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SUL RIPARTO PROBATORIO RISPETTO ALLA SUSSISTENZA DELLA GIUSTA


CAUSA DI LICENZIAMENTO: L'INAPPLICABILIT DEL CRITERIO DELLA
VICINANZA ALLA PROVA

Diritto delle Relazioni Industriali, fasc.4, 2016, pag. 1135


Emanuele Dagnino
Classificazioni: LAVORO SUBORDINATO (Rapporto di) - Estinzione e risoluzione del
rapporto: licenziamento - - per giusta causa
Sommario: 1. Il caso: l'abuso del telefono aziendale. 2. La cassata sentenza della Corte
d'Appello. 3. Il principio di vicinanza alla prova in tema di licenziamento. 4. La motivazione
dell'inapplicabilit. 5. Criterio di vicinanza e sussistenza del fatto contestato. 6. Conclusioni.

1. Con sentenza n. 17108 del 16 agosto 2016 la sezione lavoro della Cassazione si occupa di un
caso di licenziamento comminato per abuso del cellulare aziendale fornito al dipendente. Il datore
di lavoro, a fronte della consultazione dei tabulati relativi, contestava al lavoratore l'uso per
finalit personali del telefono cellulare, sostenendo la natura privata e non lavorativa delle
chiamate effettuate tramite lo stesso.

La giurisprudenza in tema di abuso del telefono aziendale, portatile e non cos come su altre
consimili, quale, per esempio, l'uso del pc aziendale a fini personali ormai corposa e risalente.
Essa si espressa, da un lato, sui profili di acquisizione della prova, ovvero sul nodo dei controlli
a distanza e della tutela della riservatezza (su cui, per una sintesi ragionata, E. BARRACO, A.
SITZIA, Potere di controllo e privacy. Lavoro, riservatezza e nuove tecnologie, Wolters Kluwer,
2016, 62 ss.). Peraltro, fu proprio su un caso relativo al controllo per l'uso indebito del telefono
aziendale che si inaugur l'orientamento relativo ai cosiddetti controlli difensivi, creato dalla
giurisprudenza per contrastare alcuni vincoli allora vigenti al potere di controllo ritenuti troppo
onerosi per i datori di lavoro (Cass. 3 aprile 2002, n. 4746, in GLav, 2002, n. 21, 10 ss., con nota
di L. NOGLER, Abuso di telefono aziendale: la decisione su controlli e rimedi). Dall'altro lato, la
Corte si trovata pi volte a decidere con riferimento all'integrazione da parte del comportamento
di una giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento del dipendente (tra le altre, Cass.
14 giugno 2012, n. 9701, in D&G online, 2012, fasc. 0, 509, con nota di A. DI GERONIMO,
S al licenziamento del dipendente che usa il telefono aziendale per motivi personali; in senso
risalente si veda Cass. 7 aprile 1999, n. 3386, in RIDL, 1999, II, 651 ss., con nota di G. PERA, Il
licenziamento per abuso del telefono aziendale). Con riferimento a questo secondo aspetto,
tacendo le molteplici variabili che possono incidere sulla valutazione, risulta, comunque,
preliminarmente necessario accertare la politica praticata in azienda rispetto alla tolleranza o al
vero e proprio consenso all'uso promiscuo delle dotazioni aziendali (sul punto A. LEVI, Il
controllo informatico sull'attivit, Giappichelli, 2013, 103 ss.).

Il caso in esame verte, per, su un aspetto peculiare, che, pur collegato, estraneo ai profili
richiamati.

2. La Suprema Corte, infatti, cassa la sentenza sottoposta al suo vaglio, con rinvio alla Corte
d'Appello competente, in ragione di una errata allocazione dell'onere della prova della sussistenza
della giusta causa. La Corte d'Appello aveva confermato il licenziamento intimato al lavoratore
sulla scorta della mancata prova da parte dello stesso del carattere lavorativo o meramente
personale delle telefonate identificate tramite i dati esterni nella lettera di contestazione, ove in
ottemperanza al comma 3, art. 5, del d.lgs. n. 171/1998 le ultime tre cifre dei numeri chiamati
risultavano criptati (essi erano stati desunti dai tabulati telefonici, che, peraltro, non sono stati
depositati in giudizio). Sosteneva la Corte che, se da un lato, in base ai vincoli posti dalla
disciplina in materia di protezione dei dati personali, sarebbe stato precluso all'azienda
l'accertamento del numero telefonico completo, ci sarebbe stato possibile al lavoratore tramite
confronto con i numeri contenuti nella propria rubrica o agenda personale. Egli avrebbe di
conseguenza potuto e dovuto, secondo quanto affermato dalla sentenza verificare i destinatari
delle chiamate e risalire alle motivazioni cos da rilevarne la natura privata o lavorativa. A parere
dei giudici della sezione lavoro della Cassazione, la Corte d'Appello avrebbe cos operato una
inversione di quell'onere della prova (della giusta causa o del giustificato motivo di
licenziamento) che l'art. 5 legge n. 604/1966 attribuisce inderogabilmente al datore di lavoro: ci
sarebbe avvenuto, secondo quanto sottolineato dalla Suprema Corte, tramite l'applicazione, pur
non esplicitata, del c.d. criterio empirico della vicinanza alla fonte di prova.

3. Il principio della riferibilit o vicinanza alla fonte della prova ha acquisito, negli ultimi anni,
sempre pi rilievo all'interno delle decisioni giurisprudenziali e non rappresenta una peculiarit
italiana, trovando addirittura espresso riconoscimento all'interno di alcuni ordinamenti come, ad
esempio, quello spagnolo (C. BESSO, La vicinanza della prova, in RDP, 2015, n. 6, 1383 ss.).
Tale criterio rappresenta la risposta giurisprudenziale alle necessit spesso avvertite di una
distribuzione pi equa dell'onere della prova rispetto a quella praticata in base alle discipline
codicistiche ed in particolare a norma dell'art. 2697 c.c., che rappresenta il criterio generale di
riparto dell'onere della prova nel nostro ordinamento. Il principio , secondo l'impostazione
giurisprudenziale, espressione del diritto di azione, trovando fondamento nell'art. 24 Cost., che
risulta frustrato laddove l'allocazione dell'onere della prova renda impossibile o troppo difficile il
suo esercizio e opera nel senso di gravare della stessa la parte che la abbia nella sua disponibilit o
abbia maggiore facilit nel reperirla (C. BESSO, op. cit.).

Esso ha trovato accoglimento, per lo pi in forma implicita, anche nell'ambito del contenzioso
lavoristico in generale e, in particolare, per quanto qui interessa, in quello relativo ai licenziamenti.
Il criterio in esame stato richiamato, per esempio, all'interno dell'orientamento giurisprudenziale
rispetto all'allocazione dell'onere della prova quanto ai requisiti dimensionali dell'azienda rilevanti
per le tutele avverso i licenziamenti illegittimi, consolidatosi a partire da Cass. 10 gennaio 2006, n.
141 (in RIDL, 2006, II, 440, su cui si vedano, tra le altre, le note di A. VALLEBONA, L'onere
probatorio circa i requisiti dimensionali per la tutela reale contro il licenziamento: le Sezioni
unite cambiano idea, ivi, 448 ss.; G. CANNATI, Sul lavoratore non grava l'onere della prova del
requisito dimensionale previsto dall'art. 18 St. lav., in RIDL, 2007, II, 215 ss., e F. SANTINI,
Tutela reale e onere della prova del requisito dimensionale, in q. Rivista, 2007, n. 1, 194 ss.),
laddove si accolla tale onere al datore di lavoro, il quale gode di miglior cognizione rispetto alle
caratteristiche della propria azienda. D'altra parte, da notare come sia stato recentemente sostenuto
che le recenti innovazioni legislative in materia potrebbero incidere sull'orientamento citato (con
riferimento alla c.d. legge Fornero: C. DE MARTINO, La dimensione dell'impresa nella
disciplina dei licenziamenti individuali, in RIDL, 2014, I, 677-678; G. AMOROSO, Le tutele
sostanziali e processuali del novellato art. 18 dello Statuto dei lavoratori tra giurisprudenza di
legittimit e Job Act, in RIDL, 2015, I, 358; rispetto al Jobs Act, A. BOSCATI, Il licenziamento
disciplinare nel contratto a tutele crescenti, in q. Rivista, 2016, n. 4, 1033).

Un altro ambito in cui il principio in esame stato valorizzato quello relativo all'onere della
prova e dell'allegazione in tema di repchage. In questo ambito, sovvertendo un consolidato
orientamento, alcune recenti sentenze (si veda il commento di M. FERRARESI, L'obbligo di
repchage tra onere di allegazione e onere della prova: il revirement della Cassazione, in q.
Rivista, 2016, n. 3, 843 ss.) hanno sostenuto la maggior conformit, rispetto al criterio di vicinanza
della prova, dell'allocazione di entrambi gli oneri in capo al datore di lavoro, e hanno cos negato
la sussistenza di un obbligo di collaborazione da parte del lavoratore costituito dall'allegazione
delle posizioni in cui possibilmente essere ricollocato cui condizionare la sussistenza dell'onere
probatorio del datore. Di norma, infatti, non pu che essere il datore di lavoro ad avere maggiore
conoscenza della propria organizzazione produttiva, rispetto al proprio lavoratore. Resta da
verificare se l'orientamento in parola incider in maniera decisa rispetto a quello prevalente,
dovendosi comunque sottolineare come persistano, anche a seguito di queste pronunce, sentenze di
segno diametralmente opposto (si veda M. FERRARESI, op. cit., 844; G. BULGARINI D'ELCI,
Obbligo di repchage e ripartizione dell'onere della prova, in GLav, 2016, n. 25, 19 ss.).
4. L'applicazione del criterio di riferibilit o vicinanza della prova secondo i ragionamenti e le
argomentazioni proposte negli esempi citati porta, nel caso di specie, a riconoscere l'onere della
prova dei destinatari e della natura delle chiamate in capo al lavoratore. Da un lato la Cassazione
rileva che il criterio stato applicato in base ad una mera congettura, anzich ad una massima di
esperienza (laddove ritiene agevole la ricostruzione da parte del lavoratore) e che non stata
dimostrata l'eccessiva difficolt di produzione della prova, dal momento che, pur in assenza dei
dati, la societ stata in grado di individuare le chiamate contestate. Non , per, in base a tale
argomento che la sentenza viene cassata: diversamente dagli esempi citati, ove l'applicazione del
criterio di riferibilit o vicinanza della prova agiva a supporto del riparto dell'onere probatorio nei
confronti di una delle parti, nel caso in esame l'applicabilit stessa del principio che viene
esclusa. Pur riconoscendone l'utilizzabilit laddove la ripartizione dell'onere della prova in
ragione della distinzione tra fatti costitutivi e fatti estintivi, impeditivi o modificativi del diritto dia
un risultato non soddisfacente dal punto di vista della tutela del diritto di difesa di cui all'art. 24
Cost., nel senso di renderlo impossibile o troppo difficile, la Corte esclude tale possibilit, ove il
legislatore stabilisca esplicitamente a priori l'onere probatorio. Trattandosi della prova della
giustificatezza del licenziamento, il riferimento corre necessariamente, come anticipato, all'art. 5
della l. n. 604/1966, che espressamente recita: [l']onere della prova della giusta causa e del
giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro.

5. La lettura operata dalla Cassazione si riferisce ad un licenziamento avvenuto in vigenza dell'art.


18, addirittura nella sua versione precedente alla l. n. 92/2012. La dinamica del caso si presta,
per, ad un ragionamento ulteriore, riguardante il riparto dell'onere della prova della sussistenza
del fatto contestato cos come statuito dall'art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23/2015, relativo
all'introduzione nell'ordinamento italiano del c.d. contratto a tutele crescenti. La disposizione
condiziona l'accesso alla tutela reintegratoria nel caso di licenziamento per giustificato motivo
soggettivo illegittimo alla circostanza che sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza
del fatto materiale contestato al lavoratore. Si tratta di una disposizione di dubbia interpretazione
sulla quale, come noto, si concentrata l'attenzione di abbondante dottrina: tacendo i profili
relativi alla querelle occorsa in tema di materialit del fatto contestato, ci si limita ad accennare,
senza alcuna pretesa di completezza, alcuni aspetti rilevanti in tema di prova utili al fine della
riflessione proposta. Il tenore letterale della disposizione imporrebbe una scissione nell'onere
probatorio, ricadendo sul lavoratore la prova della insussistenza al fine di ottenere la tutela
reintegratoria e permanendo l'onere della prova della sussistenza della giusta causa o del
giustificato motivo in capo al datore di lavoro (sul punto, tra gli altri, F. CARINCI, Il
licenziamento disciplinare, in F. CARINCI, C. CESTER (a cura di), Il licenziamento disciplinare
all'indomani del d.lgs. n. 23/2015 (contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti),
ADAPT University Press, 2015, 47, ove si richiama la lettura conforme data dalla relazione
illustrativa allo schema di decreto AG n. 134). In base a questa lettura, nel caso di specie, pur non
essendo stata provata la sussistenza della giusta causa, il lavoratore non avrebbe potuto accedere
alla tutela reintegratoria, non avendo fornito la prova diretta in giudizio della insussistenza del
fatto materiale contestato. Questo tipo di interpretazione ha trovato il contrasto della dottrina
maggioritaria, che si rifatta ad argomentazioni di vario tenore, richiamando sovente principi
costituzionali (si veda, per esempio, S. GIUBBONI, Profili costituzionali del contratto di lavoro a
tutele crescenti, Working Paper CSDLE Massimo D'Antona.IT, 2015, n. 246, 19, che richiama
gli artt. 3 e 24 Cost.; in senso conforme L. DE ANGELIS, Il contratto a tutele crescenti. Il
giudizio, Working Paper CSDLE Massimo D'Antona.IT, 2015, n. 250, 13) e comunitari (di
questo avviso M. DE LUCA, Contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti e nuovo
sistema sanzionatorio contro i licenziamenti illegittimi: tra legge delega e legge delegata,
Working Paper CSDLE Massimo D'Antona.IT, 2015, n. 251, 26, che rileva la contrariet di una
tale lettura all'art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea).

Vale qui sottolineare come, con riferimento ai principi di derivazione costituzionale, un argomento
che ha trovato una certa diffusione nella dottrina per negare la lettura in commento riguardi
proprio il criterio di vicinanza alla prova. Gravare il lavoratore della prova della insussistenza del
fatto lo porrebbe, infatti, di fronte a quella che la dottrina maggioritaria ha definito una probatio
diabolica, rendendo difficile, ai limiti dell'impossibilit, la dimostrazione richiesta al fine
dell'accesso alla tutela reintegratoria. Sulla scorta di tale principio, allora, parte della dottrina ha
sostenuto che debba essere rigettata in quanto in violazione della Costituzione una lettura della
disposizione che configuri l'onere della prova diretta della insussistenza del fatto materiale
contestato in capo al lavoratore, dovendosi ritenere, invece, costituzionalmente orientata una
interpretazione che faccia ricadere l'alea della mancata prova sul datore anche con riferimento al
rimedio avverso al licenziamento illegittimo della tutela reintegratoria (in questo senso, tra gli
altri, D. BORGHESI, Aspetti processuali del contratto a tutele crescenti, in F. CARINCI, C.
CESTER (a cura di), op. cit., 212; A. PERULLI, Il licenziamento nel contratto a tutele crescenti,
in RIDL, 2015, I, 428; V. SPEZIALE, Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, in
RIDL, 2016, I, 127-128).

6. La breve disamina proposta dimostra come tanto la giurisprudenza quanto la dottrina lavoristica
in continuit con quanto avviene nell'ordinamento civilistico in termini generali (C. BESSO, op.
cit.) facciano sempre pi sovente utilizzo del principio di riferibilit, vicinanza o disponibilit
della prova. Di fronte a riforme del lavoro che sono state avvertite come peggiorative delle
condizioni dei lavoratori, giurisprudenza e dottrina sembrano orientate a valorizzare il principio in
parola, ma solo laddove esso possa muoversi nell'ottica di un riequilibrio delle posizioni in campo.

Nel caso specifico del licenziamento disciplinare, coordinando il dictum della sentenza in esame
con le argomentazioni da ultimo citate, sarebbe proprio il principio di vicinanza a precludere la
deroga implicita dell'art. 3, l. n. 604/1966, quanto alla prova ai fini dell'accesso alla tutela,
rimanendo valida l'affermazione della Corte che esclude l'applicabilit del principio stesso contro
il lavoratore per entrambe le fasi di accertamento, proprio in ragione della vigenza della esplicita
disciplina dell'onere della prova contenuta nella disposizione.

Utente: Universit? Milano


www.iusexplorer.it - 26.03.2017
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