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BVONAPARTE

08-09-2004, 03:15 PM
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MIGRAZIONI E DIASPORE: PROSPETTIVE GEOPOLITICHE


di Louis Sorel*

SINERGIE EUROPEE – BOLZANO / BRUXELLES – AGOSTO 2004

La mobilità degli uomini e, correlativamente, l’esistenza delle diaspore sono fenomeni


antichi, ma in questi ambiti come in molti altri ci troviamo a vivere un’accelerazione
della storia. Effettivamente questi ultimi decenni hanno conosciuto importanti e
durevoli movimenti di popolazioni su scala planetaria, nonché una generalizzazione del
fatto diasporico. Nei limiti del tempo qui concessoci cercheremo di inquadrare questi
fenomeni in una prospettiva geopolitica, la geopolitica essendo qui compresa come
analisi dei rapporti di potenza tra politìe/unità politiche così come fra «attori anomici ed
esotici» — come dice Lucien Poirier — vale a dire non-statuali.
Utilizzeremo qui lo studio delle migrazioni e delle diaspore per
imparare le dinamiche del sistema-Mondo. Dopo aver tracciato una rapida geografia
delle migrazioni e diaspore, ne prenderemo in considerazione le conseguenze
geopolitiche interne — la destrutturazione degli Stati-Nazione del
«Nord» — ed esterno: il rinnovamento delle problematiche «internazionali» e
conflittuali.

IL «PIANETA NOMADE»
[Questo titolo riprende il tema dell’VIII edizione del Festival
internazionale di geografia di Saint-Dié-des-Vosges (ottobre 1997), «Il
pianeta nomade, le mobilità geografiche di oggi»]

I flussi migratori contemporanei si organizzano attorno a pochi grandi


poli/centri attrattori che possono agevolmente essere rappresentati su
di un
planisfero.
Principale centro attrattore, gli Stati Uniti: nel secolo scorso questo
grande paese d’immigrazione ha polarizzato l’essenziale dei flussi
europei,
ma nel corso degli anni venti, e in seguito alla trasformazione delle
correnti migratorie — la maggior parte delle quali è rappresentata dalle
popolazioni euro – mediterranee e slave — lo Stato federale ha deciso di
adottare misure restrittive. Nel 1965, al termine di quattro decenni di
chiusura delle frontiere, queste misure sono state abolite, e negli
ultimi
anni l’immigrazione è ripresa al ritmo di circa un milione di ingressi
legali l’anno. Questi flussi originano dall’immediata periferia —
Messico,
Caraibi e America Latina —, dall’Asia orientale e dai paesi del «Sud»
non
europei. Gli Stati Uniti contano così circa 20 milioni d’immigrati della
prima generazione.
Altro centro attrattore, il continente europeo: l’Europa del Nord –
Ovest, a
partire dagli anni Cinquanta, e ormai l’Europa del Sud. Gli immigrati
rappresentano circa 15 milioni di individui nell’Unione europea (senza
contare i naturalizzati e i clandestini) e questi flussi persistono.
Dapprima essi hanno avuto origine dagli ex territori coloniali, più o
meno
periferici, ma oggi assistiamo a una mondializzazione dei flussi
migratori
senza rapporto con le eredità storiche
(colonizzazione/decolonizzazione).
Terzo centro attrattore, fino alla fine degli anni Ottanta, i paesi
petroliferi del Medio Oriente (ai quali bisogna aggiungere la Libia). In
mancanza di censimenti, il peso delle popolazioni immigrate è di
difficile
valutazione, ma è ragionevole stimarlo fra i 7 e gli 8 milioni di
persone —
il che, in termini relativi, è parecchio. In molte petromonarchie gli
immigrati rappresentano più della metà della popolazione. Tuttavia è
necessario precisare che dopo la Guerra del Golfo i flussi migratori si
sono
invertiti e ancora nel 1997 le espulsioni sono state numerose.

La geografia delle migrazioni comprende anche centri d’attrazione


secondari,
tali cioè da polarizzare flussi su distanze più corte: l’Australia,
paese –
continente stiracchiato tra geografia e storia; la Costa d’Avorio, la
Nigeria e la Repubblica sud – africana; il Venezuela, l’Argentina e il
Brasile; certe zone dell’Asia sul versante Pacifico… Nel corso di quest’
esposizione analizziamo le cose dal punto di vista del «Nord» e di
conseguenza privilegiamo i flussi a lunga distanza e i ragionamenti su
scala
planetaria.

Diversi e numerosi fattori si combinano per spiegare la potenza e la


direzione di questi flussi migratori: fattori demografici, economici,
storici, culturali e politici.

FATTORI DEMOGRAFICI: anche se oggi è un po’ riduttivo, in materia tutti


sono
a conoscenza del dualismo Nord/Sud. Nei paesi sviluppati, ci sono
popolazioni stabili e in via d’invecchiamento; nei paesi in via di
sviluppo,
popolazioni giovani dalla demografia galoppante. Questo differenziale di
crescita si spiega con la transizione demografica, modello che sembra
unanimemente accettato. Tuttavia s’impongono due osservazioni. La prima
è la
differenziazione crescente delle situazioni dei paesi e delle macro -
regioni del «Sud», autentico mosaico demografico. La seconda è il
rinnovamento delle tesi maltusiane presso alcuni autori, fra cui Jean –
Christophe Rufin (L’empire et les nouveaux barbares, Jean-Claude Lattès,
1991) e Yves – Marie Laulan (Les nations suicidaires, François-Xavier de
Guibert, 1998).

FATTORI ECONOMICI: tanto per i flussi Nord/Sud che per quelli Sud/Sud,
la
ricerca di migliori condizioni di vita è uno dei principali fattori
esplicativi delle migrazioni internazionali. Nel corso del periodo che
va
dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta, e in seguito all’afflusso di
petrodollari in Medio Oriente fra gli anni Settanta e la metà degli anni
Ottanta, gli immigrati sono in cerca d’impiego. Al giorno d’oggi, sono i
sistemi sociali che giocano il ruolo di pompa aspirante.

FATTORI STORICI E CULTURALI: abbiamo già menzionato il ruolo del passato


coloniale nei flussi migratori; l’espansione delle potenze europee ha
comportato la diffusione delle lingue del Vecchio Continente e la
mondializzazione delle sue forme di civiltà. In compenso questi retaggi
hanno facilitato le migrazioni Nord/Sud. È vero che a partire dalla metà
degli anni Settanta le ondate migratorie sono planetarie e scarsamente
rapportabili alle geografie coloniali di un tempo. È altresì necessario
prendere in considerazione un altro fattore culturale: lo strapotere dei
media occidentali (soprattutto americani). La circolazione a tutto campo
dei
medesimi suoni e delle medesime immagini genera una sorta di
«immaginario
migratorio» e un’ideologia dello sradicamento che stanno alla base dei
movimenti di popolazione. Nei paesi ricettori, questa stessa atmosfera
globale è propizia ad un certo lassismo in materia di regolazione dei
flussi
migratori. Per concludere col ruolo dei fattori culturali, è del pari
necessario segnalare che le delocalizzazioni – rilocalizzazioni delle
unità
produttive nei paesi del «Sud», diffondendo i modelli occidentali,
contribuiscono a un certo numero di partenze, com’è stato possibile
osservare nelle cosiddette maquiladoras — unità produttive messicane
situate
nelle immediate vicinanze della frontiera settentrionale del paese e
controllate da aziende statunitensi.

FATTORI POLITICI: è il caso delle persone che fuggono da un regime


politico
dato e/o da una situazione bellica. Lo statuto di questi rifugiati
politici
è stato specificato dalla Convenzione di Ginevra del 1951 e l’Alto
Commissariato per i Rifugiati dell’ONU, creato nello stesso anno e con
sede
nella stessa città, si fa carico attualmente di circa 27 milioni di
persone.
Per far fronte alla pressione migratoria derivante da questa trafila,
quasi
tutti i paesi sviluppati hanno, chi più chi meno, inasprito le
condizioni d’
accesso allo statuto di rifugiato politico.

Come si vede, nella perennità e nell’espansione dei flussi migratori


giocano
un complesso di cause rilevanti e un vero e proprio sistema di mobilità.

La conseguenza di questi flussi migratori è la costituzione di diaspore.


Il
fenomeno è antico, legato a migrazioni non meno antiche. Gérard Chaliand
e
Jean – Pierre Rageau (Atlas des diasporas, Odile Jacob, 1991) chiamano
«diaspora» un popolo disperso su vasti spazi e territori non collegati
fra
loro, e le cui differenti ramificazioni persistono nella loro identità,
a
dispetto della pressione delle popolazioni autoctone. Nella maggior
parte
dei casi questa dispersione è legata ad un evento originario traumatico:
massacri, genocidi, deportazioni, catastrofi naturali. Tuttavia, gli
autori
dell’Atlas des diasporas non mantengono sistematicamente l’insieme di
questi
criteri, il che ci permette di utilizzare a buon diritto il termine
«diaspora» lato sensu.
Gli esempi più antichi di questo fenomeno sono ben noti: si pensi alla
diaspora greca, ebrea e armena, senza dimenticare gli Zigani che al
giorno d
’oggi sono gli unici a non possedere né Stato né territorio di
riferimento
(diaspora integrale). Nel corso del XVI secolo, con la tratta atlantica
(il
commercio triangolare), ha avuto inizio la dispersione delle popolazioni
nere; nel XIX secolo si sono verificate la diaspora irlandese, quella
cinese
e quella indiana. Il nostro secolo ha rafforzato il fenomeno con un
nuovo
esodo di popolazioni armene, in seguito al genocidio commesso dai Turchi
e
dai Curdi alla fine della prima guerra mondiale, e altri avvenimenti e
rapporti di forza geopolitici hanno poi generato la diaspora
palestinese,
quella libanese e quella vietnamita.
Con il potenziamento e la mondializzazione dei flussi migratori, il
fatto
diasporico si generalizza: ci accontenteremo qui di menzionare le
diaspore
arabo – musulmana e nera, particolarmente visibili in Europa
occidentale.
Certo, non sempre un disastro è all’origine di queste diaspore
contemporanee
e i loro membri talvolta rappresentano soltanto una parte poco rilevante
della popolazione dei paesi d’origine. In compenso, con la rivoluzione
delle
comunicazioni (aeree e satellitari) i differenti segmenti di queste
popolazioni sono sempre meglio collegati fra loro e la loro coscienza
culturale e geopolitica comune si va rafforzando. Non sembra dunque
indebito
estendere il termine di «diaspora» a questi fenomeni.

LA DESTRUTTURAZIONE DEGLI STATI-NAZIONE DEL «NORD»

La conseguenza geopolitica interna della ridistribuzione delle


popolazioni è
dunque la destrutturazione degli Stati – Nazione del «Nord». Prima di
esaminare questo fenomeno, dobbiamo prima di tutto soffermarci sulla
forma
politica che domina l’Occidente moderno.
Secondo Carl Schmitt e Julien Freund, il politico è un’essenza, vale a
dire
un’attività umana originaria rispondente a un dato basilare, in questo
caso
la conflittualità. Funzione del politico è di assicurare la concordia
interna e la sicurezza esterna delle collettività umane costituite.
Successore dello Stato regale, lo Stato – Nazione è una delle
manifestazioni
storiche del politico, la forma politica propria della modernità. I suoi
tratti distintivi sono i seguenti: centralizzazione dei poteri e
abbassamento dei corpi intermedi; omogeneizzazione culturale e giuridica
del
territorio assunto. Questo tipo di politica cerca di far coincidere
popolo –
lingua – cultura, territorio e Stato.
Questa volontà di omogeneizzazione è strettamente legata al processo di
democratizzazione delle società politiche occidentali. In effetti la
democrazia è un regime che postula l’identità della volontà popolare e
della
legge, l’identità dei governanti e dei governati. Essa suppone un démos,
vale a dire un popolo la cui forte omogeneità e la chiara coscienza di
ciò
che propriamente lo fonda permettono l’emergere di un’autentica volontà
generale (si pensi a Jean – Jacques Rousseau). È per questo che in epoca
moderna si è potuto esercitare la democrazia, o quantomeno
approssimarvisi,
soltanto all’interno di un quadro nazionale.
Questo ideale «nazionale» non è sempre stato realizzato, al di là di
tutto.
Si sa che certe nazioni — e non delle minori: pensiamo alla Francia — si
sono forgiate all’incrocio di aree culturali distinte (benché in seno ad
una
medesima civiltà) e sono multietniche. Se non altro ci si è avvicinati,
in
certa misura, all’omogeneità degli spiriti, sia nelle nazioni
dell’Europa
occidentale che in quelle dell’America settentrionale. Oggi, flussi
migratori massicci da un lato e la crescita correlativa delle minoranze
razziali dall’altro (popolazioni arabo – musulmane in Francia e in
numerosi
altri Stati europei; popolazioni ispaniche negli Stati Uniti) mettono
nuovamente in discussione l’omogeneità del paese d’accoglienza. La
coesione
di queste società, la loro «governabilità» — tanto per usare un termine
in
voga — sono intaccate e, infine, a essere minacciati sono proprio i
fondamenti e le strutture dello Stato – Nazione stesso.
Costretti a far fronte alla sfida immigratoria, un certo numero di Stati
pensa di riuscire a controllare la situazione praticando una politica di
assimilazione. In questo contesto il termine è preso come sinonimo di
«naturalizzazione» nel senso etimologico del termine.
Tuttavia l’assimilazione non avviene per decreto: essa dipende da
molteplici
variabili — peso numerico e dinamismo demografico della popolazione da
assimilare; distanza etnoculturale; dinamismo demografico, forza e
attrattività del modello culturale della popolazione d’accoglienza. Ora,
i
paesi interessati dall’immigrazione vivono una crisi dei modelli di
assimilazione. Prendiamo la Francia: essa non è più un impero, e neppure
la
Grande Nazione di un tempo; ha perduto il suo prestigio, e i suoi
meccanismi
d’integrazione (scuola, esercito, partiti politici e sindacati) hanno
perduto smalto proprio quando il mercato del lavoro non riesce più ad
assorbire l’impatto dei nuovi venuti. La distanza etnoculturale degli
immigrati aumenta sempre più, dal momento che i paesi d’origine non
rientrano più in ambito continentale europeo ma appartengono ad altre
sfere
di civiltà.
Altro esempio, gli Stati Uniti. Il melting–pot si è rivelato inefficace
di
fronte alle identità negra e ispano-americana, tanto che oggi quando si
parla delle popolazioni degli Stati Uniti, si preferisce usare il
termine di
salad–bowl (insalata mista) per indicare la giustapposizione, e non la
fusione, di elementi disparati e irriducibili fra loro. Una parte dell’
establishment WASP (White, Anglo-Saxon, Protestant) teme addirittura che
gli
Stati Uniti finiscano col divenire una «maggioranza di minoranze». L’
immigrazione e le sue conseguenze sono all’origine di numerosi dibattiti
politici, di referendum e di nuove leggi: nel 1986, legge Simpson –
Rodino
sul ristabilimento delle quote; referendum californiano sulla
risoluzione
187 detta «Save Our State» (i clandestini non avranno più accesso ai
servizi
sociali, medici e amministrativi); nel 1996, adozione di una
legislazione
più restrittiva sull’immigrazione; nel 1998, nuovo referendum
californiano
sull’adozione dell’inglese come lingua ufficiale.
Nei paesi del «Nord» di tradizione assimilatrice, questo tipo di
politica
non è dunque riuscito a «naturalizzare» la maggior parte delle
popolazioni
interessate. Di fronte ai problemi migratori, oltre alle politiche di
controllo e d’inversione dei flussi che s’impongono appare necessaria
un’
altra opzione, già praticata da parecchi anni in area anglosassone:
quella
del multiculturalismo.
L’opzione multiculturale è stata scelta dapprima in America del Nord —
il
«comunitarismo all’americana» è di volta in volta un modello o uno
spauracchio — in ragione della sconfitta subita dal melting – pot. Essa
si
articola sui seguenti princìpi:
? la diversità etnoculturale è non soltanto un fatto, ma un fatto
positivo
che occorre tutelare e promuovere;
? gli uomini concreti non possono essere separati dalle loro
appartenenze
etnoculturali;
? le culture devono pertanto essere riconosciute nella sfera pubblica.

È da poco che l’Europa deve confrontarsi con questo tipo di situazione —


il
necessario riconoscimento delle identità regionali e delle patrie
carnali
non deve essere confuso con l’immigrazione su vasta scala di elementi
non–europei: quindi il dibattito assimilazionismo/multiculturalismo vi è
di
recente introduzione.
Questa scelta corrisponde alla visione del mondo e ai valori che ci sono
propri, ma nel contempo ci induce a porci un certo numero di domande:
? tutte le «differenze» sono compatibili?
? non esistono necessariamente dei fenomeni di rigetto?
? è possibile mettere legittimamente sullo stesso piano il sistema di
usi/costumi/norme degli allogeni e quello degli indigeni?
? ci si può accontentare di giustapporre orizzontalmente delle
«comunità»
nel quadro di una «grande società» (di mercato)?
? e se no, su quali basi enunciare delle norme collettive
sovracomunitarie?
? un «patriottismo costituzionale» senza contenuto culturale?
? dei valori universali?
? e se sì, quali?

In realtà, c’è da temere che l’opzione multiculturale non sia altro che
l’
intellettualizzazione di evoluzioni che si è ormai rinunciato a
controllare,
avendo come orizzonte una società di mercato all’americana in cui le
solidarietà comunitarie giochino il ruolo di assistenti sociali.
Ricordiamo
che gli insiemi multiculturali, particolarmente gli imperi, che hanno
preceduto e/o sono coesistiti con gli Stati – Nazione, e hanno saputo
resistere al tempo, avevano un collante: lealismo dinastico, pratica di
una
medesima religione e patriottismo basato su di un’unica civiltà
permettevano
di superare le differenze etnoculturali e linguistiche. Oggi, niente di
tutto questo!
L’opzione multiculturale va dunque rivista secondo il metro della
ragione
politica, quand’anche la ragione filosofica dovesse soffrirne. Per
assicurare il necessario primato demografico, culturale e politico degli
autoctoni bisogna rispettare qualche condizione sine qua non: controllo
e
inversione dei flussi migratori; cittadinanza piena e totale per i soli
indigeni e assimilati; politica prevalentemente nazionale ed europea. Le
popolazioni immigrate non-assimilate non beneficerebbero né della
cittadinanza né di un certo numero di diritti ad essa connessi, ma in
compenso esse si vedrebbero concedere uno statuto di popolo – ospite. A
queste condizioni, l’opzione multiculturale è compatibile con la
perennità
delle nostre identità europee; in caso contrario, essa sfocerà
immancabilmente in situazioni drammatiche, poiché i paesi d’accoglienza
dei
flussi migratori saranno lacerati fra civiltà diverse. Le cose sono già
molto avanti su questa china…

IL RINNOVAMENTO DELLE PROBLEMATICHE «INTERNAZIONALI»

L’espansione delle correnti migratorie mondiali e la moltiplicazione


delle
diaspore partecipano, con i movimenti di valuta e di capitale (si pensi
al
mega-mercato finanziario mondiale) e la rivoluzione delle comunicazioni,
alla complessificazione delle relazioni cosiddette internazionali, dal
momento che nuovi attori s’impongono sulla scena mondiale.
Dal XVI al XX secolo, lo spazio mondiale si è venuto progressivamente
lastricando di Stati — forma politica che ha conosciuto l’apogeo nel XIX
secolo. Attore totale, lo Stato-Nazione è l’unico soggetto del diritto
internazionale; dopo il 1945, il fenomeno di territorializzazione
(appropriazione delle terre emerse) si è esteso all’Oceano mondiale.
Oggi si
contano circa 200 Stati, 185 dei quali sono membri dell’ONU.
Tuttavia la mondializzazione dell’ordine statuale e territoriale non può
dissimulare altre e più gravi tendenze. L’«èra occidentale» è stata
segnata
anche dalla massificazione dei flussi di ogni tipo, particolarmente
nella
seconda metà del XX secolo: flussi di merci, di capitali, d’immagini e
di
suoni, e infine di uomini. Contrariamente alla crisi del 1929, quella
del
1973 non ha affatto rallentato il movimento bensì l’ha accelerato:
grazie a
questo, reti molteplici — anche migratorie — scavalcano i territori
statali.
Dunque nuovi attori si affermano — aziende transnazionali e
multinazionali,
organizzazioni non-governative, mafia, sette… e diaspore. Così queste
catene
di «colonie» e di enclaves collegate da flussi più o meno intensi,
avvolgono
doppiamente gli Stati-Nazione. Dall’alto, con le reti transnazionali che
esse costituiscono; dal basso, con la formazione di comunità
infra-nazionali
che si autoregolano. A fianco degli Stati, ineludibili ma di fatto
elusi, e
non più in grado di padroneggiare in modo esclusivo il gioco mondiale,
si
affermano dunque delle forze transnazionali, «attori anomici ed
esotici»,
legate alle migrazioni passate e presenti. Le questioni della Svizzera,
Stato sovrano, col Congresso Ebraico mondiale danno l’idea della potenza
di
alcune di queste forze.
Altra conseguenza dei flussi migratori, lo «scontro delle civiltà»
descritto
e analizzato da Samuel P. Huntington. È noto che secondo il
geopolitologo
americano la politica mondiale si ricompone secondo degli assi
culturali, e
le linee di frattura traccerebbero nuove frontiere fra le civiltà. Il
metodo
di suddivisione scelto da Huntington è certo contestabile — si pensi
alla
confusione di Europa e America del Nord in una stessa civiltà
occidentale da
un lato, e dall’altro il limite stabilito fra cristianità latina e
cristianità greca (spazio slavo-ortodosso) — ma il modello
interpretativo
che egli propone, il «paradigma civilizzazionale», non è privo
d’interesse.
Per riprendere le categorie utilizzate da questo autore, non si può fare
a
meno di constatare che le civiltà occidentale e slavo-ortodossa dividono
uno
stesso destino demografico. Altri autori — Yves Lacoste (Silhouetter le
troisième millénaire. Tout sauf la fin de l’histoire, in “Le Monde”, 24
ottobre 1997) e Yves-Marie Laulan (Les nations suicidaires, op. cit.) —
adottano del resto una definizione di Occidente allargata, che comprende
America del Nord, Europa e Russia. In questo senso l’Occidente — il
«mondo-razza bianco», per dirla con Jean Cau — dovrebbe confrontarsi con
le
civiltà demograficamente massicce: arabo-musulmana, negro-africana,
indiana
e cinese.
Al riguardo, le proiezioni della Banca Mondiale, pubblicate nel 1994
poco
prima della conferenza dell’Onu sulle popolazioni e lo sviluppo
organizzata
al Cairo, sono particolarmente illuminanti. Da qui al 2030 la
popolazione
dovrebbe raggiungere la cifra di 8,5 miliardi (+ 50%) e, soprattutto, le
dinamiche regionali saranno destinate a differenziarsi profondamente: l’
Europa, Russia inclusa, passerebbe da 731 a 742 milioni di individui (+
2%);
l’Asia da 3,4 a 5,1 miliardi (+ 35%); l’Africa da 720 milioni a 1,6
miliardi
(+ 103%); l’America del Nord da 295 a 368 milioni (+ 25%); l’America
Latina
da 475 a 715 milioni (+ 50%). Si può dunque rilevare la forte atonia
demografica delle popolazioni di ceppo europeo, tanto più che il tasso
di
crescita previsto per l’America del Nord, certo più importante che in
Europa, sarebbe dovuto soprattutto alla forza dell’immigrazione e alla
fecondità delle minoranze etniche. Secondo altre stime recenti, di qui a
trent’anni i “Caucasici” (Americani di ceppo europeo) rappresenteranno
il
52% della popolazione degli Stati Uniti, contro il 73% di oggi.
Queste dinamiche demografiche differenziate inducono una nuova geografia
strategica, quella delle interfacce Nord/Sud: la frontiera Usa/Messico,
fra
America del Nord e America Latina; più ancora la frontiera Mediterranea,
fra
Europa e Africa; e il lato meridionale della Russia, contiguo alle aree
arabo-musulmana e sino-confuciana. Queste linee di divisione sul piano
demografico e su quello civilizzazionale sono dei potenziali fronti di
aggressività, con qualche riserva sul Rio Grande. Naturalmente la
geografia
strategica non si riduce a queste zone polemogene; è possibile
circoscrivere
molte altre linee di frattura, relative a poste ben altro che
demografiche.
Del resto, migrazioni e diaspore comportano lo straripamento di certe
civiltà sulle aree di altre civiltà. Qui è necessario ricorrere alla
descrizione fatta da Huntington della struttura di una civiltà: al
centro,
lo Stato o gli Stati faro, i più potenti e i più centrali dal punto di
vista
culturale; intorno, gli Stati membri che s’identificano pienamente, in
termini culturali, con la loro civiltà d’appartenenza; alla periferia,
paesi
divisi, a cavallo di una o più frontiere di civiltà, con importanti
differenze culturali fra le loro componenti umane; all’estrema
periferia,
negli Stati delle civiltà adiacenti, minoranze culturalmente affini.
Questo schema può essere facilmente applicato alle situazioni
geopolitiche
contemporanee. Così la civiltà arabo-musulmana beneficia dello scambio
con
importanti minoranze culturalmente affini nell’ecumene europeo,
particolarmente dinamiche sul piano demografico e religioso e, dopo gli
accordi di Dayton (1995), con un’entità musulmana, il principato di
Sarajevo. Del pari, la civiltà cinese dispone, con le sue importanti
minoranze d’oltremare, di una «rete di bambù» estesa sull’Asia del
Sud-Est
ma anche sull’America del Nord e, benché in misura minore, sull’Europa
Occidentale. Lo «scontro delle civiltà» è anche interno.
Strettamente legata con l’interazione generalizzata degli spazi e delle
popolazioni —questa è una delle definizioni del mondialismo — è l’
elaborazione di nuovi modelli conflittuali a partire da situazioni
osservabili.
Primo modello, l’intervento esterno, divenuto frequente con le numerose
crisi statuali e la riconfigurazione del sistema internazionale. Dopo la
fine del conflitto Est/Ovest, le potenze cosiddette occidentali (e la
Russia) manifestano una spiccata propensione agli interventi esterni sui
loro confini meridionali per mantenervi una certa stabilità. I governi
cercano soprattutto di evitare un confronto diretto con flussi
improvvisi e
massicci di rifugiati politici e, nel quadro di una politica di
controllo
dei flussi migratori, intendono tenere la situazione ben salda in pugno.
Dunque gli eserciti sono ristrutturati in modo da poter condurre a buon
fine
questo tipo di operazione (forze ridotte ma flessibili ed estremamente
mobili). Questi interventi non sono sempre militari e aperti: vi si
devono
includere le politiche di sostegno agli Stati-cuscinetto e ai
regimi-bunker
del «Sud».
Altro modello conflittuale, quello dei conflitti identitari. François
Thual** (Les conflits identitaires, Ellipse-IRIS, 1995) ha descritto e
teorizzato questo scontro dei caos limitati del Sud e, in Europa, quelli
dei
Balcani e del Caucaso. Quando questi conflitti si scatenano in
prossimità
degli spazi sviluppati del «Nord», essi inducono le grandi potenze a
intervenire. Questa forma di conflitto mette alle prese gruppi
culturalmente/religiosamente differenziati (etnie, nazionalità,
confessioni
religiose), ciascuno dei protagonisti essendo convinto del pericolo di
estinzione (processo di vittimizzazione). I mezzi di comunicazione
moderni
permettono di mobilitare le popolazioni interessate e la diaspora, se
c’è
diaspora, che in tal caso assicura il sostegno economico e lo scambio
mediatico. Le ricomposizioni della geografia umana dei paesi sviluppati
potrebbero portare benissimo all’estensione di questo tipo di conflitto,
prefigurato, su scala minore, dagli scontri etnici delle periferie.
Questo rapido giro panoramico sui fenomeni migratori e sul fatto
diasporico
ha mostrato gli stretti legami esistenti fra il mercato del
sistema-Mondo e
la crescente potenza dei flussi umani. Il sistema-Mondo è di fatto un
sistema di mobilità fondato sulla messa in relazione generalizzata
(mondializzazione/globalizzazione) e l’elogio del nomade (Jacques
Attali,
Lignes d’horizon, Fayard, 1990). Esso genera una delocalizzazione
planetaria
e uno sradicamento massiccio di cui la «crisi migratoria globale» (S. P.
Huntington) è l’aspetto più visibile e più gravido di conseguenze.
Gli effetti destrutturanti dei flussi transnazionali — umani,
commerciali,
finanziari, informativi — sono tali che sembra necessario imporre loro
una
logica politica e quindi riterritorializzarli. Se è vero che lo
Stato-Nazione resta un elemento fondamentale del sistema-Mondo, è anche
vero
che esso attualmente è superato dall’estensione delle scale geografiche
e
dalla potenza dei flussi planetari, segnatamente umani. La «crisi
migratoria
globale», come gli altri aspetti della mondializzazione, richiedono
dunque
una riflessione sul rinnovamento delle forme politiche. Qualcuno si
richiama
agli imperi.

* Autore con Robert Steuckers e Gunther Maschke del volume “Idee per una
geopolitica europea”, pubblicato dalla Società Editrice Barbarossa

** Autore del volume “Geopolitica dell’ortodossia”, pubblicato in


Italia
dalla Società Editrice Barbarossa

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