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© Copyright: 2006 maria pacini fazzi editore

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mpf@pacinifazzi.it

Printed in Italy
Proprietà letteraria riservata

isbn 978-88-7246-782-9
L’elmo di Mambrino
Nove saggi di letteratura

a cura di
Giovanni Ronchini e Andrea Torre

maria pacini fazzi editore


Il presente volume nasce a dieci anni dalla comparsa di «Sottospirito», foglio uni-
versitario di critica letteraria concepito e realizzato da un gruppo di studenti pres-
so l’Istituto di Filologia Moderna dell’Università degli Studi di Parma.
I curatori desiderano qui ringraziare Fabrizio Bondi per l’importante aiuto reda-
zionale nel portare a compimento questo libro.
Fabrizio Bondi

Seicento poesia anatomia


Digressioni scientifiche nei poemi di G. Murtola, G.B. Marino, N. Villani

«per guarire dall’antropocentrismo, causa di tutti i nostri mali, non c’è niente di
meglio che affacciarsi alla fisica dell’infinitamente grande (o piccolo). Con qualun-
que testo di divulgazione scientifica si recupera un vivo sentimento dell’assurdo».

J. Cortázar, Il giro del giorno in ottanta mondi

Qualche anno fa si sarebbe potuto aprire un discorso come questo dicendo sempli-
cemente che la nuova fiducia nei sensi, quella che aveva ispirato al cavalier Marino
il celebre elogio del canocchiale e di Galileo, era anche alla base di una certa «poe-
sia del corpo umano», a sua volta segno di una coraggiosa acquisizione alla pagina
poetica delle nuove scoperte scientifiche. Sebbene mista, correzione d’obbligo!, ad un
incorreggibile concettismo e preziosismo, questa sarebbe fiorita nel Seicento e avrebbe
conosciuto il suo più alto inveramento nei Consulti del Redi, (cioè in un testo fonda-
mentalmente non letterario).
Ora le cose sono, per fortuna, un po’ più complesse.
Nelle magnifiche sorti e progressive della critica mariniana, qualcuno sembra
essersi accorto, da un lato, della necessità di rivedere la celebre formula di Calca-
terra (Marino “poeta dei cinque sensi”). Dall’altro, però, pur nel costante trafficare
sempre di moda tra Arte & Scienza (fiorente soprattutto nelle terze pagine dei quo-
tidiani), pochi sentono suonare l’ora di una reimpostazione radicale del rapporto

.  Questo era in effetti il contenuto di una nota, poco esposta, che il Guglielminetti inserì in un suo saggio es-
senziale per la rivalutazione dell’Adone come poesia partecipante dello Zeitgeist che aveva spirato nel secolo di
Galileo, Bernini e Monteverdi. Cfr. M. Guglielminetti, Tecnica e invenzione nell’Adone di Giambattista Marino,
Messina-Firenze, D’Anna, 1964, pp. 109-110.
.  Su Marino e la scienza sono stati recentemente editati due non trascurabili interventi, di impostazione divergen-
te: l’uno di M.F. Tristan, La poesie sciéntifique du Cavalier Marin (1569-1625), in Naissance de la science dans
l’Italie antique et moderne. Actes du colloque franco-italien des 1ere et 2 décembre 2000 (Université de Haute-
Alsace), Bern-Berlin-Bruxelles-Franfurt am Mein-New York-Oxford-Wien, Peter Lang, 2004, pp. 230-250; l’altro
di G. Bárberi-Squarotti, Scienza e poesia: gli occhi dell’Adone, in L’occhio e la memoria. Miscellanea di studi in
onore di Natale Tedesco, vol. I, Arnaldo Lombardi Editore, Edizioni lussografica, Salvatore Sciascia editore, 2004,
pp. 157-168. Se il primo infatti si può considerare un corollario al monumentale La scéne de l’écriture. Essai sur
la poèsie philosophique du Cavalier Marin, Champion, Paris, 2002, e ne implica dunque tutta l’armatura concet-

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tra poesia e saperi scientifici nel Seicento. Valga, questo primo essai che qui presen-
to, anche come sondaggio preliminare di un territorio assai vasto e problematico.
Tenterò qui di seguito di illustrare uno snodo del transito che la poetica del corpo
umano ha compiuto a partire dal poema esameronico fino a quello didascalico di fine
Seicento-inizio Settecento. Il segmento, cioè, che unisce il genovese Gasparo Murtola al
suo avversario Marino, e quest’ultimo a Niccola Villani (Pistoia 1590-Roma 1636). Ma se
l’anima del Murtola è ascesa da alcuni anni al paradiso delle antologie (nonostante e forse
grazie al suo tentativo di liquidare fisicamente il rivale), il personaggio del Villani permane
meno studiato di quanto meriterebbe. Questione di appeal? Fu un letterato-professore, in
effetti, anche se al modo di un George Steiner: latinista, grecista, diprezzatore del chiac-
chericcio servile o fatuo od umano-troppo-umano; ottimo saggista, cercò di mettere in
pratica le sue idee in un severo poema epico post-tassiano, la Fiorenza difesa, pubblicato
postumo a Roma, nel 1641. (Come sarebbe oggigiorno il critico che, dopo una vita di ri-
flessioni teoriche sul romanzo si provi a costruirsene uno facendo i conti direttamente con
Joyce, con Musil, magari con Proust…). Un letterato, infine, che vedeva forse la pratica
umanistica a rischio di perdere colpi nei confronti di una scienza da essa mutante, forse
più atta ad aggredire la realtà, dotata com’era di tanti aculei matematici – sarebbe stato
possibile per i poeti (questa la sua domanda) rimettersi, o mettersi, al passo?
Una domanda che non lascia indifferenti nemmeno noi, contemporanei d’una con-
sumazione estrema del dissidio tra le “due culture” (forse poiché dissidio non signi-
fica, nemmeno oggi, reciproca impermeabilità), porgendoci anzi una ragione in più
per accostare l’occhio al canocchiale rovesciato della storia, (mentre apprendiamo da
figure come Villani, anche, quanto la moderna critica sia stata in fondo un prodotto
anticorpale della poesia, il cui dominio era minacciato dalla scienza, che rischiava di
eroderne del tutto il campo).

1. Esempi tratti da Marino (nel quale del resto come da Upim, ed in Grecia secondo
Savinio, si trova di tutto) punteggiano con rapsodica regolarità il grosso volume d’in-

tuale, il secondo si presenta piuttosto un esercizio di lettura vecchio stile, a tendenza amplificante, realizzato con
un’attrezzatura minimalista e del tutto immune da tentazioni interdisciplinari.
.  Dal Discorso anatomico, capriccio (1644) di Andrea Trimarchi all’Anatomico in Parnaso (1739) di Lucio
Francesco Anderlini, Niliandrio Dioscordio in Arcadia, passando per il recupero esameronico (ma ormai con
prospettiva di «poema filosofico») del siciliano Tommaso Campailla, autore di un Adamo ovvero il mondo creato
edito a Messina nel 1728.
.  Cfr. L’anima in Barocco, Testi del seicento italiano a c. di C. Ossola, Torino, Scriptorium, 1995.
.  Critico dell’Adone tra i più intelligenti, sotto il trasparente pseudonimo di Vincenzo Foresi e quello “comico”
di Messer Fagiano volle rispondere all’Occhiale del «Cav. Fra Tommaso Stigliani», atto d’inizio della guerra pro e
contro l’Adone, fu anche autore di un interessantissimo Ragionamento sopra la poesia giocosa de’ greci, de’ latini
e de’ toscani (1634). Della sua produzione poetica, occasionale ma non trascurabile, e singolarmente plurilingue,
è un ottimo esempio N. Villani, Trettanelò. Poesie sopra Venezia [«seguito da CASA GRECI / La letteratura
italiana moderna e la provocazione della grecità»], a c. di M. Pieri, Archivio Barocco, Gli impuri spiriti, Parma,
Zara, 1989. Alla Fiorenza è dedicata una monografia di G. Arbizzoni, Un’ipotesi seicentesca di poesia eroica. La
Fiorenza difesa di Niccola Villani, Urbino, Argalìa, 1977.

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novativa indagine topologica che Massimo Peri ha recentemente dato alle stampe.
Già la premessa rivendica apertis verbis per il nostro poeta un ingegno scientifico, in
congiunzione ad un problema che affascinò lo stesso Eugenio d’Ors:

Può darsi che l’interconnessione di questi fenomeni sia più apparente che reale, può
darsi che la definizione del pensiero di Harvey come “pensiero barocco” sia soltanto
suggestiva. Resta tuttavia il fatto che il Marino, instancabile manipolatore di stereo-
tipi, non conosca soltanto il doppio contrappunto, la dottrina del disegno interno e
gli studi sulle proporzioni, ma si mostri a giorno di botanica e si diffonda in relazioni
alquanto informate sull’anatomia degli organi sensori e sull’occhiale di Galileo.

Quindi il Peri fa seguire belle pagine sull’importanza delle teorie mediche antiche
per la comprensione profonda – ma anche solo per la comprensione letterale – dell’an-
tica letteratura, esemplificando con passi di Dante, Cervantes e naturalmente Marino.
Si riproduce ivi l’ottava 24 del canto XV dell’Adone, chiosando: «Anche la voce è
pneuma che “sgorga” dal cuore e attraverso la trachea (l’aspera arteria) raggiunge la
laringe», ma curiosamente non viene allegata un’ottava mariniana dove della trachea
viene fatta esplicita menzione. In XIII, 42, la maga Falsirena, intenta a scegliere un ca-
davere per la sua operazione di necromanzia, controlla che il corpo abbia integro oltre
al polmone (come era anche nel luogo relativo di Pharsalia, VI, modello dell’episodio)
anche l’«aspra arteria», cioè la trachea (in greco tracheia arteria):

Scelse un meschin di quella mischia sozza,


Che passato di fresco era di vita.
Intero il volto, intera hauea la strozza,
Ma d’un troncon nel petto ampia ferita.
Se sia guasto il polmon, se rotta o môzza
Sia l’aspra arteria, ond’ha la voce uscita
Prendendo a perscrutar, trova la Maga
C’ha le viscere intatte, e senza piaga.

Poiché Marino fa uso di tecnicismi anatomici, oltre ai passi sugli organi di senso, solo

. Originariamente studioso di neogreco (Kavafis) sulle tracce di Pontani, si è lanciato nell’impresa di rinnovare la
critica tematica, partendo dalla topologia del Pozzi, che il Peri si è scelto come maestro, ma risalendo addirittura
oltre Curtius, a Jung; in un esempio di indubbia apertura culturale, sia alla cronicità verticale dell’intera Parola
d’Occidente (dalla Bibbia a Italo Calvino), sia nell’orizzontalità interdisciplinare. Cfr. M. Peri, Ma il quarto dov’è?
Indagine sul topos delle bellezze femminili, Pisa, Ets, 2004.
.  Cfr. ivi, p. 38.
.  «Più oltre ancor de’ suoi lamenti il corso / L’innamorato Giouane seguia, / Ch’un marmo, un ghiaccio, un cor
di Tigre e d’Orso / Intenerito, incenenerito hauria. / Ma pose il duolo alla sua lingua il morso, / Che sgorgando dal
cor per altra via, / Mentre ala lingua il pose, agli occhi il tolse, / E ’n disperate lagrime lo sciolse». G.B. Marino,
L’Adone, a c. di M. Pieri, Trento, La Finestra, 2004.
.  L’occhio, descritto a VI, 25-35; il naso, a VI, 116-120; l’orecchio, a VII, 12-17; la bocca, a VII, 125-130; del
Tatto si dice a VIII, 19-21.

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in un altro luogo del poema, il particolare risulta significativo. Insieme al «trattato della
voce» inserito nella Pittura10, può riecheggiare l’interesse rivolto dalla scuola anatomica
padovana alle dinamiche di espressione vocale, oltre che in generale all’anatomia dei sen-
si e alle questioni della percezione. Marc Fumaroli attribuisce addirittura a Giulio Casseri
(autore non per niente di una De vocis auditisque historia anatomica) «une philosophie
medicale de la voix humaine»11: ed è estremamente probabile che Marino, ammiratore
della vocalità operistica, nonché delle dive che la detenevano, abbia cercato in lui dei sus-
sidi per indagarne il mistero. Un Marino affascinato dalle vicende dello spiritus – sostan-
za ai confini tra spirito e materia, implicata nei processi mentali e nel bacio, nel canto,
nella poesia e insieme nelle lacrime (il Casseri, peraltro, fu autore anche di una fortunata
monografia sulle lacrime) – non è del resto uno scenario peregrino.
Acquapendente e Casseri potevano certo essere pescati dal vasto mare pieno di
strani pesci d’erudizione che si vantava di correre il nostro, oltre al gusto per le cu-
riosità da gabinetto scientifico che gli veniva dall’esperienza bolognese, l’Accademia
dei Gelati e il sodalizio col Rinaldi. Ma a Venezia Marino stette un anno intero, per
sorvegliare le Rime del 1602, e in quel periodo fu anche a Padova; non sarà dunque az-
zardato prendere in considerazione l’ipotesi di una sorta di funzione-Casseri12, non solo
quale serbatoio di nozioni e parole «dotte» e «preziose», ma anche come aggiornato
contributo al quantomai attuale dibattito sulla conoscenza. L’«aristotelismo inquieto»
proprio dell’impostazione di quei filosofi-scienziati-ricercatori sarebbe poi il medesimo
che Giorgio Fulco, in un suo erculeo tour de force intertestuale13, individuava per il
cielo descritto dal Marino nelle celebri ottave del canto X, leggendovi l’infiltrazione di
Giulio Cesare Vanini14.

2. Il capolavoro della scuola anatomica padovana, il Pentestheseion di Casseri, grande


trattato sui cinque sensi, esce nel 1609: anno caldo, come non mancò di far rilevare Car-
mela Colombo, della rivalità tra Marino – a Torino l’ultimo arrivato, ma aggressivo – e il
Murtola, già poeta di corte. L’anno prima, questi aveva dato alla luce il suo capolavoro, il

10.  La seconda delle Dicerie sacre, privilegiato «campo sperimentale» dell’Adone, cfr. G. Pozzi, Introduzione a
G.B. Marino, Dicerie sacre e la Strage de gl’innocenti, a c. di G. Pozzi, Torino, Einaudi, 1960, p. 206.
11.  Cfr. M. Fumaroli, Rhétorique et poétique, in «Lettere italiane», XLIV, n. 1 (1992), pp. 34-35.
12.  Partito come illetterato famulus del suo maestro, questo singolarissimo personaggio di origini piacentine ar-
riva a diventarne rivale e successore a Padova: uno degli estremi esempi della possibilità d’una scalata sociale
dal basso che era stata senz’altro più frequente nel Cinquecento, età dell’affluenza dei ceti urbani e, lato sensu,
borghesi: Aretino… (e si ricordi la scalata del Marino, da fuoriuscito a poeta di corte di uno dei primi principi
d’Europa). Cfr. A. De Ferrari, voce Casseri (Casserio), Giulio Cesare, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol.
XXI, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1978, pp. 453-456.
13.  G. Fulco, Pratiche intertestuali per due performances di Mercurio, in Lectura Marini, a c. di F. Guardiani,
Toronto, Dovehouse Editions, 1989, pp. 155-192.
14.  Cercherò di discutere in modo conseguente le implicazioni di questi nessi, rileggendo anche il problema dei
sensi e della loro gerarchia, in uno studio in preparazione su scienza e non-scienza nell’Adone e nell’opera tutta
del Marino.

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poema Della creazione del mondo, dedicato al «Serenissimo D. Carlo Emanuello Duca di
Savoia». Il Marino, che il Poema maiuscolo non l’aveva ancora, ma che aveva il robusto
fiuto critico di ogni grande poeta, avrà senz’altro colto al volo i punti di forza dell’ope-
razione esameronica dell’avversario. Infatti «ad un anno dall’uscita del Mondo creato
tassesco, il Murtola, con tempestività bruciante aveva saputo proporre un’armonistica
tutta diversa da quella del grande scomparso, collocando le macchine meccaniche del-
l’uomo e le macchine ben regolate della società umana alla pari con la mirabile struttura
divina del cosmo»15. Pur sapendo che era questo il terreno sul quale bisognava “superare
a sinistra” l’avversario, al momento la sua scelta tattica fu di ridicolizzarlo, per mezzo di
quel berniesco capolavoro che è la Murtoleide. Così nella Fischiata settima:

Scrisse la creation pria l’Aretino,


il secondo a cantarla fu il Bartasso;
Ultimamente l’ha cantata il Tasso;
E poi non so che Frate Certosino.

Nessuno di costor vale un quatrino


[…]16.

Marino individuò e colpì senza pietà il punto debole di Murtola: l’aver fatto oggetto
d’un canto alto anche inezie umili e quotidiane, sballando il sincronismo dei dischi alla
rota Vergilii. L’avrebbe puntualmente registrato, molti anni dopo, il Tesauro, illustran-
do il tipo decettivo della metafora:

Ancor negli Epiteti succede questo piacevolissimo inganno: quando alla grandezza
e nobiltà dell’aggettivo non corrisponde il sostantivo. Di che prende l’esempio da
Cleofonte: Et tu VENERANDA DIVINA Ficus. Onde il Marini ridevolmente scherni-
sce gli Epiteti simplicemente usati dal suo rivale nel Mondo Creato.

Honor delle insalate INCLITE herbette, & c.

E Voi SACROSANTISSIMO polmone.


Et Voi BEATA E BENEDETTA milza, & c.17

Dal Marino, anche in questa veste comica e apparentemente dimessa, il Tesauro


riterrà la lezione che la simplicitas, benché sancta, non può essere un valore in poesia.
Infatti se per il Murtola, prete-poeta, la poesia aveva il compito di stanare la meraviglia
dell’operare divino anche (o soprattutto) tra le bestie dei campi e le erbucce dell’orto,

15.  G. Pozzi, Guida alla lettura, in G.B. Marino, Adone, Adelphi, Milano 1988, tomo II, p. 133.
16.  Cito da «LA / MURTOLEIDE / FISCHIATE / DEL CAVALIER MARINO. / CON LA MARINEIDE / Risate /
DEL MURTOLA. / IN SPIRA, Appresso Henrico Starckio, s. d.».
17.  E. Tesauro, Il Cannocchiale Aristotelico, Herausgegeben und eingeleitet von August Buck, Bad Homburg v. d.
H. Berlin Zürich, Verlag Gehelen, 1968, pp. 295-296.

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per il Marino le lodi del «cavolo» e del «carcioffo»18 erano solo le balordaggini d’un
gusto piccino, uno strapaese dell’invenzione. Non diverso il discorso per certi organi
umani lodati dal Murtola nella sua sesta giornata: ad essi si riferisce appunto la Fi-
schiata V, dalla quale provengono il terzo e il quarto verso citati dal Tesauro. Bisogna
riportare il maleodorante sonetto per intero, senza essere schizzinosi:

Volge il Murtola in Pindo lo schidone,


E ’n guisa di salsiccie i versi infilza,
E se ben la sua vena è alquanto smilza,
Con riverenza, ha in cul sino a Nasone.

Ma tu sacro, e santissimo polmone,


E tu beata, e benedetta milza,
Poiché nel libro suo vi mette in filza
Là dove tratta della creatione;

Deh perché ’n quella fronte veneranda,


Mentre rime scoreggia, e carte smerda,
Non gli venite a fare una ghirlanda?

Fate che ’l premio suo virtù non perda,


Apollo così vuol, così comanda:
A Poeta di cul, trofeo di merda.

Chi consulti il sommario del canto XIV dell’esamerone murtolesco19, vedrà che
le lodi delle trippe derise dal Marino si trovano giustappunto nell’«Adamo interiore».
Il primo ad essere descritto è il Cuore, e fin qui nessun rischio. Poi, però, il Murtola
afferma (ottava 61):

Ma per l’ira temprarle, e quel bollore


Ch’hebbe dintorno torbido, e fumante,
Gli diè il Polmon vicino il Gran Fattore,
Che lieve gl’infondesse aura spirante,
Lo spugnoso Polmon, che pien di humore,
Et d’Aria hor si restrinse, hor fu vagante,

18.  Si cita naturalmente dal famoso sonetto della meraviglia, per cui il rimando è d’obbligo a M. Pieri, Fischiata
XXXIII. Un sonetto di Giambattista Marino, Parma, Pratiche, 1992. Verrebbe da ricordare, certo mutato tutto
quello che c’è da mutare, la poesia comunista di Neruda nelle Odas elementales, celebrazioni di cipolle e pomodo-
ri, se un più calzante paragone non fosse già stato fatto tra il Murtola e quei poeti italiani che si incontrano «dal
profondo delle campagne».
19.  «La formatione di Adamo / La Testa, e la Fabrica dell’Occhio / La Pupilla, e sue meraviglie / Il Naso, e de gli
odori / La Bocca, e lodi dell’eloquenza / La Mano, e sue lodi / I Piedi, e sua Fortezza / Adamo interiore, e del Core / Il
Polmone, e suoi effetti / Il Fegato, e del Sangue / La Milza, e del Riso / Il Cervello, e sue qualità / Il Senso Commune /
La Fantasia, e delli Sogni / La Ragione, e dell’Intelletto / La Memoria / L’Anima, e sua immortalità» (cfr. G. Murtola,
Della Creatione del mondo, Poema Sacro, Venezia, Evangelista Deuchino e G.B. Pulciani, 1608, p. 441).

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E da quel vivo suo riflusso eterno
Traesse la sua vita, e ’l suo governo.

Non un granché, come si vede; e non migliora, proseguendo, con la descrizione dei
passaggi della sostanza vitale tra lo Stomaco «vivandiero», il Fegato che la muta in
sangue, il Cuore che vi immette lo spirito vitale e la rimpalla al Fegato «buon compar-
titor», da cui passa a tutte le parti del corpo (e le gote ne diventano rubizze). L’opera
del fegato è paragonata a quella di una fonte che innaffia tutte le piantine di un ameno
orto-giardino (ott. 64): l’immaginario del Murtola sembra non poter prescindere dalla
casa rustica e dalle sue adiacenze. Ma ecco l’ottava 65:

Ma che dirò del Fiel, ch’in una verde


Vesica sopra il Fegato s’appende,
Il Fiele amaro, che distempra, e sperde
L’ira accesa, e più molle altrui la rende,
Che de la Milza ancor, per cui disperde
Il Fegato l’impuro, ch’in sé attende,
E l’Alegrezza forma, e stampa il riso
Ne begli Occhi leggiadri, e nel bel Viso20.

Le goffaggini che poterono irritare Marino, però, non si trovano solo in questa area
ai limiti del fecale dell’Adamo murtolizzato. Più sopra il Murtola aveva, ad esempio,
commesso la gaffe di paragonarne l’occhio a un uovo (ott. 16-17):

E come il Torlo colorito, e rosso,


De l’Uovo abbraccia il molle bianco, e puro,
Come quel Bianco poi liquido, e scosso
Ha un lieve intorno Pannicel maturo,
Come quel Panno trasparente adosso
Ha il guscio assai più candido, e più duro,
E con quello composto unico, e tondo
Fa di quattro Elementi un picciol Mondo;

Così quello humor chiaro e cristallino


de l’occhio, che ognor Centro in lui somiglia,
ha da un parte intorno il puro, e fino
vetro, che luminoso s’assottiglia,
e poscia il bianco, e poscia l’azzurrino
panno, che intorno rigido s’appiglia,
dice l’Avorio, e ’l Corno, che più chiara
dà l’uscita a la vista, e la ripara.21

20.  Cfr. G. Murtola, cit., pp. 462-463.


21.  Cfr. ivi, p. 447.

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La similitudine è perspicua, lo si vede, e il dettato non è spregevole, ma il lessico e le
rime danno un suono troppo pacatamente domestico, come un acciottolio di piatti dalla
cucina: soprattutto a chi abbia presente il risonante e sontuoso elogio dell’occhio che il
Marino intesserà alle ottave 25-38 del Canto VI. La sensazione di un tema promettente
buttato via, il nostro l’avrà avuta soprattutto di fronte a certi golosi termini tecnici
semilavorati, e al ricordo di altri più decisi tecnicismi nell’esamerone del Du Bartas.
Ma, alla fin fine, occorrerà non dimenticare un certo suo proprio, e peculiare, pro-
cedimento di sottile parodia delle sue stesse essenzialissime fonti, approccio che sarei
tentato di definire flaubertiano22. Nel suo cantare l’Adamo il Marino utilizza materiali
letterari di provenienza, si sa, alquanto eterogenea, facendo sprizzare scintille dal sem-
plice loro accostamento. Stride l’inserimento di topoi esameronici della lode del corpo
entro il contesto erotico del Giardino di Venere, la loro aura ne risulta ambiguamente
mescidata: fino al cortocircuito di 130, VII, in cui il «Facitor sovrano» è lodato in
principio di ottava per aver creato il piacere del gusto, perché (si dice nella coda) senza
Cerere e Bacco Venere è frigida. Del resto, anche le minuziose attenzioni che «l’im-
mortal prouidenza» ha riversato sul corpo dell’uomo sono riferite caricando le iperboli
predicatorie, ma già patristiche, di quel tanto che basta a sfiorare l’ironia: come le «pal-
pèbre infaticabili ed etterne» poste da essa a difesa dell’occhio, perché «dagli humani
accidenti il serbi intatto» (VI, 34); o la lingua provvista delle «torri» o «antemurali» dei
denti «Perché da’ soffi gelidi brumali / Del neuoso Aquilon non sia ferita» (VII, 128).
Dunque, se la topica ricalcata è sostanzialmente la medesima del Murtola, niente di
più lontano ci può essere dall’ingenuo trionfalismo di quello, non immune spesso da un
umorismo, si crede, involontario23.
Nella concione introduttiva di Mercurio il corpo dell’uomo, presentato quale imma-
gine di Dio, e dunque epitome del cosmo, «Tien sublime la fronte, alte le ciglia, / Sol
per mirar quel Ciel che l’assomiglia» (VI, 11). La linea retta di questa verticalità era
conseguenza dell’esser fatto l’uomo a somiglianza di Dio (e infatti il Murtola: «L’Huo-
mo, sol pel Ciel fatto, al Ciel drizzollo / Il Creator del Mondo, al Cielo eterno, / E sopra
il bianco, et elevato Collo / Gli diede il Capo in loco alto, e superno»)24, il che in ter-
mini ermetici può essere interpretato come possibilità dell’uomo di risalire di grado in
grado verso il divino dal quale proviene. Ma in ogni caso, essa viene intersecata inopi-
natamente alla fine del discorso mariniano da un vettore orizzontale che porta dentro,
nell’oscurità del corpo anatomico.

22.  Per un primo senso, facilior, di questa affermazione si veda Bouvard et Pécuchet: «I minerali non tardarono
ad annoiarli; e ricorsero, per distrarsi, alle armonie di Bernardin de Saint-Pierre. // Armonie vegetali e terrestri,
aeree, acquatiche, umane, fraterne e persino coniugali, c’era di tutto senza omettere le invocazioni a Venere, agli
Zefiri e agli Amori! Si stupivano che i pesci avessero le pinne, gli uccelli le ali, i semi un involucro, ispirati a quella
filosofia che scopre nella Natura intenzioni virtuose e la considera una specie di S. Vincenzo de’ Paoli, sempre
occupato a prodigarsi in opere di bene!». Ma per un senso secondo e difficilior sarà necessario ricorrere al saggio
flaubertiano negli Scritti letterari di Michel Foucault.
23. Esempio: le ciglia: «Pelo, che scudo, e diffensor Arciero / De la Sabbia alhor fu, che il Vento asperse, / Pel, che
le Vespe rintuzzò malnate / E le Zanzare di duo strali armate» (cfr. G. Murtola, cit., p. 446).
24.  Cfr. M. Peri, Ma il quarto…, cit., pp. 287-288.

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Già nelle Dicerie sacre l’accanita illustrazione dei rapporti aritmetici intercorrenti
fra le varie parti del corpo, modello d’ogni armonica proporzione architettonica o in-
genieristica25 (essendo il corpo luogo di riflessione dell’armonia universale), si fermava
sull’orlo del corpo anatomico e del suo mistero minuzioso che le esplorazioni dei ricer-
catori portavano di giorno in giorno alla luce. La rete delle corrispondenze cosmiche
tra micro e macro appariva come attraversata da tic, spasmi nervosi, da quando gli
anatomisti avevano «specialmente ritrovato aver l’uomo certo nervo nella [nu]ca, il
qual, tirato, tira in guisa l’altre membra tutte, che ciascuno secondo il proprio moto si
muove, ad imitazione quasi del modo con cui le membra del maggior Mondo muove il
sovran Motore»26. Anche nell’Adone il funzionamento dei sensi, dopo essere stato intro-
dotto da un modello neoplatonico di corrispondenza simpatetica cogli elementi, viene
nell’ultima ottava empiristicamente legato all’azione dei nervi:

Di tutto il bel lavor, che con tant’arte


Orna dell’Huomo il magistero immenso,
Sono i nerui istromenti, onde comparte
Lo spirto ai membri il mouimento, e ’l senso.
Altri molli, altri duri, in ogni parte
Ciascuno è sempre al proprio ufficio intênso.
Né può senz’essi alcuni atto eseguire
La facoltà del moto, o del sentire.
(VI, 17).

Quali dunque le possibili ripercussioni di queste vedute scientifiche nel mondo della
rappresentazione? Con più ragione, visto il corpo come tirato da una rete di nervi, il
personaggio può mutare in neurospàstos, che in greco vale burattino, portando al-
l’estremo l’intuizione “pupara” del tanto da Marino citato Ludovico Ariosto:

Non bel concerto di dentato ingegno,


Misurator del tempo, unqua si vide,
Mentre il girar con infallibil segno
E del’hore e del Sol mostra e diuide,
Se taluolta gli stami, ond’han sostegno
I suoi pesi piombati, altri recide,
del volubile ordigno a un punto immote
Fermar sì ratto le correnti ruote:

Come, poich’al fellon trônco è repente


Dal ferro il filo a cui la vita attiensi,

25.  Cfr. S. N. Peters, The anatomical machine: A representation of the Microcosm in the ‘Adone’ of G.B. Marino,
in «Modern Language notes», 88, (1973), pp. 95-110.
26.  G.B. Marino, Dicerie sacre, cit., pp. 235-236.

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Pèrdon la forza i nerui immantenente,
Mancano al core i moti, al corpo i sensi:
Lasciano estinta ogni virtù viuente
Del’estremo dolor gli eccessi immensi,
Càggion le membra, e l’alma si dissolue,
E i languid’occhi ombra mortale involue.
(XIV, 138-139).

Lasciando per ora le implicazioni meccanicistiche di un simile paragone (cfr. in-


fra), passiamo ora all’altro specimen adonico di anatomia non sensoriale: l’ottava 100,
XIV, che potrebbe insinuare il dubbio di un cardiocentrismo mariniano27:

Souragiunge a Guizirro un altro strale,


Et apre, aprendo al caldo umor l’uscita,
Nela guardia del cor – viua e vitale
Officina del sangue – ampia ferita.
Passa la manca costa oltra quell’ale,
Che ministran col soffio aura ala vita,
E nel centro del petto a fermar viensi,
Doue il trono han gli spirti, il fonte i sensi.

I dubbi potrebbero essere risolti tenendo presente che il cuore è detto «officina del san-
gue» non perché ne sia il centro produttore (come voleva Aristotele), ma perché lo trasfor-
ma di venoso in arterioso, tramite l’insufflamento dello spirito vitale. Galeno risolverebbe
tutto. Bisogna invece lasciare che le due possibilità (cardiocentrismo, cerebrocentrismo)
si oppongano: Marino non esita, una volta abbracciata una dottrina, ad appropriarsi del
suo contrario qualora ciò gli apra delle nuove possibilità fantastiche. Qui il punto, come
ognun vede, è l’emulazione e il superamento di Omero («la formula omerica di seguire
passo passo l’avanzarsi dell’arma attraverso lo scudo e le difese, fino ad attingere il corpo
ed il sangue»28) così come nell’ottava della trachea il punto era la gara con Lucano. Col
che viene al pettine un nodo che si dovrà ben presto tentare di sciogliere.

3. Galeno era stato comunque il punto di partenza delle indagini anatomiche da Vesalio
in poi, non solo per quanto riguardava il sistema nervoso: indagini che arrivavano mol-
to spesso a confutarne gli assunti, o a individuarne lacune. Si consideri l’ottava in cui il
Marino descrive i tre ossicini dell’orecchio detti incudine, martello e triangolo, che han-
no il compito di trasmettere il suono, coadiuvati da un quarto misterioso elemento:

27.  Quale farebbero presumere luoghi come VI, 29: «Dale fonti del cerebro natìe, / Ond’hanno i nerui origine e
radice», eccetera.
28.  G. Arbizzoni, cit., pp. 106-107.

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Concorrono a ciò far d’osso minuto,
Et incude, e triangolo, e martello,
E tutte son nel timpano battuto
Articolati, et implicati a quello;
Et a quest’opra lor serue d’aiuto
Non so s’io deggia dir corda o capello,
Sottil così, che si distingue apena
Se sia filo o sia neruo, arteria o vena.
(VII, 16).

Si tratta del minuscolo tensor tympani, il muscolo più piccolo del corpo. Insomma,
più di mezzo secolo era trascorso dalla “rivoluzione copernicana in anatomia” com-
piuta da Vesalio, ma l’immaginario collettivo non era ancora guarito dalla sua «osses-
sione anatomica». Dalla penombra della materia umana emergevano ancora porzioni
di realtà nuove, e perturbanti come quelle rivelate dai grandi scopritori di terre con
i loro viaggi transoceanici29. Marino, che vorrà surclassare lo Stigliani cantore di Co-
lombo facendosi, nel X dell’Adone, cantore di quel Galileo che aveva subissato la fama
di Colombo, intravide in queste esplorazioni dei moderni argonauti microcosmici un
proficuo ampliamento del territorio poetabile: e infatti gli occhi, organi baroccamente
lùbrichi e volubili, sono per Marino «del tutto esploratori e spie»; la vista è da lui esal-
tata per la rapidità («sì per lo modo ancor spedito e presto / Del’operation ch’intende
a questo», VI, 26):

Perché senza interuallo o mutar loco


Giunge in istante ogni lontano oggetto,
Talché negli atti suoi si scosta poco
Dala perfetion de l’intelletto;
Onde se quel, viè più che vento o foco
Rapido e vago, occhio de l’alma è detto,
Questo, ch’è di Natura opra sì bella,
Intelletto del corpo anco s’appella.

La poesia, con altrettanto prensile rapidità, doveva afferrare questi nuovi oggetti:
il saggio offertone qui, in relazione al Nuovo Mondo anatomico, è più che altro un
accenno (sono poche ottave, rispetto alla mole gigantesca del poema). Ma il segno
non era da poco. In un certo senso una simmetria rovesciata oppone l’infinitamente
grande dei satelliti medicei all’infinitamente piccolo del tensor: per completare il chia-

29.  Per l’espressione «ossessione anatomica», cfr. A. Chastel, Le baroque et la mort, in Retorica e barocco, Atti
del III Congresso Internazionale di Studi Umanistici, Roma, 1955. Si ricordi, a proposito di queste nuove cose, che
nello stesso 1609 era uscita la miscellanea sulla granadiglia o fiore di passione, cfr. per questo ed altro P. Rossi,
Cose prima mai viste, in Storia della scienza moderna e contemporanea, diretta da P. Rossi, Vol. I, Dalla rivolu-
zione scientifica all’età dei lumi, Torino, Utet, 1988, pp. 107-128.

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smo si vorrebbe una celebrazione del microscopio nell’Adone30. Ma anche in assenza
del microscopio Marino intuì che i confini dell’universo si tendevano, i suoi estremi si
allontanavano verso i «due infiniti»; le indagini autonome sulle sue parti costringevano
a riformulare l’interpretazione del tutto. (E questo, va da sé, si può a maggior ragione
dire del Poema).

4. La parola andava a quei tempi apprendendo dall’illustrazione scientifica la


propria inanità a determinare compiutamente (soprattutto nella resa dei rapporti
topologici, delle misure, delle distanze, delle forme) quella precisione espositiva e
chiarezza comunicativa che il nuovo corso imponeva: nell’operazione del Cesi, ad
esempio, la splendida, ossessiva descrizione del corpo dell’ape fin nei minimi peluzzi
acquisisce il proprio andamento au ralenti dal corteggiamento verbale della fissità
dell’immagine, che però permane, indispensabile, a sigillare il registro dell’osserva-
zione. L’ape del Cesi è imbalsamata in una parola che immaginiamo pensata in si-
lenzio; l’anatomia di Marino è sonora. La sua dissezione poetica dell’occhio si anima
in un dinamismo musicale:

Lùbrico, e di materia humida e molle


Questo membro diuin formò Natura,
Perché ciascuna impression che tolle,
Possa in sé ritener sincera e pura.
Perché volubil sia, donar gli volle
Orbicolare e sferica figura;
Oltre che ’n forma tal può meglio assai
Franger nel centro, e rintuzzare i rai.

Gli spirti unisce ala pupilla, e spira


Dala gèmina sfera il raggio viuo,
Che ’n piramide aguzza, ovunque il gira,
Si stende fuor del circolo visivo.
La specie intanto in sé di quel che mira
Ritrahe come suol’ombra, o specchio, o riuo.
Così nel’occhio, mentre il guardo vago
Esce dala potentia, entra l’imago.
(VI, 30-31).

30.  Due anni dopo la prima edizione del poema, nel 1625, Federico Cesi aveva aggiunto al suo Apiarum una
Tavola dell’ape, pubblicata nel Persio tradotto (Roma, 1630) di Stelluti, uno dei tre amici di quel patto che fu
il primo nucleo dell’Accademia dei Lincei. Molto probabilmente si tratta della prima illustrazione a stampa di
oggetti visti con l’aiuto di un microscopio (cfr. P. Rossi, art. cit., pp. 121-122). La per noi singolare convivenza
di un referto scientifico entro un apparato filologico è, ormai topicamente, additata ad esempio di una beata età
dell’oro in cui il dissidio tra le ‘due culture’ non si era ancora consumato. Cfr. il classico E. Raimondi, La nuova
scienza e la visione degli oggetti, in «Lettere italiane», XXI, n. 3, (1969), pp. 265-305.

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Quando pure Marino sembra arrivi a fissare anch’egli un preparato anatomico sotto
una lente, in realtà scompone dapprima l’oggetto inquadrato in una sfarfallante plu-
ralità esclamativa:

Oh quanto studio, oh quanta industria mise


Qui l’eterno Maestro, oh quante accoglie
Vene, arterie, membrane, e ’n quante guise
Sottili aragne, e dilicate spoglie!
Per quanti obliqui muscoli diuise
Passano e quinci e quindi e fila, e foglie!
Quante corde diuerse, e quanti e quali
Versano l’occhio et angoli e canali!
(VI, 32).

Lo scopo è ricreare la meraviglia dell’osservatore di fronte alla complessità del-


l’anatomia oculare, de-tecnicizzandone la nomenclatura attraverso una sostantivizza-
zione delle forme aggettivali latine, messe poi al plurale: per cui ad esempio l’unica e
precisa tunica aranea si sfalda in una moltitudine di ragnatele. Nell’ottava successiva
si ha una ricomposizione dell’oggetto, con ritorno al singolare:

Di tuniche e d’humori in vari modi


Hauui contesto un lucido volume,
Et uva, e corno, e con più reti e nodi
Vetro insieme congiunge, acqua, et albume;
Che son tutti però serui e custodi
Del christallo, onde sol procede il lume.
Ciascun questo difende, e questo aiuta,
Organo principal de la veduta.
(VI, 33).

Ma sono le singole sostanze ad avere ora subito una completa metamorfosi. Facen-
do correre all’indietro il fiume del linguaggio, la tunica uvea è ritornata uva, la cornea
corno, il cristallino cristallo. Non si tratta cioè soltanto di far affiorare gli originari
valori metaforici osseificati nei tecnicismi, ma di ottenere una sorta di ultra-metafora,
in cui realmente si abbia una sovrapposizione, e non una sostituzione, dei due termi-
ni31. In più qui si attua il prodigioso legamento di sostanze tra loro eterogenee, gioco di

31.  Un altro esempio di tale metafora pluridimensionale si ha proprio nel catasterismo invocato per il canoc-
chiale galileano a X, 46: «Degna è l’imagin tua che sia là sopra / Tra i lumi accolta, onde si fregia e veste, / E
dele tue lunette il vetro frale / Tra gli eterni zaffir’resti immortale», così chiosato dalla Guida adelphiana: «il
vero significato della proposta è nascosto nell’equivoco bellissimo che si crea a causa dello scontro fra senso
letterale e senso metaforico nell’uso dei vocaboli zaffiri e lunette» (cfr. G. Pozzi, Guida, cit., p. 442). Per un
rapido panorama delle discussioni sulla metafora tra linguaggio poetico e linguaggio scientifico, cfr. M. Peri,
Ma il quarto…, cit., pp. 50-52.

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prestigio che esorcizza il rischio di farne una vanitas, salvandone però l’ Unheimlich:
a ragione la Colombo parlava dell’aspetto «magico e quasi surrealistico» dell’occhio di
Marino. A proposito del ritratto di Marino emergente dal suo frammentato epistolario,
Marzio Pieri parlò invece di «un ritratto come a collage, una composizione non pur à
la manière d’Arcimboldi ma bellamente cubista; se, al caso arcimboldesco, la metafora
obbedirebbe a uno scheletro d’ordine giusta natura»32.

5. Più che dalle tavole anatomiche degli anatomisti cinque-seicenteschi, è appunto dal
loro linguaggio che il Marino prende le mosse; e se il campo semantico da cui questi
attingevano per le loro metafore era stato quello dell’architettura, della manifattura,
insomma della fabricha (si veda il proverbiale titolo vesaliano, De humani corporis fa-
brica libri septem, 1543)33, non descrive egli una sorta di palazzo corporale con porte,
finestre, balconi, fregi raffinati, colonne, archi? Fittamente traforato, al suo interno,
da acquedotti, recessi, tortuosi labirinti? Percorso da una fervida operatività fabrile di
setacci, spugne, incudini, martelli, tiranti, corde?
Furiosi di agganciare Marino al convoglio della modernità, sferragliante sui binari
mai del tutto sostituiti di quello che parrebbe un Historismus vecchia maniera, alcuni
hanno parlato senza mezzi termini di meccanicismo. Una proposta che potrebbe essere
accettabile in questi termini: «Fabriquées à partir du language, les machines sont cette
fabrication en acte; elles sont leur propre naissance repetée en elles» (Michel Foucault,
Raymond Roussel). Secondo una distinzione leibniziana, la stessa macchina corporale
di Vesalio sarebbe una macchina all’italiana: statica, improduttiva e spettacolare, cioè
una fabrica: e anche architettura mirabile, quinta di teatro34 (e cos’era spesso all’epoca
di Marino l’anatomia se non ostensione spettacolare?)
Rileggiamo allora in questa luce l’ottava VI, 1035:

Le meraviglie che comprende e serra,


non son possenti ad agguagliar parole.
Né naue in onda, né palagio in terra,
Né thëatro, né tempio è sotto il Sole,

32.  M. Pieri, Per Marino, Padova, Liviana, p. 36; in nota l’autore ricorda l’imitazione arcimboldesca attuata
nell’idillio Proserpina (cfr., anche per l’individuazione dell’immancabile intermediario letterario, G.B. Marino, La
Sampogna, a c. di V. De Maldè, Parma, Fondazione Pietro Bembo / Ugo Guanda, 1993, pp. 295-296: «Contiene
il corpo tutto / d’ogni ragion di frutto / commessi insieme in rustica mistura / fantastica figura»).
33.  Sul tema è ora indispensabile A. Carlino, La fabbrica del corpo. Libri e dissezione nel Rinascimento, Torino,
Einaudi, 1994.
34.  M. Brusatin, La macchina come soggetto d’arte, in Storia d’Italia, coord. R. Romano e C. Vivanti, Annali
3, Scienza e tecnica nella cultura e nella società dal Rinascimento a oggi, Torino, Einaudi, 1980, pp. 31-77. Sul
valore teatrale del termine machina in antico, e tutto ciò che esso implicava, vedi H. Blumenberg, Paradigmi
per una metaforologia, Bologna, Il Mulino, 1969, capitolo sesto, Sottintesi metaforici di concezioni organiciste e
meccaniciste, pp. 87-105.
35.  Per questa ottava sono transitate, come un loro crocevia, varie interpretazioni. Da vedere soprattutto F. Giamboni-
ni, Il compasso e lo squadro nelle architetture del Marino, in «Strumenti critici», VIII, n. 25 (1974), pp. 323-344.

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Né v’ha machina in pace, ordigno in guerra,
Che non tragga il model da questa mole.
Trouano in sì perfetta architettura
Il compasso e lo squadro ogni figura.

La negazione iniziale contiene, a mio parere, un’antifrasi e una sfida: nella «scena
della scrittura» mariniana la parola è certo “possente”. Tuttavia, non è più magia e non
ancora propriamente macchina. Se alla parola magica si andava infatti sostituendo la
“magia della letteratura”, ma un’eco della prima permaneva nella seconda (così che la
filosofia occulta non era in Adone solo un belletto o un effetto), così nella letteratura
l’episteme a cui il Marino apparteneva, non ancora meccanicistica, sognava la seguen-
te36: quella in cui sarebbero vissute la bête-machine di Cartesio e poi l’hômme-machine
di La Mettrie. Da qui l’indubbia passione di Marino per congegni e macchinerie di va-
rio genere, l’adorazione per gli orologi, la possibilità di paragonare ad essi il corpo stre-
mato dal coltello dei dissettori37. Così, infine, la poesia di Marino risulta essere insieme
al passo e perfettamente oltre rispetto alla scienza del suo tempo. Una “prova del nove”
di questa condizione ce la porge al vivo una rivisitazione mariniana di Niccola Villani.

6. Villani inserì nella sua Fiorenza difesa una digressione anatomica, focalizzata sulla
descrizione degli organi di senso, e nella quale si avverte chiaramente la volontà di
gareggiare col Marino “anatomista” dei passi sopra analizzati: il Villani ha ben chiara
la novità del tema, e la cruciale importanza del predecessore per la sua articolazione
letteraria. Prima confinato alla predica o nel poema esameronico, la possibilità stessa
di trattarlo in un poema epico, fu aperta dall’inserto audace che ne fece il Marino nel-
l’epica (per quanto pacifica, «di lusso e di lussuria») dell’Adone: dunque le difficoltà da
parte di Villani nell’inzuccherare gli orli del grosso vaso didascalico, e nell’incagliarlo
senza troppi danni nel flusso del racconto epico38, vanno ridimensionate alla luce di
questo segnale intertestuale. Anche il possibile influsso del didascalismo dantesco sulla
digressione di Iasò39, bisognerà metterlo accanto al precedente mariniano. Belloni, in-

36.  «Chaque époque rêve la suivante» (Michelet/Benjamin, cfr. W. Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti, a
c. di R. Solmi, Torino, Einaudi 1995, p. 147).
37.  Cioè paragonare il tempio dell’anima a un meccanismo realizzabile da un tedesco ubriaco: con questa im-
magine Vanini, amico del Marino in Francia fattosi ad un certo momento pericoloso, aveva liquidato la regolarità
delle sfere celesti, dichiarandole non sostanzialmente diverse dalla materia di cui sono fatti i sassi, di cui è fatto lo
sterco. Cfr. G. Fulco, art. cit., p. 167 e p. 172.
38.  Ben notate da uno dei pochi recenti lettori della Fiorenza: «Il riproporsi così esplicito dell’argomento del
mecenatismo illuminato, che sposta il tempo del racconto dal passato dell’oggetto della narrazione al presente del
suo autore, prepara la seconda digressione, rendendo plausibile che Radagaso solleciti Iasò a farlo partecipe dei
princìpi della sua scienza e che quindi ne ascolti con attenzione la lunga (114 ottave) disquisizione. Ma la digres-
sione della medichessa è incorniciata anche dal nuovo tema (appena annunciato in sede di rassegna dell’esercito)
dell’amore di Valamiro per Alvida», G. Arbizzoni, Un’ipotesi seicentesca di poesia eroica cit., p. 79.
39.  Il nome (dal greco iáomai ‘curare’) è quello di una divinità, Iaso appunto o Medela, di cui si parla nel Pluto
di Aristofane e in Pausania.

75
fatti, richiamava proprio Dante per il lunghissimo inserto insegnativo, ma in Dante la
cosiddetta poesia del corpo umano era quasi del tutto assente40. Dante assume, è vero,
una funzione di modello poetico e morale per il Villani, e anche talvolta una funzione
di correttivo rispetto a ciò che del Marino a Villani non piaceva:

(…) il popolo, il quale conosce che nelle cose sensibili la verità sta nel modo che
gli vien dimostrata dal poeta, crede però facilmente che così ancora sia nelle cose
intelliggibili. Miracoloso in ciò è stato Dante, che ha rappresentato tutta la natura
intellettuale e ’l mondo stesso intelliggibile con idoli e con immagini bellissime
innanzi a gli occhi di ciascheduno. (…) Giudico bene che il Marini avria fatto a
gran senno a temperare alcuna volta il prurito del filosofare, e non imitare in ciò
Dante, sapendosi che Dante era maestro e ’l Marini voleva parere41.

Ma non è chi non veda che qui l’oggetto della quaestio sono le «cose intellettuali»,
non quelle sensibili, tra le quali si devono senz’altro rubricare le meraviglie interne al
corpo. Il Villani ne L’uccellatura di Vincenzo Foresi all’occhiale del cavaliere fra Toma-
so Stigliani contro l’Adone del cavalier Gio. Battista Marini e alla difesa di Girolamo
Aleandro (In Venetia, Antonio Pinelli, 1630) non critica mai il Marino per i suoi passi
sui sensi; anzi, egli vi è lodato per le complesse invenzioni allegoriche del Giardino; ciò
non toglie che nella Digressione di Iasò si possano vedere delle critiche implicite alla
versione mariniana dell’anatomia sensoria.
Con Villani la materia medico-fisiologica diviene essa stessa degna di una propria
epica, benché ora limitata a digressione interna di un altro canto: poesia, medicina
(scienza) e guerra sono tutte attività sullo stesso piano, equiparate in un difficile ideale
di azione seria, virile, elevata42. La medicina ha ormai una propria storia, dunque fa
parte della Storia: ad essa il poeta può attingere un’epopea di vittorie scientifiche. Co-
rinto, il personaggio che Iasò indica come proprio predecessore, rappresenta il passaggio
dalla terapeutica empirica e popolare alla medicina razionale ippocratico-galenica:

Non era allhor sotto i Borei Trioni


Chi sapesse curar gli egri con arte;
Né i rimedi de i morbi, e le ragioni
Da le scole apprendeasi, o da le carte:
Si curavano allhor l’egre cagioni

40.  Cfr. M. Guglielminetti, cit., p. 110.


41.  Citato in G. Arbizzoni, cit., p. 83 (corsivi del trascrittore).
42.  Ma Pieri ha già detto meglio: «Per questo, credo, sentiva Messer Fagiano tutta quell’afa!, nelle tradizioni tutte
amorose del poetare italiano, per questo sognava un sogno epico da “film di guerra senza donne”, da Okinawa a
Platoon. Chi li ha visti, ’sti film, e sa che afosi sono, intende le remore del Villani che però d’una cosa si piccava: il
governante, lo scienziato, l’archiatra, il professore di greco, il generale, dovrebbero avere diritto a una poesia che -
platonisticamente, petrarchisticamente… - non li neghi in quanto tali» (cfr. M. Pieri, Un fanò per Messer Fagiano,
in N. Villani, Trettanelò. Poesie sopra Venezia cit., p. 70 - e qualche riga più sopra aveva richiamato Poesia per
chi non legge poesia di Enzensberger…).

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Con arti, e prove intra la gente sparte;
Le quai, senza saperne altri la causa,
Davan, benché di rado, a i morbi pausa.

Pria Corinto mostrò di tutti i mali


Le sedie occulte; e con l’esperta mano
Varii corpi secando, i penetrali
Fece apparir del bel palazzo humano:
Poscia in che guisa, e perché l’huomo ammali,
E ’l principio di ciò vero, e sovrano,
E quai deggiansi oppor felici aiuti,
con parlari insegnò dotti, e canuti.
(VI, 41-42)43.

Il contributo di Iasò al progresso della medicina è specificamente collegato alla


pratica dell’anatomia (il che potrebbe miticamente alludere alle scoperte vesaliane e in
generale degli anatomisti Rinascimentali):

Quei, ch’a guastarsi eran dannati, e quelli


Che davan di sua morte oscuri indizi,
Aperti in prima, io contemplava in elli
Tutta dell’Huom l’architettura, e i vizi.
De le Belve, de i Pesci, e degli Augelli
Molti ancora secai morti edifizi,
E vivi ancora molti; e notai cose,
Ch’erano state al gran Corinto ascose.
(VI, 44).

La descrizione vera e propria, poi, inizia col topico parallelismo simpatetico tra
Macro e Microcosmo (ott. 52-58), mentre le ottave seguenti organizzano un’analisi
dell’edificio umano a partire (come fa Vesalio) dall’impalcatura, cioè dallo scheletro
(59-63). Già da questo passo, non certo tra i più attraenti per materia, si ha un’idea
delle doti di Villani, che sa unire la perspicuità e l’eleganza anche nella rappresenta-
zione di complicati treni di ossa, da nevrotizzare il più volenteroso degli studenti di
medicina. Il nostro si inabissa con olimpico sangue freddo nelle ardue alchimie dei
tre sistemi della fisiologia galenica (nervoso, arterioso, venoso), sapendo attingere con
arguzia all’armadio dei miti per animare il suo teatro anatomico: l’unione mostruosa di

43.  Citazioni da «Della / FIORENZA DIFESA, / POEMA EROICO / DEL / SIG. NICCOLA VILLANI, / CANTI
DIECE; / DEDICATI / All’eminentiss. e Reverindiss. Signore / Il Signor / CARDINAL FRANCESCO / BARBE-
RINO, / Vicencancelliere di Santa Chiesa, / DALL’ABBATE / ONOFRIO IPPOLITI, / Nipote dell’Autore». (Nella
pagina succesiva, un’incisione allegorica con la data «In Roma appresso Antonio Landini MDXLI. Con licenza
de’ superiori»).

77
sangue e aria nel ventricolo sinistro del cuore verrà paragonato a quella di Salmace ed
Ermafrodito; qualche ottava più oltre, a rovescio, il mito di Prometeo viene promosso
allegoria dell’origine stessa della Vita. Il lettore, goloso di favole, viene così premiato
per la sua serietà, e apprende divertendosi44.
Quindi, dall’ottava 109, i Sensi: liquidati in fretta il gusto, l’odorato (mezza ottava
ciascuno) e il tatto (un’ottava), all’udito sono dedicate ben 17 ottave, e alla vista an-
che di più. Cioè, se da un lato Villani sembra voler ristabilire la supremazia dei sensi
superiori, e spirituali, a fronte dell’antigerarchica e pluridimensionale classificazione
mariniana45, lo spazio dedicato all’udito testimonia anche la volontà di colmare una
lacuna del Marino con un’amplificazione migliorativa della sua lezione anatomica sul-
l’orecchio. In primo luogo, Villani ricalca fedelmente la dispositio propria dei trattati
di anatomia: descrive prima il sensorio esterno, poi quello interno, e soltanto dopo
esaurita la descrizione strettamente anatomica passa a quella funzionale, laddove Ma-
rino invertiva le ultime due fasi forse allo scopo di presentare in cauda il particolare
anatomico peregrino, mettendo “in soggettiva” il suono dell’ «aere» «rotto e percosso»
dall’ «esterno fragor» fino agli interni «acquedotti, recessi e labirinti», genericamente
meravigliosi.

A quell’osso petroso, il qual s’apprende


A’ suoi vicin, quasi corteccia, o squama;
Tenera cartilagine s’appende,
La quale orecchia esterior si chiama;
Non a linea diritta ella discende,
Ma quasi un lungo cerchio apparir brama;
Scendendo va, ma poi che al mezzo è giunta,
Quasi pentita sia, quivi s’appunta.

Così rimansi un emiciclo; e dentro


Have in forma di conca un sito cavo;
E de la conca poi quasi nel centro
Have un altro più basso, e minor cavo:
Arnia questo s’appella; indi per entro
La dura tempia un calle angusto, e pravo
Sagliendo se ne va, finch’una tela
Chiara, e sottil, quasi d’Aragne, il vela.

44.  Significativamente, per Villani il lettore è un allievo e il poeta siede in cattedra, mentre per Marino (e con ciò
non si dice ormai più nulla di originale), il lettore è un complice, anzi tendenzialmente, e preferibilmente, è addi-
rittura un collaboratore: per questo lo vuole «svegliato, et arguto», non infante, e fuori di minorità.
45. Essa è ben rappresentata già dalle oscillazioni, a tal proposito, del commento all’Adone adelphiano, incerto se
attribuire la supremazia del sensorio alla vista (ipotesi modernisante in linea col quadro tracciato dal Raimondi)
o all’udito, cfr. ad esempio le affermazioni alle pp. 332-333 di contro a quelle alle pp. 396-397 della Guida cit.;
inoltre bisogna segnalare l’ipotesi epicurea di Paul Renucci (supremazia del Tatto, sulla base dell’attribuzione ad
esso della gran torre centrale al Palazzo di Venere, cfr. M. Pieri, Per Marino, Padova, Liviana, 1976, pp. 308-311),
ripresa anche da M.F. Tristan.

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Con precisi avverbi ed elementi localizzatori il Villani conduce per mano il nostro
sguardo interiore, e il possibile choc del trovare ragnatele nell’occhio o nell’orecchio
umani («e ’n quante guise / sottili aragne e dilicate spoglie!», Marino) è scongiurato
dalla comparazione attenuativa («quasi d’aragne»), e un’altra similitudine ne chiarisce
poi inesorabilmente la funzione:

Tra questo calle, e la magion primiera,


Dove il senso uditor pon mano all’arte,
Frammessa ella è così, come visiera
Di cristallo in balcon l’aure diparte:
E perch’ella è sembiante a quella austera
Pelle, che cuopre i timpani di Marte,
E cagion’ è del suon, pur come quella,
Timpano de l’orecchia indi s’appella.

Per l’uso che Villani fa dei tecnicismi, assai a proposito Arbizzoni chiamava in
causa il procedimento ex notioribus degli scrittori d’anatomia, e per queste etimologie
proprio un’opera di Girolamo Fabrizi d’Acquapendente46. Può non essere inutile lasciar
correre un poco distesamente le successive stanze del Villani, non solo perché questi
vi ricalca il Casseri per la nomenclatura, e “spiega” letteralmente ciò che il Marino
aveva compresso, ma anche perché esse possono dare un valido esempio del suo passo
descrittivo:

La magion prima, il cui ritondo labro


De la tela, ond’io favello, appanna e chiude,
Catino è detta; e de l’Udito il fabro
Gli arnesi qui dell’arte sua racchiude:
Evvi un martel, che piano in parte, e scabro
In parte ha suo tenere; evvi una incude;
Evvi un ordigno inusitato, e raro,
Che da la forma sua delta nomaro.

Il piccolo martel con quella tersa


Tela lucente il suo tenèr congiunge;
Mercè d’un funicel, che l’attraversa,
E dall’un canto all’altro canto aggiunge:
Il Capo ritondetto egli riversa
Indietro alquanto, e con l’Incude il giunge;
De la tela al vivagno appoggia questa
L’un piede e l’altro in cima al Delta innesta.

46  Cfr. G. Arbizzoni, cit., pp. 179-180.

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Il Delta in sua ritonda, e cava cima
Dell’incude intromette il maggior piede,
E con la parte sua contraria, et ima
In un breve balcon supposto siede:
Il saldo mur, che da la stanza prima
Separa la seconda, il balcon fiede:
Sotto un altro ve n’è, ma tondo, e meno:
E passano ambo entro il secondo seno,

Quest’altro sen, perché di vie perplesse


Quali in Creta habitò l’Huom semibue,
La circostanza sua d’intorno tesse,
Laberinto però nomato fue:
Van le Dedale vie perentro ad esse
Le concave muraglie interne sue;
Con triplicato error volgonsi intorno,
Larghe da prima, e strette poi, qual corno.

Ma l’ultimo dei sen, ben che minuto,


Pur largo è prima, e si ristringe poi,
Avvolgendosi a sé, fin ch’in acuto
Conduce a poco a poco i giri suoi:
Non fu da i prischi Saggi ei conosciuto;
Chioccioletta, o Cochilla il diciam noi;
Perché in spire s’avvolge in quel costume,
E stringendo si va sempre in acume.
(VI, 114-120).

Il palazzo corporeo di Villani non è più una fabbrica formicolante, in progress, ma un


edificio minuziosamente compiuto e silenzioso, atto ad ospitare una tranquilla attività di
osservazione e sperimentazione, e a questo scopo riempito di una luce definita «incorpo-
rea di Dio splendida figlia». Il bellissimo verso ne evoca le parvenze sotto forma di figura
femminile, ne ritma l’incedere immateriale (come più sopra era quello della «pellegrina
onda vocale») oltre i «balconi» degli occhi. Ma questi richiamano subito Adone VI, 36,
1: dove la competizione col Marino è più serrata, l’omaggio sembra farsi più esplicito.
Mariniana, ma anche fortemente topica, è l’analogia delle sfere oculari con quelle celesti,
connessa ai temi della luce e dei colori: cfr. Adone VI, 26, dove la supremazia della vista
è motivata «sì per la luce / Ch’è tra le qualità più pretiose, / Sì per la tanta e tal, ch’ognor
produce, / Varïetà di colorate cose». E Villani, amplificando:

La Porpora del Mar, l’oro del Cielo,


Il ceruleo seren, l’ostro gentile
Dell’Eritree cochille, il vario gelo
De le scitiche gemme, i fior d’Aprile;

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Gli specchi del Pavon, d’Iride il velo,
Dell’Idalio Colombo il bel monile;
Solo a gli Occhi son belli; ei gli ritranno,
E in dono all’alma i loro esempi ei danno.
(VI, 138).

Nelle stanze seguenti la tensione all’aemulatio del Marino corre dalla ripresa del
tema stilnovistico del passaggio d’amore «per li occhi» alla parafrasi del suo modello a
proposito degli occhi-specchi-dell’anima, ma tentando di superarlo con l’aggiunta (a
ottava 140) di un pizzico di cultura fisiognomica:

Manifesto assai più, ch’in altro loco


Ogni affetto de l’alma in lor si mira:
Gli arde lo sdegno, e ne saetta il foco,
E verso il canto esterior gli gira;
Lor suffonde l’invidia aurato croco;
L’humiltà in giù, l’orgoglio in su gli tira;
Lo stupore, e ’l timor gli traggon d’entro,
e gli fan con sei corde uniti al centro.
(VI, 140)

Anche l’origine cerebrale del nervo ottico e la sua biforcazione si trovano già nel
passo citato dell’adonico sesto canto (ottava 29), ma allo svolgimento intellettualistico
del Marino il Villani oppone un’immagine limpidissima:

Rompon la dura fronte, e per due fori


Scendon in circolar concava sede:
Qui spandendo si van, come de’ fiori
Spandesi ne le bocce il lungo piede;
(VI, 144, 1-4).

E se qui il referente figurativo della similitudine sembrano essere le coeve nature


morte, altrove l’alleanza di sagacia pittorica e descrizione scientifica è ancor più diret-
tamente evocata:

L’altra, cui generò la madre pia,


Benché candida quella, ella sia fusca;
A la forma, al color sembra che sia
Un maturo granel d’uva lambrusca:
Bruna è di fuor, ma nell’interno pria,
Vicino al gambo del granel, s’infusca;
Indi varia, e s’imbianca, e nel fin poi
L’azzurro mesce, e gli Smeraldi Eoi.
(VI, 147).

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Per Villani la safēneia o chiarezza preconizzata da Aristotele per la metafora non
è un flash, ma una luce calma e uniforme, in cui le cose appaiono univoche e precise:
le tre api barberiniane impresse sull’ultima carta dell’edizione romana della Fiorenza
hanno ormai tutta la minuzia dell’ape lincea. Un doppio emblema dunque, dal valore
scientifico e politico. Ma l’omaggio alla famiglia del papa inviso al Marino non offusca i
numerosi omaggi che il poema stesso contiene, come non impedisce che il magistero del
Marino sia riconosciuto da Villani anche in relazione al canto nuovo che i nuovi tempi
e le nuove cose esigevano.

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