Vous êtes sur la page 1sur 4

Da cosa nasce Io non ho paura?

È lo stesso Niccolò Ammaniti a rispondere, nel corso della


Fiera del Libro di Torino del 2003: "È nato durante un viaggio nel sud Italia, sulla strada
verso la Puglia, a giugno, quando il grano è alto. Passavo lungo una strada interminabile,
fiancheggiata da colline di grano. Mi sono fermato a guardare e ho capito che volevo
descriverlo. Mi piaceva l'idea. Il grano si usa per fare le cose buone, ma sotto è pieno di
cose cattive che ti pungono, ti mordono, ti possono fare del male".
Il racconto inizia proprio con le immense distese dei campi di grano, il viaggio attraverso il
film invece inizia con un movimento di camera dal basso, dal buio, da un buco scavato
nella terra, tra fango, vermi e radici spezzate. La macchina da presa esplora lentamente e
si muove verso l'alto verso il sole splendente sui campi di grano.
Io non ho paura di Niccolò Ammaniti è stato pubblicato da Einaudi nel 2001 e trasformato
in film dal regista Gabriele Salvatores nel 2003.
Una trasposizione, quella di Salvatores, realizzata con lo stesso Ammaniti che è anche
sceneggiatore del film assieme a Francesca Marciano.

La storia di Michele e Filippo


Siamo in un piccolo borgo in una torrida estate del 1978. Un gruppo di bambini è
impegnato nei giochi estivi, scorrazzando per le campagne. Durante uno dei tanti giochi, il
bullo del gruppo propone una sadica penitenza per una ragazzina, usuale bersaglio dei
compagni. Michele, il bambino protagonista della storia, per evitare l'umiliazione all'amica,
accetta la sfida al suo posto. La penitenza è pericolosa e Michele finisce con il cadere a
terra, accanto a una lastra di ferro che copre una buca. Nel buio Michele intravede un piede
umano e in preda al panico scappa. Il giorno successivo, però, torna a guardare e nella
buca trova Filippo un bambino incatenato e delirante. Michele torna quotidianamente a
trovare Filippo e scopre che è un suo coetaneo. Ha una famiglia dalla quale è stato
strappato per essere sepolto vivo in quella buca. Michele inizia a portare acqua, cibo e
vestiti a Filippo e tra i due nasce un'amicizia. Un giorno, a fatica, lo tira fuori dalla buca, lo
carica sulle spalle e vanno a giocare per i campi. Michele non sa – o forse lo intuisce
senza poterlo accettare – che in quel rapimento è coinvolto tutto il suo paese e primo fra
tutti proprio suo padre. Alla scoperta della verità Michele è sconvolto e per di più viene
tradito dal suo migliore amico, l'unico cui ha confidato della scoperta del nascondiglio e di
Filippo. Il padre intima a Michele di non andare più a trovare il bambino rapito ma non sa
trovare le parole per giustificare quel fatto, per dare a Michele un motivo valido per la
reclusione del bambino. Poi gli eventi precipitano improvvisamente: Michele capisce che
la vita di Filippo è in pericolo, che stanno per ucciderlo. È molto spaventato ma sfida
ugualmente la notte e corre a salvare l'amico. Ma anche gli adulti stanno per arrivare.

Senso dello spettacolo e introspezione psicologica


Niccolò Ammaniti e Francesca Marciano hanno realizzato una sceneggiatura che è un
esempio ben calibrato di script che riesce a coniugare senso dello spettacolo, racconto
cinematografico e storia d'introspezione psicologica. Uno dei grandi pregi del libro, ma
anche del film, è proprio quello di saper raccontare l'infanzia del piccolo protagonista in
tutta la sua complessità: per almeno metà del racconto il giovane Michele non riesce a
mettere a fuoco esattamente cosa sta accadendo. Osserva confuso gli eventi che
accadono nonostante tutto, diviso tra ciò che sente giusto e l'amore per quelli che gli sono
accanto. E una delle carte vincenti del film è quella di non raccontarci esplicitamente cosa
accade nella testa e nel cuore di Michele. Ce lo suggerisce soltanto in quanto ciò che
percepisce ed elabora un bambino non può essere spiegato razionalmente. Per Michele
non ci sono buoni o cattivi ma solo quello che lui crede giusto o sbagliato.

La potenza delle immagini


Io non ho paura è anche un lungometraggio bello da vedere. È una storia ben raccontata,
grazie alla regia di Salvatores e alla fotografia di Italo Petriccione, che alterna ritmo
narrativo molto fluido e preciso a delle scene che raccontano alla perfezione l'essere
bambini. Una delle maggiori qualità della trasposizione cinematografica è, infatti, quella di
saper arrivare all'intimismo proprio attraverso la bellezza delle immagini che, accostata
all'innocente semplicità dei dialoghi, riesce a costruire un quadro perfettamente plausibile
e allo stesso tempo esteticamente valido.
Arriva, dunque, al cuore dello spettatore passando attraverso lo specifico cinematografico,
l'immagine, e attraverso la ricostruzione di una storia interessante ed efficace a livello
emotivo.
L'economia espressiva è la prima caratteristica di questo racconto. Una determinazione
estetica, quella di Ammaniti, caratterizzata dalla scelta del fraseggio e delle parole infantili.
Un linguaggio sempre appropriato che rende estremamente realistico tutto il racconto. Ma
il regista elimina la rassicurante voce narrante del testo. Lo spettatore deve intuire le
emozioni, i dubbi, le sensazioni attraverso le immagini. Anche se Salvatores utilizza
spesso il punto di vista del bambino nelle riprese, ottenendo l'effetto desiderato: e cioè
l'immedesimazione dello spettatore e una efficace drammatizzazione con notevoli effetti
estetici. Come, per esempio, quando Michele sbircia dalla porta della sua camera
un'animata discussione degli adulti in cucina e lo spettatore vede con gli occhi di Michele
quanto accade e cioè solo parzialmente e con gli attori che entrano ed escono
continuamente dall'inquadratura, perché la ripresa è fissa e la visuale è determinata dalla
leggera apertura della porta.

La struttura di una fiaba


Il testo ha la struttura di una fiaba, quella descritta da Vladimir Propp (Morfologia della
fiaba, 1928): il soggetto (Michele), l'oggetto-valore (Filippo), l'adiuvante che può diventare
opponente (l'amico delatore), gli opponenti (gli adulti).
È importante sottolineare una differenza: l'oggetto non viene cercato ma trovato
casualmente. Il fulcro del racconto è il rapporto tra Michele e Filippo, inizialmente un 'altro'
da cui diffidare e di cui avere timore, poi un doppio, un coetaneo (v. narratore
inaffidabile??). Un conflitto che si risolve positivamente (i due ragazzi diventeranno amici)
interno a un contrasto più vasto (mondo degli adulti vs mondo dei bambini) che sarà
superato solo grazie all'intervento esterno di un provvidenziale deus ex
machina (l'elicottero delle forze dell'ordine).

La cinepresa e gli occhi di un bambino


La scelta di mostrare il mondo attraverso gli occhi di un bambino obbliga il regista a porre
la macchina da presa alla sua altezza, a farle sfiorare le spighe di grano. Ma l'aderenza al
suo sguardo non si limita a questo, è autentica e profonda, non è solo 'occhio' ma anche
mente, un punto di vista cognitivo oltre che percettivo.
Il regista ha lavorato sulla distribuzione del sapere in modo da aumentare
l'immedesimazione e la suspense, lasciando lo spettatore solo con Michele.
Insieme al direttore della fotografia ha scelto spesso obiettivi a focale non definita, che
con l'uso di un'illuminazione a un solo raggio sul soggetto, hanno reso quella sensazione di
percezione imperfetta e soggettiva.

Ombra e luce
La mobilità della cinepresa è funzionale al racconto, quindi, ma anche la scelta di
accentuare il giallo accecante dei campi di grano ha come fine quello di rendere più
fragrante il contrasto con l'oscurità del luogo in cui è rinchiuso Filippo.
Lo stesso regista, Gabriele Salvatores, lo conferma nelle numerose interviste rilasciate in
occasione dell'uscita del film quando dice che "l'uso dei grandangoli che mettono tutto a
fuoco, o la fotografia pervasa dei colori primari" vogliono rendere le immagini così come
sono "nello sguardo dei bambini".
Una delle maggiori qualità del film è quella di saper arrivare all'intimismo proprio
attraverso la bellezza delle immagini, che accostata all'innocente semplicità dei dialoghi,
riesce a costruire un quadro perfettamente plausibile e allo stesso tempo esteticamente
accattivante.
Lo spettatore adotta il punto di vista del bambino protagonista, Michele, che ci conduce,
accarezzando le vaste e magnifiche distese di campi di grano, in un mondo fiabesco
violentato dalla mostruosa crudeltà degli adulti. Ma tra il mondo degli adulti e quello dei
bambini non c'è legame, scambio, dialogo: il primo è spazi chiusi, ombra, violenza; il
secondo è spazi aperti, luce, gioco, agonismo.

La figura infantile si sdoppia


Le tenebre del pozzo saranno illuminanti per il giovane Michele, che si confronterà
direttamente con la metà di sé (Filippo) che non sapeva o non voleva riconoscere. La
figura infantile sdoppiata si riconosce negli elementi complementari, nel rovesciamento di
ruoli: Michele diventa Filippo per favorire la fuga dell'amico. Una fusione ideale e angelica
che chiude simbolicamente il percorso.
Il cinema può essere, quindi, un bambino che guarda la realtà e a modo suo la trasforma in
un racconto fiabesco. Ma i bambini non vengono eletti a simboli d'innocenza: i loro giochi
sono prepotenti e crudeli quanto gli affari sporchi degli adulti. Quando Michele capisce
cosa stiano facendo i suoi genitori non li giudica ma disobbedisce e per contraddizione
rimedia alle loro colpe. Di solito il cinema non racconta i bambini ma li usa per far piangere
o ridere. Tutto questo non avviene nel film di Salvatores dove neppure per un attimo si
indulge al sentimentalismo.

Il finale del film e quello del romanzo


Il finale del film è molto personalizzato rispetto al romanzo. Anche in questo caso è lo
stesso Gabriele Salvatores a confermare che "il romanzo, essendo raccontato in prima
persona, non poteva oggettivare lo sguardo, quindi non poteva creare l'ambiguità del
bambino che sta morendo. Nel film invece si può fare tutto questo, la macchina da presa
riesce a donarci quest'ambiguità. Infatti, la ripresa parte da un primo piano del padre ma
ben presto l'abbandona e va su Michele per inquadrare la sua quasi identificazione con
Filippo, perché ormai sono una persona sola, è avvenuta quasi una fusione. E poi non mi
sembrava giusto che ci fosse un abbraccio finale fra i due bambini e il padre di Michele
che in ogni caso è una persona crudele ed è parte di coloro che hanno fatto del male a
Filippo. Ma soprattutto non volevo – sottolinea Salvatores – questa unione perché i due
mondi (bambini-adulti), dovevano restare assolutamente separati, come in tutto l'arco della
pellicola".

La musica
Impeccabile anche la musica originale, che su consiglio dello stesso scrittore, si affida al
suono teso e incalzante degli archi del maestro Ezio Bosio, primo contrabbasso del Teatro
dell'Opera di Roma. Una scelta coraggiosa e vincente: riesce, infatti, a segnare
perfettamente gli stati d'animo del protagonista, e degli spettatori, costantemente tra
tensione e dramma.

Un romanzo già sceneggiatura


Il libro di Ammaniti era già alla genesi un film, nasce infatti come soggetto
cinematografico. Ma è soprattutto lo stile a fare delle duecento pagine del libro un film a
parole. È una delle caratteristiche della scrittura dell'autore romano ma qui più che in
qualunque altra narrazione. C'è qualche critico che ha scritto che la fatica di Salvatores è
stata minima: il regista doveva solo chiudere gli occhi e lasciare che la sua immaginazione
realizzasse le immagini. Salvatores stesso ha dichiarato che avrebbe potuto fare il film
partendo direttamente dal libro, senza sceneggiatura, perché tutto era già presente fra
quelle righe. Anche se la forza del libro non si esaurisce nella traduzione in immagini:
continua a essere un bel romanzo che dice qualcosa di più o di diverso dal film. Si può
leggere il libro anche dopo il film e goderne comunque, come si può vedere il film dopo
averlo letto e uscirne pienamente appagati. C'è un rapporto indefinibile e stupefacente fra i
due, che si rimandano l'uno all'altro senza soluzione di continuità: è uno dei risultati
migliori che possa raggiungere la relazione fra immagine e parola.

Vous aimerez peut-être aussi