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Fabio Giovannini

SERIAL KILLER!
I grandi assassini seriali del cinema

Macabro Show E-book

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Serial Killer – Igrandi assassini seriali del cinema
Copyright © 1994/2001 di Fabio Giovannini
© 2001 Macabro Show E-book
I Edizione Elettronica - dicembre 2001

Copertina
Emiliano Ardolino

MACABRO SHOW
Il Sito delle Storie dell’Orrore
www.macabroshow.com

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Prefazione

I “mostri” della cronaca nera sollecitano sempre un interesse morboso, accanto


alla paura sorge la curiosità. In Italia è successo con il mostro di Firenze, ma
ricordo che già molti anni orsono in America era avvenuta una vicenda simile,
quella di Son of Sam. In realtà si chiamava David Berkowitz, e agì tra il 1976 e il
1977 soprattutto nel Bronx, fino a che non venne catturato e condannato a 365
anni di carcere. Come Jack lo Squartatore, anche Berkowitz si divertiva a
mandare lettere alla polizia, firmandosi “Sam”. Ero a New York in quel periodo,
e mi ricordo che in città cresceva ogni giorno la paura. Si diceva che il maniaco
prediligesse vittime femminili con i capelli neri e lunghi, e così molte ragazze si
affrettarono a tagliarsi i capelli al più presto. Non si usciva più da soli, ma
sempre in gruppo.
Ecco, questa è la paura del serial killer, una figura che può essere annidata
ovunque nella giungla d’asfalto delle nostre città. Ma personalmente la cronaca
nera, con i suoi veri delitti e i suoi massacri reali, non mi ispira. Se alcune mie
storie somigliano a vicende raccontate dalla cronaca si tratta solo di coincidenze.
Non sono nemmeno particolarmente attratto dalla lettura degli articoli
giornalistici su omicidi e assassinii.
Però è certo che oggi i confini tra l’invenzione e la realtà sono indefinibili. I
veri serial killer cominciano a sollecitare trasposizioni cinematografiche efficaci,
e questi personaggi diventano persino simpatici, o possono commuovere come
nel film Henry Pioggia di sangue.
In questo libro di Fabio Giovannini, attraverso molti materiali interessanti e
analisi acute, scoprirete che per portare sullo schermo le imprese di assassini e
serial killer non basta mostrarne le azioni raccapriccianti o le biografie violente.
È necessaria una grande arte cinematografica.

Dario Argento

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Premessa

Una nuova paura investe da qualche anno il nostro tempo. È una paura senza
volto, perché può scaturire dai gesti omicidi della persona più insospettabile. Ed
è una paura egualitaria, perché può coinvolgere chiunque, anche se i deboli e gli
emarginati sono come sempre più esposti.
È la paura del serial killer.
Una volta lo chiamavano mass murderer (omicida di massa), oggi si è
trasformato ed è diventato seriale: uccide a ripetizione, in delitti unificati dal
risultato finale – la morte – ma sempre differenti nelle modalità di esecuzione.
Il serial killer è soprattutto colui che uccide senza motivo. Questo tipo
particolare di assassino ammazza vittime che non conosce, verso le quali non
può avere nessun rancore o odio individualizzato. Le sue vittime sono anonime,
come anonimo è lui stesso, l’assassino. Può essere ricco o proletario,
apparentemente sano oppure chiaramente pazzo, indifferentemente di alto o di
basso quoziente intellettuale.
Chiunque può cadere nella rete del serial killer, e chiunque può essere un
serial killer.
È difficile catturare un serial killer proprio per l’improponibilità di modelli
ben definiti per la sua personalità. E anche perché il serial killer in genere
mantiene una perfetta lucidità nel crimine, che gli consente di lasciare
pochissime tracce e di eclissarsi nel magma umano della metropoli senza essere
identificato.
Il serial killer è quasi sempre un uomo, anche se esistono assassine seriali,
che infieriscono soprattutto su anziani o malati (l’infermiera assassina del
Misery di Stephen King, pur non essendo una killer seriale, ne potrebbe essere
un esempio emblematico, con numerosi riferimenti nella cronaca nera). E questi
uomini nascondono una miscela di voyeurismo e misoginia: non si accontentano
di “fare del male” alle donne (o a vittime del proprio stesso sesso, quando
agiscono in direzione omosessuale), ma vogliono anche contemplare le agonie e
le sofferenze, tanto che spesso si dotano di telecamera per riprendere i propri
delitti.

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Nascosti nelle ombre della metropoli, sfuggenti e inconoscibili, diventano
assassini molto loquaci, dopo l’arresto. Anzi, tendono ad attribuirsi molti più
delitti di quanti ne abbiano effettivamente commessi.
Come ogni mito, anche il mito contemporaneo del serial killer è corredato da
suoi specifici riti. Il rito del delitto può avere caratteristiche variabili: può essere
accompagnato, preceduto o seguito da violenze sessuali, così come può
escludere ogni vessazione di questo genere verso la vittima. E a volte il rito si
può concludere con lo squartamento e la cannibalizzazione.
Sempre attento a fagocitare i miti e i riti, il cinema si è appropriato
rapidamente della figura del serial killer. Agli spettatori piace vedere uccidere
sullo schermo, il rito antico del supplizio e delle esecuzioni in pubblico
permane, incruento, nella realtà simulata del cinematografo. O sulle pagine di
carta della letteratura di consumo. [Rimando, per tutti gli aspetti letterari, ai
capitoli sullo splatterpunk nel mio libro Cyberpunk e Splatterpunk, Datanews,
Roma 1992 e 2001]
Tra l’altro, le vicende imperniate sugli assassini seriali “funzionano” bene dal
punto di vista narrativo: “L’indagine sulle gesta di un serial killer permette di
coniugare la violenza e il thrilling del giallo hard-boiled con la razionalità del
giallo “scientifico” all’inglese: tanto più efferate le uccisioni, anzi, tanto più
legante sarà il disegno che le scandisce, tanto più disastrata la psiche
dell’omicida tanto più alessandrino o barocco il suo sistema di segni.” [Michele
Mari, Nel silenzio degli innocenti, in “Corriere della sera”, 9 febbraio 1992]
La premessa dei serial killer cinematografici più recenti era stata anticipata
dal rovescio della medaglia del serial killer: il giustiziere metropolitano. Che sia il
“giustiziere della notte” di Charles Bronson o l’ispettore Callaghan di Clint
Eastwood, il cinema aveva già offerto le imprese seriali di moderni cavalieri del
Bene, impegnati a fare piazza pulita di coloro che ritengono nemici dello status
quo, i delinquenti, i criminali. Senza rispetto per nessuna legge (come il serial
killer), senza conoscere chi uccidono (come il serial killer), ammazzando in
quantità sempre crescente (come il serial killer). Si tratta di assassini seriali che
sono convinti di stare dalla parte giusta, spesso sono addirittura stipendiati
dallo stato che concede loro la bondiana “licenza di uccidere” (è il caso
dell’ispettore Callaghan, ma ancora di più della Nikita di Luc Besson).

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Per i giustizieri della notte e della metropoli le platee cinematografiche hanno
dimostrato nei decenni passati una indulgenza e persino una accondiscendenza a
tratti discutibile. Allo stesso modo, i serial killer ripugnano e spaventano, ma
spesso suscitano una simpatia complice. In questo fascino del serial killer sta
anche l’ambiguità della metafora dell’omicida seriale. È vero che il serial killer
rompe tutti i codici, e quindi è un “trasgressore” che piace, ma è anche vero che
c’è qualcosa di terribilmente inquietante in questa simpatia.
Al contrario dei vecchi “mostri” della letteratura e del cinema gotico, questi
assassini non hanno nessuna motivazione esplicita per i loro delitti. I mostri
classici, invece, ammazzavano sempre per qualche motivo: per vendicarsi della
propria bruttezza, per saldare un conto con la società che li aveva respinti o
feriti, oppure per effetto di una irresistibile maledizione, e così via.
Il serial killer contemporaneo, invece, ammazza senza ragione, anche al
cinema. Uccide degli sconosciuti. Tanti sconosciuti.
E del resto anche loro stessi, i serial killer del cinema, sono tanti, davvero
tanti. I veri “eroi” di questo filone abbiamo imparato a conoscerli per nome, ed è
già un segno preoccupante di confidenza: da Jack (lo squartatore, naturalmente)
a Norman, Jason, Leatherface (un soprannome, questa volta), Michael, Freddy,
Henry e Hannibal. Ma questi sono solo i più celebri, quelli che hanno avuto più
fortuna. Accanto a loro il cinema ha regalato decine di altri personaggi negativi
intenti alle uccisioni seriali. Il primo è stato il Peter Lorre di M (M, il mostro di
Duesseldorf, di Fritz Lang), che trovava ispirazione nella cronaca nera. Poi, nel
1968, era stata la volta di un altro vero assassino reclutato dal cinema, con il
volto di Tony Curtis, per The Boston Strangler (Lo strangolatore di Boston, di
Richard Fleischer). E altrettanto lunga è stata la schiera degli assassini inventati
direttamente dal cinema. Già Psycho aveva dato origine da solo a una progenie
quasi infinita di maniaci omicidi (indimenticabili quelli della trilogia Hammer:
Maniac, Paranoiac, Fanatic). Ma prima ancora, nel 1959, si era già fatto
conoscere il pazzo con la cinepresa interpretato da Carl Boehm in Peeping Tom
(L’occhio che uccide, di Michael Powell).
Tra il giallo e il fantastico è sempre esistita una zona di confine, in cui
l’assassino, tipico personaggio del giallo, diventa sempre più centrale e in cui la
paura e l’orrore sono i primi ingredienti. Il cuore del film, così, non riguarda tan-
to chi è l’assassino, ma cosa fa l’assassino, come uccide e perseguita le sue vit-

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time. Questo cinema “alla lama di coltello” è alla base di un nuovo genere di film
d’azione, che deve molto al giallo e al mystery tradizionali, ma che è parente del
fantastico e del gotico, e privilegia l’omicidio e gli effetti speciali sanguinari, tal-
volta a scapito dell’“intreccio”.
Il cinema “alla lama di coltello”, che ha visto tra i suoi frequentatori più
illustri registi come Brian De Palma, John Carpenter o da noi Dario Argento, ha
le sue origini alla fine degli anni Cinquanta, con l’avvento del colore, una
maggiore elasticità della censura e l’affermarsi di nuove tendenze nel cinema
fantastico e del terrore.
Lo psycho-thriller degli anni Ottanta ha raccolto l’eredità di questo lungo
percorso. I suoi antenati risalgono a due decenni prima, ai tentativi
indimenticabili di un cinema spesso di serie B, privo di grandi mezzi finanziari,
precedente alla introduzione del make-up tecnologico e dei vari fx. [Su questo
sotto-genere si rinvia a F. Giovannini – A. Tentori, Pioggia di sangue. Il cinema
psycho-thriller americano, Falsopiano, Alessandria 1997]
Tutti gli artefici dello psycho-thriller recente si ispirano o trovano
suggestione nelle vecchie pellicole di maestri spesso conosciuti solo ai cultori
del genere. Si pensi all’importanza di William Castle e Herschell Gordon Lewis,
quasi ignoti al grande pubblico europeo, e di Mario Bava, oggetto di culto per
cinefili amanti del maudit.
Castle, Lewis e Bava anticipano alcuni dei luoghi comuni principali del
genere, portando alle estreme conseguenze le allusioni presenti nei film di Alfred
Hitchcock. Dove la macchina da presa di Hitchcock si fermava, Lewis e Bava
continuavano. Il troppo sobrio Hitchcock non consente allo spettatore di vedere
il coltello che affonda nelle carni di Janet Leigh: Castle, Lewis e Bava invece
concedono allo sguardo della cinepresa tutto il possibile (per il loro tempo). E
un intero periodo e uno “stile” del cinema del terrore degli anni Sessanta e
Settanta, quello incarnato dall’horror inglese e dalla Hammer, ha passato il
testimone a Pete Walker, che ha inserito il moderno maniaco omicida dentro
atmosfere gotiche in film come La casa del peccato mortale (1975) e Chi vive in
quella casa? (1977).
Gli anni Ottanta offrono così molti assassini inediti, ma radicati nei percorsi
del cinema horror e thriller del passato. La prima novità a caratterizzare il nuovo
filone che attraversa il decennio è proprio il ricorso crescente e indispensabile a-

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gli effetti speciali, ai tecnici e agli artisti del make-up, di cui Tom Savini è stato
il rappresentante più tipico. Dopo un predominio della fantascienza come sede
per la sperimentazione e l’utilizzo degli effetti speciali, durato per tutti gli anni
Settanta, il decennio successivo si è invece delineato come fase per
l’appropriazione di queste tecniche da parte del genere horror e del cinema “alla
lama di coltello”.
Accanto a licantropi, fantasmi e mutanti, sui quali inventare ogni uso del
lattice e delle nuove tecnologie elettroniche, riappaiono i maniaci omicidi, grandi
protagonisti di un filone più realistico, fatto di delitti concreti commessi da
uomini concreti. Lo stesso Dario Argento nel corso degli anni Ottanta torna,
dopo alcune precedenti incursioni nel paranormale con Suspiria e Inferno, ad
occuparsi di assassini terreni, concreti. È un maniaco omicida, e non una
presenza irreale o mostruosa, ad uccidere in Tenebre (1982) e poi in Opera
(1987), Trauma (1993), La sindrome di Stendhal (1996) e Nonhosonno (2000).
Nel rito del delitto di questa nuova fase dello psycho-thriller si innestano i
giochi e gli effetti creati dagli esperti di trucchi e di make-up. Ciò che fino agli
anni Settanta era impensabile diventa possibile: ogni più terribile mutilazione e
offesa alla carne può essere vista, grazie a latex e protesi animabili
elettronicamente.
Eppure anche nelle possibilità tecnologiche per il cinema alla lama di coltello
ci sono ancora dei campi inesplorati e dei potenziali (imprevedibili) sviluppi fu-
turi, legati soprattutto alle innovazioni nelle tecniche cinematografiche di ripresa
e nell’intreccio crescente con le possibilità infinite del digitale. Lo stesso Dario
Argento, agli inizi degli anni Ottanta, si lamentava di non riuscire ancora a trova-
re nella tecnica un supporto sufficiente alla propria fantasia: “Gli effetti speciali
sono una componente essenziale del mio cinema. Non sacrifico ad essi la mia i-
dea della paura (un intreccio tutto mentale di paranoie e di oscure fantasie), ma
li curo, li discuto con i tecnici, li invento, perché voglio che producano il massi-
mo dell’impatto visivo. Il sangue conta poco, l’importante è che il trucco
s’aggiunga alla suspense senza sopraffarla. Qui, naturalmente, entra in gioco
l’estro del regista, la capacità di mettere in scena il terrore sfruttando le risorse
dell’incubo più di quelle del realismo. Purtroppo la mia immaginazione va spes-
so oltre le possibilità tecniche del cinema. La cinepresa, non dimentichiamolo, è

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quasi la stessa di sessant’anni fa. Che frustrazione.” [Dario Argento, Sono bel-
lissimi giochi, in “l’Unità”, 1 maggio 1982]
Ma al di là dell’uso di effetti speciali e tecniche nuove, il cinema psycho-
thriller degli anni Ottanta evidenziava anche moderne e articolate scelte di
contenuto e nuovi modelli.
Uno dei destinatari fondamentali di questo cinema è stato rappresentato per
oltre un decennio dai teen-ager, come già in altre fasi del cinema fantastico e
dell’orrore. E molti protagonisti principali diventano quindi ragazzi e ragazzini,
possibilmente sotto i vent’anni e talvolta sotto i sedici. La scelta di un target
con età di questo tipo costringe a non eccedere nei fotogrammi erotici e nel nudo
(pur sempre presenti parzialmente e in allusioni). Ragioni di marketing
inducono ad evitare, semplificando, per gli americani il certificato X e per gli
italiani il divieto ai minori di diciotto anni.
Gli ambienti preferiti per i delitti del maniaco omicida diventano allora le
scuole e le familiari case borghesi dove gli studenti si illudono di trovare
protezione: in questo tipo di psycho-thriller sono molto importanti le ragazze-
vittime-eroine, in cui far identificare un settore di pubblico emergente, quello
femminile (Jamie Lee Curtis è stata agli inizi degli anni Ottanta il prototipo della
ragazza perseguitata dall’omicida, ma capace di rivalsa). Per chi non è più mino-
renne, o sta superando l’adolescenza, il luogo privilegiato del crimine diventa la
vacanza estiva o la gita scolastica, immancabilmente turbata dai colpi di accetta
e dalle coltellate di un assassino misterioso. E dopo il risorgere recente del filone
con Scream, ecco alzarsi l’età dei protagonisti per rivolgersi a studenti
universitari e neo-laureati (come insegna il film Valentine), in nome del
fenomeno sociologico che vede, nelle società industrializzate, un notevole
prolungamento dei comportamenti adolescenziali.
Questo riferimento a un pubblico giovane o giovanissimo induce il cinema
psycho-thriller a concentrarsi su paure e “minacce” dell’infanzia e
dell’adolescenza: l’esempio più macroscopico è insito negli stessi titoli di mol-
tissimi film, a carattere proibitivo (da Non aprite quella porta a Non entrate in
quella casa). Scrive Pietro Piemontese che questi film “sintetizzano personaggi
della tradizione fantastica e ripetono i messaggi dei divieti parentali agli adole-
scenti: non bisogna uscire di sera, non si deve disubbidire ai genitori, non biso-
gna frequentare i luoghi proibiti, bisogna stare attenti a chi si frequenta e soprat-

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tutto tenersi lontano dal sesso. Per chi disubbidisce è l’incubo. Per le donne che
cedono al desiderio è la morte, invariabilmente, fin dalle novelle di Perrault.”
[Pietro Piemontese, Remake. Il cinema e la via dell’Eterno Ritorno, Castelvec-
chi, Roma 2000, p.270]
I limiti di questo cinema dedicato a una fascia generazionale così
caratterizzata si sono riflessi anche sulla qualità. Talvolta è proprio quando il
genere fuoriesce da questo immediato riferimento adolescenziale che riesce a
dare qualche prova più impegnativa. Quando si sono cimentati nelle strade del
cinema alla lama di coltello registi come Brian De Palma è stato per infrangere
ogni gabbia precostituita a misura di spettatore “minorenne” o eminentemente
giovane. De Palma si rivolge a un pubblico adulto, giocando su infinite
variazioni dei temi hitchcockiani e indicando alcune strade per uno psycho-
thriller non costretto al puro susseguirsi di delitti.
La linea “hitchcockiana” è quella che guarda a uno spettatore maturo, anche
per il gioco dell’identificazione. Anthony Perkins rappresentava sullo schermo
le angosce di un pubblico che è cresciuto con lui, che è invecchiato insieme a
Norman Bates e non ha perso i propri tratti psicotici e folli. Così come altri
itinerari dello psycho-thriller ripropongono l’identificazione con il poliziotto o
l’investigatore (vedi Manhunter e per altri versi Vivere e morire a Los Angeles),
lasciando il “killer” in una dimensione oscura, orrida e repellente.
Ma mentre alcuni cineasti hanno guardato al filone poliziesco tradizionale
per innovarlo (l’uomo in difficoltà contro un assassino che fa parte di un piano
cospirativo: Blow Out o Omicidio a luci rosse), altri hanno ripensato
soprattutto alla figura dell’assassino. Lo “squartatore” (memore di quel
personaggio presente a intermittenza per tutta la storia del cinema che è Jack
the Ripper) dilaga e compie massacri sempre più espliciti nella formula di
identificazione che propongono.
Negli anni si sono moltiplicati gli assassini cinematografici che diventano eroi
popolari. La forza di questa popolarità è moltiplicata dalla scelta seriale: un
assassino che ha successo non mancherà di tornare sul luogo del delitto (la sala
cinematografica) più e più volte, in una quasi interminabile catena di remake.
Molti di questi assassini seriali affondano le loro origini nel bianco e nero di
Psycho (Norman Bates, lo psicopatico assassino interpretato da Anthony Per-
kins, risorge a colori nelle sequele Psycho II e Psycho III, nel televisivo Psycho

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IV e nel remake del 1998) o nei fotogrammi artigianali e quasi dilettanteschi di
Non aprite quella porta (Leatherface, faccia di cuoio, interpretato nel film capo-
stipite da Gunnar Hansen, colpisce ancora in tre film successivi). E Michael
Myers, l’assassino di Halloween la notte delle streghe, ritorna più volte dopo il
suo esordio nel 1978.
Ma gli anni Ottanta si aprono con il primo capitolo di una delle serie più
lunghe nella storia del cinema: Venerdì 13. I film di questa saga erano
caratterizzati dalla perdita di senso del delitto, e dalla sostanziale inessenzialità
dell’assassino (poiché tutto si concentra nell’atto, nel rito dell’accoltellamento e
del massacro). Nonostante l’iniziale successo di pubblico del filone Venerdì 13,
il cinema si è trovato rapidamente nella necessità di trovare una via di uscita. Per
evitare che la fortuna del genere si arenasse di fronte all’esaurimento di
invenzioni per l’atto omicida, era necessario ripartire dall’assassino più che
dalle sue gesta. È in questo modo che nasce la vera rivelazione degli anni
Ottanta, l’unico astro nuovo in un museo di criminali che ripetevano se stessi
all’infinito: Freddy Krueger.
La genialità dell’ideazione di Krueger sta nel rimettere lo spettatore dalla
parte dell’assassino. Troppo bombardato da fotogrammi di sangue, incapace di
provare più brividi nelle vesti soggettive della vittima, allo spettatore degli anni
Ottanta viene consegnato un personaggio ambiguo come il decennio in cui è
nato: è l’uomo cattivo dei sogni infantili, che quindi fa paura, ma è anche il
trasgressivo e simpatico villain che tutti vorrebbero essere.
Grazie a Krueger si preparava la strada a un altro serial killer
cinematografico, forse il più suggestivo che finora abbia attraversato gli schermi.
Si tratta di Hannibal Lecter, lo psichiatra cannibale del film pluripremiato Il
silenzio degli innocenti e poi del sequel Hannibal, con il quale la saga si affaccia
al Duemila. Lecter non ha bisogno di trucchi sul viso per apparire orribile, gli
basta fissare la cinepresa con gli occhi celesti e sbarrati dell’attore Anthony
Hopkins. E anche i macabri rituali del delitto non vengono mostrati allo
spettatore, ma quasi sempre suggeriti, evocati. Nel nuovo millennio non serve
rendere visibile la paura nel cinema, i nostri terrori sono già tanto, troppo
visibili nella cronaca di ogni giorno, nei telegiornali e nella vita quotidiana.

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Nelle pagine che seguono non ci occuperemo di tutti i “maniaci omicidi” che
hanno solcato gli schermi, per i quali occorrerebbe una intera enciclopedia, ma
solo dei “veri” serial killer del cinema, cioè quegli assassini che sono ritornati
più volte a colpire in diverse pellicole. Personaggi “seriali”, dunque, per
omicidi “seriali”. Ma per capire i meccanismi cinematografici attraverso cui è
stato possibile trasformare gli assassini seriali in immaginario, la galleria di
ritratti dei grandi assassini di celluloide (Jack, Norman, Leatherface, Michael,
Jason, Freddy, Henry, Hannibal e la loro recente progenie) è preceduta dai
profili di sei maestri del “cinema alla lama di coltello”, e cioè Alfred Hitchcock,
William Castle, Herschell Gordon Lewis, Mario Bava, Pete Walker e Dario
Argento.

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I PADRI DEL GENERE

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Alfred Hitchcock:
il maestro

Una analisi del serial killer cinematografico non può che aprirsi con un breve
omaggio ad Alfred Hitchcock. Sul regista inglese si sono ormai scritti
innumerevoli volumi e a lui sono stati dedicati saggi approfonditi. Non è certo
questa la sede per aggiungere qualcosa alla bibliografia su Hitchcock, ma solo la
necessaria opportunità per ricordare il debito verso questo regista da parte di
quanti hanno portato sullo schermo gli assassini seriali dei nostri anni.
Hitchcock non ha mai girato un film veramente imperniato sul serial killer
secondo l’accezione odierna, se si esclude The Lodger, del 1926, dedicato a Jack
lo Squartatore ma che ruota attorno al classico tema hitchcockiano
dell’innocente accusato ingiustamente (e per altro lo stesso Jack è qui
soprannominato Il Vendicatore e non Lo Squartatore). Eppure nella produzione
cinematografica di Hitchcock (e anche negli episodi televisivi da lui diretti nella
serie “Alfred Hitchcock Presents”) si trovano tutti gli ingredienti e gli schemi
che riappaiono nei lavori di altri registi sul serial killer.
Innanzitutto Hitchcock apre la strada agli sviluppi successivi del cinema
dedicato al serial killer perché mette in scena la pazzia. I suoi assassini svelano
spesso un lato bestiale, di predatori, che non si collega a possessioni
demoniache ma a più concreti tormenti psicologici. Il doppio volto di tanti suoi
assassini, secondo il modello vittoriano del dottor Jekyll e mister Hyde, finisce
sempre per avere una spiegazione psichiatrica. Il prototipo di tutti i film su un
assassino che viene presentato come caso psichiatrico è proprio il suo Psycho
(1960), e va detto che la diagnosi proposta alla fine del film sembrava davvero
giustapposta e poco convincente. Ma una spiegazione, una razionalizzazione
del delitto appariva a Hitchcock indispensabile.
In secondo luogo Hitchcock insegna le tecniche della paura cinematografica,
nella sua originale versione fatta di ambiguità e di confusione dello spettatore: la
suspense hitchcockiana serve da impianto per innumerevoli film thrilling, anche
quei thrilling che prendono le mosse dagli atti brutali ed efferati di un assassino

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seriale. Questa tecnica della paura cinematografica aveva delle basi molto preci-
se. Come non ricordare, in Blackmail del 1929, il terrore indotto da una sempli-
ce parola (knife, coltello), ascoltata ossessivamente da una ragazza che la sente
ripetere in una conversazione? o la scoperta improvvisa e inaspettata di un pu-
gnale piantato nella schiena di una donna in Il club dei trentanove (1935)?
In questa tecnica della paura c’era anche una attenzione particolare al ruolo
dello spettatore, alla sua identificazione nei personaggi che agiscono sullo
schermo. Era, in sintonia con i tempi, un ruolo ancora di identificazione assoluta
con la vittima. Se il protagonista dell’episodio pauroso era un uomo, si trattava
di identificarsi nella sua ricerca di riscatto da una accusa infamante e falsa. Se
viceversa il protagonista era una donna, allora il ruolo era quasi sempre di eroina
in pericolo, che finisce spesso per essere uccisa o minacciata di morte (per
quanto non manchino alcune rare femmine minacciose, come la governante
indimenticabile di Rebecca la prima moglie, del 1940).
Anche molte delle sequenze hitchcockiane in cui appaiono dei delitti hanno
fatto scuola. Non si tratta solo delle sequenze di Psycho, ma di piccoli gioielli
sanguinari annidati nelle altre pellicole del regista. E Hitchcock non esitò
nemmeno davanti agli espedienti tecnologici più spettacolari, come il
tridimensionale, quando girò nel 1954 Il delitto perfetto in tre dimensioni,
anticipando, con la famosa scena delle forbici, il futuro uso del 3D per
spaventare le platee con pugnali e forconi che sembrano fuoriuscire dallo
schermo.
Ma Hitchcock resta il regista del “suggerire più che mostrare”. Il suo cinema,
essendo al confine tra mainstream e film di genere, non poteva osare troppo.
Alfred Hitchcock è l’uomo delle pulsioni represse, dell’orrore che c’è, ma non
vuole farsi vedere. Tutti i suoi film sono attraversati da un sottile filo di
erotismo, evidenziato soprattutto nelle algide attrici bionde che il regista
sceglieva con cura per essere perseguitate ed offese. Ma la visione dell’omicidio
era sempre pulita, senza squarci sanguinolenti, senza visione esplicita del
momento truculento del delitto. La famosa scena della doccia in Psycho va
ricordata proprio perché il coltello che si abbatte sulla ragazza nuda non si vede
mai affondare nella carne, anche se molti spettatori testimoniano di “aver visto”
la perforazione della vittima.

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Troppo gentiluomo e troppo legato al suo perbenismo inglese, Hitchcock
non si poteva spingere più in là. Ci penseranno i suoi imitatori a varcare le so-
glie che lui non aveva voluto e potuto oltrepassare. Così William Castle offrirà
molta più macelleria (laghi di sangue, teste mozze, colpi di accetta, pugnalate...),
e darà più soddisfazione al voyeurismo dello spettatore. Sarà a sua volta
sorpassato solo dall’incontenibile Herschell Gordon Lewis, che con i suoi
banchetti di sangue toccherà più da vicino il modello e le caratteristiche del
cinema pornografico. In Italia gli imitatori di Hitchcock sceglieranno subito la
strada del sesso intrecciato all’orrore, una strada battuta soprattutto da Mario
Bava, ma anche da Riccardo Freda che arriverà a inventare un dr. Hichcock
necrofilo come estremo omaggio/strumentalizzazione del mito di Alfred
Hitchcock. A questi suoi epigoni Hitchcock ha lasciato il compito di mostrare il
delitto nei suoi dettagli macabri e sanguinosi, anche se lui stesso non si era
sottratto a immagini forti: basterebbe ricordare il bambino scaraventato su un
cancello in Io ti salverò, già nel lontano 1945, o il rasoio pronto ad uccidere il
vecchio psichiatra in Marnie.
Nemmeno quando, con la maggiore rilassatezza censoria degli anni Settanta,
l’orrore poteva sposarsi direttamente con la sessualità e con il nudo, Hitchcock
volle sottomettersi a questa moda, per quanto una delle sue ultime pellicole,
Frenzy del 1971, sia superiore a tutti i suoi film precedenti per violenza ed
erotismo esplicito, avvicinandosi più di ogni altra opera hitchcockiana al tema
del serial killer.
In Frenzy, infatti, il voyeurismo dello spettatore ottiene più soddisfazione, e
lo stesso assassino uccide in serie con violenza esibita e con caratteristiche affini
a quelle degli omicidi più sanguinari della cronaca nera e quindi del serial killer
cinematografico posteriore. Ma Hitchcock si allontanava dai percorsi successivi
del serial killer cinematografico proprio perché cercava comunque una
spiegazione al delitto. Spesso è la vendetta a muovere la mano dei suoi assassini
(come in Rebecca), oppure è una pazzia che mantiene una logica per quanto
demenziale. Il serial killer vero e proprio, invece, sfugge ad ogni motivazione e a
ogni spiegazione. Per Hitchcock solo gli animali potevano essere così pericolosi
e insidiosi. E infatti gli unici veri assassini seriali del suo cinema sono gli uccelli
del film omonimo. In Gli uccelli del 1963, infatti, la minaccia dei feroci pennuti è
senza motivo, colpisce chiunque, secondo ragioni assolutamente inconoscibili.

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Nel celebre dialogo tra François Truffaut e Alfred Hitchcock c’è un
passaggio significativo:
“HITCHCOK: Non avrei girato Gli uccelli se si fosse trattato di avvoltoi o di
uccelli da preda; quello che mi è piaciuto è che si trattava di uccelli comuni, di
uccelli di tutti i giorni. Capisce cosa voglio dire?
TRUFFAUT: Tanto più che questo è ancora una volta riferibile al suo
principio: dal più piccolo al più grande, tanto a livello figurativo che
intellettualmente. Dopo aver fatto vedere dei graziosi uccelli che strappano gli
occhi degli uomini, deve fare una storia di fiori il cui profumo avvelena la
gente...!
H.: No, no! Bisogna far vedere dei fiori che mangiano gli uomini.
T.: Fino dal 1945, quando si parla della fine del mondo, si pensa evidentemente
alla bomba atomica. Non ci si aspetta che al posto della bomba atomica ci siano
migliaia di uccelli...
H.: È per questo che lo scetticismo verso la possibile catastrofe è espresso da
una donna anziana, l’ornitologa; è una reazionaria, una conservatrice, non può
credere che una cosa grave potrebbe succedere con degli uccelli.” [F. Truffaut, Il
cinema secondo Hitchcock, Pratiche Editrice, Parma 1985, pp.235-236]
Ecco, Alfred Hitchcock era a sua volta troppo conservatore per applicare lo
stesso schema agli uomini. Non può credere che degli esseri umani compiano
azioni aggressive senza alcuna motivazione, e in questo non coglie la portata
inquietante e trasgressiva del serial killer, che uccide a caso ed è nascosto
nell’appartamento accanto, educato e gentile, ma anche capace di improvvisa
furia omicida.
Saranno i successori di Hitchcock a rompere queste cautele conservatrici e a
mostrare sugli schermi tutta la potenza destabilizzante e terrorizzante del serial
killer. Assumendo la lezione del maestro Hitchcock, ma spesso per ribaltarla e
oltrepassarla.

17
Filmografia

1922
Always Tell Your Wife
Woman to Woman

1923
The White Shadow

1924
The Passionate Adventure

1925
The Blackguard
The Prude’s Fall
The Pleasure Garden

1926
The Mountain Eagle
The Lodger

1927
Downhill
Easy Virtue
The Ring (Vinci per me!)

1928
The Farmer’s Wife
Champagne (Tabarin di lusso)

1929
Harmonia Heaven (Cielo d’armonia)
The Manxman (L’isola del peccato)
Blackmail

1930
Elstree Calling
Juno and the Paycock
Murder
Mary

18
1931
The Skin Game (Fiamma d’amore)

1932
Rich and Strange
Number Seventeen
Lord Camber’s Ladies

1933
Waltzes from Vienna (Vienna di Strauss)

1934
The Man Who Know Too Much

1935
The Thirty-Nine Steps (Il club dei trentanove)

1936
The Secret Agent (Amore e mistero / L’agente segreto)
Sabotage

1937
Young and Innocent

1938
The Lady Vanishes

1939
Jamaica Inn (La taverna della Giamaica)

1940
Rebecca (Rebecca, la prima moglie)
Foreign Correspondent (Il prigioniero di Amsterdam)

1941
Mr. and Mrs. Smith (Il signore e la signora Smith)
Suspicion (Il sospetto)

1942
Saboteur (Sabotatori / Danger)

1943
Shadow of a Doubt (L’ombra del dubbio)

19
Lifeboat (I prigionieri dell’oceano)

1945
Spellbound (Io ti salverò)

1946
Notorius (Notorius, l’amante perduta)

1947
The Paradine Case (Il caso Paradine)

1948
Rope (Il nodo alla gola)

1949
Under Capricorn (Il peccato di Lady Considine / Sotto il capricorno)

1950
Stage Fright (Paura in palcoscenico)

1951
Strangers on a Train (L’altro uomo / Delitto per delitto)

1952
I Confess (Io confesso)

1954
Dial M for Murder (Il delitto perfetto)
Rear Window (La finestra sul cortile)

1955
To Catch a Thief (Caccia al ladro)

1956
The Trouble with Harry (La congiura degli innocenti)
The Man Who Know Too Much (L’uomo che sapeva troppo)

1957
The Wrong Man (Il ladro)

1958
Vertigo (La donna che visse due volte)

20
1959
North by Northwest (Intrigo internazionale)

1960
Psycho (Psyco)

1963
The Birds (Gli uccelli)

1964
Marnie (id.)

1966
The Curtain (Il sipario strappato)

1969
Topaz (id.)

1971
Frenzy (id.)

1975
Family Plot (Complotto di famiglia)

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William Castle:
il gusto per l’eccesso

Per William Castle la carriera di maestro del brivido inizia davanti allo specchio,
quando, da bambino, passava ore e ore a fare smorfie per imitare il make-up di
Lon Chaney nel Gobbo di Notre Dame. A sei anni, poi, l’esperienza cruciale: un
vicino di casa mangia dei funghi avvelenati, e il piccolo William assiste a tutti i
momenti dell’agonia, fino all’arrivo dell’ambulanza. “Questo episodio mi ha
creato una ossessione per gli aspetti spaventosi dell’orrore”, dichiarerà Castle in
seguito.
Con queste premesse il ragazzino americano, nato a New York il 24 aprile
del 1914, non poteva che diventare uno dei più abili artigiani dell’horror, l’uomo
che dedicherà gran parte della sua vita a terrorizzare il pubblico cinematografico
di tutto il mondo. Cinque anni dopo la morte dei genitori, Castle (il cui vero
cognome di origine tedesca suonava Schloss) decide di fare l’attore, e riesce a
entrare nel mondo dello spettacolo spacciandosi per il nipote del produttore
Samuel Goldwyn. Rivela subito le suo preferenze, e a meno di vent’anni dirige
la versione teatrale di Dracula, con Bela Lugosi, oltre ad altri classici del terrore
a teatro (da The Last Warning a The Cat and the Canary).
È in quel periodo che William Castle rivela il suo vero talento: quello di
inventore di trovato pubblicitarie, di vulcano di idee per incuriosire gli spettatori
e far parlare la stampa, anticipando di molti anni i meccanismi dell’universo
massmediale più recente. Castle non ha scrupoli, e per attrarre l’attenzione su
un suo lavoro teatrale escogita una incredibile macchinazione. L’attrice di un suo
spettacolo era tedesca, e allora bastò divulgare la falsa notizia che Hitler rivoleva
in Germania a ogni costo quella donna ed imbastire una storia del tutto fittizia di
attentati alla vita dell’attrice per ottenere un risalto di stampa eccezionale. I più
maligni arrivano a raccontare che Castle imbrattò di nascosto il teatro con delle
svastiche, per rendere ancor più credibile l’operazione.

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Era il primo passo verso la sua proclamazione a “Re del Gimmick (il truc-
co)”, che verrà definitivamente consacrata con l’apertura di una propria casa di
produzione, nel 1957.
Due anni prima, Castle dopo aver diretto una interminabile serie di film di
serie B e di telefilm, assistendo alla proiezione dei Diabolici di Clouzot, scopre
uno spazio ancora incontaminato per il cinema americano. In quegli anni negli
Stati Uniti non era stato girato un suspense efficace come quel prodotto
europeo, cupo e inquietante, al confine tra il film del terrore, il giallo e il dramma
psicologico. Castle investe allora tutti i suoi risparmi per produrre da solo un
nuovo film, tratto dal singolare libro The Marble Forest scritto da dodici autori
diversi. Nasce cosi Macabre, girato in sei giorni e capostipite di una nuova vena
cinematografica. A riprese ultimate, però, Castle si accorse di non essere
Clouzot e che il film non era certo un capolavoro noir: un ricco signore, questa
la trama, moriva di paura alla vista del cadavere mummificato di una bambina, e
gli orchestratori dell’evento potevano intascarne l’eredità.
Serviva una trovata per risollevare le sorti di un film girato con abilità ma
implacabilmente di serie B. Con una telefonata ai Lloyds di Londra, Castle
stipulò una assicurazione di 1000 dollari sulla vita degli spettatori che fossero
morti di paura durante la proiezione del film, e riempì le locandine con questo
avviso. Capì anche che il film doveva puntare sugli aspetti autoironici, e
aggiunse alla pubblicità una serie di strip di sano umorismo nero (“Abbiamo
dovuto impiccare il cameraman perché non rivelasse il terrificante finale”, diceva
ad esempio una vignetta). Tutto il cinema di William Castle manterrà questo
equilibrio tra terrore e humour, giocando sull’ambiguità tra paura e riso. Non si
andava a vedere un film di Castle per “pensare”, ma per divertirsi, alternando le
risate ai brividi di spavento. Del resto non si trattava che di esplicitare una
realtà che tutti i frequentatori di sale dove si proiettano film del terrore ben
conoscono: per spezzare la tensione o ridimensionare la paura si ride e si
ironizza sulle vicende terrificanti che passano sullo schermo.
Negli stessi anni in Inghilterra, un altro regista, Terence Fisher, studiava tutti
i mezzi per non far ridere lo spettatore alla prima apparizione di Dracula nel
suo Dracula il vampiro, e dall’altra parte dell’oceano Castle invece puntava
tutto proprio sull’equivoco tra spavento e umorismo.

23
Con questa linea produttiva ben presente, William Castle continuò a dirigere
e produrre altre piccole macchine da divertimento. Prima La casa dei fantasmi
(fotografata secondo l’immaginario procedimento Emergo: in realtà tutto si
riduceva all’emergere di uno scheletro dallo schermo, alle “prime” del 1958), poi
Il mostro di sangue (girato in PerceptoVision, cioè alcune sedie della sala di
proiezione venivano fatte vibrare con una leggera scossa elettrica) infine
Thirteen Ghosts (con il metodo Illusion-O: venivano distribuito delle lenti
colorate che permettevano di vedere apparizioni di fantasmi altrimenti non
percepibili).
Questa prima serie di film del terrore di Castle si colloca a metà strada tra
“giallo” e soprannaturale, ma con una costante allusione a entità occulte o
fantastiche. Il modello è però quello delle apparenze fantastiche che nascondono
una macchinazione umana, al modo di certi romanzi di John Dickson Carr. Del
resto Castle si era fatto le ossa negli anni Quaranta girando moltissimi
polizieschi talvolta tratti da celebri serie radiofoniche. Suo è The Mark of the
Whistler, basato su un racconto di Cornell Woolrich, e nel “giallo” castleiano
vanno ricordati anche The Crime Doctor’s Warning e The Crime Doctor’s
Gamble, così come The Whistler, Voice of the Whistler e The Fat Man.
I suoi fantasmi sono quasi sempre architettati da criminali per far impazzire
(o morire) di paura miliardari o mogli fastidiose. Eppure Castle lascia un
margine di equivoco, in cui l’elemento soprannaturale fa la sua ricomparsa. Nel
film Il mostro di sangue, ad esempio, si inventa il ‘tingler’, un microorganismo
che provocherebbe la morte da spavento, e in Thirteen Ghosts il finale sembra
confermare che i fantasmi della casa infestata esistono veramente, nonostante la
storia fosse sempre imperniata (come in La casa dei fantasmi e nel successivo Il
castello maledetto) su un “vero” assassino che si maschera dietro false
apparizioni spettrali.
Il “realismo” di William Castle aumenta dopo il successo dello Psycho di
Alfred Hitchcock, che dimostrava come un buon brivido macabro può scaturire
anche da una storia di follia e non necessariamente di fantasmi. Castle si affretta
ad imitare il grande Hitch, guadagnandosi il soprannome di “Hitchcock junior”,
o più modestamente di “Hitchcock dei poveri”. Ma su questa parentela con
Alfred Hitchcock si potrebbe discutere, o almeno si potrebbe rimettere in
discussione una semplice linea discendente di Castle da Hitchcock.

24
Se tutto un nuovo genere di film del terrore, violento, con esposizioni senza
pudore di accoltellamenti e cadaveri, incentrato su un maniaco omicida e su
deviazioni sessuali, trova un suo antenato illustre e originario in Psycho, a ben
vedere proprio William Castle potrebbe dividere questa paternità con Alfred
Hitchcock.
Psycho impressiona con la mummia della madre, ma Castle aveva anticipato i
tempi con la bambina mummificata di Macabro. Sempre Castle con qualche
anno di anticipo aveva osato indulgere con la camera sugli omicidi, aprendo una
nuova estetica dell’ammazzamento. Ed è proprio il “Re del gimmick” ad avere
sviluppato ed estrapolato da Hitchcock soprattutto la violenza, il pugno nello
stomaco dello spettatore, la centralità del delitto e del suo rito sacrificale.
Il thriller sanguinario o le propaggini recenti dello splatter movie possono
indubbiamente trovare lontani riferimenti nel cinema hitchcockiano, ma devono
ammettere un diretto debito alle trovato e ai trucchi di Castle.
Castle osa dove Hitchcock si ritrae. La Joan Crawford che brandisce
un’accetta in Cinque corpi senza testa avrebbe fatto solo una fugace apparizione
in un film di Hitchcock, mentre Castle si diverte a insistere sull’esposizione
dell’arma, sulla paura non tanto derivante da situazioni, ma da oggetti e da cose.
Sono ‘cose paurose’ i cadaveri, spesso smembrati, che appaiono continuamente
nel cinema di Castle, e sostituiscono con la loro presenza materiale le atmosfere
del suspense hitchcockiano. In questo, Castle è anticipatore del thriller ‘duro’
degli anni Settanta e Ottanta più di Hitchcock.
Del vecchio maestro inglese, Castle si limito in realtà a fare la parodia. In
Homicidal, infatti, il faccione lucido di William Castle compare all’inizio del
film in una esplicita presa in giro dei telefilm presentati da Hitchcock, e là dove
Hitch si limitava ad aprire e chiudere il breve telefilm, Castle esagera come
sempre: ricompare come voce fuori campo per annunciare il ‘Fright Break’, un
invito ad uscire dalla sale per gli spettatori impressionabili prima delle scene più
spaventose, e tenta poi di reiterare la scena della doccia di Psycho e il
travestimento di Perkins inventandone assurde varianti.
Agli americani questo gusto per l’eccesso piacque, e in molte città degli
States il modesto Homicidal incassò più di Psycho. Castle si accorse che
attaccarsi come un parassita demitizzante alle fortune di Hitchcock era un buon
affare.

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Prese, oltre che ad apparire nei propri film, a rapinare idee dal bagaglio
hitchcockiano. Infine riuscì a reclutare Robert Bloch, sul cui romanzo ora basato
Psycho, e gli fece sceneggiare Cinque corpi senza testa e Passi nella notte. Al
contrario di Hitchcock, però, che con mezzi più imponenti poteva scegliere
attori di grido o lanciare giovani promesse, Castle si doveva limitare al riciclo di
vecchie star come la Crawford o Barbara Stanwyck, quando non ebbe più nei
suoi ranghi l’economico Vincent Price.
Alla pancia e alle guance cadenti di Hitch, il nostro Castle provò a sostituire
la propria figura imponente, il sigaro da produttore hollywoodiano, e
l’espressione divertita e insinuante. L’imitazione riuscì solo in parte, e la sua
popolarità come regista subì presto un declino, che nel 1967 lo indusse a
lasciare la macchina da presa. Castle diventò così solo un produttore, insediato
al dodicesimo piano di un grattacielo di Beverly Hills, sempre più astuto
nell’indovinare come promuovere un film anche quando non vale niente.
Si volle prendere una sola rivincita sui suoi detrattori, producendo
Rosemary’s Baby di Roman Polanski, un ottimo risultato per le sue finanze e
finalmente un prodotto che usciva dalla serie B. Gli costò caro solo in termini
psicologici: terrorizzato dalla sua superstizione, convinto dell’esistenza del
diavolo, Castle si senti perseguitato da una oscura maledizione dopo l’uscita del
film, e le crisi nervose cui rimase soggetto lo costrinsero a lunghe terapie
psichiatriche.
Ma non si fermò. Inventò ancora un gimmick (l’Ultrasonic Sound of Terror, un
suono angoscioso inserito in una serie TV del 1972) e tentò di ricreare gli
scherzi degli anni Cinquanta facendo sussultare il pavimento del cinema alla
prima di Bug!, la sua ultima fortunata produzione del 1975.
Nel 1974 aveva voluto però concludere la sua carriera di regista con un canto
del cigno, girando Shanks, stranissimo film interpretato dal mimo Marcel
Marceau. Un horror muto a base di morti viventi animati da un pazzo, delicato
come una fiaba per bambini, ma contemporaneamente truculento.
Non ebbe nessun riconoscimento per questo film anomalo, a suo modo
demenziale, e tornò così alla produzione.
William Castle è morto il 31 maggio del 1977. La sua ricerca del brivido ad o-
gni costo era ormai terminata da qualche anno. L’unico rimpianto ad averlo ac-
compagnato alla tomba è quello di non essere riuscito a realizzare il “gimmick

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supremo”, un trucco che nei suoi sogni doveva investire contemporaneamente
tutti e cinque i sensi dello spettatore.
Castle immaginava un pubblico cinematografico che, vedendo e ascoltando il
film, sentisse l’odore delle bare scoperchiate, assaporasse la nebbia di un
cimitero e percepisse la stretta di dita misteriose. Un sogno irrealizzato o un
lascito per il futuro cinema del terrore?

Filmografia

1943
The Chance of a Lifetime
Klondike Kate

1944
The Whistler
She’s a Soldier Too
When Strangers Marry
The Mark of Whistler

1945
The Crime Doctor’s Warning
Voice of the Whistler

1946
Just Before Dawn
The Mysterious Intruder
The Return of Rusty
Crime Doctor’s Manhunt

1947
The Crime Doctor’s Gamble

1948
Texas, Brooklyn, and Heaven
The Gentleman from Nowhere

1949
Johnny Stool Pigeon
Undertow

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1950
It’s a Small World

1951
Hollywood Story
Cave of Outlaws
The Fat Man

1953
Serpent of The Nile
Fort Ti
Conquest of Cochise
Slaves of Babylon
Charge of the Lancers
Drums of Tahiti
Jesse James vs. the Daltons

1954
The Iron Glove
Battle of Rogue River
The Saracen Blade
The Law versus Billy the Kid
Masterson of Kansas
The Americano

1955
New Orleans Uncensored
The Gun that Won the West
Duel on the Mississippi

1956
The Houston Story
Uranium Boom

1957
Macabre (Macabro)

1958
House on Haunted Hill (La casa dei fantasmi)

1959
The Tingler (Il mostro di sangue)

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1960
Thirteen Ghosts

1961
Homicidal (Homicidal)
Mr Sardonicus

1962
Zotz!
The Old Dark House (Il castello maledetto)

1963
13 Frightened Girls
Strait-Jacket (5 corpi senza testa)

1964
The Night Walker (Passi nella notte)

1965
I Saw What You Did (Gli occhi degli altri)

1966
Let’s Kill Uncle (Gioco mortale)
The Busy Body
The Spirit is Willing (Il fantasma ci sta)

1967
Project X (Anno 2118: Progetto X)

1974
Shanks (Shanks)

William Castle ha inoltre prodotto The Lady from Shanghai (La signora di
Shanghai, 1967) di O. Welles, Rosemary’s Baby (id., 1968) di R. Polanski, Riot
(1969) di B. Kuhk, Bug! (Bug, l’insetto di fuoco, 1975) di J. Szwarc. È apparso
come attore in Shampoo (id., 1975) di H. Ashby, The Day of the Locust (Il
giorno della Locusta, 1975) di J. Schlesinger e nel film per la TV The
Sexsymbol.

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Nel 1939 ha scritto i dialoghi per Music in My Heart di J. Stanley e nel 1942 il
soggetto di North to the Klondike di E. C. Kenton.
Alla sua figura è dedicato il film di Joe Dante Matinée (id., 1993).

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Herschell Gordon Lewis:
il prestigiatore dell’orrore

Una ragazza torna a casa e comincia a spogliarsi, seguita dalla macchina da presa
in ogni movimento. Va in bagno, e si immerge nella vasca. Improvvisamente in
controcampo appare uno strano personaggio armato di un enorme coltellaccio,
che pianta nel viso della ragazza e le cava un occhio. L’assassino se ne va e il
cadavere galleggia nella vasca da bagno piena di sangue.
Questa raccapricciante variazione della hitchcockiana “scena della doccia”
apre il film Blood Feast, prima dei titoli. Siamo nel 1963, e le platee non sono
abituate a sequenze shock come questa. Psycho si è limitato a qualche rivolo di
sangue (tra l’altro, in bianco e nero), e solo la Hammer inglese ha osato di più,
sin dal 1957, ma sempre basandosi su trame soprannaturali e su ammazzamenti
fantastici opera di vampiri o mostri irreali. Qui, invece, ad operare è un essere
umano, dalla faccia banale, che uccide in modo iperrealistico.
Blood Feast ha fatto storia, nel cinema dell’orrore, e ha fatto da trampolino
per uno strano regista, Herschell Gordon Lewis, destinato dopo questo film a
tuffarsi per un decennio in un mare di sangue. Con quel film nasce ufficialmente
quello che oggi viene definito “splatter movie”, e che a volte è indicato anche
con il termine “gore”. La serie Venerdì 13, Non aprite quella porta e il ciclo di
Nightmare devono tutti qualcosa al vecchio Lewis e ai suoi film sanguinolenti.
Nato a Pittsburgh il 15 giugno 1926, Herschell Gordon Lewis nei primissimi
anni Sessanta abbandona l’insegnamento e si diverte a girare film. Acquista un
po’ di mestiere e sceglie subito un settore specifico del cinema a bassissimo
costo, quasi amatoriale: i “nudies”. È Lewis che dirige, nel 1961, quello che la
storia del cinema erotico considera il primo nudie in 35 millimetri, Lucky Pierre.
Accanto a Lewis c’è Dave Friedman, il produttore che accompagnerà Lewis
anche nelle sue scorribande horror.
Dopo aver diretto qualche altra pellicola nei campi nudisti della Florida, Le-
wis si accorge che i suoi filmetti economici a base di donne nude diventano
sempre più ripetitivi e cerca di scoprire, con il partner Friedman, quale altro

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sottogenere può essere realizzato con pochi soldi e con esiti concorrenziali nei
confronti delle major.
La furbizia del duo Lewis-Friedman era proprio questa: confezionare
prodotti che le grandi compagnie non avrebbero mai potuto mettere in listino.
Bastava qualche centinaio di dollari per coprire zone completamente franche del
mercato. Con le donne nude era andata bene, ma ora occorreva qualcosa d’altro.
Erano gli anni in cui Roger Corman su budget limitati stava tentando di rifondare
il gotico cinematografico americano, attraverso la serie di pellicole ispirate ai
racconti di Edgar Allan Poe, ed erano gli anni dell’inglese Christopher Lee nelle
parti dei più svariati mostri, in Inghilterra.
Cosa c’era, ancora sotto la serie B, nel buco nero della serie Z, che né la
Hammer, né Corman e nemmeno William Castle, per non parlare di Hitchcock,
avrebbero mai osato mostrare al pubblico? C’erano quelle che gli americani
chiamarono le 3D, che non sono le tre dimensioni ma le iniziali di disfigurement,
dismemberment e disembowelment, che in italiano potrebbero diventare le 3S
(sfigurare, smembrare, sventrare). Quello che il cinema non aveva ancora osato
era il realismo della macelleria, l’occhio voyeuristico sugli atti dell’assassino.
In otto giorni, a Miami, Lewis gira Blood Feast, imperniato sui delitti di un
pazzo che tenta di portare in vita una divinità egiziana sacrificandole gli organi
interni di alcune belle ragazze. L’esperienza nei nudies aveva messo in contatto
Lewis con il giro delle conigliette di “Playboy” e delle Playmates, che vennero
reclutate in gran numero per finire sotto le armi da taglio del pazzo di Blood
Feast. Connie Mason passa così dalle pagine del rotocalco di Hefner agli
squartamene di Blood Feast, dove interpreta l’unica superstite (e userà ancora il
suo smagliante sorriso in Two Thousand Maniacs!, il secondo gore di Lewis),
mentre un’altra ragazza di “Playboy” dovrà farsi strappare il cervello in una
strada isolata. “Poiché non aveva cervello, ne usammo uno finto...” è la battuta
che Lewis amava ripetere per sdrammatizzare quella sequenza: e l’attricetta
doveva essere veramente svampita per presentarsi sul set con i capelli pettinati
da una bella permanente, pur sapendo a cosa andava incontro per girare quella
scena.
Alla ennesima stellina di “Playboy” veniva strappata la lingua, una semplice
lingua di pecora, non un sofisticato trucco in lattice di futuribili specialisti del
make-up. Tutta la macelleria dei film di Lewis era macelleria nel vero senso della

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parola. Solo il sangue era finto (secondo una formula inventata da Lewis e
Friedman che aveva un unico difetto: era indelebile!), e tutte le altre interiora che
fuoriuscivano dalle pance delle fanciulle erano semplici frattaglie animali com-
prate dal macellaio. In Color Me Blood Red, il terzo film della cosiddetta ‘Gore
Trilogy’ di H. G. Lewis, un intero frigorifero venne riempito di frattaglie, e
l’unico inconveniente fu un guasto al frigo, che costrinse la troupe a girare in
mezzo a un terribile fetore di carne marcia. Con una testa di vacca simularono
una testa umana, e per la scena in cui un uomo viene fatto a pezzi da un moto-
scafo buttarono in acqua chili e chili di interiora, con lo spiacevole effetto di ri-
chiamare stormi di gabbiani che resero impossibili le riprese.
Questi aneddoti da voltastomaco costellano la carriera di Lewis, dal 1963
legata irreparabilmente al cinema dell’orrore ‘duro’. La critica stroncò
ovviamente Blood Feast, ma il successo di pubblico fu enorme, e questo in
America è quel che conta. Il film successivo, Two Thousand Maniacs!, più
apprezzato dalla critica, ebbe in compenso un’accoglienza di pubblico
leggermente inferiore di Blood Feast, pur riconfermando Lewis come una
macchina eccellente per fare quattrini. Con il primo film H. G. Lewis pensava di
avere già fatto “troppo”, e così in Two Thousand Maniacs! si permise qualche
scrupolo moralistico, rifiutandosi di usare un vero mutilato per la scena in cui a
un uomo vengono staccate braccia e gambe legate a quattro cavalli. Questo
secondo “gore” era leggermente spostato su tematiche soprannaturali, perché vi
si immagina che gli spettri di una città sudista riappaiano per sterminare tutti i
turisti nordisti che capitano loro a tiro. Ma il gruppo di assassini venuti dal
passato non ha niente di soprannaturale, non sono zombi né hanno fattezze
mostruose, assomigliano piuttosto ai volti reali ma impressionanti della famiglia
folle di Non aprite quella porta. E così le zoommate della cinepresa possono
dilettarsi su veridici colpi di accetta che staccano membra e su dita mozzate in
primissimo piano.
Senza dimenticarsi di realizzare sequenze suppletive per qualche horror
girato da suoi amici, Lewis nel 1966 dirige il terzo atto della trilogia, Color Me
Blood Red, imperniato su un artista pazzo che usa il sangue per dipingere. Il
pezzo forte del film era rappresentato dalla sepoltura di una ragazza sul cui
corpo passeggiano i vermi: si trattava di soli 24 vermetti, noleggiati a caro
prezzi da un allevatore americano che ne pretese la totale restituzione.

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Gli attori continuavano ad essere completamente incapaci, scelti quasi
sempre tra gli amici del regista. Lewis diceva che i suoi attori avevano “talento
quanto una scarpa vecchia”, ma non se ne rammaricava perché nel suo cinema
saper recitare è inessenziale. L’importante è avere attori con lo stomaco
sufficientemente forte da sottoporsi senza esitazioni alle sequenze “gore”. Il
peggior risultato dal punto di vista degli attori venne con A Taste of Blood, una
incursione nel filone dei vampiri, dove anche l’unico attore professionista, Sid
Reeth, recitò talmente male che H. G. Lewis dovette tagliare quasi tutti i suoi
dialoghi. E lo stesso Lewis si trovò nella necessità di apparire dall’altra parte
della macchina da presa, nel ruolo di un marinaio, al posto di un attore che non
si presentò in scena.
Ormai H. G. Lewis era diventato uno specialista, e anche le sue permanenti
divagazioni nel genere “sexy” o nel film di azione e di violenza risentivano delle
sue inclinazioni all’orrore. Anche se con meno dettagli, e scegliendo spesso il
fuori campo, film come The Stuff’ll Kill Ya non esitano a trattare di lapidazioni,
crocifissioni e teste che scoppiano. E i giovani teppisti di Just for the Hell of It
(un film molto amato da Lewis) costringevano la pubblicità a promuovere la
pellicola con lo slogan “Violence and Vandalism”, preannunciando a ragione i
sanguinosi avvenimenti di cui il film era costellato. Incidentalmente si può
sempre mettere un po’ di redditizio “gore”, anche quando le vicende trattano di
bande rock o di sette di fanatici religiosi.
Ma le incursioni in altri generi non allontanarono mai a lungo Lewis dal
cinema horror. Qualcosa di hitchcockiano aveva il rapporto madre-figlio di The
Gruesome Twosome, dove una vecchietta affitta camere a belle ragazze per farle
poi scotennare dal figlio demente. Quando mammina regala al suo pargoletto un
coltello elettrico lui non si limita più a staccare il cuoio capelluto alle sue
vittime, ma le sgozza direttamente.
Dopo il successo di She Devils on Wheels, un film sulle violenze di criminali
in motocicletta, e dopo le avventure macabre di un uomo sfigurato da un cavo
dell’alta tensione che gli fornisce poteri extrasensoriali in Something Weird, H.
G. Lewis si dedicò a quello che è forse il suo capolavoro: Wizard of Gore.
Definito da Daniel Krogh e John McCarthy, nel loro The Amazing Herschell
Gordon Lewis, and His World of Exploitation (Fantaco, Albany, NY 1983)
“una variazione pirandelliana sul tema dell’Illusione contro la Realtà”, Wizard of

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Gore è la storia di un mago-prestigiatore che dopo i trucchi sul palcoscenico si
diverte a tagliare veramente in due le ragazze per le strade della città. Quando il
prestigiatore lascia il teatro, fa a pezzi le donne nello stesso modo in cui simula-
va trafitture o squartamenti per il suo pubblico.
Il gioco dello splatter movie è proprio di muoversi al confine tra verità e
trucco: le interiora palpitanti di un film di Lewis devono sembrare talmente vere
da far pensare a un delitto concreto e non a un make-up. E l’uso di frattaglie
animali spinge ancora oltre l’equivoco, al modo di successivi epigoni come il
Ruggero Deodato di Cannibal Holocaust. Lo spettatore deve restare stupito
proprio come di fronte a un prestigiatore, che pianta la spada nella sua
assistente, pur non uccidendola veramente.
Il mago Montag di Wizard of Gore mette in atto ciò che sulla scena è solo
finzione: trafigge, schiaccia sotto una pressa, sega in due le ragazze. Nel film è
tutto finto, eppure appare incredibilmente realistico. Persino l’interprete
principale, il giovane Ray Sager più volte utilizzato da Lewis, ha meno di
trent’anni pur impersonando un uomo cinquantacinquenne, grazie a capelli e
baffi grigi. E altrettanto posticce sono le budella che fuoriescono dalle vittime,
un semplice amalgama di organi animali, cera e profilattici pieni di sangue finto.
Eppure l’ambiguità permane. Nessuna scena venne girata in studio, e quindi
sono veri i cimiteri e soprattutto è vera la camera mortuaria in cui si svolge una
sequenza di Wizard of Gore, con veri cadaveri. Per complicare il dilemma tra
realtà e finzione, Lewis si è divertito a far precipitare il finale del film nella più
totale assurdità. Montag, invitato in Tv, ipnotizza tutti eccetto Jack, un
giornalista che non lo stava guardando durante l’esperimento. Jack uccide il
mago, ma quando torna a casa dalla sua fidanzata si trasforma in Montag, e
sventra la ragazza a mani nude. La fanciulla in realtà è una strega, e Montag
viene condannato a ripetere in eterno i suoi delitti...
Ormai il lato demenziale del “gore” di H. G. Lewis stava emergendo sempre
di più. E l’ultimo film di Lewis, The Gore-Gore Girls (facile gioco di parola su
Go-Go Girls), rappresenta l’apice del genere e il più grande sconfinamento
nell’auto-ironia. Girato in tre settimane come il precedente Wizard of Gore,
questo film ha più di una sequenza in comune con il cinema di Dario Argento.
La scena iniziale, ad esempio, potrebbe stare a pieno titolo in un film del regista
italiano: una ballerina viene sbattuta con il viso contro uno specchio, poi è ac-

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coltellata e colpita in viso da una accetta. L’assassino, inoltre, è una donna sfi-
gurata, che alla fine del film si getta da una finestra e un’automobile le schiaccia
la testa, come nella morte di Gabriele Lavia in Profondo rosso.
The Gore-Gore Girls segue lo sterminio di un gruppo di spogliarelliste,
uccise a una a una nei modi più incredibili. Una di loro è presa a martellate in
testa mentre mastica un chewing gum, e dalla bocca le esce una bolla di gomma
da masticare piena di sangue (Lewis usò un profilattico, perché la vera gomma
non reggeva il peso del sangue finto). Una fanciulla ha il volto arrostito da un
ferro da stiro, un’altra ha la testa fritta nell’olio bollente, e infine a una delle
vittime vengono strappati i capezzoli, dai quali sprizza latte in un bicchiere da
champagne...
H. G. Lewis non poteva inventare niente di più eccessivo, e si ritirò. Intorno
al 1980 si parlò addirittura di un suo disastro economico e di un tentativo di
suicidio. In realtà sembra che Lewis abbia vissuto vicende meno drammatiche, e
oggi è un affermato pubblicitario che scrive libri sulle vendite via Internet. Non
ha perso, per altro, il desiderio di tornare al cinema (si sono ventilati titoli come
Galaxy Girls o Gore Feast e di recente è stato annunciato Blood Feast 2). Ma la
sua carriera cinematografica si è fermata di fatto nel 1972, quando ormai
rischiava di essere confinato nelle sale a luci rosse, bollato dai “certificati X”
della censura americana. In Europa, comunque, i suoi film hanno avuto una sorte
molto contrastata, in Italia e in Francia ad esempio non è mai riuscito a farsi
distribuire. E però il suo pionieristico cinema “splatter” ha fatto scuola,
Cronenberg e Romero hanno preso lezione anche da lui.
Lewis, che girava gli ammazzamenti dei suoi film in tempo reale, spesso
utilizzando tre cineprese contemporaneamente per non dover ripetere una scena
di squartamento, ha saputo utilizzare fino alle estreme conseguenze le
possibilità dell’occhio cinematografico, facendolo scivolare sulla lama delle
accette, portando il guardonismo sin dentro le viscere dei corpi umani. Su trame
che imitavano le tradizioni del “giallo” o del classico film del terrore, Lewis
collocava festini di sangue senza eguali, per far strillare le coppiette ai drive-in e
i maniaci del rosso sangue nel buio della sale di periferia. Come un prestigiatore
dell’orrore lasciava al suo pubblico la sensazione di essere testimone integrale
dell’omicidio.

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Filmografia

1963
Blood Feast

1964
Two Thousand Maniacs!

1966
Color Me Blood Red
The Gruesome Twosome

1967
A Taste of Blood

1968
Something Weird
Just for the Hell of It
She Devils on Wheels

1970
Wizard of Gore

1971
The Stuff’ll Kill Ya

1972
The Gore-Gore Girls (Blood Orgy)

Moltissimi sono i film non-horror di Lewis, tra i quali vanno ricordati i


numerosi “nudies”, spesso firmati con pseudonimi (come Sheldon Seymour o
Seymour Sheldon): The Prime Time; Living Venus; Lucky Pierre; Nature’s
Playmates; B-O-I-N-N-N-G!; Daughters of the Sun; Goldilocks and the Three
Bares; Suburban Roulette; Year of the Yahoo; Miss Nymphets Zap-In; A Girl, A
Boy & The Pill; Bayou - Poor White Trash.

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Mario Bava:
la centralità dell’omicidio

Gli autori del cinema thrilling, anche nelle sue varianti più dure e violente, hanno
sempre avuto in sorte di venire prima o poi paragonati ad Alfred Hitchcock.
Mario Bava non è sfuggito a questo destino, diventando nel linguaggio dei
giornalisti “l’Hitchcock di Cinecittà”. Ma per Bava anche il caso ha voluto
rimarcare la parentela artistica con Hitchcock. Il 26 aprile 1980 un attacco di
cuore interrompe la vita e la carriera cinematografica di Mario Bava: tre giorni
dopo anche Alfred Hitchcock muore.
In realtà, le similitudini tra il cinema di Bava e quello di Hitchcock sono
sottili. Bava era un regista un po’ misantropo, restio alle interviste e alle
fotografie, e solo una volta volle davvero imitare Hitchcock, o meglio l’abitudine
di Hitchcock a fugaci comparsate nelle proprie pellicole con una apparizione-
cammeo molto ironica in Le spie vengono dal semifreddo. Per il resto il cinema
di Bava è del tutto altro e autonomo.
Mario Bava era nato a San Remo il 13 luglio 1914, figlio di un bravo
fotografo cinematografico, Eugenio Bava, molto dotato anche come scultore.
Sarà proprio il padre Eugenio a scolpire il cadavere di cera dell’episodio La
goccia d’acqua nel film I tre volti della paura. Anche Mario dimostrò
precocemente una passione artistica, un vero amore per i colori e le immagini.
Vorrebbe fare il pittore, ma presto è attratto dal cinema. Nel 1939 dirige la
fotografia per alcuni cortometraggi di Roberto Rossellini, poi collabora sempre
come capo operatore con Camerini, Soldati, Monicelli, Risi. Infine un breve
sodalizio con Riccardo Freda lo orienta contemporaneamente verso la regia e
verso i territori del cinema d’azione, con sfumature chiaramente gotiche e
fantastiche.
È così che si specializza nei luoghi di confine tra l’orrore e il giallo, pur non
rinunciando a incursioni in tutti i generi di cui Cinecittà diventa il paradiso fin
dai primi anni Sessanta, dal western al peplum, dalla fantascienza alle prime av-

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visaglie del sexy (è suo il censuratissimo Quante volte... quella notte tratto dal
Rashomon di Kurosawa).
Mario Bava è l’unico regista italiano ad avere lavorato con le principali star
del cinema horror inglese e americano: gira film con Christopher Lee, Boris
Karloff, Vincent Price, Barbara Steele e l’ex divo ‘nero’ Joseph Cotten. Di
Barbara Steele, in realtà, è proprio Bava il padrino che la lancia come vamp
insostituibile del gotico anni Sessanta. Dopo la sua apparizione nella Maschera
del demonio, il capolavoro di Bava del 1960, il viso della Steele passerà al
servizio di Roger Cornìan e rapidamente diventerà una presenza ricorrente nel
cinema del terrore di quegli anni. E non si tratta dell’unica ‘scoperta’ di Bava.
Nel 1972 con Gli orrori del castello di Norimberga lancia Nicoletta Elmi, una
bambina dai capelli rossi e dal viso inquietante che riapparirà di lì a poco in Il
medaglione insanguinato di Massimo Dallamano, poi in Profondo rosso di
Dario Argento, per diventare infine la misteriosa (e ormai adulta) bigliettaia del
cinema maledetto in Demoni di Lamberto Bava.
I film più celebrati di Bava, soprattutto all’estero e in Francia in particolare,
restano quelli molto magici e fantastici come La maschera del demonio (1960) e
1 tre volti della paura (1964). Il primo imitava i film inglesi di vampiri alla
Terence Fisher, ma con un gusto tutto italiano e con la trasgressione del ritorno
al bianco e nero. Tratto dal Vij di Gogol, una storia russa di streghe che Bava
leggeva ai figli terrorizzandoli, La maschera del demonio aveva una carica
talmente violenta, pur nella cornice totalmente fantastica, che ne bloccò per
motivi censori la distribuzione in Inghilterra per ben otto anni. E questa
tendenza all’intreccio tra erotismo e brutalità veniva confermata da I tre volti
della paura, film a episodi (montati in successioni diverse dai distributori, tanto
all’estero quanto in Italia) che mischia fantastico e mistery grazie all’ottima
sceneggiatura a cui collaborò anche Alberto Bevilacqua. Oltre a una storia di
vampiri, tratta da un racconto di Aleksej Tolstoi, e a una terribile vicenda di
revenant, il film ospita Il telefono, piccolo capolavoro del brivido a base di
coltellate e strangolamenti in una stanza da letto claustrofobica.
Nonostante l’originalità da autore che Bava imponeva a tutte le sue incursio-
ni nei generi, i suoi film sembravano destinati a seguire le mode e i successi al-
trui. Non c’è exploit d’oltreoceano che Bava non abbia tentato di ripetere in sal-
sa italiana. Imitazioni erano i primi peplum o i film di ispirazione nordica. Bava

39
girò una pellicola sui vichinghi dopo il successo di I vichinghi di Richard Flei-
scher. Ercole al centro della Terra si intitolò così per seguire le fortune del con-
temporaneo Viaggio al centro della Terra. E La ragazza che sapeva troppo cer-
cava di importare il rinnovato successo di Alfred Hitchcock dei primissimi anni
Sessanta alludendo senza inibizioni al celebre Uomo che sapeva troppo. Persino
Diabolik viene proposto solo dopo il successo del Barbarella di Roger Vadim,
che aveva dimostrato la possibilità di trasporre profittevolmente sul grande
schermo i cosiddetti fumetti per adulti. E la lista potrebbe continuare con La
maschera del demonio, che arrivava sulla scia dei film inglesi di marca Hammer,
o con uno dei suoi primi film come Caltiki, il mostro immortale che sempre
della Hammer aveva imitato il fantascientifico L’astronave atomica del dottor
Quatermass. Talora questa subordinazione ai film di cassetta angloamericani
poteva portare a crisi drammatiche tra il regista e i produttori. È il caso del pe-
nultimo lungometraggio di Bava giunto nelle sale, La casa dell’esorcismo. Que-
sta volta il titolo venne realmente imposto dalla produzione, per seguire a ruota
il record di incassi dell’Esorcista di William Friedkin. Ma Bava non accettò di
buon grado in questa occasione, lui che aveva anticipato la moda delle ragazzine
indemoniate con la bambina posseduta di Operazione paura del 1966 (imitata
persino da Fellini nel suo episodio per Tre passi nel delirio).
Su Lisa e il diavolo, come originariamente si intitolava il futuro La casa
dell’esorcismo, Bava riponeva in realtà grandi aspettative. Aveva curato il film
meticolosamente, per la prima volta un produttore gli aveva dato carta bianca
per girare un film interamente a sua discrezione e senza limiti di nessun tipo. In-
sieme al figlio Lamberto si era divertito a riempire il film di citazioni colte (alcu-
ni dialoghi sono costruiti con frasi di Dostoevskji), di raffinate necrofilie e di
allusioni familiari e autobiografiche (sono presenti riferimenti al padre Eugenio,
alla sorella e alla figlia Elena). Il film venne presentato al Festival di Cannes del
1973 ed ebbe in sala una buona accoglienza, ma venne ritenuto troppo sofistica-
to per il pubblico tradizionale del cinema d’orrore. Così il film non venne distri-
buito. Si chiese a Bava di riprendere alcuno scene aggiuntive e di cambiare il fi-
nale, proprio per adeguarsi meglio al filone demoniaco allora in voga. Mario Ba-
va si rifiutò di girare le nuove scene, frenato anche, si dice, da una certa vena di
superstizione che gli impediva di assistere tranquillamente a rituali satanici e a
invocazioni blasfeme. Il film fu massacrato, e quello che nelle intenzioni del re-

40
gista doveva essere il risultato migliore di una lunga carriera cinematografica finì
per trasformarsi in uno dei tanti film di possessioni diaboliche della prima metà
degli anni Settanta.
Paradossalmente anche l’ultimo film di Bava, Shock, doveva apparire come
una imitazione. Il paradosso stava nel fatto che ad essere imitato in questo caso
era proprio il principale discepolo di Bava, il giovane Dario Argento che aveva
appena riempito le sale con Profondo rosso. Bava riutilizza persino la
protagonista preferita di Argento, Daria Nicolodi (che appare anche nel film di
Bava per la tv La Venere d’Ille), e non esita a intermezzare il film con un
motivo musicale infantile molto simile a quello di Profondo rosso. Ma più che
di imitazione, a questo punto, si poteva parlare di omaggio e di esplicito
passaggio delle consegne. Ormai anziano, Bava capiva che la sua scuola aveva
già dato i natali a una nuova leva di registi per il thrilling all’italiana, e che
Argento era il suo continuatore più dotato.
Ma tra tante rincorse dei successi di altri, Bava può vantare almeno una
grande anticipazione. Nel fantascientifico Terrore nello spazio del 1965 aveva
infatti diretto una lunga sequenza ambientata dentro una astronave abbandonata
che ricorda in tutto e per tutto l’idea-base del futuro Alien. L’unica differenza
era la palese mancanza di mezzi per gli effetti speciali, realizzati con specchietti
e modellini artigianali, in tutta economia. Del resto Bava era un mago del
risparmio. Grazie alla sua competenza in trucchi fotografici ed effetti speciali,
riusciva a trasformare 20 comparse di un qualsiasi film mitologico in ben 240
soldati di una apparente scena di massa. Per girare Diabolik, poi, spese talmente
poco che De Laurentiis volle subito utilizzare i capitali avanzati per produrre
un seguito del film, e solo l’ostinato rifiuto di Bava (che contro la volontà del
produttore voleva inserire almeno qualche goccia di sangue in un film dedicato al
capostipite dei fumetti neri) impedì di arrivare a un probabile Diabolik colpisce
ancora. E la ossessione del risparmio portava talvolta ai confini della
disorganizzazione e all’improvvisazione: Vincent Price rimase scandalizzato
dalla facilità con cui durante le riprese delle Spie vengono dal semifreddo andò
perduto il nastro delle voci e si dovette ricostruire il testo dal movimento delle
labbra.
Confortati da questa sua attitudine all’economia, con Bava i produttori si ac-
corgono che anche un film italiano del terrore può “vendere”. Non tutta la car-

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riera di Bava è stata però coronata da successi economici. Diabolik andò molto
bene, ma Shock nel 1977 deluse il box office, tanto che dopo questo fallimento
Bava voleva spostarsi sulla fantascienza, per imitare per l’ennesima volta i suc-
cessi delle majors e seguire il filone spaziale aperto da Guerre stellari (ma inse-
rendo nella trama un bel numero di delitti...). E per cause economiche uno dei
suoi film è rimasto inedito. Si tratta di Cani arrabbiati, una variazione intelli-
gente sul tema dei film sui sequestri di persona e sul cittadino che si fa giustizia
da sé dei primi anni Settanta. Tratto da una storia di Ellery Queen, il film rac-
contava di tre banditi (uno dei quali era interpretato da Don Backy) che per
sfuggire alla polizia prendono in ostaggio un uomo e una bambina su un’auto di
passaggio. L’uomo (un tipico cittadino medio con il volto tranquillo di Riccardo
Cucciolla) però reagisce e uccide i banditi. Ma ecco il colpo di scena: dopo aver
sgominato i banditi, l’uomo fa una telefonata e chiede un riscatto alla famiglia
della bambina che si trovava con lui sull’automobile. Non è un onesto cittadino
vittima della violenza urbana, ma un rapitore. Purtroppo il film non è mai arri-
vato sugli schermi, a causa del fallimento del produttore, e una complicata storia
di diritti ne impedisce tuttora la distribuzione. Cani arrabbiati usava in modo
tradizionale un paesaggio italiano, come terreno d’azione della delinquenza co-
mune, ma la grande abilità di Bava è stata di riuscire a rendere adatti a vicende
d’orrore anche i consueti scenari italiani, che non hanno la spontanea utilizzabi-
lità di contesti più ‘spettacolari’ come quelli americani o inglesi. Roma e i suoi
dintorni sono il teatro prescelto per le storie più efferate: come nei successivi
film di Argento, appena la capitale è deserta può fare veramente paura. La pro-
vincia romana di Cinque bambole per la luna d’agosto o le ville del Circeo di
Reazione a catena, la casa di Enrico Maria Salerno utilizzata per Shock (dove
tra l’altro recita il figlio di Salerno, Nicola): sono tutte rielaborazioni del tentati-
vo avviato da La ragazza che sapeva troppo, dove la scalinata di Trinità dei
Monti o le architetture mussoliniane della capitale riuscivano ad adattarsi egre-
giamente al clima di incubo del film. Non è più indispensabile uno scenario goti-
co per il terrore cinematografico. Riprese notturne e un sapiente uso dei colori
(anche attraverso una peculiarità di Bava: l’uso di luci colorate per le riprese in
interni) possono sostituire i panorami inquietanti degli Stati Uniti o della Gran
Bretagna. Un ambiente mediterraneo si adatta alle esigenze dell’orrore, come
dimostra anche Il rosso segno della follia, girato in Francia e in Spagna, in parti-

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colare presso la villa del Generalissimo Franco (dove venne concesso alla troupe
di effettuare riprese “a condizione di non sporcare di sangue la scalinata”...).
Un critico italiano oggi insospettabile di simpatie per Bava, e soprattutto per
i generi cinematografici di cui Bava era maestro, dimostrò invece nel lontano
1963 una non comune percezione delle qualità del regista, mettendo in luce
proprio la capacità di rendere impressionante anche una scenografia urbana
apparentemente tranquilla. È Goffredo Fofi a scrivere per la rivista francese
“Midi-Minuit Fantastique” un lusinghiero apprezzamento per i primi passi
cinematografici di Bava: “La lezione di Hitchcock è assimilata perfettamente: i
luoghi più impensati diventano il teatro di omicidi drammatici e misteriosi; come
il palazzo dell’O.N.U. di North By Northwest o le piccole chiese barocche di
Vertigo, la Roma dei turisti e delle cartoline diventa un luogo per sparatorie e
sgozzamenti in La ragazza che sapeva troppo... L’abilità di Bava nel creare
delle atmosfere di tensione, da cui ci si attende il terrore, ma impregnate
comunque di paura silenziosa, abbonda in questo film, ma fermandosi però là
dove Bava dovrebbe cominciare, cioè al momento del fantastico puro”. [G. Fofi,
Terreur en Italie, in “Midi-Minuit Fantastique” n. 7, settembre 1963, pp.82-
83]
Non solo le terre di Edgar Allan Poe o di Arthur Conan Doyle, dunque, pos-
sono creare incubi e paure. Anche la cultura mediterranea ha le sue chance. Lo
stesso Bava diede di sé una definizione che, anche se lo allontana dalla matrice i-
taliana, lo colloca pienamente nella tradizione mediterranea. Nell’intervista al
quotidiano francese “Libération”, apparsa postuma il 7 maggio 1980 e diventata
giustamente celebre, il regista affermava: “I miei film rimandano alla mitologia
greca, dalla frigidità di La ragazza che sapeva troppo all’incesto di La maschera
del demonio, fino al masochismo di La frusta e il corpo. Io sono troppo greco
per un italiano, sono più eretico che cattolico”. Gli scenari italianissimi di La
ragazza che sapeva troppo diventano la base di partenza per il successivo im-
pegno di Bava ai confini del giallo e del film del terrore, Sei donne per
l’assassino. È il 1964 e una ventata di violenza attraversa i veicoli della comuni-
cazione popolare in Italia. Dopo il fortunato exploit del fumetto Diabolik, e-
scono in quell’anno altre due testate, Kriminal e Satanik, che seminano il panico
tra i benpensanti per la miscela di sesso e violenza che le caratterizza. In questo
clima, grazie a Bava, nasce il ‘thrilling all’italiana’ (ammesso che questa defini-

43
zione bilingue sia soddisfacente). Sei donne per l’assassino è la grande eccezio-
ne nella produzione di Bava. Non imita alcun precedente, e viceversa innova e
inventa un sottogenere destinato in futuro a diventare autonomo e a contaminare
anche i cineasti americani. Dell’insegnamento di Hitchcock trattiene solo il gusto
per il terrore, ed elimina tutti i ‘fronzoli’, i dialoghi, le storie d’amore. È un sus-
seguirsi di immagini destinate unicamente a fare paura, anzi a terrorizzare. E non
si tratta solo di una paura “intellettuale”, ma fisica, condita con l’esposizione di
una violenza che difficilmente in precedenza aveva attraversato gli schermi ita-
liani. Come in molto cinema di un decennio dopo, in Sei donne per l’assassino
si assiste a una serie di omicidi a catena senza un motivo apparente. A uccidere
è un assassino mascherato, di cui lo spettatore impara a riconoscere soprattutto
i guanti di pelle nera (un’altra costante che un regista come Dario Argento, ad e-
sempio, non ha più abbandonato).
L’assassinio diventa un balletto, di cui è quindi importante la coreografia, e
Bava con scrupolo si serve dell’illuminazione e degli ambienti per creare i
“luoghi” necessari al rito del delitto. Il momento dell’omicidio non è più un
accessorio relativo, come nel giallo classico che inizia proprio dopo che l’atto
delittuoso è avvenuto o si limita a prevenirlo. L’omicidio, quindi la violenza,
diventa centrale. E questo richiede anche un iperrealismo nella descrizione del
crimine e della conseguente agonia della vittima che mai il cinema si era
permesso di mostrare. Ai “fumetti neri” si lascia il bianco e nero della tradizione
gotica e il cinema si impadronisce del colore, per evidenziare il sangue (che, va
detto, in Sei donne per l’assassino è ancora scarsissimo rispetto a successivi
lavori anche dello stesso Bava) e seguire le orme della scuola Hammer, la casa
produttrice inglese i cui film vennero definiti ‘da incidente stradale’ per
l’insistenza nelle immagini colorate di mostruosità, ferite, sofferenze fisiche.
Ha scritto Pascal Martinet nella sua pionieristica monografia su Mario Bava,
proprio a proposito di Sei donne per l’assassino: “Bava crea un’estetica della
morte e del crimine. Al diavolo la logica. Importa solo la descrizione grafica della
violenza: carni torturate, graffiate, bruciate, catturate dalla crudeltà della
macchina da presa che si diverte a precedere l’attimo in cui l’assassino colpisce.
Assassino senza volto, primo di una lunga tradizione, e la cui assenza di
fisionomia rimanda ai nostri incubi archetipici”. [Pascal Martinet, Mario Bava,
Filmo n. 6, Edilig, Paris 1984, p. 72]

44
Con La ragazza che sapeva troppo e Sei donne per l’assassino il coltello
diventa il feticcio di Mario Bava. Tra tutti gli oggetti capaci di uccidere, Bava
trova che l’arma bianca è la più cinematografica. Se non è il coltello,
l’importante è che si tratti di oggetti taglienti, un’ascia, un paio di forbici. Ma il
vero culto è comunque per il pugnale, per la lama su cui si può riflettere un
volto come nel Rosso segno della follia. Bava non limiterà al cinema del terrore
questa sua predilezione per le lame. Anche quando evade dal genere resta
sempre affascinato dalle possibilità della cinepresa di fronte a un coltello. Nel
1966, ad esempio, dirige con il nome di John M. Old un film di vichinghi, I
coltelli del vendicatore, nel quale Cameron Mitchell interpreta Rurik, un uomo
specializzato nell’uccidere i nemici lanciando coltelli a ripetizione (a ‘raffica’,
come suggerisce un altro titolo del medesimo film). E nella Frusta e il corpo il
pugnale sporco di sangue è conservato come una reliquia, secondo il giusto
trattamento da riservare a un feticcio.
Il sadismo insuperabile di Sei donne per l’assassino permette a Bava di
trasformare anche le unghie in un sostitutivo del coltello, rendendole micidiali
fino a diventare artigli, un altro “metodo” per gli ammazzamenti che la serie
Nightmare negli anni Ottanta recupera e dilata oltre ogni immaginazione.
Come La ragazza che sapeva troppo prepara il capolavoro di Sei donne per
l’assassino, così Cinque bambole per la luna d’agosto precorre l’interessante
Reazione a catena (Ecologia del delitto), anticipatore delle tendenze americane
verso un cinema del terrore sempre più violento e distinto dal giallo o dal gotico.
Cinque bambole prepara il terreno a un nuovo passo avanti nel cinema thrilling.
I delitti sono sempre più centrali nella storia, la cui congruenza perde
definitivamente di senso. Per quanto vagamente ispirato alla concatenazione di
omicidi di Dieci piccoli indiani, il film di Bava non si basa sulla scoperta
dell’assassino, ma sull’inventiva macabra nel delitto stesso (da citare almeno
l’episodio di Edwige Fenech infilzata in un albero). Gli omicidi si susseguono
intorno alla solita vicenda di eredità, ma con la preminenza del gusto necrofilo
su quello ‘giallistico’. Si inaugura la stagione del “cinema-macelleria”, e nel modo
più esplicito e chiarificatore: le vittime vengono chiuse in sacchi di plastica e
appese come animali in una cella frigorifera, senza lasciare niente di allusivo nel
riferimento alla “macelleria”.

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Con Reazione a catena i primi passi nello splatter all’italiana si sviluppano
ulteriormente. I delitti aumentano fino a una dozzina, sul filo dell’ennesima sto-
ria di eredità che però diventa qui un mero pretesto per mostrare un susseguirsi
di omicidi con lance, cesoie, ganci, mannaie. Lo stile del film è riassunto dalla
figura dell’entomologo che infilza insetti proprio come vengono trafitti gli essere
umani nelle altre scene del film (se si esclude Laura Betti, che finisce invece
decapitata...). Negli Stati Uniti si sono accorti subito che il film si caratterizzava
come una innovativa incursione nello splatter e lo hanno ribattezzato Last
House on the Left Part 2, spacciandolo per il seguito di uno dei primi successi
dello splatter movie statunitense. Qualche parentela, anche in questo caso
anticipatrice, con il cinema ultraviolento e sanguinario a stelle e strisce il nostro
Bava la cominciò a dimostrare fin da Caltiki, quando utilizzò intestini di animali
per il suo mostro, proprio come il suo collega Herschell Gordon Lewis farà di lì
a qualche anno nei suoi innumerevoli “gore” a base di orge sanguinolente. A
conferma di questo intreccio tra i film di Bava e le strade più ‘dure’ del cinema
del terrore americano scrive Tim Lucas: “Reazione a catena può essere definito
una tragedia elisabettiana... Vista oggi, la violenza di questo film risulta potente
ed esplicita quanto un moderno ‘splatter’. In America le copie di Reazione a
catena, distribuito anche sotto il titolo Twitch of the Death Nerve, furono
progressivamente accorciate nel corso degli anni per esaudire le richieste della
censura”. [Tim Lucas, Bava’s Terrors, in “Fangoria” nn. 42/43, 1985]

Lo splatter c’era veramente, al punto da proporre il duplice ammazzamento


di una coppia nell’identico modo truculento che verrà mostrato qualche anno
dopo in uno degli episodi della serie Venerdì 13.
Questa capacità di colloquio e di anticipazione con le tendenze statunitensi
del genere ha permesso alla lezione di Bava di essere assunta da innumerevoli a-
depti. Persino il suo gusto per l’autocitazione (in Il rosso segno della follia, ad
esempio, su un televisore passano le immagini di I tre volti della paura) è oggi
un’abitudine per i nuovi maestri del film del terrore. Joe Dante, uno dei più do-
tati registi americani delle ultime generazioni, ha un vero e proprio culto per Ba-
va, dei cui film colleziona poster e fotografie. Oggi Bava è uno dei pochissimi
nomi di registi italiani che negli Stati Uniti, almeno tra gli appassionati del gene-
re, significano qualcosa. Negli ultimi anni della sua attività Bava aveva ottenuto

46
popolarità tra il pubblico americano appassionato di cinema fantastico con il
suo vero nome, ma per lungo tempo le regole non scritte della distribuzione ita-
liana e delle esigenze estere gli avevano imposto pseudonimi americaneggianti.
Dopo essersi firmato John Foam (foam è la traduzione approssimativa di ‘bava’
in inglese) e persino Marie Foam (per gli effetti speciali di Caltiki), preferirà ri-
correre più volte allo pseudonimo John M. Old, con il quale fra l’altro firmerà il
celebre La frusta e il corpo, uno dei film più perseguitati dalla censura di tutti i
paesi all’alba degli anni Sessanta. Il gioco degli pseudonimi è continuato a lungo,
persino il figlio Lamberto ha ereditato dal padre questo “alias”, celandosi sotto
un più che esplicito John Old Jr. E con lo pseudonimo, Lamberto Bava ha eredi-
tato anche la passione per un cinema efferato e violento, fantastico e misterioso,
come dimostrano i suoi film Macabro, La casa con le scale nel buio o la fortu-
nata serie Demoni. La terribile dinastia dei Bava continua.

Filmografìa
1956
1 vampiri (diretto in collaborazione con Riccardo Freda)

1957
Le fatiche di Ercole (diretto in collaborazione con Pietro Francisci)

1958
Ercole e la regina di Lidia (diretto in collaborazione con Pietro Francisci)

1959
Caltiki, il mostro immortale (diretto in collaborazione con Robert Hampton -
Riccardo Freda)
La battaglia di Maratona (diretto in collaborazione con Jacques Tourneur e Bruno
Vailati)

1960
La maschera del demonio

1961
Ercole al centro della Terra
Gli invasori
Le meraviglie di Aladino (diretto in collaborazione con Henry Levin)

47
La ragazza che sapeva troppo
La frusta e il corpo

1963
I tre volti della paura

1964
Sei donne per l’assassino (ex L’atelier della morte)

1965
La strada per Fort Alamo
Terrore nello spazio

1966
Operazione paura

1966
I coltelli del vendicatore (ex Raffica di coltelli)
Le spie vengono dal semifreddo (ex I due mafiosi dell’FBI)

1968
Diabolik

1968-1969
L’Odissea (episodio ‘Polifemo’)

1969
Il rosso segno della follia (ex Un’accetta per la luna di miele)
Roy Colt e Winchester Jack

1969-1973
Quante volte... quella notte (ex Una notte fatta di bugie)

1970
Cinque bambole per la luna d’agosto

1971
Ecologia del delitto (ex L’antefatto /Reazione a catena)

1972-1975
La casa dell’esorcismo (ex Lisa e il diavolo / Il diavolo e i morti)

1972

48
Gli orrori del castello di Norimberga

1974
Cani arrabbiati (ex L’uomo e il bambino)

1977
Shock (ex Al 33 di via dell’Orologio fa sempre freddo)

1978
La Venere d’Ille (tv)

49
Pete Walker:
sociologia dell’assassino

Proprio quando la casa produttrice Hammer vedeva vacillare le proprie fortune


basate sulla specializzazione nel cinema gotico, gli schermi inglesi salutarono
l’apparizione degli strani film di Pete Walker. Era il 1974, e i vecchi vampiri
della Hammer stavano per essere definitivamente rinchiusi nelle loro bare, dopo
quasi vent’anni di successi. Un giovane regista, produttore indipendente, si
affacciava sulla scena per raccogliere l’eredità britannica della gloriosa stagione
Hammer.
Ma il contesto doveva essere del tutto nuovo, e il background dell’antico
orrore cinematografico andava rifondato. Innanzitutto, niente mostri
soprannaturali e vecchi miti riesumati. Molta violenza, molto sesso, molto
sangue rosso, nella perfetta tradizione Hammer, ma tutto calato nella realtà
quotidiana nei nostri giorni, nelle strade normali e comuni dell’Inghilterra
contemporanea.
A partire dal 1974 Walker rappresenta la migliore promessa del cinema del
terrore inglese (promessa in gran parte non mantenuta), tanto da vedersi
attribuita subito la solita definizione di “Hitchcock britannico”. Con Hitchcock
condivide in realtà solo il narcisismo, che lo porta a fare brevi apparizioni nei
propri film: è un portiere in Greta in 3D, uno degli interpreti di The Flesh and
Blood Show, un ciclista in House of Whipcord, e dà la sua voce al personaggio di
mister Brunskill in Frightmare. Le pellicole di Walker diventano in breve piccoli
cult-movie per intenditori, che apprezzano la sua inventiva nelle reiterate morti
violente e le geniali trovate capaci di rinnovare un genere in apparente declino.
Si inaugurava una nuova tendenza del cinema “gotico” degli anni Settanta: il
filone degli assassini, al posto dei mostri fantastici. Frankenstein, Dracula e
l’uomo lupo avevano fatto il loro tempo, e le loro potenzialità terribili erano
state spremute fino all’ultima goccia. Bisognava voltare pagina.
Pete Walker si assunse l’onere di anticipare i tempi, proponendo coraggio-
samente un nuovo stile per la paura. La sua formazione di cinemaniaco lo aiuta-

50
va. Da ragazzino arrivava a vedere cinque film alla settimana, e a dieci anni si
comprò un proiettore 8mm per proseguire in casa le visioni preferite. Figlio di
un noto attore comico specializzato in monologhi (Syd Walker) e di una balleri-
na di fila, presto gli si aprirono le porte dello spettacolo e a quattordici anni ini-
ziò a lavorare nel music hall, al Window Theatre. Poi le prime particine cinema-
tografiche, in particolare in Exodus (1960) di Otto Preminger e Behave Yourself
(1962) di Michael Winner. È proprio Preminger che lo aiuta a contattare le a-
genzie di Hollywood dove a soli diciannove anni si trasferisce. Fa l’attore, il di-
stributore, infine gira una interminabile serie di cortometraggi di trenta minuti
per la Heritage.
Sono tutti “girlie”, filmetti erotici per proiezioni private pieni di ragazze
nude: Walker sostiene di averne girato quasi quattrocento. Nel 1966 tenta di
uscire dal sottobosco del cortometraggio e dirige una pellicola di cinquanta
minuti, I Like Birds, commedia sexy realizzata in soli sei giorni e con un budget
di 6.000 sterline. La Rank apprezza il breve film di Walker e lo distribuisce: il
successo è immediato, anche negli Stati Uniti. Finalmente il giovane regista può
dedicarsi al suo primo vero film, senza fuoriuscire dal genere delle commedie
erotiche in cui ormai è specialista. Nasce così Strip Poker, storia di gangster e
spogliarelli girata in due settimane, e subito dopo altre pellicole analoghe (tra cui
Cool It Carol, che viene considerato dagli appassionati uno dei migliori film
sexy inglesi).
Il genere erotico comincia però ad andare stretto a Pete Walker, che si distrae
con un film d’azione (Man of Violence) e poi con un primo ingenuo thriller, Die
Screaming Marianne, con riprese in esterni girate in Portogallo e la
partecipazione di Susan George, la stellina di Straw Dogs (Cane di paglia) e di
molti violenti film britannici. Per vivacizzare il genere sexy, intanto, riutilizza
una vecchia cinepresa tridimensionale e realizza in meno di un mese Greta in
3D, che avrà un ottimo successo commerciale. Le tre dimensioni vengono usate
anche per l’ultimo quarto d’ora di The Flesh and Blood Show, un horror erotico
che rappresenta la prima vera incursione di Walker nel cinema alla lama di
coltello.
Dopo l’ennesima commedia su ordinazione della Hemdale, Tiffany Jones,
Walker capisce che il cinema erotico sta virando verso l’hard core. Per sfuggire
alla radicalizzazione del genere stringe allora una collaborazione con l’uomo che

51
gli consentirà di dirigere i suoi capolavori. È lo sceneggiatore David Mc Gilli-
vray, critico tra l’altro per il “Monthly Film Bullettin”. Sulla base di soggetti o-
riginali di Walker, l’abile Mc Gillivray costruisce una serie di quattro film del
terrore che segnano l’ultimo sussulto di vitalità di questo genere nell’Inghilterra
degli anni Settanta e contemporaneamente anticipano le novità in procinto di af-
fermarsi oltreoceano.
Il primo film della quadrilogia è House of the Whipcord del 1974, seguito
rapidamente da Frightmare e poi da House of the Mortal Sin e Schizo. Si tratta
di quattro film omogenei per ispirazione e taglio narrativo. La grande
innovazione del duo Walker-Mc Gillivray consiste nel superare il vecchio
impianto psicologico dei film imperniati su un maniaco assassino, per scegliere
apertamente una lettura sociologica. Non sono tanto oscure pazzie a scatenare
gli omicidi, ma motivazioni sociali, fanatismi religiosi, errori e storture delle
istituzioni totali.
In House of the Whipcord un vecchio giudice cieco, con l’aiuto di una ex-
direttrice carceraria, imprigiona arbitrariamente nel suo castello seicentesco
alcune ragazze colpevoli a suo parere di delitti che la società permissiva non
considera più come tali. Nel castello, sotto la copertura di una clinica privata, le
ragazze vengono torturate, lasciate senza cibo, frustate e infine “giustiziate”. La
cecità del giudice è già di per sé una allusione alle storture di una interpretazione
deformata della giustizia, mentre tutto il film tende a rendere visualmente (ed
emozionalmente) gli orrori prodotti da chi ritiene di infliggere punizioni atroci
“a fin di bene”. In Spagna, al Festival di Sitges del 1975, il pubblico dedicò
scroscianti applausi al film, interpretandolo come una allegoria della situazione
spagnola e identificando il generalissimo Franco nel vecchio giudice.
Grazie al successo di House of the Whipcord, sia dal punto di vista economi-
co (era costato solo 60.000 sterline) sia critico (nonostante si tratti di una pro-
duzione indipendente e di genere il film riceve gli apprezzamenti del prestigioso
British Film Institute), Walker può continuare la sua macabra critica sociale.
Nel successivo Frightmare è la psichiatria ad essere messa sotto accusa. Inca-
paci di curare una coppia di assassini che si erano dedicati al cannibalismo, i di-
rigenti di una clinica psichiatrica liberano i due sanguinari pazienti. Naturalmen-
te, una volta in libertà, simulando una vita normale i due vecchi uccidono ancora,
trascinando anche la figlia in una spirale di delitti ripugnanti.

52
Ma è probabilmente House of the Mortal Sin il vero capolavoro di Walker.
Deciso a fare i conti con la propria educazione cattolica, il regista ha costruito
una vicenda ai confini della satira anticlericale. Il grifagno padre Meldrum,
succube di una madre paralitica e arteriosclerotica, si diverte morbosamente a
chiedere in confessione i particolari più intimi della vita sessuale dei suoi fedeli.
Una giovane “peccatrice”, poi, diventa oggetto di ricatti e di minacce, fino a
scatenare una lunga serie di omicidi, tutti eseguiti con l’aiuto di oggetti-simbolo
del cattolicesimo. Si assiste così a strangolamenti per mezzo di un rosario, a
teste fracassate da un bruciatore d’incenso, a ostie avvelenate che uccidono
durante la comunione... Convinto che la vita dei preti sia “contro natura”, Pete
Walker ne evidenzia le estreme conseguenze e aggiunge alla precedente orribile
“casa” della legge una “casa” della religione. Scrive Gerard Biard: “Difficilmente
dissociabili, House of Whipcord e House of Mortal Sin fanno il processo a due
forme di giustizia che la nostra società ha creduto bene di normativizzare: la giu-
stizia legale e la giustizia divina; sotto la copertura di questi due poteri sono
commessi i crimini più atroci”. [G. Biard, Pete Walker: L’horreur est humaine,
in “Nostalgia” n.5, 1983]
In Schizo, del 1976, il ragionamento di Walker si fa più ambiguo. Il punto di
partenza è il pregiudizio: un uomo uscito di prigione è ritenuto dallo spettatore
un pericoloso assassino, fino alla soluzione finale. Tutti gli omicidi che il film
presenta inducono a credere che l’artefice dei delitti sia lo strano ex-carcerato
dalla faccia equivoca (si tratta di Jack Watson, che da giovane apparve in brevi
caratterizzazioni di furbo e sordido popolano in film come La vendetta di
Frankenstein, dove interpretava un losco uomo delle pulizie, e Il sangue del
vampiro, dove era un ghignante galeotto), e solo in conclusione verrà rivelato
che la “vittima designata” è in realtà la vera e schizofrenica assassina. È lei che
ha ucciso da bambina la propria madre (in un flashback direttamente ispirato a
Profondo rosso di Dario Argento) e ha fatto incarcerare un innocente, ed è lei
che ha continuato a uccidere. In questo caso, la critica di Walker si incentra
sull’ingiustizia della legge e sul meccanismo facile con cui si può condannare chi
risponda alle caratteristiche più banali del potenziale delinquente.
Walker ha dichiarato che i suoi film erano “segnali d’allarme, servivano
d’avvertimento, avrebbero dovuto far riflettere la gente.” Si trovò invece stretto
tra l’indifferenza dei critici e gli attacchi dei benpensanti. E non riuscì a riabili-

53
tarsi nemmeno con la sua successiva conversione moderata (tentando di reinter-
pretare i propri film come antagonisti del lassismo e del “socialismo liberale”
che in quegli anni, a suo dire, stava paralizzando l’Inghilterra: vedi l’intervista di
Walker a “L’Ecran Fantastique” n.39, novembre 1983). Eppure il regista era
stato addirittura vicino alla sensibilità punk, se è vero (come rivela Steve Chib-
nall, Making Mischief: The Cult Films of Pete Walker, FAB Press, Guildford
1998) che Walker doveva dirigere l’ultimo film dei Sex Pistols, A Star is Dead,
mai realizzato per la dissoluzione del gruppo.
Le trasgressioni di Walker, comunque, erano troppo crude per consentire una
accoglienza indolore. I suoi criminali restano quasi sempre liberi alla fine del
film, pronti a continuare le proprie imprese, in una società impossibilitata a
difendersi dagli stessi mostri che ha creato. Non si salva nessuno dalle stoccate
di Pete Walker. L’uomo che il pubblico ritiene senza dubbio un assassino in
Schizo è un vecchio, e vecchi sono il giudice e la direttrice di House of
Whipcord, il prete e la sua famiglia malsana di House of Mortal Sin, la coppia
cannibale di Frightmare. Walker respinge la consueta identificazione del
pericolo sociale con il giovane, e utilizza come assassini gli anziani, coloro cui la
società ancora attribuisce maggiore autorevolezza. Ecco perché l’attrice preferita
di Walker è Sheila Keith, che appare nei primi tre film della quadrilogia e ritorna
in altre due pellicole successive (The Comeback e House of the Long Shadows).
La Keith, nota in Inghilterra per aver preso parte alla serie televisiva comica
Moody and Pegg, è la sadica che comanda le guardie in House of the Whipcord, è
la guercia miss Barbazan, amante e governante del prete assassino di House of
the Mortal Sin, e la donna cannibale di Frightmare (dove interpreta di fatto il
ruolo principale). E padre Meldrum da parte sua era impersonato da Anthony
Sharp (già apparso in Die Screming Marianne), un viso da vecchio avvoltoio
che sostituiva degnamente Peter Cushing e Lee J. Cobb ai quali Walker aveva
inizialmente proposto la parte.
Conclusa la sua quadrilogia ed esaurita la collaborazione con Mc Gillivray,
Walker torna a dirigere film routinari. Inoltre, si ostina a ripetere per ben tre vol-
te lo stesso film. In The Flesh and Blood Show aveva già tentato una rilettura di
Dieci piccoli indiani della Christie, mettendo un gruppo di attori nel teatro di u-
na cittadina balneare deserta, d’inverno, e facendoli morire ad uno ad uno. Lo
stesso tema dell’isolamento e delle morti misteriose in un luogo chiuso ritorna in

54
The Comeback del 1977: un cantante pop si isola in una villa per comporre in
tranquillità e viene invece turbato da apparizioni e delitti apparentemente opera
di un mostro soprannaturale, in realtà orditi per vendetta da due vecchietti terri-
bili (in particolare dalla satanica Sheila Keith). Dopo una breve pausa con il ri-
torno all’erotismo di Home Before Midnight del 1978, Walker si dedica a una
storia ancora simile alle precedenti: questa volta è una scommessa che porta un
giovane a farsi ospitare in una sinistra villa di campagna e ad assistere a tragici
avvenimenti. Il film è House of the Long Shadows, tratto da Seven Keys to Bal-
dpate, un giallo del 1917 di Earl Derr Biggers, ricco di colpi di scena e di ribal-
tamenti, da cui George M. Cohen trasse un’opera teatrale e che il cinema aveva
già utilizzato nel 1930, nel ‘35 e nel ‘47.
Ma la grande particolarità di House of the Long Shadows non stava tanto
nella storia, quanto nei suoi protagonisti. Pete Walker si assumeva infatti il
merito di riunire per questa pellicola le grandi star dell’horror cinematografico
del passato: John Carradine, Vincent Price, Peter Cushing e Christopher Lee
(oltre alla immancabile walkeriana Sheila Keith). Se non avesse avuto seri
problemi di salute anche la mitica Elsa Lanchester di The Bride of Frankenstein
sarebbe stata della partita. Un manipolo di “mostri sacri” calati purtroppo in un
film che ha subito molte manipolazioni nel montaggio e una sfortunata
distribuzione.
L’idea era nata da un colloquio tra Walker e Menahem Golan della Cannon,
con il quale il regista intendeva realizzare Deliver Us From Evil per la
sceneggiatura di Michael Armstrong. Invece Golan propose a Walker di
affiancare le quattro stelle dell’horror ancora in vita, su una storia che
assomigliasse il più possibile a The Old Dark House (di cui era impossibile
ottenere i diritti). Proprio Walker che si era affermato come reazione al gotico
tradizionale del cinema anglosassone aveva in destino di celebrare l’olimpo dei
grandi interpreti di quell’epoca indimenticabile: l’allora attivissimo e venerando
Carradine di centinaia di horror commerciali, Price attore prediletto di Roger
Corman, Cushing e Lee coppia fissa della scuderia Hammer.
Ma fermandosi a metà strada tra l’omaggio cinefilo e la commedia nera,
House of the Long Shadows dimostra i limiti di Walker, dopo la separazione da
Mc Gillivray. Il regista resta un inconsueto esempio di cineasta indipendente,
che ha quasi sempre prodotto i propri film e ha saputo precorrere le strade del

55
nuovo cinema del terrore duro e violento. Per quanto poco incline a mostrare
bagni di sangue, Walker ha aggiunto deliranti tasselli al mosaico del cinema alla
lama di coltello (da non dimenticare gli omicidi con un ferro da calza in Schizo e
con una falce in The Comeback...), senza restare chiuso nel rituale riferimento
ad assassini psicopatici privi di motivazioni. Il suo è un cinema di confine, in e-
quilibrio tra il gore e i classici del brivido (Walker è un grande ammiratore delle
vecchie pellicole in bianco e nero della Universal e della Rko). È l’esito attualiz-
zante e cinico delle antiche favole di marca Hammer, quindi la porta di passaggio
tra il gotico e lo splatter. I mostri mitici come Frankenstein e Dracula passano il
testimone ai serial killer metropolitani.
Filmografia

1967
I Like Birds

1968
Strip Poker
School of Sex

1970
Man of Violence
Cool It Carol
Die Screaming, Marianne (Marianna, fuga dalla morte)

1972
The Four Dimension of Greta (Greta in 3D)
The Flesh and Blood Show

1973
Tiffany Jones

1974
House of Whipcord (...e sul corpo tracce di violenza)
Frightmare (Nero criminale)

1975
House of Mortal Sin (La casa del peccato mortale)

1976
Schizo (La terza mano)

56
1977
The Comeback (Chi vive in quella casa?)

1978
Home Before Midnight

1982
House of the Long Shadows (La casa delle ombre lunghe)

57
Dario Argento
ovvero la donna-cinepresa-killer

Dario Argento, come Alfred Hitchcock, non si è mai dedicato al vero e proprio
serial killer, all’assassino che uccide casualmente e senza alcun motivo vittime
sconosciute. Ma come Hitchcock anche Argento ha lasciato un segno indelebile
nel cinema che si è dedicato agli omicidi seriali. Del resto, fin dal suo primo film
Argento è stato definito “l’Hitchcock italiano”, per la crudezza violenta di certe
situazioni delle prime pellicole argentiane, e nello stesso tempo per l’attenzione
a una dimensione esistenziale/psicologica. Ma Argento, grande ammiratore del
regista inglese, non si sente l’erede di Hitchcock: “Forse ho ereditato il suo
pubblico, – dice Argento – ma non certo le sue tematiche. Tra me e Hitchcock ci
sono anche differenze di morale e di nevrosi. Hitchcock è puritano mentre io
sono libertario fino ai limiti dello sberleffo.” [dichiarazione apparsa in F.
Giovannini, Dario Argento. Il brivido il sangue il thrilling, Dedalo, Bari 1986,
p.164]
Comunque, agli inizi della carriera di Argento, quando le lodi del suo cinema
erano confinate nelle pubblicazioni di genere, la rivista di fumetti “Horror”
(nell’agosto 1971) rintracciava un altro riferimento cinematografico del nostro
regista: Roman Polanski. Scriveva Francesco Metrangolo in un articolo dal titolo
Il regista timido: “Polanski aveva iniziato a turbare i sonni tranquilli dello
spettatore con la sua risata macabra e graffiante. Argento ne accetta la lezione
per parlare della morte, a metà strada tra il delirio onirico ed il senso cosciente di
essa, le ossessioni angosciose, l’inquietudine e il raccapriccio. Il dramma della
morte viene dilatato a dimensioni che possono sembrare illogiche a prima vista,
come assurdo ed illogico in fondo si presenta il morire, per l’uomo abituato a
vivere.”
Per l’Italia, invece, tra i maestri di Argento c’è indubbiamente un altro can-
tore del serial killer, Mario Bava, che come abbiamo visto aveva anticipato mol-
te atmosfere e situazioni utilizzate poi da Argento, e ha manifestato lo stesso
amore per la cura tecnica delle riprese. Ma il vero riferimento artistico per Ar-

58
gento va rintracciato in America. Al serial killer cinematografico americano Ar-
gento ha regalato intuizioni e modelli originali, tutti europei e mediterranei, ma
negli Stati Uniti ha anche trovato continua ispirazione. Del resto lo stesso Al-
fred Hitchcock, cui il nome di Argento viene spesso apparentato, era regista bri-
tannico, ma trapiantato in America, dove ha girato tutti i suoi film più famosi.
Argento si è collegato esplicitamente a un’onda horror che ha attraversato gli
Stati Uniti negli anni Settanta: l’onda di George Romero, Tobe Hooper e John
Carpenter. Con questi autori è così iniziato uno scambio di riferimenti, citazioni
incrociate, collaborazioni. Sono emerse anche nuove leve che fin dall’inizio han-
no manifestato un debito chiaro verso il cinema di Argento (è il caso, ad esem-
pio, di Sam Raimi).
Argento può rallegrarsi di essere uno dei pochi nomi italiani che il pubblico
cinematografico americano conosce, anche al di fuori della ristretta élite dei
cinefili. La prima firma autorevole ad apprezzare Dario Argento in America è
stata non a caso quella di Stephen King, che nel suo libro Danse Macabre
lodava i deliri cinematografici del regista italiano, soprattutto per il film
Suspiria. Ma anche la critica specializzata ha capito le qualità di Argento. Valga
per tutti il libro Nightmare Movies del critico e scrittore inglese Kim Newman
(Harmony, New York 1988), che nel capitolo dedicato agli “Autori” del cinema
fantahorror contemporaneo citava solo quattro nomi: il primo è quello di Dario
Argento, accanto a Larry Cohen, David Cronenberg e Brian De Palma. Lo
stesso Newman riconosce l’esistenza di un preciso “stile” argentiano, tanto che
accosta ai film di Argento le pellicole di Peter Greenaway, definite “una sorta di
terribile mutazione di un giallo di Dario Argento”.
Nonostante questi avvicinamenti progressivi alla dimensione internazionale,
che hanno portato Dario Argento a realizzare il suo dodicesimo film come
regista, Trauma, proprio negli Stati Uniti, il suo modo di fare cinema resta
fortemente installato nella tradizione italiana. Anche tra Argento e Romero
permane un diverso modo di intendere il cinema, nonostante la pluriennale
collaborazione tra i due. Ognuno di loro affronta il lavoro cinematografico alla
propria maniera. E Argento difficilmente riesce ad accettare un’impostazione
“americana” che santifica la produttività: il suo posto è nello stile dei registi
europei, che tendenzialmente mette al primo posto non il profitto, ma il valore
complessivo dell’opera.

59
Per questo suo spirito indipendente Argento ha sempre rifiutato le proposte
americane di dirigere film sceneggiati da altri, né ha accettato di sottoporsi alle
varie regole consuete del modello produttivo tradizionale nel cinema
statunitense. Agli inizi degli anni Novanta, però, Dario Argento ha deciso di
tentare un maggior accostamento alle caratteristiche della costruzione dei film in
America. La scommessa era alta: mantenere l’autonomia, e la capacità di
trasgressione, consentita dagli spazi produttivi che sono stati a lungo peculiari
del cinema italiano, e unirla alla altissima competenza tecnica, ad esempio, degli
sceneggiatori americani. È nato così il film Trauma, con la collaborazione di uno
sceneggiatore statunitense (lo scrittore di horror T. E. D. Klein) e con l’uso di
tutte le sofisticate novità tecnologiche disponibili negli Usa soprattutto per il
montaggio. Trauma è il risultato proprio di questo incontro e questa
contaminazione di intelligenze. Da parte sua Argento ha portato in America la
propria precisa concezione dell’assassino, che è una concezione profondamente
mediterranea ed europea.
Può essere utile soffermarsi su Trauma, per capire il debito dei serial killer
cinematografici americani verso Argento, dato che si tratti di una sorta di summa
di tutto il cinema precedente del regista romano. Come Brian De Palma aveva
celebrato se stesso in Doppia personalità, così Dario Argento sembra divertirsi
al gusto dell’autocitazione in Trauma.
Il film si apre significativamente con un primissimo piano su una ghigliottina
di carta, sulle note di una canzone della Rivoluzione francese, con una indiretta
citazione di quel film anomalo nella carriera di Argento che fu Le cinque
giornate. Poco dopo assistiamo a una seduta spiritica, allo stesso modo di
Profondo rosso, che è il film della filmografia argentiana qui più citato. A
Profondo rosso alludono le reiterate apparizioni di piccoli rettili, così come la
morte conclusiva provocata da una catenina, o il delitto con l’ausilio di un
ascensore. Viceversa la pioggia, che costella i delitti di Trauma, ci rimanda a
Suspiria e Inferno.
Gli stessi luoghi di Trauma evocano le precedenti fatiche di Argento. La casa
sul lago ci riporta a Phenomena, gli scenari americani (Minneaoplis) a Due oc-
chi diabolici, e le piazze affollate a Tenebre. E in perfetto stile argentiano sfila-
no sullo schermo due star recuperate dalla storia del cinema americano. Innanzi-
tutto Piper Laurie, biondina di tante pellicole degli anni Sessanta, passata trion-

60
falmente all’horror con Carrie, il film di De Palma tratto da Stephen King, e qui
di nuovo in un ruolo di madre minacciosa e traumatizzante. Poi Brad Dourif, in-
dimenticabile nevrotico di Qualcuno volò sul nido del cuculo, qui in una breve
apparizione cui conferisce gli sguardi allucinati di Anthony Perkins.
Ma Trauma è un omaggio a se stesso da parte di Argento anche perché si
avvicina al modello “impossibile” di film che il regista ha auspicato in una
intervista: “Se fosse per me il film lo farei tutto da me. Interpreterei tutto, farei
le parti di uomo e di donna, di bambino e di vecchio... Se avessi tempo, denaro e
possibilità di sbagliare, i film li farei completamente io, travestendomi io stesso
e interpretando tutti i ruoli.” [in Dario Argento: Il brivido il sangue il thrilling,
cit., p.154]
Ecco, con Trauma Dario Argento è quasi riuscito a coronare il suo sogno,
mettendo davanti alla cinepresa sua figlia Asia, nella parte dell’anoressica
diciassettenne Aura Petrescu, una ragazza che rivela negli sguardi e nel corpo la
parentela con il regista e che tornerà a interpretare altre due pellicole del padre,
La sindrome di Stendhal e Il fantasma dell’opera.
Ma Trauma è soprattutto un catalogo dei “luoghi comuni” del serial killer
argentiano. Innanzitutto proprio l’assassino si presenta come uno psychokiller,
continuando dunque la linea del delitto in serie, ma non totalmente gratuito:
l’assassino di Trauma decapita con il suo cappio meccanico non casualmente,
ma seguendo una precisa lista di vittime predestinate. Infermiere e medici
coinvolti nell’episodio da cui scaturisce tutto l’incubo di Trauma sono gli
obiettivi scelti dal killer: qualcosa di diverso, va ripetuto, dal tipico serial killer
che invece ammazza senza ragione. Tutti gli assassini di Argento, compresi i
due giovani pazzi in La sindrome di Stendhal e Nonhosonno, seguono questo
metodo delittuoso, riconducendo le sceneggiature argentiane, anche le più
irrazionali, nei confini del “giallo”, che prevede comunque un’indagine in grado
di dedurre l’identità del criminale, fino alla scoperta finale.
L’assassino del resto è il vero protagonista di tutti i film di Argento. Argento
vuole farci paura, e quindi in alcuni casi ci mette dalla parte della vittima, terro-
rizzati dall’avvicinarsi di un omicida inafferrabile (emblematica, in questo senso,
la sequenza sul treno che apre Nonhosonno). Ma sempre più spesso siamo noi
a vedere con gli occhi dell’assassino, a immedesimarci nell’ignoto personaggio
che ammazza e ferisce. Dario ha capito che i tempi cambiano, anche a questo

61
proposito: “Una volta il pubblico odiava l’assassino, oggi si fa il tifo per
l’assassino. Sono cambiate le storie raccontate dal cinema o è cambiata la gente?
e quando il pubblico spera che l’assassino non venga catturato lo fa per simpa-
tia verso un criminale o solo perché desidera che il film non finisca?”
In realtà è lo spettatore stesso che diventa l’assassino, nei film di Argento. E
la paura si fa più forte perché siamo noi a commettere quegli atti proibiti e
violenti che vediamo nel buio della sala cinematografica.
I delitti nei film di Argento sono compiuti dalle armi più diverse: chiodi,
oggetti contundenti, vetri, corde... Ma lo strumento privilegiato resta l’arma da
taglio, il coltello o quel rasoio che in Tenebre strappa una maglietta bianca e
colpisce all’interno il corpo svelato come da un sipario. Infine la cinepresa-boia:
Argento ci fa vedere l’impossibile, ci fa guardare dal punto di vista del coltello,
come se un occhio immaginario fosse incastonato nella lama. La cinepresa, ad
esempio, diventa l’occhio del pendolo che taglia in due una donna nell’episodio
Il gatto nero di Due occhi diabolici. E sempre più la cinepresa si spinge dentro
ai corpi, nelle gole, negli squarci. È la cinepresa che uccide.
Eppure c’è anche una carnalità e materialità dell’assassino nel cinema di
Argento. È importante anche l’identità dell’omicida. E soprattutto il sesso
dell’omicida.
I film di Argento, infatti, hanno emancipato le donne del cinema fantastico.
Da vittime perseguitate e indifese sono state trasformate in carnefici. Argento
ha detto basta con il ruolo obbligato delle donne gementi e urlanti di paura di
tante pellicole del terrore.
Se l’assassino cinematografico, e il recente “tipo” del serial killer, è quasi
sempre un uomo, è per altro vero che non è mai mancata – seppure in una sorta
di emarginazione e collateralità – la donna assassina, o meglio la “dark lady”, la
femmina seduttiva che porta distruzione e morte.
Questa figura femminile sembra in crescita quantitativa nelle odierne
produzioni cinematografiche. Non si tratta più delle grandi stelle del cinema anni
Trenta, riprese in un cupo bianco e nero, con lo sguardo fatale e magari una
peccaminosa sigaretta tra le labbra, ma di attrici sfolgoranti nella bellezza
luminosa del colore e degli schermi panoramici, valorizzate inoltre dalla maggior
disponibilità della censura contemporanea.

62
In realtà il modello dell’assassina al femminile nasce proprio in Italia, con il
nostro Dario Argento. Con L’uccello dalle piume di cristallo la donna si è con-
quistata il ruolo di assassina, fino ad allora riservato agli uomini. Ma tutti i
deboli e i diversi ottengono la stessa curiosa “emancipazione” nel cinema
argentiano. Le certezze si incrinano, le consuetudini si lacerano. Anche una
moglie tranquilla e fedele può rivelarsi una spietata criminale, capace dei più
efferati omicidi in serie.
Argento ha inventato anche una triade di donne ferali, le Tre Madri, Mater
Tenebrarum, Mater Lachrimarum e Mater Suspiriorum, la cui storia è descritta
nell’antico e immaginario Libro delle Tre Madri. Nel film Inferno apprendiamo
che l’architetto Varelli costruì le dimore delle tre madri a New York, Roma e
Friburgo. “La terra dove le case sono costruite diviene mortifera e pestilenziale
così che gli edifici intorno e a volte l’intero quartiere ne maleodora. Questa è la
prima chiave per aprire il loro segreto... La seconda chiave è occultata nei
sotterranei delle loro dimore... La terza è sotto la suola delle tue scarpe.” Le Tre
Madri dovevano costituire il filo conduttore di un ciclo di film argentiani. Forse
il ciclo è stato composto da Suspiria (nella figura della Regina Nera), Inferno e
Tenebre (dove il riferimento è più sfumato), ma in alcune occasioni Argento ha
detto che attende ancora di concludere la storia. Intanto, è tornato sulle donne
assassine oltre che assassinate anche in Trauma, dove il catalogo femminile dei
personaggi argentiani si complica e si arricchisce ulteriormente.
Dario Argento mette in scena donne assassine dagli inizi degli anni Settanta,
con il suo primo capolavoro, L’uccello dalle piume di cristallo. Si può affermare
che la Sharon Stone di Basic Instinct non è che una delle tante donne pericolose
e micidiali del cinema più recente, queste figure femminili armate di coltello o di
pistola che hanno le loro sorelle maggiori proprio nelle assassine del cinema
argentiano.
Argento ha anticipato un vero ribaltamento nel ruolo tradizionale della donna
nei gialli e nei thriller. Fino agli anni Ottanta le figure femminili mostravano so-
prattutto una grande debolezza di fondo, che doveva porle in situazioni paurose
e inevitabilmente dalla parte della vittima. Dalla ragazzina perseguitata da mo-
stri e assassini, la tipica protagonista femminile del cinema thrilling è poi diven-
tata una donna con la pistola. I due volti femminili più caratteristici di questa e-
voluzione della donna cinematografica sono senza dubbio Kathleen Turner e

63
Anne Parillaud. La prima è stata vera dark lady in Brivido caldo (1981), e poi è
diventata a sua volta donna-poliziotto in Detective coi tacchi a spillo (1991),
mentre la Parillaud è apparsa in Nikita (1990) nella parte di una ex-teppista re-
clutata dai corpi segreti dello stato per commettere delitti con “licenza di ucci-
dere” e subito dopo ha fatto il salto decisivo, diventando vampira sanguinaria
nel 1992 per John Landis nel film Innocent Blood (Amore all’ultimo morso).
Probabilmente non è solo sugli schermi cinematografici che si assiste a queste
trasformazioni, di cui Argento si è limitato ad essere primo anticipatore. Si
moltiplicano infatti anche le assassine letterarie (come in Mary Terror di Robert
McCammon, edito in Italia da Interno Giallo), e la stessa cronaca nera arriva ad
affiancare ai serial killer tipicamente maschili anche alcune eccezioni di sesso
femminile: soprattutto in Florida e nel sud degli Stati Uniti si sono segnalate da
qualche anno numerose apparizioni di donne “assassine seriali”.
Ma nel Terzo Millennio si potrebbe addirittura sostenere che l’assassino
cinematografico per eccellenza è androgino, non è né maschio né femmina.
L’identità anagrafica (maschile o femminile) di chi commette il delitto non
importa più. E il maestro di questa relativizzazione dell’identità sessuale del
criminale è stato proprio Dario Argento. Certo, abbiamo detto che la sua
innovazione nel cinema thrilling è stata quella di utilizzare quasi sempre donne-
assassine, fin dal suo primo film. Ma in realtà lo spettatore scopre chi è
l’assassino, e quindi se si tratta di un uomo o di una donna, solo alla fine del
film. Gli omicidi sono mostrati in abbondanza, ma solo attraverso una mano
guantata e gli strumenti del delitto.
Non si può che concordare con quanto scrivono Antonio Bruschini e
Antonio Tentori a proposito del cinema di Argento: “Con la sostituzione della
macchina da presa alla visuale dell’omicida lo spettatore si trova, violentemente
e senza preavviso, catapultato nell’universo delirante dello psicopatico. (...)
Ma, più di ogni altra cosa, si trova costretto a identificarsi con un personaggio
di cui, paradossalmente, non sa assolutamente nulla, neppure il sesso... Per
questo dell’assassino, ora, Argento comincia a mostrarci sempre di meno. Non
più una silhouette nera da spaventapasseri, ma semplicemente il dettaglio
ingigantito di un occhio sbarrato, dilatato sulla propria follia.” [A. Bruschini, A.
Tentori, Profonde tenebre, I Libri di Profondo Rosso, Roma 2000, pp. 31-32]

64
Dall’androginia è facile passare all’evaporazione di ogni identità autonoma
dell’assassino. È facile passare all’assassino cibernetico, alla cinepresa-coltello,
alla inessenzialità della personalità dell’omicida e alla sua totale identificazione
con l’occhio dello spettatore e quindi con l’obiettivo della macchina da presa. Il
cerchio si chiude, e il killer dallo schermo passa automaticamente in platea.

Filmografia

1970
L’uccello dalle piume di cristallo

1971
Il gatto a nove code

1972
Quattro mosche di velluto grigio

1973
Le cinque giornate

1975
Profondo rosso

1977
Suspiria

1980
Inferno

1982
Tenebre

1985
Phenomena

1987
Opera

65
1990
Due occhi diabolici (episodio Il gatto nero)

1992
Trauma

1996
La sindrome di Stendhal

1998
Il fantasma dell’opera

2000
Nonhosonno

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GLI ASSASSINI

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Jack

Tra i grandi protagonisti del cinema “alla lama di coltello” il più imprendibile e
leggendario degli assassini è senza dubbio Jack lo Squartatore.
Mito proveniente dalla realtà, Jack lo Squartatore è il capostipite e
l’antenato di tutte le figure di pluriomicida senza motivazioni apparenti che
hanno attraversato gli schermi. Le sue imprese a Whitechapel hanno festeggiato
ormai il secolo e moltissimi nipotini di Jack hanno continuato le sue imprese,
allungando la scia di sangue e frattaglie inaugurata dal mostro di Londra.
Non che la storia del crimine avesse aspettato Jack per trovare delitti efferati
e immotivati, ma l’epoca vittoriana, apice del capitalismo ottocentesco e
dell’industrializzazione, era lo scenario indispensabile per rendere mitologica
una immagine del Male assoluto come quella di Jack. Nello stesso clima in cui
nascono Sherlock Holmes, Dracula e il dottor Jekyll, la cronaca nera si
impegnava a dare vita a un personaggio senza volto, crudele e malvagio oltre
ogni limite, annidato nelle strade di Londra e pronto a colpire là dove il vizio e la
miseria imperversavano, tra bordelli e osterie malfamate. L’altra faccia del
moralismo vittoriano si presentava in tutto il suo pericoloso orrore.
Jack si è insediato tanto profondamente nell’immaginario proprio perché è
rimasto senza volto. Forse un paio di manette ai polsi di un insignificante
maniaco avrebbero fatto perdere il ricordo di quella serie di delitti iniziati il 31
agosto del 1888. Jack lo Squartatore non è stato catturato eppure non è
scomparso. Jack è immortale, come ci ricorda il celebre racconto di Robert
Bloch Yours Truly, Jack the Ripper, apparso su “Weird Tales” nel 1943 (che
ebbe la fortuna di uno sceneggiato radiofonico, poco dopo la sua uscita sulla
popolare rivista di racconti del terrore): il figlio di una delle vittime di Jack
continua per anni a cercare l’assassino, fino a incontrarlo ai nostri giorni ancora
vivo e vegeto. “Ha privato della vita altre centinaia di persone, per prolungare
l’esistenza del suo essere infernale. Come un vampiro egli si rinvigorisce con il
sangue. Come un demone, il suo nutrimento è la morte. Egli si aggira furtivo,
come uno spirito malefico, in tutto il mondo per uccidere. E astuto,
diabolicamente astuto”.

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Ma chi era Jack per il cinema? Qual era il vero volto del massacratore di
prostitute? Alle varie risposte romanzesche o della ‘ripperologia’ (disciplina
molto praticata da saggisti e criminologi inglesi) vanno aggiunte le spiegazioni
suggerite dai vari sceneggiatori cinematografici. Alle due ipotesi principali (il
duca di Clarence, nipote della regina Vittoria, o l’avvocato John Montague
Druitt) il cinema affianca molte tesi fantasiose.
La serie più lunga di film ispirati dalla vicenda di Jack lo Squartatore è senza
dubbio quella del “pensionante”, che prende origine da un romanzo di Marie
Adelaide BellocLowndes, trasformato anche in opera teatrale. Circa l’identità
dello Squartatore la serie oscilla tra innocenza e colpevolezza nei confronti del
misterioso ospite della stanza in affitto, che i vicini sospettano di essere
l’assassino. A inaugurare il cielo sul “pensionante” pensò proprio Alfred
Hitchcock nel 1926, con quello che lo stesso regista ha definito “il primo, vero
film di Hitchcock” (in F. Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Pratiche
Editrice, Parma 1985, p. 38). Per non rovinare la carriera del protagonista Ivor
Novello, specializzato in ruoli di “buono”, Hitchcock dovette dimostrare
l’innocenza dell’inquilino (sospettato di essere Il Vendicatore, allusione chiara
allo Squartatore). L’inquilino sospetto tornò in un remake del 1932 John Brahm
e poi nel 1943 sotto la direzione di Hugo Fregonese: lo Squartatore del film di
Brahm finisce annegato nelle acque del Tamigi, mentre sfugge a un inseguimento
della polizia. Analogo il destino del signor Slade di Una mano nell’ombra di
Fregonese, con l’aggiunta di un innamoramento dello Squartatore per la bella
Lily (ma senza riscatto possibile per l’assassino).
Per il film Jack the Ripper di Monty Berman e Stanley Baker del 1959, Jack
è senza dubbio un chirurgo, e ce ne viene svelata anche la sanguinosa fine,
schiacciato da un ascensore. Jack the Ripper utilizza ancora il bianco e nero dei
vecchi film del terrore, ma concedendo un breve omaggio al nascente stile Ham-
mer che richiedeva tinte calde su cui far schizzare il rosso del sangue: la sequen-
za finale, infatti, nelle copie originali è a colori. Prodotto e diretto dal duo Ba-
ker-Berman, il film si inseriva nel filone in costume, e preferibilmente di epoca
vittoriana, che il cinema inglese sfruttò a lungo tra gli anni Cinquanta e Sessanta
per ambientarvi storie sottilmente erotiche e violente. La stessa coppia Baker-
Berman ne diede di lì a poco un altro saggio con Hellfire Club (1961). È il primo

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film, comunque, che abbraccia la tesi di Jack medico, abile con bisturi e disse-
zioni.
Sulla stessa linea, in Barbara il mostro di Londra i delitti dello Squartatore
vengono attribuiti al bifronte Jekyll-Hyde, in questo caso di sesso femminile e
alla ricerca di ghiandole per le sue trasformazioni. Un medico con laboratorio
scientifico è anche il Jack di Erotico profondo interpretato da Klaus Kinski,
vittima della sua doppia personalità che lo spinge ad uccidere. In L’uomo
venuto dall’impossibile lo Squartatore è Stevenson, un amico dello scrittore
Herbert George Wells che non si accontenta dei massacri nella sua epoca e fugge
nel futuro con la macchina del tempo per continuare ad ammazzare, prima di
essere scaraventato nell’infinito dal prode Wells.
Più legati alla “ripperologia” scientifica i due incontri cinematografici tra Jack
lo Squartatore e Sherlock Holmes, in A Study in Terror e Murder By Decree.
Nel primo film Holmes scopre il nesso tra i delitti di Jack e l’aristocratica
famiglia Osborne, ma da vero gentiluomo l’investigatore rifiuta di rivelare
pubblicamente la sua scoperta: Jack/Osborne muore, ma nessuno saprà mai che
tutti gli omicidi erano legati al turpe passato della signora Osborne, che prima di
sposarsi era stata prostituta.
Nel secondo duello tra il detective di Baker Street e l’assassino di
Whitechapel viene invece sposata la vecchia tesi di molti ripperologi secondo
cui il nome dell’assassino non venne mai scoperto perché faceva parte della
famiglia reale. Il film non risolve il quesito, ma mostra il prevalere della ragione
di Stato sull’accertamento della verità.
Nuove spiegazioni si ebbero grazie a Michael Caine, protagonista della serie
Tv di quattro episodi di un’ora ciascuno Jack the Ripper. Intanto con Gli artigli
dello Squartatore già sapevamo che Jack ha una figlia, pronta a continuare la
carriera del padre, dopo averlo visto uccidere la moglie sotto i suoi occhi.
La figlia di Jack dimostra che lo Squartatore non finisce di terrorizzare con la
conclusione dei suoi delitti londinesi. Resta nei nostri incubi, come in Tre amori
fantastici dove lo Squartatore è accostato a Harun el Rascid, personaggio da
Mille e una notte, e Ivan il Terribile, come conseguenza onirica di una visita al
Museo delle cere. Werner Krauss era il Jack che perseguita una coppia, nel so-
gno del protagonista. Si tratta di un episodio dal montaggio velocissimo, tra sce-

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nografie espressioniste alla Caligari, e che il grande critico Siegfried Kracauer
considera un capolavoro dell’arte cinematografica.
Jack fa morire anche attraverso il semplice feticcio della sua lama, custodita
in un altro museo delle cere e utilizzata da nuovi criminali in Il manichino
assassino. La catena di delitti non si conclude mai, e il bisturi insanguinato
passa a nuove mani, grazie a un cinema che si concede sempre maggiori
indulgenze al macabro e al sanguinoso. E inoltre Jack è un’icona talmente
popolare da poter apparire persino in serie tv di fantascienza come Star Trek
(nell’episodio Wolf in the Fold, scritto da Robert Bloch) o Babylon 5
(nell’episodio Comes the Inquisitor)
Jack lo Squartatore è un simbolo di crudeltà, e come tale non può essere
adeguatamente “rappresentato” e “visto”. Ogni concretizzazione della sua
identità ignota fa perdere senso alla leggenda. Per questo il miglior Jack del
cinema resta quello della Lulu di Pabst, che arriva a conclusione del film per
uccidere la donna fatale per eccellenza e poi scomparire nel nulla, sconosciuto e
oscuro come prima della sua apparizione, archetipo inspiegabile della violenza
sessuale maschile.
Forse proprio l’indeterminatezza di Jack, che nessuno può credibilmente
descrivere o delineare, ha portato ad attribuirgli il volto di ottimi interpreti, ma
senza scomodare gli attori più amati del genere. Il cinema ha preferito scegliere
secondo un catalogo lombrosiano i suoi Squartatori: un assassino, secondo le
regole più ovvie del luogo comune deve avere una ‘brutta faccia’, deve essere
ripugnante nel fisico così come lo è nel morale, con fattezze che insospettiscano
al solo sguardo. Registi e produttori hanno allora cercato i visi meno rassicuranti
negli elenchi dei professionisti del genere. Le star devono avere dei corpi e dei
volti efficaci per il terrore e soprattutto la faccia da delinquente. Jack deve avere
un ceffo da criminale, anche se magari fa il dottore o è un cittadino
apparentemente irreprensibile. Il cinema ha assunto pienamente per Jack le
vetuste tesi fisiognomiche di Lombroso e ha deciso che un deviante tanto
brutale deve per forza rivelare la sua abiezione già stampata sui lineamenti.
Lo Squartatore è stato impersonato al cinema da alcune delle facce più terri-
bili che il grande schermo abbia mai veicolato. All’appello mancano certamente
le grandi star del cinema fantastico (non sono stati mai Jack né Karloff o Lugosi,
né Price o Carradine, e nemmeno Christopher Lee o Peter Cushing). Però una

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buona schiera di attori inquietanti hanno indossato gli abiti vittoriani dell’ignoto
assassino.
Tra i tanti Jack dello schermo almeno quattro meritano un ricordo.
Innanzitutto Jack Palance in Una mano nell’ombra, che da villain del cinema
western è stato spesso arruolato nel cinema thriller o horror (i più esperti lo
ricordano anche nei panni di Dracula e persino in un ruolo sadiano contro la
povera Romina Power in Justine).
Se c’è una faccia cinematografica che non rassicura, questa è la faccia di
Palance, nonostante i tentativi di trasformarlo, in vecchiaia, addirittura in buon
poliziotto (ma solo in anni in cui anche il “bene” e la “legge” possono godere di
un po’ di ambiguità).
Chi non poteva sfuggire al ruolo di Jack era il cattivo per eccellenza degli
anni Sessanta e Settanta: Klaus Kinski. Lo specialista della serie “Z” Jesus
Franco lo volle per Erotico profondo, permettendo a Kinski di sezionare
fanciulle svestite e contemporaneamente di coltivare piantine rare nel tempo
libero dalla sua attività di bravo medico. Con il suo bisturi Kinski/Jack si
avvicina ai seni nudi delle sue vittime e poi ci fa assistere ad alcune fasi degli
squartamenti, che quasi mai il cinema si era permesso di mostrare. Il film ha
avuto una tormentata vicenda produttiva, girato dallo spagnolo Franco in una
trasferta svizzero-tedesca (ne hanno tratto vantaggio le riprese in esterni, per
una volta meno mediterranee del solito) e con alcune apparizioni, del tutto
immotivate e svincolate dallo svolgimento della vicenda, di una delle figlie di
Chaplin, Josephine.
All’elenco dei Jack dello schermo non manca Udo Kier, arruolato da
Walerian Borowczyk per Lulù. Anche Kier non scherza in quanto a faccia
patibolare, e il cinema lo ha ben utilizzato in ruoli di pazzo e di mostro. Per
ricordare solo alcune delle apparizioni dell’attore, Kier è stato per Andy Warhol
un sanguinoso dottor Frankenstein e poi un isterico Dracula, nella coppia di
sexy-gore girati in Italia nel 1974. Da parte sua Just Jaeckin lo ha messo accanto
a Corinne Clery in Histoire d’O, nella parte del depravato che cede la propria
compagna alle torture e agli amplessi di una strana setta sadica. Ottimo
pendaglio da forca, allora, anche per impersonare il nostro Jack.
Infine, va doverosamente citato David Warner, un cattivo che ha attraversato
tante pellicole degli ultimi decenni lasciando sempre una scia di nefandezze.

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Warner è forse il Jack più “moderno” perché non suscita solo orrore, ma anche
simpatia. Il suo faccione delinquenziale ha qualcosa di accattivante (mai termine
fu più adatto...) e quando gli viene messo alle calcagna un altro grugno cinemato-
grafico come Malcolm McDowell in L’uomo venuto dall’impossibile non si sa
proprio per chi fare il tifo. Tra le malvagità commesse da David sullo schermo
nessuno dimentica almeno i delitti elettronici in Tron.
Solo di recente la storia di Jack ha potuto esplicitare i contenuti erotici,
senza sottrarre allo spettatore le implicazioni sessuali dei suoi delitti. Patricia
Highsmith ci ha ricordato che Jack nasce da una società che considera in modo
abnorme il ruolo delle donne: “La ‘sindrome dello Squartatore’ è come la
malattia di Parkinson o la sclerosi multipla, può colpire un laureato come un
manovale, e rivela sintomi imprevedibili. Gli squartatori hanno una doppia vita
e vengono scoperti dopo molto tempo perché credono di essere nel giusto e
sembrano persone normali”. [P. Highsmith, Problemi sessuali? Ecco la ricetta
dello Squartatore, in “Corriere della sera”, 10 gennaio 1988]
Il cinema ha introiettato il lato “maschilista” dello Squartatore, mettendolo a
confronto con donne ridotto a cosa da “smontare”, da fare a pezzi. E ha
aggiunto una buona dose di voyeurismo. Non dimentichiamoci che la saga di
Jack lo Squartatore contro Lulu ha permesso anche di assistere a uno dei primi
nudi integrata di Stefania Sandrelli e probabilmente il primo in assoluto della
televisione pubblica italiana. Le ultimissime sequenze dello sceneggiato
televisivo Lulù (diretto da Mario Missiroli e programmato da Rai Due nel
marzo 1980) mostrano una Sandrelli che corre nuda verso la macchina da presa,
per sfuggire alle grinfie di Jack. Meno problemi ebbe Walerian Borowczyk, che
nella sua versione di Lulù non ebbe bisogno di Jack per spogliare Ann Bennent,
biondina che le critiche ricordano soprattutto per i baffetti chiari e che si agita
senza vestiti ben prima dell’arrivo dello Squartatore.
Se però il nudo è diventato lecito accanto a Jack, qualcosa è ancora impedito
alla visione nella saga cinematografica dello Squartatore. In teoria Jack è
l’occasione per scatenare al cinema l’estetica del delitto gratuito, e per alcune
variazioni sul tema della violenza sanguinaria su vittime femminili che l’horror
cinematografico ha abbondantemente sperimentato. Con i progressivi amplia-
menti degli spazi consentiti dalla censura il delitto solo suggerito di Jack tende

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ad essere mostrato, ma quasi mai il cinema si è soffermato sui dettagli delle dis-
sezioni dello Squartatore.
Non che il cinema del terrore, soprattutto nelle sue varianti gore e splatter,
abbia lesinato particolari raccapriccianti e spettacoli sanguinosi o mutilazioni in
pieno schermo (come vedremo nelle prossime pagine, i “villain” della serie
Venerdì 13 o Freddy della serie Nightmare hanno mostrato al pubblico ogni
efferatezza). Ma nei confronti di Jack anche il cinema si ritrae, non osa
ricostruire completamente i misfatti di un “mostro” realmente esistito, ignoto,
senza volto, occulto. Forse il realismo della vicenda di Jack, il suo riproporsi in
altre figure della cronaca nera del secolo successivo, il suo essere ormai simbolo
di una riduzione definitiva della donna a cosa, impediscono anche al cinema di
essere distaccato e tranquillo di fronte alle gesta dello Squartatore.
Su Jack sono stati scritti innumerevoli libri (solo per il centenario ne circolò
quasi una decina), sui suoi omicidi si sa molto, eppure il cinema ha preferito
affidare ad altri assassini immaginari il compito di presentare sullo schermo
l’esorcismo dello squartamento a sfondo sessuale. Le dissezioni di corpi
femminili, anche l’accanimento sugli attributi sessuali, è quasi un luogo comune
dell’horror e del thriller cinematografico. Ma quando non c’è Jack.
Se appare in prima persona una delle tante possibili incarnazioni del vero
Jack tutto finisce per svolgersi fuori campo, o comunque la macchina da presa a
un certo punto smetterà di spiare. Una porzione di mistero, una zona d’ombra,
deve essere sempre mantenuta, l’orrore troppo vero e reale di Jack non può
essere reso visibile.

Filmografia

1924 Das Wachsfigurenkabinett (Tre amori fantastici)


di Paul Leni con Werner Krauss

1927 The Lodger (Il pensionante)


di Alfred Hitchcock con Ivor Novello

1928 Lulu, Die Buchse der Pandora (Lulu)


di G. W. Pabst con Gustav Diessl

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1932 The Lodger (noto anche come The Phantom Fiend)
di Maurice Elvey con Ivor Novello

1943 The Lodger (Il pensionante)


di John Brahm con Laird Cregar

1950 Room to Let


di Godfrey Grayson con Valentine Dyall

1953 Man in the Attic (Una mano nell’ombra)


di Hugo Fregonese con Jack Palance

1959 Jack the Ripper (Jack lo squartatore) di Robert S. Baker e Monty Berman
con Ewen Solon

1962 Lulu (Lulù, l’amore primitivo)


di Rolf Thiele con Georges Régnier

1964 Das Ungeheuer von London City (Chiamate Scotland Yard 00.75)
di Edwin Zbonek con Dietmar Schoennherr

1965 A Study in Terror (Sherlock Holmes: notti di terrore)


di James Hill con John Fraser

1971 DrJekyll and Sister Hyde (Barbara il mostro di Londra)


di Roy Ward Baker con Ralph Bates e Martine Beswick

1971 Hands of The Ripper (Gli artigli dello squartatore)


di Peter Sasdy con Angharad Rees

1971 Jack, el Destripador de Londres (Sette cadaveri per Scotland Yard) di José
Luis Madrid con Paul Naschy

1972 Terror in the Wax Museum (Il manichino assassino)


di George Fenady

1976 Jack the Ripper Der Dirnenmoerder von London (Erotico profondo) di Jess
Franco con Klaus Kinski

1978 Murder by Decree (Assassinio su commissione)


di Bob Clark con Donald Sutherland, David Hemmings

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1979 Time After Time (L’uomo venuto dall’impossibile)
di Nicholas Meyer con David Warner

1980 Lulù (id.)


di Walerian Borowczyk con Udo Kier

1985 Bridge Across Time (Terrore sul ponte di Londra)


di E. W. Swackhamer con Paul Rossilli

1988 Jack’s Back (Delitti perfetti)


di Rowdy Herrington con James Spader

1988 Jack the Ripper (Jack lo squartatore) di David Wickes con Ray McAnally

1989 Edge of Sanity (Dr.Jekyll e Mr.Hyde)


di Gerard Kikoine con Anthony Perkins

1997 The Ripper


di Janet Meyers con Michael York

2001 Ripper: Letter From Hell


di John Eyres

2001 From Hell (From Hell - La vera storia di Jack lo Squartatore)


di Albert e Allen Hughes

Sito Internet
www.casebook.org

Norman

L’antenato di tutti i serial killer cinematografici più recenti ha un nome: Norman


Bates. E un volto: quello dell’attore Anthony Perkins. Un volto vero, di carne e
di ossa, senza truccature repellenti in lattice, senza maschere nasconditrici.
Inventato da Robert Bloch in un suo romanzo, poi adattato per lo schermo
da Joseph Stefano, il giovane assassino Norman deve il suo successo immortale
ad Alfred Hitchcock, che lo portò alla fama con il film Psycho, nell’ormai
lontano 1960.

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Alto, magro, allampanato, Bates fa tenerezza. La sua semplicità lo rende
simile davvero al vicino di casa. Ha un sorriso incerto, segno di timidezza, e in
apparenza è buono, persino affettuoso verso chi gli si avvicina nel motel isolato
che gestisce. E in fondo il successo del personaggio deriva dal fatto di apparire
come vittima, un giovane trasformato in pazzo dalle circostanze.
È il ragazzo per bene che obbedisce alla madre a qualsiasi costo, tanto
scrupoloso da pulire come un fanciullo ben allevato il sangue delle sue vittime
quando gli sporca il bagno o i tappeti di casa. E il suo “amor filiale” lo rende
protettivo verso il cadavere della madre, e ubbidiente oltre la vita e la morte ai
suoi ordini. Norman conserva il corpo mummificato della mamma, ne indossa gli
abiti e parla con la sua voce, rimproverando se stesso quando commette qualche
errore o si lascia tentare dal fascino femminile.
Grazie a Hitchcock il personaggio di Norman Bates è diventato
immediatamente un mito, accanto ad almeno due immagini rimaste storiche: la
ragazza assassinata sotto la doccia (Janet Leigh interpretava Marion Crane, la
prima vittima di Norman), e la casa gotica sulla collina, dall’architettura
vittoriana, che sovrasta il Motel Bates (tuttora un’attrattiva agli studi Universal
di Los Angeles).
La popolarità di questo serial killer immaginario è stata tale che una inchiesta
svolta negli Usa dimostrò che 90 americani su 100, sopra i dodici anni di età,
conoscevano la storia di Psycho. Da allora a Hollywood cominciò a circolare un
progetto scritto da due autori per far tornare Norman sullo schermo, ma gli
intraprendenti sceneggiatori non avevano la titolarità dei diritti, Così solo nel
1982 si poté mettere mano, grazie alla casa produttrice Universal che aveva
finanziato il film di Hitchcock, a una seconda puntata della saga di Norman. Si
trattava di un film totalmente imperniato sulla figura di Norman Bates, e molto
diverso dal romanzo Psycho 2 scritto nel frattempo da Robert Bloch.
Il secondo capitolo cinematografico della saga di Norman Bates inizia con la
scarcerazione del giovanotto dal manicomio in cui era stato rinchiuso, mentre il
bianco e nero della prima pellicola si muta lentamente sullo schermo nei colori
degli anni Ottanta. Sono passati vent’anni e il suo reinserimento è difficile, per
le diffidenze sia degli abitanti del villaggio vicino al Bates Motel, sia della
polizia locale. Eppure trova anche quanti lo prendono a ben volere, anche
perché gli psichiatri lo ritengono guarito.

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Una ragazza che lavora con lui in un ristorante accetta persino di
accompagnarlo nel vecchio Bates Motel, dove ancora aleggia lo spettro
incombente della madre di Norman. Il film è pieno di citazioni dalla pellicola
capostipite, con omaggi continui persino alle scenografie e agli oggetti che
apparivano in Psycho. Il Motel venne in parte ricostruito, e il direttore artistico
si mise a caccia di tutti i reperti del primo film ancora disponibili nei magazzini
di Hollywood. E dal primo film viene recuperata anche l’attrice Vera Miles, che
interpreta di nuovo la sorella di una delle vittime di Norman.
Il successo di Psycho 2 fu buono, ma non enorme. La distanza qualitativa dal
primo film diretto da Hitchcock si faceva troppo sentire. Eppure nel giro di tre
anni il produttore Hilton Green (che era stato assistente alla regia per il primo
Psycho e aveva poi prodotto lui stesso Psycho 2) mise in cantiere la terza
puntata della serie. Questa volta la regia venne affidata proprio ad Anthony
Perkins, che dimostrò delle capacità davvero rare nel rendere omaggio a
Hitchcock accogliendone lo stile e l’arte.
Il film prosegue nella trama le indicazioni di Psycho 2, che pure erano molto
macchinose e inventavano una bizzarra sostituzione di persona per la madre di
Norman. Nel terzo capitolo il segaligno assassino è ormai accettato dalla
comunità in cui vive, dove tutti o quasi lo considerano riabilitato. È dall’esterno
di questa piccola comunità solidale che viene il pericolo per Norman, oltre che
dall’interno della sua psiche sempre ossessionata dal ricordo del passato. Un
malvivente che si fa assumere alla reception del Motel Bates e una ex-suora
tormentata irrompono nella vita di Norman. E provocano lo scatenarsi di nuove
violenze.
Psycho 3 resta senza dubbio uno dei migliori esempi di sequel capace di in-
novare e avvicinarsi al valore della pellicola “madre”. Perkins si dimostra un ot-
timo regista fin dai primi minuti del film. Nel corso di un colloquio con l’attore-
regista, quando lo incontrai durante il festival del cinema fantastico di Sitges, nel
1986, Perkins aveva detto: “In un certo senso Psycho 3 è stato diretto da Nor-
man Bates. È un film girato dal punto di vista di Norman Bates. Avevo il pro-
blema di saltare continuamente di fronte alla macchina da presa e poi dietro. Sa-
rebbe stato snervante se Norman non avesse pensato a dirigere il film mentre io
recitavo la sua parte. È difficile recitare in un film e contemporaneamente dirige-

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re gli attori, curare i movimenti della camera e fare le altre mille cose che il film
richiede. La presenza di Norman è stata preziosa, tutti i giorni delle riprese.”
Non è da poco, per i reaganiani anni Ottanta in cui Psycho 3 venne girato,
assistere a una proiezione che inizia con lo schermo buio, e una voce di donna
che urla: “Dio non esiste!”. E subito dopo vediamo una suora precipitare da un
campanile e schiantarsi, in un prezioso gioiello che cita con garbo La donna che
visse due volte di Alfred Hitchcock.
Nel terzo episodio Norman è ancora più complice dello spettatore, che ormai
lo vede con simpatia esplicita. E Norman è sempre assassino, non ha affatto
perso la sua carica omicida. Ed è sempre prigioniero della madre, tanto che
nell’ultima sequenza del film lo vediamo accarezzare una mano mummificata
della sua genitrice, una reliquia tenuta nascosta tra gli abiti e sfuggita anche ai
poliziotti che lo stanno scortando verso una nuova reclusione.
In Psycho 3 il nostro Norman si innamora, ha una relazione con l’ex-suora
Maureen, fuggita dal convento. Sono due anime sofferenti, che si illudono di
trovare conforto reciproco. Andrà a finire male. Ma evidentemente gli
sceneggiatori hollywoodiani volevano dare una compagna al mostro, e ci
riuscirono nel quarto episodio della saga.
Con Psycho IV vediamo Norman uscito dal manicomio per l’ennesima volta,
e sposato con la sua psichiatra. Il film ci porta indietro, ad esplorare l’infanzia e
l’adolescenza di Norman, i suoi rapporti con la madre. Proprio Norma Bates, la
madre del nostro serial killer della quale avevamo conosciuto solo la mummia in
sedia a dondolo, è al centro del quarto episodio, interpretata significativamente
da Olivia Hussey, che sullo schermo aveva già impersonato la Vergine Maria.
In perfetta imitazione della casa gotica originale è stato ricostruito in Florida
presso gli Universal Studios un nuovo Bates Motel, ma questa è stata l’unica,
vera continuità con la serie. Per il resto il film sembra saccheggiare brutalmente
un mito.
Nei flashback l’attore Henry Thomas, già interprete ragazzino di E. T.,
appare nel ruolo di Norman giovane, con un viso rotondo e per bene altamente
improbabile. Tutta l’ambiguità degli sguardi e dei sorrisi nervosi di Perkins è
perduta. Il film è davvero il capitolo finale, e toglie tra l’altro ogni mistero (e
quindi ogni fascino) alla figura di Norman Bates. Tutto è spiegato, evidenziato,
mostrato.

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Il cinema, insomma, ha macinato un suo mito fino alle estreme conseguenze.
Eppure il mito di Norman Bates non scomparirà facilmente, anche perché
associato a quella che si potrebbe definire la maledizione di Psycho: Anthony
Perkins è stato perseguitato dall’identificazione con il suo personaggio, e per
anni gli sono state offerte solo partecipazioni a film in cui doveva imitare il
giovanotto folle della pellicola di Hitchcock. È il caso più evidente di serial killer
che si impadronisce del suo interprete, costringendolo a ripetere in innumerevoli
film le sue imprese assassine. Così Perkins ha continuato a uccidere in tanti
film, sia che incarnasse il diabolico Mr. Hyde/Jack lo Squartatore (in Edge of
Sanity, del 1987), sia che si trasformasse nel prete omicida di China Blue. E lui
stesso, Perkins, ha popolato le cronache dei giornali con le sue personali
ossessioni, con i suoi comportamenti inquietanti, fino alle voci del 1990 che lo
davano malato di Aids, subito smentite, ma poi drammaticamente confermate
dalla morte dell’attore nel settembre 1992.
Questa impossibilità di separare Norman da Anthony ha pesato anche sul
remake del 1998 del film capostipite, Psycho diretto da Gus Van Sant e
prodotto dalla Universal nell’estremo tentativo di rinnovare un mito. L’attore
Vince Vaughn purtroppo non ha niente del fascino malsano di Perkins, non ne
possiede gli sguardi e tanto meno il physique du rôle.
Ma è tutta l’operazione del remake che non regge il confronto con il “vero”
Psycho. Persino la scena della doccia, riproposta con scrupolo certosino, perde
di impatto, se non per l’uso del colore e di una maggiore esposizione di pelle
nuda. Eppure l’attrice Anne Heche era adatta a incarnare una moderna Marion
Crane/Janet Leigh, come vittima predestinata dei tormenti di Norman.
Il fatto è che Psycho non può davvero essere separato dal Norman Bates di
Anthony Perkins. All’inizio Perkins reagiva con irritazione a chi lo identificava
in Norman Bates, e sottolineava la differenza tra vita e film. Poi ha cominciato a
giocare su questa identificazione, tanto da accettare per altre tre volte, dopo il
1960, di incarnare il personaggio e da apparire persino nel programma televisivo
“Saturday Night Live” in una spassosa parodia.
Nel colloquio con Perkins già citato era lui stesso a teorizzare questa identi-
ficazione con Norman: “Il personaggio di Norman Bates è tanto interessante che
mi sono accorto subito, fin dal primo film, del fatto che la mia carriera ne sareb-
be stata condizionata. La mia somiglianza con Norman Bates è stata per me

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sempre più dolorosa, più esplicita e più stretta fino a che non mi sono sposato
e sono diventato padre di due bambini. Sposarsi e fare figli era qualcosa che
Norman, nella sua tragica situazione, probabilmente non avrebbe mai avuto.
Appena la mia vita è cambiata anche Norman si è allontanato da me.”
In realtà sfuggire a Norman Bates non era così facile, e la maledizione di
Psycho avrebbe perseguitato Perkins fino alla fine, fino a quella morte
disturbante che l’epidemia più terribile del secolo scorso ha imposto all’attore.

Filmografia

1960 Psycho (Psyco)


di Alfred Hitchcock con Anthony Perkins

1983 Psycho II (Psycho 2)


di Richard Franklin con Anthony Perkins

1986 Psycho III (Psycho 3)


di Anthony Perkins con Anthony Perkins

1990 Psycho IV (id.)


di Mick Garris con Anthony Perkins

1998 Psycho (id.)


di Gus Van Sant con Vince Vaughn

Sito Internet
psycho-movies.8m.com

Leatherface

Se Norman Bates aveva una identità molto marcata, un viso ben evidente, inse-
parabile dall’interpretazione di Anthony Perkins, negli anni Settanta il serial
killer diventa senza volto. Il caso più eclatante è quello di Leatherface, il gigan-

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tesco assassino con la sega a motore del film culto Non aprite quella porta (The
Texas Chainsaw Massacre) diretto nel 1974 da un giovanissimo Tobe Hooper.
Era un film nato per scommessa. Hooper, appena premiato per il
lungometraggio amatoriale Eggshells, si era messo alla ricerca di quattrini
insieme allo sceneggiatore Kim Henkel. Grazie a un commerciante texano che
investì 60.000 dollari, Hooper e Henkel crearono una piccola compagnia, la
Vortex, e iniziarono le riprese di Texas Chainsaw Massacre. In sole sei
settimane e con un cast di attori reclutati in loco nacque un cult per il cinema del
terrore, un film diventato padre indiscusso delle pellicole a base di terribili
violenze, sangue e sequenze “da macelleria”, che alla fine degli anni Settanta
avrebbero dato vita al nuovo filone gore e splatter.
Una causa intentata da alcuni membri della troupe contro Hooper e la Vortex
costrinse il film a circolare in copie pirata nei cineclub degli States. Nonostante
fosse soprattutto un film dell’orrore, e non un film esplicitamente politico, The
Texas Chainsaw Massacre subì molte traversie censorie, dovute solo in parte
alla violenza inusitata delle sue immagini, costringendo i cultori a visioni quasi
clandestine in 16 mm. In realtà il film rifletteva la realtà sociale dell’epoca, la
guerra del Vietnam in primo luogo, ma anche lo scandalo del Watergate, e questo
fece di Saw, come questo film veniva chiamato spesso in America, un cult-
movie non solo per la ristretta cerchia degli appassionati di horror degli anni
Settanta.
La famiglia di macellai texani cannibali nascondeva più di un significato, e in
particolare suscitava interesse la geniale invenzione del più demenziale dei serial
killer, Leatherface.
Leatherface, cioè Faccia di cuoio, non ha un volto. Si è appropriato della
faccia di un altro, strappandogliela dal cranio, e l’ha cucita come una maschera
da indossare. È muto, si limita a grugniti, e il suo solo modo di esprimersi è
uccidere, fare a fette il primo venuto con la sega a motore.
Leatherface ha le sue motivazioni familiari, più di ogni altro serial killer ci-
nematografico. Viene da una famiglia di assassini e di pazzi, da una casa incredi-
bile per orrore e immersione nel sangue, una casa di cui è meglio “non aprire la
porta”. Insieme a lui agiscono nel delitto i suoi fratelli Chop-Top, demente do-
po aver partecipato alla guerra del Vietnam, e Cook, tutti impegnati nella ge-
stione di una rosticceria poco raccomandabile, The Last Roundup Rolling Grill,

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in un parco-giochi abbandonato. La famiglia assassina vince persino dei premi
culinari per le ottime salsicce che produce (a base di carne umana, naturalmen-
te).
L’assenza di volto rende Leatherface precursore indubbio degli altri due
serial killer del cinema americano successivo, l’assassino Myers di Halloween e
il Jason di Venerdì 13. Tra tutti i pazzi criminali della sua famiglia era quindi
destinato a diventare la vera star. Non a caso quando nel 1980 la New Line ha
distribuito nuovamente The Texas Chainsaw Massacre (diventato per i cultori
semplicemente TTCM) ha incentrato la pubblicità proprio sulla figura di
Leatherface.
È sulla scorta del successo reiterato del primo film che nel 1986 la Cannon ha
riproposto la famiglia assassina di Faccia di cuoio con The Texas Chainsaw
Massacre Part 2. Il film metteva a confronto un parente delle vittime
ammazzate nel primo film con la famiglia texana della sega a motore. Il mitico
Dennis Hopper, con cappello da cow-boy, si incaricava di eliminare l’anomala e
nociva famigliola: impugna due seghe a motore al posto delle colt, e qualcuno vi
ha visto una parodia dell’allora presidente americano Ronald Reagan. Lo
sceneggiatore era L. M. Kit Carson, sofisticato uomo di cinema e critico radicale
della società americana degli anni Ottanta, noto per aver scritto Paris-Texas di
Wim Wenders. Ha dichiarato Carson quando uscì il film: “Sono passati più di
dieci anni dalla prima versione, eppure credo che la famiglia primitiva del primo
TTCM sia ancora molto attuale. La società ha continuato a produrre violenza, a
distruggere l’ambiente, a creare gente come gli yuppies che faccio morire
orribilmente all’inizio del film.” [L’America della sega elettrica, intervista a Kit
Carson di F. Giovannini, in “Il manifesto”, 7 novembre 1986]
Questa volta Faccia di cuoio era interpretato da Bill Johnson, e la sua ma-
schera di pelle umana era curata dallo specialista di effetti speciali Tom Savini.
Il personaggio acquisisce maggiore spessore, e si fa protagonista anche di una
sequenza commovente, quando cerca di conquistare la simpatia e l’amore di una
sua vittima, la bella Stretch (interpretata dall’attrice Caroline Williams). Quasi
una citazione dal mito della Bella e la Bestia, ma immersa in un contesto sangui-
nario senza precedenti, è una scena per stomaci forti, che meriterebbe un posto
d’onore nella storia del cinema alla lama di coltello: il terribile Leatherface
“regala” alla sua amata prigioniera la pelle che ha appena strappato dal viso di

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un amico di lei. Il peggio viene quando il ragazzo scuoiato si risveglia e vede di
fronte a sé Stretch che porta sul volto la sua faccia insanguinata...
Proprio Stretch riesce a confondere e sgominare il pazzo criminale
Leatherface facendo leva sull’attrazione sessuale, ma questo non le eviterà di
finire legata in una stanza della macelleria, tra penzolanti cadaveri di yuppie.
La buona accoglienza del pubblico per questa seconda avventura di
Leatherface, dove il rumore della sua sega elettrica copriva ogni altra colonna
sonora, convinse i produttori a puntare di nuovo su di lui. Era inevitabile quindi
che il terzo capitolo della saga di Texas Chainsaw Massacre venisse intitolato
proprio al più dotato dei pazzi criminali che popolano la famiglia texana. Nasce
così il film Leatherface, diretto dal regista Jeff Burr nel 1989. Burr aveva
appena terminato le riprese di Stepfather 2, dedicato a un altro leggendario serial
killer del cinema (il “bravo” padre di famiglia, purtroppo pazzo, impersonato da
Terry O’Quinn), quando veniva reclutato per portare sullo schermo le gesta di
Leatherface.
Lo sceneggiatore del nuovo film era quel David J. Schow considerato uno dei
capiscuola dello splatterpunk, e lo script ne dimostra le doti. Pieno di umorismo
macabro, il film accetta tutti gli schemi del gore, ma infondendovi una originalità
e una capacità immaginativa in più. Come ha dichiarato il regista Burr,
“Leatherface è un film dell’orrore piuttosto brutale, ma credo che l’attenzione
prestata alla scenografia, alla psicologia dei personaggi e l’ironia onnipresente ne
facciano un film comunque molto lontano dalla produzione corrente del gore.”
[in “L’Ecran Fantastique” n.122, juin 1991]
I pochi mezzi a disposizione della casa produttrice New Line per realizzare
Leatherface hanno impedito di assoldare l’interprete originale di Leatherface,
Gunnar Lansen: dietro la faccia strappata c’è questa volta R. A. Mihailoff. Ma
nonostante il cambio di attore la carta di identità di Leatherface resta la stessa,
ed è tutto un programma. Secondo la pubblicità per il terzo episodio delle sue
avventure, Faccia di cuoio è alto due metri e due centimetri, pesa 120 chili. Segni
particolari: sarà il vostro boia.
Ma la saga non era finita. Se gli spettatori italiani nel 1990 hanno trovato
nelle sale l’apocrifo Non aprite quella porta 3 di Claudio Fragasso (Clyde An-
derson), conosciuto anche con il titolo Night Killer e che niente ha a che fare con
la celebre serie, nel 1996 ecco arrivare The Return of the Texas Chainsaw Mas-

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sacre. Questa volta Leatherface, interpretato da Robert Jacks, rivela anche ten-
denze al travestitismo, apparendo spesso in abiti femminili (ma con
l’immancabile faccia di pelle): è un dato che indica il vero intento del film, cioè
demitizzare la serie. Il compito di tradurre la saga di TTCM in una commedia
demenziale è stato assunto da Kim Henkel, l’autore del primo episodio. Pur-
troppo il risultato era fallimentare. La nuova famiglia assassina non mantiene le
promesse, nonostante l’aiuto di una presenza femminile, la sadica e depravata
Darla (Toni Perenski). Né risollevava le sorti del film la vittima principale, in-
carnanta dalla già promettente Renee Zellweger. Ridotto a pupazzo, Leatherface
si limita a piangere, urlare e roteare la solita motosega. Triste epilogo per un no-
bile serial killer.

Filmografia

1974 The Texas Chainsaw Massacre (Non aprite quella porta)


di Tobe Hooper con Gunnar Hansen

1986 The Texas Chainsaw Massacre Part 2 (Non aprite quella porta 2)
di Tobe Hooper con Bill Johnson

1989 Leatherface (in videocassetta: Non aprite quella porta 3)


di Jeff Burr con R. A. Mihailoff

1996 The Return of the Texas Chainsaw Massacre (Non aprite quella porta 4)
di Kim Henkel con Robert Jacks

Sito Internet
www.geocities.com/SunsetStrip/Palms/6923/TCM.html

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Michael

Se Leatherface copriva il suo vero volto con una maschera di pelle umana, i
serial killer del cinema non hanno disdegnato maschere più comuni. Un altro
famoso assassino di celluloide si è accontentato infatti di una maschera da
carnevale, anzi una maschera per la notte di Halloween, quando i ragazzini
americani si travestono da mostri e fantasmi per spaventare i vicini di casa e gli
amichetti.
L’assassino che ha indossato questa maschera bianca e inespressiva, fin dal
1978, è Michael Myers, creato da John Carpenter per il suo film Halloween, e
poi tornato a colpire sotto altre regie.
Michael Myers ha così poca identità che può essere interpretato ogni volta
da un attore differente. E la differenza tra gli interpreti sotto la maschera può
essere molto marcata, per età, aspetto e persino statura.
Il pubblico non è interessato alla dimensione umana di Myers, ma solo ai
suoi atti. La maschera che porta è giustamente inespressiva, come un manichino.
Solo nel primo film c’è qualche elemento individuale nel personaggio, quando ad
esempio annuisce con soddisfazione di fronte al suo ennesimo delitto. Ma
niente di più. Myers è solo una macchina per uccidere. Come il Jason della serie
Venerdì 13 e come Leatherface, anche Michael Myers non parla.
Eppure John Carpenter nel primo film della serie aveva ricostruito l’episodio
cruciale che determinerà la carriera omicida di Myers, per dare qualche spessore
psicologico al personaggio. Michael aveva solo sei anni, eppure già maneggiava
un lungo coltello: di fronte a una sorta di “scena primaria”, cioè a un rapporto
sessuale della sorella, non esita a uccidere. In questa sequenza Carpenter pone il
pubblico dal punto di vista di Myers, utilizzando la soggettiva, ma presto il
personaggio sfugge a ogni complicità dello spettatore, che torna viceversa a
palpitare per le possibili vittime del maniaco.
Il film di Carpenter era congegnato proprio come uno scherzo terribile per la
notte di Ognissanti, l’americanissimo appuntamento di Halloween. La stessa
fortuna del film è connessa con quella ricorrenza, come ci ricorda la fanzine pa-
tinata che i fan di Carpenter hanno fondato a Edgerton: “Portato nelle sale

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all’inizio dell’estate del 1978, Halloween sorprendentemente fece solo alzare
qualche sopracciglio. L’unico punto importante che gli artefici del film non ave-
vano calcolato era proprio la data di uscita. L’estate diede un risultato ovvia-
mente povero per Halloween. Non troppo preoccupati, misero subito in cantie-
re una nuova uscita, questa volta basandosi su una loro ricerca di mercato.
L’unica opportunità che rimaneva era di presentare il film qualche giorno prima
della notte di Halloween: così fecero, e la formula funzionò. A migliaia si preci-
pitarono nelle sale, ci si passava la voce e si correva immediatamente nel più vi-
cino cinema. Il film fece sensazione e vinse.” [The Night He First Came Home!,
in “The John Carpenter File!” n.8, july 1989]
Il contesto ideale per una terribile notte di Halloween sembrava proprio la
cittadina tranquilla e benestante di Haddonfield, che cambia aspetto
violentemente per fare da teatro alle imprese criminali di Myers. Poco più che
ventenne, Myers scappa dal manicomio statale dell’Illinois, e torna ad uccidere
proprio per la notte di Halloween, la notte di Ognissanti, il 31 ottobre 1978.
Anche lui mascherato, come tutti i ragazzini americani in quella notte magica,
Myers dà una interminabile caccia soprattutto alla giovane Laurie (Jamie Lee
Curtis), mentre è a sua volta cacciato dallo psichiatra Sam Loomis (il
polanskiano Donald Pleasence), che lo ha avuto in cura per quindici anni. Viene
apparentemente ucciso, più volte “resuscita”, sembra non poter morire.
Immancabilmente Myers viene riportato in vita per un secondo episodio, a
due anni dal primo. Ma nella dimensione temporale cinematografica il tempo si
è fermato, e la notte di Halloween prosegue. Myers è ancora deciso a uccidere
Laurie (che tra l’altro è la sua sorellastra), finché non muore carbonizzato in un
ospedale. I produttori dovettero pensare che le sue gesta erano difficili da
reiterare, e distribuirono un Halloween 3 che non ha nessun rapporto né con la
serie iniziata da Carpenter né con il tema del serial killer.
Ma nel 1988, a festeggiare il decennale dal primo film, con Halloween 4
Myers è di nuovo tra noi, e risorge anche quando gli sparano, lo investono ripe-
tutamente, lo gettano nel vuoto. Le ustioni riportate in Halloween 2 non lo han-
no distrutto, e Myers si rianima proprio nell’ambulanza che lo sta trasportan-
do. Dopo aver perseguitato l’adolescente nella prima puntata della saga, ora ten-
ta di uccidere una bambina dodicenne, in questa terza “avventura”: è la sua ni-

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potina Jamie, un nome che è un esplicito omaggio alla Jamie Lee Curtis che in-
terpretava la vittima prediletta di Myers nel primo Halloween.
Nonostante i tentativi dello psichiatra Loomis, il pazzo Myers tornerà a
inseguire Jamie anche in Halloween 5, questa volta aiutato da un suo simile, il
demoniaco Dr. Death. Per quanto la ragazzina percepisca il pericolo e tenti di
avvertire i suoi congiunti, nessuno la ascolta, perché la ritengono traumatizzata
dalle vicissitudini che ha attraversato. Il bagno di sangue, così, prosegue e
nemmeno le vere e proprie catene in cui viene imprigionato riescono a fermare i
delitti di Myers.
Lo scontro finale tra Michael e il dottor Loomis avviene in Halloween 6. La
nipote Jamie è morta, non senza aver dato alla luce il figlio concepito con il
micidiale Man in Black. Ma se Loomis non riapparirà più (anche perché nel
frattempo l’attore Donald Pleasence è veramente morto), Michael torna in H20
per festeggiare il ventennale della sua prima apparizione. E torna in questa
occasione anche Laurie, la sua sorellastra, che ora ha cambiato nome e si è rifatta
una vita. Il film è probabilmente il migliore della serie, dopo il capostipite, ed
evita tutti i luoghi comuni dei “sequel” o delle autocitazioni. Quanto basta per
consentire ai produttori di mettere in cantiere un futuro Halloween 8.
Coperto dalla maschera bianca, Michael Myers nei suoi sei film ha ucciso
una cinquantina di persone, e si colloca quindi tra i più micidiali serial killer
dello schermo. Tuttavia questa lunga carriera lo ha lasciato
nell’indeterminatezza, il suo personaggio non ha acquistato personalità. Nick
Castle, il primo attore che ha recitato la parte di Michael Myers, ha ben
spiegato la similitudine tra questo assassino seriale e un “pupazzo”: “Non
serviva nessuna ispirazione per interpretare Myers. E nemmeno il regista mi
poteva dare grandi idee. Se fossi andato da John [Carpenter] e gli avessi chiesto:
‘come devo recitare questo?’, lui avrebbe detto ‘cammina e basta’. Persino la
maschera recitava più di me. Interpretare Michael era più o meno una situazione
in cui dovevo entrare e uscire dalla scena, e John mi diceva fai questo o fai
quello. Mi ha simpaticamente usato come una marionetta per tutto il film.”
[Cfr. Mark Shapiro, The Shapes of Wrath, in “Fangoria” n.88, november 1989]
Questa marionetta dell’orrore, non a caso, è stata interpretata da attori diver-
si in ogni puntata. John Carpenter mise nei panni di Myers un attore che presto
sarebbe diventato un noto regista (Nick Castle ha diretto tra l’altro Il ragazzo

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che sapeva volare), ma gli altri interpreti della serie sono stati meno fortunati.
Tra l’altro, spesso si avvicendavano agli stuntman e alle varie comparse che in-
dossavano la maschera nelle scene d’azione o nelle cadute più pericolose. Così,
Myers è davvero chiunque e nessuno, come molti serial killer. E i tentavi di u-
manizzazione compiuti nel quinto capitolo della saga non hanno cambiato molto
a questo proposito. In Halloween 5 vediamo Myers togliersi la maschera e a-
sciugarsi una lacrima, e assistiamo alla interpretazione accurata di Don Shanks,
abile come mimo e quindi più a suo agio dei suoi predecessori nei panni del
serial killer mascherato.
Ma Michael Myers è rimasto un ombra, anzi “the Shape” come è stato
definito il personaggio fin dalla sua prima apparizione. Una forma indistinta.

Filmografia

1978 Halloween (Halloween, la notte delle streghe)


di John Carpenter con Nick Castle

1981 Halloween II (Il signore della morte)


di Rick Rosenthal con Dick Warlock

1988 Halloween 4: The Return of Michael Myers (Halloween 4)


di Dwight H. Little con George Wilbur

1989 Halloween 5: The Revenge of Michael Myers (Halloween 5)


di Dominique Othenin-Girard con Don Shanks

1996 Halloween: The Curse of Michael Myers (Halloween 6: La maledizione di


Michael Myers)
di Joe Chappelle con George Wilbur

1998 Halloween: H20 (Halloween, 20 anni dopo)


di Steve Miner

Sito Internet
www.halloweenmovies.com

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Jason

Banale, grossolano, dedicato al pubblico minorenne dei drive in, Venerdì 13 e


tutta la sua progenie include in sé l’intero catalogo del cinema dedicato al serial
killer. È una sorta di dossier del crimine cinematografico, che della sua serialità
fa il punto di partenza per un immenso elenco di atrocità riprese nel dettaglio.
La morte messa in scena dalla serie di Venerdì 13 è talmente ripetitiva da far
perdere ogni impatto emotivo alla trama, alla storia: quel che conta è l’attesa
della nuova trovata degli sceneggiatori per gli omicidi compiuti dal pazzo Jason
(107 vittime, secondo il conteggio effettuato dal sito web a lui dedicato). Il filo
conduttore, flebile, è proprio lui, l’assassino, ma la reiterata macelleria di cui è
capace gli fa perdere ogni identità, lo fa diventare solo un prolungamento umano
del coltello o dell’ascia, o di qualsiasi altra arma utilizzi per uccidere.
Jason è un diverso, un ragazzo handicappato che minaccia altri ragazzi. In
questo è il serial killer più reazionario, fatto per rilanciare paure conservatrici
indirizzate agli adolescenti americani.
Vuole nascondere la propria diversità e la propria bruttura, e per questo
indossa una maschera da hockey. La sua figura storpiata viene vista quasi
esclusivamente nel primo film della serie, negli ultimi fotogrammi, quando Jason
riemerge dalle acque del lago per ghermire Alice, l’ennesima vittima. Poi la
maschera calerà sul viso di Jason, e le sue fattezze diventeranno irrilevanti negli
episodi successivi della serie. Non è la sua faccia ad essere importante, perché
questo è il serial killer senza identità.
Solo nei primissimi episodi si sottolinea l’età di Jason, cioè la comunanza tra
le vittime (tutte teen-ager) e l’assassino. Poi Jason è solo un nome
convenzionale, e diventa soprattutto una maschera. Per questo motivo l’attore
che impersona Jason è cambiato nei vari film di Venerdì 13: quello che importa
sono le azioni compiute da Jason, non il personaggio che le compie.
Dalla tradizione del serial killer Jason eredita una madre pazza e assassina. È
lei, ribaltando lo schema di Psycho, che commette i delitti nel primo episodio
della serie, mentre il figlio Jason è già morto da vent’anni, annegato nelle acque

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di Crystal Lake. Quando salta fuori dal fondo del lago, Jason è poco più che una
apparizione, forse non esiste nemmeno, ma è solo immaginato dalla sua vittima.
Al contrario di Norman Bates, che uccideva su istigazione della madre morta,
nel primo Venerdì 13 è il figlio Jason, defunto, che sussurra alla madre l’ordine
di uccidere. Il suo invito “Ki... Ki... Ki... Ma... Ma... Ma...”, sintesi di “Kill,
Mommy!” (uccidi, mamma!), è diventata anche il leit motiv delle colonne
sonore di tutta la serie, in un coretto macabro scritto dal compositore Harry
Manfredini.
Ma la saga Venerdì 13, sulla base del successo del primo film, aveva bisogno
di un serial killer in carne ed ossa, per quanto avvolto da resurrezioni
soprannaturali. Così Jason risorge in L’assassino ti siede accanto, la seconda
puntata della serie. Per risolvere il problema del volto di Jason, lo si copre con
un cappuccio: la maschera da hockey non è ancora venuta in mente agli
sceneggiatori. E Jason si avvicina ancora di più al suo predecessore Norman
Bates. Ora che la madre è morta può imitare l’assassino hitchcockiano
custodendo con cura la testa avvizzita della madre, tra candele votive e offerte
rituali.
Tuttavia le efferate imprese di Jason non hanno nessuna spiegazione
psicanalitica, e del resto lui stesso è una sorta di zombi, risorto non si sa per
quale motivo. I suoi crimini sono totalmente gratuiti, se si esclude una certa
inclinazione repressiva e sessuofobica. Appena i ragazzi che si avvicinano al
suo rifugio in riva al lago trasgrediscono qualche proibizione, la mannaia di
Jason e le sue innumerevoli “armi bianche” calano su di loro, massacrandoli.
Giovanissime coppie in amore vengono trafitte, ragazzi troppo inclini agli
scherzi pesanti sono dilaniati, adolescenti che non rispettano le messe in guardia
degli adulti finiscono sventrati.
La scelta del luogo dove Jason agisce è stata una grande trovata degli
sceneggiatori. Si tratta di un bosco vicino a un laghetto, dove i ragazzi vanno in
gita. È la tipica sede per le tensioni di un adolescente: il distacco dalla famiglia, il
viaggio, i pernottamenti fuori casa, l’autonomia che è anche solitudine e paura
dell’imprevisto e del proibito.
Da coetaneo impazzito, Jason diventa incarnazione dell’immaginario puniti-
vo di adulti repressori. E allora, nel terzo episodio, cala la maschera da hockey,
per nascondere definitivamente il viso e l’età dell’assassino. Ed è questa figura

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mascherata a diventare il marchio di fabbrica della serie: con la maschera da ho-
ckey è anche la statuetta smontabile di Jason, prodotta per i fan più accaniti.
Come spesso accade quando un filone segna il passo e mostra elementi di
crisi, i produttori girarono Venerdì 13 parte III in tre dimensioni, per attrarre
con questo espediente gli spettatori che già alla seconda puntata non
mostravano un interesse travolgente per Jason. Il 3D non bastò, e si decise di
tentare l’ultima carta, il “capitolo finale”, con un quarto episodio in cui
finalmente Jason viene distrutto, grazie a un ragazzino appassionato di horror,
Tommy Jarvis.
Imprevedibile, il box office ricominciava a incoraggiare i produttori, e nel giro
di un anno apparve nelle sale il quinto capitolo di Venerdì 13. Ora l’età di Jason
non ha davvero più importanza: sotto la maschera da hockey questa volta si
nasconde un padre di famiglia, diventato folle per la scomparsa del figlio.
Con il sesto episodio, poi, la successione di delitti e di squartamenti approda
all’umorismo esplicito. La vena ironica che si era inoculata negli episodi
precedenti diventa palese humour noir. È l’ultimo scontro tra Jason e Tommy
Jarvis, il giovanotto che nei precedenti due film aveva dato del filo da torcere
all’immortale serial killer. Il film successivo, il settimo, vede una ragazza con
poteri soprannaturali nella parte dell’antagonista “buona” di Jason. Lo scenario
torna ad essere quello di Crystal Lake, ma presto i produttori faranno aggirare il
loro assassino di successo tra le strade di New York. Alle soglie degli anni
Novanta il serial killer non è più annidato nei boschi di Crystal Lake, nel motel
fuori mano gestito da Norman Bates o nel deserto del Texas della famiglia con la
sega elettrica. Il serial killer è in città, e Jason si sposta a Manhattan per
continuare i suoi delitti, nell’ottavo capitolo della serie. L’attore è Kane Hodder,
che riappare anche nella nona avventura Jason Goes to Hell: ormai Jason è
talmente cresciuto che può essere interpretato sullo schermo da un vero e
proprio gigante, un attore alto quasi due metri, ben diverso dal ragazzino
macilento e con la testa deforme che emergeva dalle acque del lago nel primo
episodio. La ricetta però è sempre la stessa, ben sintetizzata dallo sceneggiatore
Dean Lorey: “Jason come personaggio principale, un mucchio di ferite e
macelleria, un po’ di nudo: le cose che sono sempre piaciute ai fans di Venerdì
13.” [dichiarazione riportata da Marc Shapiro, I Wrote For A Zombie, in
“Fangoria” n.126, september 1993]

92
E la saga di Jason non sembra destinata a finire. Da tempo è in cantiere Jason
X e soprattutto si lavora a un futuro Jason vs. Freddy, dove i due grandi
assassini della serie Friday the 13th e Nightmare dovrebbero incontrarsi.

Filmografia

1980 Friday the 13th (Venerdì 13)


di Sean Cunningham con Ari Lehman

1981 Friday the 13th Part 2 (L’assassino ti siede accanto)


di Steve Miner con Warrington Gillette III

1982 Friday the 13th Part 3 - 3D (Week-end di terrore)


di Steve Miner con Richard Brooker

1984 Friday the 13th - The Final Chapter (Venerdì 13 capitolo finale)
di Joseph Zito con Ted White

1985 Friday the 13th Part 5 - A New Beginning (Venerdì 13: il terrore continua)
di Danny Steinmann con Richard Wiand

1986 Friday the 13th Part 6: Jason Lives (Venerdì 13 parte VI: Jason vive)
di Tom McLoughlin con C.J. Graham

1988 Friday the 13th Part 7 - The New Blood (Venerdì 13 parte VII - Il sangue
scorre di nuovo)
di John Carl Buechler con Kane Hodder

1989 Friday the 13th Part 8: Jason Takes Manhattan (Venerdì 13 parte VIII.
Incubo a Manhattan)
di Robert Hedden con Kane Hodder

1993 Jason Goes to Hell: The Final Friday (Venerdì 13 parte IX: Jason va
all’inferno)
di Adam Marcus con Kane Hodder

Sito Internet
www.fridaythe13thfilms.com

93
Freddy

Il personaggio di Freddy Krueger nasce grazie al regista Wes Craven. Sfuggito a


una dura educazione calvinista, Craven giunge negli anni Settanta alla notorietà
con L’ultima casa a sinistra (1972), un film prodotto proprio da quello stesso
Sean Cunningham che in veste di regista ha inaugurato la serie Venerdì 13 (e del
resto Craven e Cunningham avevano lavorato insieme anche per un vecchio
documentario sexy: il nesso con il porno è una costante tra gli autori di film
“alla lama di coltello”).
L’intuizione seriale di Craven ha avuto tanto successo che non solo le
imprese di Freddy sono arrivate alla sesta puntata cinematografica, ma si sono
installate anche sullo schermo televisivo con una serie di telefilm in cui
l’assassino dal volto ustionato è volta a volta protagonista e
ospite/presentatore.
Freddy Krueger è il maniaco di Elm Street, una strada di villini per bene della
cittadina di Springwood, è il criminale che uccideva e torturava bambini. Freddy
ritorna dopo venti anni, per continuare ad uccidere impiantandosi nei sogni di
adolescenti, e per continuare a spaventare i bambini che cantano filastrocche sul
suo nome (sulla base di un motivetto scritto dallo stesso Wes Craven).
Per colpa dell’assassino che ossessiona i sogni a poco a poco Springwood si
spopola, non nascono più bambini, gli adolescenti diminuiscono. Con il suo
volto ustionato, dopo che i genitori delle sue vittime gli hanno dato fuoco in una
caldaia, Freddy incarna le paure dell’inconscio, i terrori che riemergono nei
“brutti sogni”, il pericolo che attraversa le menti di bambini e adolescenti, senza
abbandonarli nemmeno da adulti. Freddy è l’orco dei primi incubi infantili, ma
anche la paura concreta che si installa nella vita quotidiana: è l’autista di
pullman impazzito che porta alla catastrofe, per esempio.
Non solo ciò che Freddy fa è terribile, ma anche ciò che Freddy è, soprattut-
to a causa del viso sfigurato dalle bruciature, opera del mago del make up David
Miller, già curatore di Terminator. La “maschera” di Krueger, tra l’altro, peggio-
rerà nell’orrore nel corso degli episodi successivi della serie, fino a rivelare per-
sino un cervello semiesposto, grazie al talento congiunto di Kevin Yagher e

94
Mark Shostrom, poi di David Miller. Da complicato trucco facciale, che neces-
sitava di ore ed ore di lavorazione, la maschera di Freddy Krueger si va facendo
sempre più semplice da applicare, anche per accelerare i tempi di produzione
delle innumerevoli sequele. I più acuti appassionati della serie Nightmare in Elm
Street riescono persino a riconoscere dalle fotografie di Freddy le differenze tra
le varie puntate, identificando i cambiamenti occorsi nel naso, nel cranio, nelle
ustioni, nel collo...
Se i parenti cinematografici di Freddy necessitano in genere di una semplice
maschera calata sul volto (da manichino per Myers, da hockey per Jason, di
pelle cucita per Leatherface), il protagonista dei delitti in Elm Street è
inseparabile dal suo viso devastato dalle fiamme. Per il terzo episodio della
serie, ad esempio, furono utilizzati materiali davvero particolari per il make up,
“la Plastilina Roma (un’argilla molo costosa), una verniciatura in Alcote, varie
sezioni in schiuma di lattice, ben 355 zone auto-adesive, oltre ai più tradizionali
trucchi e cerone per armonizzare il tutto.” [dal dossier Freddy Krueger,
compagno infernale, in “Nosferatu” n.3, settembre 1990]
L’arma prediletta da Freddy Krueger è un guanto metallico con
prolungamenti in lame d’acciaio, inventato dall’esperto di effetti speciali Jim
Doyle. Con gli artigli di questo guanto a lame, che ha costruito da sé, Freddy
devasta le camere da letto, lacera stoffe e carne. E con i suoi poteri
soprannaturali deforma orrendamente i corpi delle vittime, entra negli oggetti
(celebre la sequenza in cui la sua lingua spunta nel microfono del telefono). La
sua cattiveria è tale che crea delle pizze con i volti delle sue vittime.
Chi è stato ammazzato da Freddy continua ad albergare nel suo corpo,
appare imprigionato nel suo stomaco, piange e si dibatte nella gola e nel torace
dell’assassino. E viceversa Freddy abita i corpi di chi vuole perseguitare, può
apparire all’improvviso dall’interno di una vittima, fuoriuscendone
orrendamente. Non si ferma di fronte a nulla, e arriva a infierire su un sordo,
staccandogli un orecchio e torturandolo con il suo stesso apparecchio acustico.
La forte personalità dell’assassino della serie Nightmare in Elm Street neces-
sitava di un interprete all’altezza del compito. Per questo buona parte del meri-
to per il successo della serie va a Robert Englund, che ha incarnato Freddy fin
dalla sua prima apparizione. Identificato completamente con il personaggio, En-
glund ha però giocato con la sua “tipizzazione” senza le preoccupazioni di tanti

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altri attori. Ma anche per Englund, arrivato ormai al settimo film della serie, so-
no sorte alcune complicazioni. L’attore ha dichiarato: “Io padroneggio sostan-
zialmente il personaggio, tanto che mi sto dimenticando di recitarlo. Quando so-
no sotto quel trucco, mi sento come se potessi dire qualsiasi cosa a chiunque.
Quando sono Freddy, posso bestemmiare davanti ai bambini e poi andarmene
via. Una volta che Nightmare è finito, se io bestemmio davanti ai bambini pro-
babilmente finisco in manette.” [dichiarazione raccolta da Marc Shapiro,
Freddy’s Dead, in “Fangoria” n.107, October 1991]
Freddy Krueger è stato il primo serial killer cinematografico a diventare
oggetto di culto, con i suoi fan club, la moltiplicazione di gadget e oggetti da
collezionare legati alla figura dell’assassino, la dedizione all’attore che lo
interpreta. Sono andati in commercio pupazzi montabili di Freddy, giochi da
tavolo dedicati alle sue imprese omicide, maschere in lattice con le sue fattezze.
La fotografia di Freddy Krueger in copertina è stata una garanzia di vendite
assicurate per tutte le riviste specializzate, in America come in Europa. E
l’attrattiva del serial killer che abita negli incubi non si è ancora prosciugata, il
rituale delle sue continue resurrezioni è forse destinato a continuare.
Di fronte a Krueger si ha paura (perché può apparire ovunque, capace di
metamorfosi come è) ma si ha anche complicità piena.
In un cinema di Baltimora dove ho visto la prima di Nightmare 4, ad
esempio, la platea incitava il nostro assassino, durante le sue più terribili azioni,
al grido di “Fred-dy! Fred-dy!”. E gli sceneggiatori hanno capito questa
complicità tra lo spettatore e l’omicida, facendo rivolgere Freddy direttamente
al pubblico con ammiccamenti e strizzate d’occhio.
Il Freddy di Englund destava complice simpatia già nella prima pellicola della
serie, quando si accanisce sugli amici della giovane Nancy Thompson. E Freddy
è un serial killer che risorge: nel secondo episodio torna a Elm Street, nelle stes-
se abitazioni che aveva già sconvolto con le sue imprese precedenti, e si impa-
dronisce dei sogni e del corpo di una ragazzina, violando l’intimità di una cop-
pietta di innamorati. In un itinerario di avvenimenti senza grande rispetto per gli
spostamenti temporali, il terzo episodio vede poi una Nancy cresciuta e diven-
tata dottoressa. Grazie alla sua esperienza “sul campo” si prende cura di altri
ragazzi che sognano orrori. Una suora rivela a lei e al suo assistente la vera sto-
ria di Freddy Krueger, contribuendo ad accentuare lo scavo “psicologico” del

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personaggio. Scopriamo così che Freddy è il frutto di una violenza di gruppo su
una suora da parte di alcuni internati in un manicomio...
Grazie a una fanciulla dotata di poteri soprannaturali che agiscono, come
quelli di Freddy, nel sogno, il mostro che abita negli incubi viene sgominato e
seppellito, ma presto tornerà a uccidere e perseguitare gli adolescenti,
risorgendo dalla terra di uno sfasciacarrozze: nel quarto episodio è una ragazza
con il significativo nome di Alice a ricacciare Freddy nell’aldilà, dopo aver
introiettato le energie benefiche dei propri amici ammazzati dal serial killer. Nel
quinto episodio la stessa Alice viene addirittura ingravidata da Freddy, dopo
aver perso il fidanzato per mano del mostro. E in questa puntata non poteva
mancare una apparizione della mamma di Freddy, in forma di spettro, dato che
tutti i serial killer cinematografici prima o poi svelano un’infanzia difficile, un
rapporto incestuoso con la madre.
Le dita a rasoio di Freddy tornavano nel sesto episodio, minacciando sia i
soliti teen-ager che alcuni adulti, tanto per allargare il target degli spettatori. Nel
film, diretto da una donna (Rachel Talalay, che ha seguito la troupe della serie
fin dall’inizio, a fianco di Craven), come alla conclusione di una psicoterapia
sarà uno psichiatra a determinare la sconfitta di Freddy, aiutando una
protagonista del film a ripercorrere il proprio passato e a liberarsi di ciò che la
ossessiona.
In questo episodio, insieme alla consueta quantità di corpi smembrati si
assiste a un viaggio in tre dimensioni nel cervello di Freddy: è l’estrema
conferma di quanto la serie Nightmare sia il tipico prodotto del cinema horror
degli anni Ottanta, che affidava le sue fortune soprattutto agli effetti speciali
sempre più sofisticati. Così, a fianco degli esperti di make up per la faccia di
Freddy, la serie ha avuto bisogno di un team composito di artisti degli effetti
speciali, mettendo al servizio dei vari Nightmare diversi studi specializzati,
quasi sempre coordinati da John Buechler.
Con Freddy Krueger il cinema fantastico (fondato sull’irrealtà) e lo psycho-
thriller (che ha bisogno di crudezza materiale) si incontrano e si fondono. Robert
Englund, ormai celeberrimo come interprete di Freddy, ha spiegato meglio di o-
gni altro questa fusione, in una intervista apparsa sul periodico francese
“Vendredi 13” (titolo di cui è inutile sottolineare la sintomaticità): “Alla base
del successo di Freddy credo vi sia il fatto che si tratta di un essere sovversivo

97
con una certa sensibilità punk. Freddy è diventato un simbolo: in camera si af-
figgono suoi poster. Credo che sia a causa del suo look, con il suo cappello flo-
scio e il suo volto bruciato. Non dimentichiamo poi il suo senso dell’umorismo.
Tutti questi elementi si alleano all’aspetto illusione/realtà dei film... C’è una sor-
ta di atmosfera tipo Ai confini della realtà, dove non si sa più se ci si trova in un
sogno o nella dimensione reale. Arriverei a dire che è questa la ragione principale
del successo di Freddy.” [Un succes a double tranchant, in “Vendredi 13” n.6,
décembre 1988]
E proprio il sovrapporsi tra realtà e illusione è stata al centro di Nightmare:
nuovo incubo, con il ritorno di Wes Craven alla regia. Il film immagina che si stia
per girare una nuova pellicola della saga di Freddy, e mette in scena un’attrice
apparsa nei primi episodi della serie, lo stesso Englund e il regista Craven. I
preparativi del nuovo film, però, sono turbati dagli incubi dell’attrice, in cui le
appare la figura persecutoria di Freddy. E così, nel gioco tra i due piani del reale
e dell’irreale, Freddy si prende l’ultima vittoria, sconvolgendo definitivamente
ogni certezza sulla distinzione tra fiction e realtà.

Filmografia

1984 A Nightmare on Elm Street (Nightmare, dal profondo della notte)


di Wes Craven

1985 A Nightmare on Elm Street 2: Freddy’s Revenge (Nightmare 2, la rivincita)


di Jack Sholder

1987 A Nightmare on Elm Street 3: Dream Warriors (Nightmare 3: I guerrieri del


sogno)
di Chuck Russell

1988 A Nightmare on Elm Street 4: The Dream Master (Nightmare 4: Il non


risveglio)
di Renny Harlin

1989 A Nightmare on Elm Street 5: The Dream Child (Nightmare 5: il mito)


di Stephen Hopkins

98
1991 Freddy’s Dead: The Final Nightmare (Nightmare 6 - La fine)
di Rachel Talalay

1994 Wes Craven’s New Nightmare (Nightmare: nuovo incubo)


di Wes Craven

n.b.: in tutti i film Robert Englund interpreta Freddy

Sito Internet
ww.nightmareonelmstreet.com

Hannibal

Con la commistione definitiva tra il thriller e l’horror, realizzata dalla serie


Nightmare in Elm Street, con il connubio tra il film alla lama di coltello
impiantato nella concretezza del delitto e il fantastico sfrenato, si aprivano gli
anni Novanta. Ogni genere e ogni tradizione del passato sembravano in sé
esauriti, e trovavano linfa solo nella contaminazione reciproca e nell’intreccio tra
i propri temi costitutivi. Arrivati a questo punto limite, si apriva un periodo per
inventare finalmente qualcosa, e non limitarsi al riciclo e alla illimitata
riproposizione seriale.
Con Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme, e con il trionfo del re di
tutti i serial killer, Hannibal Lecter, si voltava finalmente pagina. Nato dalla
penna di Thomas Harris, nei due romanzi Red Dragon e The Silence of the
Lambs, Hannibal Lecter è uno psichiatra e un cannibale, ed è confidenzialmente
chiamato “Hannibal the Cannibal”: non a caso, il terso episodio letterario che lo
vede protagonista prenderà il suo nome come titolo, semplice ed esplicito,
Hannibal.
Hannibal Lecter ha al suo attivo già tre apparizioni cinematografiche, tra loro
però incommensurabili. La prima apparizione è stata in Manhunter di Michael
Mann, dove si limitava a qualche consiglio da esperto della psiche umana, chiu-
so in una prigione di stato. Il vero serial killer protagonista di Manhunter non e-
ra Lecter, ma un gigante pelato e iperviolento. Il Lecter di Mann era interpretato

99
dall’attore Brian Cox, e appariva vestito di bianco, in una tuta da carcerato, im-
prigionato senza speranza nella propria cella.
Con la regia di Jonathan Demme, invece, Lecter acquista le fattezze di
Anthony Hopkins, e si dimostra superiore al suo predecessore già per le
caratteristiche della propria prigione. Lecter/Hopkins, infatti, è rinchiuso in una
gabbia di vetro, inventata dallo stesso Demme in collaborazione con la
scenografa Kristi Zéa. La prigione di Lecter non poteva avere tradizionali
sbarre, e i suoi colloqui con l’esterno non potevano avvenire in un banale
parlatorio, troppo visto nei film gialli di tutti i tempi. Per un criminale
straordinario come Lecter serviva una cella speciale. Da questo confinamento
totale, fuori dal mondo che si sente minacciato dalla sua diversità pericolosa,
Lecter agisce e condiziona.
Hannibal Lecter è il primo serial killer che aiuta la cattura di un suo simile, il
pluriomicida Gumb, detto Buffalo Bill, ossessionato dalla sua incerta sessualità
e impegnato quindi a scuoiare donne per cucirsi una pelle di donna sulla propria.
Ma Gumb è l’esatto opposto di Lecter. Isterico quanto Lecter è tranquillo e
freddo, tormentato quanto Lecter è lucido e a suo agio nei panni di cannibale,
rozzo e volgare quanto Lecter è sopraffino ed educato.
Né la collaborazione che Lecter offre alla polizia per scoprire l’identità di
Buffalo Bill è un cedimento ai buoni sentimenti o un patteggiamento con chi lo
tiene prigioniero. No, si tratta di una sfida. E verso le autorità che lo tengono in
gabbia Lecter non è certo tenero. I due poliziotti che lo custodiscono vengono
uccisi a morsi e spellati, il suo aguzzino principale scapperà per il mondo dopo
l’evasione di Lecter, nell’incubo di esserne divorato.
L’Hannibal Lecter di Hopkins è un altro serial killer disgustoso e
affascinante, un mostro che attrae. Perfettamente realistico e privo di lati
soprannaturali, Lecter contemporaneamente incarna il Male, il diabolico. È uno
scienziato, uno psichiatra, dal quale ci si attenderebbe la cura, la guarigione dei
nostri mali. E invece questo dottore ha ribaltato il suo ruolo, evidenziandone
forse proprio i caratteri più veri e più nascosti insieme.
E al contrario di altri serial killer, quasi sempre giovani, Lecter è un signore di
mezza età. La scelta di Anthony Hopkins si è rivelata perfetta, con quegli occhi
chiari penetranti e vacui nello stesso tempo, con la calma glaciale, la voce
educata, e poi gli scatti improvvisi di agilità e di crudeltà.

100
Hannibal Lecter e Anthony Hopkins sono diventati ormai inseparabili, in
particolare dopo il controverso sequel Hannibal diretto da Ridley Scott, anche
se sono state notate alcune fondamentali differenze con altre, passate
identificazioni tra attore e ruolo. Scrive Didier Allouch: “Voi non tratterrete
niente di Hopkins uscendo dalla sala. Colui che ossessionerà le vostre notti,
colui che lascerà in voi un’indicibile traccia di terrore, colui il cui sguardo vi
fisserà nell’oscurità, non è Anthony Hopkins, è Hannibal Lecter, Hannibal il
Cannibale, il più invitante degli incubi a occhi aperti.” [D. Allouch, Hannibal le
Cannibale un Killer pas Psycho, in “Impact” n.32, avril 1991]
Perfetto cannibale, il suo rapporto con l’altro è estremamente violento:
Lecter uccide l’altro, e poi lo mangia. Nei suoi delitti, poi, sprigiona tutta la
creatività del genio, l’immaginazione dell’intellettuale raffinato che ama l’Italia,
la pittura antica, il buon vino. E che si diletta a cucinare il cervello delle vittime
tenendole in vita e facendole assistere alle sue prodezze gastronomiche (come
accade allo sventurato Ray Liotta in Hannibal).
Perfetto psichiatra, Lecter sa capire l’altro da pochissimi indizi, sa catalogare
e quindi manipolare dopo un solo sguardo. Lo dimostrano i dialoghi e le intese
con Clarice Starling (interpretata da Jodie Foster e poi da Julianne Moore),
giovanissima agente dell’Fbi e vera eroina dei due film. Alla fine il rapporto tra
Lecter e la Starling è di intimità, di complice intesa, quasi di amore, sottolineato
dallo sfiorarsi delle loro mani in una delle sequenze più belle del primo film.
Lo psichiatra cannibale scopre i segreti di Clarice fin dal primo incontro, a
poco a poco la sottopone a una “analisi”, da vero psicoterapeuta, senza
nascondere in Hannibal gli effetti di un immancabile transfer. Lecter dimostra di
conoscere la psicologia femminile alla perfezione, anche quando interagisce con
un’altra donna del film, la madre senatrice di una delle vittime di Buffalo Bill.
Disturbante, sgradevole, capace di non rifuggire dall’esposizione cruda di ca-
daveri putrefatti e morsi cannibalici, Il silenzio degli innocenti è riuscito ciò no-
nostante a vincere una valanga di premi oscar. Eppure il film non apparteneva
certo alla schiera di pellicole rassicuranti, perbeniste e banali che i giurati degli
Academy Awards sembrano di solito preferire. Jonathan Demme ha da parte
sua sempre privilegiato i migliori B movies, gli autori misconosciuti, tanto che
ha voluto rendere omaggio al grande regista di La notte dei morti viventi, George

101
Romero, facendolo apparire brevemente al fianco di Jodie Foster dopo un in-
contro della ragazza con Lecter.
Ma la sorpresa per i riconoscimenti “ufficiali” ottenuti dal film ha anche altre
motivazioni. Il silenzio degli innocenti è uno dei rarissimi film americani del
terrore in cui il serial killer non muore, ma evade e continua a uccidere. E lo
stesso avviene alla fine di Hannibal, per quanto con un Lecter non più
fisicamente integro.
Il finale del primo film non aveva precedenti per trasgressione alle regole del
genere, con Lecter in vestito chiaro e cappello estivo, che sta per “avere per
cena un amico” (il suo ex-carceriere), in un gioco di parole allusivo a un nuovo
pasto cannibalico. Anche i serial killer cinematografici che chiedevano
complicità allo spettatore dovevano sempre morire alla fine del film, magari per
risorgere in una nuova puntata, ma comunque eliminati dai nostri incubi almeno
fino al film successivo.
Lecter invece è ancora, e sempre, tra noi.

Filmografia

1986 Manhunter (id.)


di Michael Mann con Brian Cox

1991 The Silence of the Lambs (Il silenzio degli innocenti)


di Jonathan Demme con Anthony Hopkins

2001 Hannibal (id.)


di Ridley Scott con Anthony Hopkins

Sito Internet
hannibal.n3.net

102
Henry

Il tratto di unione tra gli assassini immaginari del cinema fantastico e la cronaca
nera più brutale è offerto da Henry – Portrait of a Serial Killer, un film del 1986
diretto da John McNaughton, che venne distribuito in America con quattro anni
di ritardo ed è stato riproposto nelle sale con discreto successo solo dopo i
trionfi del Silenzio degli innocenti. Ma nei festival specializzati, e tra il popolo
dei cinefili horror, Henry mieteva da più tempo i dovuti riconoscimenti (nel
1990 ha ottenuto il premio per la migliore regia al festival di Sitges, e l’anno
dopo ha vinto il festival di Bruxelles).
Così, a cinque anni dalla realizzazione, Henry è diventato un cult e si è
conquistato un posto d’onore tra gli assassini seriali cinematografici e non ha
mancato di suscitare il ribrezzo delle anime belle: Nanni Moretti ha enfatizzato
il suo disgusto per questo film inserendo una battuta contro Henry nel suo Caro
diario.
Costato solo 100.000 dollari, il film di McNaughton narra le imprese di un
vero serial killer, Henry Lee Lucas (morto di infarto in carcere, nel marzo 2001),
e del suo complice Ottis Toole. Una coppia veramente terribile, e destinata agli
annali del crimine di tutti i tempi. Henry Lee Lucas si è autoaccusato di 360
omicidi, e c’è chi è arrivato ad imputare ai due assassini un totale di quasi mille
vittime. Ma forse siamo già nel terreno delle leggende metropolitane.
L’Henry del film ha il volto comune e banale dell’attore Michael Rooker, e
una cadenza dialettale nella pronuncia. È uno dei tanti sbandati che popolano le
nostre città, senza nessuna caratteristica evidente, nessuna trasgressione
marcata. All’inizio assomiglia a un James Dean di provincia, solitario e
disincantato.
Meno efficaci, invece, gli interpreti degli altri due film che hanno messo in
scena le terribili imprese di Henry. Henry: Mask of Sanity si presenta come un
diretto sequel del primo film. Ritroviamo Henry “al lavoro”, intento a commet-
tere omicidi nonostante abbia trovato una coppia che lo ospita benevolmente
senza sospettare la sua vera natura. L’attore che interpreta Henry ha una vaga
somiglianza con Rooker, ma non eguaglia il predecessore. Senza legami con il

103
film di McNaughton, ma direttamente ispirato alla vera storia di Henry Lee Lu-
cas (anche se gli è stato cambiato il nome in Daniel Ray Hawkins), è invece
Confessions of a Serial Killer, assurdamente pubblicizzato con un poster in cui
appare un uomo che indossa la maschera di contenzione di Hannibal Lecter in
Silence of the Lambs. Girato un anno dopo Henry, il film ha avuto a sua volta
delle traversie distributive ed è apparso solo nel 1993, esclusivamente in video-
cassetta. Attraverso la confessione del serial killer si torna indietro alla sua pri-
ma giovinezza, permettendo di comprendere le radici della sua follia omicida.
Per il resto, gli omicidi assomigliano molto a quelli del film capostipite.
Ma torniamo a Henry – Portrait of a Serial Killer, perché è questa la
pellicola che ha lasciato un segno nell’immaginario. Apparentemente tranquillo,
Henry svolge il suo mestiere: disinfesta le case da insetti e topi. Nel tempo
libero, con la stessa imperturbabilità, uccide tanto delle malcapitate prostitute
quanto intere famiglie. Tra i grandi mostri dell’immaginario, quindi, Henry
assomiglia soprattutto al licantropo, che sente sorgere in sé una bestialità
incontenibile, e si tramuta in un essere sanguinario. Ma del licantropo Henry
non ha certo i tormenti interiori, il disgusto per le sue azioni incontrollabili: tra
normalità e delitto, in Henry, c’è perfetta continuità. Quando si guarda allo
specchio, non ci sono peli che crescono sul suo volto o mutazioni orribili in
bestia: la sua espressione è sempre la stessa, la sua follia è sempre presente,
inamovibile.
Henry però non perde il controllo, anche quando sente l’irrefrenabile
impulso alla violenza. Ha sviluppato un suo specifico metodo criminale, perché
non agisce mai nello stesso luogo né con la stessa tecnica di omicidio. Ed è un
serial killer da manuale: uccide senza nessun motivo, preferibilmente persone
del tutto sconosciute (ma in momento di confidenza ammette di avere
ammazzato anche la propria madre...).
I delitti di Henry iniziano nelle strade degradate di Chicago, e poi si irradiano
in un viaggio mortale che attraverso lo spostamento in automobile trasporta
morte: la morte data dall’assassino è punteggiata dalle autostrade, come la morte
subita dalle vittime le cui carcasse vengono caricate in auto e poi gettate sulla
strada come spazzatura, come detriti. Henry, del resto, non potrebbe che esse-
re americano: “Se la Vecchia Inghilterra è stata la ‘culla’ ideale dei mostri solitari
e sanguinari ottocenteschi – che hanno trovato nel romanzo gotico la loro aulica

104
celebrazione – l’America, nuova Terra Promessa del successo e
dell’industrialismo rampante, con le sue contraddizioni e schizofrenie, rappre-
senta ormai da parecchio ‘l’ambiente naturale’ dei maniaci assassini di fine mil-
lennio.” [Aldo Musci, Orrori metropolitani, in “Ordine pubblico” n.9, settem-
bre 1992]
Questi assassini metropolitani degli States possono essere degli yuppie
annoiati, come nel romanzo di Bret Easton Ellis American Psycho e nel film
omonimo di Mary Harron, ma possono essere anche figure di neo-proletariato e
di emarginazione come Henry. Il delitto seriale, insomma, si dimostra
pienamente interclassista. Ma Henry è a suo modo un genio del crimine, e
contemporaneamente una vittima della sua stessa pazzia. Il percorso di sangue
di Henry sembra senza fine, e arriva a sterminare anche gli ultimi partner, le
uniche persone che sembravano contare qualcosa per l’assassino. La solitudine
torna ad essere globale, resa sempre più tale dalle esplosioni psicotiche di
violenza che Henry non può dominare, nonostante il superficiale cinismo e la
lucidità nel non lasciare tracce.
Come si è detto, Henry ha il volto comune di qualsiasi drop-out che si aggiri
nelle metropoli, ma l’abilità del regista McNaughton è stata nel dedicarsi con
cura anche alla definizione più avanzata del ruolo delle vittime. Nel film Henry
si ribalta infatti una consuetudine del cinema horror imperniato su assassini
seriali: non è tanto il serial killer ad essere inessenziale nell’identità e persino nel
volto, ma è la vittima ad essere nulla. Se attori diversi hanno potuto recitare la
parte di Jason o di Leatherface, in Henry tre vittime femminili sono tutte
interpretate da una stessa attrice (da uno stesso corpo), Mary Demas. Quel che
conta è vedere delle membra martoriate, non un viso dotato di espressione
individuale o di una identità. Il vero serial killer non sa “che faccia abbia” la sua
vittima.

Filmografia

1986 Henry - Portrait of a Serial Killer (Henry Pioggia di sangue)


di John McNaughton con Michael Rooker

105
1987 Confessions of a Serial Killer (id.)
di Mark Blair con Robert A. Burns

1996 Henry: Mask of Sanity


di Chuck Parello con Neil Giuntoli

Sito Internet
www.houseofhorrors.com/henry.htm

Progenie di assassini seriali:


Scream e company

Il modello del film su un serial killer che dà origine a uno o più sequel, creando
una catena di episodi, seriali come gli omicidi su cui si incentra, ha avuto in anni
recenti una nuova impennata.
Il merito per questa rinascita del serial killer cinematografico è di Kevin
Williamson, giovane sceneggiatore che ha convinto la americana Dimension
Films, filiale della Miramax, a riesumare il filone affidando a Wes Craven la regia
di Scream. Il successo straordinario di Scream e dei suoi due seguiti ha avviato
una nuova stagione di serial killer a caccia, preferibilmente, di giovani prede.
Il trionfo tra il pubblico del primo episodio di Scream è stato una sorpresa,
anche perché il film aveva una sola star da grosso budget, Drew Barrymore (che
però muore all’inizio del film), la stellina emergente Neve Campbell come
personaggio principale (nella parte di Sidney Prescott), e varie facce televisive,
che culminavano in Henry Winkler, già Fonzie nei telefilm della serie Happy
Days, ma non più sulla cresta dell’onda.
In realtà Scream compiva il miracolo di rivolgersi contemporaneamente ai
cinefili (solleticati dal gioco continuo di citazioni) e al pubblico adolescente (che
si può identificare nei ragazzi del college di una cittadina californiana). E per
questo miracolo non servivano grandi investimenti produttivi, ma solo idee
originali.
Fin dalle prime sequenze incontriamo un serial killer appassionato di cinema
horror, che sottopone a quiz telefonici le sue vittime. La prima a cadere è una

106
ragazza che non sa rispondere a una domanda su Venerdì 13, poi seguiranno
svariati delitti, tutti ispirati ai film più celebri del genere. La strada scelta è
quella della giustapposizione di situazioni umoristiche e ironiche con classiche
scene di omicidio. Ma soprattutto con un continuo gioco di citazioni e persino
autocitazioni (Wes Craven fa una breve comparsata e non mancano le allusioni
alla sua serie Nightmare). Si citano icone del terrore visuale (l’assassino agisce
coperto da una maschera ispirata a L’urlo di Edward Munch) e cinematografico
(nel finale, ad esempio, i delitti di Halloween si confondono con quelli di Scre-
am).
Nella serie Scream il tratto d’unione non è l’assassino, ma la vittima
mancata. Il viso di plastica di Neve Campbell ritorna in tutta la trilogia, mentre
dell’assassino torna solo la maschera, indossata da altri carnefici. C’è in realtà
un ulteriore passaggio di fase nell’identificazione tra lo spettatore e l’assassino.
Chi guarda il film apparentemente si colloca dal punto di vista della vittima, ne
condivide le paure. In realtà, a ben analizzare, lo spettatore si trova nella stessa
condizione dell’assassino: vede la vittima senza essere visto. Noi vediamo,
come l’assassino nascosto, la vittima che risponde al telefono, ne seguiamo gli
spostamenti, esattamente come il killer. Lo spettatore, dunque, viene posto in
una situazione intermedia, tra l’assassino e la vittima: non sa dove si nasconde o
chi è l’assassino, ma osserva chi sta per morire, proprio come l’assassino.
Tuttavia lo sceneggiatore Kevin Williamson ha sottolineato in particolare i
lati umoristici delle situazioni-tipo del filone. Uno dei protagonisti, ad esempio,
urla: “Non uccidermi, voglio tornare in un sequel!”. La strada parodistica sarà
accentuata in Scream 2, dove ricompaiono alcuni degli attori del primo episodio
e dove si ripresentano le citazioni (una tv trasmette Nosferatu di Murnau). Tut-
to comincia in una multisala cinematografica mentre si proietta Stab, un film che
narra le stesse vicende del primo Scream: ed ecco che la sovrapposizione di
piani, cara a Craven, compare subito, con un omicidio che avviene contempora-
neamente a quello che si vede sullo schermo della multisala. Il meccanismo si
moltiplica, poi, con Scream 3, sempre diretto da Craven, ma questa volta con
una sceneggiatura di Ehren Kruger, basata sui personaggi creati da Kevin Wil-
liamson. Dalla sala cinematografica che proiettava Stab si passa agli studios
hollywoodiani dove si sta girando Stab 3, un ulteriore film che si basa sugli orri-
bili delitti della cittadina di Scream, perfettamente ricostruita sul set. C’è di

107
nuovo Sidney Prescott, che ora vive solitaria tra i monti del Nord California,
sempre ossessionata dalla morte della madre. E ci sono di nuovo i delitti, che
coinvolgono gli attori del film in lavorazione.
Scream 3 accentua gli elementi farseschi della serie, ma non rinuncia a
strizzare l’occhio al cultore di horror. Vengono persino enunciate le tre regole
dello “slasher movie”. Uno: l’assassino ha sempre qualcosa di soprannaturale
che può impedire di ucciderlo o eliminarlo definitivamente. Due: non c’è
personaggio che non possa morire, anche il protagonista principale. Tre: tutto
deve essere spiegato da un avvenimento accaduto in precedenza, nel passato.
Effettivamente, queste sono le regole che abbiamo incontrato nelle grandi saghe
del serial killer cinematografico: valgono certamente per le serie Venerdì 13,
Halloween e Nightmare, mentre la prima delle tre regole non è rispettata dalle
storie di Norman, di Hannibal e di Henry, troppo realistiche per consentire
virate soprannaturali. E nemmeno la serie Scream, a ben vedere, rispetta le tre
regole, perché – in perfetto stile craveniano – si colloca piuttosto nella zona di
confine tra fiction e realtà.
In questo senso, hanno destato scalpore le notizie secondo cui la serie
Scream avrebbe anche originato dei veri delitti, confermando drammaticamente
di basarsi sull’intreccio tra realtà e finzione. Nell’aprile 2000, a Fontenay-aux-
roses (alla periferia di Parigi), un sedicenne appassionato di film dell’orrore ha
accoltellato i genitori dopo aver visto Scream 3 al cinema. Appena tornato dalla
proiezione, così almeno raccontano i giornali, il giovane Nicolas ha indossato
cappa nera e maschera bianca come l’assassino di Scream, poi si è nascosto e ha
atteso il rientro di mamma e papà. Dopo averli accoltellati e lasciati morenti in
un lago di sangue, il ragazzo è saltato dalla finestra della sua camera ed è
scappato. Ma al contrario che sullo schermo, i due genitori feriti si sono salvati
e il giovane assassino è stato catturato.
Queste ripercussioni sulla cronaca nera non hanno però fermato la creatività
di Kevin Williamson. Prima di passare dietro la macchina da presa per dirigere
Killing Mrs Tingle (2001), dedicato a una sua professoressa di inglese che lo
perseguitava da ragazzo, Williamson infatti ha creato un altro serial killer che
torna in due episodi: Ben Willis, vestito da pescatore, con impermeabile e cap-
pellone nero e dotato di uncino micidiale. Il suo esordio è in So cosa hai fatto (I
Know What You Did Last Summer), regia di Jim Gillespie,al suo primo film.

108
Anche qui, come per Scream, gli interpreti sono stati scelti tra le giovani star
della tv, in particolare Sarah Michelle Geller, popolare per il suo ruolo di Buffy,
l’ammazzavampiri, o come la formosa Jennifer Love Hewitt, già cantante.
Per festeggiare la ricorrenza del 4 luglio, quattro ragazzi del North Carolina
appena diplomati fanno baldoria in riva al mare, amoreggiando, bevendo e
raccontandosi leggende metropolitane spaventose. Al ritorno, investono uno
sconosciuto, ma decidono di non denunciare il fatto: tutti d’accordo, buttano il
corpo in mare. Un anno dopo, ecco arrivare ai quattro delle lettere anonime dove
si dice “so cosa hai fatto l’estate scorsa”. Ed ecco cominciare i delitti. Un buon
assassino non si lascia troppo a riposo, e infatti Willis torna a colpire in Incubo
finale, dove riappare Jennifer Love Hewitt nella parte della ragazza scampata
alla morte, ma ora perseguitata da orribili incubi.
Sull’onda del successo di Scream e di So cosa hai fatto, due giovanissimi, il
regista Jamie Blanks (26 anni) e lo sceneggiatore Sylvio Horta (24 anni), hanno a
loro volta tentato di rilanciare il mito del killer mascherato con Urban Legend.
Questa volta il massacratore è nascosto dal cappuccio di una giacca a vento, che
indossa anche fuori stagione. Il cliché è quello consueto degli studenti minacciati
da un misterioso assassino. In questo caso siamo condotti in una immaginaria
università del New England dove ci sono tutti i “tipi” classici di queste storie
giovanilistiche, la studentessa secchiona, quella sexy, il bel ragazzo, il
giovanotto che fa gli scherzi, ecc. A metterli di fronte ai pericoli nascosti
nell’ombra è un docente con le fattezze evocative di Robert “Freddy” Englund
(ma nel cast c’è anche Brad Dourif). È lui che racconta la “leggenda
metropolitana” del professore della Pendleton University che avrebbe ucciso sei
studenti molti anni prima. Il fatto è che gli omicidi cominciano ad avvenire
davvero, ispirati proprio a leggende metropolitane e coinvolgendo persone
vicine in qualche modo a Natalie (Alicia Witt, già apparsa in Dune e Twin Peaks
sotto la regia di David Lynch), una delle ragazze dell’università. Nessuno le
crede, quando comincia a capire che i delitti sono collegati tra loro in modo
inquietante, perché tutti respingono questa ennesima “leggenda metropolitana”.
Inutile dire che l’assassino seriale armato di ascia c’è veramente e ha a che fare
con la vita di Natalie. Tuttavia siamo di fronte a un assassino (questa volta al
femminile) che agisce con un preciso intento vendicativo, e non uccide “a caso”
come i veri serial killer.

109
Che il mini-filone di Urban Legend sia lontano dalla tradizione del film sui
serial killer è confermato dal secondo episodio, Urban Legends: The Final Cut,
di John Ottman. Non è un vero e proprio seguito, ma ci si limita a imitare
qualche aspetto del primo film e a richiamarlo esplicitamente nel titolo. Questa
volta ci trasferiamo alla Alpine University, dove una studentessa sta scrivendo
una tesi sulle leggende metropolitane, mentre altri girano film horror e thriller
estremi. Presto le coltellate dei filmini studenteschi si trasformano in veri
omicidi.
Urban Legends: The Final Cut non mancava di momenti ironici, nello stile di
tutta questa nuova ondata di assassini a puntate. Ma Hollywood si è spinta più
oltre, fino alla demitizzazione del sottogenere. Il titolo originale della
sceneggiatura di Williamson per Scream era Scary Movie: e proprio Scary
Movie si intitola la prima parodia seriale dei killer seriali. Diretto da Keenen
Ivory Wayans, coadiuvato da altri fratelli Wayans, attivi da tempo nel genere,
Scary Movie mette in ridicolo l’intero filone dell’horror-adolenscenziale.
Cadono sotto le battute grevi del film, tra allusioni sessuali e schizzi di sangue,
le serie Scream, So cosa hai fatto, Urban Legend, ma anche i film-cult The
Matrix e The Blair Witch Project. Prodotto dalla Dimension Films, la stessa dei
tre Scream, oltre che di Halloween H20 e The Faculty, questa farsa horror ha già
figliato a sua volta un seguito, l’immancabile Scary Movie 2, questa volta
ambientato in una casa infestata da fantasmi.
Quando un filone scivola nella parodia, per mano dei suoi stessi creatori,
vuol dire che si sta arrivando a una fase di stanchezza e di non ritorno: era
accaduto così, negli anni Quaranta, alla Universal, che lasciò i suoi celebri mostri
alle gag di Gianni e Pinotto.
Tuttavia i serial killer cinematografici non sembrano ancora demoliti dalle
risate di Scary Movie. Tra l’altro, non bisogna dimenticare che di recente il serial
killer è diventato anche serial televisivo, grazie ai telefilm Millennium. Curati dal
creatore di X-Files, Chris Carter, questi episodi dovevano illustrare le paure di
fine millennio, incentrandosi soprattutto sulla paura per eccellenza che, come
abbiamo visto, è la paura per il serial killer. Al centro dei telefilm c’è
un’organizzazione segreta, “Millennium” appunto, che aiuta gli investigatori
sulle tracce degli assassini seriali.

110
Frank Black, un uomo apparentemente normale, con moglie e una figlia, na-
sconde una incredibile capacità di rintracciare serial killer, quasi sintonizzandosi
sui loro pensieri più reconditi e terribili, intuendo le loro mosse quasi fosse
dotato di poteri paranormali. Una sorta di maledizione, che Black ha scelto di
mettere al servizio di “Millennium”, staccandosi periodicamente dalla sua
famiglia appena l’organizzazione lo chiama.
L’attore che impersona Black è Lance Henriksen, già visto in Terminator,
Aliens e in innumerevoli B-movie a fosche tinte, e dal volto tormentato e
segnato. L’interprete ideale per una serie cupa, macabra, che non risparmia allo
spettatore visioni sanguinarie raramente concesse dai telefilm. Cadaveri, obitori,
omicidi, strade buie e piovviginose: sono queste le immagini ricorrenti di
Millennium, girato con professionalità cinematografica e superiore alla media dei
serial tv. Ogni episodio si snoda in modo simile. Delitti atroci, un assassino
imprendibile e minaccioso, una caccia ricca di colpi di scena e di pericoli. Ma il
meccanismo di Millennium è troppo ripetitivo e troppo in debito con Il silenzio
degli innocenti, come sottolinea Christophe Corthouts: “Nell’insieme la serie
soffre d’un serio problema di varietà. Di questo passo, la qualità di ogni trama
dipende soprattutto dalla personalità dell’assassino seriale che presenta e della
sua ossessione.” [Christophe Corthouts, Les serial killers dans la petite
lucarne. Lo choc de “Millennium”, in “Phenix” n. 47, Dossier Les serial killers,
1998]
Eppure la violenza metropolitana di Millennium, per quanto ripetitiva, ha
suscitato scandalo. Da noi, Italia 1 ha dovuto spostare la trasmissione dalle
21.30 alle 22.30 dopo le proteste di alcune associazioni perbeniste. X-Files è
forse più estremo e violento di Millennium, ma non parla di mostri “veri”, e
allora può andare in prima serata. Il serial killer, invece, inquieta e spaventa
proprio perché le sue imprese si mischiano con la realtà, con i terrori tangibili e
concreti dei nostri tempi. E per le “anime belle”, allora, il serial killer è sempre
meglio nasconderlo, chiudendo gli occhi davanti alla sua esistenza. O, almeno,
confinandone la visione nel buio della notte, dove diventa più indistinto.

Filmografia

111
La serie Scream

1996 Scream (id.)


di Wes Craven

1997 Scream 2 (id.)

2000 Scream 3 (id.)


di Wes Craven

La serie I Know What You Did

1997 I Know What You Did Last Summer (So cosa hai fatto)
di Jim Gillespie

1998 I Still Know What You Did Last Summer (Incubo finale)
di Danny Cannon

La serie Urban Legend

1998 Urban Legend (id.)


di Jamie Blanks

2000 Urban Legends: The Final Cut (Urban Legend: Final Cut)
di John Ottman

La serie Scary Movie

2000 Scary Movie (id.) di Keenen Ivory Wayans

2001 Scary Movie 2 di Keenen Ivory Wayans

I telefilm Millennium

1996-1999 Millennium (id.)


serie tv creata da Chris Carter

112
APPENDICI

113
Miscellanea del serial killer

L’interesse per i serial killer è ormai un fenomeno di costume e di massa. Su


questi personaggi si è girato nel 1991 un documentario pluripremiato dall’ovvio
titolo Serial Killers di Olivier Raffet a cura di Stephane Bourgoin e Dominique
Maret-Dumas. E l’assassino seriale (con il suo seguito di cronisti assetati di
sangue) è diventato perfino oggetto di satira a partire da una amena pellicola del
1992, C’est arrivé près de chez vous (Il cameraman & l’assassino) di Rémy
Belvaux, André Bonzel, Benoît Poelvoorde. La caccia ai serial killer era anche al
centro della serie tv Millennium, creata da Chris Carter. E anche il teatro si è
impadronito del serial killer, tra l’altro con uno spettacolo del Berliner Ensemble
dedicato a Wolfgang Schmidt, pluriomicida tedesco, con Der Totmacher,
ispirato a Fritz Haarmann e portato in Italia da Juri Ferrini come
L’ammazzatore, o con American Psycho inscenato dall’italiano Teatro Cargo.
Ma all’esterno delle sale cinematografiche il serial killer sta invadendo
soprattutto le librerie e le edicole, diventando protagonista assoluto di una
tendenza editoriale molto particolare, avviata nei paesi di cultura anglosassone e
dilagata anche in Europa. Si tratta di tascabili dedicati ad assassini realmente
esistiti e a clamorose indagini poliziesche tratte della cronaca.
Dopo essersi conquistato un posto nelle edicole grazie a numerosi periodici
dedicati a casi polizieschi e varie criminologie, il filone “true crime” (crimine
vero) ha già ottenuto appositi scaffali nelle librerie, accanto ai settori dedicati al
giallo o alle biografie di personaggi illustri.
La summa di questo particolare genere editoriale resta Brian Lane, Wilfred
Gregg, The Encyclopedia of Serial Killers, Headline, London 1992. In Italia,
invece, è apparsa nel 1993 la collana “I libri neri”, periodico mensile di breve
durata, con traduzioni da “true crime” americani e opere originali. Tra i primi
titoli, Henry Lee Lucas di Mike Cox. Significativo lo slogan promozionale:
“Nulla è più terrificante della realtà”. Così come si moltiplicano gli studi sui
serial killer: tra quelli di autori italiani, vanno segnalati almeno Marina Garbesi, I
serial killers, Theoria, Roma-Napoli 1996, e Aa. Vv. Vivere per uccidere –
Anatomia del serial killer, Calusca, Padova 1997.

114
Da parte sua la casa editrice inglese Headline, che ha pubblicato
l’enciclopedia dei serial killer, ha al suo attivo anche un grosso volume sulle
donne assassine (Murderous Women di Frank Jones) e una rassegna di oltre 500
casi di omicidio avvenuti negli ultimi centocinquanta anni (l’ultima edizione,
completamente aggiornata e riveduta si intitola The New Murderers’ Who’s
Who).
E sempre a Londra è nata la casa editrice Mondo (una branca della Titan
Books) specializzata in storie vere di assassini e criminali, pubblicate in formato
tascabile e stampate in decine di migliaia di copie. Il simbolo della Mondo è
tutto un programma: sotto un pianeta terra stilizzato si intrecciano due ossa,
come in una bandiera dei pirati. Questo marchio è anche l’immagine di una
maglietta (rigorosamente nera) che può essere acquistata direttamente presso la
casa editrice. La Mondo ha pubblicato tra l’altro un volume su Jeffrey Dahmer,
il serial killer cannibale di Milwaukee, scritto da una reporter locale che ha
seguito il caso fin dall’inizio; una biografia del satanista Anton La Vey; una
ricostruzione dei delitti di “Zodiac”, omicida di massa ancora imprendibile; e la
storia di Richard Chase, detto The Dracula Killer, che terrorizzò la California
alla fine degli anni settanta dissanguando numerose vittime.
Questa particolare tendenza editoriale del true crime deve rincorrere la
cronaca, e produrre libri quasi contemporaneamente alle pagine di “nera”
veicolate dai quotidiani. Il cannibale russo Andrei Chikatilo, condannato a morte
per aver massacrato circa cinquanta persone, ha avuto già l’onore di vari volumi
sulla sua vita, uno dei quali dal suggestivo titolo The Red Ripper (lo squartatore
rosso, alludendo alla lunga militanza di Chikatilo nelle file del Pcus). In Italia
una biografia romanzata di Chikatilo è stata scritta da David Grieco con il titolo
Il comunista che mangiava i bambini (Bompiani, Milano 1994).
Il pubblico a cui si indirizza questa tendenza libraria è molto ampio. Si va dai
cosiddetti “detective da salotto”, che amano risolvere enigmi polizieschi, e
ormai stanchi dei crimini fantastici dei romanzi gialli chiedono un plus di
veridicità e si rivolgono alle ricostruzioni di delitti reali. E si arriva ai lettori avidi
di orrore, di splatter iperreale. Una tendenza che è diventata persino
“mainstream”, se il principale quotidiano italiano, il “Corriere della sera”,
nell’estate 2000 ha allegato dei libri tascabili definiti “Collana serial thriller”.

115
Ai serial killer della realtà sono state dedicate anche alcune videocassette
della Columbia Tristar Homevideo dal titolo “Grandi crimini e processi del Ven-
tesimo secolo”. I titoli sono indicativi della linea scelta: Lo strangolatore di
Boston, Lo squartatore dello Yorkshire, Ted Bunty – assassino gentiluomo,
John Christie – l’assassino di Rillington Place, ecc.
Si moltiplicano allo stesso modo i giochi da tavolo per adulti, come The
Serial Killer Boardgame, in cui si possono interpretare quattro diversi serial
killer alle prese con 25 ragazze da massacrare (un gioco ai limiti del lecito...).
Serial Killer è anche il titolo di un gioco interattivo della Corrosion Publishing di
Aurora, Colorado. Si tratta di fascicoli che simulano dossier della polizia sui
delitti di immaginari serial killer. Ogni confezione ha un numero di serie che va
citato per telefono alla casa editrice, concorrendo alla vincita di vari gadget sui
serial killer.
Un videogioco per computer della Sierra, Police Quest. Open Season,
prometteva sulla scatola che con questo gioco si può “penetrare nella mente di
un serial killer”. In realtà si agisce nel ruolo di un poliziotto di Los Angeles che
sta dando la caccia a un assassino. E in stile altrettanto poliziesco era il gioco
per Pc Jack the Ripper, della GameTek.
Per commercializzare la “passione” dei serial killer sono uscite in America
anche delle riviste specializzate, come “Psycho Killers”: ogni numero è dedicato
a un diverso assassino seriale della cronaca, con documenti, notizie, foto e
ricostruzioni illustrate. Da segnalare il n.8 dedicato a John Wayne Gacy, che
faceva divertire i bambini vestito da clown (“Pogo the Clown”) e poi uccideva
senza pietà. La rivista ha anche una testata parallela “special” con storie di
serial killer in più puntate (né mancano i fumetti, come The Acid Bath Case di
Stephen Walsh e Kellie Strom, su un serial killer degli anni Cinquanta che uccide
dissolvendo le vittime nell’acido, o Devil’s Bite sulle imprese del serial killer
Jonathan Gabriel).
E tra gli ultimi gadget messi sul mercato, si segnalano le “cards” (figurine)
della Mother Productions, che presentano una foto dei principali assassini della
storia, con la biografia sul retro. In Italia nel 1999 è stata pubblicata una raccolta
di dodici figurine dal titolo Mostri italiani – le figurine dei serial killer italiani
(Stampa Alternativa).

116
Infine, non si può non citare il commercio semi-clandestino di “reperti” sui
veri serial killer, denunciato da un senatore californiano nel luglio 2000: sono in
vendita peli del torace di Roy Norris, che ha ucciso cinque ragazzi a Redondo
Beach, e capelli “autentici al 100%” di Charles Manson.
Tutti questi prodotti sono accomunati da un dato di fondo: si tratta di
un’offerta dall’apparenza “documentaristica”, per saziare il desiderio di
autenticità, di dettaglio, per scrutare meticolosamente la condizione violenta in
cui viviamo. È un percorso diametralmente opposto a quello che allarga i confini
del fantastico e immerge persino in realtà virtuali, in simulazioni, in immaginari
dilatati. Qui si manifesta una ricerca esasperata di realismo, di cruda
verosimiglianza. La cronaca nera si prende una rivincita epocale verso la
narrativa e l’affabulazione.

117
13 film
Oltre agli assassini presentati nelle pagine precedenti, ecco 13 serial killer che
non hanno prodotto sequel, ma hanno comunque lasciato il segno.

1931 M (M, il mostro di Dusseldorf) di Fritz Lang


1947 Monsieur Verdoux (id.) di Charles Chaplin
1959 Peeping Tom (L’occhio che uccide) di Michael Powell
1968 The Boston Strangler (Lo strangolatore di Boston) di Richard Fleischer
1971 Rillington Place n.10 (L’assassino di Rillington Place n.10) di Richard
Fleischer
1985 Il mostro di Firenze di Cesare Ferrario
1987 The Hitcher (id.) di Robert Harmon
1993 Kalifornia (id.) di Dominique Sena
1995 Seven (id.) di David Fincher
1995 Copycat (Copycat: omicidi in serie) di Jon Amiel
1999 Summer of Sam (id.) di Spike Lee
2000 American Psycho (id.) di Mary Harron
2000 The Cell (The Cell - La cellula) di Tarsem Singh

13 libri
Oltre ai titoli citati nel corso del volume, ecco 13 testi utili sul cinema alla lama
di coltello:

Richard Anobile (ed.), Psycho, Avon, 1984


Chas Balun, The Deep Red Horror Handbook, Fantaco, 1989
Laurent Bouzereau, Ultraviolent Movies, Citadel Press, 1996
Mikita Brottman, Meat Is Murder!, Creation, 1998
Gian Carlo Castoldi, Gian Luca Castoldi, Guida al cinema splatter, Arnaud,
1993

118
Maurizio Colombo, Antonio Tentori, Lo schermo insanguinato, Solfanelli,
1990
William K. Everson, The Bad Guys: A Pictorial History of the Movie Villain,
The Citadel Press, 1964
Teresa Macrì, Splatter, Stampa Alternativa, 1993
John McCarty, Movie Psychos and Madmen, Citadel, 1993
Philippe Rouyer, Le cinéma gore, Cerf, 1997
William Schoell, Stay Out of the Shower. 25 Years of Shocker Films, Dembner,
1986
Demetrio Soare, Il cinema thrilling, Fanucci, 1982
Michael Weldon, The Psychotronic Encyclopedia of Film, Ballantine, 1983

Nota: Alcune parti di questo volume riprendono e sviluppano miei articoli


apparsi sulle riviste “Febbre gialla” e “Profondo rosso” tra il 1987 e il 1992, sul
quotidiano “Il manifesto” nel 1993, e sul catalogo Affari sporchi. Il film giallo
negli anni ‘80, Club amici del cinema, Genova 1991. Una prima edizione di
questo libro è apparsa per le edizioni Datanews di Roma nel 1994, con il titolo
Serial Killer: guida ai grandi assassini nella storia del cinema.

Fabio Giovannini

119
SERIAL KILLER!
I grandi assassini seriali del cinema

Prefazione di Dario Argento

Premessa

I padri del genere

Alfred Hitchcock, il maestro


William Castle: il gusto per l’eccesso
Herschell Gordon Lewis: il prestigiatore dell’orrore
Mario Bava: la centralità dell’omicidio
Pete Walker: sociologia dell’assassinio
Dario Argento ovvero la donna-cinepresa-killer

Gli assassini

Jack
Norman
Leatherface
Michael
Jason
Freddy
Hannibal
Henry
Progenie di assassini seriali: Scream e company

Appendici

Miscellanea del serial killer

13 film

13 libri

Nota

120

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