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A.

Zhok – Emergentismo
Il testo può essere considerata una buona introduzione alla tematica dell'emergentismo ed alle
questioni ad essa relative; contiene sia una veloce sintesi della tradizione inglese da cui deriva, sia
un suo inquadramento all'interno dei temi classici della storia della filosofia (come il rapporto tra
l'uno ed i molti e quello tra l'unitarietà delle cause e la molteplicità dei fenomeni), sia una
contestualizzazione all'interno della filosofia della scienza e della metafisica contemporanea, in
rapporto sia agli oppositori dell'emergentismo sia alle teorie alternative nel campo della filosofia
della mente, cui si trova spesso connesso.
L'autore non si limita, tuttavia, ad una semplice esposizione didattica impersonale: in primo piano è,
piuttosto, la visione teorica dell'autore, che propone spesso una lettura personale delle questioni in
ballo e proposte di soluzioni non banali.
Il Capitolo I contiene una rapida articolazione delle caratteristiche generali delle posizioni
emergentiste, le coordinate teoriche entro cui esse abitualmente si muovono. L'emergentismo:
 Si relaziona al problema dell'unità fondamentale dell'Universo (e di conseguenza del nostro
modo di rappresentarlo): la molteplicità dei fenomeni è spiegabile, almeno in linea di
principio se non di fatto, nei termini di un "livello base" di entità e proprietà – per esempio
quelle postulate dalla fisica delle particelle?
 Conseguentemente, ha a che fare con il problema dell'autonomia dei principi delle scienze
naturali differenti dalla fisica (chimica, biologia, ecc).
 Acquista il suo senso e la sua collocazione in relazione ad una ontologia monista: il suo
problema è precisamente spiegare la molteplicità dei fenomeni senza ammettere tipi diversi
di "sostanze" rispetto a quelle studiate dalla fisica, ma allo stesso tempo contrastando in vari
modi la tendenza alla riduzione analitica senza residui del complesso al semplice.
 Può essere inteso in senso epistemico (debole) o ontologico (forte): la "novità" dei fenomeni
complessi rispetto alla loro base può essere relativa unicamente alle nostre capacità
predittive/cognitive, oppure riguardare il modo di essere della realtà in sé.
 Viene spesso collegato con l'idea dell' "inspiegabilità", dell' "imprevedibilità" o "non-
deducibilità" delle proprietà emergenti; ma, nota Zhok, novità ontologica ed imprevedibilità
gnoseologica non coincidono.
 Inoltre, tale non deducibilità non viene, tendenzialmente, spinta fino all'arbitrarietà o alla
completa incomprensibilità causale, pena l'abbandono di una visione scientifica o razionale
del mondo che invece è tendenzialmente il punto di partenza della riflessione degli autori
emergentisti.
Il Capitolo II analizza nel dettaglio la questione dell'irriducibilità delle teorie scientifiche (e delle
proprietà ontologiche) di "livello superiore". Innanzitutto, Zhok analizza la concezione secondo cui
la realtà sarebbe divisa in "livelli": nota, infatti, che tale idea può essere formulata in senso
sincronico o diacronico. Nel primo caso, la divisione in livelli sarebbe tendenzialmente
corrispondente alla divisione degli ambiti di indagine delle scienze, e avrebbe un valore
fondamentalmente epistemico e non ontologico. Nel secondo caso, ci troveremmo di fronte ad una
vera e propria "storia naturale" dell'emergere dei livelli, implicante una pretesa di validità anche
onotologica: l'Universo sarebbe andato via via "complessificandosi", in un crescendo che va dalla
presenza delle sole leggi che governano le particelle elementari alla libertà della mente. Tale
classificazione è a mio avviso troppo schematica e, soprattutto, non consequenziale: sebbene la
maggior parte delle teorie emergentiste con pretese ontologiche abbraccino uno schema
evoluzionistico dello sviluppo dell'universo, si può tranquillamente immaginare una visione
eminentemente sincronica dell'emergenza – per cui aspetti emergenti e proprietà olistiche sono da
sempre presenti, sia pure a livelli di complessità inferiori, nella struttura dell'universo, ed anzi non
si può propriamente parlare di "elementi ultimi" della realtà se non per astrazione – con pretese di
fondatezza anche ontologica. In entrambi i casi, comunque, il livello "base" è costituito dalle entità
e dalle leggi studiate dalla fisica: a questo riguardo, Zhok nota come

«La collocazione della fisica come livello base per eccellenza è sempre stato cruciale,
nella cornice emergentista ma non solo; di fatto, noi chiamiamo scienza fisica proprio la
più fondamentale scienza della natura (φύσις), cioé la scienza che ha come proprio
oggetto e tema principale gli elementi della natura. È importante osservare che la fisica
non ha un suo oggetto di elezione in senso empirico, in modo affine a come la medicina
si occupa delle disfunzioni nei corpi viventi o l'antropologia degli esseri umani: la fisica
ha un oggetto teorico ideale, che risponde ad un programma di ricerca e non ad una
specifica sfera d'esperienze. La fisica è la più fondamentale delle scienze non per caso,
ma perché ogni indagine scientifica che si voglia occupare degli elementi della natura,
comunque essi siano individuati, è fisica.» (p.22)

Dunque la fisica è, per principio, scienza degli elementi che risponde, però, ad un metodo ben
preciso: «due tratti d'indirizzo ideale rimangono ben saldi: da un lato l'interesse costitutivamente
analitico, volto ad individuare il non ulteriormente divisibile (α-τομον) in quanto irriducibile;
dall'altro l'idea di una natura ultimativamente quantitativa degli elementi da rintracciare.» (p.23)
Pertanto la fisica va programmaticamente in cerca delle «incarnazioni di un principio» (ibid.), di ciò
che non è ulteriormente analizzabile, qualunque cosa concretamente ciò sia.
Da questa impostazione metodologica all'idea che ciò che è complesso possa essere esaustivamente
spiegato nei termini di ciò che, invece, non è analizzabile, il passo è breve. La fisica viene dunque
spesso interpretata come la scienza fondamentale anche nel senso che tutto il resto, tutti i "livelli" di
complessità superiori, possono essere ridotti senza residui alle entità/leggi individuati e studiati
dalla fisica. Ma cosa si intende specificamente per "riduzione"?

Propriamente parlando, si parla di "riduzione" quando una teoria scientifica può essere spiegata nei
termini di un'altra, da cui la prima può essere derivata. Tendenzialmente, la teoria riducente è 1) più
generale e con un potere predittivo maggiore rispetto alla teoria ridotta; 2) facente riferimento ad
entità più elementari rispetto a quelle postulate nella teoria ridotta.
Il modello classico di "riduzione" tra teorie è quello di Ernst Nagel: esso distingue due forme di
riduzione, quella eterogenea e quella omogenea; nel secondo caso il "vocabolario" della teoria
ridotta è perfettamente compreso, come un "sottoinsieme", in quello della teoria riducente (e così
pure, dunque, le entità a cui si fa riferimento). Pur essendo il caso teoricamente meno controverso, è
dubbio se nella storia della scienza si siano effettivamente dati casi significativi di riduzione
omogenea tra teorie; gli esempi più interessanti e fecondi di riduzione sono, infatti, quelli di
riduzione eterogenea. Essa si ha nei casi in cui i vocabolari delle due teorie siano di fatto distinti,
ma sia possibile porre in relazione i termini e i concetti presenti nei due differenti vocabolari tramite
delle leggi ponte, delle connessioni regolari tramite cui tutte le entità ed i fenomeni della teoria
ridotta possano essere causalmente ricondotti ai concetti inclusi nella teoria riducente. Una volta
messi in relazione in tal modo i due vocabolari, deve essere possibile dedurre le leggi della teoria
ridotta dalla teoria riducente. Le critiche a questa visione della riduzione tra teorie consistono
essenzialmente nella considerazione che la teoria ridotta non può mai davvero venire dedotta da
quella riducente, anche a riduzione compiuta: tra le due si può, al massimo, istituire una
connessione a posteriori, nella forma della "correlazione nomologica", di una serie di regole che di
fatto collegano tra loro due fenomeni e che non sono deducibili in modo puramente a priori, né
«spiegano la natura dei concetti della teoria da ridurre» (p.27), ma semplicemente ne constatano le
connessioni rispetto a dei fenomeni (spesso più basilari) presenti nella teoria riducente. Tanto più
che non si dà praticamente mai il caso in cui «la nuova teoria possa propriamente sostituire la
vecchia assorbendola, cioé dicendo le stesse cose della teoria superata, più altre ancora» (p.26),
perché propriamente parlando tra i vocabolari delle due teorie non si dà mai una reale identità
concettuale, ma solo delle connessioni (spesso frutto di semplificazioni e approssimazioni) tra
schemi concettuali che rimangono, quanto al loro significato, differenti.
Anche l'alternativa proposta da Kim, quella della riduzione funzionale, non è scevra di problemi e
difficoltà. La differenza principale consiste, appunto, nel ridefinire le proprietà in esame in termini
causali-funzionali «che la pongano come determinata proprietà 'di base', cioé proprietà appartenenti
alla dimensione della teoria riducente, e capaci di produrre le stesse funzioni causali delle proprietà
della teoria riducenda» (p.27). Fatto questo compito, si dovranno trovare dei "realizzatori" di tali
proprietà di base ed una spiegazione teorica del loro funzionamento. Tale teoria della riduzione si
espone a critiche simili a quelle già prese in esame: la funzionalizzazione delle proprietà non
compie mai una traduzione "senza residui" delle caratteristiche prese in esame nella teoria
riducenda, ma al massimo constata una connessione contingente tra certe proprietà da ridurre e certe
proprietà di base: ad esempio tra il concetto più generico di "gene" ed il realizzatore concreto, il
DNA. Vi sarebbe uno «iato strutturale» (p.29) tra definizione funzionale ed il tipo di spiegazioni
utilizzate in un quadro fisicalista: per esempio, la realizzabilità multipla di qualcosa definita in
termini funzionali ne garantisce la maggiore genericità rispetto ai concreti, particolari meccanismi
che la esemplificano di volta in volta, tale da rendere una completa ed esaustiva conversione
concettuale tra i due schemi di fatto impossibile. Per esempio, ci sarebbe «una divaricazione
incolmabile tra la natura intensionale di 'sonnifero', ed in generale delle proprietà funzionali, e la
natura estensionale delle sue 'realizzazioni'» (p.31). Malgrado ciò, questa teoria non solo «incarna
un modo di procedere molto prossimo alla pratica scientifica concreta, in cui la riduzione avviene
sulla base di una plausibile sostituibilità causale» (p.30), ma trova le sue radici in una situazione
culturale in cui «l'approccio riduttivo rimane enormemente influente, se non dominante. Tale
approccio riduttivo consta semplicemente dell'assunto di fondo per cui alla fin fine il complesso
ontologico deve trovare, almeno di diritto se non sempre di fatto, la sua chiave esplicativa compiuta
nelle parti semplici da cui è composto.» (p.31)

La tensione non agevolmente risolvibile tra propositi genericamente antiriduzionisti ed il


mantenimento di uno sfondo ontologico fisicalista viene esemplificata nel testo di Zhok dalle
posizioni di Dennet, Davidson e Searle, di cui l'autore offre una sintesi (che qui tralasciamo),
concludendo che «tutte e tre le posizioni sembrano oscillare tra l'epifenomenismo del mentale (la
sua irrilevanza causale) ed il misconoscimento di ogni specificità del mentale (ridotto a modo del
fisico).» (p.51)

La causa di queste tensioni è da indicarsi nella scelta di attenersi acriticamente al principio


metodologico del «simplex sigillum veri» (p.52), che porta a vedere i complessi come aggregati e
prodotti di proprietà ed entità semplici. Ma tale principio, per Zhok, va guardata criticamente nel
suo essere, appunto, solo un metodo euristico, e non una verità ontologica: esso non è propriamente
né vero né falso, ma la scelta pragmatica di un metodo d'indagine che abbraccia un «processo ideale
di semplificazione» che non è, tuttavia, legittimato a negare qualsiasi status ontologico a ciò che
non è semplificabile.
A fronte dei limiti delle pretese riduzioniste, Zhok passa poi ad analizzare il concetto di
"irriducibilità" portato avanti dalle posizioni emergentiste, individuando (o meglio, scegliendo) tre
caratteri distintivi di una definizione accettabile di fenomeno emergente e irriducibile:
1. imprevedibilità ontologica, cioé non legata ai nostri limiti conoscitivi attuali, ma alla natura
"incomprimibile" del fenomeno in esame: «vi sono numerosi processi in natura che risultano
costitutivamente 'incomprimibili', cioè si sottraggono intrinsecamente ad una computazione
che sia più 'economica' e rapida del dispiegarsi di fatto del processo» (p.54). In Zhok, l'idea
di "imprevedibilità" è inoltre un sinonimo di "non-deducibilità", impossibilità di ricavare le
caratteristiche di un fenomeno a priori dalla mera "ricognizione" delle caratteristiche delle
parti di cui è composto.
2. Novità ontologica: la proprietà dell'intero deve essere qualcosa di diverso rispetto alle
proprietà delle parti. Zhok nota, infatti, che tale caratteristica non è implicita in quella
dell'imprevedibilità, dato che esistono processi incomprimibili e imprevedibili che però non
danno luogo ad alcuna proprietà nuova rispetto a quella posseduta dalle parti di esso, e
viceversa che si possono dare proprietà "nuove" ma deducibili dalla conoscenza di quelle
delle parti (per esempio il peso di un intero, rispetto al peso delle singole parti).
3. Un criterio che vincoli novità e imprevedibilità ad un rapporto causale preciso, sia pure
conoscibile solo a posteriori: una qualche forma di sopravvenienza vincoli la comparsa di
proprietà emergenti alle caratteristiche delle parti del sistema, in modo che le stesse
sarebbero sufficienti (ma non necessarie) al sorgere delle proprietà di livello alto. Ciò al fine
di salvaguardare la conoscibilità razionale e scientifica del mondo: imprevedibilità e novità
ontologiche, se assunte senza alcun vincolo causale determinato, renderebbero il rapporto tra
parti e interi e la complessità del reale assolutamente incomprensibile, arbitraria e
ontologicamente instabile e inadatta a mantenere sistemi complessi durevoli.

Si noti, a questo proposito, che una visione dell'emergenza strettamente ontologica può fare a meno,
a mio avviso, di qualsiasi considerazione di carattere epistemico riguardo l' imprevedibilità: essa è,
semmai, una conseguenza della non-dipendenza ontologica delle proprietà emergenti rispetto a
quelle degli elementi del sistema; una proprietà emergente ha senz'altro bisogno di un certo tipo di
"parti materiali" per realizzarsi, ma non è causalmente coincidente con (né, dunque, generata da) le
parti stesse. Le sue "basi causali" non sono si identificano esaustivamente con le parti che
compongono il sistema. In un quadro simile, anche l'idea della sufficienza delle parti andrebbe
certamente riformulata (vedasi T.Deacon e E. Thompson).

Le proprietà che rispondono a questi tre requisiti, continua Zhok, sembrano non essere affatto
l'eccesione in natura: proprietà come la durezza, ad esempio, sarebbero emergenti. Ma questo,
secondo l'autore, non rappresenta un limite di questa teoria: l'ubiquità dei fenomeni emergenti, e
dunque la radicale limitatezza dei casi in cui possiamo conoscere la natura analiticamente e a
priori, è un problema solo se non si è disposti ad abbandonare il presupposto della natura
ontologicamente quantitativa della realtà ultima, «un'idea potentemente semplificatoria dell'Essere,
che veniva ricondotto ad elementi ultimi assoggettabili a misurazioni» (p.65), mentre l'idea di non-
deducibilità richiama quella di una natura ontologicamente non riducibile alle mere proprietà
quantitative degli elementi ultimi: «se due elementi hanno natura irriducibilmente qualitativa ciò
significa solo che non possiamo senz'altro sapere a priori cosa verrà fuori dalla loro unione: non
possiamo sommare arance e mandarini. [...] Solo nel caso in cui gli elementi primi siano concepiti
come unità quantitative, una predizione deduttiva delle proprietà di un composto a partire dalle
proprietà delle sue parti è pensabile.» (p.66-67).

In sintesi, Zhok riassume la "precomprensione della natura indipendente da risultati empirici" che fa
da sfondo al riduzionismo fisicalista

«nei seguenti quattro principi:

1. tutti gli interi non elementari possono essere analizzati cognitivamente nelle loro parti
costitutive elementari;

2. la conoscenza delle proprietà delle parti ci dà tutto ciò che serve per la conoscenza delle
proprietà dell'intero

3. l'analisi in parti deve pervenire ad un livello ultimo non ulteriormente analizzabile


(elementare), che inerisce intrinsecamente alla natura;
4. le parti elementari cui l'analisi deve idealmente giungere hanno natura intrinsecamente
quantitativa » (p.69

e conclude che «le seconde due premesse manifestano l'adesione ad una ontologia esigente ed
altamente problematica» (ibid.), ritenendole i principali ostacoli alle tesi emergentiste. Sebbene la
connessione tra le ultime due premesse – specie l'ultima – ed un'ontologia particolarmente esigente
sia incontrovertibile, ritengo che anche i primi due punti debbano essere riformulati per una visione
dell'emergentismo che voglia riconoscere alle proprietà dell'intero una reale irriducibilità causale
alle sue componenti, nonché dei poteri realmente distinti. È chiaro, infatti, che definire "nuova" una
proprietà in senso ontologicamente significativo e pregnante implica che le proprietà delle parti non
possano darci tutto ciò che serve per la conoscenza delle proprietà dell'intero (contrariamente a
quanto asserito secondo il principio n.2) e che questo implichi dunque che tale intero emergente
possa senza dubbio essere cognitivamente esaminato distinguendovi le parti che lo compongono ma
mai risolto in esse (cosa che richiede una riformulazione del principio n.1). Quanto ai principi 3 e 4,
notiamo solo che ci sono teorie che mantengono la complessità irriducibile di alcuni processi sia
pur esaminandoli sotto il profilo strettamente quantitativo (la teoria dei sistemi complessi, che pare
rendere non necessario – sotto questo punto di vista – scartare il principio n.4 sebbene esso resti
quantomeno discutibile) e che, d'altra parte, ammettere l'esistenza di elementi materiali ultimi della
realtà non sia di per sé problematico per una prospettiva emergentista: non è tanto la scomponibilità
materiale ad essere di ostacolo, quanto la riducibilità causale. I due concetti non sono equivalenti
né si implicano: si può pensare, ad esempio, ad una ontologia in cui pur esistendo un livello
"ultimo" della materia, il "lavoro causale" non viene svolto tutto e solo su questo livello "base", per
esempio ammettendo una causalità formale attiva ai livelli di complessità superiore. Gli interi
dunque sarebbero materialmente scomponibili fino ad un livello base, ma non causalmente e
ontologicamente risolvibili in esso. In un certo senso, dunque, il punto 3 andrebbe certamente
rivisto, applicandovi i distinguo che abbiamo appena elencato.
Il Capitolo III è dedicato all'analisi del concetto di "causalità discendente", o meglio più in
generale dell'efficacia causale delle proprietà emergenti in contrasto ad una visione riduzionista.
L'autore prende le mosse dalla critica di Kim alla causalità discendente, per poi mostrarne i punti
deboli e proporre una visione in positivo esente dalle falle sottolineate da Kim (e dagli altri
riduzionisti).
«Riassumendo a questo punto il cuore delle obiezioni di Kim all'idea di proprietà
emergente, possiamo dire quanto segue. Con l'aggregarsi o comporsi di entità semplici
emergono nuove proprietà con nuovi poteri causali, cioé poteri non ascrivibili alle parti
prese separatamente. Questo però non è sufficiente a sancire l'esistenza di proprietà
emergenti in senso proprio. Infatti, le nuove proprietà sopravvengono alle proprietà di
base e possono essere o riducibili ad esse od irriducibili. Proprietà nuove sopravvenienti
ma riducibili sono, nella terminologia classica, proprietà risultanti. Rispetto alle
esemplificazioni dell'emergentismo classico, per Kim sono certamente irriducibili solo
alcune proprietà mentali come i qualia; al contrario, le proprietà dei livelli superiori alla
fisica di base, come le proprietà delle molecole chimiche o le proprietà funzionali della
biologia, sono riducibili. Nel primo caso, se ci troviamo di fronte a proprietà
sopravvenienti ed irriducibili, come i qualia, ci scontriamo con un'apparente doppia
istanza causale tale per cui un evento fisico può risultare causato sia da una proprietà
sopravveniente che dal suo substrato subveniente. Per evitare sovradeterminazioni
dobbiamo scegliere una delle due opzioni. E per il principio della chiusura causale del
mondo fisico questa opzione deve essere la seconda, cioé il substrato fisico subveniente
alla proprietà emergente. Di conseguenza se una proprietà è emergente, cioé
sopravveniente e irriducibile, essa è priva di poteri causali autonomi (epifenomenismo).
Nel secondo caso, in cui ci troviamo di fronte a proprietà sopravvenienti ma riducibili,
Kim ritiene di poter mostrare come non vi siano in gioco cause di natura ulteriore
rispetto a quelle operanti al livello fisico di base. Proprietà sopravvenienti e riducibili
sono proprietà funzionali o proprietà sopravvenienti ad aggregati/composti di elementi
fisici. Quanto alle proprietà funzionali, se sono funzionalmente riducibili per definizione
esibiscono i medesimi poteri causali dei loro realizzatori fisici. Quanto agli aggregati o
composti di elementi fisici, le loro proprietà sono da considerarsi causalmente congeneri
degli elementi che li compongono, a meno che non si dia autentica causalità discendente
riflessiva. Ma Kim esclude che vi possa essere causalità discendente riflessiva in
quanto, se sincronica risulterebbe in contraddizione con l'esigenza che le cause
precedano gli effetti, se diacronica ricadrebbe in una delle due opzioni già discusse.
Infatti, la causalità discendente riflessiva diacronica di un intero, per introdurre poteri
causali diversi da quelli delle sue parti, deve essere irriducibile a quelli, ma se è
irriducibile presta il fianco al problema dell'esclusione causale: abbiamo due cause
parimenti sufficienti per il medesimo evento fisico, il che lascia spazio all'eliminazione
della proprietà emergente come epifenomenica.» (pp.79-80).

È proprio la nozione di epifenomeno la prima ad essere analizzata da Zhok: un epifenomeno è


qualcosa che appare, dunque almeno in questo senso ha una sua realtà, e sia pure in quanto illusione
si manifesta a qualcuno; e per apparire e manifestarsi deve pur essere caratterizzata come
«trasmissione di energia di basso livello» (p.81) e quindi essere diversa da un "puro nulla" e potere,
almeno in linea di principio, avere una qualche influenza causale. La questione è semmai se
l'influenza causale che hanno di fatto sia effettivamente quella che il senso comune attribuisce loro:
se cioé, per esempio, un epifenomeno come un desiderio causi realmente una serie di movimenti
corporei, oppure se essi siano in realtà causati dalla "base causale" del desiderio stesso, poniamo
una serie di scariche neuronali. A questo riguardo, Zhok nota che in primo luogo se tutto il nostro
vocabolario mentale non ha efficacia causale, allora perdiamo qualsiasi criterio conoscitivo per
giudicare lo stato dei fatti: «se i fenomeni, così come essi ci si danno in prima persona sono da
ritenersi un semplice travestimento degli eventi reali, quali speranze abbiamo mai di produrre anche
una sola asserzione valida intorno agli eventi reali?» (p.86); inoltre, le cosiddette "basi causali" non
possono essere individuate in una serie di "entità" statiche (neuroni, molecole, atomi, particelle), ma
in processi, considerati nel loro attuarsi dinamico, e le proprietà di tali processi e dei sistemi che
essi determinano non sono «intrinsecamente inerenti ad 'individuazioni spaziotemporali ultime'»
(p.95), tanto più che tali sistemi permangono stabili nel ricambio delle parti che li compongono;
inoltre, già nel considerare come "base causale" di un processo di livello superiore un'entità che
costituisce, apparentemente, un «particolare estensionale cui ineriscono intrinsecamente poteri
causali particolari» come, poniamo, il DNA, noi stiamo ancora attribuendo tutto il potere causale ad
un termine che ha valore funzionale e non coincide pienamente con dei "realizzatori" (molecole,
ecc) individuali:

«al contrario DNA è a tutti gli effetti un nuovo termine universale (non meno di gene),
che seleziona un insieme non esaustivamente elencabile di realizzatori particolari [...] il
problema è che ciascuna di queste istanziazioni ha a rigore effetti particolari (dunque
ontologicamente reali) discernibili: non ci sono due istanziazioni di DNA in contesto
che abbiano sviluppo ed esiti perfettamente identici, se il criterio di identità è posto
all'altezza dell'individuazione fisica ultima.»(p.98)

In sostanza, il DNA e la totalità dei "realizzatori" di base della fisica, escluse delle non meglio
identificate particelle ultime, sono individuati grazie a proprietà di alto livello. Negandone la
consistenza ontologica, non siamo più legittimati a usare se non come una pura etichetta vuota di
qualsiasi valore ontologico-causale, alcun termine che individui entità di livello superiore alle
suddette particelle stesse (che, prima di tutto, andrebbero dunque identificate in maniera netta e
definitiva, cosa che non si dà allo stadio attuale della fisica): «collocare il livello appropriato ad una
valutazione ontologica (causale) all'altezza dei soli particolari estensionali significa necessariamente
considerare persino unità identificative come l'atomo, la molecola e in verità qualunque entità
dotata di significato mentalmente conoscibile quali mere istanze epistemiche.» (p.99).
Di conseguenza o ammettiamo che «ciò che identifica atomi in quanto atomi o cellule in quanto
cellule non appartiene alla dimensione ontologicamente efficace del mondo» (p.99), oppure,
secondo Zhok, dobbiamo in qualche modo postulare una forma di causalità irriducibile agli
aggregati, tanto più che le teorie che secondo Kim permetterebbero di "spiegare" la causazione
ascensionale che determina le proprietà degli interi sulla base delle loro parti, in realtà hanno tutte le
forma di predizioni a base induttiva e non deduttiva: non è partendo dalla conoscenza delle parti che
siamo in grado di dedurre esaustivamente la caratterizzazione degli interi che compongono, ma è
dal constatare come di fatto esse sono collegate in interi già esistenti che possiamo predire come, in
altri casi, esse tenderanno ad organizzarsi e a quali proprietà daranno luogo. Questo argomento, che
tende a sottolineare la natura qualitativa e non additiva, e quindi non riducibile a mera somma di
proprietà quantitative, delle determinazioni fondamentali della realtà, mi sembra fondato, ma non va
abbastanza lontano. Chiaramente la considerazione che anche atomi e molecole siano entità non
definibili sulla base delle loro parti, ma solo sulla base di uno schema organizzativo, colpisce nel
segno; tuttavia ciò di per sé non esclude che, ontologicamente, tale schema organizzativo abbia una
sporgenza, un potere causale non spiegabile – sia pure solo a posteriori – nei termini di una
combinazione tra i poteri causali delle parti; e, qualora invece sia da riconoscere all'intero in quanto
qualcosa di più che una somma di parti una qualche efficacia causale propria, come ciò sia
propriamente da intendersi. A tale riguardo, Zhok nota che «la naturalezza con cui noi interpretiamo
connessioni causali in termini di successione temporale ha salde ragioni pragmatiche» (p.115) ma
non, strettamente parlando, teoretiche: è possibile pensare ad una forma di causalità non temporale
o simultanea, differente da quella efficiente e pertanto non pensabile come una "propagazione"
asimmetrica stile "palla di biliardo"; in questo senso, il potere proprio degli interi sarebbe quello di
dare una determinazione a quali dei poteri potenzialmente presenti nelle parti di fatto si
manifesteranno e quali no; ossia quello di porre dei vincoli, di portare l'indeterminatezza della
proprietà delle parti ad una determinazione specifica:
«Semplicemente: l'esser posizionato di una proprietà o di un processo rispetto ad interi
differenti può produrre funzioni differenti. [...] Per così dire, un contesto sistemico porta
alla luce aspetti diversi delle parti che compongono il sistema rispetto a quelle 'stesse
parti' quando occorrono in contesti differenti. In quest'ottica è chiaro che non c'è
bisogno di immaginare una misteriosa propagazione causale priva di durata temporale
dalle parti al tutto e dal tutto alle parti [...] le relazioni tra diversi livelli (relazioni parte-
intero) sono costitutivamente simmetriche (cause ed effetto non sono separabili), mentre
solo quando consideriamo relazioni causali esaminate sullo stesso livello possiamo
trovare relazioni dal carattere asimmetrico, in cui le cause si danno in modo separato
dagli effetti.» (p.115)

Da qui le ipotesi che il potere degli interi sia essenzialmente un potere selettivo, che – per esempio –
il potere autonomo delle menti stia nel "dare struttura" alle loro basi fisiche in modo che solo alcuni
degli effetti potenziali si realizzino (p.117), e questo "dare struttura" consisterebbe in un tipo di
causalità diverso da quello efficiente, in una configurazione di campo che ha un'influenza causale
ben precisa – nel senso di "provocare determinatezze" ed escluderne altre – ma senza alcun tipo di
scambio energetico.
Tutto ciò viene ripreso e precisato meglio nel capitolo IV, quello conclusivo, in cui si specifica che
la conclusione principale delle argomentazioni del libro sta in una visione della natura in cui se si dà
un livello "ultimo" del reale, esso non può essere espresso in termini quantitativi ma radicalmente
qualitativi, ed in cui sono le relazioni (non solo quelle di causalità efficiente ma anche quelle che si
configurano come "struttura") e non le supposte proprietà intrinseche di entità ultime "puntuali" a
fornire le basi causali dei fenomeni che di fatto si danno:
«è l'essenza (la forma) di una sostanza (qualità) ciò che determina quali sono i suoi
poteri (proprietà), e siccome abbiamo ragione di postulare l'esistenza di una pluralità di
sostanze (qualità) e di una molteplicità di configurazioni tra di esse, abbiamo parimenti
ragioni per assumere l'esistenza di una pluralità irriducibile di proprietà dotate di
specifici poteri causali. Questa conclusione toglie di mezzo tutte le obiezioni mosse
all'idea di causalità discendente, in quanto vengono meno tutte le ragioni per assumere
la priorità causale di un solo livello della realtà.» (p.127)

Di queste conclusioni metafisiche generali vengono, poi, viste le implicazioni per ciò che riguarda il
"riduzionismo" mente/mondo, o meglio fenomeni in prima/in terza persona, la possibilità di
intendere una agent causation ed il rapporto tra irriducibilità ed evoluzionismo, tematiche che
tralasciamo in quanto connesse a, ma non strettamente implicate in, un'analisi del rapporto tra la
causa formale e l'emergentismo.

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