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M.

Cherif Bassiouni
Una valutazione della politica degli Stati Uniti in Iraq
(Titolo originale: An Evaluation of the United States’ Iraq Policy), da “Al-Siyassa Al-
Dawliya – The International Politics Journal” (Egitto) – Gennaio 2003

Sebbene non sia l’unico regime di questo genere, il governo di Saddam Hussein ha mostrato fin dalle origini 1 il
proprio carattere di tirannide spietata. Alcune delle sue misure repressive interne rientrano nella categoria dei crimini
contro l’umanità ed altre costituiscono gravi violazioni di fondamentali diritti umani.
Il regime è stato anche una minaccia alla sicurezza della regione, come attestato dalle sue guerre di aggressione
contro l’Iran (1981-88) ed il Kuwait (1990-91). Durante questi due conflitti furono commessi crimini di guerra
contro civili e militari, anche tramite l’uso di armi chimiche proibite. Durante la Guerra del Golfo nel 1991, l’Iraq
lanciò, inoltre, attacchi missilistici indiscriminati contro la popolazione civile di Israele, il che costituisce un crimine
di guerra.
Gli sforzi del regime per sviluppare ed accumulare riserve di armi chimiche e biologiche violano la legislazione
internazionale 2. E’ anche evidente che ha tentato di sviluppare armi nucleari, ma le ispezioni del dopoguerra
eliminarono questa possibilità. Ciononostante, il regime iracheno ha capacità scientifiche e tecnologiche che possono
essere usate in tal senso.
Gli sforzi delle Nazioni Unite per trovare ed eliminare queste armi di distruzione di massa, conseguenti a molte
risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, furono contrastati dal governo iracheno. Questo comportamento e i precedenti
atti di aggressione potrebbero far concludere che – se questo regime possedesse tali armi – costituirebbe una
minaccia alla pace e alla sicurezza, ma negli ultimi 11 anni, tale potenzialità è stata efficacemente limitata dagli Stati
Uniti. Ciononostante, l'amministrazione Bush ha deciso che il suo principale obiettivo in politica estera è quello
rimuoverlo con la forza, come potenziale minaccia, sebbene non abbia reso chiara l’entità della minaccia.
In un primo momento, l'amministrazione USA ha espresso la sua intenzione di fare ciò attraverso l’opzione (molto
discutibile sul piano legale) di un attacco militare unilaterale preventivo (discorso di Bush all’Accademia Militare di
West Point – 1° giugno 2002). In seguito questo unilateralismo è stato attenuato, ed è stata richiesta ed ottenuta
l’approvazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (8 novembre 2002) con una risoluzione approvata
all’unanimità (1441) 3 che implica l’uso della forza se l’Iraq si rifiuta di obbedire alle nuove ispezioni sulle armi.
La risoluzione delle Nazioni Unite ha stabilito nuove basi per l’uso della forza contro l’Iraq, allo scopo di rafforzare
le condizioni di disarmo. La risoluzione 1441 non legittima – invece – un cambio di regime, né fa parola dei misfatti
di Saddam nei confronti del proprio popolo, né delle sue azioni contro l’Iran e il Kuwait, ma solo di un’eventuale
distruzione del materiale collegato con le armi di distruzione di massa.
Si discute oggi se siano legittimi un uso unilaterale della forza e l’imposizione all’Iraq di un cambio di regime. Gli
Stati Uniti stanno costringendo la comunità internazionale a porsi queste domande, ed è perciò necessario esaminare
la politica statunitense nei confronti dell’Iraq e la probabilità di una loro azione militare per invadere ed occupare
l’Iraq nel 2003 con l’obiettivo di un cambio di regime 4, che includerà anche l’applicazione di procedure giudiziarie
post-belliche5.

La politica irachena degli Stati Uniti: 1979-1990

Dopo la Rivoluzione islamica iraniana (1979) l’Iraq fu destinato al ruolo di barriera geopolitica tra un Iran percepito
come minaccioso e gli stati arabi del Golfo. A causa delle attività estrattive e delle riserve petrolifere dei paesi del
Golfo, il ruolo di “stato cuscinetto” dell'Iraq divenne di importanza strategica per questi ultimi e per gli Stati Uniti.

1
Le origini del regime di Saddam Hussein risalgono al colpo di stato del 17 Luglio 1968, col quale presero il potere in
Iraq un gruppo di nazionalisti e di ufficiali appartenenti al partito Ba’ath, sotto la guida di Ahmed Hassan al-Bakhr. Nel
novembre 1969 Saddam venne nominato vicepresidente. Dieci anni dopo (Luglio 1979), con le dimissioni di al-Bakhr,
Saddam assunse la presidenza ed un potere personale sempre più oppressivo ed illimitato (n.d.r.).
2
In questo l’Iraq non è solo. Altri 15 stati risultano avere programmi di sviluppo di armi nucleari,inclusi India, Israele e
Pakistan. Trenta stati possiedono armi chimiche e/o biologiche. Nel Medio Oriente, Israele e Egitto hanno tali armi, e si
crede che anche l’Iran ne stia fabbricando. Quest’ultimo risulta avere anche le capacità per produrre armi nucleari.
3
Risoluzione 1441 del Consiglio di Sicurezza, UN SCOR, sezione 57, riunione 4 464, UN Doc. S/Res/1441-2002.
Questa risoluzione è stata votata da USA, Inghilterra, Federazione Russa, Francia, Cina, Bulgaria, Camerun, Colombia,
Guinea, Irlanda, Mauritius, Messico, Norvegia, Singapore e Siria.
4
Kenneth M. Block, The Threatening Storm: The Case for Invading Iraq, 2002.
5
Per un quadro delle esperienze contemporanee in materia, vedi Post-Conflict Justice a cura di M. Cherif Bassiouni,
2002.
1
In questa situazione, l'ambiguità dell'atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti del regime di Saddam tra il 1979
ed il 1990, e perfino nella fase successiva alla Guerra del Golfo, ha prodotto politiche inefficaci ed incoerenti, che
hanno incoraggiato Saddam nelle sue pratiche. Molto di ciò che gli Stati Uniti lamentano oggi è infatti la
conseguenza di loro trascorse scelte politiche.

La politica irachena degli Stati Uniti cominciò a mostrare i suoi difetti e le sue contraddizioni durante la Guerra tra
Iran e Iraq: gli Stati Uniti aiutarono l’Iraq, ma non abbastanza da assicurare il suo successo militare contro l'Iran.
Quella di allora fu un’applicazione della politica, prediletta da Henry Kissinger, del “plague on both houses”, una
versione aggressiva del “divide et impera”, che mirava a fare esaurire economicamente e militarmente entrambi i
contendenti, in modo da renderli incapaci di nuocere altrove.
Gli Stati Uniti fornirono servizi di intelligence a Saddam, informandolo tramite tecnologie satellitari sulla
disposizione delle forze iraniane e ne appoggiarono la pianificazione militare. Incoraggiarono anche gli Stati arabi
del Golfo affinché dessero appoggio finanziario agli sforzi di guerra dell'Iraq e infine – ed è la cosa peggiore –
chiusero un occhio sull'uso di armi chimiche da parte dell’Iraq contro i civili iraniani in due regioni di confine
(1983). L’azione irachena comprese l’uso, proibito dalle convenzioni internazionali, di armi contenenti Iprite, Sarin e
gas Nervino. Nel fare ciò, il regime iracheno commise crimini di guerra, di cui non pagò le conseguenze,
beneficiando di una scriteriata condizione di impunità.
I paesi arabi del Golfo, in questa fase appoggiarono la politica statunitense e lo sforzo bellico iracheno, in parte per
la loro tradizionale alleanza con Stati Uniti, e in parte perché temevano per conto proprio le ambizioni politiche
(“esportare” la rivoluzione islamica) e territoriali dell’Iran.
La percezione di tale minaccia era stata accentuata dall’occupazione (1980) da parte dell’Iran di due piccole isole
appartenenti agli Emirati Arabi Uniti, ma soprattutto dall’influsso iraniano sulle ampie minoranze sciite presenti in
questi paesi. Gli Stati Uniti condividevano tali preoccupazioni.
Anche alcuni interessi economici erano in pericolo. Per gli Stati Uniti, si trattava del grano e delle merci vendute
all’Iraq e dei contratti petroliferi delle società americane. Anche per l'Europa Occidentale l’Iraq era una fonte di
petrolio ed un importante partner commerciale. Più significativa, comunque, era la relazione di vecchia data dell’Iraq
con l'URSS che per anni aveva equipaggiato le milizie irachene. Durante il periodo 1980-1990, l’Iraq aveva inoltre
dato il via a un programma segreto per sviluppare armi di distruzione di massa (WMD) le cui componenti e la
tecnologia furono acquistate soprattutto dall'Europa. Perciò l’Europa e l'URSS - più tardi la Russia - erano favorevoli
all’Iraq, e sostennero il regime ogni volta che la politica degli Stati Uniti diventava ostile. Anche questo contribuì
alla fluttuazione nella politica degli USA riguardo all’Iraq.

Dagli USA giunsero sempre all’Iraq dei segnali misti, ma in conclusione parve che i messaggi di incoraggiamento
superassero quelli negativi.
Due esempi illustrano questa situazione. Il primo: lungo i circa dieci anni che precedettero la sua invasione del
Kuwait, l’Iraq acquistò milioni di dollari in grano e in altre merci dagli Stati Uniti contando su crediti e condizioni
finanziarie favorevoli. Questa relazione commerciale fu sostenuta attivamente da molti influenti senatori
repubblicani, come Robert Dole e Alan Simpson, che rappresentavano gli stati produttori delle merci esportate 6.
Nella primavera del 1990, una delegazione di senatori di questi stati si recò a Baghdad e, in un incontro con Saddam
di cui fu data notizia dalle reti televisive di tutto il mondo, lo rassicurò riguardo alle critiche dei media americani nei
confronti del suo regime.
Un secondo episodio significativo è il seguente: nell’aprile 1990, subito dopo la suddetta visita della delegazione del
Senato, April Gillespie – ambasciatore degli Stati Uniti a Baghdad di recente nomina – in un incontro con Saddam
diede maldestramente a quest’ultimo l'impressione che gli Stati Uniti avrebbero chiuso un occhio su un’eventuale
invasione del Kuwait. L’equivoco ed il malinteso diplomatico che ne seguì vennero successivamente chiariti, ma
l’impressione che l’atteggiamento aggressiva di Saddam verso il Kuwait fosse stato incoraggiato rimase.
Negli Stati Uniti questi segnali potevano apparire insignificanti, ma per un leader arabo come Saddam, che non
aveva mai viaggiato negli Stati Uniti e che vedeva quel paese da una sua prospettiva assai limitata, erano abbastanza
chiari. Per le stesse ragioni, Saddam si convinse che, se avesse rassicurato gli Stati Uniti della propria intenzione di
rispettare l'integrità territoriale dell’Arabia Saudita e degli altri Stati arabi del Golfo ed avesse continuato a far
svolgere all’Iraq la solita funzione di controllo e contenimento dell’aggressività iraniana, gli si sarebbe permesso di
appropriarsi del Kuwait e delle sue ingenti riserve di petrolio. Ritenne che, fintanto che avesse continuato a vendere

6
Ricordiamo che il Senato degli Stati Uniti, che assieme alla Camera dei Rappresentanti forma il Congresso, organo
legislativo della nazione, è formato da due senatori per ciascuno degli Stati che compongono l’Unione, ed è quindi
un’istituzione a marcato carattere federalistico, contrassegnata dalla rappresentatività degli interessi locali presso gli
organi centrali dello Stato (n.d.r.).
2
il petrolio iracheno e kuwaitiano agli Stati Uniti, all’Europa ed al Giappone, gli interessi di questi paesi avrebbero
prevalso su preoccupazioni di altro genere e che l’Europa e la Russia sarebbero state felici di avere un partner
commerciale più ricco.
In tal modo l’ambiguità della politica degli Stati Uniti e i segnali contraddittori provenienti da Washington e dalla
diplomazia ufficiale consolidarono nel regime iracheno la convinzione della propria importanza strategica per gli
Stati Uniti e produssero nella mente di Saddam, un qui pro quo riguardo alla conquista del Kuwait, sul quale egli
volle giocare d’azzardo.
Saddam ed i suoi consiglieri credettero che di fronte ad una rapida aggressione del Kuwait gli Stati Uniti avrebbero
risposto con lentezza, e infine sarebbero stati posti di fronte al fatto compiuto. Per metterla in altri termini: secondo
Saddam, gli Stati Uniti e l'Europa avrebbero avuto tutto da guadagnare dal permettere l’invasione del Kuwait senza
proteste ufficiali né condanne pubbliche.
Il dittatore iracheno, evidentemente, si ingannava, ma aveva delle obiettive ragioni per questa illusione, e –
dall’interno del suo regime tirannico – ben pochi potevano avere il coraggio di contraddirlo riguardo a ciò.
L’attuale amministrazione Bush ha imparato la lezione di quell’esperienza, ed ha cura di non lasciare nulla di
ambiguo o equivoco nelle sue intenzioni: questo spiega perché Saddam ha di recente ricevuto ed accettato
inequivocabilmente i termini della nuova ispezione sulle armi contenuti nella Risoluzione 1441 delle Nazioni Unite.

La battaglia attorno all’opinione pubblica internazionale

Nel periodo di oltre un decennio che è seguito dalla Guerra del Golfo ad oggi, Stati Uniti ed Iraq hanno giocato la
loro partita cercando di influenzare la politica degli altri paesi tramite un’azione sull’opinione pubblica. Fino al 2002
le sorti di tale battaglia di opinione sono state a vantaggio dall’Iraq.
Ciò è dovuto a vari motivi:
1. Anzitutto gli Stati Uniti non hanno giocato la carta vincente di una pubblicizzazione dei crimini e delle
violazioni dei diritti umani compiute dal governo iracheno.
2. Di contro, gli effetti sociali ed economici delle sanzioni hanno mostrato l’Iraq come vittima e gli Stati Uniti
come aggressore.
3. Saddam è stato diplomaticamente e politicamente più astuto dell’avversario, ed ha guadagnato in particolare un
appoggio crescente da parte di Russia e Francia.
4. Anche e soprattutto il mondo arabo e musulmano ha appoggiato in misura sempre maggiore Saddam; dopo la
guerra – infatti – l’Iraq ha tenuto un contegno responsabile, ed è riuscito a non apparire più come una minaccia
per i paesi confinanti.
5. Nel frattempo la politica repressiva di Israele nei confronti dei Palestinesi è stata sostenuta, anche dal punto di
vista degli armamenti, dagli Stati Uniti, cosa che ha prodotto un grave discredito di questi ultimi presso i paesi
arabi, soprattutto tramite l’accusa di usare due pesi e due misure nel valutare le politiche dei paesi dell’area
mediorientale. Anche queste considerazioni hanno rinforzato presso i popoli arabi e musulmani ed i loro governi
la conclusione che l’Iraq è, e probabilmente continuerà ad esserlo in futuro, la vittima e gli Stati Uniti
l'aggressore.
Veniamo ora agli eventi più recenti.
Nel suo Discorso sullo Stato dell’Unione del 29 gennaio 2002, Bush ha – com’è noto – affermato che la Corea del
Nord, l’Iraq e l’Iran costituiscono un “asse del Male”. Questa asserzione non ha trovato certo una accoglienza
favorevole in tutto il mondo. È stata vista come uno slogan privo di sostanza, influenzato soprattutto dall’ideologia
della “destra cristiana fondamentalista” 7, ormai influentissima come gruppo di pressione e serbatoio elettorale presso
la Casa Bianca 8.
Inoltre, il chiassoso anti-islamismo di tale gruppo era divenuto così evidente dopo l’11 settembre che i paesi arabi e
musulmani hanno interpretato i rumori di guerra contro l’Iraq come l’annuncio di una guerra di religione contro i
musulmani in generale.
Questa percezione è stata rinforzata dopo il 7 ottobre 2001, con l’occupazione americana dell’Afghanistan all’interno
dell’Operazione “Enduring Freedom”. Lo scopo che allora si proponeva Bush di galvanizzare i governi e l’opinione
pubblica mondiale è andato a vuoto. La misura di questo fallimento è divenuta evidente nell’agosto del 2002, quando
sia l’Arabia Saudita che l’Iran (ossia due paesi da lungo tempo avversi al regime di Baghdad) hanno annunciato la
propria opposizione ad un attacco militare degli Stati Uniti all'Iraq.

7
Vedi in proposito M. Cherif Bassiouni, “The Uncivil War against Islam”, in “Chicago Tribune”, 22 Ottobre 2002
8
Sulla “destra cristiana fondamentalista” vedi P. Naso “I crociati dell’Apocalisse. Teopolitica dei fondamentalismi
evangelici americani”, in “Limes” 4 – 2002 “L’Arabia americana”, pagg. 101-114 (n.d.r.).
3
Ancora una volta, Saddam ha potuto credere di star vincendo una schermaglia politica, ma, in realtà, questi fatti
hanno solo rinforzato la determinazione dell'amministrazione Bush contro di lui.
È a questo punto che l’amministrazione americana ha deciso di abbandonare – senza che ci siano stati, nello
specifico, dei mutamenti della politica irachena tali da motivare un cambiamento – la strategia di contenimento, che
aveva funzionato per oltre un decennio, per la scelta dell’attacco militare.
Tale opzione era complicata dalla tragica situazione in Palestina, ma aveva ricevuto un importante rinforzo dagli
attacchi dell’11 settembre, e alcuni esponenti dell'amministrazione cercavano di stabilire un collegamento – in realtà
inesistente – tra il regime di Saddam ed Al-Qaeda.
Tutti gli indizi che riuscirono a stabilire erano molto tenui, ma provocarono una reazione psicologica nell’opinione
pubblica americana, corroborata dal discorso del presidente nell’anniversario dell’attentato (nuova sede del World
Trade Center, 11 Settembre 2002), e da quello tenuto di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il giorno
successivo. In tal modo il pubblico americano è giunto a percepire – infondatamente – l’attacco all’Iraq come una
giustificata risposta all’attentato dell’11 Settembre.

La nuova politica degli Stati Uniti: l’attacco preventivo

Il collegamento fra l’11 Settembre ed il regime iracheno non aveva alcuna prova che andasse oltre la prevedibile
esultanza di Saddam nell’apprendere i fatti di New York e Washington. Le dichiarazioni di approvazione di Saddam
riguardo agli attentati non forniscono certo al Consiglio di Sicurezza materia per dichiarare che il governo iracheno
sia una minaccia alla pace ed alla sicurezza del mondo. Alcuni alleati della NATO ed altri paesi si sono perciò
opposti a nuove sanzioni e ad un’azione militare non supportata da prove tangibili di rapporti tra il regime iracheno
ed il terrorismo internazionale. Fabbricare le prove di tale collegamento, d’altra parte, metterebbe a dura prova la
credibilità degli Stati Uniti e finirebbe per essere controproducente. Ciononostante l'amministrazione americana ha
creato con successo, nelle menti della popolazione americana, una sorta di “collegamento subliminale” tra l’11
Settembre e l'Iraq, e questo probabilmente è ciò che ha spinto il Congresso a votare per l’intervento unilaterale degli
Stati Uniti.
Alcuni influenti funzionari dell’amministrazione Bush nel Dipartimento della Difesa, come il sottosegretario Paul
Wolfowitz e il presidente del Consiglio di Difesa Richard Perle, vedono un’invasione militare dell'Iraq come una
modifica delle relazioni strategiche nel Medio Oriente, a chiaro beneficio di Israele. La loro speranza è che tale
guerra leghi definitivamente gli Stati Uniti e Israele in un'alleanza tale da eliminare una volta per tutte le aspettative
arabe di prevalenza militare; ma – più in particolare – tale alleanza rinforzata avrebbe l’effetto di respingere ogni
ricerca di soluzione del conflitto israelo-palestinese che renda in qualche modo giustizia ai Palestinesi.
Questo programma è stato incoraggiato dagli esponenti conservatori della “destra cristiana” del Partito
Repubblicano. Essi condividono con alcune correnti politiche israeliane e con una parte dell’elettorato ebraico
statunitense la credenza che la Palestina sia parte del Grande Israele, e che i Palestinesi dovrebbe sottomettersi – o
venire sottomessi militarmente – ad Israele oppure essere cacciati, se necessario con la forza, dalla Palestina. Parte
delle motivazioni per questa campagna di propaganda sono basate dagli ultraconservatori della “destra cristiana” su
credenze relative alle profezie bibliche e sulla loro recente animosità nei confronti dell’Islam. Il presidente Bush è
sempre stato preoccupato dalle esigenze espresse da questo gruppo, il cui punto di vista personalmente non
condivide, ma la cui influenza rimane – comunque – forte nell'amministrazione.
L'impatto negativo sul mondo arabo di questo tipo di atteggiamenti è dannoso per gli interessi degli Stati Uniti, ma
sembra che l’opinione pubblica dei paesi arabi e musulmani sia giudicata sostanzialmente irrilevante dalla classe
politica americana. Negli Stati Uniti si ritiene che le conseguenze dell’invasione e dell’occupazione dell’Iraq saranno
limitate ad alcune dimostrazioni nelle maggiori città arabe e musulmane, che i governi locali non potranno far altro
sedare, se vogliono conservare rapporti favorevoli con gli Stati Uniti.

Il problema della legittimità internazionale 9

Nel caso che una guerra in Iraq non si verifichi, la minaccia avrà ottenuto due scopi: scuotere il regime di Saddam
costringendolo ad accettare una vera ispezione sugli armamenti; avvertire i membri permanenti del Consiglio di
Sicurezza che non sono d’accordo con la lina degli Stati Uniti (Francia, Russia e Cina) che la loro inerzia rischia di
marginalizzare il ruolo delle Nazioni Unite e che gli Stati Uniti saprebbero, se necessario, agire da soli. Entrambi
questi propositi hanno avuto successo, ma si è trattato solo della prima fase dell’iniziativa statunitense. La seconda,
che implica l’uso discrezionale della forza, solleva dei problemi di legittimità.

9
Cfr. M. Cherif Bassiouni, “Rumors of War: Waving a Big Stick”, in “Chicago Tribune”, 10 Novembre 2002
4
La trattativa sulla redazione della risoluzione del Consiglio di Sicurezza per un’autorizzazione all’uso della forza, nel
caso che l’Iraq non consenta pienamente alle richieste di ispezione, si è risolta in un compromesso. Gli Stati Uniti e
l’alleato britannico non hanno potuto superare l’obiezione di Francia, Russia e Cina, secondo le quali non si può dare
alcuna autorizzazione all’uso della forza se non dopo la scoperta in Iraq di materiale proibito. Se così non fosse,
sarebbe la fine del sistema di sicurezza delle Nazioni Unite, così come è configurato nella loro Carta fondamentale.
La Francia, con un diffuso sostegno sia nel Consiglio sia nell’Assemblea Generale, ha assunto – in proposito – il
ruolo di difensore delle prerogative del Consiglio di Sicurezza 10.

Gli Stati Uniti hanno tentato di cambiare quelle regole che essi stessi avevano contribuito a creare, ritenendo, così, di
dover prevenire le tattiche dilatorie di Saddam e le ulteriori negoziazioni in sede di Consiglio sul da farsi in caso di
ritrovamento dei materiali proibiti. Hanno anche sostenuto che l’Iraq è già fuori legge rispetto a molte decisioni del
Consiglio di Sicurezza e che non sono necessarie altre infrazioni per giustificare l’uso della forza. Quest’ultima
argomentazione diviene, però, priva di una base legale quando giunge a pretendere un uso della forza unilaterale, o
anche multilaterale, ma privo di una specifica autorizzazione del Consiglio di Sicurezza.
In ogni modo, non è stata data, in sede ONU, alcuna occasione per un vero dibattito sull’uso della forza nelle
relazioni internazionali.

Per una rapida ricostruzione storica delle questioni implicate nella situazione attuale, occorre ricordare che, dopo la
Prima Guerra Mondiale, gli Stati Uniti – considerando come gli stati più forti si fossero appellati ad un diritto di
autodifesa preventiva contro altri stati, di solito più deboli – cercarono di delegittimare quella nozione.
Nel 1919 si unirono ai loro alleati nel ratificare il Trattato di Versailles, che conteneva un provvedimento (art. 227)
per la chiamata in giudizio dell'imperatore tedesco Guglielmo II. Era la prima volta nella storia che un capo di stato
sarebbe stato perseguito per quella che ora è chiamata aggressione. L'imperatore si rifugiò nei Paesi Bassi, la cui
diplomazia sostenne che il capo di imputazione di cui faceva menzione l’articolo citato non era contemplato dai
principi acquisiti della legalità internazionale.
Per evitare che si ripresentassero di nuovo simili situazioni, nel 1924 gli Stati Uniti e la Francia promossero il Patto
Briandt-Kellogg, così chiamato dai nomi del segretario di stato americano Frank B. Kellogg e del ministro degli
esteri francese Aristide Briand, rappresentanti dei rispettivi governi. La novità del patto consisteva nello stabilire la
rinuncia alla guerra come strumento di politica nazionale.
È su quella base che Stati Uniti, Francia, Inghilterra e URSS firmarono un accordo nel 1945 che istituiva il Tribunale
Militare Internazionale di Norimberga ed includeva un provvedimento per la perseguibilità dei “crimini contro la
pace” (Art. 6-a).
Nel 1946, gli Stati Uniti proclamarono, attraverso il generale Douglas MacArthur, comandante supremo degli alleati,
il Trattato di Tokio per perseguire i leader giapponesi. Anche qui vennero inclusi i “crimini contro la pace” (Art. 5-a).
A Norimberga e Tokio, gli Stati Uniti insistettero sul principio secondo il quale un attacco armato non provocato di
uno stato contro un altro sia un crimine. Gli argomenti svolti dagli accusati, che qualificavano i propri atti come
“autodifesa preventiva” furono – in quelle occasioni – rifiutati categoricamente.
In seguito a questi processi, gli Stati Uniti fecero istanza presso gli estensori della Carta Fondamentale delle Nazioni
Unite perché rifiutassero ogni legittimità all’uso “preventivo” della forza e classificassero come “aggressione” ogni
atto del genere. L’articolo 2 non potrebbe essere più chiaro: “Tutti i paesi membri si asterranno, nelle loro relazioni
internazionali, dall’uso delle minacce o della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di ogni
stato” (Art. 2, comma 4).
Questo non significa che ad uno stato sia proibito l’uso della forza per l’autodifesa, e non esclude neanche, in caso di
necessità, un’autodifesa anticipata (anticipatory). Questo diritto è indicato nella Carta Fondamentale come “naturale”

10
Questi e altri stati non hanno voluto che il Consiglio di Sicurezza seguisse le orme del Congresso degli Stati Uniti,
che (11 Ottobre 2002) ha improvvidamente delegato al Presidente la propria prerogativa costituzionale di dichiarare
guerra (Costituzione degli Stati Uniti d’America art. 1, sez. 8), seppure nella forma di un uso della forza non preceduto
da una formale dichiarazione. Ciò contravviene alla volontà espressa dai redattori della Costituzione americana, e –
ovviamente – non è nemmeno ciò che sostiene la Carta delle Nazioni Unite.
5
(inherent, art. 5111). In analogia con l’autodifesa individuale, non si può pretendere che qualcuno aspetti di essere
colpito prima di usare la forza.
Nel già citato discorso di West Point del Giugno 2002, Bush ha adoperato l’espressione “uso unilaterale preventivo
(pre-emptive) della forza” come equivalente ad autodifesa preventiva (anticipatory), ossia apparentemente nel senso
sopraddetto, ma intendeva – ovviamente – qualcosa di diverso.
Anche mettendo da parte le sottigliezze sulla differenza di significato tra “anticipato” ( anticipatory) e “preventivo”
(pre-emptive), è certo che l’Iraq non costituisce un’imminente, immediata o anche prevedibile minaccia a breve
termine contro gli Stati Uniti, tale da giustificare un’autodifesa preventiva.
Non c'è, di conseguenza, alcuna base legale o fattuale perché gli Stati Uniti ricorrano – in questo momento – ad un
uso unilaterale della forza. Inoltre, per quanto il regime di Saddam sia terribile, e necessiti un suo cambiamento, il
compito di ciò non spetta agli Stati Uniti.
La Corte Internazionale di Giustizia ha condannato gli Stati Uniti nel 1986, durante l'amministrazione Reagan. Ciò
avvenne in seguito all’accusa, presentata dal Nicaragua, di aver usato la forza armata diretta, disseminando mine
nelle acque territoriali nicaraguesi e causando danni alle navi mercantili del Nicaragua e di altri stati, nonché per le
forniture di armi ai ribelli (“contras”) provenienti dall’Honduras allo scopo di rovesciare con la forza il regime
sandinista al potere in Nicaragua 12.

Gli Stati Uniti stanno ora cercando di far passare l’idea che una partecipazione multilaterale nell’uso della forza
contro l'Iraq equivalga ad una legittimazione internazionale (ma ovviamente le cose non stanno così) e, inoltre, che la
risoluzione 1441 del Consiglio di Sicurezza autorizzi implicitamente ad usare la forza contro l'Iraq in risposta a tutto
ciò che essi vogliano reputare violazioni delle regole.
Attorno a queste due palesi forzature è in corso, a livello nazionale ed internazionale, una significativa campagna di
ricerca di consenso che avrà probabilmente un’intensità crescente, fino a che l'amministrazione Bush non ritenga
giunto il momento di passare all’azione diretta. Ciò accadrà quando qualunque violazione da parte dell’Iraq scoperta
dagli ispettori potrà essere ingigantita e fatta apparire come la goccia che fa traboccare il vaso, o in altre parole,
come l’ultima infrazione che precederà l’attacco.
Alla riunione dei vertici NATO tenuta a Praga il 20 Novembre scorso, Bush è riuscito ad ottenere una dichiarazione
che appoggia l’azione militare multilaterale in caso di una violazione delle regole da parte dell'Iraq premesso che il
Consiglio di Sicurezza ratifichi tale scoperta ed autorizzi l’uso della forza 13.

11
Cfr. Yoram Dinstein, War, Agression and Self-Defense, -3d ed. 2001 (n.d.a.).
La versione italiana dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite è la seguente:
“Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso
che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non
abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale.
Le misure prese da Membri nell'esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del
Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al
Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quell'azione che esso ritenga necessaria per mantenere o
ristabilire la pace e la sicurezza internazionale” (n.d.r.).
12
Il documento della Corte Internazionale di Giustizia cui si fa qui riferimento è: International Court of Justice – 27
June 1986. Case concerning military and paramilitary activities in and against Nicaragua (Nicaragua v. United States
of America). Il testo inglese, corredato da alcune note introduttive in italiano, può essere letto al seguente indirizzo web:
http://www.studiperlapace.it/documentazione/nicaragua86.html.
13
Il testo della dichiarazione firmata dai rappresentanti dei paesi NATO il 21 Novembre 2002 al vertice di Praga si può
leggere al seguente indirizzo: http://usinfo.state.gov/topical/pol/nato/02112144.htm.
Piuttosto che un appoggio all’azione unilaterale o di coalizione è una dichiarazione di impegno ad appoggiare la
risoluzione 1441 del Consiglio di sicurezza: “I paesi alleati nella NATO sono uniti nel loro impegno di svolgere
un’efficace azione per assistere e sostenere una piena ed immediata conformità da parte dell’Iraq, senza condizioni né
restrizioni, alla Risoluzione 1441 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ricordiamo che il Consiglio di
Sicurezza, in questa risoluzione, ha avvertito l’Iraq delle serie conseguenze che affronterà come risultato delle sue
continue violazioni dei suoi obblighi”. [NATO Allies stand united in their commitment to take effective action to assist
and support the efforts of the UN to ensure full and immediate compliance by Iraq, without conditions or restrictions,
with UNSCR 1441. We recall that the Security Council in this resolution has warned Iraq that it will face serious
consequences as a result of its continued violation of its obligations.].
Nella nota che precede il testo presso il sito ufficiale del Dipartimento di Stato USA viene precisato che la dichiarazione
“non avanza una specifica minaccia di azione militare”, ma anche che il presidente Bush – in occasione del vertice e
della conseguente dichiarazione – “ha ripetutamente avvisato che un rifiuto da parte di Saddam Hussein di addivenire
ad un disarmo volontario costringerebbe ad una immediata azione militare da parte di una coalizione a guida
statunitense” (n.d.r.).
6
A prescindere da quale sarà l’esito delle ispezioni e da come gli Stati Uniti interpretarono la Risoluzione 1441, prima
di un ricorso all’uso della forza è d’obbligo la constatazione, da parte del Consiglio di Sicurezza, che l’Iraq ha
violato le regole della risoluzione attinenti alla conservazione della pace e della sicurezza internazionale. Solamente
tale constatazione può conferire legittimità ad un’azione militare multilaterale.

Cambio di regime e giustizia post-bellica

I crimini commessi dal regime di Saddam sono la giustificazione morale per un cambio di regime in Iraq. Eppure
nessuna delle amministrazioni americane che si sono succedute dai tempi di Bush senior e della Guerra del Golfo si è
impegnata nella denuncia di tali misfatti. Perché? Un motivo potrebbe essere il divieto esplicito di interferenze
straniere negli affari interni degli stati membri contenuto nell’articolo 2 della Carta Fondamentale delle Nazioni
Unite. Ma è più probabile che le ragioni politiche di questo silenzio siano altre.
La dittatura di Saddam in Iraq, che dura da 23 anni è fra i regimi più repressivi del mondo. Si stimano almeno in
numero di 100.000 gli iracheni uccisi per mano del regime ed innumerevoli altri sono stati sottoposti a violenze e
torture, mentre la maggior parte della popolazione ha subito il regno del terrore del partito Ba’ath, dell’esercito e
della polizia. La popolazione Irachena ha sofferto anche le conseguenze terribili delle scelte politiche del suo
governo: tra queste le sanzioni internazionali imposte dopo la Guerra del Golfo che hanno portato alla morte di circa
500.000 bambini per mancanza di medicinali e cibo.
Il regime di Saddam ha imposto al proprio popolo due guerre di aggressione contro gli stati confinanti: l’Iran il
Kuwait che diedero luogo ad almeno 200.000 morti fra i combattenti 14. Ha usato armi chimiche proibite contro la
popolazione civile iraniana in due delle regioni di confine (1983) e contro popolazioni civili curde (vale a dire contro
cittadini iracheni) nel 1988.
Sono circa 100.000 i curdi uccisi negli ultimi 20 anni, soprattutto durante la campagna di Anfal del 1987-88 per la
quale si parla di 2.000 villaggi curdi attaccati. Per gli Sciiti dell’Iraq meridionale i morti si stimano in cifre che
vanno da 30.000 a 60.000, oltre alle decine di migliaia di loro che sono stati espulsi con la forza dalle loro terre.
Tra il 1992 ed il 1998 circa 200.000 Iracheni abitanti nelle regioni irrigue del confine meridionale tra Iraq ed Iran
sono stati deportati e 100 000 Kurdi hanno dovuto abbandonare la ricca area petrolifera dell'Iraq settentrionale di
quello che ora è chiamato Kurdistan iracheno.
Tutti i fuoriusciti, inclusi i molti che furono costretti all’esilio – Sunniti, Sciiti o Curdi che fossero – hanno perso le
loro proprietà e i diritti civili nel loro paese.
Questi atti costituiscono crimini contro l’umanità e crimini di guerra. La loro esecuzione ha implicato anche torture
e massicce violazioni dei diritti umani, ossia una serie di atti riconosciuti a livello internazionale come delitti. Non
c’è dubbio che tali crimini dovrebbero dare luogo alla responsabilità penale dei loro perpetratori, ai quali non
dovrebbe essere concesso alcun beneficio di impunità. Purtroppo non è ancora stata svolta un’adeguata registrazione
di tali atti, compito che deve spettare alle Nazioni Unite.
Nel 1992, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in seguito alla Risoluzione 780, istituì una Commissione di
Esperti – presieduta dal sottoscritto – per investigare sui crimini contro l’umanità nella ex Jugoslavia. La
registrazione delle violazioni stabilita da quella commissione portò il Consiglio di Sicurezza ad istituire, l’anno
successivo, il Tribunale Criminale Internazionale per la ex Iugoslavia (ICTY) di fronte al quale si trova oggi, come
imputato, l’ex capo di stato Slobodan Milosevic.
Ci sono ampie prove e documentazioni dei crimini del regime iracheno, ma sono è ancora state raggruppate
sistematicamente, pubblicate e diffuse. Tale iniziativa, affidata da una decisione del Consiglio di Sicurezza,
costituirebbe un elemento decisivo nella strategia per un cambio di regime in Iraq.
La commissione jugoslava produsse prove sufficienti per convincere il Consiglio di Sicurezza a istituire l'ICTY.
Oggi, Milosevic è accusato di fronte a questo tribunale di crimini di guerra e di crimini contro umanità. Forse
Saddam e i suoi accoliti potranno domani essere nella stessa situazione. A questo punto, sorge, però, una domanda: se

Gli Stati Uniti sono, tuttavia, impegnati nella ricerca dell’appoggio di un gruppo di Stati della NATO in termini di
supporto e partecipazione – sia pur limitata, o anche solo simbolica – alla coalizione guidata dagli Stati Uniti. Bush ha
presentato lo scopo di questa operazione militare “guerra contro il terrorismo”, sebbene un simile collegamento non
abbia fondamento. (n.d.a).
14
La cifra di c/a 200.000 morti nella guerra contro l’Iran è di solito riportata in riferimento ai soli militari iracheni (una
cifra non molto inferiore dovrebbe essere aggiunta per i caduti di parte iraniana).
Nella Storia dell’Iraq di Charles Tripp (Bompiani, Milano 2003) il dato è riportato come segue: “si parlava di 250.000
morti, anche se probabilmente un quarto di questi erano vittime delle campagne anticurde del governo iracheno; più di
60.000 iracheni rimasero prigionieri in Iran” (pag. 315).
Per quel che riguarda le perdite militari irachene nella Guerra del Golfo le cifre delle stime sono piuttosto oscillanti (da
50.000 a 200.000). L’autore si è voluto – evidentemente – mantenere su valutazioni basse (n.d.r.) .
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questo vale per il regime di Saddam, perché non per altri? Perché non per Sharon ed alcuni esponenti del suo
esercito? Questo è quanto ci si chiede nel mondo arabo e musulmano, ed è per questo che gli Stati Uniti non si sono
impegnati nella ricerca di una giustizia penale internazionale.

Conclusioni

Dal punto di vista umanitario, la fine del regime di Saddam è sempre auspicabile: prima accade meglio è. La guerra,
comunque, non è la scelta migliore o più legittima che si possa fare.
Legalità e buon senso si oppongono ad un’azione militare unilaterale degli Stati Uniti o di una coalizione da essi
guidata, a meno che non abbia l’esplicita approvazione dell'ONU.
L'alternativa alla guerra che gli Stati Uniti hanno a disposizione è quella (sostenuta da Powell e da numerose
personalità esterne all'amministrazione, come pure da molti leaders mondiali) di una coerente politica di
contenimento e di pressione. Un approccio più calibrato dovrebbe necessariamente coinvolgere l'ONU e numerosi
governi nella raccolta di prove sui crimini del regime di Saddam e sulla sua capacità di costruire armi di distruzione
di massa. Gli Stati Uniti dovrebbero per prima cosa screditare il regime di Saddam ed ottenere la legittimazione
giuridica e politica internazionale per intraprendere, se necessario, una scelta militare.
L’occupazione e la conseguente amministrazione dell'Iraq da parte degli Stati Uniti, nel ruolo di occupante militare
che finanzia le proprie operazioni con la vendita del petrolio iracheno, non può essere ben vista dall’opinione
pubblica mondiale, sebbene sia ormai accettata dal pubblico statunitense, convinto – in maggioranza – che le
conseguenze negative di una guerra in Iraq saranno poche, in sintonia con l’amministrazione Bush che crede di poter
raggiungere le proprie mete politiche e militari con il minimo di perdite, di costi e di danni.

La guerra in Iraq cambierà anche le relazioni strategiche in Medio Oriente, e – negli equilibri della regione – Israele
emergerà rinforzato da un più stretto legame strategico con gli Stati Uniti. Ciò porterà a una nuova dinamica nel
conflitto israelo-palestinese, con una soluzione vantaggiosa per Israele che sarà sostenuta dagli Stati Uniti ed imposta
ai Palestinesi. I regimi arabi che appoggiano gli Stati Uniti ne usciranno screditati e nei paesi arabi cresceranno le
tendenze fondamentaliste islamiche. È anche probabile che il terrorismo internazionale dei fondamentalisti, con
obiettivo gli Stati Uniti, si intensifichi.
Il popolo iracheno soffrirà le peggiori conseguenze di una guerra i cui effetti saranno probabilmente di lungo
termine.
Il cambio degli equilibri strategici del Medio Oriente darà – inoltre – all’Iran una maggiore influenza sulla regione, e
ciò metterà gli Stati Uniti in una situazione di diretto confronto militare con quel paese. Considerando le capacità
militari dell’Iran, la situazione diverrà molto tesa, e anche questo contribuirà a rinforzare il fondamentalismo
islamico.
Per finire: se scoppierà la guerra, non ne verrà certo un mondo più vivibile. Ma sembra, ormai, che – salvo un ultimo
ripensamento da parte di Bush – i giochi siano fatti.

L’autore

L’egiziano M. Cherif Bassiouni è professore di Diritto all’Università DePaul di


Chicago, è presidente dello International Human Rights Law Institute di Chicago e fa
parte di numerose associazioni – in diversi paesi tra cui l’Italia (Siracusa) – destinate
allo studio ed alla promozione del diritto internazionale. È considerato uno dei
massimi esperti mondiali di tale disciplina ed è autore di molti libri in materia.
È stato presidente della commissione delle Nazioni Unite per le indagini sui crimini
contro l’umanità nella ex Jugoslavia, ed è una delle personalità più eminenti che
operano presso le Nazioni Unite attorno al programma di un Tribunale Penale
Internazionale.

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