimontano Squilla, s’incontra un madri-
gale che dice:

Stavamo tutti al bujo, altri sopiti


D’ignoranza nel sonno, e i sonatori
Pagati raddolciro il sonno infame.
Altri vegghianti rapivan gli onori,
La robba, il sangue, e si facean mariti
D’ogni sesso, e schernian le genti grame.
Io accesi un lume; ecco qual d’api esciame
Scoverti, la fautrice tolta notte,
Sopra a me a vendicar ladri e gelosi,
E que’ le paghe, e i brutti sonnacchiosi
Del bestial sonno le gioje interrotte,
Le pecore co’ lupi fur d’accordo
Contra i can valorosi,
Poi restar preda di lor ventre ingordo.75

L’«esposizione» che accompagna il madrigale dice:

Narra che stando il mondo nello scuro, e facendo tanto


male ognuno al prossimo, e che gli sofisti ed ippocriti pre-
dicando adulazioni fanno dormir il Mondo in queste tene-
bre; egli accendendo una luce, ebbe contro gli ingannati e
gli ingannatori, e che quelli come pecore accordate co’ lupi
contra gli cani, son devorate poi da’ lupi secondo la para-
bola di Demostene.

Il qual madrigale, con l’«esposizione» relativa, con-


tiene certamente un’allegoria; ma sotto il velo dell’alle-
goria illustra con grande chiarezza la sorte che rischia
chiunque «accenda un lume». Né il Caravaggio e Gali-
leo pare che facessero eccezione.

Storia dell’arte Einaudi 68


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

Un ultimo punto emerge dal secondo dei tre passag-


gi del libro della Alpers in cui Caravaggio è tirato in
causa: «Artisti di Utrecht come Honthorst e Terbrug-
ghen sono spesso classificati come seguaci del Caravag-
gio; ma l’artista italiano di cui subivano il fascino era a
sua volta profondamente attratto dalla tradizione nor-
dica, e si potrebbe sostenere che il Caravaggio non fece
altro che ricondurli alle proprie radici».76 V’è parecchio
di vero in questo assunto, ma quel vero s’individua se
s’inquadra il problema in altro modo. Ed è che nel Cara-
vaggio, per la via lombarda, riemergevano le tendenze
«nominalistiche» del pensiero e della fisica del secolo
xiv, da Occam in avanti. Gli spunti più vivi del prag-
matismo, ovvero sperimentalismo empirico, dei «nomi-
nalisti» sono ben evidenti nell’empiria e nel carattere
corsivo osservato da Longhi nella pittura lombarda tra
Quattro e Cinquecento (da Foppa, a Savoldo, a Moret-
to da Brescia), e l’ambiente lombardo, come appare sem-
pre più evidente dal progresso degli studi, era permea-
to di ricordi e talvolta di conoscenze specifiche della
grande pittura fiamminga, il cui speculare «naturali-
smo» è anch’esso, anzi innanzitutto esso, interpretabi-
le in collegamento diretto con l’interesse per le «cause
seconde» su cui i «nominalisti» si basavano. È questo
un aspetto del problema che richiederà indagini più
approfondite di quelle fatte finora, ma che non rischia
smentite sostanziali, semmai aggiustamenti più precisi.
Il Caravaggio s’era formato in Lombardia, alla bottega
del Peterzano, e aveva una profonda conoscenza – come
dimostrò Longhi, né è stato ancora invalidato nono-
stante i diversi tentativi di sviamento – della ricerca pit-
torica svolta nella regione: dové derivare innanzitutto di
lí la disposizione «nominalistica» a dar corpo alle cose
e ad assumere nei confronti della «natura» l’atteggia-
mento positivamente sperimentale che ormai conoscia-
mo bene. Ma per tornare ancora un momento su quan-

Storia dell’arte Einaudi 69


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

to abbiamo osservato poco a dietro a proposito d’uno dei


sintomi principali di tale atteggiamento del Caravaggio
nei confronti della «natura», vale a dire degli interessi
«pre-kepleriani» coltivati dal maestro durante gli ultimi
anni del secolo xvi per la rifrazione della luce nei vetri
e nei liquidi trasparenti, nonché dei loro precedenti
fiamminghi d’un Van Eyck e d’un Maestro di Flémalle,
vorrei aggiungere un’osservazione particolare, che inter-
ferisce nella questione in point. Sempre la Alpers ha
sostenuto che l’interesse ottico dei fiamminghi, e in
genere dei settentrionali, per la vicenda della luce, delle
trasparenze e dei riflessi, poteva esser nato dal fatto che
«le lenti e gli specchi non erano oggetti di studio ma pro-
dotti artigianali che facevano parte, come piacevoli
curiosità, dell’armamentario del pittore. Numerosi arti-
sti olandesi erano figli di vetrai. Nel Seicento Jan van
der Heyden costruiva e vendeva specchi. È insomma un
esempio di tecnica artigianale che finisce per diventare
oggetto del sapere scientifico».77 Personalmente, riten-
go invece che quell’interesse nascesse, per conoscenza
diretta probabilmente, comunque per compartecipazio-
ne di un medesimo clima culturale, proprio dalle tan-
genze con le ricerche dei fisici «occamisti» della secon-
da metà del Trecento; i quali, impegnati nello studio
della perspectiva naturalis, erano per quella via divenuti
attentissimi «agli effetti luminosi della riflessione su
specchi curvi concavi, e ai vari tipi di apparenze che ne
derivano», e a «come proceda la rifrazione della luce nel-
l’acqua e nel vetro»; avendo per altro assunto a model-
lo dell’indagine l’arcobaleno e le gocce d’acqua che lo
compongono. «Iris fit – si legge in Enrico di Langen-
stein – per reflexionem a superficiebus convexis gutta-
rum pluvialium descendentium in magna latitudine et
profunditate et non a superficie nubis alicuius adhuc
non conversae in pluviam. Secunda conclusio a qualibet
talium guttularum fit reflexio ad visum existentem in

Storia dell’arte Einaudi 70


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

superficie terrae inter solem et nubem (...)»: il tutto nel


guadagnato convincimento che la perspectiva non era
«più la scienza generale del mondo, sul modello della
metafisica aristotelica e sulla base di una dottrina sostan-
zialistica della luce, ma una disciplina particolare, fisi-
ca, che si serve di regole geometriche per spiegare l’a-
zione di uno dei molteplici agenti naturali: quelli lumi-
nosi».78
Nel senso finora illustrato, è d’altra parte sintomati-
co che proprio per gli anni in cui il Caravaggio uscì in
campo, nelle sedi più autorevoli del pensiero scientifico
italiano in evoluzione, è possibile raccogliere tutta una
serie di indicazioni sul risorgere di un uguale interesse
verso il pensiero di Occam, di Roger Bacon, dei fisici
parigini del secolo xiv, dei «Calculatores» del Merton
College, di Jean Gerson. Analogamente al gruppo dei
filosofi londinesi, Giordano Bruno «antepone Roger
Bacon e Duns Scoto e, insomma, la vecchia scolastica
oxfordiana al nuovo aristotelismo retorico imperante nel-
l’accademia», e ciò – è stato detto da un competente –
«non va in alcun modo inteso come un atteggiamento
retrivo: ché, soltanto superando il grammatismo aristo-
telico e ispirandosi al “metodo” della grande scolastica
si rese possibile la fondazione del nuovo pensiero filoso-
fico-scientifico».79 Lo stesso può dirsi di Paolo Sarpi. Di
lui sono noti gli interessi per le «cose naturali et mathe-
matiche», ossia per le scienze sperimentali (medicina,
fisica, astronomia), e in particolare per il «muodo come
si fa la visione» (sono parole sue), che era il problema pre-
diletto delle sue speculazioni ottiche; di lui sono addi-
rittura risaputi i rapporti con Galileo, alla costruzione del
cui telescopio si vantò di aver collaborato, e al quale
diede la possibilità di utilizzare il monastero veneziano
dove risiedeva per effettuare le osservazioni astronomi-
che che portarono alla scoperta dei satelliti di Giove.80
Eppure, proprio questo Sarpi s’era formato, sotto la

Storia dell’arte Einaudi 71


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

guida d’un esperto come il padre servita Giammaria


Capella, studiando i filosofi tardomedievali, in partico-
lare Guglielmo Occam e Duns Scoto;81 e durante la
«guerra» dell’Interdetto, che lo vide schierato con la
Repubblica di Venezia contro la Chiesa romana di Paolo
V, si servì con fiducia profonda delle dottrine ecclesio-
logiche e conciliariste di Jean Gerson, curando la tradu-
zione in italiano di alcuni suoi scritti, premettendo a
essi un’introduzione illuminante, e difendendone subito
dopo le tesi «sopra la validità della scomunica» in un
libretto che non è abbastanza noto quanto dovrebbe: l’A-
pologia per le opposizioni fatte dall’illustrissimo e reveren-
dissimo cardinale Bellarmino alli trattati e risoluzioni di
Giovanni Gersone.82 Quanto a Galileo, gli specialisti
sanno che esiste una letteratura, per altro discussa, inte-
sa a identificare i «precursori» di alcune sue dottrine in
fisica (e di quelle di Copernico in «geometria») negli
sperimentalisti trecenteschi delle scuole di Parigi e di
Oxford; e ricorrono i nomi di Giovanni Buridano e di
Nicolas Oresme. Una nota studiosa della «scholastichen
Naturphilosophie», Annelise Maier, attenta in modo
speciale al confine «von Scholastik und Naturwissen-
schaft», ha addirittura intitolato un suo lavoro Die
Vorläufers Galileis im 14. Jahrhundert.83 Qualunque cosa
si debba pensare dei particolari, diciamo così, tecnici di
questa linea di ricerca, non si può sottovalutare che essa
sia sorta e si sia sviluppata; mentre non si riesce ad allon-
tanare del tutto il dubbio che le obiezioni mosse contro
di essa, sia in quanto si fondano su una sorta di conte-
stazione pregiudiziale del concetto storiografico di «pre-
cursore», sia in quanto tendono a minimizzare le somi-
glianze e a ricondurle alla mediazione degli uomini del
Rinascimento, debbano anch’esse qualcosa al «pregiudi-
zio italiano» combattuto dalla Alpers.
Così, si torna al contesto culturale qui esemplificato,
e il «naturalismo» sperimentale e ottico del Caravaggio

Storia dell’arte Einaudi 72


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

ne prende connotati ulteriori, sulla traiettoria di quel


complesso e potente moto di contestazione della sapien-
za mentalistica tradizionale, che ha i suoi campioni in
Bruno, Della Porta e Campanella da un lato, in Sarpi,
Galileo e Bacone dall’altro. Ai quali vorrei aggiungere
in conclusione Isaac Casaubon. Corrispondente ed esti-
matore di Sarpi e di quasi tutti gli uomini di punta del-
l’intellighenzia italiana del momento, Casaubon merita
di essere ricordato qui perché fra il 1610 e il 1614 dimo-
strerà filologicamente, confutando Cesare Baronio, che
il Corpus hermeticum non era affatto il testo della prisca
theologia – risalente a prima di Mosè, oltre che a prima
di Platone, come s’era ritenuto da Marsilio Ficino in poi
–; era solo una pia falsificazione cristiana del ii secolo
dopo Cristo, elaborata in ambiente egizio. Questa dimo-
strazione assestava un colpo grave al castello concettuale
costruito sulla base dell’ermetismo; così come lo asse-
stava, nei confronti dell’astrologia, la scoperta di Gali-
lei che i pianeti erano in numero maggiore dei sette
considerati dalla tradizione. Nel caso di Galilei, lo
apprendiamo dalle parole di un contemporaneo, il quale
rilevò con acume

l’asprissima querela fatta da tutti gli astrologi e da gran


parte de’ medici; i quali intendendo che si aggiungono tanto
nuovi pianeti a’ primi già conosciuti, par loro necessaria-
mente ne venga rovinata l’astrologia e diroccata gran parte
della medicina; perciocché la distribuzione delle case dello
zodiaco, le dignità essenziali ne’ segni (...) e cento e mil-
l’altre cose, che dipendono dal numero settenario de’ pia-
neti, sarebbero tutte sin da’ fondamenti distrutte.84

Siamo insomma obbligati a riconoscerlo: pur muo-


vendo solo dalle cose dell’arte, ma con la maggiore chia-
rezza mentale, e in un momento ancora precoce dell’in-
tero processo (alla sua morte, Galileo non aveva ancora

Storia dell’arte Einaudi 73


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

rivolto il «cannone-occhiale» al cielo), Caravaggio fu


tra gli scopritori più risoluti della superiorità del rista-
bilito contatto con le «cose naturali» rispetto a qualsia-
si altra forma di conoscenza e di rappresentazione basa-
ta su schemi precostituiti. Sicché ciascuno può ora vede-
re da sé quanto poco quest’ordine di idee abbia a che
fare con una «brutale mimesi»; quanto poco richieda
d’essere perciò esorcizzato, infarcendolo di sensi este-
riormente e corrivamente spiritualistici o banalmente
simbolico-allegorici; quanto poco meriti di essere con-
vertito da «naturalismo» in «realismo», posto che in
questo caso il termine «naturalismo» si riempie con con-
cretezza storica degli stessi significati rinnovatori che
attribuiamo alla ricerca sulla «natura» condotta speri-
mentalmente dai maggiori rappresentanti del secolo, e
non del significato diverso, più specialisticamente
ristretto, che attribuiamo al «naturalismo» ottocentesco,
definibile molto meglio «verismo». Il «naturalismo» del
Caravaggio ha gli stessi connotati del più importante
evento intellettuale della sua età, e per questo costituì
la molla di un rivolgimento che avrebbe accompagnato
l’intera esperienza moderna.
Alla teoria, incomparabilmente più fine delle altre,
sostenuta soprattutto da Giulio Carlo Argan, che il valo-
re del modo di vedere caravaggesco non dovrebbe esse-
re indicato «restrittivamente» in un semplice e persino
ingenuo guardare oggettivo, ma in un «comportamento»
che acquista senso e portata in quanto è di ordine etico,
si può allora contrapporre una diversa evidenza. Con-
cesso subito che non si dà rispecchiamento fuori della
coscienza, cioè fuori della capacità e della volontà di
rendersene conto, il comportamento artistico del Cara-
vaggio assunse valore etico in quanto consiste per pro-
gramma nel guardare oggettivo che abbiamo tentato di
illustrare: non già, dunque, come indotto, passivo e
rudimentale criterio di imitazione delle cose di natura,

Storia dell’arte Einaudi 74


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

secondo una lettura troppo letterale ed esteriore della


dichiarazione del Caravaggio stesso, ma come principio
di un rivolgimento radicale, così delle cose dell’arte
come dell’atteggiamento di fondo nei confronti della
realtà. L’etica, vorremmo dire la «religione», del Cara-
vaggio consisté nell’aver assunto a soggetto (non sol-
tanto a oggetto) della sua arte questa nuova idea della
natura e della realtà esistenziale, contrapposta in nome
dell’esperienza diretta all’idealismo evasivo e allegoriz-
zante dell’epoca, tendendo altresì a sgombrare quell’idea
di natura di altri sensi che non fossero direttamente
conciliabili con essa. Di qui mosse la «religione» del
Caravaggio a riaffrontare sia la tematica mitologico-alle-
gorica, sia quella sacra, facendo saltare sia l’intellettua-
lismo aulico dei simboli, sia l’osservanza bigotta della
«prudenza» iconografica post-tridentina.

1. «Dipinse una fanciulla a sedere sopra una seggiola...»

1. Una sintesi della discussione e dei suoi termini, soprattutto in


rapporto alle opere giovanili del maestro e fino alla data del 1982-83,
è stata tentata da Cinotti, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio cit.,
pp. 506-09, ma riducendola troppo drasticamente (pp. 508-o9) alle
posizioni-capostipite di Roberto Longhi e di Lionello Venturi. Per lo
svolgimento delle posizioni dello stesso Longhi, che non furono affat-
to così univoche come si potrebbe credere, e anzi vennero trasfor-
mandosi profondamente nel prosieguo del tempo, si veda l’eccellente
ricostruzione tentata da Giovanni Previtali nell’Introduzione all’edi-
zione critica di Longhi, Caravaggio cit., pp. 9 sgg.
2. Cfr. specialmente Argan, Il realismo nella poetica del Caravag-
gio cit.
3. Cfr. in proposito l’intervento di Carlo Bertelli nella scheda rela-
tiva all’Autoritratto di Giovanni Paolo Lomazzo a Brera, n, 5 del cata-
logo della mostra Caravaggio e il suo tempo cit., pp. 6o-62.
4. Oltre al saggio di Argan citato nella precedente nota 2, cfr. in
particolare Fagiolo dell’Arco, «Le Opere di Misericordia» cit., passim;
Salerno, Poesia e simboli nel Caravaggio. I dipinti emblematici cit., pp.
1o6-12; Id., Caravaggio nel contesto culturale italiano: gli estimaton e i

Storia dell’arte Einaudi 75


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

committenti, in catalogo della mostra Caravaggio e il suo tempo cit., pp.


17-21. Per altri interventi recenti, cfr. Calvesi, Le realtà del Caravag-
gio. Seconda parte cit., passim, con dati bibliografici ulteriori nelle note
di pp. 234 e 235.
5. A scanso di equivoci, preciso fin da ora che fra tali opere lo scri-
vente non include l’affresco mitologico esistente nel camerino del casi-
no Ludovisi a Roma, pubblicato sulla fede del Bellori come opera «pro-
babile» del Caravaggio da Giuliana Zandri (Un probabile dipinto mura-
le del Caravaggio per il Cardinale Del Monte, in «Storia dell’Arte», 1969,
3, pp. 338-43), e poi discusso variamente dalla letteratura successiva –
una compiuta rassegna della quale è ora fornita da Calvesi, Le realtà del
Caravaggio. Seconda parte cit., pp. 234-35, note 34-37, il quale per suo
conto, non solo accoglie l’attribuzione e la considera «inconfutabile e
di fondamentale importanza», bensì ne fa il naturale cavallo di batta-
glia dell’aspetto «caravaggesco» delle sue ben note tesi panalchemiche.
6. Cfr. Cinotti, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio cit., p. 5o8.
7- Cfr. Brandi, L’epistème caravaggesca cit., passim.
8. Cfr. Bologna, Il Caravaggio nella cultura e nella società del suo
tempo cit., pp. 166 sgg.
9. Con riferimento a quanto avevo esposto in Dalle arti minori
all’industrial design cit., cfr. infatti I metodi di studio dell’arte italiana
cit., e Dal «testo» al «contesto». Condizioni di metodo per una storiografia
positiva delle arti figurative, lezioni tenute all’Istituto italiano per gli
Studi filosofici di Napoli nel marzo 1986.
1o. Mi riferisco, tra l’altro, al giudizio varie volte citato – e anche
in epigrafe di saggi ben noti come Aspirazioni e limiti dell’iconologia di
Ernst H. Gombrich, 1971 –, che Panofsky espresse in The meaning in
the visual arts, New York 1955, trad. it. Il significato nelle arti visive,
Torino 1962, p. 37: «Comunque non si può negare che ci sia il peri-
colo che l’iconologia si comporti non come l’etnologia rispetto all’et-
nografia, ma come l’astrologia rispetto all’astrografia».
11. Ernst H. Gombrich ha anche altrove espresso preoccupazioni,
e aggiunto raccomandazioni di cautela, in materia di interpretazioni ico-
nologiche; per esempio, nella prefazione a Symbolic Images. Studies in
the Art of the Renaissance, Londra 1972, trad. it. Immagini simboliche.
Studi sull’arte nel Rinascimento, Torino 1978, p. xxii, dove si leggono
queste altre assennatissime considerazioni: «Come poter affermare in
ogni singolo caso che eravamo autorizzati a usare questa chiave, e
quale delle molte possibilità aperte avanti a noi si doveva scegliere?
L’interrogativo si fece più acuto quando interpretazioni disparate furo-
no avanzate da diversi studiosi, ognuna di esse confortata da copiosa
erudizione. I nuovi collegamenti tra dipinti e testi che un tribunale
avrebbe potuto accettare come oggettivamente provati continuavano
ad essere, purtroppo, rari. Il passare degli anni e la frequenza con cui

Storia dell’arte Einaudi 76


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

il metodo è stato applicato senza controlli appropriati non hanno fatto


che aumentare queste diffidenze».
12. Su una serie di casi, quasi tutti tratti dagli scritti caravaggeschi
di Maurizio Calvesi, nei quali l’esasperazione del metodo fondato sul-
l’interpretazione dei «simboli» isolati ad libitum (e spesso assunti al solo
livello verbale) più ha portato lontano dalla concreta realtà figurativa
delle opere, mi sono soffermato abbastanza ampiamente nel saggio I
metodi di studio dell’arte italiana cit., pp. 270-72. Qui vorrei aggiunge-
re che, sulla strada battuta da Calvesi, uno studioso più giovane ha toc-
cato una tappa estrema: isolare il simbolo, più o meno presunto, dal
contesto (contesto, per altro, non solo figurativo), quindi attendere a
tramare una storia dei rapporti culturali sul filo dei ritorni del solo sim-
bolo così isolato. E proprio ciò che abbiamo dovuto costatare nel capi-
tolo precedente, in uno scritto di Alessandro Zuccari, a proposito delle
pale assunte a simbolo-guida per raccordare «all’interno del crogiuolo
di filoni culturali controriformati», e in particolare gesuitici, il Sep-
pellimento di santa Lucia del Caravaggio a Siracusa, i Martìri di Santo Ste-
fano Rotondo a Roma e le incisioni del Cartari nelle Icones Operum Mise-
ricordiae di Giulio Roscio (cfr. Zuccari, Arte e committenza nella Roma
di Caravaggio cit., pp. 147-50): naturalmente, continuando a parlare di
«simbolo» anche quando la pala (che talvolta è in effetti una zappa) è
introdotta nella raffigurazione soltanto per la sua funzione normale! Ma
si veda quanto è stato già esposto sopra, a pp. 41 1 -12, nota 73.
13. Cfr. in Paola Della Pergola, La Galleria Borghese. I Dipinti,
Roma 1955-59, vol. II, 1959, pp. 76-78.
14. Cfr. Bellori, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, ed.
cit. p. 215.
15. Cfr. ibid.
16. Tutto il passaggio del presente scritto relativo al giudizio del
Bellori sulla Maddalena figurava già nella mia comunicazione al conve-
gno linceo del 1973 e fu pubblicato negli atti relativi: cfr. Il Caravag-
gio nella cultura e nella società del suo tempo cit., pp. 167-68. A tale pas-
saggio replicò Giulio Carlo Argan (cfr. negli stessi atti, p. 188), con un
intervento nel quale il tentativo di rovesciare con un sofisma il ragio-
namento impugnato finiva col rinchiuderlo, in termini logici, giusto
nelle maglie di ciò che voleva impugnare. Scriveva Argan: «Quando
Bellori dice che il Caravaggio raffigurò una ragazza che si asciuga i
capelli e “la finse per Maddalena» (e lo stesso discorso vale per l’an-
negata “finta» come Madonna morta e per la cena all’osteria “finta»
come Cena in Emmaus) distingue chiaramente due tempi: la ripresa
della realtà e l’attribuzione di un significato religioso. Prima l’artista
ritrae la ragazza e poi la identifica con la Maddalena. È chiaro allora
che non v’è conformità a un tema iconografico tradizionale, ma un pro-
cesso interiore per cui l’artista, portando in sé la memoria profonda del-

Storia dell’arte Einaudi 77


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

l’immagine della Maddalena, la vede d’un tratto inverarsi nell’incon-


tro occasionale con la ragazza che si asciuga i capelli». Ebbene, scon-
tato che nel Caravaggio non è mai a parlare di «conformità a un tema
iconografico tradizionale», come può conciliarsi il fatto che «prima l’ar-
tista ritrae la ragazza e poi la identifica con la Maddalena», con l’altro
fatto che lo stesso artista, «portando in sé la memoria profonda del-
l’immagine della Maddalena, la vede d’un tratto inverarsi nell’incon-
tro occasionale con la ragazza»? È chiaro che questa volta è Argan a
«fingere» di non dare a vedere che, mentre accetta il prima e il poi di
Bellori, in effetti torna nelle conclusioni a invertirne i termini (o, per
dir meglio, tenta di tornare a invertirli). Facendo venire prima quel che
per Bellori, e in realtà per il Caravaggio, viene poi, cioè la «memoria
dell’immagine della Maddalena», egli ritrasferisce artatamente al poi
proprio quel che per Bellori, e in realtà per il Caravaggio, viene prima:
«l’incontro occasionale con la ragazza» (alias il «fermarsi all’invenzio-
ne della natura»). Né questo toglie nulla al fatto che nel Caravaggio la
«memoria» dell’immagine della Maddalena sia effettivamente «profon-
da»: alla luce di quel che son venuto sostenendo, quella memoria diven-
ta profonda proprio in quanto il pittore anticipa nell’«invenzione di
natura» ciò che i più affidavano agli «altri pensieri dell’arte», anzi
all’«esercizio dell’ingegno» (abbiamo letto nel testo del Bellori riferi-
to sopra: «egli si fermava a quell’invenzione di natura, senza altrimenti
esercitare l’ingegno»). Dopo questa polemica, anche Evelina Borea
giudicò attentamente: «il Bellori dimostra particolare acutezza nel-
l’avvertire come l’elemento iconografico fosse in questo quadro del
tutto secondario» (cfr. in Bellori, Le vite de’ pittori, scultori e architet-
ti moderni, ed. cit., p. 215, nota 3); tuttavia, pur citando il diverso pare-
re di Ilaria Toesca risalente al 1961 e il consuntivo di Maurizio Mari-
ni, omise di ricordare sia l’intervento di chi scrive sia quello di Argan.
Né si è comportato in modo diverso Giorgio Manganelli, nella nota Le
superbe menzogne del genio edita nel supplemento «più» a «II Mes-
saggero» dell’11 agosto 1989 dedicato al Caravaggio a Roma, dove la
consonanza con quanto son venuto sostenendo dal 1973 è in qualche
passaggio persino verbale, e però s’incontra una valutazione che meri-
ta d’essere riportata per esteso: «Non mi pare che [il Merisi] avesse
una religione interiore ma piuttosto che non avesse grande interesse
per la lettura religiosa degli eventi sacri. Leggo una elegante e sottile
descrizione nel Bellori: “Dipinse una fanciulla a sedere (...) [segue l’in-
tero passo qui commentato, fino a] la finse per Maddalena» . Perfet-
to quel “finse» : che sarà finxit, parte inventò parte mentì; ma certo
la ragazza diventò una Maddalena, non lo era di sua natura. Allo stes-
so modo, il Caravaggio lacerò l’unzione dei temi sacri, e di questi fece
dei titoli, delle didascalie; come fece dei temi accademici di origine
mitologica»

Storia dell’arte Einaudi 78


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

17. È questa, notoriamente, una delle tesi sostenute da Argan, Il


realismo nella poetica del Caravaggio cit.
18. Il tema è ricorrente nella letteratura caravaggesca recente, spe-
cie iconologica.
19. Cfr. lo scritto di Carlo Bertelli citato nella precedente nota 3,
con il rinvio, per i particolari, ai tre saggi lomazziani di J. B. Lynch:
Giovanni Paolo Lomazzo’s Self-Portrait in the Brera, in «Gazette des
Beaux-Arts», 1964, 64, pp. 189-97; Lomazzo and the Accademia della
Valle del Bregno, in «Art Bulletin», 1966, 48, pp. 2 10-11; Lomazzo’s
Allegory Painting, in «Gazette des Beaux-Arts», 1968, 72, pp. 325-30-
20. Cfr. l’Introduzione al catalogo della Mostra del Caravaggio e dei
Caravaggeschi cit., p. xx.
21. Cfr. ibid.
22. È recentissimo un breve saggio di Maurizio Calvesi (Il «Fan-
ciullo morso dal ramarro» cit.) dove, a conferma della tesi già esposta
in precedenza dallo stesso autore – che quel dipinto sarebbe «una
sorta di ammonimento: ricordati, o giovane spensierato, che la giovi-
nezza sfiorisce e la morte può ghermirti all’improvviso. In ultima ana-
lisi, appunto, il tema della vanitas ecc.» –, si nota che la scena trova
rispondenza in alcuni versi del Comanini: «Questa è valle di lagrime,
e di duolo, / Che più spaventa chi più s’assecura (...) / Certa è la
morte, incerto è il come, / e il quando, / Ch’ella improvvisa vien qual
tra’ i fior / l’angue, / E ciò, ch’adhor adhor diletta, et unge, / Poscia
contrista, e punge. (...)». Non v’è dubbio che la rispondenza esista, ma
sono almeno due le osservazioni che vengono subito a mente. La prima
è che i versi del Comanini non fanno che ripetere un topos: un vero e
proprio luogo comune. Quante volte, nella letteratura sia latina che vol-
gare, antica e rinascimentale, nonché nei libretti d’opera cinque-sei-
centeschi, non s’incontra il monito sulla fuggevolezza della bellezza e
della vita adombrata sotto la metafora dell’«angue» mortale che sta
nascosto insidiosamente tra i fiori e le erbe dei prati? Senza dire che,
come tutti dovrebbero sapere almeno dal 1929, il tema del Fanciullo
morso da un granchio era stato messo in figura ben prima che il Coma-
nini ne parlasse, poco avanti il 1559, e ricevendo lodi persino dal Vasa-
ri, dalla pittrice cremonese Sofonisba Anguissola: in un disegno di colle-
zione privata berlinese, del quale è nota una replica a Napoli (cfr. Lon-
ghi, Quesiti caravaggeschi, ed. cit. p. 124, tav. 173). La seconda osser-
vazione è che, quand’anche il giovane Caravaggio avesse fatto in tempo
a leggere i versi del Comanini sopra citati (che s’incontrano nel libro
De gli affetti della mistica theologia, stampato a Venezia nel 1590), e da
tali versi, non da altrove, avesse derivato effettivamente il motivo del
suo quadro, beh!, dovremmo convenire di nuovo che il rapporto ch’e-
gli stabilì con quei versi consisté innanzitutto nella rimozione e nel-
l’obliterazione del loro languido e risaputo moralismo, per procedere

Storia dell’arte Einaudi 79


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

contestualmente al ripristino della situazione in essi adombrata alla pura


evidenza del dato effettuale: un fanciullo morso dal ramarro! Il quale,
per dirla con le parole che lo stesso Calvesi s’è lasciato scappare, «volge
appunto in pittura uno spunto letterario» (cfr. Il «Fanciullo morso dal
ramarro» cit., p. I 15).
V’è poi quanto si legge in calce alla riedizione dello scritto in
discorso, circa la «copia rivelatrice» del Fanciullo che monda un pomo:
una «copia uguale alle altre, ma con l’aggiunta di un angelo che pone
una corona sul capo del fanciullo», e che in forza di tale «aggiunta»
costituirebbe «una piena e gagliarda conferma che a quella figura del
Caravaggio si attribuiva, da qualcuno che era bene al corrente del vero
significato e che voleva esplicitarlo, il valore devozionale di un’imma-
gine di Gesù» (cfr. ibid., p. 172). Senonché, la copia in questione – per
chi la conosca de visu, e non dalla fotografia tecnicamente modestissi-
ma che ne è stata pubblicata tempo a dietro da Marini, Caravaggio cit.,
p. 112 – non è affatto «uguale alle altre»; è molle, indeterminata e insa-
pora; insomma, è un pastiche indefinibile, e così fuori del tempo, da
meritarsi il sospetto d’essere il frutto di una manipolazione di data
molto recente.
23. Più di un accenno al problema, però, ha già avuto occasione di
fare lo scrivente nella voce Velázquez per l’Enciclopedia europea, vol.
XI, Milano 1981, p. 771.
24. Cito da Alfonso E. Pérez Sánchez, Velázquez, Milano 198o,
rispettivamente dal commento alle tavole 1o, 12 e 28.

2. «Imitar bene le cose naturali»

1. Cfr. Bellori, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, ed.


cit. p. 215-
2. Cfr. Karel van Mander, Het Leven der Moderne oft dees-tijsche
doorluchtighe Italiaensche Schilders (…), Alkmaar 1603, Het tweedde
Boeck van het Leven der Schilders, Haarlem 1604. Il passo originale, che
figura a fol. 191 r della seconda parte, reca testualmente: «Dan zijn seg-
ghen is dat alle dinghen niet dan Bagatelli, kinderwerck oft bueselin-
ghen zijn t’zy wat oft van wien gheschildert soc, sy niet riae t’leven
ghedaenen gheschildert en zijn endatter niet goet oft beter en can
wesen dan de Natuere tevolghen. Alsoc, dat hy niet eenen enckelen
treck en doet oft hy en sittet vlack nae t’leven en copieert end’en schil-
dert». Un’altra (ma sostanzialmente non diversa) traduzione italiana
dell’intero brano da cui il passo qui citato è estratto, può vedersi in
Longhi, Alcuni pezzi rari cit., pp. 44-45.
3. Cfr. Francesco Scannelli, Il Microcosmo della pittura, Cesena
1657, libro II, cap. x, p. 197. Nella stessa opera, libro I, cap. VII, p.

Storia dell’arte Einaudi 80


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

51, il Caravaggio è definito «unico mostro di naturalezza», bensì con


l’aggiunta del ben noto apprezzamento con riserva: «provisto di parti-
colar genio, mediante il quale dava con l’opere a vedere una straordi-
naria e veramente singolare imitazione del vero, e nel communicar forza
e rilevo al dipinto non inferiore, e forse ad ogni altro supremo, privo
però della necessaria base del buon disegno, si palesò poscia d’inventione
mancante, e come del tutto ignudo di bella idea, gratia, decoro, Archi-
tettura, Prospettiva ed altri simili convenevoli fondamenti». Quest’ul-
timo giudizio, citato già da Panofsky, Idea cit., pp. 16o-61, è stato poi
ricordato spesso, in varia combinazione con il passo citato per primo,
fino a Gian Alberto Dell’Acqua, La critica, in Cinotti, Michelangelo Meri-
si detto il Caravaggio cit., p. 26o. Ma tutti i passi dedicati al Caravaggio
nel Microcosmo, che son tre e di non consueta lunghezza, furono riedi-
ti criticamente da Longhi, Alcuni pezzi rari cit., pp. 52-54.
Per un’edizione recente dell’opera dello Scannelli, si veda la ristam-
pa anastatica dell’edizione originale, con l’aggiunta d’un secondo volu-
me contenente un’introduzione e un indice ragionato, a cura di Ros-
sella Lepore, Cassa di Risparmio di Forri, Bologna 1989.
4. Cfr. l’Esame di Michelangiolo Merisio da Caravaggio del 13 set-
tembre 1603, dai documenti del processo secondo la riedizione di
Friedländer, Caravaggio Studies cit., p. 276.
5. Cfr. la bibliografia dei versi riferiti e il commento a essi relati-
vo nelle note 38 e specialmente 40, pp. 385-86, col rinvio al testo di
p. 70.
6. Cfr. Vincenzo Mirabella, Dichiarazioni della pianta delle antiche
Siracuse e d’alcune scelte medaglie d’esse, e de’ Principi che quelle posse-
dettero, Scorriggio, Napoli 1613, p. 89. Sul raro passo, che (salvo la cita-
zione di Sergio Samek Ludovici, Vita del Caravaggio dalle testimonian-
ze del suo tempo, Milano 1956, p. 115) non sembra ancora entrato con
l’autorità che merita nella letteratura caravaggesca, richiamò l’atten-
zione per la prima volta Roberto Longhi, Quesiti caravaggeschi. Regi-
stro dei tempi, 1928, ora in Opere complete di Roberto Longhi, vol. IV,
«Me pinxit» e Quesiti caravaggeschi cit., pp. 140-41, nota 19: però con
un commento che richiede a sua volta un commento (si veda oltre, fra
poco). Per giunta lo stesso Longhi, al quale il passo era stato segnala-
to da Giuseppe Agnello, tornò a ricordarne il secco contenuto nel rege-
sto curato per a catalogo della Mostra del Caravaggio e dei Caravaggeschi
del 1951 (p. 11, sotto l’anno 16o8), ma poi lo lasciò fuori dai suoi
«pezzi rari» della critica caravaggesca.
7. Cfr. il documento ripubblicato in Friedländer, Caravaggio Studies
cit., p. 292.
8. Cfr. Giovanni Battista Agucchi, Trattato, frammento edito nella
prefazione di Giovanni Atanasio Mosini (pseudonimo di Giovanni
Antonio Massani) a Diverse figure al numero di ottanta, disegnate a penna

Storia dell’arte Einaudi 81


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

nell’hore di ricreatione da Annibale Carracci, Roma 1646, riedito criti-


camente in Denis Mahon, Studies in Seicento Art and Theory, Londra
1947 (reprint Westport [Conn.] 1971), p. 257. Circa la dipendenza di
Agucchi dal giudizio di Leon Battista Alberti che «a quel Demetrio pit-
tore antico vi mancò al colmo de le sue lode, che fu più curioso di rap-
presentare la sembianza, che la bellezza» (oppure, in altra versione: «ad
Demetrio antiquo pittore, manchò ad acquistare l’ultima lode, che fu
curioso di fare cose adsimilliate al naturale molto più che vaghe»), cfr.
lo stesso Mahon, ibid., pp. 131-35 e specialmente 135.
9. Cfr. Gerolamo Borsieri, Il Supplimento della Nobiltà di Milano
[aggiunta alla Nobiltà di Milano di Paolo Morigia, 1595], Milano 1619,
p. 65: ora in Longhi, Alcuni pezzi rari cit., p. 46.
1o. Cfr. Giulio Mancini, Considerazioni sulla pittura, c. 162o, ed. di
Adriana Marucchi, commento di Luigi Salerno, Roma 1956-57, vol. I.
Per intero, il passo manciniano sulla «classe o voliam dire Schola (...) del
Caravaggio», nella redazione del Cod. Marciano, fol. 144, fu pubblica-
to per la prima volta da Longhi, Ultimi studi sul Caravaggio cit., p. 40.
11. Cfr. Carducho, Diálogos de la pintura cit., p. 89; altra edizione
in Fuentes a cura di F. J. Sánchez Cantón, II, Madrid 1933, p. 95; il
passo specifico, per intero, in Longhi, Alcuni pezzi rari cit., pp. 50-51.
12. Cfr. Francisco Pacheco, El Arte de la Pintura, su antiguedad y
grandezas (1638), Siviglia 1649, pp. 302, 340-41; ma si veda anche l’e-
dizione del manoscritto originale (con il colophon del 24 gennaio 1638)
a cura di F. J. Sánchez Cantón, Madrid 1956.
13. Cfr. Scannelli, Il Microcosmo della pittura cit., libro II, cap. x,
p. 197. Nella riedizione di Longhi, citata alla nota 3 del presente para-
grafo, il passo è a p. 53.
14. Cfr. Bellori, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, ed.
cit. pp. 213, 214, 215, 217-18, 229.
15. Per lo Scannelli, cfr. sopra nel testo e la precedente nota 3. Per
la ripresa del Bellori nel 1664, cfr. L’Idea del pittore, dello scultore e del-
l’architetto, scelta dalle bellezze naturali superiore alla Natura, premessa
a Le vite del 1672, dove si legge: «Al contrario quelli che si gloriano
del nome di naturalisti, non si propongono nella mente idea alcuna».
Il testo di tale discorso, che naturalmente ora figura anche nella cita-
ta edizione delle Vite curata dalla Borea (pp. 13-25; passo citato, a p.
22), fu ripubblicato e commentato a parte da Panofsky, nell’Appendi-
ce II di Idea cit., pp. 182-91 (il passo citato è a p. 189).
16. Cfr. Bellori, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, ed.
cit. p. 233. A completamento di tutto ciò, è opportuno rilevare che già
nel ricordato discorso su L’Idea del pittore, dello scultore e dell’architet-
to, letto all’Accademia di San Luca nel maggio 1664, il Bellori aveva
sostenuto: «In questi nostri tempi Michel Angelo da Caravaggio fu
troppo naturale, dipinse i simili, e ’l Bamboccio i peggiori. Rimprove-

Storia dell’arte Einaudi 82


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

rava però Lisippo al vulgo de gli scultori, che da essi venivano fatti gli
uomini quali si trovano in natura, ed egli gloriavasi di formarli quali
dovevano essere» (cfr. in Le vite de’ pittori, scultori e architetti moder-
ni, ed. cit. p. 16). Aggiungo per altro l’osservazione che il parere di
Lisippo, qui citato sintomaticamente a proposito del Caravaggio, è lo
stesso, tolto da Plinio, che, dopo Giulio Mancini, anche Federico Bor-
romeo aveva indirizzato nel De pictura sacra (1625) contro «I pittori
recenti» i quali, troppo inclini a dipingere i santi come si dipingereb-
be «uno ben pasciuto in un’osteria», «purtroppo non dipingono le
immagini né come furono né come dovrebbero essere», cfr. quanto ho
riferito e commentato in proposito nel paragrafo 3 del precedente cap.
3, pp. 124-25 e note relative; e si giudichi se dalla nuova coincidenza
non esca anche una conferma ulteriore della grande distanza in cui il
Borromeo dové trovarsi nei confronti del Caravaggio.
17. Giambattista Marino, La Galeria (…) distinta in Pittura e Scul-
tura, Milano 1620, p. 202; citata in Bellori, Le vite de’ pittori, scultori
e architetti moderni, ed. cit. p. 229.
18. Cfr. Susinno, Le vite de’ pittori messinesi cit., p. 107.
19. Replicando a questo passo, che figurava per intero e nella stes-
sa forma qui riproposta nella comunicazione fatta al colloquio linceo
del 1973 e poi stampata l’anno dopo (cfr. Il Caravaggio nella cultura e
nella società del suo tempo cit., p. 170), Giulio Carlo Argan affermò:
«Bologna insiste sul naturalismo caravaggesco, a cui, tuttavia, giusta-
mente riconosce un fondamento culturale e non empirico. Ma la stes-
sa natura, e lo ha dimostrato molto tempo fa Panofsky, si configura pur
sempre come un’iconografia» (cfr. negli stessi atti, p. 188). Ebbene, al
fine di «prevenire un equivoco», con quel che segue, è esattamente que-
sto che avevo inteso porre in evidenza; ma Argan o non se ne accorse,
o non volle darmene atto.

3. «Rem pingendam in conclavi suo tam diu oculis exponens...»

1. Per far solo un esempio, non si può non ricordare che proprio
all’uscita dal Medioevo l’assunto era stato ribadito dal Cennini, il
quale, certo in omaggio a Giotto e ai giotteschi, aveva proclamato che
«la più perfetta guida che possa avere e migliore timone, si è la trion-
fal porta del ritrarre di naturale»: cfr. Cennino Cennini, Il Libro del-
l’arte, nell’edizione curata da Gaetano e Carlo Milanesi, 1859, ripro-
posta da Fernando Tempesti, Milano 19 7 5, p. 44. Il capitolo in cui
questo passo ricorre, il xxviii, s’intitola: Come sopra i maestri, tu dèi
ritrarre sempre del naturale con continuo uso; e giusto in tali termini,
com’è notorio, il principio si ritrova in Leonardo.
2. Senza voler entrare nella questione con troppi particolari, si veda

Storia dell’arte Einaudi 83


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

quel che documenta la voce Naturale, il, in Grassi e Pepe, Dizionario


della critica d’arte cit., vol. II, p. 341.
3. Cfr. Paleotti, Discorso, libro I, cap. ii: ed. cit. p. 132.
4. Cfr. ibid., libro II, cap. xxxii: ed. cit. p. 4o6. E si tenga presente
anche quest’altra affermazione, che s’incontra nel cap. xxvii dello stes-
so libro, ed. cit. p. 373: «Imperò che la pittura, come ognuno sa [dun-
que, l’opinione è data per risaputa], è arte imitatrice, e quello dipinge
bene che ben imita; né mai imita bene chi non imita le cose o come
furono, o come è ragionevole che fossero».
5. Cfr. paragrafo 2 del presente capitolo, pp. 145-46.
6. Cfr. i dati bibliografici dati alla nota 6, p. 432, dove è anche
annunciato il commento (quello esposto qui nel testo) che il commen-
to del Longhi avrebbe richiesto.
7. Cfr. Bellori, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, ed.
cit. p. 215.
8. Cfr., ad esempio, Caravaggio, ed. cit. pp. 46-48, 70-71. E si veda
anche il commento di Previtali, il quale, nell’introduzione all’edizione
appena citata, pp. 26-3o, ha sostenuto non senza ragione che sulla gene-
si delle osservazioni longhiane di tal natura ebbe peso prevalente l’at-
tenzione prestata dal Longhi stesso all’esperienza cinematografica
moderna.
9. Sandrart, Academia nobilissimae Artis pictoriae cit., parte II,
libro II, cap. xix, p. 181. Per un’edizione moderna dell’intera «vita»
del Caravaggio nella versione latina, cfr. Longhi, Alcuni pezzi rari cit.,
pp. 55-57, con un commento che ha piena ragione di considerare «di
somma penetrazione storica» la frase «Italorum primus ecc.», fino a
«naturam atque vitam» (p. 55), ma che poi si lascia sfuggire la porta-
ta più specificamente testimoniale dell’affermazione seguente: «rem
pingendam ecc.», fino a «assecutus esset». Per un’edizione moderna
della stessa «vita» nella versione tedesca, cfr. Friedländer, Caravaggio
Studies cit., pp. 261-64, con una traduzione del tutto in inglese (pp.
263-66).
Circa la precedenza del Sandrart sul Bellori, a cui ho accennato nel
testo, si sa che, per le parti riguardanti l’Italia moderna, la Teutsche
Academie si basa sui ricordi del lungo soggiorno (1627-35) fatto dallo
scrittore-pittore di Francoforte in Italia, e che nel complesso è consi-
derata anteriore al 1658.
10. Cfr. Longhi, Caravaggio, ed. cit. pp. 47-48. Il passo prosegue
notando: «D’accordo che, da grande spirito qual era, egli [Caravaggio]
non poteva non scoprire il senso poetico, la portata sentimentale di una
realtà allora tutta sconosciuta, anche non avendone piena coscienza. La
sua ostinata deferenza al vero poté anzi dapprima confermarlo nella
ingenua credenza che fosse “l’occhio della camera” a guardare per lui
e a suggerirgli tutto». Altre osservazioni importanti sull’«uso pittori-

Storia dell’arte Einaudi 84


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

co (leggi poetico) di una “camera oscura”», con cui il Caravaggio


«costeggia le indagini tra naturalistiche, sperimentali e magiche della
nuova epoca», si leggono nello stesso saggio alle pp. 70-72, per altro
corredate dal richiamo a un altro celebre passo del Mancini dedicato
alla descrizione dell’atelier del maestro, a sua volta paragonato alla
descrizione della «camera oscura» data da Giambattista Della Porta,
il quale la proclamava sua invenzione. Ma il lettore avrà già notato che
una preoccupazione d’impianto irriducibilmente idealistico-crociana
continuava a dominare il Longhi in tutti questi excursus: quella di non
pregiudicare la «poesia» del Caravaggio («uso pittorico (leggi poetico)
di una “camera oscura” ecc.»), al punto di preferire di concedere che
«il Caravaggio dichiarasse d’intendere ormai con le sue ricerche a una
specie di “magia naturale”, che era, fin dal 1558, il titolo di un libro
famosissimo di Giambattista Porta».
11. Sebbene ampliata di molto negli argomenti, nelle giustificazio-
ni e nelle pezze di appoggio, la sostanza di quanto ho esposto nel corso
di questo paragrafo era già tutta presente nella comunicazione che feci
al colloquio linceo del febbraio 1973, e che, come ho ricordato in prin-
cipio, fu pubblicata con gli atti del colloquio stesso nel quaderno n. 205
dell’Accademia dei Lincei del 1974 (cfr. Il Caravaggio nella cultura e
nella società del suo tempo cit., specialmente pp. 171-87). Pur non
potendo tacere che le manifestazioni caravaggesche di Bergamo a cui
il saggio di cui sto per parlare fu presentato, ebbero luogo solo fra il
16 dicembre 1973 e il 17 giugno 1974, e che la pubblicazione che le
documenta, Novità sul Caravaggio cit., fu finita di stampare addirittu-
ra nel giugno 1975, ritengo doveroso segnalare che l’articolo di Filip-
po Maria Ferro ivi pubblicato, Un crime, vite, que je tombe au néant (pp.
121-34), offre diversi punti di coincidenza con le vedute dello scrivente,
per altro secondo enunciati e con argomenti che non lasciano dubbi
sulla loro autonomia. Lo segnalo con soddisfazione tanto maggiore
perché, fin da allora, all’affermazione: «“Naturalismo” è per il Merisi
l’apertura a una nuova metodologia del vedere e del sentire e dell’e-
sperire», Ferro non ebbe remore a far seguire la deplorazione che, in
materia di cose caravaggesche, «le sovrabbondanti interpretazioni psi-
cologistiche e le alchimie iconologiche (con i limiti praticamente insu-
perabili che tali trasposizioni interdisciplinari introducono nelle scien-
ze cosiddette “congetturali”) hanno sviato e precluso sino ad ora livel-
li comprensivi di profondità maggiore» (cfr. p. 134). Non per nulla, del
resto, col montare delle «alchimie iconologiche», che proprio ai con-
vegni bergamaschi del 197 4 a cui Ferro partecipava celebrarono una
delle loro più vistose tornate, il bel saggio di Ferro s’è visto piovere
addosso un silenzio pressoché totale.

Storia dell’arte Einaudi 85


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

4. Il quadro dei riferimenti nella cultura contemporanea

1 . Ad esempio, cfr. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del


mondo, ed. cit. pp. 63, 64 ecc.
2. Il corsivo è di chi scrive. La citazione è tolta da Vito
Fazio-Almayer, Galileo Galilei, Palermo 1912, e dalla sintesi data dal
medesimo autore nella sezione Galilei filosofo aggiunta alla voce Gali-
lei in Enciclopedia Italiana, vol. XVI, p. 277. Il punto di vista va però
confrontato con quanto si legge in Charles B. Schmitt, Experience and
Experiment. a Comparison of Zabarella’s View with Galileo’s in “De
Motu”, in «Studies in the Renaissance», 1959, 16, pp. 8o-137, il quale
sostiene (come trovo riassunto a p. 179 del libro della Alpers, Arte del
descrivere, che utilizzerò nel prossimo paragrafo: cfr. p. 172 e nota 14
a p. 440) «che nel Seicento e nel Settecento l’esperimento non era inte-
so nel senso odierno – ossia come tentativo di verificare una teoria o
un’ipotesi escogitando una precisa situazione sperimentale od osserva-
tiva – ma era piuttosto sinonimo di esperienza».
3. Cfr. Eugenio Battisti, L’antirinascimento, Milano 1962, pp.
276-77 (nel contesto dell’intero, importante capitolo ix, L’illustrazio-
ne scientifica in Italia, pp. 254-77); Gregori, Caravaggio dopo la mostra
di Cleveland cit., p. 39; Olmi, Osservazione della natura cit., pp. 173-74;
Id., Arte e natura nel Cinquecento bolognese cit. (vari riferimenti, più o
meno diretti); Gregori, in Caravaggio e il suo tempo, catalogo della
mostra cit., p. 2 46; Ead., Linee della natura morta fiorentina, in Il Sei-
cento fiorentino, catalogo della mostra, vol. I, Firenze 1986, p. 31; Cot-
tino, La natura morta caravaggesca a Roma cit., p. 670 (il quale però,
tacendo di Battisti, primo e vero autore dell’ipotesi, si limita a rinvia-
re agli accenni, del resto generici, contenuti negli ultimi due scritti della
Gregori).
4. Cfr. Battisti, L’antirinascimento cit., pp. 276 e 464, nota 65. Per
quanto riguarda il verso ritenibile del passo, a cui ho accennato nel
testo, ma che – ripeto – deve intendersi ritenibile solo se letto in un diver-
so contesto, ecco le righe che mi sembrano più significative (e che per
giunta, almeno una volta nella profluvie di scritti di questo singolare stu-
dioso, sembrano deferire persino alla celebre arte d’«interpretare descri-
vendo» del detestatissimo Roberto Longhi!): «Ogni foglia del famoso
Canestro di frutta dell’Ambrosiana (...) ha una sua storia che potrebbe
essere ricostruita da un botanico: storia di piogge, di lumache, di inset-
ti penetrati nella polpa del frutto, di lunghe ore, soprattutto, passate in
una stanza afosa da fare avvizzire, accartocciandole, le foglie, nono-
stante che fossero state in precedenza ben lavate. Una mela, una pera,
un chicco d’uva, una foglia, per chi li esamina (...) nelle loro accidenta-
lità, restano inconfondibili fra mille, sono caratterizzate fisicamente e chi
opta per l’individuazione, ama più le verdure bacate che quelle sane».

Storia dell’arte Einaudi 86


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

5. Cfr. Olmi, Arte e natura nel Cinquecento bolognese cit., p. 157.


6, Cfr. ibid., p. 155
7. Cfr. ibid., p.154.
8. Cfr. ibid., con il rinvio bibliografico al manoscritto dell’Aldro-
vandi da cui il passo latino citato è tolto: Biblioteca universitaria di
Bologna, Ms Aldrovandi, 6, vol. II, c. 126. Sempre allo stesso proposi-
to, e sempre di Olmi, si veda anche Osservazione della natura cit., p.
111: «L’Aldrovandi vede nel pittore solo colui che lavora con la mano
che è l’organo per eccellenza (…). Nulla di mentale nell’operazione arti-
stica, ma netto prevalere dell’atto meccanico e artigianale, come ovvio
d’altronde in chi, lavorando per uno scienziato, dovrebbe limitarsi a
fotografare esattamente la realtà». E ancora ibid., a p. 114: «Quello
che si richiede è dunque una tecnica tutta particolare, in un certo senso
spersonalizzata ed al completo servizio della scienza. Nel rapporto che
si viene a creare l’artista è il braccio e lo scienziato la mente»
9. Cfr. ibid., p. 11o,
1o. Cfr. la lettera di Fabio Masetti al conte Giovan Battista Lader-
chi, in data 24 agosto 1605, riprodotta in Friedländer, Caravaggio Stu-
dies cit., p. 310.
11. Cfr. in questo stesso libro l’Indice ragionato delle opere, n. 8o.
12. Cfr. in Olmi, Osservazione della natura cit., p. 109, col rinvio a
Biblioteca universitaria di Bologna, Ms Aldrovandi, 6, vol. II, cc. 129
bis r e v.
13. Cfr. il testo dell’Esame di Michelangiolo Merisio da Caravag-
gio, in data 13 settembre 1603, riprodotto in Friedländer, Caravaggio
Studies cit., p. 276.
14. Cfr. Vincenzo Giustiniani, Lettera sulla pittura a Teodoro Ami-
deni, in Lettere Memorabili dell’Ab. Michele Giustiniani, Tinassi, Roma
1675, parte III, n. lxxxv (opera citata da Giovanni Previtali a nota 29
della sua edizione di Longhi, Caravaggio cit., p. 53, in luogo del più
consueto Giovanni Gaetano Bottari, Raccolta di lettere sulla pittura scul-
tura ed architettura scritte da’ più celebri Professori che in dette Arti fiori-
rono dal secolo xv al xvii, Milano 1822, VI, pp. 99-100),
15. Cfr. Roberto Longhi, note alle illustrazioni nella 1a edizione di
Caravaggio, Milano 1952, riprodotte in appendice nell’edizione a cura
di Previtali cit., p. 177.
16. Cfr. Olmi, Osservazione della natura cit., p. 11o.
17. Giordano Bruno, La cena de le ceneri, 1584, in Opere italiane.
I. Dialoghi metafisici, a cura di G. Gentile, Bari 1925, pp. 112-13.
18. Biagio de Giovanni, Lo spazio della vita fra G. Bruno e T.
Campanella, in «Il Centauro», maggio-dicembre 1984, 11-12, pp. 3-32.
19. Cfr. ibid., pp. 12-13, con l’indicazione della fonte dei passi cita-
ti. I corsivi sono miei.
20. Cfr. ibid., p. 15. I corsivi sono miei.

Storia dell’arte Einaudi 87


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

21. Cfr. ibid., p. 16. I corsivi sono miei.


22. Cfr. ibid., p. 12. I corsivi sono miei.
23. Cfr. più a dietro, cap. 2, paragrafi 1 e 5, pp 12, 75.
24. Cfr. de Giovanni, Lo spazio della vita cit., p. 29,
25. Cfr. ibid., pp. 29-30, col rinvio a Giovanni Battista Della
Porta, Della celeste fisionomia, Padova 1616, I, Proemio.
26. Cfr. de Giovanni, Lo spazio della vita cit., p. 4. La citazione è
da Tommaso Campanella, Apologia di Galileo, ed. a cura di L. Firpo,
Torino 1968, p. 74.
27. Cfr. de Giovanni, Lo spazio della vita cit., p. 4,
28. Cfr. ibid., p. 28
29. C. Guasti, Lettera del Card. Del Monte al Granduca Ferdinando
I a proposito di Frate Tommaso Campanella, in «Giornale Storico degli
Archivi Toscani» iii, 1859, pp. 159 sgg., richiamata e utilizzata da
Luigi Spezzaferro, La cultura del cardinal Del Monte e il primo tempo del
Caravaggio, in «Storia dell’Arte», 1971, 9-10, pp. 78-79. Un saggio,
quest’ultimo – pp. 57-90 –, che è tanto ricco di osservazioni utili sugli
orientamenti effettivi della cultura favorita nell’ambito del cardinale e
di suo fratello Guidubaldo, quanto deviante nell’utilizzare una porzione
estrapolata di tale cultura per dimostrare che l’opera giovanile del
Caravaggio sarebbe improntata a una «organizzazione spaziale» di
carattere prospettico, e a «esperimenti su una luce costruttrice e indi-
viduatrice delle figure», dunque anch’essa di carattere formale e pro-
spetticamente geometrica, derivati, o comunque influenzati, dalle dot-
trine esposte da Guidubaldo Del Monte specialmente nei suoi Per-
spectivae Libri.
30. Cfr. Hibbard, Caravaggio cit., p. 84.
31. Cfr. Bologna, Il Caravaggio nella cultura e nella società del suo
tempo cit., pp. 172-73, 176. Hibbard, Caravaggio cit., p. 84, nota 23,
rinvia in prima istanza alla p. 176 di tale saggio.
32. Con l’accenno ad Antonio Favaro, mi riferisco, ovviamente, ai
venti volumi in ventuno tomi, e in particolare al X, dell’edizione nazio-
nale delle opere di Galilei, pubblicati a Firenze fra il 189o e il 1909 e
ristampati fra il 1929 e il 1939 (nuova ristampa, 1964-66). Per una
bibliografia dei maggiori lavori galileiani del Favaro, cfr. Geymonat,
Galileo Galilei cit., p. 7 e passim.
33. Riprendo la citazione da Spezzaferro, La cultura del cardinal Del
Monte cit., p. 73.
34. La notizia è già in Vincenzo Viviani, Racconto istorico della vita
di Galileo Galilei: cfr. l’edizione a cura di F. Flora, Vita di Galileo,
Milano 1954, p. 33: «(...) con gran satisfazione e maraviglia del mede-
simo signor Guidubaldo, il quale per così acute invenzioni l’esaltò a
segno appresso il serenissimo Gran Duca Ferdinando Primo e l’eccel-
lentissimo principe Don Giovanni de’ Medici, ch’in breve divenne a

Storia dell’arte Einaudi 88


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

loro gratissimo e familiare: che perciò vacando nel 1589 la cattedra delle
matematiche in Pisa, di proprio moto della medesima Serenissima
Altezza ne fu provvisto, correndo egli l’anno vigesimo sesto della sua
età». Per l’intervento del cardinal Francesco, cfr. Geymonat, Galileo
Galilei cit., p. 19. Per altri particolari desunti dai documenti di Anto-
nio Favaro, cfr. ancora Spezzaferro, La cultura del cardinal Del Monte
cit., pp. 73-74.
35. Cfr. di nuovo Viviani, Racconto istorico della vita di Galileo
Galilei, ed. cit. p. 35.
36. Cfr. Mia Cinotti, Vita del Caravaggio: novità 1983-1988, in
Caravaggio. Nuove riflessioni, «Quaderni di Palazzo Venezia», Roma
1989, 6, p. 82.
37. Cfr. Geymonat, Galileo Galilei cit., p. 15.
38. Cfr. ibid., p. 17.
39. Cfr. Viviani, Racconto istorico della vita di Galileo Galilei, ed.
cit. p. 60.
40. Cfr. ibid., p. 30. I corsivi sono miei
41. Cfr. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, ed.
cit. rispettivamente pp. 63 e 70.
42. Lettera di Galileo a Campanella: cfr. l’edizione nazionale delle
Opere di Galileo Galilei, IV, p. 738. Tolgo la citazione da Ferdinando
Flora, Il processo di Galileo, in appendice a Vincenzo Viviani, Vita di
Galileo cit., p. 117.
43. Lettera di Galileo a Federico Cesi, del 30 giugno 1612: cfr.
Opere cit., XI, pp. 344-45. Tolgo la citazione da Micheli e Tongiorgi
Tomasi, Galileo critico d’arte di Erwin Panofsky cit., p. 19.
44. Cfr. Gaffici, Il Saggiatore, ed. cit., p. 203.
45. Cfr. Robert Lenoble, Les origines de la pensée scientifique moder-
ne, Parigi 1957; trad. it. Le origini del pensiero scientifico moderno, Bari
1976, p. 36. Per un’analoga utilizzazione di questo giudizio di Leno-
ble nell’ambito della pittura seicentesca derivata dal Caravaggio, cfr.
Bologna, Ancora di Gaspare Traversi nell’Illuminismo cit., vol. II, p. 304.
46. Cfr. supra, p. 16o.
47. A prevenire obiezioni sempre possibili (e anche troppo facili,
per la verità) contro la proposta di tangenze galileiano-caravaggesche
elaborata nel testo, aggiungo che non dimentico né che Galilei ebbe
documentatamente interessi per le arti figurative, né che dalla prima-
vera del 1611 – e sia pure limitatamente a questioni astronomiche – fu
in rapporti con il teorico del classicismo carraccesco, monsignor Gio-
vanni Battista Agucchi, né che Erwin Panofsky ha dedicato un saggio
in due redazioni a Galileo quale critico d’arte (cfr. Galileo as a Critic
of the Arts, e Galileo as a Critic of the Arts. Aesthetic Attitude and Scien-
tific Thought cit.; su entrambi cfr. il saggio – con traduzione – di
Micheli e Tongiorgi Tomasi, Galileo critico d’arte di Erwin Panofsky

Storia dell’arte Einaudi 89


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

cit.). Ma chi ha letto gli scritti di Panofsky sa che essi riguardano prin-
cipalmente la posizione – indubbiamente di gran peso – assunta dallo
scienziato nella diatriba pittura-scultura risollevata dalla ben nota
inchiesta promossa da Benedetto Varchi; mentre resta indiscutibile che
(a parte quel che si potrebbe evincere dai rapporti con monsignor
Agucchi, però accertatamente posteriori al 1611) le preferenze di Gali-
leo in fatto di arti figurative non andavano oltre il Cigoli (il quale, non-
dimeno, ai piedi dell’Assunta di Santa Maria Maggiore a Roma ritras-
se la Luna con le asperità appena scoperte, così come le aveva schiz-
zate Galileo nel Sidereus Nuncius) ed erano di pretta marca fiorentina.
A proposito di quest’ultimo punto, richiamo anzi l’attenzione su un
passaggio notevole del sopra citato Racconto istorico della vita di Gali-
leo Galilei di Vincenzo Viviani, ed. cit. p. 28, in cui lo scienziato gio-
vinetto risulta tanto propenso al «disegnare» che «se in quell’età fosse
stato in poter suo l’eleggersi professione, avrebbe assolutamente fatto
elezione della pittura»; in oltre, vi è detto portatore, da adulto, di «tale
esquisitezza di gusto, che’ l giudizio ch’ei dava delle pitture e disegni
veniva preferito a quello de’ primi professori da’ professori medesimi,
come dal Cigoli, dal Bronzino [evidentemente, Alessandro Allori], dal
Passignano e dall’Empoli, e da altri famosi pittori de’ suoi tempi, ami-
cissimi suoi, i quali bene spesso lo richiedevano del parer suo nell’or-
dinazione dell’istorie, nella disposizione delle figure, nelle prospettive,
nel colorito, (...), onde ’l famosissimo Cigoli, reputato dal Galileo il
primo pittore de’ suoi tempi, attribuiva in gran parte quanto operava
di buono alli ottimi documenti del medesimo Galileo, e particolarmente
pregiavasi di poter dire che nelle prospettive egli solo gli era stato mae-
stro». Occorrerà perciò rassegnarsi: in un ruolino di marcia del gene-
re non v’è spazio alcuno per un’eventuale considerazione dell’opera del
Caravaggio, di cui pure Galileo non poté non aver notizia, sia presso
il granduca che ebbe abbastanza presto la Medusa, sia e specialmente
presso il cardinal Del Monte, in ogni caso a Roma, dopo la morte del
pittore, quando Galileo strinse ancora i rapporti con il detto cardina-
le. L’unica cosa che si può dire con fondamento è che con questo venia-
mo a trovarci di fronte a un altro caso di sfasatura e dissimmetria fra
i livelli d’un medesimo contesto, com’è del resto quello che Panofsky
s’è adoprato a illustrare fra Galileo stesso e Keplero: «tuttavia – e que-
sto è uno dei paradossi più stupefacenti della storia – laddove l’empi-
rismo “progressista” di Galileo gli impedì di differenziare forma idea-
le e azione meccanica e perciò servì a mantenere la sua teoria del moto
sotto “l’incantesimo della circolarità”, l’idealismo “conservatore” di
Keplero gli permise di operare tale differenziazione e liberò perciò la
sua teoria da tale ossessione» (cfr. Micheli e Tongiorgi Tomasi, Gali-
leo critico d’arte di Panofsky cit., p. 35).
48. Cfr. nel presente libro il n. 47 dell’Indice ragionato delle opere.

Storia dell’arte Einaudi 90


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

49. Cfr. Giovanni, 20, 25. Com’è noto, Giovanni (20, 24-29) è il
solo degli evangelisti canonici a riferire l’episodio, per altro con incon-
sueta ricchezza ed efficacia di particolari: «Gli dissero dunque gli altri
discepoli: “Abbiamo veduto il Signore!” Ma egli oppose loro: “Se non
vedo nelle sue mani il segno dei chiodi, e non metto il mio dito nel
posto dei chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non cre-
derò”. Otto giorni dopo, i discepoli si trovavano di nuovo in casa, e
Tommaso era con essi. Venne Gesù a porte chiuse, stette in mezzo, e
disse: “La pace sia con voi!” Poi, dirigendosi a Tommaso: “Metti qua
il tuo dito, e guarda le mie mani. Avvicina la tua mano e mettila nel
mio costato, e non essere incredulo, ma credente” (...)».
50. Per la riproduzione cfr. Cinotti, Michelangelo Merisi detto il
Caravaggio cit., p. 603, fig. 1. Una riproduzione a colori dell’intero, più
recente e di discreta qualità (cfr. anche quella pubblicata sulla coper-
tina del presente libro), e una in bianco e nero del particolare in discor-
so, sono in Marini, Caravaggio cit., pp. 176-77, n. 36. Commentando
l’illustrazione in bianco e nero, Marini scrive giustamente: «Il dito di
Tommaso che affonda nella ferita sul costato di Cristo è un particola-
re di assoluta efficacia rappresentativa». Preferendo un approccio di
accentuato carattere spiritualistico, e anzi fideistico, Mia Cinotti,
Michelangelo Merisi detto il Caravaggio cit., p. 491, aveva invece sotto-
lineato il «tema dell’incredulità, tremendo limite umano, che sta per
trasformarsi in conquista di fede solo grazie a una verifica materiale».
Ma osservazioni del genere riguardano l’assunto della narrazione evan-
gelica, non la scelta e l’intento del Caravaggio.

5. Ancora sul quadro dei riferimenti nella cultura contemporanea

1. Per la fonte delle citazioni riassunte si veda il paragrafo prece-


dente.
2. Cfr. i paragrafi 2 e 3 di questo capitolo (pp. 144-54).
3. Cfr. Ernst Kantorowicz, Kaiser Friedrich der Zweiter, Düsseldorf-
Monaco 1927-31; trad. it. Federico II imperatore, Milano 1976 (rist.
1988), p. 318.
4. Su questo importantissimo aspetto del pensiero e della fisica
tardo-scolastica, è sempre di grande utilità il libro di Graziella Federi-
ci Vescovini, Studi sulla prospettiva medievale, Torino 1965. Per l’a-
scendente che le dottrine elaborate – e gli esperimenti condotti – in
tali ambiti, poterono avere sull’arte borgognona e fiamminga del seco-
lo xv, si veda più avanti in questo medesimo paragrafo.
5. Tutti i passi sono citati dal cosiddetto Trattato della pittura. Per
citazioni più ampie cfr. le pp. 65-69 del libro di Svetlana Alpers, Arte
del descrivere cit.; dov’è per altro la dimostrazione della sostanziale ete-

Storia dell’arte Einaudi 91


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

rogeneità in cui la posizione leonardesca viene a trovarsi rispetto a quel-


le della successiva riflessione scientifico-sperimentale di cui si tornerà
a dire fra poco.
6. Cfr. Ezio Raimondi, La nuova scienza e la «visione degli oggetti»,
in Rappresentazione artistica e rappresentazione scientifica nel secolo dei
lumi, a cura di Vittore Branca, Firenze 1970; ripubblicato successiva-
mente in Id., Il romanzo senza idillio. Saggio sui «Promessi sposi», Tori-
no 1974, pp. 3-56.
7. Cfr. de Giovanni, Lo spazio della vita cit., p. 9, con l’indicazio-
ne bibliografica dei passi riferiti.
8. Cfr. Bruno, La cena de le ceneri, ed. cit. p. 21. Tolgo la citazio-
ne sempre da de Giovanni, Lo spazio della vita cit., p. 12.
9. Cfr. de Giovanni, ibid., p. 3o.
1o. Cfr. Antonio Corsano, Per la storia del pensiero del tardo Rina-
scimento: G. B. Della Porta, in «Giornale critico della filosofia italia-
na», i, 1959, pp. 94 sgg., ricordato anche da de Giovanni, Lo spazio
della vita cit., p. 3o, nota 120.
11. Cfr. Olmi, Osservazione della natura cit., p. 113,
12. Cfr. Biblioteca universitaria di Bologna, Ms Aldrovandi, 6, vol.
II, c. 125v, trascritto in Olmi, Osservazione della natura cit., p. 113.
13. Cfr. Biblioteca universitaria di Bologna, Ms Aldrovandi, 6, vol.
II, cc. 126-27, trascritto più ampiamente da Olmi, Osservazione della
natura cit., pp. 113-14, nota 37.
14. Cfr. Alpers, Seeing as Knowing cit.
15. Cfr. Alpers, Arte del descrivere cit., p. 277.
16. Cfr. ibid., pp. 3-4.
17. Cfr. ibid., p 4.
18. Cfr. ibid.
19. Cfr. ibid., p. 5.
20. Cfr. ibid., p. 189.
21. Cfr. ibid., p. 5
22. Cfr. ibid., p. 176. Di tale tradizione, la Alpers indica traccia
anche in Goethe, quando fa notare (p. 175) il «tono condiscendente»
con cui nella Farbentheorie è ammesso che «tutte le nature dotate di una
sensibilità felice, le donne, i bambini, sono capaci di comunicarci osser-
vazioni vivaci e pertinenti».
23. Cfr. ibid., pp. 7, 11, 59, 383, nota 26, e passim. Richiamo l’at-
tenzione soprattutto su quel che si legge a p. 11: «Servendosi di un
modello iconologico di analisi, già usato per l’arte italiana, Panofsky
nella sua Early Netherlandish Painting attribuisce alla pittura olandese
un simbolismo mascherato, nel senso che il suo significato si nasconde
dietro una superficie realistica. Malgrado il suo pregiudizio italiano, le
analisi di Panofsky mantengono tuttavia un certo equilibrio fra la ten-
denza a sottolineare la superficie descrittiva e quella che insiste sulle

Storia dell’arte Einaudi 92


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

profondità del significato. Un equilibrio precario che la voga attuale


delle interpretazioni emblematistiche è venuta a spezzare».
24. Cfr. ibid., p. 4.
25. Cfr. ibid., p. 7.
26. Cfr. ibid., pp. 57, 6o, 63-64, 384, nota 28 ecc.
27. Cfr. ibid., p. 5. Cfr. anche p. 63, dove si afferma: «Benché one-
stamente non si possa dire che il trattato albertiano proponga in modo
esplicito la famosa similitudine, la sua definizione del rapporto tra pit-
tura e visione implica il principio ut pictura poësis».
28. Cfr. ibid., pp. 58-6o.
29. Cfr. ibid., p. 56.
30. Cfr. ibid., p. 142,
31. Poiché il nome di Jan Brueghel è tornato per la seconda volta
in un contesto in cui è questione del particolare descrittivismo defini-
bile come enumerativo e classificatorio, può essere interessante nota-
re che quanto s’è riferito e commentato più sopra circa la racco-
mandazione di Ulisse Aldrovandi affinché il pittore ritragga scrupolo-
samente solo piante ed erbaggi ancora freschi, non essiccati, e secon-
do le variazioni stagionali, ha un singolare riscontro con quanto Jan
Brueghel scriveva circa la sua esigenza di dipingere «con molto dili-
genci» solo fiori freschi, avendo atteso per mesi la loro fioritura: «fra
tanto nasceno i belli fiori che serrano in quantità in detto quadro»; «Gli
fiori sono fastidioso a fare (...); gli fiori besoigni fare alle prime (...):
tutti i fiori vengono in quattro mesi» (cfr. in Bedoni, Jan Brueghel in
Italia cit., pp. 109, 110, 12 6, con l’indicazione delle fonti).
32. Cfr. Alpers, Arte del descrivere cit., p. 142.
33. Corre però l’obbligo di rilevare che ibid., p. 6, parlando del-
l’opposizione fra tradizione nordica e tradizione italiana, la Alpers
scrive: «Tale distinzione non ha però valore assoluto. È senz’altro pos-
sibile trovare numerose varianti e perfino eccezioni, e anche i confini
geografici di questa distinzione vanno presi con una certa elasticità: esi-
stono opere francesi e spagnole, e in certi casi anche italiane, che è utile
vedere come esempi della tendenza descrittiva, mentre le opere di
Rubens, un nordico impregnato di arte italiana, si possono leggere alla
luce delle diverse tendenze che egli di volta in volta adotta nella sua
pittura. Il valore della distinzione dipende da quanto essa può aiutar-
ci a vedere».
34. Cfr. ibid., pp. 10 e 57.
35. Cfr. ibid., p. 7
36. Cfr. ibid., p. 26, con ampia citazione dal saggio di Clifford
Geertz, Art as a Cultural System, in «Modern Language Notes», vol.
91, 1976, pp. 1475 sgg.
37. Cfr. Alpers, Arte del descrivere cit., p. 42.
38. Cfr. ibid., p. 155; la citazione è tolta dalla Instauratio magna,

Storia dell’arte Einaudi 93


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

del 162o. Altrove, p. 173, la Alpers cita quest’altro passo, tolto dalla
medesima opera: «Coloro i quali non si propongono di far congetture,
ma di scoprire e di sapere, avendo per scopo non di imitare gli spac-
ciatori di favole congegnate a imitazione dei mondi, ma di arrivare a
chiarire la vera essenza di questo nostro vero mondo, quasi analizzan-
dolo, devono trarre la materia dalle cose stesse».
39. Cfr. ibid., p. 179.
40- Cfr. ibid.; anche questa citazione è tolta dalla Instauratio magna,
ma occorre ricordare che Bacone aveva scritto nel 1605 Of Proficience
and Advancement of Learning, e nel 1607 Cogitata et visa.
41. Cfr. Alpers, Arte del descrivere cit., p. 148.
42. Cfr. ibid., p. 25.
43. Cfr. ibid., p. 35.
44. Cfr. ibid., p. 144
45- Cfr. ibid., p. 56. Ma occorre leggere per intero il capitolo ‘Ut
pictura ita visio’: il modello kepleriano dell’occhio e la natura del raffi-
gurare nell’Europa del Nord, pp. 44-8o, 137-41.
46. Per questo aspetto di Comenio, non ricordato dalla Alpers, cfr.
Adolfo Faggi, Il Galileo della pedagogia, Torino 1902, Oltre che di
Bacone, Comenio fu anche studioso di Campanella. Cfr. per tutto
l’ampia voce Komensky, Jan Amos di Giovanni Calò, in Enciclopedia Ita-
liana, vol. XX, Roma 193 5, pp. 248-5o.
47. Cfr. Alpers, Arte del descrivere cit., pp. 165-67, 393, nota
40, dove è anche indicata la letteratura più recente
48. Cfr. ibid., p. 166.
49. Cfr. ibid., p. 167.
50. Cfr. Jan Amos Komensky (Comenius), La grande didattica,
1657, in Opere a cura di M. Fattori, Torino 1974, p. 290: citato in
Alpers, Arte del descrivere cit., p. 167.
51. La familiarità di Sandrart col marchese Giustiniani è attestata
da Sandrart stesso, proprio nella «vita» del Caravaggio e in rapporto
a opere del Caravaggio: «Pro parte quoque artis nostrae marchione
justiniano Cupidinem pingebat [l’Amore vincitore ora a Berlino], viven-
tis magnitudinem quasi duodecennem globo terrae insidentem, arcu
dextra sublato variisque ad sinistram instrumentis mathematicis libri-
sque appositis, laurea coronatis: alis pullis aquilinis instructum, deli-
neatione emendatissima, colore vivido et exuberantia tanta ut viventi
sit simillimus. Hoc opus in pinacotheca centum et viginti operum
artificiosissimorum publice ante hac prostans, meo consilio velo obte-
gabatur ultimo spectandum, cum alias coetera omnia prae illo vilesce-
rent: unde me praesente quidam mille pistoletos pro eo offerens, hoc
a patrono, me internuncio, ferebat responsum: – Dite a questo cor-
teggio cavalier che se egli mi puol far acquistar un altro quadro de que-
sta sostanza, glie ne pagerò il doppia, cioè 2000 pistole – [in italiano

Storia dell’arte Einaudi 94


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

nel testo, inclusi gli errorucci, che non ho ritenuto di dover emenda-
re]. Et hoc opere mediante Caravagius salvum quoque iterum con-
ductum acquirebat». Cfr. Academia nobilissimae Artis pictoriae cit., p.
181. Non v’è bisogno di sottolineare l’importanza di questo brano
anche per quel che riguarda il perdurante e sempre altissimo interesse
di Giustiniani per il Caravaggio, come l’interesse analogo e di portata
non minore da parte del Sandrart medesimo.
52. Su Joachim von Sandrart, tutto sommato studiato assai poco
sia come pittore che come trattatista, si veda la buona voce dedicata-
gli da Hans Tietze in Enciclopedia Italiana, vol. XXX, 1936, p. 636, e
l’entry ad vocem di Nicolson, The International Caravaggesque Movement
cit., pp. 85-86 (2a ed. Caravaggism in Europe cit., vol. I, p. 168); oltre,
naturalmente, agli inserti sul trattatista nei noti lavori di Schlosser e
di Luigi Grassi. Per l’incontro con Galileo (non rilevato da altri, a quel
che mi risulta, né prima, né dopo), è fondamentale Roberto Longhi,
Le visite romane del Sandrart a Galileo nel 1633, in«Paragone», settem-
bre 1963, 165, pp. 64-65.
53. Tolgo la citazione dal saggio di Longhi indicato nella nota pre-
cedente, p. 64, dove si precisa che esso è tratto dalla «vita» di Galileo
inclusa nell’edizione latina della Academia nobilissimae Artis pictoriae,
1683, pp. 389-9o, ma non ancora nell’edizione tedesca del 1675-79. A
complemento di quel che si evince dal passo riferito a proposito di visi-
te di stranieri allo scienziato, aggiungo che nella biografia di Vincen-
zo Viviani, Racconto istorico della vita di Galileo Galilei, ed. cit. pp. 64-
67, s’incontra ripetuto il ricordo dei molti «franzesi, fiaminghi, boemi,
transilvani, inglesi, scozzesi e d’ogni altra nazione», che attratti dalle
«nuove e peregrine speculazioni e curiosissimi problemi che giornal-
mente venivano promossi e risoluti dal signor Galileo», procuravano
«di visitarlo (...) dov’egli fosse; e allora stimavano d’aver ben spesi i
lor lunghi viaggi, quando tornando nelle patrie loro, potevano dire d’a-
ver conosciuto un tant’uomo e avuto seco discorso».
Quanto al ritratto eseguito da Sandrart, sempre Longhi, Le visite
romane del Sandrart a Galileo cit., tav. 6o, lo ha indicato in quello, inci-
so da Kilian, che figura nella tavola anteposta alla «vita» or ora ricor-
data. Subito dopo la pubblicazione di Unghi, tale ritratto è stato ripro-
dotto in copertina nell’edizione feltrinelliana del Saggiatore cit., ma
senza alcuna parola di commento.
54. Cfr. l’ultimo capoverso del paragrafo precedente. Per il dipin-
to, per il suo passaggio dai Mattei al Giustiniani anteriormente al
16o6, e per l’episodio del riconoscimento della copia a Genova ricor-
dato nel testo, cfr. sempre nel presente libro il n. 47 dell’Indice ragio-
nato delle opere.
55. Cfr. Alpers, Arte del descrivere cit. p. 249. Il corsivo è mio.
56. Cfr. ibid., p. 162.

Storia dell’arte Einaudi 95


Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio

57. Cfr. ibid. E alla nota 34 di p. 392, la Alpers esemplifica: «Ecco


un esempio che non condivido: “È difficile provare sensi di colpa di
fronte a immagini così belle. E tuttavia quei banchetti sontuosi, quel-
le scorze luccicanti di limone lasciate raggrinzire, quelle ostriche aper-
te che imputridiscono, ci ammoniscono contro l’ingordigia e i danni
morali degli appetiti umani” (dalla recensione di L. Wieseltier alla
mostra di Chardin in: “The New Republic”, 24 novembre 1979)».
Come non aggiungere subito che per la stessa, identica ragione, non può
essere condivisa l’interpretazione analogamente simbolico-morale che
da noi va dando Maurizio Calvesi, non solo delle nature morte, ma del-
l’intera opera caravaggesca?
58. Cfr. ibid., p. 184.
59. Cfr. ibid., p. 7.
6o. Oltre a quanto s’è venuto dicendo ad altro titolo nel paragrafo
precedente, si veda in questo stesso libro il capitolo La «natura morta»
del Caravaggio.
61. Cfr. Alpers, Arte del descrivere cit., p. 147.
62. Cfr. ibid., p. 162.
63. Cfr. ibid., p. 139.
64. Cfr. in questo stesso libro l’Indice ragionato delle opere, nn.
7, 9, 10, 12, 13, 18, 22.
65. Per semplificare, rinvio alla ristampa delle Vite di Baglione e Bel-
lori in Friedländer, Caravaggio Studies cit., rispettivamente pp. 231, 238.
66. Cfr. Alpers, Arte del descrivere cit., p. 140.
67. Cfr. le riproduzioni in M. J. Friedländer, Early Netherlandish
Painting cit., vol. II, Rogier van der Weyden and the Master of Flémalle,
a cura di Nicole Veronee-Verhaegen, n. 67, tavole 96 e 97.
68. Cfr. Alpers, Arte del descrivere cit., p. 156. La citazione è da
Alle de Brieven van Antoni van Leeuwenhoek, 10 voll., Amsterdam
1939-79, vol. II, pp. 390-94.
69. Sandrart, Academia nobilissimae Artis pictoriae cit., pp. 18o-81.
70. Una buona riproduzione a colori del foglio in discorso si può
vedere in Storia della letteratura italiana, Garzanti, vol. V cit., Milano
1967, tavola a fronte della p. 192.
71. Cfr. Paul Philippot, Pittura fiamminga e Rinascimento italiano,
Torino 1970, p. 212, fig. 211. L’opinione sembra fare il paio con quel-
la di Max J. Friedländer, La pittura dei Paesi Bassi da Van Eyck a Brue-
gel, trad. it. della 2a edizione (1921), Firenze-Londra 1956, p. 142, che
l’«oscurità dominante degli interni» di Jan Scorel «può essere consi-
derata come il germe del chiaroscuro rembrandtiano».
72. Cfr. Calvesi, Le realtà del Caravaggio. Seconda parte cit., p. 120.
73. Cfr. in Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica cit., p.
336, con l’indicazione della fonte.
74. Cfr. in de Giovanni, Lo spazio della vita cit., p. 11.

Storia dell’arte Einaudi 96


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75. Cfr. Scelta d’alcune poesie filosofiche di Settimontano Squilla


cavate da’ suo’ libri detti La Cantica, con l’esposizione. Stampato nell’anno
mdcxxii, datato «di Parigi, l’anno 1621». Riproduzione anastatica in
edizione fuori commercio, a cura dell’Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici, Napoli 198o, p. 78.
76. Cfr. Alpers, Arte del descrivere cit., p. 1o.
77. Cfr. ibid., p. 140.
78. Cfr. Federici Vescovini, Studi sulla prospettiva medievale cit.,
rispettivamente pp. 191, 192, 193; a p. 192, nota 96 la citazione del
passo di Enrico di Langenstein utilizzato nel testo. Ma il libro spes-
seggia di passi del medesimo genere, di Timone Ebreo, di Nicola Ore-
sme e di Biagio Pelacani da Parma che potrebbero essere addotti a
prova delle tangenze accennate.
79. Cfr. Giovanni Aquilecchia, Introduzione a Giordano Bruno, La
cena de le ceneri, Torino 1955, pp. 43-44. Cfr. anche Nicola Badaloni,
Giordano Bruno e Tommaso Campanella, in Storia della letteratura ita-
liana, Garzanti, vol. V cit., p. 92.
8o. Cfr. Cozzi, Paolo Sarpi tra Venezza e l’Europa cit., p. 1262.
81. Cfr. Cozzi, Paolo Sarpi cit., p. 419; Id., Paolo Sarpi tra Venezia
e l’Europa cit., p. 236.
82.Su tutta la questione, che è centrale per la piena intelligenza
delle posizioni assunte da Sarpi nella congiuntura dell’Interdetto, cfr.
l’importante saggio di Gaetano Cozzi, Paolo Sarpi tra il cattolico Phi-
lippe Canaye de Fresne e il calvinista Isaac Casaubon, ora in Id., Paolo
Sarpi tra Venezia e l’Europa cit., pp. 74-92 e oltre.
83. Cfr. Annelise Maier, Die Vorläufers Galileis im 14. Jahrhundert,
Roma 1949. Della stessa autrice si vedano anche: Zwei Grundproble-
me der scholastischer; Naturphilosophie. Das Problem, der intensiven Grös-
se. Die Impetustheorie, 2 ed. Roma 1951; An den Grenze von Scholastik
und Naturwissenschaft, Roma 1952.
Una bibliografia degli scritti più importanti sul problema (da Pier-
re Duhem all’inizio del secolo, alla Maier, ad Alastair C. Crombie, a
Herbert Butterfield) è in Ludovico Geymonat e Franz Brunetti, Gali-
leo Galilei, in Storia della letteratura italiana, Garzanti, vol. V, cit., pp.
220-21. Per la discussione della tesi in generale, oltre ai saggi indicati
ibid. (Eugenio Garin, Gli umanisti e la scienza; M. Lacoin, De la Sco-
lastique à la science moderne. P. Duhem et A. Maier; ecc.), si veda, ma
con riguardo al solo Duhem, il saggio di Libero Sosio, Galileo e la
cosmologia premesso alla sua edizione di Galilei, Dialogo sopra i due mas-
simi sistemi del mondo cit., pp. xxvi, xxvii, xlii-xlvi, 89, 186, 276, 279
e passim.
84. Lettera di Giovanni Battista Manso a Paolo Beni, nell’edizio-
ne nazionale delle Opere di Galileo, vol. X, p. 295, citata più ampia-
mente da Geymonat e Brunetti, Galileo Galilei cit., p. 173, nota 2.

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