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Aura e libero gioco

Article in Rivista di estetica · March 2013


DOI: 10.4000/estetica.1624

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1 author:

Stefano Velotti
Sapienza University of Rome
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Stefano Velotti
AURA E LIBERO GIOCO

L’aura come forma

In un passo del 1930, tratto dai Verbali delle esperienze con l’hascisc, Benja-
min scrive che, «in primo luogo, la vera aura si manifesta in tutte le cose. Non
soltanto in alcune, come immagina la gente»1. In base a un confronto tra questa
caratterizzazione dell’aura e quella, più nota, presente nell’ultima versione del
saggio su L’opera d’arte («un singolare intreccio di spazio e di tempo: l’apparizione
unica di una lontananza, per quanto possa essere vicina»2) Miriam Bratu Hansen
ha distinto un’accezione ampia, «antropologica, percettivo-mnemonica, visio-
naria» di aura, che ha radici eterogenee (mediche, mistiche, esoteriche ecc.), da
un’accezione più ristretta, “estetica”, che riguarderebbe le opere d’arte3. Mentre
è indubbio che Benjamin attinga a numerose fonti per articolare una nozione di
aura liberata dai suoi usi esoterici, il mio intento, qui, non è di approfondire le
relazioni messe in luce da Bratu Hansen, ma di mostrare come vi sia una radice
estetica proprio all’interno dell’accezione più ampia, antropologica, di aura. La
questione non è solo terminologica – rettificare un’accezione di “estetica” troppo
ristretta in quanto convenzionalmente coincidente con una cosiddetta “filosofia

1
Benjamin 2002, vol. VI: 97. Su questo passo ha richiamato l’attenzione Bratu Hansen 2008: 336.
2
La stessa formula è ripetuta da Benjamin in Breve storia della fotografia (1931) (Benjamin
1974-1989, vol. II: 378: «Ein sonderbares Gespinst aus Raum und Zeit: einmalige Erscheinung
einer Ferne, so nah sie sein mag»), nella prima versione del saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica (1935-36) (in Benjamin 1974-1989, vol. VII: 355) e nella seconda versione
(1939) (in Benjamin, 1974-1989, vol. I: 440). Curioso che nella edizione italiana delle Opere
complete, oltre alla traduzione riportata sopra nel testo, che considero la migliore (Benjamin 2002,
vol. IV: 485), compaiano invece formulazioni diverse: cfr. ivi, VI, p. 275: «Una singolare creazione
spazio-temporale: apparizione unica di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina»,
e ivi, VII: 307: «un’apparizione unica di una distanza, per quanto questa possa essere vicina».
3
Bratu Hansen 2008: 338, 351.
Rivista di estetica, n.s., 52 (1 / 2013), LIII, pp. © Rosenberg & Sellier

217
dell’arte”, o ridotta alla percezione di “proprietà estetiche” o della bellezza –, ma
sostanziale: benché la fenomenologia dell’aura tracciata da Benjamin, specie
negli anni Trenta, sia molto ricca di presupposti e conseguenze eterogenee (e
parte di un lavoro non concluso), la mia ipotesi è che trovi la sua radice in una
condizione tipicamente estetica della percezione e dell’immaginazione umane,
che può specializzarsi in ambiti diversi e mutare in relazione a circostanze sto-
riche determinate.
È stato scritto che in Benjamin non è dato trovare il concetto di aura, quanto
piuttosto una serie di scorci difficilmente unificabili su un fenomeno percettivo
non oggettivabile4. Il che sarà anche vero, come può essere vero per ogni parola
il cui significato rimanda a una famiglia di casi – in senso wittgensteiniano – e
non a una classe ben definita, o, per riprendere un termine caro a Benjamin, a
una costellazione e non a una definizione. Questo non esime però dal ricercare
un’unità di senso – non esplicitabile logicamente, ma operante al modo di un’an-
ticipazione estetica all’interno dell’esperienza stessa – che dia conto dello stabilirsi
di quelle analogie che permettono il configurarsi di costellazioni e di famiglie.
Che cosa, se non una rete di analogie percettive e immaginative, apparenterebbe
altrimenti l’apparire eterogeneo dei fenomeni auratici?
L’esperienza dell’aura – per quanto possa essere rintracciata in fenomeni di
culto poi “profanati” – non è legata indissolubilmente a contenuti ideologici
dissolti o dissolvibili. L’aura non appartiene infatti all’ordine delle credenze. Un
culto resta possibile e vivo – un performativo efficace – finché le credenze a esso
associate sono ancora credute. Ma non è più possibile tener vivo un culto, nella
sua identità, nel momento in cui le credenze che lo giustificano si siano dissolte.
Non così con l’aura. L’aura può anche associarsi a credenze di vario genere, ma
quando queste credenze non sono più credute, resta tuttavia un residuo inelimi-
nabile, una dimensione insatura dell’esperienza. Non è possibile dire in anticipo
di che cosa potrà impregnarsi o saturarsi: ogni volta si trasformerà in qualcosa di
imprevedibile. Se l’aura, come la caratterizza Benjamin nella più nota delle sue
definizioni, è «un singolare intreccio di spazio e di tempo: l’apparizione unica
di una lontananza, per quanto possa essere vicina», allora deve essere intesa non
come il correlato di una credenza, ma semmai come un uso della percezione,
come il manifestarsi di un medium che è condizione anche della percezione più
comune. È questo il senso, credo, in cui deve essere compresa l’affermazione di
Benjamin già ricordata secondo cui «la vera aura si manifesta in tutte le cose».
Certo, anche se l’aura è effettivamente un uso della percezione, niente garan-
tisce che quest’uso – che implica il manifestarsi del medium stesso della percezio-
ne – sia a disposizione delle nostre intenzioni e della nostra consapevolezza. Ma
sarebbe davvero incomprensibile se un aspetto così importante della percezione
umana fosse andato totalmente e definitivamente distrutto per ragioni storiche,
4
«Bei Benjamin selbst ist der Begriff der Aura nicht zu finden. Nachweisbar, sind nur mehrere,
mitunter schwer vereinbare Hinsichten auf ein kaum objektivierbares Wahrnehmungsphänomen»
(Furnkäs 2000: 103).

218
tecniche, economiche o sociali. Si può credere che da tempo, ormai, il nostro
mondo ci inondi con una quantità inassimilabile di stimoli da noi stessi prodotti,
o che il commercio con esso sia improntato in modo soverchiante al consumo e
al “sensazionale”, che la tecnica abbia preso il sopravvento sulla nostra capacità di
agire, e tuttavia – inaspettatamente – fare esperienza di una percezione auratica
che perturbi questi luoghi comuni. Mi sembra dunque assodato, ormai, che
non ha molto senso pensare che riconoscere la possibilità o meno di esperienze
auratiche sia indice di un atteggiamento “conservatore” o “progressista”, come
se ci si schierasse pro o contro una credenza, difendendola nostalgicamente
contro la “barbarie” dei nostri tempi5, o smascherandola come falsa o illusoria.
Né avrebbe senso intenzionare un’esperienza auratica: è proprio solo quando si
tenta intenzionalmente e consapevolmente di “produrre aura” – per sé o per gli
altri – che diventa impossibile esperirla. Nessuna “mutazione antropologica” di
ordine socio-culturale può spegnere – definitivamente e in ogni suo aspetto – la
possibilità che si manifesti qualcosa che è inscritto nella nostra struttura antro-
pologica di specie. Mentre non c’è alcuna speranza di sapere “che cosa si prova
a essere un pipistrello”, non avrebbe alcun senso interrogarsi sull’aura se farne
esperienza non fosse una potenzialità trans-storica. La «dissoluzione dell’aura»
andrebbe allora compresa piuttosto – per parafrasare Adorno – come una sorta di
tendenziale “regressione dello sguardo”, uno sconfinamento indebito e minaccio-
so, ma non ineluttabile, di un uso immediatamente pragmatico e semplificante
della percezione su ogni suo uso ulteriore.
Presentare l’aura in questo modo – come una potenzialità dell’esperienza
umana, come trascendentale, e dunque come condizione di possibilità di una
percezione strutturalmente permeata di immaginazione e memoria – è non solo
una tesi da articolare e giustificare, ma è anche una tesi insieme irrinunciabile
e parziale. Irrinunciabile: perché se il fenomeno dell’aura fosse un fenomeno
integralmente storico, magari appartenente alla “storia del gusto” o degli “stili”,
in connessione con certi modi di produzione e riproduzione sociale, avrebbe per
lo più un valore antiquario; parziale, perché coglierla solo come una potenzialità
antropologica, trans-storica, senza metterla a contatto con il presente di Benjamin
e nostro, significherebbe farsi sfuggire il suo potenziale euristico, la sua capacità
di rivelare momenti di crisi della nostra esperienza storicamente determinata.
Ogni ragionamento che si fa oggi sull’aura non può prescindere da Benjamin,
ma credo che ogni tentativo di comprendere meglio che cosa sia l’aura, e che
ruolo giochi nelle nostre esperienze, non possa accontentarsi di ripetere, variare
e chiosare le sue parole.
È significativo che su questa linea interpretativa convergano contributi anche
diversissimi tra loro, per riferimenti teorici, ambizioni e stili di pensiero. Ne
ricordo solo due, scelti per la loro distanza: quello di Diarmuid Costello – che
proviene dalla filosofia analitica e da posizioni kantiane – e quello di Georges

5
Questa la posizione di Jean Clair, ripetuta in molti saggi. Vedi da ultimo Claire 2011: 16, 66 sgg.

219
Didi-Huberman, i cui riferimenti principali, oltre a Benjamin, vengono dalla
storia dell’arte, da Warburg, dalla psicoanalisi. In contrasto con un saggio di
Douglas Crimp6 – esemplare di un uso del saggio benjaminiano sull’opera
d’arte in voga tra gli anni Settanta e Ottanta, che mirava a una comprensione
«postmoderna, appropriazionista della pratica fotografica» – Costello contesta
che l’aura sia senz’altro una categoria storica, la cui dissoluzione – «la dissocia-
zione dell’opera dal tessuto della tradizione» – sia il «risultato inevitabile della
riproduzione meccanica». Per quanto riguarda la sua storicità, Costello ritiene
che sia più corretto dire «che è una categoria “strutturale” che riguarda una forma
dell’esperienza percettiva che è soggetta a trasformazioni nel tempo»; e che costi-
tuisca una semplificazione inaccettabile sostenere il declino inevitabile dell’aura
ritenendo, per giunta, che ciò sia per Benjamin un «motivo di compiacimento»7.
Riprendendo una notazione che ricorre nella letteratura, Costello sottolinea
come la definizione più nota – «un singolare intreccio di spazio e di tempo» – sia
«chiaramente inquadrata in modo tale da richiamarsi alle forme kantiane dell’in-
tuizione», e ciò sarebbe significativo in quanto dimostrerebbe «che l’oggetto
reale dell’interesse di Benjamin è la struttura dell’esperienza, vale a dire la forma
sottostante a cui ogni esperienza si deve conformare per essere tale – in quanto
opposta al contenuto di una esperienza particolare»8. A dire il vero, sembra che
il richiamo alle forme kantiane dell’intuizione sia troppo generico e remoto per
incidere sulla comprensione dell’aura, ma è evidente che quel che interessa a
Costello è sottrarre l’aura a speciali contenuti percettivi o ideologici.
Da parte sua, Didi-Huberman si confronta con il fenomeno dell’aura a più
riprese. Qui penso in particolare a due testi contigui9 e al recente pamphlet Come
le lucciole10. All’interno di una brillante ricomprensione della scultura minimalista
di Tony Smith, Didi-Huberman scrive che «bisognerà quindi secolarizzare l’aura, e
fare del “culto” così inteso [nel senso devoto del termine] la specie – storicamente,
antropologicamente determinata – di cui l’aura stessa, o il “valore cultuale” in
senso etimologico, sarà il genere»11. In un linguaggio diverso e con diversi intenti,
torna qui l’idea di sganciare l’aura da contenuti cultuali associati a credenze de-
terminate, di farne una «forma», come si esprimeva Costello. Nel saggio del ’96
Didi-Huberman è ancora più esplicito e preciso: «Diciamo […] che mentre il
valore di aura era imposto dalle immagini di culto della tradizione religiosa […]
nell’era laica della riproducibilità tecnica esso ora è presupposto negli atelier degli
artisti. Diciamo, per dialettizzare, che il declino dell’aura presuppone – implica,

6
Crimp 1993.
7
Costello 2005: 168.
8
Ivi: 172-173.
9
Didi-Huberman 1992 e 1996.
10
Didi-Huberman 2009, che nel titolo francese, Survivance des lucioles, mette già in luce il tema-
chiave della sopravvivenza delle lucciole “malgrado tutto”.
11
Didi-Huberman 1992: 107.

220
fa scivolare da sotto, avvolge, sottintende, replica a suo modo – l’aura in quanto
fenomeno originario dell’immagine, fenomeno “incompiuto” e “sempre aperto”,
per seguire Benjamin nell’equilibrio instabile ma così fecondo del suo vocabo-
lario esplorativo»12. Didi-Huberman passerà a verificare tale supposizione in un
disegno di Barnett Newman, così come nel saggio precedente lo intrecciava alla
lettura della scultura minimalista di Tony Smith. Infine, nel pamphlet del 2009
il discorso fatto sull’aura si estende all’esperienza, alla sua presunta e analoga
distruzione decretata, per un verso, da Pasolini, per altro verso – e sulle orme di
Benjamin – da Agamben.
La natura formale o antropologica dell’aura è possibile coglierla forse anche
indirettamente, se la si mette in contatto con quella che credo debba essere rico-
nosciuta come la sua radice estetica: la «conformità a scopi senza scopo» della terza
Critica kantiana. Non a caso questa formula ricorre, benché sempre en passant,
in molte letture dell’aura, anche divergenti. Proprio in un saggio di Agamben,
per esempio, leggiamo che «[a]lla fine del XIX secolo la borghesia occidentale aveva
ormai definitivamente perduto i suoi gesti», anche se poco dopo apprendiamo
che il gesto – anche questa una nozione benjaminiana – è «l’esibizione di una
medialità, il render visibile un mezzo come tale», in quanto mostra, per esempio,
«l’essere-nel-linguaggio dell’uomo come pura medialità»13. Se il gesto rivela
una dimensione ontologica («l’essere-nel-linguaggio dell’uomo»), questa non
può, però, andare «definitivamente perduta». Ma quel che ci interessa ora è che
Agamben, nella sua definizione del gesto come medialità pura – corrispondente
al versante dinamico di un’immagine, un’«immagine che balena nella memoria
involontaria», dunque un’immagine auratica – riconosce il «significato concre-
to» della «oscura espressione kantiana “finalità senza scopo”»14. La finalità (o
conformità a scopi) senza scopo («eine Zweckmässigkeit ohne Zweck») è proprio
ciò che rende possibile la disponibilità a un nuovo uso di pratiche e nozioni
(la loro «profanazione») su cui, pure, Agamben ha insistito. Un altro esempio
del ricorso – quasi controvoglia – alla “oscura” formula kantiana può essere
tratto da un articolo di Rosalind Krauss, Reinventing the medium, pubblicato
all’interno di un numero di Critical Inquiry del 1999 interamente dedicato a
Benjamin. Dall’idea di Benjamin secondo cui ci troviamo di fronte a un nuovo
tipo di percezione, «la cui “sensibilità dell’‘universale equivalenza delle cose” è
aumentata in tale grado che essa, mediante la riproduzione, la estrae perfino da
un oggetto unico»15, Krauss accredita a Benjamin la scoperta che la fotografia
distrugge la specificità del medium, fenomeno che sarebbe esploso in ambito
artistico negli anni Sessanta, quando accade che «la specificità del singolo me-

12
Didi-Huberman 1996: 219-220.
13
Agamben 1996: 52.
14
Ibidem.
15
Krauss 1999: 293. L’intera frase è una citazione da Benjamin, 2002, vol. VI: 276 (traduzione
leggermente modificata).

221
dium è abbandonata in favore di una pratica focalizzata su quel che deve essere
chiamato arte-in-generale, il carattere generico dell’arte indipendentemente da
un supporto specifico, tradizionale»16. Una delle strategie del fotoconcettuali-
smo, perseguita per ottenere questo obiettivo, sarebbe – e qui Krauss segue Jeff
Wall – un mimetismo non del fotogiornalismo, ma della fotografia brutalmente
dilettantesca, quella «priva di ogni significato», perché la

fotografia in cui non c’è nulla da guardare, si avvicina quanto è possibile alla condizione
riflessiva di una fotografia su niente se non sulla persistenza del suo autore nel continuare
a produrre qualcosa che, nella sua resistenza alla strumentalizzazione, nella sua purposive
purposelessness [nella sua “finalistica mancanza di scopo”] deve essere chiamata arte17.

Le simpatie di Krauss non vanno a questa idea di fotografia (come medium


di un’«un’idea filosoficamente unificata di Arte»18), ma a quella di una pratica
artisticamente plurale, dove ogni arte reinventa il proprio medium. Ora non
interessa tanto che questa proposta di Krauss non sia particolarmente perspicua,
quanto il fatto che qui la formula kantiana viene menzionata (con un’inversione
tra sostantivo e predicato rispetto all’originale) per designare un’arte che, nono-
stante la sua riproducibilità tecnica, ripropone l’aura in funzione di resistenza
alla propria strumentalizzazione.
In entrambi i casi, comunque, si avrebbe una sorta di equivalenza tra aura e
«conformità a scopi senza scopo»: mentre per Krauss questa equivalenza riman-
derebbe – in maniera convenzionale e riduttiva – a una nozione unitaria di Arte,
secondo Agamben perderebbe parte della sua oscurità in riferimento allo spazio
puramente mediale del gesto.
Come è noto, la formula «conformità a scopi senza scopo» costituisce solo
uno dei momenti dell’ «Analitica del bello» della Critica della facoltà di giudi-
zio kantiana, il terzo, quello posto sotto il segno della relazione. Insieme agli
altri tre momenti – che sanciscono tra le condizioni di un giudizio di gusto il
disinteresse per l’esistenza dell’oggetto (qualità), la sua universalità soggettiva
(quantità) e la sua necessità esemplare (modalità) –, anche la «conformità a
scopi senza scopo» contribuisce ad articolare il senso di quel «libero gioco di
immaginazione e intelletto» che riassume il principio del giudizio estetico. Il
richiamo quasi esclusivo al terzo momento è dunque una sorta di metonimia
per il «libero gioco» delle facoltà, ma è forse giustificato dal fatto che, insieme al
primo momento (il tanto frainteso «disinteresse») la «conformità a scopi senza
scopo» è la caratteristica che più sottolinea l’allontanamento da un riferimento
oggettivo-concettuale del giudizio estetico: funge insomma come più evidente

16
Ivi: 294.
17
Ivi: 295. Nella traduzione italiana l’espressione diventa curiosamente “nella sua decisa
indecisione”.
18
Ivi: 305.

222
operatore di indeterminazione, fornendo l’idea di una “sensatezza” dell’esperien-
za (la conformità a scopi), che viene al tempo stesso privata di ogni significato
oggettivo soddisfacente. L’oggetto resta inevitabilmente “lontano” (per quanto
vicino possa essere), perché le sue determinazioni spaziali oggettivabili vengono
sospese, così come viene sospesa e complicata ogni determinazione tempora-
le. Se infatti lo schematismo oggettivo – quello preposto a una percezione in
funzione conoscitiva – è una determinazione concettuale del tempo, il «libero
schematismo» – il «libero gioco tra immaginazione e intelletto» –, non è più
guidato da schemi temporali determinati dalle categorie, ma mette in gioco le
due intere facoltà, rendendo impossibile ogni ordinamento temporale univoco. La
schematizzazione del tempo, secondo l’ordine delle categorie, viene disattivata a
favore di un possibile intreccio di temporalità non lineari, fatto di anticipazioni,
sospensioni, ritorni, sovrapposizioni. Quel «singolare intreccio di spazio e tempo»,
che Benjamin coglieva come una caratteristica fenomenologica fondamentale
dell’aura, sembra trovare qui la sua radice trascendentale (e non invece, come
suggeriva Costello, nell’estetica trascendentale della prima Critica).
Non sarebbe difficile mostrare come in questa radice trascendentale possano
trovare spazio altri aspetti di una fenomenologia dell’aura, come per esempio
quella secondo cui un oggetto ci restituisce il suo sguardo: le “cose”, infatti,
possono diventare quasi-soggetti, in quanto stabiliamo con esse un rapporto di
«favore» (Gunst)19, che non implica una relazione asimmetrica – come nel caso
dell’inclinazione o del rispetto – ma simmetrica, e dunque di reversibilità, tra
osservante e osservato. Attribuire «alle cose inanimate, conformemente alla loro
forma, uno spirito che parla attraverso di esse» è infatti «un gioco comunissimo
della nostra fantasia»20, ed è il fondamento analogico che permette, per esempio,
di parlare comunemente di un «prato ridente21. Qui però è importante ricordare
un altro aspetto del giudizio estetico kantiano, cioè che può essere esercitato nei
confronti di qualsiasi oggetto, evento, rappresentazione, perfino nei confronti
di «rappresentazioni razionali»22, cioè di idee e concetti, così come l’aura «si
manifesta in tutte le cose». Da un lato, allargando ulteriormente la prospettiva di
Didi-Huberman, si potrebbe dire che il “il valore cultuale” in senso etimologico
(la “coltivazione”, la “cura” prestata a qualcosa, senza una sua subordinazione
finalistica eterogenea, concettuale, spaziale e temporale), sarà a sua volta una
manifestazione di una potenzialità interna alla stessa percezione, che trova nel
«libero gioco di immaginazione e intelletto» la condizione della sua possibilità;
d’altro lato, si potrebbe scorgere all’interno stesso dell’aura nella sua accezione
più vasta – approfondendo la prospettiva di Bratu Hansen –, una radice estetica,

19
Kant, 1999: § 5.
20
Ivi: § 51.
21
Ivi: § 59.
22
Ivi: § 1.

223
di cui l’accezione estetico-artistica sarebbe solo una possibile specializzazione
restrittiva.

Aura fasulla, bella apparenza, gioco

Come è noto, il ritrovamento alla fine degli anni Ottanta della prima versione
dattiloscritta del saggio benjaminiano su L’opera d’arte ha permesso di accedere a
una serie di preziosi elementi che nella sua seconda versione sono stati soppressi23,
anche in seguito alle critiche espresse da Adorno, a cominciare dalla lunga lettera
del 18 marzo 1936. Tra questi, il darsi di una coappartenenza, in proporzione
inversa, tra «bella apparenza» e «spazio del gioco»: «ciò che si accompagna al
deperimento dell’apparenza, al declino dell’aura nelle opere dell’arte, è un enor-
me guadagno in termini di spazio (del gioco)»24. La «bella apparenza» sembra
essere legata a doppio filo alla percezione auratica, di cui costituisce il «fondo
esperienziale». Tale fondo è parte della «mimesi come fenomeno originario di
ogni attività artistica […] Colui che imita rende apparente il suo oggetto. Si
può anche dire che giochi con il suo oggetto. E così si giunge alla polarità che
sottende alla mimesi […] vale a dire il gioco e l’apparenza»25.
Ciò che interessa maggiormente a Benjamin è rendere operative queste distin-
zioni per l’«attualità». Ed è questo anche il compito più difficile e rischioso. Non
si tratta, infatti, di ritrovare la polarità di apparenza e gioco soltanto in questa
o quell’opera singolare, ma addirittura di leggere il proprio tempo attraverso le
specifiche prestazioni di alcuni media (innanzitutto attraverso l’irruzione della
fotografia e del cinema), di caratterizzare dei mutamenti che interverrebbero
nella percezione grazie alla loro assimilazione o «innervazione», e di valutarne
la funzione sociale e politica. Oggi è difficile condividere la tesi secondo cui «il
cinema serve a esercitare l’uomo in quelle appercezioni e reazioni determinate dall’uso
di uno strumentario il cui ruolo cresce quasi quotidianamente nella sua vita», per
non parlare delle conseguenze che allora Benjamin ipotizza, cioè che «l’asser-
vimento al suo servizio farà posto alla liberazione attraverso di esso, quando la
disposizione di spirito dell’umanità si sarà adeguata alle nuove forze produttive
rese accessibili dalla nuova tecnica»26. Ed è difficile non soltanto perché Benjamin
ha avuto forse fin troppo ragione – il cinema si è così ben «innervato» nei nostri

23
L’ordinamento delle versioni del saggio è diversa nelle Gesammelte Schriften e nelle Opere complete
in italiano. Un chiarimento della situazione si trova in Benjamin 1974-1989, vol. VII: 681 sgg.
e in Benjamin 2002, vol. VI: 571 sgg. e vol. VII: 544 sgg. Qui seguiremo i curatori dell’edizione
italiana chiamando prima versione questa del 1936 e seconda quella del 1939. Per una ricostruzione
lucida e aggiornata delle vicende riguardanti le stesure e per un’ottima collocazione teorica del
saggio sull’opera d’arte, vedi Pinotti 2012: 5-15 e le introduzioni alle singole sezioni dell’antologia
benjaminiana dei curatori Pinotti e Somaini 2012.
24
Benjamin 2002, vol. VI: 289 n. 10.
25
Ivi: 288 n. 10.
26
Ivi: 280

224
meccanismi percettivi che non ne avvertiamo più lo shock –, o perché «il vacci-
no» si è rivelato «una droga»27, quanto perché siamo abituati a usi tra loro così
diversi di un medesimo medium che parlare di cinema in generale ci sembra poco
illuminante: “il” cinema può essere oggi un narcotico leggero e un’«immagine
di pensiero»28, novanta minuti di confortevole intrattenimento panoramico e
una picconata, aura e shock, bella apparenza e gioco. Quello che la nostra sen-
sibilità non dovrebbe più tollerare è il riaffiorare inestirpabile ma degradante di
un’aura ricercata, la riproposizione di una «bella apparenza» cultuale e “geniale”
che mira a una completezza e chiusura “neoclassicistiche”, programmaticamente
chiusa allo spazio del «gioco» e dell’esperimento: in questo senso il cinema, per
Benjamin, sarebbe esemplare in quanto costitutivamente aperto, strutturalmente
segnato da una «migliorabilità»29. È lo stesso rifiuto di un’aura fasulla e perfetta
che Adolf Loos – non a caso ammirato da Benjamin – descriveva nell’apologo A
proposito di un povero ricco30 – reso “completo” e dunque “morto” da una ricchezza
soffocante e opposta alla nuova «povertà» auspicata da Benjamin, solidale con
il bisogno di «aria fresca e spazio libero» proprio del «carattere distruttivo»31 – o
di quella che Benjamin stesso identifica nel «ritocco del negativo» fotografico32,
analogo all’idea di Franz Werfel di portare all’espressione nel cinema «ciò che è
magico, meraviglioso, sovrannaturale»33, fino alla «estetizzazione della politica»
caratteristica del fascismo e a quell’aura posticcia che Adorno vedeva emergere
dal «gergo dell’autenticità».
Tutte queste manifestazioni di un’aura fasulla sono volontaristiche: vorrebbero
cancellare cosmeticamente e per decreto quella rottura con la tradizione che si
è consumata a partire dall’Ottocento e che ha nell’eclettismo citazionista e nei
“supplementi” pseudoauratici di «bella apparenza» già ricordati i suoi esponenti
più ovvi. Solo non mirando alla produzione o fruizione di aura è possibile che si
apra lo spazio per esperienze auratiche. Ecco perché può essere solo la «memoria
involontaria» a custodirla o farla emergere34.

27
Türke 2002: 290
28
Difficile non accostare i Denkbilder benjaminiani alle «idee estetiche» kantiane, specie se li si
interpreta, come suggeriscono i curatori, nel senso di una «critica a ogni rigida divisione, tendente
a collegare la staticità di una figurazione raddensata con la dinamica di un pensiero produttivo»
(Benjamin 2002, vol. V: 598).
29
Benjamin 2002, vol. VI: 282.
30
Loos 1962: 149-155. L’apologo citato, A proposito di un povero ricco, risale al 1900.
31
I riferimenti sono al saggio Esperienza e povertà (in Benjamin 2002, vol. V. 539-544) e a Il
carattere distruttivo (in Benjamin 2002, vol. IV: 521-525).
32
Benjamin 2002, vol. IV: 66.
33
Benjamin 2002, vol. VI: 284.
34
In questo senso si può dire dell’aura che è un «effetto essenzialmente secondario», su cui mi
sono soffermato in Velotti 2003.

225
L’impossibilità di mirare con successo alla produzione o all’esperienza dell’aura
può forse gettare qualche luce su un’altra polarità benjaminiana che, a prima
vista, potrebbe presentarsi come una contraddizione: con le fotografie di Atget,
sostiene Benjamin, scompare la figura umana, scompaiono i volti da cui «ema-
na per l’ultima volta l’aura»35, e il «valore espositivo» prende il sopravvento su
quello «cultuale». Ciò sarebbe dovuto al particolare tipo di ricezione richiesto
da quelle fotografie:

Esse esigono già la ricezione in un senso determinato. Non si addice alla loro natura la
fantasticheria contemplativa liberamente divagante […] Contemporaneamente i giornali
illustrati cominciano a proporgli una segnaletica […] Le direttive, che colui che osserva
le immagini in un giornale illustrato si vede impartite attraverso la didascalia, divente-
ranno ben presto più precise e impellenti nel film, dove l’interpretazione di ogni singola
immagine appare prescritta dalla successione di tutte quelle che sono già trascorse36.

Per quanto l’ultima affermazione a proposito della “prescrizione interpretativa”


che sarebbe propria di un film sia discutibile (perché non anche di un romanzo
o di un’opera musicale, e in un certo senso di qualsiasi opera?), qui interessa
sottolineare l’idea secondo cui «la fantasticheria contemplativa liberamente
divagante» verrebbe sostituita da una «segnaletica», da una «ricezione in senso
determinato». Se così fosse, allora sì che l’esperienza dell’aura, lungi dal «mani-
festarsi in tutte le cose», non potrebbe più manifestarsi in alcun modo, essendo
il sensorio umano ridotto a una serie di risposte – prefissate o “prescritte” – ad
altrettanti stimoli determinati e tendenzialmente univoci (una «segnaletica», ap-
punto). L’altro polo a cui accennavo, però, è costituito dalla tesi secondo cui «la
ricezione nella distrazione, che si fa sentire in modo sempre più insistente in tutti
i settori dell’arte e che costituisce il sintomo di profonde modificazioni dell’ap-
percezione, trova nel cinema lo strumento più autentico su cui esercitarsi»37. La
ricezione nella distrazione può essere riconciliata con la coazione prescrittiva della
segnaletica – proprio come accade con la segnaletica stradale, che è tanto più
efficiente quanto più può essere recepita da un guidatore esperto come univoca e
“trasparente”, senza richiedere solitamente una particolare attenzione, e dunque
refrattaria a indurre una «fantasticheria contemplativa liberamente divagante»,
che nel caso specifico risulterebbe pericolosissima. Ma la stessa «ricezione nella
distrazione» può entrare in conflitto con una «ricezione in senso determinato» o
segnaletica. La formula «ricezione nella distrazione» può essere letta, infatti, anche
in un senso analogo alla freudiana «attenzione fluttuante»38. D’altra parte, a che

35
Benjamin 2002, vol. VI: 281
36
Ibidem.
37
Ivi: 301.
38
Freud 1912. Fürnkäs (2008: 100) accosta questa «indicazione di metodo non metodica»
freudiana al procedere stesso di Benjamin quando intende «leggere» il «libro degli avvenimenti»
leggendo «ciò che non è mai stato scritto».

226
cosa bisogna fare attenzione nella ricezione di un’opera d’arte? Si potrebbe dire: a
tutto, dunque a niente di particolare. Quella di “fare attenzione”, senza indicare
a cosa, è un’ingiunzione notoriamente allarmante e ineseguibile. E tuttavia, è
forse l’ingiunzione più adeguata che si può dare nei confronti della ricezione di
un’opera: specificare a che cosa occorre fare attenzione sarebbe fornire già un’in-
terpretazione, una segnaletica. Sarebbe impoverire la ricezione incanalandola pre-
ventivamente «in un senso determinato». D’altra parte, un’attenzione fluttuante
o indeterminata è funzionale all’ascolto-ricezione di particolari determinati che
sfuggirebbero a un’attenzione già incanalata: così come l’attenzione fluttuante
dell’analista freudiano è la controparte delle libere associazioni del paziente, del
suo inconscio, la «ricezione nella distrazione» è la controparte di quell’ «inconscio
ottico» che emergerebbe, per Benjamin, proprio con la fotografia e il cinema – e
la «guida geniale dell’obbiettivo» (geniale Führung des Objectivs)39.
Ma, di nuovo: davvero è solo con la fotografia e il cinema che in un’opera
d’arte emergono particolari non intenzionati, non previsti o controllati dal suo
«produttore»? La contingenza incalcolabile sarebbe esclusa dagli altri media ar-
tistici? Credo che non sarebbe difficile mostrare, caso per caso, che le cose non
stanno così, a cominciare proprio dalla lingua, che lo stesso Benjamin chiama «il
più perfetto archivio di similitudini immateriali»40, un archivio sociale e trans-
generazionale di cui il singolo non è certo il padrone. Vicinanza, attenzione,
tattilità, determinatezza non sembrano essere termini esclusivi di alcuni media,
né possono darsi in un dato momento storico senza essere al tempo stesso abitati
al loro interno da lontananza, distrazione, otticità, indeterminatezza. È solo nel
“libero gioco” tra queste polarità che si può aprire, di volta in volta, uno «spazio
libero» per sperimentare, uno «spazio del gioco (Spielraum)» più o meno serio,
più o meno disponibile a farsi esperienza e non solo “sensazione”.

39
Benjamin 2002, vol. VI: 295.
40
Benjamin 2002, vol. V: 524.

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