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di Catherine Samary
Questo contributo sulle questioni dell'autogestione come modo di resistenza e progetto di societ
vuole partire da una tensione che attraversa molti dibattiti passati/presenti: quella che sembra
opporre diritti individuali e approcci complessivi - quindi questioni di potere. Partir da una
concezione dell'autogestione come principio o come diritto di base accordato a tutti i cittadini,
uomini e donne, nella loro diversit: il diritto di partecipare autonomamente ai processi di
produzione e di distribuzione delle ricchezze (beni e servizi) con i mezzi per controllarli
pienamente, cercando nelle varie parti affrontate di superare i falsi dilemmi. Proporr prima alcuni
principi generali, poi un modo per integrare il "passato/presente", e infine metter l'accento sulla
centralit di una riformulazione strategica delle lotte autogestionarie a partire dai "Beni Comuni".
2. Il passato/presente
Bisogna certo reinventare il linguaggio delle lotte all'orizzonte delle esperienze attuali -
fortunatamente non necessario conoscere e condividere il bilancio delle esperienze passate per
combattere il sistema capitalista e impegnarsi a costruire un'alternativa. Eppure, lungi dal
denigrare l'esperienza passata globalmente presentata come fallimentare, anzi essenziale
incorporarne le lezioni come "nostre": l'atteggiamento di molti militanti e intellettuali antistalinisti
che rigettano in blocco il "socialismo reale" presenta il pericolo paradossale di fare il gioco di chi
rifiuta in blocco il comunismo, facendo del capitalismo l'unico orizzonte di pensiero e di esperienza
possibili.
Lo scarto tra il "socialismo reale" e gli ideali di emancipazione socialisti e autogestionari non deve
essere pensato come qualcosa di "esterno" all'esperienza anticapitalistica. Anzi: la cristallizzazione
burocratica staliniana certo "eccezionale" nella sua dimensione totalitaria e nel ruolo che lo
stalinismo ha avuto nel movimento operaio internazionale; ma il burocratismo un problema
"organico" del movimento operaio (politico, sindacale, associativo) durante il capitalismo e dopo la
presa del potere. Non comprenderlo vuol dire erigere a "nuova classe" o semplicemente a
"borghesia" (quindi esterna al movimento operaio) un problema innanzitutto endogeno, che
dobbiamo saper affrontare nei nostri propri ranghi... Un problema che minaccia ogni
organizzazione rivoluzionaria pur antistalinista o anarchica che sia.
Dire ci non significa che non si analizzi il processo burocratico che pu tendere verso la
cristallizzazione di una nuova classe o borghesia e che possa avere relazioni di interessi comuni (e
di conflitto) con la "borghesia realmente esistente" e il suo sistema. Per impone da un lato una pi
grande profondit autocritica del movimento rivoluzionario (ivi compreso il riferimento alla fase pre-
staliniana della rivoluzione russa), e sopratutto di analizzare tutta una serie di conflitti e di
contraddizioni come problemi "nostri", che qualsiasi esperienza rivoluzionaria dovr risolvere.
Questo approccio di riappropriazione dell'esperienza passata particolarmente importante per
quanto riguarda la rivoluzione yugoslava,: una rivoluzione sociale e politica in cui un partito
comunista (dopo la stalinizzazione dell'URSS) forza dirigente che induce l'autogestione
generalizzata per la prima volta nel mondo. L'approccio dogmatico verso questa esperienza
qualificata come "capitalismo di Stato" conduce al non analizzare come "problemi nostri" la
difficolt di organizzazione di un sistema di autogestione - e a rigettare come non interessanti le
elaborazioni delle correnti marxiste autogestionarie e critiche: non c' niente da imparare da tutto
ci poich si tratta di capitalismo (un capitalismo staliniano) e le critiche interne sono al meglio
delle coperture riformiste di un sistema che globalmente da rifiutare.
Contro questi comportamenti intellettuali e politici non possiamo naturalmente pensare che
l'esperienza yugoslava possa giocare oggi un ruolo diretto nella coscienza larga dei nuovi
movimenti sociali di resistenza al capitalismo - non pi tra l'altro della Rivoluzione d'ottobre o della
Comune di Parigi: sono ormai esperienze di un passato remoto. Per contano per la formazione e
la riflessione politica.
4. I diritti sociali vanno in parte dissociati dal lavoro - ci pu essere fatto nel quadro di un
approccio transitorio anticapitalista verso una societ autogestionaria.
L'esperienza yugoslava autogestionaria si scontrata con una contraddizione e un fallimento
maggiori: l'incompatibilit di un sistema di diritti autogestionari legati al lavoro con le esigenze di
ristrutturazione del lavoro e del pieno impiego. La "disoccupazione socialista" che ha conosciuto la
Yugoslavia deve essere analizzata come tale e non con i concetti e i criteri di una societ
capitalista. E' di nuovo il "nostro problema", uno dei problemi essenziali da risolvere in una societ
socialista e non la prova che la Yugoslavia di Tito era capitalista.
Per risolvere questi problemi bisogna affermare simultaneamente: il diritto al lavoro (distinto da un
lavoro specifico) e la rimessa in discussione radicale del rapporto di dominio e (quindi dello statuto)
del salariato: quindi dei diritti associati allo statuto di autogestionario quindi al controllo dei mezzi di
produzione da parte dei lavoratori/utenti essi stessi. La rimessa in discussione del rapporto
salariale come rapporto di dominio della propriet capitalista non significa la fine del "reddito"
monetario (chiamato cos per distinguerlo dal salario) associato al lavoro; non significa neppure il
rifiuto della flessibilit necessaria nel lavoro (a condizione che sia ricercata dai lavoratori): si pu
voler cambiare il posto di lavoro e l'organizzazione del lavoro ma si pu anche desiderare la
permanenza del posto di lavoro. Ci riguarda sia scelte individuali che collettive: la
riorganizzazione del lavoro pu essere socialmente fondata o contestata come uno spreco o in
funzione di tale o tale aspetto negativo che implica delle riconversioni.
La compatibilit di questi obiettivi simultanei implica che le riconversioni vengono assunte
socialmente, collettivamente (quindi organizzate) e che i redditi e i diritti sociali di base (protezione
della salute, diritti alla formazione permanente su tutta la durata della vita, protezioni familiari, ecc)
non vadano persi quando si cambia attivit. Si pu anche pensare ad una nozione di lavoro
(sociale) o di attivit sociale nel senso ampio riconosciuto dalla societ che integri il tempo della
formazione (che pu essere distribuito lungo tutta la vita), il tempo necessario per le attivit
democratiche di gestione, il tempo consacrato alle attivit domestiche e di cura dei bambini, ecc. Il
reddito di base e i diritti sociali possono essere associati a questa "attivit sociale" che pu
passare da un lavoro all'altro - o a una formazione, o ancora ad un altro compito collettivamente
riconosciuto.
Questi problemi si pongono anche nelle lotte anticapitalistiche, contro la precariet imposta che
punta (dal punto di vista capitalistico) a ridurre i benefici sociali versati. Bisogna al contrario
elaborare un codice del lavoro (con i giuristi del lavoro) che sopprima lo "stimolo" capitalistico della
precariet: questa deve costare (in termini di protezione sociale) al padrone quanto un lavoro non
precario... La lotta anticapitalistica sul piano sociale e ideologico deve rimettere in discussione il
trattamento disumano dei lavoratori come merci scartabili (per comprimere i costi): un "diritto" di
propriet e uno statuto sociale alternativo deve essere abbozzato contro il diritto borghese, per
delegittimarlo. Per si tratta di una battaglia complessiva che si scontra con i pieni poteri
istituzionali, militari, giuridici, economici del capitale a vari livelli. Il "contratto" di lavoro
evidentemente profondamente distorto e disuguale rispetto a questi diritti di propriet giuridici e
reali del capitale. Bisogna contestare questi diritti. Dei passi in avanti sono possibili.
Per chiaro che una delle trasformazioni radicali che punta a permette la presa del potere
rivoluzionaria di stabilire una nuova Costituzione da parte di una assemblea costituente: questa
dovr cambiare "le regole del gioco", i diritti sociali di base, gli statuti degli esseri umani. E' li che
devono essere concretizzate e difese le finalit autogestionarie, nelle modalit in cui saranno state
abbozzate dalle esperienze parziali.
2. La questione dei "Beni comuni" ci aiuta in ci - nella riformulazione, con parole "nuove", di
vecchie e durevoli utopie "comuniste" ma anche nella comprensione dei fallimenti passati.
Permette di allargare i terreni e i temi di mobilitazione, in un'ottica autogestionaria nel senso ampio
definito prima: utenti e produttori, a diversi livelli territoriali, e articolando esplicitamente un rifiuto di
statuti sociali disumani. Il tema dei "beni comuni" esprime l'esigenza del XXI secolo di diritti
sociali universali fondamentali integrandovi l'esigenza della co-propriet, la piena responsabilit
delle ricchezze umane prodotte, la co-solidarieet nella protezione dell'ambiente. Non si tratta di
astrazioni ma di questioni concrete.
La nozione dei "Commons" (in inglese) o "beni comuni" emerge sempre di pi sia nelle ricerche
teoriche (4) - come quella di Elinor Ostrom sulle comunit indigene - sia nelle esperienze orientate
alla gestione democratica dei beni naturali - come l'acqua o la terra - o dei beni (materiali o
immateriali) creati dall'attivit umana. Queste riflessioni che si diffondono attualmente su tutti i
continenti nei movimenti di resistenza si ergono contro le interpretazioni neoliberiste che hanno
cercato di dimostrare che solo la propriet privata dei beni genera una gestione efficace. La
"tragedia dei beni comuni",(5) articolo scritto da Garrett Hardin nel 1968, associava cos ad ogni
propriet collettiva una supposta inefficienza organica. Questa "tragedia" sarebbe dovuta alla
"deresponsabilizzazione" che ogni propriet sociale comporterebbe ("di tutti e di nessuno", come si
diceva in Yugoslavia) visto che ognuno rinvierebbe ad altri il compito di prendersi cura della
propriet comune. E molte critiche liberali dell'esperienza yugoslava, e pi in genere del
"socialismo reale", hanno messo l'accento sui comportamenti reali di spreco o di assenza di
manutenzione dei beni pubblici, illustrando in effetti questa "tragedia". Eppure non fatale e le sue
cause stanno al centro della riappropriazione che dobbiamo fare di un bilancio critico di questo
passato: l'assenza di responsabilit degli autogestionari, dei lavoratori e degli utenti della propriet
collettiva, teoricamente "proprietari" ma praticamente subordinati alla gestione da parte del
partito/Stato a nome dei lavoratori, alle loro spalle.
Ma non vi niente di fatale e le esperienze studiate da Elinor Ostrom consentono di estrapolare
criteri che entrano in sintonia con le osservazioni fatte prima: i comportamenti irresponsabili
possono essere padroneggiati se emergono quelle che si potrebbero chiamare, riprendendo il
vocabolario yugoslavo evocato prima, le "comunit d'interesse autogestionarie" che decidono i
criteri stessi della gestione e ne controllano l'applicazione. Questa idea generale pu estendersi a
vari livelli di applicazione. Implica che tutte le persone interessate nella gestione di un determinato
bene siano responsabilizzate nella determinazione delle scelte, nel loro controllo, nel loro
riaggiustamento a vari livelli territoriali.
Certo, c' bisogno di un'analisi concreta delle situazioni concrete. I problemi di gestione non sono
gli stessi se il bene da gestire "divisibile" e materiale (come una terra o delle risorse naturali di
acqua o di energia) e esauribile; o se diventa meno costoso produrlo a misura che tutte/i ne fanno
uso individuale - senza che ci ne impedisca l'uso collettivo: anzi la soddisfazione di ognuno/a
aumenta, per esempio con un software libero gestito collettivamente. Le caratteristiche della
"propriet intellettuale" sulle conoscenze scientifiche e mediche, o culturali, sottolineano che la
privatizzazione controproducente per l'interesse collettivo. Ma possiamo anche dimostrare
articolazioni positive tra l'interesse individuale e collettivo trovando stimoli e modi di gestione
adeguati alle imprese autogestite, ai servizi pubblici, o a una "comunit di societ" tutta intera (in
una regione, prima di prendere un potere ancora pi ampio..). Detto in altre parole la "gestione dei
Commons" consente anche di articolare la riflessione e l'azione delle lotte dentro e contro il
sistema capitalista, inventando concretamente altri "possibles" (potenzialit storiche) che non
possono trovare la loro coerenza e efficacia senza sollevare la "questione del potere" e quindi dei
diritti riconosciuti.