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SACRAMENTARIA SPECIALE. I.

Battesimo, confermazione, eucaristia


Abbreviazioni e sigle

AA CONCILIO VATICANO II, decreto Apostolicam actuositatem, 18.11.1965


AAS Acta Apostolicae Sedis, Città del Vaticano 1909ss
AGO Acta Conciliorum Oecumenicorum, E. Schwartz, Berolini 1914ss
AG CONCILIO VATICANO II, decreto Ad gentes, 7.12.1965
Ant Antonianum, Roma 1926ss
BKV Bibliotek der Kirchenwater, Kempten 1869-1888
BZ Biblische Zeischrift, Freiburg i.Br./Paderborn
Bibl Biblica, Roma
CC Corpus Christianorum, Tunhout-Paris 1953ss
CCC Catechismo della Chiesa cattolica
CD CONCILIO VATICANO II, decreto Christus Dominus, 28.10.1965
CivCatt La Civiltà Cattolica, Roma
COD Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Bologna 1973
Conc Concilium (ed. it. Brescia)
CIC Codice di Diritto Canonico, Roma 1983
CSCO Corpus Scriptorum christianorum Orientalium, Paris 1903ss
CSEL Corpus Scriptorum ecclesiasticorum Latinorum, Wien 1866ss
CT Concilium Tridentinum, Freiburg 1901ss
DAFC Dictionnaire apologétique de la foi catholique, Paris 1909-1931
DBS Dictionnaire de la Bible. Supplément, Paris 1928ss
DES Dizionario enciclopedico di spiritualità, Roma 1975
Div Divinitas, Roma
Denz H. Denzinger, Enchiridion symbolorum definitionum et declarationum de
rebus fidei et morum, Edizione bilingue, a cura di P. Hunermann, Bologna
5
2004
DSp Dictionnaire de Spiritualité, Paris 1936ss
DT Dizionario teologico, Brescia 1966-1968
DTAT Dizionario teologico delVAT,Torino 1978
DTh Divus Thomas, Freiburg
DThC Dictionnaire de théologie catholique, Paris 1903ss
DV CONCILIO VATICANO II, costituzione dogmatica Dei Verbum, 18.11.1965
EC Enciclopedia cattolica, Roma 1949ss
EL Ephemerides Liturgicae, Roma
EThL Ephemerides Theologicae Lovanienses, Lovanio 1924ss
EV Enchiridion Vaticanum, Bologna 1976ss
GCS Die griechischen christlichen Schriftsteller der ersten drei Jahrhunderte,
Leipzig 1897 if.
GS CONCILIO VATICANO II, costituzione pastorale Gaudium etspes, 28.10.1965
Greg Gregorianum, Roma 1920ss
GLNT Grande Lessico del Nuovo Testamento, Brescia 1965ss
HaagBL Bibel-Lexikon, a cura di H. Haag, Einsiedeln 1951ss
HThR The Harvard theological Review, Cambridge
IGRM «Institutio Generalis» del Messale Romano, editio typica del 27 marzo 1975
(III edizione 2004)
JLw Jahrbuch für Liturgiewissenschaft, München 1921-1941
LG CONCILIO VATICANO II, costituzione dogmatica Lumen gentium, 21.11.1964
LKT Lexikon für Theologie und Kirche, Freiburg 1957-1962
MD La Maison-Dieu, Paris 1945ss
NT Nouvelle Revue Théologique, Paris 1979ss
OT CONCILIO VATICANO II, decreto Optatam totius, 28.10.1965
PG Patrologia graeca, Migne, Paris 1857-1866
PL Patrologia latina, Migne, Paris 1878-1890
PO CONCILIO VATICANO II, decreto Presbyterorum ordinis, 7.12.1965
SC CONCILIO VATICANO II, costituzione Sacrosanctum concilium, 4.12.1963
SCh Sources Chrétiennes, Paris 1941ss
ST Studi e testi, Roma 1900ss
TU Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur, Berlin
1882ss
UR CONCILIO VATICANO II, decreto Unitatis redintegratio, 21.11.1964
PRESENTAZIONE

Il corso di teologia sistematica è stato accolto in questi anni con notevole interesse dai
docenti e dagli studenti, se è vero, come è vero, che ogni volume è stato riedito più volte. L’esigenza
di poter usufruire di manuali di sintesi in grado di esporre organicamente le singole parti del
sapere dogmatico rimane vìva, oggi più che mai. La presente opera si situa in questo ambito
essenziale.

Fin dal 1989 è stato pubblicato il volume Sacramentaria fondamentale, ristampato più volte
e utilizzato in molti istituti di teologia. 1 Mancava il volume di Sacramentaria speciale. Per diverse
ragioni non era stato possibile pubblicarlo, e ciò rappresentava una lacuna nell’economia globale
del corso. Finalmente tale lacuna è stata colmata. Il 2003 ha visto la pubblicazione del volume
Sacramentaria speciale. IL Penitenza, unzione degli infermi, ordine, matrimonio ad opera di diversi
autori.2 Adesso viene pubblicato il volume Sacramentaria speciale. I. Battesimo, confermazione,
eucaristia, curato da due autori: i sacramenti del battesimo e della confermazione dal prof. Mario
Florio; il sacramento dell’eucaristia dal prof. Carlo Rocchetta. Pur con le diversità di linguaggio e
di impostazione che caratterizzano ognuno dei due autori, l’opera conserva una medesima pro-
spettiva di fondo, quella di OT 16: premettere, ad ogni sacramento, una breve contestualizzazione
antropologica, trattare l’origine biblica del sacramento e i suoi specifici fondamenti
neotestamentari, riferirsi alla tradizione e presentare lo sviluppo storico del dogma, offrire un
inquadramento dogmatico che compendi i dati essenziali della fede cattolica, proporre infine gli
aspetti liturgico-pastorali più significativi. Per ciascuno dei tre sacramenti viene dunque offerta
un’esposizione sufficientemente articolata e completa, adeguata agli utenti del primo ciclo
teologico e diretta- mente fruibile per i loro studi. Uauspicio che mi permetto di fare è che anche
questo volume, come gli altri, possa ricevere una buona accoglienza e costituisca un valido
strumento di studio e di riflessione credente a servizio della comunità cristiana e di quanti amano
la teologia e ne frequentano i corsi.

CARLO ROCCHETTA DIRETTORE DEL CORSO DI TEOLOGIA SISTEMATICA

1C. ROCCHETTA, Sacramentaria fondamentale. Dal «mysterion» al «sacramentum», EDB, Bologna 1989,598 pp.
2M. FLORIO - S.R. NKINDJI - G. CAVALLI - R. GERARDI, Sacramentaria speciale. II. Penitenza, unzione degli infermi, ordine,
matrimonio, EDB, Bologna 2003, 366 pp.
PRIMA PARTE IL SACRAMENTO DEL BATTESIMO
Mario FloriINTRODUZIONE LO SFONDO ANTROPOLOGICO: NASCITA E RINASCITA

Nella società complessa e tendenzialmente sempre più globalizzata nella quale si trova a
vivere l’uomo contemporaneo accadono taluni fatti che interrogano profondamente la prassi delle
comunità cristiane, specialmente nei paesi di antica tradizione cristiana dell’Occidente ricco e
fortemente tecnologizzato. Da una parte l’ingegneria biogenetica mette in opera tentativi sempre più
azzardati di manipolazione della vita umana fino alla possibilità (effettuale, se non effettiva) della
clonazione, dall’altra accade che via internet arrivi a chi è incaricato del servizio del catecumenato
in una grande metropoli la richiesta a diventare cristiano da parte di un giovane o un adulto. 3 Due
tecnologie (biogenetica e informatica) si fanno interpreti, con modalità ed effetti certo diversi, di
due fatti fondamentali: il primo attinente a un evento naturale quale l’essere concepiti e il nascere, il
secondo a un fatto religioso così radicale, quasi una nuova nascita, quale il diventare cristiano.

Guidato all’essenziale l’occhio coglie in questi due fenomeni un singolare darsi di due fatti
fondamentali della vita umana: l’essere iniziati alla vita come vita umana in questo pianeta e
l’essere iniziati a una religione con i suoi riti, le sue dottrine e la sua prassi di vita. Nascita e rina-
scita sono al cuore dei due complessi fenomeni.4

Vale la pena cominciare a indagare sulla regia all’opera dietro questa singolare
configurazione dei due fenomeni. In un caso pare non si possa non riconoscere la spericolata e
incauta manipolazione dell’uomo : la sua mano nel segreto della vita. Scienza e tecnologia si
misurano su frontiere inedite alla ricerca dei limiti del poter fare e investite dalle domande etiche
più radicali. Nell’altro caso si cerca di sondare ogni motivazione antropologica che può spingere a
chiedere il battesimo fino ad accorgersi che è all’opera la mano di Dio.

L’essere iniziati alla fede cristiana, con grande sorpresa e spaesa- mento di ogni prassi
pastorale tradizionale, dipende dall’iniziativa divina, prima di tutto. La persona che avverte, nella
società multimediale, mul- tietnica e religiosamente pluralista, l’appello alla fede in Gesù Salvatore,
riporta fulmineamente la comunità cristiana alla coscienza della sua origine: essa è assemblea,
chiamata, convocata da Dio Padre, per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo. Ed è proprio
questo postulante {rudis nel linguaggio di sant’Agostino) che solleva in modo inedito lo sguardo
della comunità dalla terra al cielo, un po’ come accade a Pietro nell’incontro con il pagano Cornelio
(cf. At 10).

Poniamo tuttavia la debita attenzione allo stretto rapporto che vi è tra il nascere e il ri-
nascere. Il Dio che suscita in un adulto di questo mondo secolarizzato l’appello alla vita cristiana
non è anche il Dio che suscita l’appello a essere? Chi presiede a questa radicale iniziazione a essere
e a essere qualcuno (persona)? Chi è all’origine dell’essere e della dignità della persona?

È strano notare come il nesso nascere-rinascere rimandi sia ai riti religiosi di tipo iniziatico
(la teologia liturgica e sacramentale insieme) sia alla domanda metafisica più radicale e universale
legata al mistero dell’essere (la filosofia e le scienze umane).

Ebbene, il nascere si colloca da sempre in una cultura specifica e nel suo tipico modo di
aprirsi sul mistero dell’essere e della vita. 5 Il processo iniziatico attraversato dal neofita cristiano
mostra tutta la sua peculiarità (specialmente nel caso dell’adulto) perché ristruttura nella luce della
3È questa l’esperienza narrata da P. Guy Cordonnier, direttore fino a pochi anni fa del Service national du catéchuménat della Chiesa
cattolica in Francia: cf. ID., Dei nouveaux chrétiens, Desclée de Brouwer, Paris 1995. Per la situazione in Italia, cf. W. Ruspi, «Il
catecumenato oggi in Italia», in Rivista di pastorale liturgica 34(1996)3, 3-21. Per la situazione in Europa, cf. Gruppo europeo dei
catecumenati (ed.), Agli inizi della fede. Pastorale catecumenale oggi in Europa, Paoline, Roma 1991.
4Per la rilevanza del rito da un punto di vista antropologico-culturale e antropologico-reli- gioso, cf. V. TURNER, Il processo rituale.
Struttura e antistruttura, Morcelliana, Brescia 1972 (ed. or. Chicago 1969); A.N.TERRIN, Il rito. Antropologia e fenomenologia della
ritualità, Morcelliana, Brescia 1999,29.217-256.
5Su questo punto si vedano le pertinenti e acute osservazioni elaborate da Z. BAUMAN da un punto di vista sociologico, cf. ID,, Una
nuova condizione umana, presentazione di M. Magatti, Vita e Pensiero, Milano 2003, 115-120 (l’autore riprende gli studi sui riti di
passaggio elaborati da Van Gennep e Turner).
fede e del messaggio evangelico una comprensione del rapporto tra natura e cultura già
preesistente. Esso ri-legge, ri-vede e reimposta un dato previo e lo configura (secondo il modo
tipico dell’efficacia sacramentale) in un nuovo ordine simbolico senza distruggerlo ma
purificandolo e perfezionandolo nella grazia della pasqua di Gesù (gratia non destruit naturam sed
supponit et perficit eam). Ora, mentre in varie culture del pianeta l’evento della nascita è ancora
connotato e contestualizzato in un ambito rituale pregnante di significato antropologico (e spesso
anche religioso), nelle ampie aree sociali tipiche della cultura occidentale la nascita non sembra
godere di questo supporto di significazione e il registro rituale, con tutta la sua evocativa capacità
simbolica (ed estetica), sembra come dormiente per non dire rimosso o del tutto cancellato. 6 Tutto
ciò ha un’immediata ricaduta sull’impianto iniziatico cristiano, particolarmente evidente nel caso
del pedobattesimo.7 Perché?

L’evento della nascita sembra essere stato deprivato di una lettura simbolica. I genitori sono
stati privati di questo orizzonte dal momento che le pratiche sociali relative al nascere sono delegate
sempre più alla società e alle sue diverse istituzioni. In realtà la famiglia è come deprivata del modo
rituale/simbolico di dire il proprio rapporto con questo fatto assolutamente unico che è la nascita di
un figlio. La famiglia è stata espropriata di questa competenza che ha radici ancestrali e cosmiche
così misteriose e profonde. La domanda del battesimo del neonato sembra, a mio avviso, prestarsi a
colmare un vuoto, un’afasia, uno stato di quasi totale disorientamento dei genitori. L’impianto
iniziatico cristiano deve così supplire al vuoto iniziatico antropologico-culturale. Tale supplenza
crea un ibrido dove non si riesce a dire la differenza tra i due eventi del nascere e del rinascere. Essi
sono legati certo in una continuità (essere ed essere cristiano), ma anche segnati da una profonda
discontinuità dal momento che la grazia della giustificazione per fede e il battesimo pongono in
gioco un orizzonte soprannaturale. Non è un caso che l’evento battesimale si trovi gravato di tutta
una serie di riti, esterni al tipico dinamismo celebrativo, che la famiglia cura di eseguire per dire più
ciò che non è tipicamente cristiano che ciò che lo è. Il segnale più appariscente di questo strano
procedere del celebrare è il riferimento debole alla comunità cristiana (nella sua determinazione
storico-concreta) e forte alla comunità parentale o più ampiamente amicale. I vincoli di sangue pre-
valgono su quelli della grazia. Poco si avverte dell’essere generati a vita nuova quali figli di Dio ma
ancor meno si avverte l’inserimento nella comunità cristiana e l’appartenenza a un vincolo nuovo di
fraternità. Tutto è organizzato a misura del clan.

Il pedobattesimo fa riflettere molto anche per questo strano modo di sovrapporsi del fatto
cristiano al fatto creaturale. Occorrerebbe che la famiglia e i genitori potessero dire in modo
rituale/simbolico il loro rapporto con la nascita. Tale humus manca e purtroppo la sua carenza non è
dovuta alle forti convinzioni cristiane della famiglia, tali dunque da fornire un’immediatezza di
sguardo cristiano al nascere di un figlio, ma al concorrere di due fatti: una carenza sul piano
antropologico e una carenza sul piano dell’evangelizzazione. Non sta a noi rilevarne qui le cause.
Ma gioverebbe restituire a ciascun piano la sua autonomia, come a dire che, anche se non si
prospetta la domanda del battesimo, già la nascita costituisce una grazia, un dono da leggere o saper
leggere in un quadro non solo biotecnologico ma denso di mistero: il mistero della vita umana nel
grande mistero dell’universo. Per l’Occidente e per i suoi fondamenti culturali si rinnova a questo
proposito l’esigenza di una rilettura critica delle matrici filosofiche e ideologiche della
secolarizzazione che escludono a priori l’originalità del fatto religioso.

Questa impasse viene completamente superata quando sono gli adulti a chiedere di essere
iniziati alla fede cristiana. Il «cristiani si diventa» fa allora da contrappunto al porgersi forse troppo
scontato del «cristiani si nasce» e pone in luce l’esigenza di un vero e proprio cammino di
iniziazione.
6Anche se, come osserva BAUMAN: «Si nasce, per così dire, nella “cittadinanza di uno stato”. La nudità del neonato non ancora
aggrovigliato nelle trappole legali/giuridiche, fornisce il luogo su cui la sovranità del potere dello stato si costruisce, si ricostruisce
perpetuamente e si assesta», in Una nuova condizione umana, 116.
7Per una bibliografia ragionata relativa alla complessa nozione liturgico-sacramentale di iniziazione cristiana, cf. P. SORCI (ed.),
«Invito alla lettura», in Credere oggi 15(1995), 127-139 (tutto il numero monografico è dedicato al tema dell’iniziazione cristiana).
Ogni iniziazione mira a comunicare al singolo, mediante una precisa espressione rituale, un
nuovo senso dell’esistenza nel contesto di una nuova esperienza di appartenenza. L’interlocutore
storico del candidato all’iniziazione, il catecumeno, si autopresenta non come soggetto singolo ma
come comunità.

La realtà storica di questa comunità è il luogo nel quale viene realizzandosi un’esperienza di
fede. Nell’iniziazione del catecumeno si opera un incontro tra la sua fede e quella della comunità
cristiana. Questo livello storico è l’ambito sacramentale nel quale Dio Padre opera la sua
comunicazione di vita, quella del suo Figlio morto e risorto. È il venire incontro di Dio all’uomo, è
l’irruzione del dono della vita divina nel grembo fecondo della Chiesa. È lo Spirito Santo che tesse
la logica di questo incontro. Egli suscita e prepara il movimento della fede nel catecumeno, pone le
condizioni dell’incontro con la Chiesa e nell’ambito di questo incontro attualizza il dono pasquale
della vita nuova.

L’iniziazione cristiana, colta in profonda unità con tutta la realtà del catecumenato, è lo
«spazio» dell 'irruzione della grazia, dono gratuito e trascendente del Padre che chiama gli uomini
alla comunione con sé per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo. Il rito deìì’inizi azione
cristiana è Vinterruzione delle condizioni dell’ordinario svolgersi della storia per accogliere la
forma definitiva del nuovo eone nella vita del chiamato. In ciò il rito cristiano è vera iniziazione
perché trasgredisce il consueto (lo interrompe, lo sospende) e lo abilita a divenire luogo dell’inedito
(la novità).

Non si può non notare la forte analogia tra i misteri dell’iniziazione cristiana e il mistero
dell’incarnazione del Verbo. Il grembo della Chiesa appare in stretta dipendenza, genetica e
formale, dal grembo di Maria. L’irruzione dell’annunciazione è il fondamento e il prototipo
dell’interruzione nella quale, per ritus et preces, si opera la nascita a vita nuova «ex aqua et Spiritu
Sancto» (Gv 3,5). «Per mezzo dei sacramenti dell’iniziazione cristiana, gli uomini, uniti con Cristo
nella sua morte, nella sua sepoltura e risurrezione, vengono liberati dal potere delle tenebre, rice-
vono lo Spirito di adozione a figli e celebrano, con tutto il popolo di Dio, il memoriale della morte e
risurrezione del Signore» (RICA, Introduzione generale, 1; cf. LG 9).

L’essere rinati dall’acqua e dallo Spirito Santo attualizza dunque nel catecumeno la novità
del mistero pasquale quale nuovo senso dell’esistenza, quale nuova direzione del proprio vissuto
spazio-temporale secondo il destino del primogenito dai morti, Gesù, il Messia crocifisso. L’effetto
visibile di questa rinascita è la nuova condizione di appartenenza. D’ora in poi, senza possibilità di
revoca da parte di Dio, il chiamato è inserito vitalmente nel popolo di Dio.
«Per mezzo del Battesimo, essi [gli uomini], ottenuta la remissione di tutti i peccati, liberati
dal potere delle tenebre sono trasferiti allo stato di figli adottivi; rinascendo dall’acqua e dallo
Spirito Santo diventano nuova creatura: per questo vengono chiamati e sono realmente figli di Dio.
Così, incorporati a Cristo, sono costituiti in popolo di Dio» (RICA, Introduzione generale, 2).

L’evento battesimale cristiano introduce il candidato, catecumeno adulto o neonato, a una


realtà ontologica nuova, unica e irrepetibile: l’identità di figlio di Dio. Occorre insieme precisare
che tale novità si lascia specificare attraverso il riferimento alla nozione di adozione. La condizione
nuova alla quale si accede è dunque quella di figli adottivi.

Dal punto di vista della rivelazione cristiana la pienezza dell’identità filiale appartiene
essenzialmente solo alla divina persona del Figlio unigenito del Padre. Attraverso l’incarnazione
l’uomo Gesù di Nazaret riceve tale pienezza per comunicarla agli uomini (la dottrina di
Calcedonia). L’umanità di Gesù è dunque l’umanità del Figlio unigenito e la sua eterna figliolanza
si lascia dire in modo unico, irrepetibile e definitivo nella vicenda del Messia crocifisso e risorto.
Con il battesimo ogni uomo entra in comunione con la persona di Gesù assumendone
sacramentalmente lo stesso destino di morte e risurrezione. Tale innesto nel centro cristologico della
storia della salvezza attua dunque, per grazia, nella persona del credente, una vera partecipazione a
ciò che è solo di Gesù, Figlio eterno del Padre. La categoria dell’adozione filiale, con il suo sfondo
biblico sia vetero che neo-testamentario, è dunque la metafora pregnante di tale nuova condizione
ontologica operata dal sacramento (la partecipazione alla vita di Gesù morto e risorto). 8 Si può dire
in sintesi che la categoria di figlio adottivo non è che una peculiare espressione, genuinamente
biblica, della più complessa nozione teologica di partecipazione (cf. Col 1,13). Questa dunque
attinge da quella il suo mondo di significato e allo stesso tempo la libera da un connotazione
eccessivamente giuridica esplicitandone insieme una radicalità che appartiene al piano dell’essere
(cf. Gal 4,1-7).

Questa dignità filiale del battezzato è dunque al centro di tutto lo sviluppo della sua
esistenza di credente. Il suo destino è quello di essere pienamente conformato a Gesù, il
primogenito tra molti fratelli (cf. Rm 8,29; Col 1,18). Da qui il senso dinamico del battesimo: alla
partecipazione fa seguito la conformazione. Sia l’una che l’altra implicano l’opera della grazia e
chiamano in causa, a titolo diverso, l’azione della Chiesa, la prassi sacramentale e la risposta di fede
del chiamato.

In tale contesto si pone più specificamente la questione del rapporto tra fede e battesimo e
sullo sfondo quella dell’inizio della conversione e dell’iniziativa salvifica del Padre verso tutti gh
uomini e verso ciascun uomo. Nella dottrina cattolica la via ordinaria per essere introdotti nel-
l’esperienza viva e salvifica della Nuova Alleanza è l’adesione di fede al Dio di Gesù Cristo unita al
battesimo, anche se lo stesso Dio può realizzare la sua opera di salvezza, in via straordinaria,
attraverso una forma non esplicitamente sacramentale (cf. CCC 1257.1281).9 Emerge così la
peculiarità e la necessità dell’evangelizzazione affinché ogni uomo, conoscendo il nome di Gesù e il
suo vangelo, possa aprirsi al dono della filiazione adottiva mediante la fede e il battesimo. Il gesto
battesimale cristiano appartiene dunque all’essenza della missione della Chiesa nel mondo e, a
questo titolo, esso mostra il suo carattere di necessità in ordine alla salvezza.

8Cf. E. SCHWEIZER, «mó<;, moGeoia», in GLNT, Paideia, Brescia 1984, XIV, 247-254.
9Nella Chiesa antica si afferma il valore salvifico del battesimo «di desiderio» e del battesimo «di sangue», cf. E. RUFFINI,
«Iniziazione cristiana», in Nuovo Dizionario di Teologia, EP, Roma 21979, 674-677.
Il primo capitolo intende mettere in luce l’originalità, la necessità e il fondamento
cristologico-pasquale del battesimo cristiano. Nel secondo capitolo si tratterà di vagliare come la
tradizione liturgico-teologico- pastorale della Chiesa ha sviluppato la prassi e la teologia
battesimale, attestate dall’articolata vicenda della Chiesa primitiva. Nell’ultimo capitolo si proporrà
una sintesi facendo particolare attenzione alla lex or aridi quale è espressa nei nuovi libri rituali
elaborati dalla riforma liturgica promossa dal concilio ecumenico Vaticano II (cf. SC 65-
71).CAPITOLO PRIMO I FONDAMENTI BIBLICI

1. Battezzare nel nome di Gesù


Due testi balzano in evidenza dal Nuovo Testamento come stretta- mente connessi a fondare
la prassi e il senso del battesimo cristiano: Mt 28,16-20 e Mc6,14-18. Ad essi vanno inoltre aggiunti
tutti gli altri testi tanto di Luca come di Giovanni nei quali esplicitamente si parla del battesimo
cristiano.10

Le due pericopi appena richiamate pongono il mandato battesimale nella luce delle
apparizioni del Risorto agli undici. L’opera iniziata da Gesù e culminata negli eventi della sua
passione, morte e risurrezione deve continuare. Essa è affidata agli «undici» quali plenipotenziari
del Risorto e araldi della buona notizia. Il mandato di battezzare ha come destinatari «ogni creatura»
(Mc6,15), «tutte le nazioni» (Mt 28,19). Nella pericope matteana il gesto battesimale si colloca a
mo’ di inclusione nel contesto dell’azione di «ammaestrare» e «insegnare ad osservare tutto ciò che
Gesù ha comandato agli undici». Esso è dunque al centro della missione evangelizzatrice di cui gli
undici sono investiti dall’alto. L’essere battezzati si lascia ultimamente determinare da un’azione
trascendente designata esplicitamente come un essere battezzati «nel nome del Padre, del Figlio e
dello Sprito Santo» (Mt 28,19). Nella pericope mar- ciana il contesto dell’azione missionaria e
dunque anche dell’evento battesimale - «chi crederà e sarà battezzato sarà salvo» (Mc6,16) - è con-
notato esplicitamente da una forte consapevolezza escatologica (l’essere salvati o condannati) a cui
sono legati determinati fatti di natura carismatica, espressivi della manifestazione della vittoria
attuata da Dio nella risurrezione del suo Figlio Gesù che, quale Signore, rende partecipi i bat-
tezzati/credenti del suo potere vittorioso contro le forze del male. «Il battesimo che conferma il
credere e lo significa all’esterno è anche l’accesso a una serie di altre realtà donate».11

Il battesimo cristiano unito alla fede in Gesù è dunque capace di introdurre nel nuovo eone,
inaugurato definitivamente dal Padre negli eventi pasquali del suo Figlio. È alla luce di questa
novità che si rivela il significato profondo di tutta una serie di detti, legati al ministero prepasquale
di Gesù (si veda il riferimento al battesimo e al Battista), nei quali si parla di un battesimo che non è
più solo di acqua ma di acqua e Spirito Santo (cf. Mc,9-11; Mt 3,13-17; Lc,16; Gv 1,33).
L’economia salvifica nella quale prende rilievo il battesimo cristiano è fortemente contras- segnata
dalla missione dello Spirito Santo, inviato dal Risorto (cf. Gv 7,37-39; 14,15-26; 20,19-23).

Nell’opera lucana, in particolare nella seconda parte destinata a porre in rilievo l’opera dello
Spirito nella Chiesa primitiva e nella testimonianza degli apostoli fino agli estremi confini della
terra, la prassi battesimale cristiana è attestata in una serie articolata di episodi. 12 L’analisi di questi
testi mostra il formarsi di una realtà più ampia di cui l’evento battesimale è una cellula
fondamentale ma non esclusiva.

All’interno del primo discorso di Pietro nel giorno di Pentecoste il battesimo, al quale, dopo
il pentimento/conversione, sono chiamati gli «nomini d’Israele» (At 2,22), è designato come un

10Cf. E. MANICARDI, «Battesimo e iniziazione cristiana nel Nuovo Testamento», in Iniziazione cristiana degli adulti oggi, Atti della
XXVI Settimana di studio dell’APL (Seiano di Vico Equense, NA; 31-08/5-09-1997), presentazione di Silvano Maggiani, CLV-Ed.
Liturgiche, Roma 1998,107-146.
11MANICARDI, «Battesimo e iniziazione cristiana», 112. Si può parlare di «iniziazione» anche se non in senso religionistico, cf.
ibidem, 108-109.
12Cf. MANICARDI, «Battesimo e iniziazione cristiana», 116-130.
farsi battezzare «nel nome di Gesù Cristo» (At 2,38). 13 Essere battezzati nel nome di Gesù e anche
invocare il nome di Gesù sono espressioni icastiche della rilevanza centrale e decisiva della persona
e della storia di Gesù in ordine alla partecipazione alla salvezza escatologica offerta da Dio Padre. Il
battesimo cristiano nelle sue prime modulazioni all’interno della Chiesa primitiva raccoglie e
attesta, insieme ad altri riti e alla predicazione, tale concentrazione cristologica. Alla luce del
retroterra ebraico della teologia del nome di Dio si può pervenire a comprendere quale passaggio
unico e straordinario si effettua in chi, affidandosi completamente (battesimo e/o invocazione) al
nome di Gesù, pone se stesso sotto il suo potere salvifico e ne diviene partecipe. Affidarsi al nome
di Gesù libera dai peccati, dal potere della morte e consente di sperimentare le realtà messianiche
espressive della signoria di YHWH (cf. Lc,16-30). Lasciarsi battezzare nel nome di Gesù significa
dunque credere a e in lui, riconoscerlo come l’inviato di Dio, convertirsi al suo progetto di amore
sulla storia. La professione di fede cristologica forma così una cosa sola con l’evento battesimale.
Osserva Dupont come «secondo gli Atti il battesimo che ricevono i credenti in Gesù, il Signore, è
essenzialmente il segno salvifico della loro fede e dell’appartenenza al nuovo popolo messianico
che gode già le primizie della salvezza nel perdono dei peccati e nell’effusione dello Spirito
Santo».14

2. Il retroterra giudaico

Il gesto battesimale cristiano emerge nella sua originalità dallo sfondo di altre pratiche rituali
dell’ambiente giudaico del tempo di Gesù e delle comunità cristiane primitive. Questa peculiarità è
tutta intrisa della novità degli eventi pasquali accaduti al Messia crocifisso. I testi appena
considerati, uniti ad altri riferimenti neotestamentari al battesimo cristiano, lasciano infatti scoprire
come tale novità si sia venuta sviluppando attraverso una presa di distanza da riti analoghi. Si tratta
fondamentalmente di tre contesti rituali: 1) i riti di purificazione praticati dalla comunità di Qumran;
2) i riti battesimali dei proseliti praticati dal giudaismo; 3) il battesimo praticato da Giovanni e dai
suoi discepoli.15

Per quanto concerne i primi si possono evincere dalle fonti - i testi di Qumran e il Bellum
Iudaicum di Giuseppe Flavio (cf. Bell. 11,8) - alcuni dati importanti per valutare somiglianze e
differenze con il battesimo cristiano.

1. Esistono presso i Qumranici dei riti che potremmo chiamare «battesimali» in quanto ci si
immerge completamente nell’acqua; 2. Questi riti sono di carattere iniziatico in quanto segnano
l’ingresso nella comunità, ma sono anche ripetitivi o per l’accesso a gradi successivi dell’ordine
della comunità o per purificazioni prima di momenti significativi della giornata, per esempio i bagni
prima del pasto o per contrazione di varie impurità secondo la legge; 3. Questi riti battesimali non
sono amministrati da altri, ma la persona è soggetto e oggetto del rito: non si viene immersi,
battezzati da qualcuno, ma ci si immerge; 4. Non si compie il rito «nel nome» di qualcuno,
nemmeno nel nome del «maestro di giustizia»; 5. Giuseppe
Flavio non usa mai per questi riti il verbo baptó o baptizó ma usa sempre verbi come louó,
apolouó e i sostantivi loutron, hagneia, cioè bagno, purificazione. Del resto nei testi di Qumran non
è attestato il verbo tabal che corrisponde a baptizó, come invece ricorre nei riti dei proseliti...16

Per i secondi la prassi è attestata dal Talmud babilonese la cui redazione pur tardiva (VI sec.
d.C.) offre, secondo l’opinione di S. Légasse, «testimonianze sicure sull’esistenza dei riti
battesimali giudaici [...] della fine del I sec. d.C.». 17 Da questi testi «risulta un rito di iniziazione a
carattere battesimale cioè per immersione nell’acqua preceduto da una adesione alla dottrina

13Cf. Atti degli Apostoli, traduzione e commento di R. FABRIS, Boria, Roma 1977,235-240.
14Atti degli Apostoli, traduzione e commento di R. FABRIS, 240.
15Per uno sguardo d’insieme, cf. G. MIOLA, «Riti battesimali giudaici e Battesimo cristiano», in
IlBattesimo come fondamento dell’esistenza cristiana, introduzione di D. Bonifazi, Massimo, Milano 1998,76-96.
16MIOLA, «Riti battesimali giudaici», 80-81. Cf anche H. STEGEMANN, Gli Esserti, Qumran, Giovanni Battista e Gesù. Una
monografia, EDB, Bologna 1995,274-277.
17MIOLA, «Riti battesimali giudaici», 84.
giudaica, centrata sul monoteismo, ma con forte accentuazione sulla legge».18 Su questi riti
battesimali dei proseliti (tevilat ghe- rim) si sofferma ampiamente A. Kaplan il quale, dopo averne
precisato il rapporto con l’istituto della circoncisione, giunge alla conclusione che «è innegabile che
il battesimo cristiano attinge gran parte del suo rituale, della sua terminologia e della sua teologia
dal battesimo dei proseliti dell’ebraismo».19 Pur osservando tale continuità l’A. sottolinea al
contempo come vi siano forti elementi di discontinuità. Al centro emerge la portata decisiva della
prassi di Gesù e della sua posizione di compimento e novità rispetto alle attese più profonde del
popolo ebraico. Diversamente da S. Légasse, Kaplan ritiene che il battesimo dei proseliti «non può
essere definito un autobattesimo, dato che per la sua validità è essenziale la presenza di tre
testimoni».20

Con la terza tipologia battesimale, legata alla prassi di Giovanni e dei suoi discepoli, le fonti
neotestamentarie e Giuseppe Flavio (cf. Anti- quitates Iudaicae, 18,5,2) conducono a porre in
evidenza un dato fonda- mentale. Giovanni il Battista ha assunto dei riti di immersione, già presenti
nel mondo giudaico, rileggendoli «in chiave profetica e non rituale e quindi con una forte
intonazione etica».21 Tali fonti non concordano sul significato teologico di tale battesimo: per
Giuseppe Flavio esso mira alla purificazione corporale, per gli evangelisti esso è penitenziale ed è
rivolto alla «conversione per il perdono dei peccati» (Mc,4). In tale ambito si pone anche il
problema del rapporto tra Gesù e Giovanni all’interno delle prime comunità cristiane (si veda
l’episodio di Paolo a Efeso dove esiste a 25 anni circa dalla morte-risurrezione di Gesù una
comunità di giovanniti) e quello dell’eventualità di un prosecuzione del battesimo di Giovanni da
parte di Gesù e dei suoi discepoli (cf. Gv 3,25-26; 4,1-3).

3. Giovanni il Battista e Gesù

L’attestazione sinottica del battesimo di Gesù da parte di Giovanni permette di riconoscere


all’interno della successiva rielaborazione pasquale un chiaro riferimento a un fatto di carattere
storico. Gesù si è sottoposto al battesimo di penitenza praticato da Giovanni. Partecipando a questo
rito egli ha così inaugurato il suo ministero pubblico (cf. Lc,23; At 1,1; 10,37). L’assoluta novità di
quanto accaduto negli eventi pasquali porta a considerare questo fatto come l’inaugurazione di un
tempo nuovo dell’economia salvifica, quello escatologico. In esso Dio porta a compimento la sua
promessa di salvezza e tutto ciò in, e a partire da, Gesù di Nazaret. Il battesimo al Giordano
costituisce così un luogo privilegiato della teofania di Dio e della rivelazione dell’identità filiale di
Gesù.

La profondità cristologica connota a tal punto la narrazione del compiersi di tale rito da
lasciare sullo sfondo la sua scarna dimensione storica (cf. Mc,9). In realtà lo svolgersi della trama
del ministero pubblico di Gesù mostra a più riprese come la persona di Giovanni e la sua prassi
battesimale e di discepolato abbiano costituito un elemento di persistente interrogazione sulla stessa
identità di Gesù e del suo ministero. I vangeli portano a considerare le cose in modo esattamente
opposto: Gesù deve crescere e Giovanni diminuire (cf. Gv 3,30). Sono la prassi e la predicazione
del Nazareno a interrogare il Battista e i suoi seguaci (cf. Lc,18-20). Sotto rimane però la traccia di
un nesso di continuità tra Giovanni e Gesù tanto da portare ad assimilare o ricomprendere il
discepolato gesuano alla luce di quello giovannita (cf. Gv 3,25-26; 4,1-3). Lo stacco da questo non
deve essere stato così automatico da parte dello stesso Gesù. La sua inserzione nel numero dei
penitenti al battesimo al Giordano solo gradatamente si è lasciata comprendere per la sua disconti-
nuità con la prassi del Battista.22

18MIOLA, «Riti battesimali giudaici», 84.


19A. KAPLAN, Le acque dell’Eden. Il mistero della mikvah: rinnovamento e rinascita, ED, Roma 1996, 117. Cf. ibidem, 105-140.
Diverse le conclusioni di Légasse riportate nello studio di G. Miola (cf. MIOLA, «Riti battesimali giudaici», 86).
20KAPLAN, Le acque dell’Eden, 117.
21MIOLA, «Riti battesimali giudaici», 95.
22Per l’uso dell’appellativo «Nazareno» nel senso di «Battezzatore», cf. STEGEMANN, Gli Esserti, Qumran, 315.
Nel procedere del ministero gesuano lo schema penitenziale è stato sostituito da una
prospettiva soteriologica nella quale l’iniziativa misericordiosa di Dio anticipa e fonda ogni altra
possibilità di iniziativa umana (cf. Mc,15). La manifestazione escatologica della signoria di YHWH
si attesta in Gesù come luogo e occasione di offerta di grazia, allo stesso tempo unilaterale e
gratuita. Di questa pienezza i discepoli faranno esperienza solo con la risurrezione e con il
compiersi della promessa del dono dello Spirito Santo. In questa luce lo stesso battesimo di
Giovanni resta tutto legato a un’economia che è penitenziale ancorché carica di una sua peculiare
pregnanza salvifica. «Come ha detto lo stesso Gesù, nel caso di Giovanni si trattava di qualcosa di
più della semplice profezia; si trattava di un’efficace mediazione della salvezza».23 Il lavacro di
acqua non è capace di liberare dai peccati ma solo di significare l’invito a un cammino di
conversione e di assicurare i battezzati di essere preservati da Dio nel giorno del giudizio ormai
imminente per i peccati commessi prima del battesimo. Nello Spirito Santo donato dal Risorto
l’acqua diviene suscettibile di una capacità nuova, quella di rigenerare alla vita nuova dei figli di
Dio. La valenza salvifica dell’acqua si configura come tale solo nel quadro della missione del Figlio
e dello Spirito. Tale nuova destinazione del simbolo acquatico e del lavacro battesimale non fa
tuttavia scomparire il significato penitenziale/salvifico annesso all’uso giovannita. 24 Esso diviene
tuttavia secondario e riformulato nell’ottica della remissione dei peccati che Dio attua nel suo Figlio
dato a morte e nello Spirito datore di vita nuova. All’imperativo penitenziale di Giovanni fa seguito
l’indicativo salvifico di Gesù: «Il regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete al vangelo» (Mc,15).
La metànoia richiesta da Gesù nella sua predicazione è tutta sospesa alla certezza della salvezza
come dono escatologico che Dio Padre attua qui e ora nella sua persona e nel suo ministero.

Il distinguersi della trama gesuana da quella del Battista trova la sua densa formulazione
nelle parole di Gesù: «In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il
Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui» (Mt 11,11).

Per quanto riguarda lo sviluppo successivo del rito cristiano del battesimo è tuttavia decisivo
il riferimento alla prassi del Battista.

In realtà, fino al momento dell’entrata in scena di Giovanni non era mai accaduto né nel
giudaismo né nel mondo circostante che qualcuno avesse battezzato altre persone. [...] Giovanni fu
il primo a comportarsi in questo modo. Alla fine forse Gesù stesso, e non solo la cerchia dei suoi
discepoli, ha ripreso e praticato autonomamente questo rito battesimale (Gv 3,25-26; 4,1-3).
Sarebbe comunque questo il modo più semplice per spiegare la nascita del battesimo nelle comunità
cristiane (cf. Mt 28,19).25

La presentazione del battesimo nel nome di Gesù, dopo le pagine dedicate all’ambiente
giudaico intertestamentario e al confronto con la prassi battesimale giovannita, spinge la ricerca ad
allargare lo sguardo all’ampia e complessa testimonianza offerta dai testi del Nuovo Testamento.

La persona di Gesù e la sua opera di salvezza sono al crocevia di un’autentica comprensione


della realtà battesimale cristiana (cf. At 2,22- 38). La conversione, sollecitata dalla predicazione
degli apostoli e dall’azione dello Spirito Santo, è un entrare completamente dentro questa nuova e
definitiva dimensione di salvezza (cf. Gv 14,6; lTm 2,5-6; Eb 8,6). Il discorso di Gesù con
Nicodemo (cf. Gv 3) restituisce, nella luce degli eventi pasquali, il senso dinamico dell’attuarsi
della conversione come un «nascere dall’alto» (Gv 3,3), come un «nascere da acqua e da Spirito»
(Gv 3,5). Ora il lavacro battesimale (ad es. per immersione totale, cf. At 8,38) esprime e realizza,
nella fede del credente e della Chiesa che lo genera e lo accoglie, una novità di vita tale da essere
designata come un «essere rigenerati» (cf. Tt 3,5; Ef 26), un «essere appena nati» (cf. lPt 2,2), un
«essere stati generati da Dio» (Gv 1,13).
E nell’ambito della missione degli apostoli che questo «essere generati da Dio per mezzo

23STEGEMANN, Gli Esseni, Qumran, 317.


24Cf. STEGEMANN, Gli Esseni, Qumran, 305-318.
25STEGEMANN, Gli Esseni, Qumran, 314.
dello Spirito Santo» trova la sua concreta esplici- tazione. Il «venire alla fede» dei pagani e dei
giudei, sia come singoli (cf. At 8,28-40; 9,10-19) sia come gruppo (cf. At 2,4; 10,44-48), è
chiaramente avvertito essere opera di Dio e nel contempo esso implica un’azione poliedrica di
evangelizzazione da parte della comunità cristiana di Gerusalemme e delle altre Chiese che via via
sorgeranno dall’impulso missionario di Paolo e degli altri apostoli.

L’incontro con il vangelo si opera sempre attraverso la mediazione di testimoni qualificati e


ha come suo esito l’essere aggregati al numero dei salvati nell’ambito della Chiesa (cf. At 2,48). La
mediazione umana percorre dunque da un capo all’altro, con modulazioni diverse, l’esperienza
storica dell’accoglienza della salvezza attuata una volta per sempre in Gesù morto e risorto. Il rito
battesimale si inserisce con le sue peculiarità nell’alveo di questa azione di trasmissione e
accoglienza della buona notizia.

Le testimonianze NT che si propongono subito all’attenzione sono quelle offerte dagli Atti
degli apostoli. Il quadro si completa attraverso il rilevante contributo teologico sul battesimo
elaborato da Paolo nelle sue lettere. Meritano infine particolare attenzione anche altri scritti NT
appartenenti alla tradizione paolina (Col, Ef, Tt, Eb) e non (lPt), dai quali emergono ulteriori aspetti
significativi per comprendere in modo più integrale tanto la teologia come la prassi battesimale
delle Chiese cristiane del primo secolo.

La sequenza delle testimonianze presenti negli Atti degli apostoli parte dalle prime
conversioni dei giudei a Gerusalemme nel giorno di Pentecoste (At 2,41) per arrivare a Efeso con il
battesimo dei dodici discepoli di Giovanni (At 19,1-7). Al rito cristiano si fa riferimento circa venti
volte mediante l’uso del verbo baptizó (= immergere, con il significato originario di
«immergere/affondare», «fare un bagno»).26 Nel ripercorrere questa sequenza verranno messi in
evidenza alcuni tratti decisivi che delineano, secondo la prospettiva dell’evangelista Luca, lo
sviluppo della primitiva prassi battesimale.

L’ottica di fondo è enunciata già in At 1,5 laddove il Risorto, richiamando il battesimo di


Giovanni, annuncia come prossimo il «battesimo in Spirito Santo». Non è qui in causa la
designazione di un rito battesimale preciso quanto la più fondamentale indicazione dell’irruzione
della salvezza escatologica nella storia. Il rinvio al battesimo di Giovanni serve a indicare la
conclusione del tempo dell’attesa (battesimo con acqua) per attestare l’arrivo della pienezza dei
tempi (battesimo in Spirito Santo e fuoco, cf. Lc,16).

È a partire da questa cesura che prende corpo anche il rito battesimale cristiano. Al
battesimo dei tremila giudei a Gerusalemme da parte di Pietro (cf. At 2,41) fa seguito un’analoga
situazione per i samaritani convertiti da Filippo (cf. At 8,12) per arrivare all’episodio del battesimo
dell’eunuco sulla strada di Gaza sempre da parte di Filippo (cf. At 8,36- 38), unico caso nel quale il
rito battesimale è descritto nei suoi vari momenti. Un caso particolare e in parte analogo a quello
dell’eunuco è la vicenda del battesimo di Saulo da parte di Anania (cf. At 9,18; 22,16). Una speciale
risonanza assume il primo battesimo di un pagano, Cornelio, e di coloro che sono nella sua casa (cf.
At 10,48). Luca connota questo evento come lo svolgersi di una «seconda» Pentecoste che apre
l’accesso effettivo dei pagani alla salvezza offerta da Dio nel suo Figlio Gesù, morto e risorto (cf. At
10,44).

L’opera evangelizzatrice realizzata da Paolo è punteggiata da episodi nei quali emerge anche
l’amministrazione del battesimo. È il caso di Lidia, del carceriere e dei loro rispettivi familiari nella
città di Filippi (cf. At 16,11-15.27-34). Anche nella città di Corinto il venire alla fede è legato a
un’esplicita prassi battesimale (cf. At 18,8; cf. anche ICor 1,16). A Efeso l’opera evangelizzatrice
dell’apostolo è rivolta anche a un gruppo di discepoli di Giovanni ai quali viene amministrato il

26Cf. FABRIS, Atti degli apostoli, traduzione e commento, 235.


battesimo a cui segue l’imposizione delle mani e il dono dello Spirito Santo (cf. At 19,1- 7). Si tratta
con tutta evidenza di un processo di iniziazione che sfocia nella piena aggregazione alla vita della
Chiesa.27

Dall’insieme dei testi considerati appare come il battesimo cristiano non sia un fatto isolato
ma sia sempre connesso con un insieme di altri elementi (annuncio della Parola, professione di fede,
gesti rituali quali l’immersione e l’imposizione delle mani prima o dopo il lavacro, carismi suscitati
nei battezzati dalla presenza dello Spirito) che lo precedono e lo seguono.28
Il rito del battesimo non viene mai presentato da solo, ma sempre integrato da diversi
momenti quali l’imposizione delle mani di Pietro e Giovanni (i samaritani) oppure di Paolo (i
discepoli di Giovanni a Efeso), che causa la ricezione dello Spirito Santo. Gli strumenti del percorso
di ingresso pieno nella Chiesa sono per lo più la predicazione (i giudei a Pentecoste, i samaritani,
Cornelio, Lidia), ma anche la spiegazione della Sacra Scrittura (cf. soprattutto il caso dell’etiope),
l’integrazione delle conoscenze precedenti (cf. i discepoli di Giovanni a Efeso) o il dialogo per-
sonale (Anania che battezza Paolo).29

Giunti a questo punto può sorgere spontanea la domanda sulla comprensione del significato
sacramentale del battesimo cristiano. Esso si limita ad attestare un passaggio tra un prima e un
dopo? Ha solo valore di segno che marca un limite nel cammino di conversione? È corretto porsi la
domanda se tali testimonianze NT non autorizzino anche a riconoscere al battesimo cristiano una
specifica valenza di tipo causativo? Pur dovendo ancora completare la fisionomia del battesimo
cristiano con l’esame degli altri testi NT significativi a tale riguardo, si può già sottolineare come
l’emergere del rito battesimale cristiano abbia negli Atti degli apostoli una connotazione fortemente
iniziatica e pneumatica. Esso non è solo un atto umano e religioso nel quale il convertito dice il suo
venire alla fede, il suo essere aggregato alla Chiesa; non si limita a sancire ciò che è già accaduto
ma mediante esso e insieme ad altri elementi (annuncio della Parola, imposizione delle mani,...) la
Chiesa attraverso un suo testimone qualificato porta a compimento l’iniziativa salvifica di Dio
Padre per mezzo di Gesù sotto la potente azione dello Spirito Santo.

L’apporto paolino alla comprensione del battesimo si rivela particolarmente prezioso più sul
piano della teologia che su quello della prassi. I testi più rilevanti esplicitamente connessi alla
terminologia del «battezzare» sono rappresentati da Rm 6,1-11; Gal 3,26-28; ICor 12,13. Sullo
sfondo sono da tenere presenti quelle testimonianze che permettono di comprendere il battesimo nel
quadro della più ampia azione missionaria e di edificazione della Chiesa che vedono Paolo come
attore principale (lTs 4,1-2; ICor 1,17; 10,1-13; 11,23-25; 15,3-7; Rm 10,13-18; 12,7; 15,4).

Considerando il primo gruppo di testi si è condotti a considerare l’evento battesimale come


suscettibile di almeno tre diverse e complementari ermeneutiche di fede. Nel primo caso (cf. Rm
6,1-11) ciò che spicca è la concezione del rito del battesimo come «duplice passaggio attraverso una
“somiglianza”»:30 innanzitutto con la morte di Gesù (il battesimo come essere con-sepolti) e poi con
la sua risurrezione (battesimo come un camminare già ora in novità di vita e infine come un
partecipare anche corporalmente alla risurrezione di Gesù).
Paolo vede dunque il battesimo come un rito di iniziazione nel senso forte del termine:
nell’immersione nell’acqua il credente viene iniziato nella morte subendo una specie di sepoltura,
così come nell’emersione da essa comincia ed esperimen- ta la risurrezione ed è in grado di iniziare
una vita da risorto.31
Nel secondo testo (cf. Gal 3,26-28) il cambiamento radicale operato per mezzo del battesimo
è descritto come un «rivestirsi di Cristo». Esso dà luogo a quella realtà nuova che è l’essere uno in
Cristo (cf. Gal 3,28) e dichiara superata ogni altra condizione o appartenenza: giudeo/greco,

27Cf. MANICARDI, «Battesimo e iniziazione cristiana», 129.


28Cf. FABRIS, Atti degli apostoli, traduzione e commento, 236.
29MANICARDI, «Battesimo e iniziazione cristiana», 130.
30MANICARDI, «Battesimo e iniziazione cristiana», 133.
31MANICARDI, «Battesimo e iniziazione cristiana», 133.
schiavo/libero, uomo/donna. «Più che un cammino che precede e/o segue il rito battesimale, questo
testo insiste sull’incredibile stacco avvenuto nel battesimo cristiano rispetto a tutto ciò che precede e
che, nel presente, è puramente terreno» 32 L’ultimo testo (cf. ICor 12,13) pone infine in risalto il
valore di unità del corpo di Cristo al quale si è aggregati mediante il battesimo. La diversità dei
carismi che lo Spirito suscita in tale corpo non può nuocere a quell’unità che è effettuata dall’azione
del medesimo Spirito. Il battesimo, inteso in questa prospettiva pneumatica ed ecclesiale, assume
l’aspetto di un «abbeverarsi a un solo Spirito» (cf. anche Ef 1,13 e 2Cor l,21s).

Gli altri testi aiutano a situare questa poliedrica lettura teologica nell’ambito di altri fattori
fondamentali per restituire il senso globale del battesimo nell’ambito della più ampia opera di
evangelizzazione. Paolo innanzitutto si attribuisce un ruolo prevalente nel campo della prima
evangelizzazione (cf. ICor 1,17; Rm 10,13-18) piuttosto che nella fase successiva caratterizzata dal
rito battesimale (si veda però ICor 1,13-16 dove l’apostolo allude a battesimi da lui amministrati).
Questa osservazione autobiografica offerta da Paolo rivela indirettamente come la prassi battesimale
fosse già ben radicata nelle comunità paoline. Nella fase successiva alla prima evangelizzazione si
collocano alcuni fatti significativi che formano con il rito battesimale una realtà organica:
l’insegnamento (cf. Rm 6,17), l’istruzione (cf. Rm 12,7; 15,4), la consegna di tradizioni già ben
formulate (cf. ICor 11,23-25; 15,3-7), l’indicazione di precetti (lTs 4,1-2). Infine è dato come
acquisito (cf. ICor 10,1-13) che ai battezzati è aperta la condivisione della stessa mensa eucaristica,
con tutto ciò che questo comporta a livello di coerenza con il proprio stile di vita cristiana ed
ecclesiale. «L’avviamento della vita cristiana non è dunque legato semplicemente al rito battesimale
e a ciò che fa immediatamente contesto con esso, ma prevede anche il mangiare la Cena del
Signore».33

Dall’insieme di queste testimonianze emerge come il rito del battesimo sia inserito in un
insieme di altri elementi portanti e tali da formare un vero e proprio complesso iniziatico, già ben
stabilizzato nelle comunità paoline. Esso segna un passaggio chiaro e marcato tra un prima e un
dopo, libera dal peccato, dà accesso allo stesso destino di Gesù, implica l’azione dello Spirito,
introduce alla vita ecclesiale creando un vincolo nuovo con tutti coloro che sono divenuti cristiani,
comporta uno stile di vita nuovo conforme a quello di Gesù, apre alla partecipazione alla cena del
Signore.

La comprensione dell’evento battesimale riceve ulteriori approfondimenti alla luce di alcuni


testi deuteropaolini come la Lettera ai Colos- sesi (cf. Col 2,11-15), la Lettera agli Efesini (cf. Ef
4,5; 5,26) e la Lettera a Tito (cf. Tt 3,4-7). Nel primo caso il battesimo assume per i pagani un
valore analogo a quello della circoncisione per gli ebrei e insieme, richiamando la teologia di Rm 6,
opera nel credente la partecipazione alla potenza liberatrice del mistero pasquale di Gesù. Nel
secondo esso assurge, insieme ad altri due elementi, a designare i tratti essenziali dell’esperienza
cristiana: «Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo» (Ef 4,5). Attraverso il ricorso a
un’altra terminologia il battesimo appare inoltre come atto di Cristo che ha purificato la Chiesa «per
mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola» (Ef 5,26). È probabile che in questo caso
esso sia avvicinato al lavacro nuziale «che la sposa doveva fare per prepararsi alle nozze». 34 In
ultimo, utilizzando nuovamente il riferimento al lavacro (loutron) e incastonato nella sequenza di un
breve inno, il battesimo emerge come atto della misericordia divina che giusti- fica per mezzo di
Gesù Cristo, come «un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo» (Tt 3,5).

In alcuni passaggi della Lettera agli Ebrei si evidenzia una chiara conoscenza del battesimo
(cf. Eb 6,2), descritto come «illuminazione» (cf. Eb 6,4) ben inquadrata in tutta una serie precisa di
altri fatti significativi connessi con l’inizio della vita cristiana (cf. Eb 6,4-5) e come «purificazione
del cuore» e «lavacro del corpo con acqua pura» (cf. Eb 10,22). «Il battesimo è il luogo in cui il
32MANICARDI, «Battesimo e iniziazione cristiana», 134.
33MANICARDI, «Battesimo e iniziazione cristiana», 132-133.
34MANICARDI, «Battesimo e iniziazione cristiana», 136.
corpo viene lavato, ma più importante ancora è l’azione contemporanea sull’interiorità profonda
dell’uomo».35

L’ultimo testo è la preziosa catechesi battesimale offerta dalla Prima lettera di Pietro nella
quale il battesimo (cf. lPt 3,21) è letto alla luce della storia della salvezza, in particolare come
antitipo della salvezza di otto persone nell’arca attraverso le acque del diluvio. L’efficacia salvifica
del battesimo, fortemente evocata dall’acqua purificatrice (in analogia al diluvio purificatore), è
fondata nella persona di Gesù risorto e nel connesso esercizio del suo potere salvifico. Il battesimo è
dunque «invocazione» di salvezza che il credente rivolge a Dio per poter dinamicamente
esperimentare la liberazione dal potere del male e la vita nuova in Cristo. Proprio per l’inizio nuovo
che pone efficacemente in essere, esso può essere validamente interpretato come «rigenerazione»
sia in senso attivo che passivo (cf. lPt 1,3.23) a cui fa seguito la nuova condizione di «bimbi appena
nati» e come tali bisognosi del nutrimento offerto dal «latte spirituale» (cf. lPt 2,2). «Il passo
indicherebbe allora che al rito battesimale fa seguito un ulteriore processo di iniziazione, espresso
addirittura con un linguaggio ripreso in parte (pur nelle essenziali trasformazioni) da concetti dei
misteri della religiosità ellenistica» 36 Tale dinamismo implica dunque nel battezzato un processo di
crescita alla quale Dio presiede per mezzo di Gesù risorto nell’offerta «vitale» e «vitalizzante» di un
nutrimento non adulterato e pieno di energia spirituale.

La rassegna di questo ultimo gruppo di testimonianze NT radica ulteriormente la


comprensione dell’evento battesimale nel quadro della iniziativa salvifica della Trinità. È dunque
appropriato esplicitare la valenza causativa del rito battesimale in ordine alla «novità» cristiana 37
Esso non solo l’attesta ma la pone in essere nel dinamismo vivo di correlazione tra la fede suscitata
dall’evangelizzazione e la risposta misericordiosa da parte di Dio all’invocazione di salvezza
espressa dal credente.

35MANICARDI, «Battesimo e iniziazione cristiana», 138.


36MANICARDI, «Battesimo e iniziazione cristiana», 139.
37Cf. F. COURTH, I Sacramenti. Un trattato per lo studio e per la prassi, Queriniana, Brescia 1999,116.
Fede e battesimo sono mutuamente interrelati all’interno di una sequenza rituale attraversata
da un capo all’altro dall’operazione gratuita della grazia misericordiosa e fedele di Dio. Il lavacro
battesimale non è dunque un’opera umana ma un’opera divina; non appartiene all’economia dell’i-
niziativa umana ma all’economia del dono della vita divina, quella di Gesù morto e risorto. In virtù
dell’azione dello Spirito la Chiesa emerge nella sua peculiare funzione materna. I battezzati non
sono allora che dei bimbi appena nati, degli infanti.CAPITOLO SECONDO LA TRADIZIONE
DELLA CHIESA

1. Il battesimo nella Chiesa antica

Gli sviluppi della prassi e della teologia del battesimo nel periodo subapostolico e nei secoli
successivi della storia della Chiesa antica sono legati al presentarsi di due fenomeni fondamentali: il
sorgere di itinerari di tipo catecumenale per gli adulti che chiedono di diventare cristiani, e
l’affermarsi di un modello di iniziazione cristiana nel quale il battesimo è strettamente legato, anche
dal punto di vista della celebrazione liturgica, ai sacramenti della confermazione/crismazione e
dell’eucaristia. Il sacramento del battesimo si lascia dunque inquadrare nel più ampio alveo del
processo di iniziazione cristiana.

Gli elementi iniziatici già attestati nel NT vengono gradatamente disposti in una forma
sempre più chiara e ordinata. Il catecumenato, con tutti i suoi riti, assume una forma stabile e
condivisa nelle sue linee portanti. Esso diviene una vera e propria istituzione che coinvolge in primo
luogo la Chiesa locale nelle sue articolazioni fondamentali: il vescovo e uniti a lui i presbiteri e i
diaconi, i catechisti e coloro che più direttamente accompagnano i catecumeni (garanti e padrini),
tutta la comunità ecclesiale e gli stessi catecumeni attraverso i diversi gradi fino al tempo tutto
speciale della mistagogia. La Chiesa locale spicca per l’esercizio della sua poliedrica ministerialità e
per la sua sollecitudine «materna»: nel suo grembo Dio Padre opera la «rigenerazione» dei
catecumeni a figli di Dio.

La coscienza ecclesiale è caratterizzata da una spiccata coscienza della testimonianza che i


cristiani, realtà di minoranza da un punto di vista socio-culturale, devono rendere al mondo della
loro fedeltà al Signore Gesù. Tale testimonianza è incoraggiata dal luminoso esempio di tanti martiri
che, nell’effusione del sangue, hanno perfezionato la loro unione e conformazione battesimale al
mistero di Cristo morto e risorto (battesimo di sangue). 38 Talvolta si tratta di catecumeni che,
attraverso la testimonianza eroica del martirio, giungono alla fede e all’incorporazione alla Chiesa
senza il rito sacramentale del battesimo (battesimo di desiderio). La situazione si modifica quasi
completamente con l’avvento della pace costantiniana e l’assurgere della fede cristiana da
superstitio nova a religio licita nell’impero romano per arrivare infine alla consacrazione della fede
cristiana cattolica a unica religione ufficiale dell’impero romano. La cesura costantiniana incide non
poco nella comprensione dell’essere cristiani: si passa sempre più dal «cristiani si diventa» al «cri-
stiani si nasce». In tale nuovo contesto la prassi del pedobattesimo, già affermata e nota anche nel
periodo precostantiniano, diviene sempre più la prassi ordinaria di accesso alla vita cristiana.

Fino al VI secolo circa la prassi iniziatica delle Chiese dell’Oriente e dell’Occidente è


contrassegnata da una forte omogeneità.39 L’assetto si differenzia notevolmente con il diffondersi
del cristianesimo nelle zone rurali, l’evangelizzazione dei popoli barbari con la prassi del battesimo
«di massa» attraverso la conversione e il battesimo del sovrano, la sempre più ampia diffusione del
pedobattesimo. In Occidente tali fattori comportano un graduale distacco del rito battesimale
dall’azione diretta del vescovo, il rinvio degli altri riti sacramentali (confermazione, eucaristia) a
una fase successiva nella quale emerge nuovamente il peculiare legame con l’azione del vescovo (in
38Cf. Tradizione apostolica, c. 19.
39Per questa parte della trattazione: cf. V. SAXER, Les rites de ¡’initiation chrétienne du II e au VIe siècle. Esquisse historique et
signification d’après leurs principaux témoins, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto (PG) 1988,1992 (ristampa
anastatica); per un’antologia ragionata di testi patristici, cf. L’iniziazione cristiana, testi raccolti e presentati da A. HAMMAN,
introduzione di J. Danielou, Marietti, Casale Monferrato (AL) 1982.
particolare per la confermazione), la decadenza dell’istituto catecumenale, il decentramento del rito
battesimale dal battistero prossimo alla cattedrale alle sedi delle diverse Chiese rurali nelle quali è
in primo piano l’azione del presbitero.
Nel tratteggiare lo sviluppo del battesimo nella Chiesa antica occorre pertanto procedere
tenendo conto di queste variazioni di fondo che, introdottesi sul piano della prassi, hanno influito
non poco anche sul piano della riflessione teologica. Il percorso proposto vuole visualizzare in
forma sintetica i seguenti passaggi: 1) il periodo che va dai padri apostolici al III secolo, erede
diretto della prassi delle Chiese del NT; 2) il periodo del consolidamento e del massimo prestigio
del catecumenato come istituto strettamente legato alla celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione
cristiana (dal IV al VI secolo); 3) la decadenza del catecumenato e la prassi battesimale in
Occidente fino al periodo della teologia scolastica (secoli XI-XII). L’attenzione sarà concentrata per
quanto possibile sul battesimo ben sapendo che, almeno fino al VI secolo, esso si dà ordinariamente
in una stretta unità celebrativa con altri riti post-battesimali tra i quali due dotati di una speciale
densità sacramentale (la consi- gnatio e l’eucaristia).

1.1. Il BATTESIMO FINO AL III SECOLO

Nei primi secoli la vicenda rituale del battesimo, in Oriente come in Occidente, è
caratterizzata da un’omogeneità di fondo. In particolare, come già accennato, risulta «difficilissimo
distinguere, a livello rituale, il battesimo e la confermazione così come sono distinguibili ai nostri
giorni».40

Per quanto concerne il II secolo ci troviamo di fronte a una liturgia battesimale non
codificata ed essenziale nei suoi elementi portanti. Il gesto principale che caratterizza la prassi
battesimale è certamente l’abluzione, in analogia ad altre prassi battesimali di cui si è detto sopra.
Essa è strettamente connessa con tre elementi fondamentali che ne offrono un più preciso quadro di
comprensione. Innanzitutto tale gesto rituale si trova al termine di una fase precedente nella quale è
dominante l’annuncio della parola di Dio e rappresenta anche il punto di arrivo di una risposta di
fede che si è venuta maturando nel frattempo. Il senso dinamico e responsoriale della fede è reso più
esplicito dal ricorrere di precise interrogazioni alle quali il candidato è chiamato, contestualmente
all’abluzione, a dare la sua risposta. In secondo luogo tale dialogo assume il volto di una precisa
professione di fede formulata in chiave trinitaria e ben ancorata nella storia della salvezza. Il
battezzato fa sua la fede della Chiesa e questa a sua volta trasmette e comunica al neofita in forma
sintetica il nucleo portante della rivelazione cristiana. Infine, il candidato non emerge dal nulla, ma
è accompagnato al battesimo da un gruppo di credenti, «segno sufficiente della dimensione
comunitaria della celebrazione».41

Alcune significative testimonianze di questo periodo in ordine alla prassi liturgica sono
offerte dalla Didachè, dalla I Apologia di Giustino e dalla Tradizione apostolica. Negli scritti di altri
padri (Ireneo, Clemente Alessandrino, Origene) la considerazione della prassi liturgica è unita a una
più approfondita riflessione teologica.42 Il De baptismo di Tertulliano presenta «il primo trattato
completo, eco della catechesi battesimale». 43 Sono rilevanti per questo periodo anche le antiche

40RUFFINI, «Iniziazione cristiana», 664.


41RUFFINI, «Iniziazione cristiana», 664.
42Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 65ss (Clemente Alessandrino), 145ss (Origene). Gli apporti di questi due scrittori sono
importanti per conoscere la situazione della prassi battesimale in Egitto, in particolare ad Alessandria (e anche a Cesarea di Palestina,
se si tiene conto del periodo dell’esilio passatovi da Origene nella parte finale della sua vita), dalla metà del II secolo alla metà del III
nel contesto del confronto con lo gnosticismo, cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 99. Per il confronto con lo gnosticismo in ordine
alla precisazione del significato teologico del battesimo si veda il contributo di IRENEO DI LIONE, in particolare ct Demostratio
apostolica, 41-42. Per la discussione su un’eventuale prassi rituale iniziatica nell’ambito dello gnosticismo, cf. G. FILORAMO,
L’attesa della fine. Storia della gnosi, Laterza, Bari 1987,276-277 (per il battesimo, cf. 277).
43A. HAMMAN, «Battesimo», in Dizionario patristico e di antichità cristiane, Marietti, Casale Monferrato (AL) 1983,1,501. Per la
prassi battesimale nel contesto dell’iniziazione cristiana in questo primo periodo patristico Saxer presenta anche le testimonianze
contenute nella Epistola di Barnaba e nel Pastore di Erma, cf. Les rites de l’initiation, 41ss.
figurazioni battesimali dell’arte paleocristiana presenti nelle catacombe romane e nei rilievi sui
sarcofagi.44

Nel caso della Didachè (c. 7), tenendo conto delle diverse ipotesi sulla datazione della
redazione finale (bassa: 50/70 d.C. e comunque entro il I secolo d.C.; tardiva 100/150 o fine del II
secolo/inizi del III) e sull’ambiente ecclesiale di riferimento (Egitto o Palestina o Siria, in par-
ticolare Antiochia),45 si è informati su una prassi già essenzialmente strutturata attorno a tre
elementi: il bagno battesimale da compiersi preferenzialmente nell’acqua viva (si vedano i richiami
a Lv 14,5-6; Nm 19,17 e alla prassi della tevilat gherim) oppure in altra acqua (fredda o even-
tualmente anche calda) oppure con triplice infusione sul capo (se non si danno le precedenti
possibilità), la formula di fede trinitaria associata all’atto di battezzare (in stretta dipendenza dal
testo di Mt 28,19), la preparazione immediata al battesimo implicante, oltre il compimento di «ogni
premessa», anche il digiuno (due o tre giorni prima) del battezzante, del battezzato e degli «altri se
possono».

Passando alla I Apologia di Giustino (scritta verso il 150 circa), si ha una breve
presentazione degli usi battesimali (cf. c. 61), i quali concordano essenzialmente con quanto
espresso nella Didachè. Di rilievo una prima elaborazione teologica, in chiave apologetica, del
significato del rito battesimale con particolare riferimento al rapporto tra il nascere/essere generati e
il rinascere/essere rigenerati.

«Ora, per non rimanere figli dell’ignoranza e della necessità, ma per divenire capaci di
scegliere e capire, nell’acqua otteniamo la remissione dei peccati commessi». Si ha inoltre notizia
che il lavacro battesimale «è chiamato “illuminazione”, perché chi accoglie queste verità riceve
un’illuminazione interiore».

L’illuminato viene poi ammesso «nell’assemblea dei fratelli» (c. 65) per la preghiera e la
celebrazione dell’eucaristia.46

Con la Tradizione apostolica (compilata intorno al 215) il rito battesimale appare ben
inserito in una realtà più ampia e articolata che forma l’i- ter mediante il quale si è aggregati alla
comunità cristiana (cf. cc. 15-21). Con tale documento si è dinanzi al primo rituale «praticamente
completo dell’iniziazione cristiana».47 Tutta una serie di indicazioni sono relative ad alcune esigenze
di fondo che caratterizzano la preparazione dei catecumeni (cc. 15-16).48 La durata dell’istruzione
catecumenale è di tre anni anche se il giudizio di ammissione del catecumeno al battesimo più che
dal tempo dipende dalla valutazione del suo comportamento (c. 17). Alle istruzioni impartite dai
dottori ai catecumeni segue la preghiera per loro, l’imposizione della mano e il congedo. Il tutto
avviene nell’assemblea liturgica e in modo tale che i catecumeni stiano in disparte dai fedeli (cc.
18-19). Nel congedarsi dalla preghiera non è loro concesso di salutarsi con il bacio della pace,
«perché il loro bacio non è ancora santo» (c. 18). L’ultima fase della preparazione è segnata dalla
scelta di «coloro che dovranno ricevere il battesimo» (c. 20). L’esame della vita dei candidati
assume la forma di uno scrutinio al quale concorre anche la testimonianza di coloro che li hanno
presentati. Occorre verificare in particolare se essi «hanno vissuto devotamente nel periodo del
catecumenato, onorando le vedove, visitando gli ammalati, praticando opere buone» (ibidem). Una
volta «scelti e separati, ogni giorno si imponga loro la mano per esorcizzarli» (ibidem). Il venerdì
44Cf. E. DASSMANN, «Battesimo - Iconografia», in Dizionario patristico e di antichità cristiane, 1,503-507.
45A. Quacquarelli, nell’introduzione alla Didachè, opta per la seconda metà del I secolo, avvicinando dunque la composizione del
testo al periodo apostolico più che attribuirlo a quello subapostolico, cf. A. QUACQUARELLI, I Padri apostolici, Città Nuova, Roma
2
1978,26. Cf. anche W. RORDORF, «Didachè», in Dizionario patristico e di antichità cristiane, 1,947-948 (egli pone in evidenza la
stratificazione di materiali di provenienza diversa).
46Sull’uso dell’appellativo «illuminato» piuttosto che «neofita», cf. A. HAMMAN, «Neofita», in Dizionario patristico e di antichità
cristiane, Marietti, Casale Monferrato (AL) 1984, II, 2355.
47P. Tena - D. Borobio, «I sacramenti dell’iniziazione cristiana: battesimo e confermazione», in La celebrazione nella Chiesa, 2:1
sacramenti, ElleDiCi, Leumann (TO) 1994, II, 50.
48II testo è citato secondo la traduzione italiana a cura di R. TATEO, EP, Roma 21979. Cf. A. HAMMAN, «Catecumeno», in Dizionario
patristico e di antichità cristiane, 1,627-629.
gli eletti devono praticare il digiuno, il sabato (prima della vigilia pasquale o più genericamente
domenicale) il vescovo compie l’ultimo esorcismo mentre i battezzandi pregano in ginocchio, segue
la veglia notturna accompagnata da «letture e istruzioni» (ibidem).49 Il lavacro battesimale si compie
al canto del gallo (cf. c. 21). Esso comporta una preghiera sull’acqua, sia che essa «scorra in una
fonte o che fluisca dall’alto» o, in caso di necessità, è permesso usare «l’acqua che si trova». Il rito
prevede che i candidati, spogliati delle loro vesti, prima i bambini, poi gli uomini e infine le donne,
ricevano il battesimo dal vescovo (o dal sacerdote), dopo aver dichiarato dinanzi al sacerdote di
abiurare a satana ed essere stati unti dai diaconi con l’olio dell’esorcismo. La professione di fede
trinitaria, proposta in forma interrogativa, viene resa dal candidato contestualmente alla triplice
immersione (o infusione dell’acqua) mentre «colui che battezza» scandisce ogni
interrogazione/risposta tenendo la sua mano sul capo del battezzato. Nel caso dei bambini che non
sono in grado di rispondere da sé, prendono la parola i genitori o qualcuno della famiglia (abiura,
professione di fede, cf. ibidem). Segue una seconda unzione effettuata dal sacerdote con l’olio
consacrato dal vescovo prima del rito battesimale, «Folio del rendimento di grazie» (ibidem). Il
sacerdote dice: «Ti ungo con l’olio santo nel nome di Gesù Cristo» (ibidem). Tutti i battezzati,
asciugati e rivestiti, possono allora entrare in chiesa dove il vescovo li accoglie, impone la mano su
ciascuno di loro e così prega: «Signore Dio, che li hai resi degni di meritare la remissione dei
peccati mediante il lavacro di rigenerazione dello Spirito Santo, infondi in essi la tua grazia,
affinché ti servano secondo la tua volontà, poiché a te è gloria, al Padre, e al Figlio con lo Spirito
Santo nella santa Chiesa, ora e nei secoli dei secoli. Amen» (ibidem). Ha luogo una terza unzione,
compiuta dal vescovo, con l’olio santificato versato sul capo del neobattezzato il quale viene poi
segnato sulla fronte per ricevere infine il bacio di pace (cf. ibidem).50 Ora possono scambiare il
bacio santo con gli altri fedeli, prendere parte alla preghiera comune e partecipare all’eucaristia (cf.
ibidem), unendo anche la propria offerta (cf. c.19). Ricevono la comunione in questo modo: prima il
pane eucaristico poi il calice con l’acqua (segno della purificazione interiore), il calice con il miele
e il latte mescolati (segno della partecipazione ai beni messianici) e infine il calice con il vino
eucaristico. I riti battesimali formano con altre dottrine (la santa offerta, la risurrezione della
carne,...) il contenuto di una tradizione custodita dal segreto e pertanto non comunicabile agli
infedeli (cf. c. 21): vi è un chiaro richiamo a una trasposizione cristiana della «disciplina
dell’arcano».

Da questa descrizione particolareggiata degli usi battesimali in vigore nella Chiesa di Roma
attraverso Tertulliano veniamo a conoscere la situazione del Nordafrica agli inizi del terzo secolo,
come appare dal suo trattato De baptismo (198/200).51 II trattato ha una chiara connotazione
polemica e antieretica volendo confutare chi, come Quintilla, mette in dubbio l’efficacia del lavacro
battesimale. Tertulliano si sofferma dunque a porre in rilievo il valore della mediazione
sacramentale legata all’acqua battesimale, «acqua, che lava i peccati del nostro accecamento
originale e ci libera per la vita eterna!» (c. 1) e ne presenta una rilettura tipologica ripercorrendo i
diversi momenti della storia della salvezza. Solo il martirio (battesimo di sangue) può derogare alla
necessità salvifica del battesimo d’acqua (cf. c. 16). Dalla terminologia utilizzata per descrivere il
bagno battesimale si può desumere che avvenisse normalmente per immersione completa.52 Il tempo
49II testo prevede anche «di prendere il bagno e di lavarsi il quinto giorno della settimana», Trad. ap., c. 20. Per le donne che hanno
il ciclo mestruale, il battesimo deve essere rinviato, cf. Trad. ap., c. 20. Saxer sottolinea come la vigilia sia collegata a una domenica
imprecisata, cf. SAXER, Les rites de Vinitiation, 126.
50Questa unzione è accompagnata dalla preghiera: «Ti ungo con l’olio santo nel Signore Padre onnipotente e in Gesù Cristo e nello
Spirito Santo», Trad. cip., c. 21. Tale sequenza di interventi analoghi del vescovo e/o del sacerdote, insieme ad altri elementi di
incongruenza posti in evidenza dalla critica testuale, hanno fatto supporre l’esistenza di due fonti combinate insieme dal redattore
finale (Ippolito), cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 118-119. Per l’insieme cf. ibidem, 109-118. Per le fonti successive alla
Tradizione ap. nell’intervallo che precede la comparsa dei sacramentari più antichi e degli Ordines sono rilevanti le Lettere dei papi,
cf. ibidem, 570-584.
51Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 121-132. L’A. presenta anche i dati sull’iniziazione cristiana che emergono dalla Passio
Perpetuae et Felicitatis (dello stesso periodo del trattato di Tertulliano) e quelli emergenti dal confronto con alcune epigrafi pagane
rilevanti per cogliere la compenetrazione tra usanze profane (riferite alle terme e agli usi balneari) e usanze cristiane, cf. ibidem, 132-
138.
52Si vedano però gli studi di E. STOMMEL, ripresi da Saxer, in base ai quali gli antichi usi battesimali più che l’immersione completa
comportavano o un essere immersi nell’acqua al massimo fino al ventre per ricevere da parte del celebrante tre volte l’acqua sul capo
(con la mano o una conchiglia) oppure il triplice passaggio sotto un getto d’acqua di una fonte dopo avere dato risposta alla triplice
interrogazione (professione di fede). Per la testimonianza tertullianea Saxer rimane dell’opi- nione che si tratti di immersione
completa (lat.: mergere), cf. ibidem, 130.
precedente è caratterizzato dai diversi gradi di preparazione: catecumenato (la durata non appare
chiaramente determinata), la preparazione prossima (la terminologia per designare tale situazione è
ancora fluida), la celebrazione del battesimo unitamente ai riti prebattesimali e postbattesimali
(preferibilmente in occasione della celebrazione annuale della Pasqua e nel periodo della
cinquantina pasquale ma anche in altro periodo e comunque alla fine della veglia notturna), la
partecipazione alla sinassi eucaristica (conclusione di tutta l’iniziazione). Saxer osserva come nella
testimonianza offerta da Tertulliano il catecumenato «cerca ancora le sue regole, è in pieno periodo
di organizzazione, su certi punti le sue strutture sono ancora fluide, anzi da creare». 53 I riti connessi
direttamente con il battesimo comportano: la benedizione dell’acqua, la rinuncia a satana, l’atto
battesimale, l’unzione, la signazione, l’imposizione della mano (postbattesimale), la sinassi euca-
ristica. La formula battesimale è trinitaria (cf. c. 6), verosimilmente nella modalità della triplice
interrogazione/risposta. «Ogni articolo concerne una persona divina, l’ultimo comporta inoltre la
menzione della Chiesa».54 Il battesimo può essere amministrato anche da laici (cf. c. 17). Non
appare favorevole al battesimo dei bambini, salvo il caso di necessità assoluta, perché essi non
possono esprimere ancora la loro risposta di fede: «Sì, vengano pure, ma quando saranno più
grandi, vengano quando saranno in grado di essere istruiti, quando avranno imparato a conoscere
colui al quale vengono» (c. 18). Su questo punto si registra successivamente la posizione diversa di
Cipriano per il quale nessuno può essere escluso dal battesimo, neanche il neonato (cf. Epist. 64, 2-
5). Come Tertulliano e in linea con una serie di sinodi riuniti a Cartagine (255 e 256 d.C.), sotto la
sua presidenza egli non volle riconoscere la validità del battesimo conferito dagli eretici, dando
luogo su questo punto a una disputa aperta con la posizione presa da papa Stefano (254-256 d.C.).55
La struttura della liturgia battesimale che si può desumere dai suoi scritti rimane sostanzialmente
uguale a quella del tempo di Tertulliano.56 Per quanto riguarda la prassi battesimale a Roma verso la
metà del III secolo si ritrova la stessa sequenza presente in Africa. Essa comporta molto
probabilmente alcuni esorcismi prebattesimali, l’atto battesimale (anche per infusione), i riti
postbattesimali tra i quali «la sphragis episcopale come rito dello Spirito».57

1.2. Il BATTESIMO: DALL’ETÀ D’ORO DEL CATECUMENATO ALLA SUA DECADENZA (III-VI
SEC. D.C.)

L’arco temporale che si presenta ora al nostro sguardo, ben a ragione denominato per la sua
parte centrale (IV-V sec.) l’età d’oro dell’iniziazione cristiana,58 richiederebbe lo studio analitico di
un così vasto repertorio di testimonianze tale da non poter essere affrontato nel contesto di questa
presentazione necessariamente sintetica. L’abbondanza di fonti è ulteriormente arricchita dalla
varietà dei generi letterari che solo considerati nel loro insieme possono dare un quadro della prassi
battesimale in tale scorcio di storia della Chiesa antica. I tratti peculiari del catecumenato e
dell’iniziazione cristiana emergono da scritti di indole catechetica, da testimonianze di carattere
liturgico legate ad ambienti diversi (Milano, le Gallie, Roma, la Spagna, Cartagine e il Nordafrica,
la Cap- padocia, la Siria, l’Egitto, l’Illirico...), da veri e propri trattati sui sacramenti, da sermoni
relativi ad alcuni tempi dell’anno liturgico e alle diverse tappe dell’iniziazione, da disposizioni
canoniche e magisteriali (sinodi locali, concili ecumenici, lettere dei papi), dalle testimonianze
epigrafiche e da quelle monumentali sia in Occidente come in Oriente (lo sviluppo dell’architettura
relativa ai diversi spazi celebrativi, l’arte musiva, la scultura...)

Dallo studio delle fonti spicca un dato di grande rilievo: «Quando si considera l’insieme di
53SAXER, Les rites de l’initiation, 122 (mia trad. dal francese).
54SAXER, Les rites de l’initiation, 129 (mia trad. dal francese).
55Cf. J. QUASTEN, Patrologia, Marietti, Casale Monferrato (AL) 1983,1,577.
56Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 139-142.
57SAXER, Les rites de l’initiation, 143 (mia trad. dal francese). Per queste conclusioni è rilevante anche la testimonianza contenuta
nella Lettera del papa Cornelio (251-253 d.C.) a Fabio di Antiochia sul battesimo di Novaziano, amministratogli nel suo letto durante
la malattia, cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 142-143.
58Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 105.
questi riti, si è colpiti dalla loro precoce e rapida fissazione in un complesso di gesti e di parole;
quando se ne confrontano le realizzazioni regionali, esse mostrano una grande varietà». 59 La strut-
tura rituale del percorso iniziatico è dunque contrassegnata da una stabilità di fondo dei suoi
elementi fondamentali unita a una grande varietà di adattamenti locali.

Non si può non ricordare che questo periodo è anche caratterizzato dalle grandi dispute
cristologiche e pneumatologiche che attraversano da un capo all’altro tutte le Chiese. Nel passaggio
dal III al IV secolo il diventare cristiani viene inoltre a collocarsi non più nel contesto delle
persecuzioni ma nel clima di pace caratterizzato dal nuovo status di riconoscimento della religione
cristiana nella vita dell’impero romano. Le migrazioni dei popoli provenienti dal nord e dall’est
dell’Europa porranno alle Chiese locali (Roma in particolare quale emergente sede patriarcale
principale in Occidente) l’esigenza di un nuovo stile di evangelizzazione del quale risentirà anche la
prassi battesimale (battesimo del sovrano o del capo e conversioni collettive dei sudditi).60

Mano a mano che si va, tanto in Occidente come in Oriente, verso l’affermarsi e il
consolidarsi della societas christiana, strettamente legata alle sorti politico-religiose del potere
imperiale, tanto più si passa dal diventare cristiani per scelta all’esserlo per nascita. In tale contesto
il battesimo dei bambini diviene un fenomeno prevalente sul battesimo degli adulti e l’apprendistato
catecumenale perde tutta la sua carica iniziatica sia sul piano dei riti che sul piano esistenziale.

Prima di prendere in considerazione alcune testimonianze relative al periodo d’oro


dell’iniziazione cristiana, è importante porre in risalto un dato teologico-sacramentale che ne anima
profondamente tutto lo sviluppo (dal precatecumenato passando per il battesimo per arrivare alla
mistagogia): è la Chiesa locale che mediante la sua poliedrica espressione ministeriale (vescovo,
presbiteri, diaconi e diaconesse, catechisti e padrini) gioca un ruolo centrale nell’intero processo di
iniziazione. Il battistero e il fonte battesimale non sono che l’eloquente espressione archi- tettonica
di questa profonda autocoscienza che la Chiesa locale ha della sua funzione materna. Tale
consapevolezza non è certamente una novità legata a questo periodo dal momento che, anche
quando l’istituto cate- cumenale «non esisteva in quanto tale», la Chiesa «esercitava con serietà ed
efficacia la sua funzione materna».61 Nel periodo d’oro tale dimensione emerge in modo
particolarmente evidente.

Chiaramente il responsabile ultimo del discernimento sull’idoneità dei candidati al battesimo


è il vescovo. La sua azione pastorale si svolge attraverso il concorso dei catechisti ai quali, sotto la
sua vigilanza, è affidata l’istruzione nel periodo catecumenale ma è egli stesso che si riserva il
compito di una formazione costante e sistematica, attraverso una predicazione ricca di contenuto
scritturistico in corrispondenza degli snodi rituali più significativi sia dell’apprendistato
catecumenale come della parte conclusiva dell’iniziazione.

Per la formazione dei catechisti e il tempo del precatecumenato lo scritto di sant’Agostino,


De catechizandis rudibus (400 circa), svela in modo efficace la passione pastorale del vescovo nell’
accompagnamento personale dei catecumeni ai primi passi del loro itinerario di postulanti (lat.
rudes). Lo stile catechetico raccomandato al diacono Deogratias mostra come il vescovo d’Ippona
conosca direttamente la situazione assai diversificata di coloro che vogliono diventare cristiani. Il
postulante o principiante va avvicinato nella sua condizione esistenziale concreta scrutando le vere
motivazioni che lo spingono a chiedere di diventare cristiano (cf. cc. 5 e 17). Con gradualità a lui
vanno offerte a partire da alcuni riferimenti essenziali della storia della salvezza le grandi verità
della fede cristiana (cf. per es. il caso di postulanti di estrazione culturale elevata, c. 8) e in
particolare il mistero di Gesù Cristo (cf. c. 22,40) quale pienezza della rivelazione dell’amore di Dio
59SAXER, Les rites de l’initiation, 107 (mia trad. dal francese).
60Cf. E. SASTRE SANTOS, La vita religiosa nella storia della Chiesa e della società, Ancora, Milano 1997,129-143 («La vita
religiosa nei regni barbari-romani»).
61M. DUJARIER, «La funzione materna della Chiesa nella pratica catecumenale dell’antichità», in G. CAVATI .OTTO (edIniziazione
cristiana e catecumenato. Diventare cristiani per essere battezzati, EDB, Bologna 1996,125; cf. anche ibidem, 128-145.
(cf. c. 4,8). Tutte le abilità retoriche, ben conosciute e praticate da Agostino, devono essere poste a
servizio della catechesi ma «la preoccupazione più grande deve essere quella di trovar il modo di
catechizzare gioiosamente» (c. 2,4).62 La gioiosità (lat. hilaritas) deve abitare il cuore del catechista
il quale con umiltà (cf. cc. 10,15) sa avvicinare tutti, anche le persone colte (il caso dei retori, cf. c.
9) rendendole capaci di «apprezzare di più chi evita gli errori di comportamento che gli errori di
grammatica, e a preferire il cuore buono alla lingua sciolta» (c. 9,13). L’attenzione alla varietà dei
candidati mostra lo spirito di adattamento richiesto dalla situazione così fluida e incerta che
caratterizza chi si affaccia sulla soglia della vita cristiana. «Non è la stessa cosa se gli ascoltatori
sono molti o pochi, se sono dotti o ignoranti, oppure qualcosa dell’uno e qualcosa dell’altro;
cittadini o campagnoli, o mescolati insieme, o gente di ogni categoria» (c. 15,23; cf. anche c. 13). Il
fine di tutta l’istruzione non può che essere la manifestazione dell’amore di Dio: «Già abbiamo
detto che il discorso catechistico dovrà iniziare da dove si dice che Dio fece tutte le cose molto
buone (Gen 1) e giungere al tempo presente della Chiesa: in modo da spiegare il senso di tutti i fatti
e gli avvenimenti, e da riferire tutto al fine dell’amore, da cui non si deve mai staccare l’attenzione
di chi parla e di chi opera» (c. 6,10). Questo primo tempo di istruzione, postulandato o
precatecumenato, si conclude con una verifica alla quale, se positiva, fa seguito l’entrata nel
catecumenato vero e proprio: «Al termine dell’istruzione catechistica, verifica se il candidato è
disposto ad accogliere i tuoi insegnamenti e intende metterli in pratica. Se risponde
affermativamente, come prescrive il rito, lo segnerai con il segno della croce e lo tratterai secondo
le consuetudini della Chiesa» (c. 26,50). 63 II catecumeno da questo momento comincia a essere
istruito sulla natura dei riti sacramentali: «Riguardo al sacramento che riceve, gli si deve spiegare
bene che i riti sono anzitutto segno visibile delle cose divine; ma queste cose invisibili anche le
contengono, e ciò che viene santificato con la benedizione non è più quel che era prima per l’uso
comune» (ibidem).

Se attraverso questo testo agostiniano si è potuto avere un saggio significativo sulla fase del
pre-catecumenato, ora attraverso il confronto con alcune testimonianze patristiche dell’Occidente
(Ambrogio di Milano, Cromazio e Rufino di Aquileia) e dell’Oriente (Costituzioni apostoliche,
Teodoro di Mopsuestia, Basilio Magno) andiamo a delineare il percorso successivo per mettere in
evidenza in modo più specifico l’evento battesimale. Nelle diverse Chiese locali si è intanto venuta
già affermando attraverso il III secolo una chiara successione tra precatecumenato, entrata nel
catecumenato, tempo del catecumenato, celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana e
tempo della mistagogia. Il catecumenato comporta a sua volta due grandi verifiche: la prima, di cui
si è appena detto sopra, all’inizio di tale periodo e relativa al discernimento e alla purificazione
delle motivazioni della richiesta di voler diventare cristiani, la seconda al momento della
candidatura ufficiale per l’entrata nel gruppo degli eletti, inizio dell’ultima fase di preparazione più
immediata all’iniziazione cristiana vera e propria (il tempo di Quaresima). In questo contesto si è
venuto consolidando un ministero particolare di accompagnamento dei catecumeni: l’istituto del
padrinato.64 I catecumeni stessi formano una realtà distinta (lat. ordo) nella comunità cristiana con
precisi diritti e doveri in seno alla ekklésia e come tali hanno una loro specifica collocazione
nell’assemblea eucaristica, secondo la loro peculiare posizione nell’itinerario catecumenale
(katéchoumenoi o audientes, phó- tizomenoi o electi, competentes).65 L’itinerario catecumenale è
scandito da scrutini, unzioni ed esorcismi e nella parte conclusiva da alcuni riti particolari di
trasmissione della fede (traditio/redditio del Simbolo di fede e del Padre Nostro). In Spagna il
concilio di Elvira (300/303) interviene sulle modalità di accesso al catecumenato, al battesimo e di
amministrazione dello stesso in casi particolari (canoni 38 e 77) e stabilisce in due anni la durata

62II testo è citato secondo la tr. it. a cura di G. GIUSTI, EDB, Bologna 1981.
63Si allude al rito della signatio della croce sulla fronte in occasione dell’entrata nel catecumenato - cf. Saxer, Les rites de
l’initiation, 380-399 (in particolare 383-384) - da distinguere dalla signatio post-battesimale mediante unzione crismale da parte del
vescovo, cf. ibidem, 393.
64Cf. DUJARIER, «La funzione materna della Chiesa nella pratica catecumenale dell’antichità», in Iniziazione cristiana e
catecumenato, 136-141. Per la figura del «garante» (gr.: avàSo%oq), cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 247.458.462.
65Cf. G. CAVALLOTTO, «Il catecumenato nei primi secoli: origine, evoluzione, struttura e identità», in Iniziazione cristiana e
catecumenato, 33-44. Interessante la denominazione utilizzata da Tertulliano per i catecumeni chiamati «novicioli», in analogia al
servizio militare, cf. ibidem, 36.
normale del catecumenato fino a un massimo di cinque per altri casi particolari (cf. canoni
4.11.42.72) 66

Della prassi del catecumenato e dell’iniziazione cristiana a Milano nel periodo


dell’episcopato di sant’Ambrogio (373-397) si ha notizia attraverso tre suoi scritti fondamentali:
Explanatio symboli ad initian- dos, De mysteriis, De sacramentis. Il periodo del catecumenato
comporta all’inizio una signatio a forma di croce e si conclude con la nomenda- tio (in Oriente si
parla di onomatographia) mediante la quale i catecumeni, dopo l’appello solenne del vescovo (per
es. in occasione dell’Epifania) a entrare tra i competentes, si iscrivono (dando il loro nome) all’i-
nizio della Quaresima per quest’ultima fase della preparazione in vista del battesimo. Questo ultimo
periodo comporta un più serio impegno ascetico e morale, una più intensa istruzione sulla fede e la
storia della salvezza, riti particolari (unzioni, esorcismi, traditio/redditio symboli) in concomitanza
con le varie domeniche prima di Pasqua e una più mirata predicazione del vescovo. Dopo la
redditio symboli il Sabato santo si arriva alla veglia battesimale (in coincidenza con la veglia
pasquale) nella quale i riti si svolgono secondo una particolare sequenza: apertura dei sensi
(apertio, ephpheta), benedizione dell’acqua battesimale, unzione su tutto il corpo dei candidati,
rinuncia a satana, lavacro battesimale, unzione della testa, lettura di Gv 13,4-11, lavanda dei piedi,
consegna della veste bianca, signazione, eucaristia. Vi erano anche altri riti? Saxer sottolinea: «Il
silenzio di Ambrogio a loro riguardo non permette una risposta né affermativa né negativa». 67 Per lo
svolgimento dei riti battesimali, alle testimonianze letterarie si devono aggiungere quelle archeo-
logiche relative al battistero paleocristiano dalle quali emerge un profondo radicamento dell’azione
liturgica in un orizzonte che è biblico e cosmico allo stesso tempo (entrata nella vasca battesimale
da ovest per la rinuncia e uscita da est dopo la triplice immersione e professione di fede). In questa
trasformazione del battezzando per ritus et preces occupa un posto centrale il mistero della morte e
risurrezione di Gesù (a ciò si richiamano anche le iscrizioni del battistero e la forma ottagonale della
vasca battesimale).68

Con le testimonianze di Cromazio (t 407) e Rufino (f 410) i dati letterari sono arricchiti dalla
più ampia e consistente testimonianza archeologica relativa al complesso episcopale di Aquileia. 69
Del primo, vescovo di Aquileia nel periodo tra il 387-407 (circa), sono rilevanti per l’iniziazione
cristiana tanto l’opera omiletica come i due (o tre) trattati sul Vangelo di Matteo;70 del secondo le
reminescenze degli usi liturgici della Chiesa di Aquileia filtrate attraverso scritti successivi (in
particolare: Expositio symboli e Apologia contra Hieronymum) e utili per integrare la testimonianza
di Cromazio.

Cromazio ritiene ormai consolidata la distinzione tra le due fasi della preparazione del
catecumeno: il catecumenato (per i catechumeni), la Quaresima precedente l’iniziazione cristiana
(per i competentes). Come catecumeni, avendo ricevuto sulla fronte la signatio cruciforme, essi
fanno parte del popolo cristiano e sono invitati (come nel caso di Ambrogio a Milano) ad affrettarsi
verso la grazia del battesimo il quale libera dalle sozzure del peccato e rende perfettamente puri (cf.
Hom. XV, 6). Nelle sue omelie Cromazio non parla di una nomendatio anche se è plausibile
supporla. Saxer nota come alcune reminescenze lessicali di un’omelia dedicata alla passione del
Signore (cf. Hom. XIX, 6) lascino supporre la pratica di esorcismi prebattesimali in collegamento
con le formule di esorcismo di cui parla nei suoi scritti Cipriano di Cartagine. 71 E attraverso la
Expositio symboli di Rufino che si può conoscere il tenore della professione di fede in uso ad
Aquileia verso la seconda metà del IV secolo e dalle due apologie (contra Hieronymum e ad
Anastasium) si ha notizia indiretta dell’uso della tradìtio/reddìtìo symboli (forse è la red- ditio che si
conclude con un segno in forma di croce sulla fronte, signacu- lum fidei, cf. Apoi. c. Hier., 1,4.5 ed

66Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 532-533.


67Les rites de l’initiation, 343 (mia trad, dal francese).
68Cf. Les rites de l’initiation, 346.
69Cf. Les rites de l’initiation, 363-364.
70Cf. Les rites de l’initiation, 349-364.
71Cf. Les rites de l’initiation, 352.
Expositio symboli, 41).72 A sua volta Cromazio fa esplicito riferimento al rito della traditio orationis
dominicae (cf. Expositio orationis dominicae, l).73 Dall’esame di queste fonti non si hanno notizie
esplicite su altri riti prebattesimali (per es. degli scrutini). Per quanto concerne il battesimo, esso si
trova inserito in una sequenza di riti che vengono celebrati nel contesto della vigilia pasquale: la
rinuncia a satana, la lavanda dei piedi, il battesimo, la crismazione postbattesimale, l’imposizione
della mano, la consegna della veste bianca (altri riti non sono specificati). Sul lavacro battesimale le
notizie offerte da Cromazio a partire dai suoi sermoni sono indirette e conducono a ritenere che esso
avvenisse per triplice immersione, segno del lavacro spirituale e di rigenerazione a opera del
mistero della Trinità (cf. Hom. XIX, 2).74

Passiamo ora alle testimonianze provenienti dall’Oriente, tenendo conto che esse sono
molteplici e che possiamo offrirne solo un saggio.75 Le Constitutiones apostolorum, inquadrate da
Saxer nel gruppo dei testi canonico-liturgici siriani (insieme alla Didascalia apostolorum e al Testa-
mentum Domini), rappresentano una raccolta composita in otto libri di materiali provenienti da varie
fonti precedenti (principalmente: Didachè, Didascalia apostolorum, Traditio apostolica) redatta
verso la fine del IV secolo. Nel libro VII (cc. 1-28.39-45) sono presentati due rituali del battesimo.
Il primo (cc. 1-28) ha come base quanto già stabilito nella Didachè, il secondo riprende invece la
Traditio apostolica. Dall’esame del primo si evince una sequenza in tre fasi: la catechesi
prebattesimale (sulle due vie), il battesimo (e altri riti annessi, cf. c. 22,3), l’eucaristia con i neofiti.
Nel secondo rituale (cc. 39-45) si evidenziano due fasi di preparazione al battesimo: la prima di
durata indeterminata, la seconda nell’imminenza dell’iniziazione cristiana. La prima fase è segnata
dallo svolgersi della catechesi sul mistero e sull’opera di Dio fino ad arrivare, gradata- mente, alla
catechesi su Gesù Cristo, immediatamente preceduta dal rito di esorcismo (cf. cc. 39,4-5). Si entra
dunque nel tempo che prepara i noniniziati ai riti battesimali. Anche qui ha luogo una catechesi
attenta a presentarne i vari aspetti: la rinuncia a satana e l’adesione a Cristo (apotaghe e syntaghe),
la professione di fede (quella nicena con alcuni elementi di quelle di Antiochia e di Gerusalemme),
altri riti prebattesimali (l’unzione con l’olio e la relativa benedizione, la benedizione dell’acqua), il
lavacro battesimale, l’unzione crismale (e l’imposizione delle mani), la preghiera del Padre Nostro e
una preghiera di rendimento di grazie da parte del neofita.76 La situazione ecclesiale descritta dal
redattore delle Con- stitutiones sembra essere «nella giurisdizione di Antiochia, se non è nella città
di Antiochia».77 Nell’insieme tale documento come le altre due fonti liturgico-canoniche siriane
danno testimonianza di usanze rituali tradizionali che nella loro relativa omogeneità appaiono ben
radicate nel contesto specifico delle Chiese locali (soprattutto del patriarcato di Antiochia),
attraversate nel contempo dalle spinte separatiste connesse con il manifestarsi delle varie eresie
(ariana in particolare). «La capacità di resistenza del rituale è stata superiore agli urti dottrinali.
Laddove, in compenso, la flessibilità è stata nuovamente più grande, è nell’utilizzazione e
adattamento delle fonti liturgiche» 78

Con Teodoro di Mopsuestia (f 428) il quadro si arricchisce di ben sedici Omelie


catechetiche tenute quando egli era ancora prete ad Antiochia (prima del 392). Di queste un primo
gruppo di dieci è relativo alla presentazione del simbolo niceno (secondo una recensione
antiochena) e un altro gruppo di sei concerne la spiegazione dei sacramenti. «Il loro insieme
costituisce, [...] una testimonianza preziosa sulla liturgia dell’iniziazione cristiana nella metropoli
della provincia d’Oriente alla fine del IV secolo» 79 Nell’insieme esse sono riferite, a parere quasi

72Cf. Les rites de l’initiation, 355 (nota 279). Cf. anche ibidem, 363.
73Cf. Les rites de l’initiation, 355-356.
74Saxer annota che gli usi di Aquileia si possono ritenere, anche in assenza di informazioni più dirette e precise (per es. sulla
modalità della professione di fede), simili a quelli di Milano, di Gerusalemme o di Antiochia nello stesso periodo, cf. SAXER, Les
rites de l’initiation, 361.
75Dopo Origene occorrerebbe prendere in considerazione anche VItinerarium di Egeria, le omelie e catechesi di Giovanni
Crisostomo e le catechesi di Cirillo (e di Giovanni) di Gerusalemme, cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 145ss.
76Cf. Les rites de l’initiation, 221-232.
77Les rites de l’initiation, 232 (mia trad. dal francese).
78Les rites de l’initiation, 239 (mia trad. dal francese).
79Les rites de l’initiation, 268 (mia trad. dal francese). Perl’insieme cf.ibidem, 267-296.1 testi
delle catechesi sono citati secondo l’ed. di R. TONNEAU e di R. DEVREESSE, cf. ibidem, 19.
unanime, al periodo prebattesimale (salvo forse le ultime due sull’eucaristia). I destinatari sono i
catecumeni nel tempo più impegnativo della loro immediata preparazione al battesimo (circa trenta
giorni prima di Pasqua a partire dalla onomatographia, prassi già attestata da Giovanni
Crisostomo). Di elevato contenuto teologico, tali testi sono invece piuttosto limitati nella
descrizione dei riti, salvo quelli relativi alle consegne del Simbolo e del Pater. Nell’iscrizione del
nome in vista del battesimo, dal significato analogo all’atto dello straniero che chiede la
cittadinanza, è richiesta una testimonianza da parte di un garante sullo stile di vita del candidato
durante il precedente tempo del catecumenato (cf. XII, 14-15). Di grande espressività retorica il
«processo intentato a satana» durante il rito d’esorcismo che segue l’iscrizione. Gli esorcisti fanno
valere la vittoria di Cristo morto e risorto contro gli ingiusti diritti accampati da satana a partire del
peccato di Adamo. I catecumeni sono svestiti e a piedi nudi per attestare la loro condizione di
prigionieri al servizio del diavolo (cf. XII, 24) e come tali si rimettono mediante l’azione degli
esorcisti alla pietà di Dio. Spetta agli esorcisti durante tale «processo» smascherare satana e
mostrare come egli ha usurpato i diritti di Dio su Adamo e su ogni uomo. Ad esso seguiranno anche
altri esorcismi sviluppati sullo stesso filo conduttore. Le due consegne (del Credo e del Pater) non
vengono descritte sotto l’aspetto rituale e sono date per acquisite (cf. I-XI). La redditio sym- boli,
fatta in presenza del vescovo (cf. XII), conclude Viter catecumenale ed è posta come a cerniera della
preparazione più immediata al battesimo. Dall’omelia catechetica sul battesimo (cf. XIII) si ha
notizia della rinuncia a satana, della professione di fede (in forma di voto) e dell’unzione frontale
del catecumeno fatta dal vescovo a significare la condizione di libertà e dignità dinanzi a Dio del
catecumeno nella sua nuova condizione di familiare e soldato di Gesù Cristo. Nella veglia
battesimale (cf. XIV) hanno luogo l’unzione del corpo, il lavacro battesimale, la consegna della
veste bianca, la signado postbattesimale. La formula battesimale, in forma indicativa, proclama che
il tale catecumeno «è battezzato» nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Il vescovo
pone la mano sul capo del battezzando e, dopo l’invocazione del nome di ciascuna persona della
Trinità, lo fa immergere nell’acqua, precedentemente benedetta. Il tema sviluppato dalla catechesi
battesimale riprende da vicino i testi di Gv 3,1-8 e di Rm 6,3-4, ponendo bene in evidenza che il
lavacro per mezzo dell’acqua comporta una vera rigenerazione che è operata dallo Spirito e una
partecipazione al mistero della morte-sepoltura-risurrezio- ne di Gesù. La vasca battesimale è al
contempo tomba dell’uomo vecchio e grembo fecondo per l’inizio della vita nuova che ora il
neofita è chiamato a vivere. L’uso della formula indicativa (anche per la signatio mediante unzione
sulla fronte da parte del vescovo) è l’esplicita manifestazione della consapevolezza che i riti sono
compiuti «nel nome» delle persone divine da cui unicamente proviene la grazia della salvezza. I
battezzati vengono quindi ammessi alla mensa eucaristica per ricevere mediante la partecipazione al
sacrificio di Cristo morto e risorto il nutrimento loro appropriato (cf. XV, 1). Teodoro «mette così in
un parallelo estremamente suggestivo battesimo ed eucaristia, tutti e due memoriale della morte,
della sepoltura e della risurrezione del Cristo».80

Con Basilio di Cesarea (f 379) ci spostiamo in Cappadocia, luogo geografico rilevante per il
collegamento fra l’Oriente e l’Occidente e per conoscere gli sviluppi della prassi battesimale. La
sua testimonianza, come quella degli altri padri cappadoci (Gregorio di Nazianzo f 379 e Gregorio
di Nissa t 394), emerge soprattutto da scritti strettamente legati alla predicazione.81 Nel caso di
Basilio Magno si tratta fondamentalmente del De baptismo (datato verso gli ultimi anni della sua
vita) e di un’omelia sul battesimo (cf. Hom. XIII) 82 II primo scritto ha la natura di un trattato
composto da due libri distintamente dedicati a commentare i due aspetti del mandato di Gesù in Mt
28,1: insegnare e battezzare. Dal primo libro si può riconoscere che Basilio riprende la sequenza
dell’iniziazione cristiana in tre parti: catechesi, battesimo, eucaristia. Per i catecumeni la catechesi
implica una dimensione morale e ascetica necessaria per abbandonare le abitudini di questo mondo

80Saxer, Les rites de l’initiation, 295 (mia trad. dal francese). Per un confronto con gli usi battesimali antiocheni testimoniati da
Giovanni Crisostomo, cf. ibidem, 291-296.
81Per un quadro sinottico dei dati sul catecumenato e sugli usi battesimali negli scritti dei padri cappadoci, cf. SAXER, Les rites de
l’initiation, 314 -315.
82Per il testo dell’omelia basiliana, cf. PG 31,423-446. Il testo del De baptismo è citato secondo l’edizione in lingua italiana curata
da U. NERI, Opere ascetiche di Basilio di Cesarea, Utet, Torino 1980,513ss.
e volgersi al Dio vivente.

Se crediamo a queste cose, liberati prima dall’oppressione del diavolo, con l’astensione da
ogni cosa bramata dal diavolo - per grazia di Dio mediante Gesù Cristo nostro Signore, a meno che
non abbiamo ricevuto invano tale grazia - e in seguito avendo rinunciato non soltanto al mondo e
alle sue concupiscenze, ma anche alle giuste convenienze reciproche, anzi anche alla nostra stessa
vita, quando una di tali cose ci distolga dalla irremovibile e rapida ubbidienza dovuta a Dio, a quel
punto siamo ritenuti degni di diventare discepoli del Signore (De bapt. 1,1).

Essa comporta in seguito anche una più specifica introduzione alle verità della fede a partire
dalla s. Scrittura, sviluppate sulla falsariga del testo del simbolo (cf. ibidem). La seconda parte del
primo libro è dedicata al battesimo al quale si può essere candidati solo essendo prima diventati
discepoli (cf. 1,2). Con il lavacro battesimale si ha accesso al regno di Dio essendo generati «di
nuovo [...] da acqua e Spirito» 83 Al confronto con il battesimo «secondo Mosè e quello di
Giovanni» Basilio fa dunque seguire sulla base delle testimonianze del NT (in particolare: Gv 3,3.5;
Mt 28,19; Rm 6,3-11) la presentazione del battesimo cristiano il quale «ha natura superiore a ogni
realtà umana, e gloria più alta di ogni brama e voto d’uomo, e superiorità di grazia e potenza più
grande di quanto non abbia il sole rispetto alle stelle» (ibidem). All’evento battesimale si è condotti
dalla stessa grazia di Dio la quale opera come grazia preveniente (cf. ibidem) e conduce i
catecumeni a quel lavacro che li trasforma, come il fuoco che tempera e rende duttile il ferro nelle
mani dell’artista. Il battesimo in acqua è battesimo nel fuoco della parola dell’insegnamento che
purifica e nella potenza del sangue di Cristo che redime dai peccati (cf. ibidem). Esso è battesimo
nella morte del Signore (cf. TRm 6,3, cf. ibidem) e finalmente esso spalanca le porte della vita
nuova in Cristo risorto (cf. ibidem) nell’attesa della gloriosa risurrezione (cf. ibidem 545). L’evento
battesimale è così il fondamento sacramentale della vita di grazia secondo la fede, la carità e la
speranza e, come annota Saxer, «la responsabilità morale ha dunque una radice battesimale, ciò vale
anche per i pastori, e le sue conseguenze ultime possono essere talvolta estreme». 84 Un’ultima
sezione della seconda parte del primo libro è tutta dedicata al rapporto tra ciascuna persona divina e
il lavacro battesimale, cominciando dallo Spirito Santo, passando al Figlio per arrivare al Padre (cf.
ibidem). Lo Spirito rende capaci di vivere secondo Cristo e questi dà il potere di diventare figli di
Dio Padre: l’opera trinitaria nel battesimo è congiunta e allo stesso tempo caratterizzata dal distinto
operare di ciascuna persona divina in relazione a un particolare effetto della grazia battesimale. Ne
viene una visione antropologica animata da una dimensione soprannaturale fortemente radicata nel
mistero della comunione e dell’unità delle persone divine. L’ultima parte del primo libro, come
accennato sopra, passa a trattare l’eucaristia (i santi misteri in senso liturgico-sacramentale) come
nutrimento per la crescita del neofita (cf. 1,3). Tutto il libro secondo prosegue la riflessione sul
battesimo alla luce di tredici questioni che toccano diversi aspetti della vita cristiana (cf. II). 85 Sul
modo di amministrazione del battesimo possono venire in aiuto alcune immagini che Basilio
utilizza per parlare del lavacro battesimale: la lana che «immersa nella tintura, si trasforma nel
colore» (cf. 1,2), il ferro immerso nel fuoco e reso duttile per essere lavorato «dalle mani
dell’artista» (cf. ibidem). Le due immagini fanno pensare all’immersione 86

L’omelia sul battesimo, brevemente presentata da Saxer, offre alcuni dati ulteriori sulla
prassi battesimale: la preferenza da accordare alla Pasqua per la celebrazione del battesimo, il
solenne appello al battesimo da farsi in tempo previo (Epifania? inizio della Quaresima?), la prassi
da parte di alcuni catecumeni di rimandare il battesimo da un anno all’altro, la richiesta di iscriversi
tra i candidati (onomatographia), il battesimo in pericolo di morte come caso estremo di cui non
approfittare per evitare di prendere in tempo utile la decisione di essere battezzati. 87 Tenendo conto

83Chiaro il richiamo a Gv 3,3.5.


84Saxer, Les rites de l’initiation, 299 (mia trad. dal francese).
85Cf. NERI (ed.), Opere ascetiche di Basilio di Cesarea, 22-23. In particolare la prima riprende un tema esplicitamente battesimale,
«Se chiunque è stato battezzato nel battesimo che è nel vange
lo del nostro Signore Gesù Cristo sia tenuto a essere morto al peccato, e a vivere per Dio in Cristo Gesù», 11,1, in ibidem,
574-576.
86Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 301-302.
87Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 302-304.
anche di altri scritti di Basilio (De Spiritu Sancto, Contra Euno- mium) e anche di Gregorio di Nissa
(in particolare dell’omelia Adversus eos qui differunt baptismum, pronunciata il giorno dell’Epifania
del 383),88 il quadro dello svolgimento del rito battesimale in Cappadocia sulla fine del IV secolo si
arricchisce di altri dati utili: l’illuminando emette la professione di fede, è immerso nell’acqua
precedentemente benedetta mentre a ogni immersione è legata la proclamazione del nome di
ognuna delle tre persone divine (come ad Antiochia), viene segnato sulla fronte e, rivestito
dell’abito del neofita, può partecipare ai santi misteri. L’unzione con olio benedetto, senza parlare
esplicitamente di crismazio- ne, fa pensare in Basilio al rito dell’unzione prebattesimale, ad essa è
allora collegata la rinuncia a satana di cui tuttavia egli non dà l’esatta formulazione.89

Gli sviluppi successivi della prassi battesimale sono marcati dall’intervento autorevole di
alcuni papi. Si tratta di lettere che come tali «sono destinate a fare giurisprudenza, esse si
riferiscono spesso le une alle altre e riceveranno in seguito il nome di decretali» 90 Tra queste Saxer
annovera una lettera del papa Damaso (o Siricio?) ai vescovi delle Gallie, una lettera di Siricio al
vescovo Imerio di Tarragona (10 febbraio 385), la lettera di papa Innocenzo I al vescovo di Gubbio
Decenzio (16 marzo 416), un’altra di papa Gelasio I ai vescovi della Lucania, dell’Abruzzo e della
Sicilia, una di papa Vigilio al vescovo di Braga Profuturo (databile all’anno 538) e alcune lettere di
papa Gregorio Magno. Un posto a parte meritano i sermoni di papa Leone Magno (440-461) dai
quali più che attendersi informazioni sulla prassi rituale si può ricavare una ricca teologia
dell’iniziazione cristiana, esposta nella predicazione rivolta «a un’assemblea di fedeli iniziati da
lunga data»,91 in occasione dei tempi forti dell’anno liturgico (Natale, Quaresima, Settimana santa,
Pasqua). Per la conoscenza dell’antica liturgia romana, e dunque della relativa prassi battesimale, un
posto di rilievo spetta alla lettera del diacono di Roma Giovanni indirizzata a Senario di Ravenna,
databile verso l’anno 500.92 Accostiamoci più da vicino ad almeno due di queste testimonianze: la
lettera di papa Siricio a Imerio di Tarragona e la lettera del diacono Giovanni, appena menzionata.93

Dal primo documento si viene a conoscenza del diffondersi della prassi dei battesimi
«collettivi» (da intendersi con la presenza di molti candidati) praticati senza alcuna autorizzazione
in date liturgiche non conformi agli usi stabiliti che limitano tale possibilità alla domenica di Pasqua
e alla cinquantina pasquale e sempre secondo una prassi ordinata (iscrizione al battesimo almeno
quaranta giorni prima, riti di esorcismo, preghiere quotidiane e digiuni). In alcune situazioni di
emergenza (sia per i neonati come per gli adulti in pericolo di vita) la grazia del battesimo,
necessaria per la salvezza, non deve essere né procrastinata, né tanto meno negata, anzi «si venga in
soccorso con tutta prontezza» (Denz 184). In questi casi viene meno l’esigenza di rispettare la
solennità dei riti prevista per le situazioni ordinarie del battesimo individuale e per quelle
straordinarie del battesimo «collettivo».94 Del tutto priva di fondamento è poi la prassi di
«battezzare di nuovo» coloro che hanno ricevuto il battesimo da ministri eretici (gli empi ariani),
«ciò non è lecito» (Denz 183). Già in questo senso si era pronunciato precedentemente Agostino nel
contesto dell’accesa disputa con i donatisti, dirimendo la questione con l’introduzione della
distinzione tra battesimo valido e fruttuoso. Il primo ha la sua validità, anche se amministrato da un
ministro eretico (o scismatico), perché celebrato nella fede della Chiesa ed essendo Cristo il
ministro del sacramento. Se ricevuto da un eretico (o scismatico), esso diviene fruttuoso solo
quando egli abbandona i suoi errori e si riconcilia con la Chiesa mediante l’imposizione delle mani
da parte del vescovo.95 Non è dunque concepibile un secondo battesimo dato che quello ammi-
88Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 308-312. Non riprendiamo il confronto con le testimonianze di Gregorio di Nazianzo relative
agli usi battesimali di Costantinopoli, cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 304-308 (il testo fondamentale è l’Orario XL in sanctum
baptisma)323-328.
89Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 319-320.
90Saxer, Les rites de l’initiation, 570 (mia trad. dal francese).
91Saxer, Les rites de Vinitiation, 585 (mia trad. dal francese).
92Per l’approccio a tale documento, cf. anche A. NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», in Anamnesis 3/1, Marietti,
Genova 1986,41-43.
93Omettiamo di passare in rassegna tutta un’altra ampia raccolta di testimonianze: Cesario e le Gallie, Isidoro e la Spagna visigotica,
VEucologio di Serapione e l’Egitto, cf. SAXER, Les rites de l’i- nìtiation, 489ss.
94Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 576. Il battesimo «collettivo» vede la partecipazione di così tanti candidati da essere descritto
come battesimo di folle innumerevoli.
95È la via seguita da papa Stefano I nella disputa con Cipriano di Cartagine, cf. Courth, I Sacramenti, 132.
nistrato ha già prodotto un vincolo permanente con la Trinità al punto da segnare profondamente e
irrevocabilmente il battezzato (il «carattere» battesimale). Il tema della «fruttuosità» del sacramento
approfondisce il senso dell’efficacia della grazia battesimale evitando ogni automatismo e ponendo
in luce l’esigenza di una fede personale retta e di una conversione autentica che il battesimo (anche
dei bambini), celebrato nella fede della Chiesa, viene a sostenere e ad esigere. La celebrazione del
battesimo è da ritenersi valida quando conforme alla struttura del segno sacramentale contenuta
nella regula ecclesiastica: l’elemento rappresentato dall’acqua unito alla parola che lo qualifica e
determina (elementum et verbum; cf. Agostino, In Jo. Ev. 80,3). Anche un cristiano laico, osservan-
do queste condizioni, può celebrare validamente il battesimo.96 Sulla stessa linea di Agostino si situa
in parte anche il concilio di Costantinopoli (381) (cf. canone VII).97 Solo se il battesimo non è stato
corretta- mente amministrato (sia per il modo: una sola immersione; sia per difetto della formula
battesimale) tali eretici, di cui si specifica la tipologia, devono essere accolti «come se fossero dei
gentili» (ibidem) e avviati al catecumenato e dunque al battesimo.

Nel secondo documento il diacono Giovanni (identificato da M. Andrieu con papa Giovanni
I, 523-526), rispondendo ad alcuni quesiti tratta senza intento sistematico anche delle questioni
relative alla prassi battesimale: il significato del catecumenato e il suo fondamento scritturi- stico, il
significato degli scrutini in generale e in particolare nel rito previsto per i fanciulli, il diritto
riservato solo al vescovo di consacrare il crisma, l’uso di mettere latte e miele nel calice durante
l’eucaristia pasquale. La prima questione è svolta con una certa ampiezza e attraverso la risposta si
può avere un’idea della liturgia battesimale a Roma all’inizio del VI sec. È riproposta la
tripartizione nota: catecumenato, preparazione dei competenti, riti battesimali. Rispetto al periodo
d’oro il catecumenato appare povero di istruzione specifica e manca una vera e propria entrata nel
catecumenato dal momento che i candidati sono nella maggior parte dei neonati. I riti da una parte
si sviluppano unendo elementi tra loro prima distinti (imposizione del sale con il quale si segna il
catecumeno, in Agostino la signazione cruciforme è distinta dall’imposizione del sale) e dall’altra
nel loro insieme diminuiscono. Per la celebrazione del battesimo vengono sottolineati alcuni riti: la
deposizione degli abiti e delle calzature prima del lavacro, la triplice immersione, la consegna della
veste bianca, la crismazione del capo (unito alla copertura dello stesso con un velo bianco). A
ognuno di questi riti è unita una particolare lettura in chiave simbolica (l’immersione in particolare
è letta in riferimento alla risurrezione di Gesù il terzo giorno). Tale prassi battesimale vale per gli
adulti e per i fanciulh con l’annotazione che per questi ultimi le risposte sono date da coloro che li
hanno presentati per il battesimo (genitori o altre persone).98

Nel corso del V-VI secolo la situazione politico-religiosa nell’Europa occidentale si è venuta
modificando radicalmente a causa della fine dell’impero romano d’occidente e dell’arrivo di nuovi
popoli che attraverso migrazioni dal nord e dall’est si stabilizzano nel continente europeo creando
realtà politiche nuove che domandano di integrarsi - non sempre pacificamente se si pensa al
martirio degli evangelizzatori del centro e nord Europa e alla difficile missione verso il continente
dei monaci provenienti dalla Gran Bretagna e dall’Irlanda - con la religione cristiana senza tuttavia
lasciare definitivamente le pratiche e gli usi pagani. Sempre più spesso si assiste al fenomeno della
conversione e del battesimo di un capo (re, principe, signore locale) al quale è associato anche il
«battesimo» dei sudditi. La ricerca dell’unità politica va di pari passo con quella dell’unità religiosa.
A ciò si deve aggiungere che nei territori occupati dalle nuove popolazioni le comunità cristiane
precedentemente fondate sono ormai per lo più costituite da cristiani battezzati da neonati o da
fanciulli (anche a causa dell’alta mortalità infantile il battesimo, necessario alla salvezza dell’anima,
viene amministrato quanto prima). Il duplice fenomeno della conversione di massa e della
prevalenza del pedobattesimo mette in ombra l’istituto del catecumenato e causa di riflesso anche
una nuova comprensione del battesimo.99 Di tale situazione si può avere un’idea più concreta nel
96Per la validità di un battesimo amministrato da un non cristiano, Agostino è perplesso e ritiene che tale problema dovrebbe essere
affrontato da un concilio, cf. COURTH, I sacramenti, 134.
97Cf. COD, 35.
98Cf. SAXER, Les rites de Vinitiation, 593-594.
99Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 529.
prendere in considerazione più da vicino il battesimo del re Clodoveo (498 o 499) e la realtà delle
Gallie in quel periodo. Se i gallo-romani residenti sono per lo più già divenuti cristiani cattolici
mediante il battesimo ricevuto da bambini, i franchi non tardano a unirsi al loro re e a fondare così
le premesse per un nuova unità politico-religiosa. Annota Saxer: «I soli non-battezzati finiranno per
essere gli ebrei».100 In tale contesto il battesimo viene amministrato in luoghi decentrati dal
battistero della cattedrale e non più ordinariamente dal vescovo ma da preti ai quali è affidata la
cura d’anime della plebs di un determinato vicus. Sempre più a decidere della data della
celebrazione è il pericolo di vita per i neonati e non una scadenza liturgica fissa (la Pasqua o la
cinquantina successiva). L’intervento costante di vescovi come Cesario di Arles nel sottolineare la
funzione educativa dei genitori, dei padrini e delle madrine diviene necessario per assicurare uno
stile di vita cristiana di alto profilo spirituale e morale, avendo perso di fatto il catecumenato la sua
peculiare funzione catechetica e di apprendistato della vita cristiana.101 Per i riti postbattesimali si
assiste da una parte al richiamo costante di vescovi e sinodi locali sull’unzione postbattesimale da
farsi con il crisma consacrato dal vescovo e dall’altra al fatto sempre più generalizzato dello
slittamento della confermazione e dell’eucaristia in una data successiva al lavacro battesimale. 102
Nell’insieme tutto l’assetto dei riti legati all’iniziazione cristiana viene a risentire negativamente
della povertà della catechesi, ormai sempre più limitata ai genitori, ai padrini e alle madrine in
occasione del battesimo dei neonati o dei fanciulli.103

Sullo sfondo dell’evoluzione della prassi rituale intervengono anche dispute teologiche e
dottrine eretiche che attraversano in profondità la vita delle Chiese nel V-VI secolo: sul piano
cristologico la diffusione del- Farianesimo nell’area germanica e visigotica, sul piano soteriologico
il pelagianesimo e il semipelagianesimo, legati più al Nordafrica e alla Gal- lia del sud. Le questioni
sorte in ambito semipelagiano sulla necessità, gratuità e prevenienza della grazia in rapporto alla
fede e ai suoi primi inizi nella vita dell’uomo portano il II concilio di Orange (529), presie duto da
Cesario di Arles, a stabilire che è avversario degli insegnamenti apostolici chi dice che come la
crescita, così anche l’inizio della fede e della stessa inclinazione a credere, con la quale crediamo
in colui che giustifica l’empio e perveniamo alla [ri]generazione del sacro battesimo, è in noi non
per il dono della grazia, cioè per ispirazione dello Spirito Santo che corregge la nostra volontà
dall’incredulità alla fede, dall’empietà alla pietà, ma per natura (can. 5, in Denz 375; cf. anche can.
8, in Denz 378).

Sul finire del VI secolo il battesimo comincia a presentarsi, almeno nella prassi delle Chiese
dell’Occidente, come realtà sempre più a sé stante rispetto a tutto il complesso dell’iniziazione
cristiana (in particolare rispetto all’unzione crismale conferita dal vescovo e all’eucaristia). La
confermazione con la signatio sulla fronte tende ad assumere la fisionomia di un rito autonomo
riservato al vescovo e differito a una data successiva al battesimo ricevuto da adulti e bambini in
sedi decentrate dal battistero della cattedrale e in occasioni diverse dalle ricorrenze liturgiche della
Pasqua e della Pentecoste.104 Al presbitero compete l’unzione sulla nuca dopo il battesimo con il
crisma consacrato dal vescovo: tenue legame con la prassi antica che associava o fondeva i due riti
in un’unica celebrazione presieduta dal vescovo con i presbiteri e i diaconi. I candidati sono in
numero crescente neonati o fanciulli e anche quando sono adulti il cammino di conversione non
riesce a mantenere il livello impegnativo del catecumenato dei secoli precedenti.105 La conversione
collettiva o in massa delle nuove popolazioni, insediate ormai da tempo nel territorio dell’antico
impero romano, non può che costituire un ulteriore fattore di indebolimento dell’istituto
100Saxer, Les rites de l’initiation, 505 (mia trad. dal francese).
101Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 512-525.632-633.
102II sacramentario gelasiano del VI secolo offre uno spaccato liturgico degli usi della Chiesa di Roma dove l’unzione
postbattesimale è compiuta prima dal prete e poi dal vescovo, cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 621.
103Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 635.
104Cf. O. PASQUATO, «Quale tradizione per l’iniziazione cristiana? Dall’età dei padri all’epoca carolingia», in Iniziazione cristiana
degli adulti oggi, 95-96.
105Cf. PASQUATO, «Quale tradizione per l’iniziazione cristiana?», 96. L’Autore mette in evidenza come il diventare cristiani assuma
nel periodo tardo-antico e poi nell’alto medioevo la duplice valenza civile ed ecclesiastica: si diventa membri di una societas e della
Chiesa. «Si perviene ad una forma di laicizzazione del battesimo, per cui i fedeli laici sono poco coscienti, a motivo di un siffatto
battesimo, del loro vero ruolo nella Chiesa», ibidem, 96.
catecumenale.

Da un altro versante le dispute sulla grazia e sugli inizi della fede intervengono nella
comprensione del battesimo ponendone in risalto la natura di dono che viene gratuitamente da Dio.
Prassi e dottrina battesimale sembrano convergere nella medesima accentuazione dell’iniziativa
divina lasciando di fatto cadere ciò che il catecumenato, pur con i suoi limiti, tendeva a sottolineare
nell’offrire ai candidati un vero apprendistato alla vita cristiana ben radicato nell’ascolto della
parola di Dio e nelle esigenze concrete di conversione che essa poneva sul piano esistenziale. Dal
«cristiani si diventa» si va sempre più verso il «cristiani si nasce». La lunga gestazione della
conversione nel grembo della Chiesa madre non è più avvertita in tutta la sua ricca realtà
ministeriale e sacramentale legata al vivace dinamismo della Chiesa locale. Il rito battesimale non è
più presieduto ordinariamente dal vescovo ma da un presbitero in una sede parrocchiale decentrata
rispetto al battistero della cattedrale: la qualità della formazione prebattesimale ne risente
notevolmente ed è sempre più legata ai genitori o a chi presenta i bambini per il battesimo (l’istituto
del padrinato si consolida e si rafforza notevolmente). 106 I riti prebattesimali tendono ad affastellarsi
e a perdere la loro genuina comprensione storico-salvifica.107

La tematica battesimale della salvezza dell’anima diviene prevalente su altre dimensioni


fondamentali che strutturano già nella storia la novità di vita del neofita. La salvezza eterna va
assicurata quam primum ai neonati che, vista l’alta frequenza di mortalità infantile, rischiano di
morire nel peccato originale, senza aver ricevuto la grazia della giustificazione.108 Temi battesimali
come la liberazione dal peccato originale e la salvezza dell’anima, ricorrenti anche nella precedente
tradizione teologica, assumono un ruolo di primo piano. Nel frattempo è cominciata a sorgere anche
una nuova prassi penitenziale che dal rigore della non reite- rabilità tipico dell’iter di riconciliazione
della penitenza canonica va verso la reiterabilità della confessione dei peccati in vista
dell’assoluzione secondo il modello insulare della penitenza tariffata. Non è un caso che la
decadenza dell’istituto catecumenale vada di pari passo con la crisi della penitenza canonica. In
tutte e due le situazioni viene meno il profilo di un iter di conversione ben strutturato nell’alveo
della comunità ecclesiale. Il battesimo da magna indulgentia (Agostino d’Ippona),109 che l’adulto
riceve per tutti i peccati commessi nella vita precedente (originale e personali) in vista di una nuova
testimonianza di vita, diviene, soprattutto a causa del graduale prevalere del pedobattesimo,
liberazione dal peccato originale in vista di una vita nella quale la conversione deve effettuarsi dopo
il sacramento, avvalendosi anche dell’aiuto offerto dalle nuove forme della disciplina penitenziale.
Il battesimo non è quasi più collocato alla svolta di un iter di conversione ma o la presuppone senza
verificarne la reale serietà (le conversioni collettive o in massa) o ne rappresenta l’inizio (il
pedobattesimo) che la Chiesa (la parrocchia) cercherà di sviluppare attraverso l’educazione cristiana
dei fanciulli, dei loro genitori e dei padrini.

2. La via orientale dell’iniziazione cristiana

Nel corso dello sviluppo e dei cambiamenti della prassi dell’iniziazione cristiana le Chiese
dell’Oriente cristiano hanno mantenuto ferma la stretta unità celebrativa dei tre sacramenti che la
caratterizzano: battesimo/ crismazione/eucaristia.110 Il neofita, sia egli adulto, bambino o neonato,
entra nella vita della Chiesa attraverso una celebrazione liturgica nella quale è dapprima battezzato,
poi crismato e infine introdotto alla comunione eucaristica.

106Cf. PASQUATO, «Quale tradizione per l’iniziazione cristiana?», 98.


107Si veda a questo proposito la tendenza allegorizzante dello Pseudo-Dionigi, cf. Saxer, Les rites de Vinitiation, 451ss.
108Sulla dottrina del «peccato originale» e sui suoi riflessi nella dottrina battesimale, cf. A. TRAPÈ, «Peccato originale», in
Dizionario patristico e di antichità cristiane, II, 2725-2729. Cf. anche PASQUATO, «Quale tradizione per l’iniziazione cristiana?», 96-
97 (sul quamprimum in epoca precarolingia e carolingia).
109Cf. PL 40, 262.
110Per una sintesi sull’evoluzione dell’iniziazione cristiana in Oriente, cf. R. CABIÉ, «L’iniziazione cristiana», in A.G. MARTIMORT
(ed.), La Chiesa in preghiera. Introduzione alla Liturgia, 3:1 sacramenti, Queriniana, Brescia 1987, 96-103. Cf. anche TENA -
BOROBIO, «I sacramenti dell’iniziazione cristiana», 69-71.
Questa unità celebrativa rivela la sua profonda coerenza con la riflessione teologica della
prima tradizione della Chiesa che vede nel battesimo la porta d’ingresso della vita cristiana, nella
crismazione (conferita dal presbitero con il crisma consacrato dal vescovo) il dono plenario dello
Spirito, nell’eucaristia la piena partecipazione al mistero della salvezza nella comunione ecclesiale.
Posta al vertice dell’iniziazione l’eucaristia ne rappresenta il compimento e al tempo stesso
introduce al dinamismo di crescita della vita cristiana e si manifesta come vero sacramento della
maturità.

Ora è chiaro che anche in Oriente la diffusione e la graduale prevalenza del pedobattesimo
comportano una rivisitazione dell’istituto cate- cumenale e in parte anche una sua decadenza,
analoga alla situazione che si verifica con sue proprie peculiarità in Occidente. 111 Tuttavia tale pas-
saggio non viene a incidere sull’unità del complesso iniziatico battesimale: l’ordine mantiene la sua
struttura ternaria e in particolare il rito della crismazione non diviene un rito autonomo separato dal
battesimo e dalla prima partecipazione all’eucaristia. Nelle Chiese dell’Occidente lo stretto legame
tra il rito della confermazione e il suo conferimento da parte del vescovo portano invece a desituare
tale rito dal legame originario con il lavacro battesimale e l’eucaristia112 II venire meno di tale
raccordo nell’unità celebrativa spinge a non avvertire più i tre sacramenti come parti integranti
dell’unità sacramentale dell’iniziazione cristiana, anche se, come osserva giustamente Ruffini,
«siamo ancora lontani da una riflessione teologica che distingue nettamente il sacramento della
confermazione da quello del battesimo».113 Anzi, a dispetto della prassi che in Occidente va
prendendo la strada della separazione, tanto neìYOrdo romanus XI come nel Sacramentario
Gelasiano «l’iniziazione si realizza con l’amministrazione dei tre sacramenti in un’unica
celebrazione, in cui si susseguono battesimo, confermazione ed eucaristia».114

Per l’insieme dei riti dell’iniziazione le diverse famiglie liturgiche orientali offrono un
quadro di stretta somiglianza con gli usi liturgici occidentali (liturgia romana, ispanica, gallicana,
milanese). Le differenze, rimarcate da Nocent, sono le seguenti:

L’olio per l’unzione prebattesimale è benedetto in ogni battesimo, così pure l’acqua
battesimale. Fino ad oggi è rimasto l’uso quasi esclusivo del battesimo per immersione con la
formula. N... è battezzato nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. L’Oriente ha sempre
posseduto una liturgia della Parola unita alla celebrazione dell’iniziazione, e la scelta dei brani
biblici era fatta in modo tale da facilitare la spiegazione dei riti che si celebravano. [...] Il rito
comprende un’unzione prebattesimale: si unge il capo e tutto il corpo. Per gli orientali questo rito
significa che il candidato acquista la qualità di re e sacerdote. [...] Nel rito bizantino l’unzione post-
battesimale, compiuta abitualmente dallo stesso sacerdote, è ritenuta il sacramento della
confermazione. Anche l’eucaristia viene data al battezzato, pur trattandosi di un neonato.115

Ed è questa unità dei tre sacramenti che in Occidente verrà gradatamente a perdersi prima
nella prassi, poi nella stessa codificazione liturgica e anche nella riflessione teologico-sacramentale.

Ripercorrendo le testimonianze dei padri e della liturgia della tradizione bizantina fino alla
riflessione teologica di Nicola Cabasilas (1322- 1391/1398) il teologo ortodosso contemporaneo
Sava-Popa sottolinea la fedeltà e continuità delle Chiese dell’Oriente con la prassi dell’iniziazione
cristiana della Chiesa antica: «La stessa regola è rispettata fino ad oggi in tutte le Chiese orientali
(comprese le Chiese non-calcedonesi). [...] La Chiesa primitiva ha concepito, sentito e praticato
sempre e dovunque l’iniziazione cristiana come una sola e grande azione sacramentaria, indivisibile
nella sua essenza, ma realizzata in tre momenti consecutivi». 116 Si tratta dunque di una fedeltà
111Cf. A. NOCENT, «Iniziazione cristiana», in Nuovo Dizionario di Liturgia, Edizioni Paolino, Roma 21984,685-686.
112Sulla comparsa della terminologia «confirmatio» in Occidente, cf. RUFFINI, «Iniziazione cristiana», 669.
113RUFFINI, «Iniziazione cristiana», 669.
114NOCENT, «Iniziazione cristiana», 684.
115Nocent, «Iniziazione cristiana», 685-686. Cf. anche il saggio di L. Ligier, La Confermazione. Significato e implicazioni
ecumeniche ieri e oggi, ED, Roma 1990 (ed. or.: Paris 1973).
116G. SAVA-POPA, Le Baptème dans la tradition Orthodoxe et ses implications oecuméniques (Cahiers CEcuméniques 25), Éd. Univ.
de Fribourg (Suisse) 1994,153 (mia trad, dal francese). L’opera fondamentale di N. CABASILAS, De vita in Christo, offre
indirettamente uno spaccato sui tre sacramenti dell’iniziazione cristiana, cf. J. MEYENDORFF, La teologia bizantina. Sviluppi storici e
temi dottrinali, Marietti, Casale Monferrato (AL) 1984,231. Cf. più avanti Excursus.
disciplinare (la taxis della celebrazione) strettamente raccordata e radicata con un dato teologico-
sacramentale ben preciso e fortemente ancorato nella tradizione della Chiesa indivisa dei primi
secoli. Solo da questa articolazione unitaria si può sviluppare in modo appropriato e fecondo la
teologia di ciascuno dei tre sacramenti, evitando l’errore di isolare tanto la
crismazione/confermazione e soprattutto l’eucaristia dall’insieme dell’iniziazione cristiana.117

La rigenerazione battesimale si compie mediante l’amministrazione del sacramento del


battesimo, seguito dalla crismazione. È lo Spirito Santo, effuso a Pentecoste, che opera nell’uomo
questa rigenerazione secondo la sua azione vivificante e unificante. Nel battesimo lo Spirito genera
l’uomo nuovo rendendolo partecipe del Corpo mistico di Cristo e nella crismazione si effonde sul
battezzato per riempirlo della sua presenza e renderlo partecipe dell’unzione di Cristo al Giordano.
Questa prospettiva fortemente pneumatologica dà luogo a una comprensione particolarmente
dinamica della crismazione in rapporto al battesimo: l’unzione crismale fa infatti vivere e agire nel
battezzato il Cristo unto di Spirito Santo dall’alto. Tutto è operato dallo Spirito in modo da far ten-
dere il neofita verso una pienezza che è personale e comunionale al contempo. Ed è proprio in tale
tensione pneumatica verso la maturità cristiana operata mediante il battesimo/crismazione che si
inserisce l’eucaristia, vero compimento della novità battesimale/crismale e nutrimento spirituale
capace di sviluppare nei rinati da acqua e Spirito Santo tutta l’energia vitale del Risorto.118

Va infine tenuta presente, per il suo profondo significato ecclesiologico, l’eventualità della
celebrazione della crismazione separata dal battesimo. Come annota Meyendorff tale situazione si
dà solo nei casi di riconciliazione con la Chiesa di certe categorie di eretici e scismati ci elencate
nel canone 95 del concilio Trullano. Il suo significato è in questo caso di convalidare, mediante «il
sigillo dello Spirito Santo» (formula pronunciata dal celebrante durante l’unzione), un battesimo
cristiano compiuto in circostanze irregolari - cioè al di fuori dei limiti canonici della Chiesa. 119

3. Il battesimo, primo sacramento del settenario

Con la riforma liturgica del periodo carolingio si assiste anche a un tentativo di recupero del
catecumenato antico. Per arginare l’anarchia liturgica ereditata dai secoli VII e Vili e conferire
maggiore unità politico-religiosa al suo regno, Carlo Magno, su proposta di Alcuino, chiede al papa
Adriano una copia del sacramentario autentico (libero dalle interpolazioni e adulterazioni dei
sacramentari gelasiani del secolo Vili e conforme all’antico modello gregoriano) per uniformare ad
esso gli usi e la prassi liturgica delle Chiese del regno. «Il progetto, finalizzato all’unità liturgica, è
di fare adottare alle chiese di Francia YOrdo Romanus».120

La prassi battesimale è tuttavia ormai considerevolmente cambiata e tale riforma non riesce
a scall’irla se non superficialmente sul piano dei riti. La dimensione civile è ormai così intima alla
prassi battesimale che lo stesso giuramento al re implica la fedeltà alle promesse battesimali. Da
un’inchiesta promossa da Carlo Magno presso i metropoliti del suo territorio (811/812) si ha notizia
della necessità di conoscere come si preparano e si celebrano i battesimi. Il risultato a cui mira
l’inchiesta è quello di realizzare «l’unità liturgica dei tre sacramenti dell’iniziazione cristiana nel
segno della tradizione romana, quale maggiore garanzia di salvezza eterna». 121 L’istanza della
celebrazione unitaria dei sacramenti promossa da Carlo Magno si prolunga nei Pontificali
successivi fino al XII secolo, «quale espressione della profonda, teologica unità che lega tra loro
battesimo, confermazione ed eucaristia».122 Il catecumenato, quale emerge dal questionario
117Cf. SAVA-POPA, Le Baptème, 154. Cf. anche 156-165 («L’unité entre le Baptème et la Chrismation»), 165-175 («Baptème et
Eucharistie»),
118Cf. SAVA-POPA, La Baptème 166.173.
119MEYENDORFF, La teologia bizantina, 236. Cf. anche canone 7 del concilio di Costantinopoli in COD, 35.
120PASQUATO, «Quale tradizione per l’iniziazione cristiana? Dall’età dei padri all’epoca carolingia», 93.
121PASQUATO, «Quale tradizione per l’iniziazione cristiana?», 93. Cf. anche A. CAPRIOLI, »L’evoluzione del catecumenato e
l’iniziazione cristiana nel medioevo (secoli VII-XVI)», in Iniziazione cristiana e catecumenato, 148. Entrambi gli studiosi si rifanno
alle ricerche di STENZEL, cf. ibidem 149.
122CAPRIOLI, «L’evoluzione del catecumenato», 150. Si deve supporre che fossero allora i pievani, nel ruolo di corepiscopi, ad
amministrare la confermazione, cf. ibidem (tale prassi è attestata nel rito ambrosiano, si vedano gli studi di Borella citati in ibidem).
dell’inchiesta, appare concentrato in Quaresima con sette scrutini. Emerge inoltre il richiamo al
battesimo «solenne» a Pasqua o a Pentecoste, di norma presso un solo battistero per ogni città o
pieve rurale.123 Di fatto la scansione del catecumenato antico non viene recuperata e la preparazione
dei catecumeni viene a contrarsi e a coincidere con il solo tempo della preparazione immediata
riservata in antico ai competentes. Ne è segno l’unificazione dei due rituali del catecumenato antico
(quello per l’entrata nel catecumenato e quello per l’ammissione tra i competentes) in una sola
celebrazione. Il risultato è 1 ’affastellamento dei riti dei due tempi con l’effetto di un ritualismo
esasperato e dannoso alla valenza pastorale dei singoli riti.124

L’insuccesso del tentativo carolingio di reintroduzione del catecumenato antico va di pari


passo con una prassi dove è sempre più ricorrente il battesimo di necessità «praticato
indifferentemente ogni giorno dell’anno, quodlibet tempore, come documentano i rituali del
tempo».125 La teologia che supporta questa prassi concentra l’attenzione sul battesimo dei bambini
onde evitare che muoiano senza di esso. Tale tema si ritrova nelle ammonizioni che i teologi
carolingi rivolgono a genitori e padrini per richiamarli alla grave responsabilità di presentare quam
pri- mum i bambini per il battesimo.

Il fenomeno di una progressiva separazione della stessa confermazione dal rito battesimale,
benché contrastata a livello di principio dagli intenti riformatori, tende sempre più a diffondersi fino
a essere sancita ufficialmente prima negli antichi sacramentari romani per poi passare agli Ordines e
finire attestata come dato ormai consolidato nei Pontificali medievali.126

Nel contesto della christianitas medievale il battesimo emerge sempre più come un fattore di
integrazione socio-religiosa che permette di accedere al contempo allo status di buon cittadino e di
cristiano in una societas sempre più gerarchicamente organizzata attorno ai due poli del potere
ecclesiastico e civile. Il battesimo è ormai «concesso a tutti, senza distinzioni di condizione e di età,
quale fondamento della stessa titolarità di appartenenza alla società».127

Nel XII secolo la riflessione teologica della scolastica è intanto venuta delineando la
comprensione del battesimo nel quadro del più ampio orizzonte sistematico della nozione di
sacramento (materia e forma quali parti essenziali del signum sacramentale o sacramentum tantum)
e della più precisa configurazione del settenario sacramentale. Nel Liber Sententiarum di Pietro
Lombardo (f 1160) si legge: «Iam ad sacramenta novae legis accedamus; quae sunt baptismus,
confirmatio, panis benedictio id est eucaristia, paenitentia, unctio estrema, ordo, coniugium» (IV, d.
II: PL 192, 841-842). Nel Tractatus de Sacramentis di Maestro Simone, del XII secolo ma
precedente a quello di Pietro Lombardo, il battesimo compare come primo dei sette sacramenti ed è
sinteticamente descritto come appartenente ai sacramenti comuni da distinguersi da quelli che non
lo sono (matrimonio e ordine sacro), come necessario rispetto a quelli che sono volontari (come il
matrimonio, l’ordine sacro e anche la penitenza solenne) e, nell’ambito di quelli comuni (sono
cinque: oltre al battesimo, l’imposizione della mano, la penitenza, il corpo e sangue di Cristo,
l’unzione solenne degli infermi), esso è il sacramento che «pollutos mundat» (purifica i
contaminati).128

Nell’opera di Ugo di San Vittore (t 1141), De sacramentis christianae fidei, la


classificazione dei sacramenti viene effettuata secondo criteri diversi. Se si prende il primo criterio,
123Nel 803, Carlo Magno istituisce un esame liturgico per i parroci: le domande vertono anche sulla conoscenza dei riti battesimali,
cf. PASQUATO, «Quale tradizione per l’iniziazione cristiana?», 93. Nella cosiddetta missione presso i sassoni ai tempi di Carlo,
missione segnata dall’insuccesso, Alcui- no richiama il valore di una più accurata istruzione prebattesimale e soprattutto del
battesimo volontario, cf. CAPRIOLI, «L’evoluzione del catecumenato», 149.
124Per alcune esemplificazioni, cf. CAPRIOLI, «L’evoluzione del catecumenato», 150-152.
125CAPRIOLI, «L’evoluzione del catecumenato», 152.
126Cf. CAPRIOLI, «L’evoluzione del catecumenato», 153-155.
127CAPRIOLI, «L’evoluzione del catecumenato», 158. È in questa prospettiva socio-religiosa (più che per l’effettivo pericolo di
morte) che sembra spiegarsi il dilatarsi della prassi del battesimo dei bambini, quam primum, cf. ibidem, 159.
128II trattato, secondo l’edizione curata da H. WEISWEILER, è citato nel saggio di G. MOIOLI, Il quarto sacramento. Note
introduttive, Ed. Glossa, Milano 1996,248-249.
la materia, si può dire che alcuni sacramenti consistono in cose mentre altri consistono in azioni,
altri infine in parole. Nella prima distinzione rientra anche il battesimo in quanto esso si compie con
l’acqua santificata: l’accento per definire il segno esteriore cade sull’acqua e non sull’uso di essa
nell’abluzione da parte del ministro. Se si guarda al rapporto che i sacramenti hanno con la
salvezza, ebbene tra questi alcuni, come l’acqua del battesimo e il ricevere il corpo e il sangue di
Cristo, costituiscono e procurano principalmente la salvez- /a (cf. De sacr. 1,9,7: PL 176,327A).129
La dottrina ugoniana sul battesimo viene diffusamente presentata al capitolo sesto del secondo libro
del De sacramentis (cf. PL 176,441-460).

Pietro Lombardo e Ugo di San Vittore sono gli unici teologi posteriori al Mille che
Tommaso d’Aquino richiama esplicitamente nella parte della Summa Theologiae dedicata ai
sacramenti del battesimo e della cresima (cf. STh III, qq. 66-72). La trama dell’Aquinate ha la sua
originalità nel valorizzare anche nel discorso sul battesimo l’articolata nozione di causalità (già
chiarita nella parte precedente dedicata ai sacramenti in ocnere: cf. STh III, q. 64) per distinguere
appropriatamente i vari aspetti del segno sacramentale. Completando la concezione ugoniana
unilateralmente centrata sull’elemento materiale dell’acqua egli afferma che Tacci uà santificata
risponde alla natura di causalità materiale (cf. STh III, q. 6ft, aa. 3 e 4) se rapportata all’abluzione -
ormai sempre più nella forma dell’aspersione o infusione mentre l’immersione, rimasta peculiare
della prassi delle Chiese dell’Oriente, non è per Tommaso indispensabile per porre validamente il
segno esteriore del battesimo (cf. ibidem aa. 7 e 8) - da parte del ministro (cf. STh III, q. 66, aa. 1 e
5). Il segno si completa nella formula battesimale che rappresenta la causalità formale del sacra-
mento, essendo la Trinità operante sul piano della causalità efficiente principale e il ministro sul
piano della stessa causalità ma strumentale (cf. STh III, q. 66, a. 5).

Il sacramento si struttura nella sua realtà di segno esteriore (sacra- mentum tantum:
l’aspersione con l’acqua da parte del ministro accompagnata dalla formula battesimale), nel suo
effetto intermedio (res et sacra- mentum: il carattere) e nell’effetto ultimo e invisibile (res
sacramenti: la grazia della giustificazione). Ora mentre il carattere, quale res «significata
dall’abluzione esterna e segno sacramentale della giustificazione interiore», permane in modo
indelebile, «la santificazione [res sacramenti^ può anche perdersi» (STh III, q. 66, a. 1). Per questa
dottrina del carattere Tommaso rimanda a Giovanni Damasceno: «Il Damasceno dunque ha definito
il battesimo, non rispetto al rito esteriore che è sacramentum tantum, ma rispetto all’elemento
interiore. Ha usato infatti due parole che si riferiscono al carattere: “suggello” e “tutela”, perché di
suo il carattere, per quanto dipende da esso, custodisce l’anima nel bene» (ibidem).130 Sempre
rispondendo all’obiezione che vorrebbe che il battesimo non si identifichi con l’abluzione, secondo
le parole del Damasceno che parla di rigenerazione, suggello e tutela e illuminazione (cf. STh III, q.
66, a. 1, ad 1), il Dottore angelico, dopo aver riconosciuto nella coppia sigillum/custodia la
designazione della res et sacramentum (il carattere battesimale), commenta le altre due espressioni
(regeneratio/illuminatio) come tali da significare la res sacramenti sotto due punti di vista
complementari.

Gli altri due termini si riferiscono all’ultimo effetto del sacramento, ossia alla «rige-
nerazione», perché l’uomo per il battesimo incomincia la nuova vita di giustizia; e alla
«illuminazione», che riguarda in particolare la fede, con la quale l’uomo consegue la vita
soprannaturale, secondo le parole della Scrittura: «Il giusto vivrà per la sua fede»; e il battesimo è
una professione di fede. Per questo viene denominato «sacramento della fede» (ibidem).

Per la questione del ministro la posizione di Tommaso arriva fino ad ammettere oltre la
possibilità in caso di necessità di un cristiano laico, uomo o donna che sia, anche l’estrema
situazione di un battesimo conferito anche da chi non è battezzato (cf. ibidem, q. 67, a. 5), chiarendo
129Battesimo, confermazione ed eucaristia sono trattati di seguito, cf. De Sacr. 2, 6-8: PL 176, 441-472. Cf. D. POIREL, Ugo di San
Vittore. Storia, scienza, contemplazione, Istem-Jaca Book, Milano 1997,96.
130In latino: sigillum e custodia. Il testo del Damasceno non è indicato con precisione ma vi si può riconoscere un passo tratto dal
De fide orthodoxa, IV, 9. Cf. introduzione a cura di T. CENTI, in TOMMASO D’AQUINO, La Somma teologica, Ed. Studio Domenicano,
Bologna 1986, XXVII, 182.
così la posizione lasciata sospesa da Agostino. «Chi battezza si limita a prestare esteriormente il suo
ministero, ma chi battezza interiormente è Cristo, che può servirsi di tutti gli uomini per tutto ciò
che vuole» (ibidem, ad 1). Il ministro non battezzato appartiene alla Chiesa non sacramentalmente
ma «per l’intenzione e la somiglianza dell’atto che compie, cioè in quanto intende fare ciò che fa la
stessa Chiesa e osserva nel battezzare la forma della Chiesa» (ibidem, ad 2).

Per ciò che riguarda la necessità del battesimo la linea dell’Aquina- te si articola in tre
passaggi: 1) tutti gli uomini sono tenuti a ciò che è indispensabile per conseguire la salvezza, questa
si dà per volontà di Cristo attraverso il battesimo e dunque senza di esso non ci può essere salvezza
(cf. Ili, q. 68, a. 1); 2) si può di fatto essere senza battesimo, senza avere avuto il proposito di
escluderlo, in questo caso si perviene alla grazia invisibile della giustificazione mediante il
desiderio del battesimo «il quale nasce “dalla fede che opera mediante la carità”, attraverso la quale
l’uomo viene santificato interiormente da Dio» (ibidem, a. 2); 3) il battesimo non va differito nel
caso dei bambini mentre nel caso degli adulti «è bene differirlo» (ibidem, a. 3). Le ragioni di tale
prassi particolare nei confronti degli adulti mostrano la ripresa di alcuni elementi dell’antica
tradizione catecumenale. Innanzitutto si fa la distinzione tra il momento della conversione e il
necessario periodo di discernimento da parte della Chiesa della serietà delle intenzioni dei candidati,
in tale periodo «la loro fede e i loro costumi vengono esaminati» (ibidem; 1 ’accompagnamento per
gradi da parte della Chiesa attraverso gli scrutini e gli esorcismi); ai candidati è poi necessario un
tempo opportuno per ricevere l’istruzione nella fede ed esercitarsi nella pratica della vita cristiana
(l’apprendistato del catecumenato); la dilazione è richiesta anche per una ragione liturgica: la
celebrazione del battesimo deve essere fatta di norma nella solennità di Pasqua e di Pentecoste (cf.
ibidem; la centralità della relazione tra la Pasqua e il battesimo che la riforma carolingia aveva
tentato di ripristinare). Queste tre ragioni (propter cautelam Ecclesiae, ad utilitatem eorum qui
baptizantur, ad quandam reverentiam sacramenti) cadono e la dilazione non si giustifica quando la
preparazione ha avuto luogo e i candidati sono pronti e quando intercorre un caso di infermità o un
pericolo mortale. In questo ultimo caso, se la morte repentina rende impossibile il battesimo, il
candidato si salva «sebbene “attraverso il fuoco”» (ibidem), dal momento che «non ottiene subito la
vita eterna» (ibidem, a. 2) dovendo scontare la pena dovuta ai suoi peccati (salvo il caso che la
morte non sia dovuta al martirio).

Il battesimo non può essere conferito a chi ha la volontà di peccare e a chi si propone di
persistere nel peccato: il rito sacramentale viene reso falso dal momento che il segno esteriore
dell’abluzione non corrisponde alla realtà interiore significata (cf. ibidem, a. 4). Da questi testi
emerge come, nel caso degli adulti, l’elemento della conversione interiore sia fondamentale per
conferire autenticità al lavacro battesimale: «... in sacra- mentalibus signis non debet esse aliqua
falsitas» (ibidem). Per ricevere il battesimo occorre dunque il distacco dal peccato e la positiva
manifestazione dell’intenzione di volerlo ricevere (cf. ibidem, a. 7). Tra le disposizioni del
battezzando la vera fede è necessaria per ricevere la grazia (la res sacramenti), essa non è invece
necessaria né in lui, né nel ministro, per ricevere il carattere battesimale (la res et sacramentum)
«purché ci siano tutte le altre cose necessarie alla validità del sacramento» la quale «dipende non
dalla santità di chi lo amministra, o di chi lo riceve, ma dalla virtù di Dio» (ibidem, a. 8).
Dopo aver discusso e mostrato le ragioni a favore del battesimo dei bambini - la liberazione
dal peccato originale come ragione di necessità salvifica, l’introduzione alla vita cristiana fin
dall’infanzia come ragione di convenienza pastorale e pedagogica (cf. ibidem, a. 9) - e aver conside-
rato alcune particolari situazioni di battezzandi (dal battesimo dei bambini figli di giudei o di altri
«infedeli» per passare al caso del feto nel grembo materno e arrivare ai «pazzi furiosi» e ai
«dementi»: aa. 10-12), Tommaso arriva all’ultima questione riguardante gli effetti del battesimo (cf.
ibidem, q. 69).

Nel passare in rassegna i vari articoli (in tutto dieci) di questa ultima questione si deve
notare come il tema degli effetti sia svolto con uno sguardo sistematico e al contempo attento a
rispondere alle obiezioni provenienti dal contesto teologico-culturale contemporaneo a Tommaso.
La dottrina esposta ha dunque il merito di offrire una ricchezza di impostazione che permane attuale
senza dimenticare che per molti aspetti essa è profondamente legata al suo tempo. Solo la lettura per
esteso delle obiezioni alle quali l’Aquinate risponde può permettere di valutare adeguatamente
l’insieme della discussione sugli effetti del battesimo al tempo della grande scolastica.

I primi tre articoli concernono l’effetto di liberazione dal peccato (qualsiasi peccato:
originale e volontario, a. 1) e dalle pene derivanti dal peccato (perché uniti alla passione e morte di
Cristo che ha operato una soddisfazione piena per tutti i peccati, a. 2) anche se il battezzato continua
a confrontarsi con le penalità della vita presente che rimangono in attesa della completa liberazione
che i santi sperimenteranno nel giorno della risurrezione (il battesimo ha la virtù di liberare anche
da queste pene, distinte da quelle dovute al peccato, ma esse rimangono per permettere al battezzato
di partecipare alla passione di Cristo, di esercitarsi nella lotta in vista della vittoria, per guardare al
premio della vita eterna quale vero fine del battesimo, a. 3). Gli altri articoli considerano soprattutto
gli effetti positivi del battesimo: per mezzo di esso si ricevono la grazia e le virtù (a. 4; anche i
bambini ricevono questi doni soprannaturali: a. 6), l’incorporazione a Cristo, l’illuminazione per
mezzo della conoscenza della verità e la fecondità nel fare il bene per mezzo dell’infusione della
grazia (a. 5), il battesimo apre effettivamente la porta del regno dei cieli essendo tolto l’ostacolo del
peccato (colpa e debito di pena: culpa et rea- tus poenae) che si frapponeva (a.7), ha in tutti lo
stesso effetto principale o essenziale (la rigenerazione spirituale) mentre l’effetto secondario (la vita
di grazia) dipende dalla discrezione della provvidenza divina nella vita di ogni singolo battezzato (a.
8), è impedito nel suo effetto se posto con la finzione - mostrare di volere ciò che non si vuole e
quindi anche il voler rimanere legati al peccato mortale, (a. 9); il carattere è tuttavia conferito anche
in tale battesimo come si deduce chiaramente da In IV Sen- tentiarum, d. IV, q. 3, art. 2, qc. 3 -
sempre che la finzione non sia tolta, dando modo allora al sacramento di raggiungere il suo effetto a
partire dal carattere che opera come causalità dispositiva (si richiama la dottrina della reviviscenza
del sacramento di ascendenza agostiniana, a. 10).

Lo sviluppo così articolato della teologia battesimale ha il pregio di mostrare come su di


essa venga a fondarsi anche tutto l’edificio dell’antropologia teologica. La vita spirituale e morale
del cristiano appare chiaramente illuminata dalla sua peculiare radice battesimale. La rigenerazione
è colta nel suo dinamismo di novità che sana ed eleva la facoltà conoscitiva e volitiva dell’uomo
permettendogli di sperimentare già ora, pur nella fragilità della lotta con la concupiscenza e con il
male, la beatitudine della figliolanza divina ricevuta per grazia. Si avverte, nelle ritornanti
distinzioni in merito, che l’Aquinate guarda al candidato adulto come al bambino, elaborando quasi
una teologia battesimale duplice, ovvero attenta a porre nella debita luce il distinto modularsi del
rapporto fra grazia e responsabilità, fra dono e compito nelle due situazioni antropologiche.
Sull’orizzonte domina il paradigma della conversione dell’adulto che accede al battesimo. Anche
nella complicata casistica della «finzione» Tommaso, riprendendo il discorso agostiniano, ripropone
la dottrina della reviviscenza: quando la finzione verrà a cessare, la grazia battesimale potrà
finalmente liberare tutta la fecondità alla quale il carattere impresso nell’anima, nonostante la
finzione, faceva appello. L’unità dei sacramenti dell’iniziazione non è più così evidente come negli
scritti dei padri anche se occorre notare come la trattazione della confermazione segua quella del
battesimo formando con essa una stessa unità tematica (con l’esplicitazione del rapporto tra il
carattere conferito dal battesimo e quello conferito dalla cresima, cf. STh III q. 72, aa. 5-6). La
prassi liturgica, come si è già detto, si è andata nel frattempo modificando notevolmente. Ne è un
chiaro segno lo specificarsi di una dottrina sempre più elaborata per rispondere alle diverse
obiezioni sul pedobattesimo, ormai decisamente prevalente sul battesimo degli adulti.

La dottrina battesimale del Dottore angelico rappresenta per il magistero successivo un


punto di riferimento essenziale a cui riferirsi per dirimere le controversie via via suscitatesi. Una
prima espressione di questa ricezione si ha al concilio di Firenze nel Decretum prò armenis (1439)
finalizzato a ristabilire l’unione con la Chiesa armena. 131 Nel testo del decreto si presenta in forma
sintetica la dottrina sui sacramenti in genere e poi si passa a ciascun sacramento cominciando dal
battesimo. Esso è «porta d’ingresso alla vita spirituale» (Denz 1314) e mediante esso si è incorporati
a Cristo e alla Chiesa suo corpo. La materia «è l’acqua pura e naturale, non importa se calda o
fredda» (ibidem). La forma è costituita dalla formula in prima persona: «Io ti battezzo nel nome del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Si ammette che anche altre formule (o in terza persona: il
tale viene battezzato; o in forma deprecativa: sia battezzato il tale...) in uso presso le Chiese
orientali sono valide per conferire il vero battesimo, fondandosi sulla differenza tommasiana tra
causa principale e causa strumentale nel comprendere l’efficacia sacramentale. Il ministro, operante
sul piano della causalità strumentale, è il sacerdote al quale il battezzare compete ex officio (cf.
Denz 1315). In via straordinaria (in causa necessitatisi può essere ministro chiunque (anche pagano
o eretico) «purché usi la forma della Chiesa e intenda fare ciò che fa la Chiesa» (ibidem). In ultimo,
come nella trattazione della Summa, si precisano gli effetti: la remissione di ogni colpa (originale e
attuale) e relativa pena per cui non può essere richiesta ai battezzati «nessuna penitenza per i peccati
precedenti al battesimo» (Denz 1316) e, in caso di morte prima di commettere qualche colpa, sono
accolti nel regno dei cieli e ammessi alla visione beatifica. Rispetto alla visione organica di
Tommaso d’Aquino la dottrina battesimale viene ricondotta a pochi elementi dottrinali: il segno
sacramentale (materia e forma) e l’annessa concezione bipartita dell’efficacia sacramentale
(causalità principale: la Trinità; causalità strumentale: il ministro), il ministro (ordinario e
straordinario), gli effetti (in verità si specifica solo un effetto). Nella parte dedicata ai sacramenti in
genere il battesimo, che insieme alla confermazione e all’ordine imprime nell’anima un carattere
indelebile (cf. Denz 1313), rientra tra i primi cinque sacramenti ordinati alla perfezione individuale
(l’ordine e il matrimonio sono rispettivamente ordinati al governo e alla moltiplicazione di tutta la
Chiesa). In forma lapidaria se ne descrive l’essenza affermando che mediante esso «noi rinasciamo
spiritualmente» (Denz 1311).

Benché nel testo del decreto segua la breve esposizione della dottrina della confermazione e
dell’eucaristia, non emerge in modo evidente la chiara connessione unitaria dei sacramenti
dell’iniziazione cristiana tipica della Chiesa antica e delle stesse Chiese orientali alle quali il decreto
si rivolge. La perdita dell’unità liturgica nella prassi non si riscontra tuttavia sul piano
dell’esposizione teologica che, anche se tratta separatamente i tre sacramenti, ne vede la profonda e
intima connessione specialmente quando ne descrive gli effetti (in particolare per il rapporto
battesimo/eu- caristia). La confermazione è in vista della testimonianza e conferisce il dono dello
Spirito Santo «per rendere forti» (Denz 1319): il rimando al battesimo non è esplicitato in modo
chiaro, è come sottinteso se si ricorda quanto detto nella parte sui sacramenti in genere, «con la
confermazione cresciamo nella grazia e ci irrobustiamo nella fede» (Denz 1311). La confermazione
è conferita, secondo la visione di Fausto di Riez, in vista dell’accrescimento della grazia battesimale
(augmentum gratiae) e della forza necessaria per la testimonianza (robur ad pugnam). Il tema della
crescita è in chiara connessione con le esigenze poste nel fondamento battesimale. L’eucaristia è
infine il nutrimento di coloro che sono rinati (cf. Denz 1311). Il rimando al battesimo è chiaro: «E
poiché per la grazia l’uomo viene incorporato al Cristo e unito alle sue membra, ne consegue che
questo sacramento, in coloro che lo ricevono degnamente, aumenta la grazia e produce nella vita
spirituale tutti gli effetti che il cibo e la bevanda materiale producono nella vita del corpo...» (Denz
1322).

Sul piano dei libri liturgici si assiste in Occidente al prevalere del Pontificale romano-
germanico del X secolo il quale «accanto al suo rituale battesimale con i sette scrutini, prevede un
rituale nel quale i riti e i formulari sono uniti al battesimo stesso».132 Questo secondo rituale attesta
il consolidamento ormai avvenuto e la relativa codificazione di quella prassi di concentrazione e
affastellamento dei riti di iniziazione cristiana che risale all’alto medioevo e alla grande crisi
dell’istituto catecumenale. Il lavacro battesimale forma nella prassi liturgica ordinaria una realtà a
131Cf. Concilio di Firenze, Bolla sull’unione con gli armeni «Exsultate Deo», 22 novembre 1439, cf. Denz 1310ss.
132Nocent, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 67.
se stante ed è celebrato non più per immersione ma per infusione, la confermazione segue un suo
rito separato, la prima partecipazione alla mensa eucaristica, specialmente per il prevalere del
pedobattesimo, è ampiamente distanziata dall 'atto battesimale, essendo rimandata all’età di ragione
(come stabilisce il concilio Lateranense IV del 1215: cf. Denz 812).133 Al concilio di Trento si arriva
a sancire definitivamente per tutto l’Occidente la prassi della comunione all’età di ragione nel
decreto De comunione sub utraque specie et parvulorum (1562) con un’interessante annotazione
sulla prassi antica di comunicare subito i bambini appena battezzati: essa è stata opportuna in quei
tempi ma non è necessaria alla salvezza (cf. Denz 1730). La motivazione che spinge i padri del
concilio a difendere e sancire ufficialmente la prassi di escludere dalla comunione sacramentale i
bambini che non hanno l’uso della ragione è strettamente dipendente dal tema battesimale:
«Rigenerati, infatti, dal lavacro del battesimo (cf. Tt 3,5) e incorporati a Cristo, non possono, a
quell’età, perdere la grazia di figli di Dio, che hanno acquistato» (Denz 1730).

Il battesimo, inteso dalla teologia sacramentale scolastica come primo dei sette sacramenti e
dalla prassi e codificazione liturgica come atto a sé stante di inizio della vita cristiana, entra con
questa fisionomia nella prassi di evangelizzazione verso le popolazioni delle Americhe, dell’Asia e
dell’Africa, a seguito delle nuove scoperte geografiche e dell’impresa colonizzatrice dei vari regni
europei all’inizio dell’epoca moderna. Tenendo conto della dottrina comune sulla dannazione eterna
dei non battezzati come degli eretici (cf. Denz 1351), l’azione missionaria è fortemente
caratterizzata dalla necessità di battezzare il maggior numero possibile di pagani, con il presentarsi
di nuove riedizioni del fenomeno già noto nella tarda antichità e nell’alto medioevo delle
conversioni «collettive» e dei battesimi «di massa», in un clima di scarsa evangelizzazione e spesso
di costrizione.134 Tale prassi e tale dottrina passano, specialmente attraverso l’azione missionaria
degli ordini religiosi antichi e nuovi, dal modello cristiano dei regni cattolici europei agli altri
continenti. Il battesimo è sempre più un atto puntuale spesso slegato da un solido itinerario di
preparazione (sul modello di quello catecumenale) e separato dalla sua appartenenza al complesso
iniziatico colto nella sua interezza (confermazione, eucaristia).

4. Battesimo e giustificazione: la Riforma e il concilio di Trento

Con Martin Lutero e gli altri grandi riformatori del XVI secolo (Melantone, Calvino,
Zwingli), la cristianità europea viene spinta, in modo fortemente polemico e talvolta violento (si
pensi alle guerre di religione), a riconsiderare il fondamento, il significato e il valore di tutto l’or-
ganismo sacramentale rispetto alla vita cristiana. È in questo ambito che si collocano anche i vari
movimenti «anabattisti» del XVI-XVII secolo che in vaste aree dell’Europa (Svizzera, Tirolo,
Germania del nord, Mora- via, Paesi Bassi, Inghilterra) propugnano il solo battesimo degli adulti
«credenti» (battesimo dei credenti) quale unica e vera pratica fondata sulla sacra Scrittura, rifiutano
il battesimo dei bambini e per questo vengono accusati di «ribattezzare» (anabattisti quale termine
polemico usato dagli accusatori). Questa tendenza riformistica di tipo popolare e spesso
caratterizzata da toni esaltati ed entusiastici viene condannata già a partire dalla stessa Confessio
Augustana del 1530 (cf. artt. 9,12,14,16-17). In particolare si dice per la questione del battesimo:

Quanto al battesimo, insegnano che è necessario alla salvezza e che, mediante il battesimo,
viene offerta la grazia di Dio, e che i fanciulli devono essere battezzati perché, offerti a Dio con il
battesimo, essi sono accolti nella grazia di Dio. Condannano gli anabattisti, i quali rifiutano il
battesimo dei fanciulli e affermano che i fanciulli sono salvati senza battesimo (art. 9).135

In generale il dato che emerge è la riscoperta della dinamica fidu- ciale della fede, colta
soprattutto nella sua essenziale dipendenza dalla predicazione della parola di Dio conosciuta
attraverso una nuova relazione con la sacra Scrittura (il libero esame). Il primato della grazia di Dio
che giustifica gratuitamente l’uomo peccatore ponendolo in una condizione di paradossale
133Su questo punto cf. CAPRIOLI, «L’evoluzione del catecumenato», 162-164.
134Cf. P. GIGLIONI, Inculturazione. Teoria e prassi, LEV, Città del Vaticano 1999,71-83.
135Cf. Confessioni di fede delle Chiese cristiane, a cura di R. FABBRI, EDB, Bologna 1996,19-20.
grandezza (simul iustus) e umiltà (et peccator) porta nuovamente in evidenza la questione degli
inizi della fede nell’uo- mo, della sua libera cooperazione (il tema della predestinazione) e, per ciò
che più direttamente ora ci interessa, del rapporto tra il sacramento del battesimo e la grazia della
giustificazione.

La rilettura luterana della fisionomia del sacramento alla luce della sacra Scrittura conduce a
riconsiderare in modo nuovo sia il rapporto della salvezza divina con la realtà sacramentale come la
sua istituzione da parte di Gesù Cristo. Sul primo fronte domina sia nel Lutero giovane come in
quello più maturo la consapevolezza che l’uomo non si salva per le sue opere ma per quella grazia
che Dio gli dona nella predicazione del verbum crucis, grazia alla quale si può accedere solo con
l’abbandono fiducioso, senza poter dunque contare su alcun mezzo creato (nullum medium habeo).
Ogni sacramento, e quindi anche il battesimo, riprende questa impostazione nell’essere concepito
come realtà strutturata nell’articolazione di due elementi: il segno esteriore unito alla promessa di
grazia. L’istituzione da parte di Gesù di un sacramento si ha quando nel Nuovo Testamento si
possono ritrovare attestati con chiarezza tutti e due questi elementi. In questa luce solo l’eucaristia,
il battesimo e, a suo modo, anche la penitenza sono riconosciuti come gli unici veri sacramenti
istituiti da Gesù e dunque fondamentali per la vita della Chiesa." Il terzo elemento, decisivo per
l’efficacia del sacramento, è la fede nella promessa di grazia.

Nel Sermon von dem heiligen und hochwurdigen Sacrament der Taufe (1519) il giovane
Lutero sottolinea come l’acqua sia il segno esteriore e la promessa di grazia (realtà significata) sia la
vita nuova in Cristo.136 Mentre al segno esteriore sono dedicati solo i primi due paragrafi del
sermone (l’acqua è considerata in rapporto all’immersione intesa letteralmente come un essere
completamente tuffati), alla realtà significata è riservata un’ampia sezione di ben otto paragrafi
dove si tratta ampiamente della rigenerazione che Dio opera nel battesimo dalla sua celebrazione
fino a estendere la sua efficacia salvifica a tutta la vita del battezzato.

Il sacramento, ossia il segno del battesimo, si compie in un istante, sotto i nostri sguardi;
ma la cosa significata, ossia il battesimo spirituale, l’affogamento del peccato, dura finché viviamo,
e viene consumata soltanto nella morte; allora l’uomo è veramente tuffato nel battesimo, e si
compie ciò che il battesimo significa. Perciò tutta questa vita non è altro che un incessante
battesimo spirituale, fino alla morte.137

Alcuni paragrafi successivi sono dedicati al terzo aspetto fondamentale del battesimo: la
fede. Mediante essa il battezzato crede nel dono della vita nuova non solo come condizione futura
(la morte e la risurrezione nell’ultimo giorno) ma crede fermamente che il sacramento è anche
l’inizio reale di tutto ciò, la sua effettuazione, e che ci stringe in un patto con Dio, in virtù del quale
noi ci impegnamo a uccidere il peccato e a combattere contro di esso fino alla nostra morte, e Dio
si impegna a prendere ciò in buona parte, a dimostrarci la sua grazia, a non giudicarci secondo il
suo rigore, poiché non siamo senza peccato in questa vita, fino a quando saremo purificati
attraverso la morte. [...] Questa fede è di tutte la cosa più necessaria, poiché è il fondamento di
ogni consolazione.138

Il patto battesimale è il fondamento per ricevere da Dio la grazia necessaria per affrontare il
duro cammino della conversione (cf. la prima delle 95 tesi) e non disperare mai della sua
misericordia confidando sempre nel fatto che «in esso Dio si lega con te e diventa uno con te in un
consolante patto di grazia».139 Il peccato, inteso come «la cattiva inclinazione», rimane nel
battezzato, «deve essere riconosciuto come vero peccato» ed «è un grave errore pensare, come
alcuni fanno, che col battesimo siamo diventati completamente puri». Lo stato di innocenza battesi-
136II testo è citato secondo l’edizione in lingua italiana curata da V. VINAY, Scritti religiosi di Martin Lutero, Utet,Torino 21986,279-
296. Cf. anche: «“Enchiridion” il piccolo catechismo per pastori e predicatori indotti» (1529), in ibidem, 687-689.
137Vinay, Scritti religiosi di Martin Lutero, 282.
138Vinay, Scritti religiosi dì Martin Lutero, 288. La fededifende il battezzatoda ogni falsa
sicurezza nelle sue proprie forze e deve essere unita al timore di Dioper non approfittaredel per
dono di Dio, continuando a peccare, cf. ibidem, 296.
139VINAY, Scritti religiosi di Martin Lutero, 285.
male va dunque compreso «unicamente a motivo della misericordia di Dio che le ha dato inizio, e
sopporta con pazienza il peccato, e ci considera come se fossimo senza peccato».140

Nel De captivitate babylonica ecclesiae (1520) con tono decisamente più polemico la
questione del battesimo è affrontata dopo l’ampia sezione dedicata all’eucaristia e alla messa.
Dapprima tutta l’attenzione di Lutero si concentra con acribia polemica a porre debitamente in luce
ciò che è trascurato nella predicazione e cioè la promessa di grazia legata al sacramento del
battesimo.141 Un secondo punto è invece riservato al segno «o sacramento, cioè l’immersione
nell’acqua».142 Sotto il primo aspetto il Riformatore sente di doversi prolungare più che su altre que-
stioni: «A che serve allora scrivere tanto sul battesimo e non insegnare ad aver fede nella promessa?
Tutti i sacramenti sono stati istituiti per nutrire la fede, ma questi empi teologi non parlano di essa, e
giungono a sostenere che l’uomo non deve esser certo della remissione dei peccati e della grazia dei
sacramenti...».143 Per quanto concerne il ministro la linea è quella già chiarita dall’Aquinate sulla
differenza tra causalità principale c strumentale: «L’autore del sacramento e il ministro sono diversi
ma l’opera di ambedue è la medesima, anzi, è di un autore unico per mezzo del mio servizio». 144
Tornando aìYefficacia del battesimo e avendo ben chiaro che essa dipende dalla fede nella promessa
di grazia da parte di Dio, il battezzato deve guardarsi da quelli che ridussero questa forza del
battesimo [cioè la grazia della giustificazione] ad un tal punto di insignificanza da dire che con
esso si infonde, sì, la grazia, ma che poi questa svanisce a causa del peccato e allora si deve salire
al cielo usando un’altra via [...] il battesimo è strumento della tua morte e resurrezione, e perciò,
per mezzo della penitenza o per qualsiasi altra via, tu non puoi fare altro che tornare al valore del
battesimo [la penitenza sacramentale e altre forme penitenziali come recordatio baptismi], per
compiere nuovamente ciò che il battesimo significa e che dovevi fare in forza di esso. 145

La trattazione del battesimo si conclude con la questione del battesimo dei bambini. Lutero,
pur osservando che in essi manca l’esercizio attuale della fede nella promessa di grazia dal
momento che non possono capirla, non conclude che il sacramento sia vano, è nella fede della
Chiesa - «di quelli che li offrono a Dio» 146 - che essi vengono giustificali, come è affermato
dall’opinione teologica comune. Il bambino «viene mutato, purificato e rinnovato per fede
infusa».147 Anzi tale fede può ottenere da Dio la grazia della salvezza anche per un adulto empio che
si 'ostina nel peccato.

Ammetto volentieri, perciò, che i sacramenti del nuovo testamento sono efficaci a dare la
grazia non solo a chi non pone ostacoli, ma anche a quelli che si oppongono con la maggiore
ostinazione. Quali ostacoli non può eliminare una preghiera elevata con fede dalla Chiesa, se si
pensa che Stefano ha convertito con essa l’apostolo Paolo? I sacramenti, allora, non operano per
forza propria, ma grazie alla fede, senza la quale non producono assolutamente nulla.148

Pur in un’unità di fondo con la concezione luterana la posizione di Calvino e Zwingli in


ordine al battesimo manifesta delle peculiarità.149

Nel secondo caso si ha una forte accentuazione del valore della fede e dell’azione dello
Spirito. Occorre abbandonare tutto ciò che è sensibile e materiale per elevarsi a Dio che è Spirito.
L’aspetto esteriore del sacramento del battesimo ha il valore pedagogico di introdurre alla realtà spi-
rituale ma come tale non può comunicare lo Spirito. È la fede nella parola predicata che dà accesso
a questa realtà di salvezza. Per il primo tutta la dottrina sacramentale è caratterizzata dall’idea della

140VINAY, Scritti religiosi di Martin Lutero, 289.


141Cf. LUTERO, «Sulla prigionia babilonese della Chiesa», 105-110.112-114.
142LUTERO, «Sulla prigionia babilonese della Chiesa», 110, cf. ibidem, 110-111.
143LUTERO, «Sulla prigionia babilonese della Chiesa», 108.
144i°8 LUTERO, «Sulla prigionia babilonese della Chiesa», 109-110.
145LUTERO, «Sulla prigionia babilonese della Chiesa», 116.
146LUTERO, «Sulla prigionia babilonese della Chiesa», 120.
147LUTERO, «Sulla prigionia babilonese della Chiesa», 120.
148LUTERO, «Sulla prigionia babilonese della Chiesa», 120.
149Cf. A.E. MCGRATH, Il pensiero della Riforma. Lutero, Zwingli, Calvino, Bucero. Una introduzione, Claudiana, Torino 21995,
237-257; J. LORTZ - E. ISERLOH, Storia della Riforma, Il Mulino, Bologna 1974,125-134 (per Zwingli) e 215-221 (per Calvino).
gloria di Dio. La realtà della vera Chiesa è una grandezza invisibile formata da coloro che sono
predestinati alla salvezza. Al servizio di questa realtà invisibile si pone la Chiesa come realtà
visibile alla quale si ha accesso mediante il battesimo. Questa appartenenza esteriore non dà
comunque al singolo alcuna sicurezza sulla sua condizione di salvezza dal momento che egli non sa
se sarà in grado di perseverare nella fede sino alla fine. «Dobbiamo dunque sapere e ricordare che
siamo battezzati in vista della mortificazione della nostra carne che ha avuto inizio sin dal battesimo
e si prosegue tutti i giorni della presente esistenza; ma raggiungerà la perfezione quando saremo
passati da questa vita al Signore».150

Nelle varie sessioni del concilio di Trento l’approccio alla tematica battesimale è
determinato volta per volta dalle controversie sui punti nodali della dottrina dei riformatori: la
giustificazione, il peccato originale, il dinamismo della fede nel suo rapporto con i sacramenti, la
vita di grazia in relazione alle opere, il peccato nella vita del battezzato e il sacramento della
penitenza. Dall’insieme di questi testi non si può dunque ricavare una dottrina organica sul
battesimo.151 Il quadro che ne risulta pone tuttavia in evidenza alcuni dati teologici di fondo che
occorre richiamare per il rilievo che avranno nei successivi sviluppi della teologia e della prassi
battesimale.

Non deve meravigliare innanzitutto che, proprio per la prassi liturgica prevalente ormai fin
dall’alto medioevo e la successiva elaborazione teologica della grande scolastica, il battesimo non è
più considerato nel suo rapporto con gli altri sacramenti della iniziazione cristiana (confermazione
ed eucaristia). Esso si propone all’attenzione del concilio e dei riformatori come realtà a se stante.
Questa prospettiva è rafforzata dalla trattazione tanto della confermazione come dell’eucaristia sotto
un’angolatura polemica finalizzata a metterne in evidenza la natura di veri sacramenti, impugnata
con toni differenziati dall’insieme delle voci della Riforma. Il battesimo è invece comunemente
riconosciuto alla luce del fondamento biblico neotestamentario nella sua natura di vero sacramento
istituito da Cristo. Nondimeno questa condizione di autenticità sacramentale viene investita
obliquamente dalle provocazioni di fondo tipiche della Riforma.

Considerati nella loro stesura definitiva i documenti del concilio mostrano in sequenza
diacronica le implicazioni del battesimo con il peccato originale (1546, sessione quinta), con la
giustificazione (1547, sessione sesta), con l’insieme del settenario sacramentale (1547, sessione
settima) e infine con il sacramento della penitenza (1551, sessione quattordicesima). In particolare è
nel Decreto sulla giustificazione (cf. Denz 1520- 1583) che il battesimo viene a essere collocato in
una visione dinamica che va dagli inizi della fede allo sviluppo integrale della vita cristiana
(l'osservanza dei comandamenti, la perseveranza, il recupero dei peccatori, le buone opere e il
merito).

Il soggetto al quale si guarda è l’uomo adulto che, toccato «dalla grazia preveniente di Dio»
(Denz 1525), si volge «liberamente verso Dio» ( Denz 1526), crede vero «ciò che è stato
divinamente rivelato e promesso» (ibidem), si riconosce peccatore e inizia «quella penitenza che
bisogna fare prima del battesimo» (ibidem) e si propone infine di «ricevere il battesimo, di
cominciare una nuova vita e di osservare i comandamenti divini» (ibidem). Prima del battesimo gli
uomini, quali discendenti di Adamo, sono ingiusti e solo mediante il lavacro battesimale possono
essere rigenerati da quella grazia che, per il merito della passione di Crisi o, «li rende giusti» (Denz
1523). Questo passaggio dallo stato di peccata allo stato di grazia, «dopo l’annuncio del vangelo,
non può avvenire senza il lavacro della rigenerazione o senza il desiderio di ciò, come sta scritto:
150G. Calvino, Istituzione della religione cristiana, a cura di G. Tourn, Utet, Torino 1971, II, 1529 (Libro quarto, c. XV, 11). Per il
battesimo, cf. ibidem, c. XV, 1519-1540. L’ampio capitolo XVI, dal titolo «Il battesimo dei bambini esprime molto bene l’istituzione
di Gesù Cristo e la natura del segno», è dedicato alla difesa della prassi del pedobattesimo, cf. ibidem, 1540-1578. Su questo punto
Calvino riprende le tesi già espresse da Zwingli e aggiunge «i suoi ricordi personali in materia di polemica battesimale durante il
soggiorno a Strasburgo», ibidem, 1541 (nota 1).
151Cf. C. SCORDATO, «Il sacramento della fede. Teoria e prassi nelle Chiese», in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, Il
sacramento della fede. Riflessione teologica sul battesimo in Italia, a cura di M. ALIOTTA, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)
2003,9-54.
“Se uno non nasce da acqua e da Spirito Santo, non può entrare ìicl regno di Dio”» (Denz 1524; cf.
anche ìbidem 1604.1617). Tale rigeneri izione/giustificazione, diversamente da come espresso nella
dottrina li'ùerana del simul iustus etpeccator, non opera la sola remissione dei pecca d «ma anche
santificazione e rinnovamento dell’uomo interiore, mediante la libera accettazione della grazia e dei
doni che l’accompagnano, per cui da ingiusto diviene giusto e da nemico amico...» (Denz 1528). La
giustificazione, come grazia battesimale accolta con fede come dono gratuito di Dio (cf. Denz
1532), è suscettibile di uno sviluppo, di una crescita, di un aumento (lat. incrementum iustitiae, cf.
Denz 1535), può essere persa a causa del peccato mortale (sia esso contro la fede o con qualsiasi
altro peccato mortale, cf. Denz 1544) e può essere recuperata mediante il sacramento della
penitenza (cf. Denz 1542; sul rapporto tra battesimo e penitenza, cf. la Dottrina sul sacramento
della penitenza, Denz, 1671.1702).

L’opera della giustificazione viene considerata alla luce della dottrina della causalità
ereditata dalla scolastica. In particolare il battesimo si situa nell’ordine della causa strumentale in
stretto rapporto con la causa finale (la gloria di Dio e del Cristo e la vita eterna, cf. Denz 1529), la
causa efficiente (la misericordia di Dio, cf. ibidem), la causa meritoria (la passione di Gesù sul
legno della croce intesa come soddisfazione al Padre per gli uomini peccatori, cf. ibidem) e la causa
formale (la giustizia di Dio intesa come dono gratuito che rende giusti i peccatori mediante l’effu-
sione dello Spirito Santo che inerisce in coloro che sono giustificati, cf. Denz 1530). Causa
strumentale è dunque «il sacramento del battesimo, che è il “sacramento della fede”, senza la quale
nessuno ha mai ottenuto la giustificazione» (Denz 1532). In modo più diffuso il concilio torna sul
sacramento del battesimo colto nella sua specificità sacramentale nel Decreto sui sacramenti per
condannare come erronee le tesi desunte da alcuni scritti dei riformatori (principalmente il De
captivitate babylonica, la Confessio Augustana, VApologia Confessionis Augustanae). Dopo i
canoni sui sacramenti in genere il testo prosegue con quattordici canoni dedicati al sacramento del
battesimo (cf. Denz 1614-1627). Il canone quinto colpisce con l’anatema chi «afferma che il
battesimo è libero, cioè non necessario alla salvezza» (Denz 1618). Da questa posizione più estrema
cara a coloro che ritenevano sufficiente la fede per ottenere la salvezza i vari canoni riprendono i
punti nodali delle posizioni dei riformatori sul battesimo: l’uguale efficacia del battesimo di Cristo e
di Giovanni, il significato solo metaforico della necessità della vera acqua naturale per il lavacro,
l’assenza nella Chiesa romana della vera dottrina del sacramento del battesimo, ecc. La questione
della validità ed efficacia salvifica del battesimo dei bambini emerge negli ultimi due canoni (cf.
Denz 1626-1627). Su tale punto il concilio si era già pronunciato trattandone nel Decreto sul
peccato originale (cf. Denz 1510ss, in particolare Denz 1513-1515). Nei bambini il battesimo toglie
«la macchia del peccato originale» (cf. Denz 1514, cf. anche il Decreto sulla giustificazione, Denz
1523) mentre negli adulti questa remissione si completa con quella degli altri peccati compiuti
prima del battesimo (rimane la concupiscenza in quanto non è peccato ma da esso ha origine e ad
esso inclina, cf. Denz 1515). Se la dottrina del peccato originale dà modo di porre nuovamente in
rilievo Vefficacia salvifica del battesimo dei bambini (contro chi nega o la presenza del peccato
originale nei bambini o chi, pur affermando tale presenza, nega che il battesimo operi efficacemente
tale remissione), la questione della fede, trattata nel Decreto sulla giustificazione, emerge
nuovamente nella difesa della validità del battesimo amministrato dagli eretici (cf. Denz 1617) e del
pedobattesimo laddove è oggetto di anatema chi sostiene che «i bambini, dopo aver ricevuto il
battesimo, non devono essere annoverati tra i fedeli perché non hanno la capacità di credere; e die
per questo motivo devono essere battezzati di nuovo una volta ragli i unta l’età del discernimento; o
che è meglio non battezzarli affatto, piuttosto che battezzarli nella sola fede della Chiesa, senza un
loro atto dj fede personale» (cf. Denz 1626). La posizione del concilio, pur avendo di mira l’adulto
che si converte e compie liberamente il suo atto di fede personale (tutto il Decreto sulla
giustificazione è in questa direzione), riconosce alla luce della tradizione come sufficiente per la
validità del battesimo la «sola fede della Chiesa» (cf. anche Denz 1514). La prassi da seguire con i
bambini battezzati che, «una volta cresciuti» (Denz 1627, si accenna al compito dei padrini al
momento del battesimo), non vogliono confermare gli impegni battesimali risente chiaramente,
nella posizione del concilio, di un contesto socio-pedagogico dove si ritiene plausibile una prassi
coercitiva suscettibile di critiche già allora (il canone mostra fra le righe il profilarsi di una prassi
più libera in dissonanza con la prassi di tipo coercitivo difesa dal concilio, cf. ibidem).

La prassi battesimale al tempo del concilio è rappresentata da contesa tra loro notevolmente
differenziati. Da una parte i paesi cristiani del- rZuropa nei quali il pedobattesimo costituisce la
situazione più ricorrente e il battesimo degli adulti riguarda ormai quasi solamente ebrei e musul-
mani che desiderano farsi cristiani.152 Dall’altra la missione della Chiesa verso Oriente e Occidente,
legata alle nuove scoperte geografiche e alla relativa spinta colonizzatrice da parte delle varie
potenze europee. Su tale fronte «si dovette lottare contro la prassi, presto instauratasi, di spingere a
farsi cristiani e di battezzare in massa, per riaffermare che l’adesione al cristianesimo doveva essere
una scelta libera, che il battesimo doveva essere preceduto da un’adeguata preparazione dottrinale e
morale».153

Pur in presenza di una prassi che, almeno in Europa, è fortemente caratterizzata dal
pedobattesimo, nel Decreto sulla giustificazione il tipo di candidato a cui si guarda è l’adulto. La
dinamica della fede è descritta pensando dunque alla figura del catecumeno quale emerge
dall’antica tradizione apostolica.154 La fede, come la speranza e la carità, è uno dei doni infusi da
Dio nel giustificato mediante il battesimo. E questa fede «secondo la tradizione apostolica, è la fede
che i catecumeni chiedono alla Chiesa prima del sacramento del battesimo...» (Denz 1531). Nel
testo conciliare si presenta dunque una descrizione sintetica di questa richiesta che vede come
protagonisti dei catecumeni adulti e della risposta che essi ricevono (cf. ibidem). Nel Decreto sui
sacramenti e specificamente nei canoni sui sacramenti in genere si ribadisce la dottrina dell’ex
opere operato per sottolineare come per ricevere la grazia non sia sufficiente la sola fede ma
occorrano anche i sacramenti (cf.: Denz 1608: canone 8; Denz 1606: canone 6). Sempre in tale testo
si ribadisce la dottrina del carattere, «segno spirituale e indelebile» impresso nell’anima nei
sacramenti del battesimo, della confermazione e dell’ordine (cf. Denz 1609).

Il riconoscimento dell’istituzione divina del battesimo non è oggetto di critiche radicali nella
dottrina dei riformatori, diversamente da come avviene per altri sacramenti. Il concilio ribadisce tale
verità condannando l’affermazione di coloro che sostengono «che i sacramenti della nuova legge
non sono stati istituiti da Gesù Cristo, nostro Signore, o che sono più o meno sette: il battesimo, la
confermazione, l’eucaristia, la penitenza, l’estrema unzione, l’ordine e il matrimonio, o anche che
qualcuno di questi sette non è veramente e propriamente un sacramento...» (Denz 1601).

Nell’insieme la dottrina tridentina sul battesimo, rispondendo alle obiezioni e critiche dei
riformatori e condannando le affermazioni e posizioni eterodosse, riprende senza particolari novità
la dottrina sacramentale elaborata da san Tommaso d’Aquino, ripensata principalmente nel quadro
dell’accesa controversia sulla giustificazione. A questa ampia rielaborazione dogmatico-
sacramentale il concilio vuole inoltre far seguire anche un profondo rinnovamento della prassi
pastorale. In gran parte per il battesimo, come per gli altri sacramenti, tale intento è affidato fonda-
mentalmente a due grandi strumenti pensati per la vita delle comunità parrocchiali e il ministero del
parroco: il catechismo e il rituale romano.

152Cf. G. ZANON, «L’iniziazione cristiana secondo il rituale del Santori», in Iniziazione cristiana e catecumenato, 176-177. In tale
contesto sorgono le cosiddette «case dei catecumeni», cf. ibidem, 177-178. Per la comprensione del fenomeno della conversione di
persone ebree si deve tenere conto anche della nuova legislazione particolarmente restrittiva nei loro confronti airinterno dello Stato
pontificio a partire dalla seconda metà del XVI secolo, cf. ibidem, 178.
153Zanon, «L’iniziazione cristiana», 176. L’A. fa cenno anche alle varie iniziative ecclesiastiche rivolte a regolare la prassi da tenere
nei confronti della conversione dei «pagani» alla fede cristiana, cf. ibidem, 176. Cf. anche Giglioni, Inculturazione, 71-74.
154Si noti che il prevalere del pedobattesimo aveva reso desueto l’uso del termine catechu- meni a favore del termine infantes,
riservato invece nella Chiesa antica ai neofiti. Con il Rituale sacra- mentorum del card. Santori, ultimato nel 1602 e ripreso in larga
parte dopo la morte di Santori nel Rituale romanum promulgato da Paolo V nel 1614, si assiste alla reintroduzione del termine cate-
chumeni, cf. ibidem, 174. Santori aveva anche reintrodotto gli scrutini pre-battesimali ma questi come altro materiale da lui inserito
nel Rituale tra cui figurano un trattato sul catecumenato e un altro sulla mistagogia non furono recepiti nel Rituale romanum, cf.
ibidem, 169. Per una ricognizione storica, liturgica e teologica del Rituale del card. Santori, cf. ibidem, 169-196.
Nel Rituale romanum, promulgato nel 1614 da Paolo V, la proposta elaborata dal card.
Santori di reintrodurre un vero itinerario catecume- nale segnato dalla celebrazione degli scrutini
non viene recepita. «Vi si trova un Ordo baptismi parvulorum seguito da un Ordo baptismi adulto-
rum che presentano ciascuno una sola celebrazione le cui tappe sono solamente segnate
dall’introduzione del catecumeno nella Chiesa prima del penultimo esorcismo, ed il cambiamento
delle vesti del sacerdote, dal viola al bianco, dopo l’unzione prebattesimale».155 Il battesimo viene
celebrato all’interno di un rito continuo nel quale si perde quasi completamente il senso pedagogico
dell’itinerario catecumenale.156 Questo fenomeno di contrazione e concentrazione di tutto il ricco
rituale catecu- menale/battesimale in un’unica celebrazione se da una parte ne ripropone molti
elementi rituali dall’altra non riesce più a offrire il senso dinamico dell’iniziazione come cammino
di conversione e di progressivo ingresso nel mistero della salvezza. E un rito confezionato
soprattutto per i bambini (da celebrarsi subito dopo la nascita) che diviene con qualche
aggiustamento prassi ordinaria anche per gli adulti (sia per i pagani nei paesi di missione come per
gli ebrei o i musulmani presenti in Europa).157

Questo stato di cose segnato congiuntamente dal prevalere del pedobattesimo (almeno in
Europa) e dal rito continuo rende maggiormente necessaria l’esigenza di una formazione cristiana
da offrire ai fanciulli e ai ragazzi attraverso la scuola parrocchiale di catechismo e agli adulti
attraverso una più intensa e sistematica predicazione della dottrina cattolica. «Gli stessi vescovi
provvederanno anche che almeno nelle domeniche e nelle altre feste in ogni parrocchia i bambini
siano diligentemente istruiti nei rudimenti della fede e nell’obbedienza a Dio e ai genitori da parte
di appositi incaricati che, se sarà necessario, costringeranno anche con le censure ecclesiastiche»
(sessione XXIV: Decreto di riforma, canone 4).158 Strumento privilegiato di questa istruzione è il
Catechismus ad Parochos, pubblicato nel 1566 e noto come Catechismo romano, finalizzato a
diffondere in modo capillare la dottrina cattolica, a difenderla dagli attacchi delle eresie e a superare
il clima di incertezza dottrinale provocato dalla riforma protestante.159

Dopo il battesimo ricevuto da neonati i bambini aspettano l’età della discrezione (verso i
sette anni) per ricevere l’istruzione catechistica parrocchiale, strettamente legata al conferimento
degli altri due sacramenti dell’iniziazione cristiana (prima la confermazione verso i sette anni, poi
l’eucaristia nella forma della prima comunione solenne alla fine del ciclo catechistico verso gli
undici, dodici anni).160 Nel battesimo, accanto ai genitori assume sempre più rilevanza il ruolo
svolto dai padrini. Al parroco compete di istruire questi e quelli sia in vista del battesimo sia in
relazione al compito della successiva educazione cristiana dei fanciulli.

Se si eccettuano alcune spinte profetiche di ripresa della prospettiva dell’iniziazione


cristiana come quadro globale del battesimo,161 si può affermare che il modello battesimale, così
impostato a partire sia dal catechismo del 1566 come dal rituale del 1614, rimane invariato nelle sue
linee portanti fino al concilio Vaticano II.162

Il battesimo ha ordinariamente come destinatari i neonati. L’organizzazione parrocchiale è


l’ambito ecclesiale ordinario di «amministrazione» del battesimo. La celebrazione si svolge sul
modello del rito continuo: i riti prebattesimali sono celebrati poco prima del lavacro e questo si

155Cabié, «L’iniziazione cristiana», 91.


156Tale prassi è già attestata nel Liber Sacerdotalis di Alberto Castellani, primo saggio di rituale romano pubblicato nel 1523, cf.
CABIÉ, «L’iniziazione cristiana», 91.
157II Rituale romanum presenta VOrdo baptismi adultorum al c. IV (preceduto dal c. III dedicato alle note introduttive all’ Or do).
Per l’incidenza della mortalità infantile nello sviluppo della prassi del pedobattesimo, cf. CABIÉ, «L’iniziazione cristiana», 90.
158Cf. COL», 763.
159Per una edizione recente del Catechismo romano, cf. L. ADRIANOPOLI, Il catechismo romano commentato. Con note di
aggiornamento teologico-pastorale, Ed. Ares, Milano 1990. Per il battesimo, cf. ibidem, 164-194. La materia è presentata nel modo
seguente: l’istituzione, i ministri, i padrini, il soggetto, le disposizioni, la virtù ed efficacia, le cerimonie che accompagnano il rito, cf.
ibidem, 194.
160Cf. CABIÉ, «L’iniziazione cristiana», 94.
161Cf. P. Caspani, La pertinenza teologica della nozione di iniziazione cristiana, Ed. Glossa, Milano 1999.
162II decreto Quam singulari del 1910 (cf. Denz 3530-3536) abbassa l’età della prima comunione a sette anni, cf. CABIÉ,
«L’iniziazione cristiana», 95.
compie per motivi di comodità attraverso l’infusione dell’acqua sulla testa del bambino. 163 In primo
piano stanno i genitori e, per la loro parte di responsabilità, i padrini. Ministro ordinario è il parroco.
Il tempo della celebrazione appare slegato dalla ricorrenza pasquale (e dalla cinquantina) per
«assicurare quam primum ai neonati la grazia del sacramento». 164 L’istruzione cristiana nella forma
del catechismo parrocchiale ha al centro il fanciullo che a partire dall’età della discrezione fino agli
undici/dodici anni completa anche la sua iniziazione cristiana (cresima e prima comunione,
preceduta dalla prima confessione). Il cristiano adulto che viene «generato» da questa prassi non ha
particolarmente viva la sua coscienza battesimale. Essa è invece al centro, insieme al primato della
fede, nella predicazione e negli scritti dei riformatori. La stessa istruzione cristiana degli adulti
assume una forte connotazione moralistica. Le virtù teologali, infuse nel battesimo, non emergono
come il fondamento della vita morale cristiana e questa non è avvertita come radicata nel
dinamismo della grazia battesimale ed è per questo che il Catechismo romano sente la necessità di
dover debitamente riprendere e illustrare lo si retto rapporto tra grazia battesimale, virtù infuse e
testimonianza cristiana.

La teologia del battesimo elaborata nel contesto della christianitas medievale (in particolare
la dottrina tomasiana) è fatta propria dal concilio di Trento, come era già precedentemente accaduto
nel concilio di Firenze. Essa viene tuttavia a collocarsi dentro il nuovo orizzonte caratterizzato dal
pensiero dei riformatori e dalle nuove problematiche da essi suscitate: il rapporto fede-parola-
sacramento, il rapporto giustificazione- battesimo, la questione degli effetti del battesimo in
rapporto al peccato (la questione della concupiscenza) e alla vita di grazia (la questione delle buone
opere e dei meriti). Rimane fuori da questo clima controversistico e spesso polemico una
riconsiderazione del battesimo nel quadro più ampio dei sacramenti dell’iniziazione cristiana. In
questo sia i riformatori come i padri del concilio di Trento sono accomunati dalla prospettiva
ereditata dalla teologia scolastica che, diversamente dalla prassi e dalla teologia delle Chiese
cristiane d’Oriente, si era cristallizzata in un approccio separato ai tre sacramenti. Con la Riforma
tale situazione si acuisce ulteriormente a causa della messa in questione tanto della confermazione
come sacramento istituito da Cristo, quanto di alcuni punti fondamentali della dottrina eucaristica.

Una chiave di lettura unitaria del rapporto organico tra battesimo, confermazione ed
eucaristia sembra come smarrita e solo pallidamente attestata nei libri liturgici romani del periodo
pretridentino. Nella Chiesa cattolica della Controriforma essa riemerge nell’ambito della rielabora-
xione dei riti (si veda il Rituale del Santori) da prevedere per i catecumeni provenienti
dall’ebraismo e dall’islam. L’adulto che vuole o spesso «deve» diventare cristiano interpella la
prassi sacramentale a confrontarsi con il modello offerto dalla Chiesa antica per riprendere alcuni
aspetti del catecumenato, anche se concentrati e quasi contratti in un’unica sequenza celebrativa (cf.
Rituale romanum, c. IV).165 La solennità di questi riti viene spesso ripristinata in un contesto che
risponde soprattutto all’intento apologetico di conferire maggiore pubblicità possibile alla
conversione di ebrei e musulmani alla fede cattolica.

L’autocoscienza dell’appartenenza alla Chiesa cattolica per mezzo del battesimo rappresenta
ancora, pur nel quadro della modernità incipiente, l’elemento fondamentale per un’adeguata
integrazione nella cosiddetta socìetas christìana. Con le guerre di religione e il successivo
affermarsi del principio della tolleranza religiosa il battesimo è invece sempre più legato a una
specifica appartenenza confessionale, divenendo così fattore di integrazione airinterno di un
determinato stato confessionale (cuius regio illius est religio) e di discriminazione politico-religiosa
rispetto agli stati di confessione cristiana diversa. Per ritrovare nel battesimo il comune fondamento
dell’unità dei cristiani, a prescindere dall’appartenenza politico-religiosa, occorrerà aspettare le
svolte prodotte dal movimento ecumenico e dal concilio ecumenico Vaticano II.

163II battesimo per immersione rimane comunque indicato nelle rubriche, cf. CABIÉ, «L’iniziazione cristiana», 91.
164Cabié, «L’iniziazione cristiana», 90.
165II c. III, De baptismo adultorum, inizia con il seguente ammonimento: «Adultus, nisi sciens et volens probeque instructus, ne
baptizetur; insuper admonendus ut de peccatis suis doleat».
5. Evangelizzare e battezzare nel dinamismo missionario della Chiesa moderna

La questione della necessità della fede e del battesimo per la salvezza, già trattata dai grandi
maestri della scolastica (il battesimo di desiderio, la fede implicita), torna alla ribalta in modo
inedito con la scoperta delle Americhe (1492) e l’immenso compito missionario che ne deriva. 166 In
questo quadro il grande assioma soteriologico della Chiesa antica extra Ecclesia nulla salus, riletto
dalla scolastica con alcuni significativi aggiornamenti, non può non confrontarsi con una rinnovata
comprensione dell’efficacia dell’universale volontà salvifica di Dio. Secondo il dettato del concilio
di Firenze (Decretum pro Iacobitis, 1442), le masse di uomini che non conoscono Cristo, i pagani,
al pari di ebrei, eretici e scismatici, «andranno nel fuoco eterno, [...] se prima della morte non saran-
no stati ad essa [= alla Chiesa cattolica] uniti» (Denz 1351).167 Secondo questa interpretazione così
rigida dell’antico assioma si ha l’impressione che il concilio di Firenze consegni alla perdizione per
colpevole «infedeltà» anche tutti i pagani. Tuttavia risulta difficile applicare questo enunciato alle
vaste masse di pagani del nuovo mondo che, senza colpa, non conoscono il vangelo. La tradizione
teologica si vede allora costretta «a ripensare in maniera sostanziale le condizioni della salvezza per
quanti vivono privi della conoscenza del vangelo».168

È in questo contesto che si sviluppano posizioni teologiche che ammettono l’effettiva


possibilità della giustificazione dei pagani con la fede implicita e il desiderio del battesimo (D.
Soto, R. Bellarmino). Per J. de Lugo, insegnante anche lui al Collegio Romano (1621-1643) come
precedentemente il Bellarmino, l’efficacia salvifica di Dio si estende non solo ai pagani che non
conoscono il vangelo, ma anche a eretici, ebrei e musulmani attraverso la loro fede sincera in Dio.169
Il desiderio del battesimo, sulla scia della dottrina dell’Aquinate (cf. STh III, q. 69, a. 4, ad 2), non
necessariamente deve essere esplicito e nell’opinione di questi teologi è comprensivo di un
concomitante votum ecclesiae.

Anche se il concilio di Trento, come si è visto più sopra, riconosce il valore salvifico del
votum baptismi (cf. Denz 1524), controbilanciando in tal modo l’affermazione così restrittiva del
concilio di Firenze, rimane comunque viva la presa di coscienza delle inedite sfide che le nuove
scoperte geografiche pongono alla Chiesa in ordine all’evangelizzazione. L’immenso campo della
missione ad gentes ripropone l’urgenza del mandato missionario (cf. Mt 28,16.20). La prassi
battesimale si misura in tale contesto con due tendenze di fondo: l’una, legata al metodo della
tabula rasa, porta a conferire il battesimo al maggior numero possibile di pagani dopo una rapida
catechesi, l’altra è attenta a conferire il battesimo solo dopo un’adeguata e profonda opera di
evangelizzazione in dialogo con le culture autoctone. In questo secondo caso la ripresa del modello
catecumenale avviene non solo sul piano nominale ma corrisponde a una effettiva ed articolata
esperienza di introduzione graduale alla vita cristiana.170

166Cf. J. DUPUIS, Verso una teologia del pluralismo religioso, Queriniana, Brescia 1997,162ss; GIGLIONI, Inculturazione, 71ss.
167Per alcune note di ermeneutica del testo, cf. DUPUIS, Verso una teologia, 129-131.
168DUPUIS, Verso una teologia, 159.
169Cf. DUPUIS, Verso una teologia, 160.
170In tale contesto i riti battesimali vengono adattati in parte alle nuove situazioni socio-religiose (per es. l’omissione
dell’insufflazione e àeWeffatà con la saliva, ritenuti ripugnanti dagli indiani), cf. GIGLIONI, Inculturazione, 79.
Il nuovo quadro della missione ad gentes riporta quindi in primo piano sia alcuni nodi fondamentali
della teologia del battesimo in rapporto alla salvezza (necessità del battesimo, rapporto con la fede,
aggregazione alla Chiesa...), sia l’esigenza di una prassi battesimale meno centrata sul
pedobattesimo e più attenta alla situazione dell’adulto che desidera diventare cristiano. È la
frontiera dell’evangelizzazione delle culture e della persona, colta nella sua realtà storica concreta
(cf. Paolo VI, Lvangelii nuntiandi, n. 20). In questa prospettiva la grande eredità del catecumenato e
dell’iniziazione cristiana della Chiesa antica rappresenta ira tesoro al quale attingere per elaborare
adeguati itinerari di conversione a Cristo e di aggregazione alla Chiesa. La prassi e la teologia del
battesimo tornano così a confrontarsi con l’assioma: «cristiani non si nasce ma si diventa»
(Tertulliano, Apologeticum, 18,4).171 CAPITOLO TERZO LINEE PER UN APPROCCIO
SISTEMATICO

1. Il battesimo alla luce del magistero del concilio Vaticano II e dei nuovi rituali.
Aspetti teologici e liturgici

A partire dal nuovo contesto ecclesiologico emerso dal concilio ecumenico Vaticano II e
dalla riforma liturgica voluta dallo stesso concilio si è voluta costituendo e sviluppando una visione
rinnovata del battesimo ni l’interno della realtà organica dell’iniziazione cristiana approdata poi a
quel nuovo libro liturgico da considerarsi come forma tipica della formazione cristiana: il Rito della
iniziazione cristiana degli adulti. A questa nuova visione teologica, liturgica e pastorale del
battesimo è dedicata questa ultima parte della trattazione.

1.1. La TEOLOGIA DEL BATTESIMO NELLA PROSPETTIVA DEL MAGISTERO CONCILIARE

La nuova prospettiva ecclesiologica del concilio ecumenico Vaticano II centrata sulla


nozione di popolo di Dio (cf. LG c. II) ha permesso e determinato una vera svolta nella
considerazione del sacramento del battesimo. Per mezzo del battesimo e della fede il cristiano
diviene partecipe della novità escatologica iscritta dal Signore Gesù morto e risorto nella storia del
popolo della nuova alleanza. Il battesimo abilita a una nuova fraternità universale, essendo tale per
vocazione il popolo al quale il cristiano è unito per mezzo dei vincoli della fede e dei sacramenti.
Il battesimo è dunque la porta d’ingresso (cf. CCC 1213) alla realtà della salvezza di cui la
Chiesa è, in Cristo, «come sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e
dell’unità di tutto il genere umano...» (LG 1). La novità cristiana implica per il neofita sia l’essere
costituito, irrevocabilmente (il carattere battesimale), nella dignità di figlio di Dio, sia l’essere
introdotto nella comunità dei salvati, radunata nel nome della Trinità. La dimensione verticale viene
integrata nella dimensione orizzontale colta sia nella direzione tradizionale dell’incorporazione alla
Chiesa (cf. LG 7-8,14-16) sia nella prospettiva storico-escatologica della Chiesa pellegrinante (cf.
LG 2, 9, 13 e c. V). In questa luce il battesimo appare situato nella sua originaria tensione tra
l’essere fondamento di aggregazione/appartenenza alla comunità dei salvati nella sua realtà visibile
e l’essere stigma permanente dell’universalità del popolo di Dio chiamato da tutte le genti. Il
battesimo separa aggregando ma anche aggrega accogliendo e come tale esso non è destinato solo
ad alcuni, a una minoranza, ma deve essere offerto a tutti come via ordinaria per ricevere la
salvezza radicata nel nome di Gesù. È in questa luce universale che esso ritrova il suo posto
peculiare e irrinunciabile nella più ampia azione evangelizzatrice della Chiesa. «Un unico popolo di
Dio si inserisce dunque in tutte le nazioni della terra, di mezzo alle quali prende i suoi cittadini, per
un regno che non è terreno ma celeste» (LG 13).

Questa natura allo stesso tempo esclusiva e inclusiva del sacramento del battesimo
rappresenta in qualche modo la stessa vicenda del battezzato. Occorre innanzitutto che sia
riconosciuta l’iniziativa divina della chiamata alla salvezza. Il candidato al battesimo appare fin dal-
l’inizio, nella fase del precatecumenato, come un simpatizzante nel quale lo Spirito è intervenuto,
171Cf. C. ROCCHETTA, «Fare» i cristiani oggi. Il rito dell’iniziazione cristiana degli adulti forma tipica per il rinnovamento delle
nostre comunità, EDB, Bologna 1997.
muovendolo alla conversione. I primi passi verso la fede cristiana appartengono a una gestazione di
cui non è mai possibile dare un quadro esaustivo. Alla Chiesa, per sua natura essenzialmente
missionaria, compete l’attuazione dell’opera dell’evangelizzazione (nelle sue molteplici forme) tesa
a creare le condizioni storiche di accoglienza, riconoscimento, discernimento e accompagnamento
dei chiamati alla fede. Nel tempo del catecumenato il battezzando fa esperienza, per ritus et preces,
della natura esclusiva della proposta cristiana (il dinamismo della conversione nelle sue esigenze
concrete) e nel contempo egli deve poter sperimentare che la sua realtà personale e culturale viene
accolta, purificata e finalmente elevata a quella perfezione che è donata nella partecipazione al
mistero pasquale. La tensione catecumenale e poi battesimale tra l’essere vagliati/purificati
(dimensione esclusiva) e l’essere accolti/innestati (dimensione inclusiva) risponde alla natura
paradossale sia della predicazione come del rito cristiano: è il paradosso pasquale della morte e
risurrezione di Gesù. Il rito battesimale nel suo rapporto dinamico tra parola annunciata e gesto
liturgico realizza qui e ora nel contesto di una Chiesa particolare l’essere presi, separati per morire
all’uomo vecchio, per essere rigenerati e rivestiti dell’uomo nuovo (cf. Ef 4,22-24; Col 3.9-10).
Mediante la confermazione e la partecipazione alla mensa eucaristica il battezzato riceve ciò che è
proprio dei figli di Dio: lo Spirito settiforme e le «cose sante» (sancta sanctis). Durante il tempo
della mistagogia il neofita, pur consapevole di essere un «bambino appena unto» (infans), deve
poter cominciare a sperimentare in Cristo e nella Chiesa il compimento integrale della sua stessa
realtà umana. Cristo «proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente
l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» (GS 22). Torna nuovamente il paradosso
cristiano ben esemplificato nello scritto A Diogneto. Quale membro del popolo di Dio il neobat- t e
zzato è attraversato sia sul piano essenziale (dimensione ontologica) come esistenziale (dimensione
storica) da questa mutua relazione tra singolarità e universalità dell’evento cristiano.

Il dinamismo sacramentale tipico del battesimo cristiano chiama in causa la realtà della
Chiesa nella sua funzione materna (cf. CD 13; PO 6; LG 14 e 64). Gli antichi battisteri mediante la
sapiente convergenza dei diversi codici estetici offrono questa efficace visione del grembo materno
della Chiesa. Questa appare nella sua struttura di Chiesa particolare, riunita sotto la presidenza del
vescovo e articolata secondo quella tipica ministerialità che con funzioni diverse interviene nello
sviluppo del processo di iniziazione cristiana (dal catecumenato alla mistagogia). L’aggregazione
alla Chiesa particolare e, mediante essa, alla Chiesa una, santa, cattolica e apostolica, pone l’evento
battesimale al di sopra di altre valenze di carattere socio-antropologico. La famiglia naturale, il clan
o il gruppo sociale di provenienza del catecumeno non sono l’asse portante del processo iniziatico.
La celebrazione del battesimo si propone nella sua specifica natura di evento ecclesiale in grado di
accogliere, purificare ed elevare tutto l’umano che il battezzando porta con sé. Nell’evento bat-
tesimale, così compreso, si compie una vera e propria esperienza di incul- turazione della fede. In
questa luce la Chiesa fa emergere la portata universale della sua missione salvifica in mezzo a tutti i
popoli come ricapitolazione di «tutta l’umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo nell’unità del
suo Spirito» (LG 13).

Questo quadro ecclesiologico della teologia e della prassi battesimale suppone


evidentemente una situazione diversa da quella in cui si dà la prevalenza quasi totale del
pedobattesimo. Il candidato-tipo a cui si guarda è l’adulto al quale è rivolta la chiamata alla fede. La
gestazione della risposta da parte del chiamato richiede pertanto un vero e proprio itinerario di
accompagnamento. Guardando in questa direzione il concilio ha esplicitamente richiesto il ripristino
del catecumenato degli adulti (cf. SC 64).172 La riforma del rito battesimale (cf. SC 65-70) suppone
questo primo passo. «Siano riveduti ambedue i riti del battesimo degli adulti, sia quello semplice sia
quello più solenne, tenendo conto della restaurazione del catecumenato» (SC 66). Nel caso
particolare delle terre di missione si specifica che, tenuto conto dei criteri relativi all’adattamento

172Per uno sguardo sintetico sul catecumenato nei documenti conciliari, cf. G. CAVALLOTTO, «Il nuovo rito di iniziazione cristiana
degli adulti: origine, struttura e scelte pastorali», in Iniziazione cristiana e catecumenato, 228-234. Cf. in particolare ibidem, 228-229
dove nella formulazione definitiva di SC 64 si mostra la richiesta del ripristino del catecumenato secondo una prospettiva organica
fatta di istruzione e di riti liturgici.
dei riti liturgici (cf. SC 37-40), «sia consentito accogliere, oltre agli elementi che si hanno nella
tradizione cristiana, anche quegli elementi di iniziazione in uso presso ogni popolo...» (SC 65).
Queste disposizioni risentono chiaramente di un’impostazione ecclesiologica aperta al dialogo con
le culture secondo lo spirito autenticamente cattolico e universale della missione evangelizzatrice
della Chiesa (cf. AG 14-15).

L’apertura ecumenica fatta propria dal concilio Vaticano II rappresenta un ulteriore fattore di
rinnovamento della teologia del battesimo. Ogni cristiano può infatti ritrovare nel battesimo e nella
fede cristologico- trinitaria ad esso strettamente legata il fondamento comune dell’unità tra tutti i
cristiani e Cristo (cf. LG 15 e UR 22). A partire da questo fondamento i fratelli cristiani separati
sono uniti alla Chiesa cattolica in modo da realizzare con essa «una certa comunione, sebbene
imperfetta» (UR 3).173 Per il cristiano cattolico la piena appartenenza alla Chiesa cattolica per mezzo
del battesimo e degli altri vincoli della comunione ecclesiastica (professione di fede, sacramenti,
governo ecclesiastico) non deve dare luogo a una presunzione di sicurezza della propria salvezza se
egli «non perseverando nella carità, rimane sì in seno alla Chiesa col “corpo”, ma non col “cuore”»
(LG 14). Si può considerare la grazia battesimale come il fondamento sacramentale della
comunione ecclesiale sia sul piano visibile (dalla piena comunione alla comunione imperfetta con la
Chiesa cattolica) che su quello invisibile (la carità, dono soprannaturale infuso da Dio nel battesimo,
quale anima di tutta la vita cristiana). In questa seconda prospettiva la riscoperta della comune
dignità battesimale pone in risalto la presenza di una comunione invisibile (quella che deriva dalla
carità), radicata nel sacramento (il battesimo) e insieme capace di articolarsi e di svilupparsi
secondo un movimento nascosto che solo lo Spirito conosce. Il sacramento mostra qui il suo fine
ultimo: introdurre efficacemente a quella carità che l’eucaristia viene ad alimentare in vista
dell’edificazione della Chiesa quale strumento di salvezza per tutto il genere umano.

Un altro contributo del concilio Vaticano II allo sviluppo della teologia battesimale viene
dalla riscoperta della funzione del laicato cristiano nella vita della Chiesa e nel mondo. Il battesimo,
fondamento della dignità filiale di ogni membro del popolo di Dio, evidenzia nel laico cristiano la
sua radicale e permanente partecipazione alla triplice funzione sacerdotale, profetica e regale di
Cristo. I fedeli laici «dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e,
nella loro misura, resi partecipi della funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo. per la loro
parte compiono nella Chiesa e nel mondo la missione propria di tutto il popolo cristiano» (LG 31).
Questa partecipazione è da considerarsi per i fedeli laici come la sorgente della vocazione alla
santità e come la premessa soprannaturale per la santificazione del mondo (cf. AA 6-7).Tutto inizia
con la grazia battesimale e tutto ciò che segue come dinamismo di crescita della maturità laicale non
è che espansione di questo inizio posto da Dio una volta per sempre. La stessa spiritualità del laicato
deve poter attingere da qui la sua peculiare fisionomia sia per l’edificazione della Chiesa che per la
testimonianza nel mondo secondo lo stile di Gesù (cf. LG 33-36). Ed è proprio nella prospettiva
cristologica dei dono di sé per amore che la vita battesimale si illumina fin dal suo sorgere come
una riposta d’amore al Padre per la salvezza del mondo. La vitalità di questa dimensione oblativa è
nel contempo chiaramente radicata nell’azione dello Spirito il quale nel battesimo configura a
Cristo sacerdote-profeta-re tutta la realtà personale del battezzato (cf. AA 3).

I. 'essere costituiti figli nel Figlio comporta per il fedele laico questa profonda
trasformazione che lo chiama per tutta la vita a rispondere, con l'aiuto della grazia, alle esigenze
della conversione al vangelo.
II.
L’insieme di queste prospettive teologiche (ecclesiologica, liturgica, ecumenica,
cristologica) rappresenta certamente sul piano teorico una visione profondamente rinnovata della
realtà del battesimo anche se sul piano della prassi si deve misurare, specialmente nei paesi di antica
tradizione cristiana, con un soggetto battezzato nella gran maggior parte dei casi da
173II testo precisa che tale vincolo sussiste là dove vi è la fede in Cristo unita al battesimo «ricevuto debitamente» (UR 3).
bambino/neonato. In questo orizzonte il catecumenato e l’iniziazione cristiana sono più un rito
straordinario per una minoranza di persone che da adulte accolgono la chiamata alla fede cristiana
che una realtà viva di cui si è fatta realmente esperienza. La mente del concilio risente di questa
discrasia tra teologia e pastorale quando da una parte propone il ripristino del catecumenato
pensando soprattutto alle terre di missione e dall’altra rielabora con rinnovata freschezza una
teologia battesimale che nell’ambito delle Chiese di antica tradizione cristiana ha come destinatario
un cristianesimo più convenzionale o sociologico che «convinzionale» e veramente iniziatico. In
questo secondo contesto la consapevolezza dell’appartenenza a Cristo e alla Chiesa non dipende da
un’opzione, da una scelta, da un dinamismo di conversione previo all’evento sacramentale. Questo
sembra giustificarsi più sul piano dell’integrazione sociale che su quello del discepolato, più su un
piano genericamente religioso e sacrale che su quello di incontro con la novità cristiana. Il
paradosso inscritto nel battesimo come evento iniziatico, fondativo dell’etere cristiano, si stempera
in un ossequio alla tradizione cristiana come tradizione religiosa prevalente. La società multietnica e
fortemente segnata dal pluralismo culturale e religioso pone tuttavia fortemente in discussione
questo tipo di iniziazione incentrata sul pedobattesimo. Non è in causa il valore teologico del
battesimo dei bambini quanto il modello socio-culturale nel quale esso di fatto è venuto a essere
contestualizzato. Non a caso al cristiano adulto (da un punto di vista anagrafico) sfuggono quasi
completamente le linee portanti della sua dignità battesimale. Sul piano pastorale la gran parte della
sfida della nuova evangelizzazione si colloca proprio sul fronte della «coscientizzazione» negli
adulti (e nei giovani) di questa radice battesimale trascurata e quasi dimenticata. Il cristiano
battezzato da bambino sembra essere come impegnato a vivere una paradossale gestazione dopo il
parto, dopo l’essere stati rigenerati per rìtus et preces nel grembo della Chiesa. In questa direzione
si è venuto costruendo l’itinerario catechistico e di completamento dell’iniziazione cristiana
(confermazione, prima comunione) dai sette anni alla prima adolescenza, anche se in tale itinerario
proprio il battesimo non è avvertito in tutta la sua rilevanza iniziatica.

1.2. La TEOLOGIA E LA PRASSI BATTESIMALE ALLA LUCE DEI NUOVI RITUALI

Questo stato di cose sembra essere messo completamente in discussione non solo dalla
ripresa del catecumenato in Europa ma, a partire dal 1972, dalla pubblicazione ufficiale, approvata
da Paolo VI, della editio typica del nuovo Ordo initiationis christianae adultorum (OICA).174

Era la concreta ed efficace risposta alla volontà conciliare di ripristinare il catecumenato


degli adulti. Di fatto questo nuovo Ordo assume una rilevanza pastorale di primaria importanza. In
primo luogo con esso viene proposto autorevolmente per il nostro tempo il cammino da seguire per
formare i nuovi credenti, soprattutto adulti, e accompagnarli alla rinascita battesimale. Più in
generale il nuovo Ordo sollecita le chiese a coraggiose scelte pastorali: una rinnovata presa di
coscienza della vocazione missionaria delle comunità e dei singoli cristiani, il primato dell’e-
vangelizzazione, la responsabilità di tutta la comunità ecclesiale nella trasmissione della Parola e
nell’educazione alla fede, un legame vitale fra catechesi e liturgia, la priorità formativa degli
adulti.175

Scorrendo i paragrafi della Introduzione al RICA (i Praenotanda dell’OICA) si arriva, dopo


il capitolo primo dedicato alla «Struttura dell’iniziazione degli adulti» (cf. 4-40), al capitolo
secondo riguardante i «Ministeri e uffici» (cf. 41-48) nel quale si ha una chiara visione della nuova
prospettiva ecclesiologica e sacramentale che alla luce del concilio innerva la complessa
174Per una breve storia della sua preparazione e del risveglio del catecumenato nel periodo preconciliare, cf. CAVALLOTTO, «Il
nuovo rito di iniziazione cristiana degli adulti», 223-228.234-235. La traduzione ufficiale in lingua italiana d&ÌVOlCA è del 30
gennaio 1978: Rito della iniziazione cristiana degli adulti (RICA), obbligatorio dal 4 marzo 1979. Nell’edizione italiana il rito è
preceduto dal testo delle due introduzioni de\V editio typica (Praenotanda generalia, nn. 1-35; Praenotanda, nn. 1-67) tradotte in
italiano (Introduzione generale, Introduzione), alle quali è premessa una presentazione della CEI con il titolo di «Premesse». Per il
battesimo dei bambini, la nuova editio typica dell’Ordo baptismi parvulorum (OBP) è stata promulgata il 15 maggio 1969 (il 29
agosto del 1973 è stata promulgata una seconda edizione tipica con alcune variazioni e aggiunte rispetto alla precedente), la tra -
duzione italiana, Rito del battesimo dei bambini (RBB), è del 1970. Per una presentazione dei due nuovi libri rituali cf: NOCENT,
«Battesimo» in Nuovo Dizionario di liturgia, 148-156; ROCCHETTA, «Fare» i cristiani oggi, 57ss.
175CAVALLOTTO, «Il nuovo rito di iniziazione cristiana degli adulti», 223.
articolazione dell’iniziazione cristiana.176 L’insieme dei ministeri chiamati in causa nel cammino
catecumenale verso l’iniziazione cristiana - il garante, il padrino, il vescovo, i sacerdoti, i diaconi, i
catechisti - emerge dalla realtà concreta della Chiesa particolare colta nel suo dinamismo di
mediazione salvifica e nell’esercizio della sua funzione materna (cf. 41).

Oltre a quanto è stato detto nell’introduzione generale (n. 7), il popolo di Dio, rappresentato
dalla Chiesa locale, dev’esser sempre convinto e deve mostrare concretamente che l’iniziazione
degli adulti è compito suo e impegno di tutti i battezzati. Rispondendo alla sua vocazione
apostolica, mostri dunque sempre la massima disponibilità a prestare aiuto a coloro che ricercano
Cristo (41).

Questa impostazione è rilevante anche per il battesimo dei bambini (cf. Introduzione
generale, 7) e trova esplicitazione in quelle disposizioni del rito che favoriscono la partecipazione di
tutta la comunità ecclesiale all’evento battesimale. Esso non coinvolge solo la famiglia del neonato
battezzando ma porta in luce, liturgicamente (scelta del tempo, del luogo...) e dunque
sacramentalmente, i legami ecclesiali di quella determinata porzione del popolo di Dio. «Per quanto
è possibile, tutti i bambini nati entro un dato periodo di tempo siano battezzati nello stesso giorno
con una sola celebrazione comune. Non si celebri due volte il sacramento nella medesima chiesa e
nello stesso giorno, se non per giusta causa» (27). Con il battesimo ha luogo una ri-generazione e
con essa una nuova appartenenza che accoglie, purifica ed eleva ogni altro legame di tipo naturale-
culturale. I vincoli di sangue, parentali, socio-culturali fanno spazio a quel nuovo vincolo, a quel
nuovo patto di alleanza nel quale il bambino è inserito attraverso la fede dei genitori, dei padrini e
più ampiamente della Chiesa. Questa disposizione non è che l’attuazione di quanto affermato più
sopra in linea di principio:

Ed è bene che nella celebrazione del Battesimo il popolo di Dio, rappresentato non solo dai
genitori, padrini e congiunti, ma possibilmente anche da amici, conoscenti, vicini di casa e membri
della comunità locale, prenda parte attiva al rito: in tal modo si manifesta visibilmente la fede e la
gioia con la quale tutti accolgono i neobattezzati nella Chiesa (7; anche il RBB nelle Premesse pone
nel debito rilievo questo aspetto ecclesiale, cf. 4.10).177

La dimensione orizzontale dell’inserimento del battezzato nella vita della comunità


ecclesiale non può essere solo affermata a livello teorico come uno tra gli effetti del sacramento del
battesimo. Essa, attraverso l’attuazione liturgica, riceve la sua peculiare fisionomia di aggre-
gazione/incorporazione alla Chiesa locale, presieduta dal vescovo. L’inserimento nel popolo di Dio
della nuova alleanza manifesta così la sua visibilità sacramentale. Troppo spesso questo vincolo di
comunione visibile è stato come relativizzato dalla preminenza di altri effetti soprannaturali (la
remissione del peccato, originale e personale, l’adozione filiale...), quasi che il neobattezzato possa
concepire il sorgere del vincolo ecclesiale come secondario o addirittura accidentale. In realtà il
registro sacramentale predisposto dal dispositivo liturgico del RICA non consente questa
separazione/subordinazione: ogni passo del catecumeno è personale ed ecclesiale al contempo, così
anche per il neobattezzato. La grazia battesimale è radicalmente in antitesi con una concezione indi-
vidualistica dell’esistenza cristiana: essa è filiale (l’adozione) ed ecclesiale (la comunione fraterna)
al contempo. Se si segue il cammino della formazione del catecumeno, secondo i gradi previsti dal
RICA, tale intreccio balza in evidenza con particolare chiarezza. Il dono della vita nuova in Cristo
incontra la fede del catecumeno sempre nella mediazione viva, seppure storicamente imperfetta, di
una comunità ecclesiale e reciprocamente la domanda del battesimo da parte del catecumeno suscita
nella comunità ecclesiale la manifestazione effettiva della sua intima vocazione missionaria. È per
questo che VOrdo dell’iniziazione cristiana degli adulti rappresenta non solo un rito sacramentale
tra gli altri ma acquista valore di forma tipica per la formazione cristiana. Così si è espressa la CEI
nella premessa all’edizione ufficiale in lingua italiana: «È importante quindi richiamare l’attenzione
176I restanti capitoli della Introduzione trattano: il terzo del «Tempo e luogo della iniziazione»,
il quarto degli «Adattamenti di competenza delle conferenze episcopali», il quinto delle «Compe tenze del Vescovo», il sesto
degli «Adattamenti che competono al ministro».
177Cf. Premesse al Rito del battesimo dei bambini, 12-13 ove la possibilità del battesimo in case private è limitata al pericolo di
morte e la stessa possibilità nelle cliniche è ristretta ai casi di necessità o ad altra ragione pastorale «davvero impellente». Di norma la
celebrazione deve avere luogo «nella chiesa parrocchiale», 10.
sul fatto che l’itinerario, graduale e progressivo, di evangelizzazione, iniziazione, catechesi e
mistagogia è presentato àdlVOrdo con valore di forma tipica per la formazione cristiana» (RICA, p.
12). L’evento battesimale, situato nel più ampio contesto dell’iniziazione cristiana, diviene evento
emblematico e paradigmatico della struttura essenziale della vita cristiana. Esso è iniziazione alla
dignità filiale nella fraternità ecclesiale, per mezzo di essa e in vista di essa. Non basta dirlo ma
liturgicamente - lex orandi - si deve agire così.

In questa luce ecclesiale lo stesso segno sacramentale viene a dilatarsi dal rito essenziale
dell’abluzione con l’acqua unita alla formula trinitaria a tutto l’insieme dei riti pre e postbattesimali.
«La celebrazione del Battesimo, il cui momento culminante è l’abluzione con l’acqua unita
all’invocazione della Ss. Trinità, è preparata con la benedizione dell’acqua e con la professione di
fede, che sono strettamente collegate con il rito dell’acqua» (RICA 28; cf. 23). Anche il luogo della
celebrazione, il battistero o un altro ambiente in cui è collocato il fonte battesimale (cf. RICA 25),
deve rispondere a una precisa funzionalità che ribadisce nuovamente la natura ecclesiale del
battesimo. «Il fonte battesimale può essere collocato in una cappella, situata in chiesa o fuori di
essa, o anche in altra parte della chiesa visibile ai fedeli; in ogni caso dev’essere disposto in modo
da consentire la partecipazione comunitaria» (RICA 25). Tale indicazione rituale non suona come un
suggerimento ma come un dovere («dev’essere»): è in gioco nuovamente la partecipazione della
comunità di fede. Per non parlare infine del tempo liturgico raccomandato per la celebrazione del
battesimo, unitamente agli altri sacramenti dell’iniziazione cristiana (confermazione, eucaristia),
rappresentato dalla veglia pasquale (cf. RICA 8.49.55) o eventualmente dalla domenica (cf. 59).
Tempi, luoghi e riti congiurano tutti verso la manifestazione dell’incontro tra il battezzando e la
comunità ecclesiale. È questa la situazione ordinaria prevista dal nuovo rito.

La definizione del battesimo offerta dal RICA acquisisce in questo orizzonte una sua più
piena intellegibilità: «Per mezzo del Battesimo, essi [gli uomini], ottenuta la remissione di tutti i
peccati, liberati dal potere delle tenebre sono trasferiti allo stato di figli adottivi; rinascendo dall’ac-
qua e dallo Spirito Santo diventano nuova creatura: per questo vengono chiamati e sono realmente
figli di Dio. Così, incorporati a Cristo, sono costituiti in popolo di Dio» (2).

La grazia battesimale viene a realizzare nel neobattezzato una novità che si opera
irrevocabilmente e indelebilmente sul piano ontologico: si tratta del carattere. È il sigillo della
profonda appartenenza del neofita alla condizione soprannaturale di «figlio nel Figlio» (l’adozione
filiale). Tale modificazione ontologica per sua natura invisibile è legata a un segno visibile. Nella
tradizione teologica della Chiesa cattolica il carattere è infatti sinteticamente descritto come «segno
distintivo spirituale che non si cancella mai».178 Rimane da precisare quale sia il segno che sul piano
della celebrazione sacramentale significa questa nuova condizione ontologica. Partendo dal quadro
dell’iniziazione cristiana proposto dal RICA, si deve tenere presente che il neobattezzato riceve la
confermazione subito dopo il battesimo. In questo caso l’unzione crismale non si colloca tra i riti
postbattesimali (cf. RICA 224) ma propriamente nell’ambito della celebrazione della confermazione
(cf. 227-231). Il carattere battesimale non può dunque essere significato da un gesto liturgico (l’un-
zione crismale) relativo al sacramento della confermazione. Tale gesto viene infatti a significare in
questo contesto la particolare specificazione del carattere battesimale tipica della confermazione.
Nella formula della confermazione si fa chiaro riferimento al tema del carattere attraverso
l’immagine biblico-patristica del «sigillo» (cf. 231). Nel caso in cui la celebrazione della
confermazione sia invece celebrata separatamente dal battesimo è prevista una unzione
postbattesimale con il crisma (sul capo di ogni battezzato, cf. 224) da farsi subito dopo il battesimo
(come nel caso più ricorrente del battesimo dei neonati, cf. RBB 71.118; il gesto si omette quando
ricorre il pericolo di morte, cf. 132-133; il gesto è invece previsto nel caso del rito di accoglienza in
Chiesa di un bambino già battezzato, cf. 143). Nell’orazione che precede tale unzione si dice: «Dio
onnipotente, Padre del Signore Gesù Cristo, vi ha fatto rinascere dall’acqua e dallo Spirito Santo e

178Cf. E. RUFFÌNI, Il battesimo nello Spirito. Battesimo e confermazione nell’iniziazione cristiana, Marietti, Torino 1975,336.
vi ha dato il perdono di tutti i peccati unendovi al suo popolo; egli stesso vi consacra con il crisma
di salvezza, perché inseriti in Cristo, sacerdote, re e profeta, siate membra del suo corpo per la vita
eterna» (224). Il lavacro battesimale richiede dunque questo segno dell’unzione postbattesimale con
il crisma per esplicitare il conferimento del carattere? Se fosse così, in assenza di questo gesto come
nel caso dell’immediata celebrazione della confermazione, verrebbe meno il segno sacramentale
che significa quanto è specificamente relativo al carattere battesimale. Sembra più corretto pensare
che l’unzione postbattesimale con il crisma rappresenti ritualmente (il segno) la tensione dell’evento
battesimale verso il suo completamento nella confermazione. Che le cose stiano così risulta
dairomissione di tale gesto nel caso della confermazione dopo il battesimo. Rimane dunque da
considerare lo stesso lavacro (mediante abluzione per infusione o immersione) come segno sintetico
in grado di significare anche il conferimento del carattere battesimale (la cosa è evidente nel caso
del battesimo di un bambino in pericolo di morte ove il gesto viene omesso, cf. RBB 132-133). In
realtà mediante il lavacro si è già configurata l’appartenenza irrevocabile a Cristo e alla Chiesa. Ed
è proprio nella direzione di questo vincolo nuovo operato dalla grazia battesimale che va cercato il
significato specifico del carattere battesimale. Esso costituisce, riprendendo la terminologia della
scolastica, la res et sacramentum dell’evento battesimale: questa realtà intermedia tra l’effetto
ultimo e invisibile del battesimo (res) e il segno sacramentale (sacramentum tantum) non può che
essere l’appartenenza alla Chiesa.179 Questa è infatti realtà visibile (il sorgere del vincolo della
fraternità ecclesiale) tutta protesa verso il compimento escatologico non ancora pienamente visibile
(la ricapitolazione di tutte le cose in Cristo nella piena manifestazione escatologica della gloria dei
figli di Dio). Ai neofiti prima della confermazione il celebrante è invitato a rivolgersi con le
seguenti parole: «Carissimi neofiti, che nel Battesimo siete rinati alla vita di figli di Dio e siete
diventati membra del Cristo e del suo popolo sacerdotale [il corsivo è mio], vi resta ora di ricevere
il dono dello Spirito Santo,...» (RICA 229). La specificazione del riferimento ecclesiale nella
direzione del «popolo sacerdotale» offre un’indicazione importante per cogliere il senso peculiare
del carattere battesimale come appartenenza/consacrazione.180 Su questo torna anche l’eucologia
dell’unzione postbattesimale mentre l’eucologia della confermazione ne approfondisce il risvolto
pneumatologico (230).

Tuttavia nell’Introduzione generale al RICA il nesso tra il battesimo e il carattere battesimale


(legato al tema del sacerdozio comune) viene esplicitato in stretta connessione con il segno
dell’unzione postbattesimale e non del lavacro. «Il Battesimo è il sacramento che incorpora gli
uomini alla Chiesa, li edifica come abitazione di Dio nello Spirito, li rende regale sacerdozio e
popolo santo, ed è vincolo sacramentale di unità fra tutti quelli che lo ricevono. Il Battesimo
produce un effetto permanente e definitivo, che nella liturgia latina è posto in rilievo nel momento
in cui

i battezzati, alla presenza del popolo di Dio, ricevono l’unzione del crisma [il corsivo è
mio]» (4). Tale riferimento a\Veffetto permanente e definitivo, chiara allusione al tema del carattere,
si lascia dunque leggere, anche alla luce dell’orazione che precede l’unzione postbattesimale (cf.
224), come strettamente relativo a un segno in cui si evidenzia l’attuazione di una consacrazione.
Questa riceve la sua intellegibilità da tutto il retroterra biblico legato all’unzione messianica e alla
sua triplice configurazione (regale, sacerdotale, profetica). L’unzione con il crisma di salvezza
realizza una realtà che è al contempo cristologica ed ecclesiologica: l’inserimento in Cristo
sacerdote, re e profeta come fondamento della permanente appartenenza ecclesiale. Il testo latino
dell’edizione tipica esprime questo rapporto in modo efficace: «... ut, eius aggregati populo,
Christi sacerdotis, prophetae et regis membra permaneatis in vitam aeternam» (OICA 224; cf. OBP
62.98). La traduzione ufficiale in lingua italiana scioglie il testo latino mostrando che Dio Padre
consacra con il crisma di salvezza «perché [il corsivo è mio] inseriti in Cristo, sacerdote, re e
profeta, siate sempre membra del suo corpo» (RICA 224). Tale effetto permanente, rimanere
inseparabilmente inseriti in Cristo e aggregati al suo popolo, risulta dunque significato dal gesto
179Cf. RUFFINI, Il battesimo nello Spirito, 335-338.
180Cf. CCC1273, ove si sottolinea il rapporto tra il carattere battesimale e la dimensione sacerdotale/cultuale.
dell’unzione postbattesimale. Tenendo conto che la consacrazione designa tutte e tre le dimensioni,
sacerdotale/regale/profetica, e non si limita a una sola di esse (quella sacerdotale), la comprensione
del carattere battesimale va letta non limitatamente a una di esse (l’essere deputati al culto
religioso cristiano, cf. CCC 1273), ma all’insieme delle tre così come si danno in Cristo quale capo
del corpo che è la Chiesa (il culto a cui si è abilitati a partire dal sigillo battesimale va dalla
celebrazione liturgica alla testimonianza della vita come esercizio del sacerdozio battesimale, cf.
ibidem). Come si vede chiaramente, la lettura attenta dei dati offerti dal rituale, tanto nelle pre -
messe come nel rito, unita alla specificazione offerta dal CCC (cf. 1272- 1274), converge nel porre
debitamente in rilievo i seguenti aspetti: lo stretto nesso tra l’inserimento in Cristo e l’appartenenza
alla Chiesa, la permanenza di questo duplice e unico legame, la visibilizzazione rituale di questo
legame mediante il segno che più efficacemente significa una consacrazione (l’unzione), le
conseguenze esistenziali che tale sigillo/consacrazione comporta nella vita del battezzato (la
triplice funzione sacerdotale, regale e profetica nell’edificazione della Chiesa, nell’unità con tutti i
battezzati, nella santità della vita).

Da un punto di vista rituale sembra dunque si possa concludere che il carattere battesimale,
con tutto ciò che esso implica nella sua specificità rispetto al perfezionamento dello stesso carattere
operato nel sacramento della confermazione (cf. CCC 1304-1305), sia significato dall’unzione
postbattesimale nel caso della celebrazione separata della confermazione (come nel caso ricorrente
del battesimo dei neonati) e dallo stesso lavacro nel caso della celebrazione unitaria di battesimo e
confermazione (come previsto dal RICA 208-234). A questa seconda conclusione sembra condurre
il fatto che il lavacro, meno espressivo dell’unzione in ordine al significato della consacrazione,
essendo segno dell’inserimento in Cristo e dell’appartenenza alla Chiesa rimane del tutto idoneo a
significare anche l’irrevocabilità e la permanenza di tale sigillo/vincolo: il carattere battesimale
trova qui la sua peculiare esplicitazione. Sia in un caso come nell’altro (mediante il lavacro seguito
dalla confermazione oppure dalla sola unzione crismale postbattesimale) è dal segno visibile
deli’appartenenza alla Chiesa che si attesta efficacemente l’irrevocabile inserimento in Cristo: è
attraverso questa aggregazione visibile (la fraternità ecclesiale) che si manifesta l’inizio di una
novità invisibile (l’essere costituiti figli nel Figlio morto e risorto). La distinzione interna al
carattere battesimale va vista eventualmente nella considerazione da una parte dell’inserimento in
Cristo, connotato dall’irrevocabihtà/definitività, e dall’altra della appartenenza/aggregazione alla
Chiesa, connotata dalla permanenza (cf. CCC 1272-1273). La prima appare più relativa al piano
ontologico, la seconda più a quello storico: «... inseriti in Cristo, [...] siate sempre membra del suo
corpo» (RICA 224). Nella prima è inclusa la seconda, nella seconda è in gioco la prima (nell’editio
typica: «... eius aggregati populo, Christi sacerdotis, prophetae et regis membra perma- neatis»,
OICA, 224)! Anche il catecumeno è istruito a desiderare il battesimo come l’accadere di questa
unica grazia, eristica ed ecclesiale al contempo.181

Questa rilettura cristico/ecclesiale del carattere battesimale riprende una pista di riflessione
già percorsa dalla riflessione teologico-sacra- mentaria contemporanea. Nel saggio sul battesimo e
la confermazione il teologo E. Ruffini accostando questa tematica valorizza la dimensione di segno
visibile implicita nella «definizione diventata comunissima e che parla del carattere come di un
“segno distintivo spirituale che non si cancella mai”». Il carattere non può a suo avviso essere inteso
come uno degli effetti del battesimo «nell’ambito della pura spiritualità invisibile; ambito nel quale
erano fatti rientrare tutti i doni di giustificazione soprannaturale». Esso deve essere ricompreso nella
luce del fatto sacramentale individuando la natura specifica di segno che lo attesta sul piano visibile.
«Sembra quindi del tutto opportuna la prospettiva della teologia contemporanea che intende
affermare la indelebilità e la funzione significativa (il suo essere segno) del carattere, partendo dalla
sua visibilità».

181Sul tema della Ecclesia Mater, cf. H. DE LUBAC, Meditazioni sulla Chiesa, Jaca Book, Milano 1979,161-192. «Ogni vero
cattolico proclama, con san Cipriano e sant’Agostino: “Non può avere Dio per Padre, colui che non ha la Chiesa per madre”», in
ibidem 183 (riferimenti a testi patristici in ibidem, note 104.105).
Si tratta di riprendere una linea di riflessione già inaugurata nel contesto della riflessione
patristica «nella quale la dottrina del carattere ha trovato la sua prima elaborazione teologica». Il
riferimento principale è la dottrina elaborata da sant’Agostino per il quale «è il battesimo stesso -
non certo come rito - ma come primo e fondamentale evento di salvezza, che costituisce un
contrassegno indelebile e visibile».182 Nelle riflessioni proposte più sopra si è voluto in realtà
sviluppare la riflessione sul carattere (conferito nel battesimo) considerando più da vicino la stessa
sequenza rituale, sollecitati in questa direzione dalle stesse indicazioni teologico- liturgiche dei
prenotanda e dall’eucologia. È in gioco il principio della fedeltà all’economia sacramentale nel suo
concreto attuarsi liturgico- rituale. In questa prospettiva risulta essere ancora più coerente l’assun-
zione del rapporto tra carattere battesimale e segno visibile. È in questa prospettiva che, a nostro
avviso, trovano più completa e convincente giustificazione alcune conclusioni a cui perviene il
Ruffini.

Il gesto salvifico divino che si realizza nel battesimo e che inserisce l’individuo nella storia e
nella comunità di salvezza, è un gesto che, per quanto dipende da Dio, è di sua natura irrevocabile.
D’altra parte l’irrevocabilità dell’azione salvifica divina è significata all’individuo che ne è
raggiunto e agli altri uomini mediante l’aggregazione del battezzato alla comunità e alla storia di
salvezza, che sono realtà visibili. L’evento salvifico che fa dell’uomo un battezzato, lo pone in una
relazione perenne con la Chiesa (ne fa per natura un suo membro, un cittadino del Popolo di Dio) e
fa di questa relazione un dato del tutto visibile. Quand’anche il battezzato rinnegasse il suo
battesimo e cessasse di vivere visibilmente la sua esistenza cristiana ed ecclesiale, resterà sempre,
per nascita soprannaturale, un cittadino del Popolo di Dio. Nella misura in cui il battezzato dice
relazione alla Chiesa è un contrassegnato e, nella misura in cui il battesimo stabilisce una prima
relazione con la Chiesa, suscettibile di altre più profonde e più specifiche relazioni, fa di quello bat-
tesimale un carattere aperto ad altre caratterizzazioni capaci di esprimere in forma visibile
l’organicità strutturale della Chiesa. [...] Facendo del carattere una relazione visibile con la Chiesa,
la teologia non sottrae nulla all’oggettività e alla soprannaturalità di questo particolare effetto del
battesimo e, in compenso, abbandona quelle descrizioni eccessivamente misticizzanti che si
adattano male ad una realtà che, pur appartenendo ad un mondo soprannaturale, deve anche essere
tanto incarnata da poter essere un segno.183
Il battesimo, nell’insieme dell’iniziazione cristiana così come prospettata dal RICA, non
appare più come fatto isolato regolato nel quadro della prassi socio-religiosa della socìetas
christiana ma mostra tutto il suo intrinseco dinamismo ecclesiale. Come osserva il teologo
Rocchetta, «una delle indicazioni essenziali del RICA consiste nell’aver sottratto i sacramenti
dell’iniziazione cristiana dall’isolamento entro cui sono abitualmente collocati, per affermare la
profonda unità esistente tra comunità cristiana e itinerario di iniziazione».184
La performance rituale tipica e dunque più idonea a esprimere sia la specificità come la
profonda unità tra il sacramento del battesimo e quello della confermazione (e dell’eucaristia) è
certamente quella prevista dal OICA/RICA. La mancanza dell’unità celebrativa dei sacramenti
dell’iniziazione cristiana (e dunque anche dell’eucaristia) è invece il dato ricorrente nel caso del
battesimo dei bambini. La teologia è qui chiamata a raccordare a posteriori quanto sul piano
liturgico si è venuto di fatto separando (come nel caso della teologia del carattere). Nella prassi
pastorale attuale delle Chiese in Italia la situazione si complica ulteriormente per la modificazione
della stessa sequenza dei sacramenti dell’iniziazione cristiana: al battesimo del neonato segue con
l’età della discrezione (sette/otto anni) la prima comunione (preceduta dalla prima confessione) e
verso l'età della preadolescenza (dodici/tredici anni) la confermazione.185 La prassi liturgica della
Chiesa ortodossa ha mantenuto invece nel pedobattesimo la stessa unità e sequenza celebrativa
prevista per l’iniziazione cristiana degli adulti, rimanendo così ancorata alla prassi liturgica della
Chiesa antica dei primi secoli e alla comprensione teologica del senso proprio dei sacramenti
dell’iniziazione cristiana, considerati sia singolarmente sia nel loro insieme unitario, a partire
dall’evento liturgico.

182Ruffini, Il battesimo nello Spirito, 336.


183Ruffini, Il battesimo nello Spirito, 336-337.
184Rocchetta, «Fare» i cristiani oggi, 100.
185La recente nota pastorale, L’iniziazione cristiana. 2. Orientamenti per l’iniziazione dei fanciulli e dei ragazzi dai 7 ai 14 anni (21
maggio 1999), del Consiglio episcopale permanente della CEI, nilre anche per i fanciulli e i ragazzi un percorso di tipo catecumenale,
cf. nota pastorale, c. II.
Una volta riportata in luce l’esigenza dell’unità celebrativa e della debita sequenza dei
sacramenti dell’iniziazione cristiana rimane del tutto aperto l’altro compito segnalato da Rocchetta
come indicazione essenziale del RICA: la profonda unità tra l’itinerario d’iniziazione cristiana e la
comunità cristiana. Quando anche nelle Chiese di antica tradizione cristiana, nelle quali il
pedobattesimo è la prassi prevalente (spesso quasi esclusiva), si viene a presentare la domanda del
battesimo da parte di uno o più adulti (o anche di fanciulli), la strada da prendere è quella del-
OICA.186 È questa un’occasione propizia per un vero cambiamento di mentalità e di stile pastorale.
È proprio a partire dalla proposta di itinerari catecumenali e infine dalla stessa celebrazione liturgica
dei sacramenti dell’iniziazione cristiana che la Chiesa locale viene a essere interpellata nel suo
insieme a una riscoperta della sua nativa funzione materna articolata nel suo molteplice impianto
ministeriale. In questo nuovo contesto anche la stessa teologia del battesimo potrebbe conoscere una
più adeguata riformulazione in almeno tre direzioni: quella teologico- sacramentale (la
partecipazione al mistero pasquale di Cristo; il rapporto dinamico con gli altri sacramenti
dell’iniziazione cristiana), quella ecclesiologica (l’appartenenza al popolo di Dio; l’esercizio della
funzione profetica/sacerdotale/regale; il carattere battesimale), quella pneumato- logica (il rapporto
tra la grazia battesimale e la spiritualità di comunione quale esplicitazione dell’essere edificati nello
Spirito come abitazione di Dio, cf. RICA, Introduzione generale, 4). Il modello di Chiesa che può
derivare da questa nuova impostazione della teologia battesimale non è certamente di tipo
sociologico, esso appare fortemente radicato nel mistero pasquale come espressione distintiva del
paradosso cristiano. Il rinnovamento della prassi liturgica e della forma ecclesiale indotto dal RICA
è ancora ai suoi inizi, solo un suo più radicato e convinto consolidamento potrà permettere di
delineare la figura di battezzato che ne potrà risultare. Sembra tuttavia che il cosiddetto
cristianesimo di massa debba cedere il passo non tanto a un cristianesimo esclusivo di tipo elitario
(e tanto meno settario) quanto a un cristianesimo dove prende nuovamente rilievo l’essere fermento
nella pasta, lievito nella storia. Il tratto escatologico-profetico come un essere nel mondo ma non
del mondo, stando alla visione del battesimo che emerge dal RICA (e fatte le dovute differenze
anche dal RBB), appartiene genuinamente all’esordio battesimale e non può essere declinato solo
come un elemento peculiare di un determinato stato di vita nella Chiesa (la vita religiosa).

Va detto a questo punto che un tale nuovo impianto liturgico/ecclesiale dei sacramenti
dell’iniziazione cristiana e nella fattispecie del battesimo comporta una nuova considerazione del
compito dell’evangelizzazione e della dinamica della fede in essa operante. Il battesimo,
denominato per antica tradizione sacramentum fidei (sacramento della fede), non può che essere
l’esito sacramentale di un percorso di evangelizzazione che lo ha preceduto. Così inteso l’evento
sacramentale «lungi dal “sovrapporsi” alla fede in maniera estrinseca, rappresenta la modalità
attraverso cui la fede giunge a essere compiutamente se stessa». 187 Il fatto che mediante il battesimo
(unito alla confermazione e all’eucaristia battesimale) si viene iniziati alla fede non significa
dunque un passaggio da un prima «del sacramento» a un poi «della fede» quanto il compimento di
un cammino di fede già iniziato e ancora destinato a svilupparsi fino alla piena maturità. In tale
prospettiva si deve riconoscere al sacramento, per la sua tipicità di azione efficace di salvezza da
parte della Trinità nella e mediante la Chiesa (ex opere operato), e al battesimo in particolare, la
posizione di vero e proprio evento di passaggio da un prima a un dopo della stessa dinamica della
fede. «I sacramenti sono ordinati alla santificazione degli uomini, alla edificazione del corpo di
Cristo, e infine a rendere culto a Dio; in quanto segni, hanno poi anche la funzione di istruire. Non
solo suppongono la fede, ma con le parole e gli elementi rituali la nutrono, la irrobusticono e la
esprimono; perciò vengono chiamati sacramenti della fede» (SC 59).

Seguendo l’itinerario catecumenale previsto dal RICA si può notare come ai candidati al
catecumenato in occasione del rito di ammissione si domanda prima il nome e poi il celebrante
186Si veda la nota pastorale precedente: L’iniziazione cristiana. 1. Orientamenti per il catecumenato degli adulti (30 marzo 1997).
Per i testi delle note pastorali, cf. Ufficio Catechistico Nazionale - Servizio nazionale per il catecumenato (edd.), L’iniziazione
cristiana. Documenti e orientamenti della Conferenza Episcopale Italiana, ElleDiCi, Leumann (TO) 2004.
187P. CASPANI, «LO sviluppo dei trattati: dal “De sacramento baptismi” alla “iniziazione cristiana”», in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA
ITALIANA, Il sacramento della fede, 113.
chiede: «Che cosa domandi alla Chiesa di Dio?». Il rito, pur lasciando libertà nel modulare sia l’in-
terrogazione che la risposta in vari modi, prevede un esempio tipico di dialogo nel quale il
candidato risponde all’interrogazione dicendo: «La fede» (RICA 75; cf. anche RBB 37). Alla
domanda successiva: «E la fede che cosa ti dona?», egli nuovamente risponde: «La vita eterna». Il
dono escatologico della grazia battesimale, come appartenenza al popolo dei salvati nella
partecipazione alla dignità filiale di Gesù morto e risorto, appare come realtà donata e richiesta allo
stesso tempo. Essa è ancora desiderata - siamo all’inizio del percorso catecumenale - e in tale desi-
derio la Chiesa riconosce il germe della risposta all’iniziativa gratuita di Dio Padre che mediante il
suo Spirito muove il cuore dell’uomo verso la conversione. Prima del rito di ammissione, come
anche prima dei due gradi successivi (il rito di elezione, cf. RICA 133ss; la celebrazione dei
sacramenti dell’iniziazione, cf. 208ss), tale fede viene vagliata per discernere e affinare i veri motivi
della conversione (cf. RICA 69). L’impulso divino della conversione va riconosciuto come tale:
l’attestazione del precatecumeno deve completarsi con l’intervento autorevole della Chiesa (il rito
di ammissione al catecumenato).

La fede nel suo tipico dinamismo di chiamata (ex parte Dei) e risposta (exparte hominis) non
è che l’attuarsi qui ed ora nella storia di un individuo storicamente situato e determinato del
colloquio di salvezza che Dio Padre per mezzo del Figlio nello Spirito, gratuitamente, instaura (cf.
DV 2). La celebrazione del battesimo si colloca nell’alveo di questa relazione di dialogo tra l’uomo
e Dio (la fede come atto globale di adesione al Dio di Gesù Cristo). La tessitura di questa trama
chiama in causa la Chiesa ed è in essa che il catecumeno viene istruito nella fede cristiana (la fede
nella sua esplicitazione dottrinale sia dogmatica che morale) fino alla professione di fede che
precede il lavacro battesimale (cf. RICA 219).

In questa prospettiva il catecumenato trova la propria genuina fisionomia: esso non si


configura come ciò che «produce» l’iniziazione, con la conseguenza di ridurre i sacramenti a
momento di «ratifica» di una mèta raggiunta percorrendo tutte le tappe di un certo apprendistato.
L’itinerario catecumenale mira invece a far sì che il credente si disponga a essere iniziato - «fatto
cristiano» - attraverso un atto gratuito di Dio, attraverso l’azione rituale della Chiesa che celebra.
[...] In questa linea, non è fuori luogo considerare il catecumenato come il «dispiegamento
cronologico dell’azione battesimale», mentre i gesti rituali che lo ritmano si possono definire «tappe
del battesimo».188
Nel battesimo i diversi aspetti del dinamismo della fede trovano una loro peculiare
cristallizzazione che configura, per grazia (l’efficacia sacramentale), la novità irrevocabile
dell’inserimento in Cristo e dell’incorporazione al suo corpo che è la Chiesa. L’iniziativa salvifica
di Dio perviene nella celebrazione del battesimo (nell’hodie della celebrazione liturgi- co-
sacramentale) &W inizio del compimento della sua originaria intenzionalità: che tutti siano una cosa
sola in Gesù, unico salvatore del mondo (cf. RICA 76.146.213).

Da un punto di vista teologico questa considerazione della interrelazione tra fede e battesimo
pone nuovamente in luce alcuni aspetti rilevanti della soteriologia cristiana: il primato della grazia,
il rapporto intrinseco tra parola e sacramento, il dinamismo soprannaturale della fede come risposta
all’iniziativa gratuita di Dio. A questo riguardo la formulazione agostiniana del rapporto tra natura e
grazia elaborata nel contesto della controversia pelagiana torna a mostrare tutta la sua attualità e
fecondità. Tutto è opera di Dio che chiama alla salvezza, suscita la fede e giustifica l’uomo
peccatore mediante il lavacro battesimale (magna indulgentia). Il santo vescovo d’Ippona sa anche
che questo mistero di grazia non viola la libertà dell’uomo ma la interpella e la conduce dove essa,
inferma a causa del peccato, non sa di dover andare, né sapendolo potrebbe andarvi. Ed è proprio
per venire incontro a tale condizione di smarrimento dell’uomo peccatore che egli, convinto del
primato della grazia, non cessa di mettere in opera ogni attenzione pastorale per i catecumeni. In
termini più attuali ciò significa che il riconoscimento del primato della grazia si dà solo nel
corrispondente impegno concreto per l’evangelizzazione nelle sue diverse forme e nei diversi

188Caspani, «Lo sviluppo dei trattati: dal “De sacramento baptismi” alla “iniziazione cristiana”», 114.115.
contesti. Tale riconoscimento non può infatti che esplicitarsi in una comunicazione gratuita agli altri
di quanto, nello stupore, è stato avvertito come decisivo in ordine alla propria salvezza. La
pedagogia del catecumenato non è che la traduzione in termini ecclesiali e dunque sacramentali
dell’introduzione progressiva della libertà nella pienezza della novità cristiana. Tutto si onera
nell’orizzonte della grazia e insieme tutto è affidato all’iniziativa materna della Chiesa. È nella fede
della Chiesa che i catecumeni vengo- no battezzati! Tale principio sacramentale è fondamentale non
solo per il battesimo dei neonati ma per ogni battezzato: anche l’adulto viene battezzato nella fede
della Chiesa. Non c’è un altro ambito che possa permettere tale rigenerazione se non la fede della
Chiesa verso il suo Sposo c Signore.

La grazia battesimale non è che l’attuazione sacramentale dell’incontro tra la grazia dello
Sposo (originante) con quella della Sposa (originata) nella vita dell’uomo (ri-generato, neofita).
Collocato in questo incontro sponsale l’atto battesimale assume per il battezzando il valore di inizio
della vita cristiana nel senso di introduzione, penitus et preces, alla novità escatologica della nuova
alleanza. Da questo momento in poi il battezzato trova la sua identità nell’ambito di questo patto: il
patto nuziale tra Dio e l’umanità stabilito una volta per sempre nell’oblazione pasquale di Gesù.
Quale battezzato egli prenderà parte, una volta completata l’iniziazione (confermazione ed
eucaristia battesimale), alla funzione materna della Chiesa verso coloro che ancora devono essere
iniziati.

Le implicazioni soteriologiche contenute nella teologia del battesimo vanno a toccare anche
la delicata questione del rapporto tra il dono della salvezza e l’appartenenza alla Chiesa. Nella
Chiesa antica come nella teologia scolastica sia il battesimo di desiderio come il battesimo di
sangue donano la grazia giustificante e comportano, almeno implicitamente, il desiderio
dell’aggregazione ecclesiale (votum Ecclesiae). La rilettura contemporanea dell’adagio ciprianeo
extra Ecclesia nulla salus si è sviluppata in direzioni molto diversificate.189 Tra i due estremi
opposti il battesimo e l’appartenenza alla Chiesa non sono necessari alla salvezza dal momento che
ogni autentica esperienza religiosa essendo radicata in Cristo come fondamento ultimo della
salvezza è via idonea per essere salvati, il battesimo e l’appartenenza alla Chiesa sono
assolutamente necessari per essere salvati - si collocano una varietà di posizioni che nel loro
insieme sembrano gravitare più verso il primo estremo che verso il secondo. Occorre tenere
presente che l’autorevole magistero conciliare ha ricollocato la Chiesa e i sacramenti in un più
ampio e comprensivo disegno salvifico universale da parte di Dio ove la comunicazione della
salvezza può avvalersi anche di altre mediazioni (extrasacramentali ed extraecclesiali). Le
discussioni che ne sono scaturite - si pensi alla cosiddetta teoria dei «cristiani anonimi» - si sono
riproposte di comprendere positivamente come riconoscere l’efficacia dell’iniziativa salvifica
universale di Dio, tenendo conto che l’appartenenza alla Chiesa mediante il battesimo non riguarda
se non una parte dell’umanità. Che rapporto vi è tra questa parte e il tutto: questi dannati e gli altri
salvati? Il suggerimento che viene dalla visione ecclesiologica del concilio mira a riconoscere un
legame intrinseco tra la portata sacramentale della Chiesa e il destino di salvezza dell’umanità.
Questa è chiamata a diventare Chiesa, a entrare nella condizione escatologica del popolo della
Nuova Alleanza.

Il battesimo è la porta d’ingresso. Ne viene allora per la Chiesa una rinnovata coscienza
della sua essenziale natura missionaria.190 Da questo compito essa non può, né potrà mai
allontanarsi: ne va della sua stessa identità. L’opera di evangelizzazione dei popoli e delle culture
appare dunque strettamente legata alla natura essenzialmente missionaria della Chiesa. Nel contesto
di ogni Chiesa locale tale opera assume forme diverse che vanno dal primo annuncio alla catechesi.
Il battesimo non può essere compreso adeguatamente sul piano teologico, né tanto meno può essere

189Cf: G. ODASSO, Bibbia e religioni. Prospettive bibliche per la teologia delle religioni, Urba- niana Univ. Press, Roma 2002,31-
109; DUPUIS, Verso una teologia del pluralismo religioso, 241ss.
190Cf. Giovanni Paolo II, lettera enciclica Redemptoris missio, 07.12.1990, c. IV: EV 12/610- 630; Congregazione per la Dottrina
della fede, dichiarazione Dominus Jesus, 06.08.2000, n. 22: EV 19/1195.
celebrato fruttuosamente se non nell’alveo di questa molteplice azione evangelizzatrice (cf. Mt
28,18-20) condotta nella forza dello Spirito Santo donato a Pasqua (cf. Gv 20,22). A questo
proposito risultano nuovamente pertinenti le considerazioni già esposte sul rapporto tra battesimo e
fede.

Nella storia della prassi dell’iniziazione cristiana, quando l’evangelizzazione non è stata
profonda e capillare si è già visto come gli stessi riti, specialmente quelli del catecumenato, si siano
affastellati, abbiano perduto il loro autentico contesto ermeneutico e appesantito infine la stessa
celebrazione del battesimo, rendendosi scarsamente intellegibili. Il battesimo, così come gli altri
sacramenti dell’iniziazione cristiana, trova nelle diverse forme di evangelizzazione la premessa
necessaria e ineludìbile per manifestarsi come porta d’ingresso per la fede cristiana. In questa pro-
spettiva anche la necessità del battesimo in ordine alla salvezza, più volte affermata e ribadita sul
piano magisteriale, rivela una sua più profonda intelligibilità.191 Diversamente si rimane solo
dinnanzi a una affermazione di principio per cui si rimette alla sola azione sacramentale quanto
dipende dal legame dinamico tra parola da annunciare e sacramento da celebrare. È necessario
annunciare il vangelo, porgerlo agli uomini alla ricerca della salvezza: in tale ordine di necessità si
colloca quella più peculiare dello stesso battesimo. Anzi la stessa celebrazione sacramentale
facendo e realizzando quello che dice diviene in modo eminente annuncio del vangelo e appello alla
fede in Gesù Cristo quale unico Salvatore del mondo.

Detto questo la Chiesa ha sempre riconosciuto e riconosce come l’opera divina di salvezza,
compiutasi una volta per sempre in Gesù Cristo, possa realizzarsi, in via straordinaria, anche
attraverso vie che solo Dio conosce (l’obbedienza alla retta coscienza morale, le altre religioni per
la parte di verità e salvezza che esse contengono...). Da un punto di vista della visibilità storica esse
non sono espressione diretta dell’agire ecclesiale-sacramentale, anche se sul piano invisibile delle
realtà soprannaturali esse sono ordinate a trovare compimento in Cristo e ricevono dal suo mistero
pasquale la loro particolare efficacia salvifica. Considerate in se stesse esse si rivelano parziali e
imperfette e come tali sono un costante appello alla Chiesa affinché le accolga, le purifichi e le elevi
alla perfezione del mistero pasquale. In quanto ordinate a essere ricapitolate in Cristo queste vie
straordinarie di salvezza sono anche ordinate a trovare nella Chiesa cattolica, Sposa di Cristo, la
loro pienezza di verità e di bene. Il battesimo riprende nel suo assetto celebrativo e teologico questo
stesso paradosso: tutta l’umanità del battezzato viene a essere assunta, purificata e perfezionata nel
mistero pasquale al quale si è iniziati una volta per sempre. Il catecumenato è il tempo nel quale il
candidato fa esperienza, insieme con la Chiesa locale, di questo processo di ricapitolazione nel
mistero di Cristo della sua concreta realtà storica impastata di natura e di cultura.

Questa tensione tra le vie e i mezzi straordinari di salvezza e il battesimo rivela più
profondamente il senso preciso della cattolicità della Chiesa.Tale nota ecclesiale dice il senso
profondo dell’affermazione della necessità del battesimo: tutto ciò che vi è di vero, di buono e di
bello è di Cristo, unico Signore della storia. Nel lavacro battesimale si opera, secondo la logica del
sacramento, la riconciliazione della storia e del cosmo con Cristo, Principio e Fine di tutte le cose. Il
frammento è riportato al suo lutto, in esso è tuffato per essere liberato dal peccato e dalla morte ed
essere trasfigurato (cf. Rm 8,18-25). In questa luce il battesimo dischiude una sua specifica
operatività simbolica: il ricongiungimento di ciò che era separato e diviso con la pienezza e il
destino a cui fin dalla fondazione del mondo tutto era stato promesso.

In questa prospettiva della ricapitolazione il battesimo cristiano dà inizio nella vita del
credente, secondo la peculiare efficacia tipica del sacramento, a un dinamismo di trasformazione e
comunione che risponde all’azione dello Spirito Santo donato a Pentecoste. Questo inizio mira al
suo compimento liturgico-sacramentale negli altri due sacramenti dell’iniziazione cristiana
(confermazione ed eucaristia) e solo allora si può parlare propriamente del credente come iniziato

191Sulla necessità del battesimo per la salvezza, cf. CCC 1257. Cf. anche Redemptoris missio nn. 46-47; Dominus Jesus, c. VI.
alla fede cristiana mediante i sacramenti. Nell’ambito di questo processo unitario di iniziazione
(liturgico, teologico e possibilmente anche pastorale) tutta l’azione sacramentale è compiuta nello
Spirito Santo e nel contempo tale azione pneumatica si lascia specificare secondo le attuazioni
peculiari di ciascuno dei tre sacramenti. La conclusione che ne viene sul piano teologico è la
necessità di considerare innanzitutto l’azione dello Spirito nel suo insieme per collocare poi entro
tale quadro pneumatico unitario le tre specifiche attuazioni sacramentali. La dimensione pneumatica
appare così quale tratto costitutivo di tutto il processo iniziatico così come lo è la dimensione
eristica.

Non si può dunque trattare l’aspetto pneumatico del battesimo senza avvertire che esso tende
a compiersi nella crismazione/confermazione e nell’eucaristia battesimale, in vista di un cammino
di maturazione cristiana di cui l’eucaristia domenicale rappresenta la fonte e il culmine.192 Né tanto
meno si può concentrare la dimensione pneumatica dell’iniziazione nel solo sacramento della
crismazione/confermazione. Sarebbe come volere non tanto distinguere ma separare all’interno del
mistero pasquale la morte/resurrezione da una parte e la Pentecoste dall’altra, reduplicando tale
separazione in una trattazione del battesimo disgiunta da quella della confermazione. Il mistero
pasquale si dà invece nella complessa unità dinamica della duplice missione del Figlio e dello
Spirito. Non è dunque pertinente risolvere la teologia del battesimo sotto il segno della cristologia e
quella della confermazione sotto il segno della pneumatologia. Il battesimo cristiano è infatti
nativamente battesimo nello Spirito Santo (cf. At 2,38; 10,44-48)!

La distinzione delle due missioni salvifiche, quella del Figlio e quella dello Spirito, con i
rispettivi momenti salienti dell’unico mistero pasquale, la morte/risurrezione di Gesù e l’effusione
pentecostale dello Spirito, permette invece una lettura più appropriata della dimensione pneumatica
del battesimo.193 Essa può essere illustrata mettendo in evidenza il rapporto dello Spirito con il dato
centrale dell’evento battesimale: l’essere innestati una volta per sempre nel mistero della morte e
risurrezione di Gesù. «Infatti coloro che ricevono il Battesimo, segno sacramentale della morte di
Cristo, con lui sono sepolti nella morte e con lui vivificati e risuscitati» ( R K ' A . Introduzione
generale, 6; cf. anche 1). Questa configurazione (o conformazione) al Cristo morto e risorto, operata
nel lavacro battesimale, viene resa «più profonda» nella confermazione: «Nella Confermazione, che
li segna con lo Spirito Santo, dono del Padre, i battezzati ricevono una più profonda configurazione
a Cristo e una maggiore abbondanza dello stesso Spirito fino alla piena maturità del corpo di
Cristo» (2, il corsivo è mio). Nel battesimo viene dunque operata la configurazione a Cristo morto e
risorto e tale configurazione deve essere compresa come inclusiva di una prima donazione dello
Spirito, quella donazione che proviene dal! 1 essere uniti a colui che è stato risuscitato nella potenza
dello Spirito Santo e che dona lo Spirito senza misura. Il mistero pasquale emerge nel suo nucleo
cristocentrico nel quale è custodita e implicata la stessa donazione pentecostale. Ed è questa stessa
donazione che viene a essere esplicitata e completata nel sacramento della confermazione («una
maggiore abbondanza di Spirito Santo»).194 La novità ontologica operata dal battesimo è dunque
allo stesso tempo eristica e pneumatica anche se è la prima a essere centrale: l’essere conformati al
Figlio crocifisso-risorto e nel contempo essere resi tempio/dimora dello Spirito Santo.

La dimensione pneumatica del battesimo si lascia cogliere nell’evento battesimale anche da


un altro punto di vista al quale si è già accennato quando si è detto che tutta l’azione liturgico-
sacramentale dell’iniziazione cristiana si realizza nella potenza dello Spirito Santo donato a Pasqua
(cf. SC 6). Riprendendo la terminologia della teologia scolastica la riflessione intende ora passare
dagli effetti del battesimo (la figliolanza adottiva e unita ad esso la prima e fondamentale donazione
dello Spirito) alla causalità sacramentale. Su questo piano lo Spirito emerge come Colui che opera
192«In ogni caso, ciò che si può dire “di principio” è che Battesimo e Confermazione sono i sacramenti che realizzano l’identità del
cristiano, il quale, nell’Eucaristia, si alimenta continuamente per vivere per/con/in Cristo nell’unità dello Spirito a gloria del
Padre», in L. GIRARDI, «La celebrazione della Confermazione nel contesto della iniziazione cristiana», in La Confermazione dono
dello Spirito per la vita della Chiesa, introduzione di D. Bonifazi, Massimo, Milano 1998,72; cf. anche ibidem, 59-61.
193Cf. D. BOROBIO, «La Confirmación como don del Espíritu Pentecostal», in Phase 38(1998)223,
55-70.
194Su questo si veda il c. seguente.
(causalità efficiente) per volontà del Padre la conformazione del battezzato al Figlio crocifisso e
risorto. In tale prospettiva tutta la celebrazione liturgica del sacramento del battesimo è apertamente
pneumatica.

In questa luce lo Spirito appare non solo come donato al battezzato in ragione della
conformazione di questi al mistero della morte e risurrezione di Gesù ma anche come Colui che, in
obbedienza al Padre, opera la santificazione del catecumeno-eletto per renderlo dimora della Trinità.
Lo Spirito del Padre che conosce le profondità del mistero di Cristo e le profondità del cuore
dell’uomo realizza efficacemente l’immanenza (la teologia scolastica parla di grazia increata) del
mistero d’amore della Trinità nella persona del battezzato. La specificità battesimale di questa
operazione dello Spirito sta nel dare inizio nella vita del battezzando a quella identità filiale alla
quale egli è stato promesso fin dalla fondazione del mondo e della quale è stato reso erede per
mezzo della morte e risurrezione di Gesù.

La ricchezza di tale prospettiva pneumatica trova la sua esplicitazione nella prospettiva


ecclesiologica che pone in evidenza la funzione materna della Chiesa. Nel grembo della Chiesa (il
riferimento al fonte battesimale come utero), per mezzo dell’azione santificante dello Spirito (il
riferimento alla preghiera di benedizione dell’acqua, cf. RICA 215 c RBB 60), il lavacro battesimale
accede alla sua significatività propria di azione di rigenerazione alla novità della vita filiale nel
Figlio morto e risorto. La lettura pneumatica dell’efficacia sacramentale non è altro che la
traduzione in un linguaggio più concettuale del significato materno- generativo dell’impianto
simbolico del lavacro battesimale. Nella preghiera di benedizione dell’acqua battesimale è proprio
questa fecondità che viene a essere evocata richiamando i passaggi nodali della storia delki
salvezza. L’acqua e lo Spirito in tale testo appaiono mutuamente intrecciati nell’evocare l’accadere
degli interventi divini fino al compimento pasquale, come il susseguirsi di «inizi» successivi nel
quale Dio si annuncia come Colui che prende l’iniziativa per mezzo dello Spirito (creazione,
diluvio, esodo, battesimo e morte/risurrezione di Gesù). Ed è nel crescendo di questa economia
salvifica che viene a collocarsi lo stesso «inizio» della vita nuova nella vita dei battezzando
Ora, Padre,
guarda con amore la tua Chiesa e fa scaturire per lei la sorgente del Battesimo.
Infondi in quest’acqua,
per opera dello Spirito Santo,
la grazia del tuo unico Figlio,
perché con il sacramento del Battesimo
l’uomo, fatto a tua immagine,
sia lavato dalla macchia del peccato,
e dall’acqua e dallo Spirito Santo
rinasca come nuova creatura.
Il celebrante tocca l’acqua con la mano destra e prosegue:
Discenda, Padre, in quest’acqua,
per opera del tuo Figlio,
la potenza dello Spirito Santo,
perché tutti coloro
che in essa riceveranno il Battesimo,
sepolti insieme con Cristo nella morte,
con lui risorgano alla vita immortale.
Per Cristo nostro Signore (RICA 215 e RBB 60).
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Leumann (TO) 2004. SECONDA PARTE IL SACRAMENTO DELLA CONFERMAZIONE
Mario Florio
INTRODUZIONE

«Nella Confermazione, che li segna con lo Spirito Santo, dono del Padre, i battezzati
ricevono una più profonda configurazione a Cristo e una maggiore abbondanza di Spirito Santo, per
essere capaci di portare al mondo la testimonianza dello stesso Spirito fino alla piena maturità del
corpo di Cristo» (RICA, Introduzione generale, 2).

Nella trattazione sul sacramento del battesimo, specialmente nella parte biblica e patristica, è
emersa la stretta relazione tra l’evento battesimale e il conferimento del dono dello Spirito Santo.
Ora, attraverso l’esame dei testi neotestamentari e delle testimonianze patristiche e liturgiche della
Chiesa antica, si tratta di documentare se e come tale conferimento sia legato, a partire dal
battesimo, anche a un altro rito distinto e tale da poter giustificare l’emergenza di una realtà
propriamente sacramentale.

Nella storia liturgica la diversa prassi seguita dalle Chiese in Occidente rispetto alle Chiese
dell’Oriente è arrivata a dare una figura piuttosto autonoma a tale rito assegnandogli un posto del
tutto speciale nell’organismo sacramentale, sia rispetto ai sacramenti dell’iniziazione cristiana che
agli altri sacramenti. In particolare la sistematizzazione del discorso sacramentale elaborata dalla
teologia scolastica ha prodotto, in analogia agli altri sacramenti, una teologia della confermazione
che è divenuta determinante per tutti gli sviluppi successivi, sia sul piano della dottrina che della
prassi.

Fino alla costituzione apostolica di Paolo VI, Divinae consortium naturae (15 agosto 1971),
il ricco contributo della teologia scolastica, assunto dal concilio di Trento come risposta ai
riformatori, ha rappresentato il punto di riferimento preferenziale e spesso esclusivo per esporre la
dottrina sul sacramento della confermazione.195 Il recupero della prassi della Chiesa antica e la
connessa ricollocazione della confermazione nella liturgia della iniziazione cristiana ha provocato
anche una rivisitazione della prassi pastorale in corso, specialmente nella Chiesa latina. Tutto ciò si
è svolto e si sta svolgendo in un clima ecumenico particolarmente fecondo che permette di guardare
al modello della tradizione liturgica delle Chiese orientali nel quale la confermazione, meglio dire
crismazione (cf. CCC 1289), è rimasta sempre strettamente unita, liturgicamente, teologicamente e
pastoralmente, all’iniziazione cristiana.

«In Occidente, poiché si preferisce riservare al vescovo il portare a compimento il


Battesimo, avviene la separazione temporale dei due sacramenti. L’Oriente ha invece conservato

195La questione del «segno sacramentale» così come risolta da Paolo VI (la crismazione e non l’imposizione delle mani e/o della
mano) non ha lasciato convinti tutti gli studiosi, come Ligier, convinto assertore dell’imposizione della mano/delle mani quale parte
essenziale del segno sacramentale. Cf. L. LIGIER, La Confermazione. Significato e implicazioni ecumeniche ieri e oggi, ED, Roma
1990 (ed. or. Paris 1973).
uniti i due sacramenti, così che la Confermazione è conferita dal presbitero stesso che battezza.
Questi tuttavia può farlo soltanto con il “crisma” consacrato dal vescovo» (cf. CCC 1291).

Le nuove opportunità celebrative offerte dal OICA/RICA consentono ora anche per le Chiese
d’Occidente un profondo rinnovamento della comprensione teologica, liturgica e pastorale della
confermazione nel quadro unitario dell’iniziazione cristiana. Ecco perché si è voluto iniziare questo
nuovo capitolo partendo proprio da tale autorevole espressione del rituale romano. 196 Per quanto
concerne poi la specificità della situazione italiana, la scelta di tale impostazione non fa che attua-
lizzare sul piano della riflessione teologica il principio cardine che i vescovi italiani affermarono nel
presentare la versione ufficiale in lingua italiana del RICA in base al quale si riconosceva dlV Or do
in esso contenuto il valore di forma tipica per la formazione cristiana (cf. RICA, Premesse, p. 12).

Questa prospettiva consente di liberare il campo della riflessione teologica sulla


confermazione da tutta una serie di questioni che, pur significative sul piano pastorale, non sono
attinenti a tale specifica realtà sacramentale. In particolare risulta parziale sovradeterminare la
confermazione - separatamente dall’eucaristia - del significato di partecipazione del neobattezzato
alla maturità cristiana e al connesso compito della testimonianza, per lo più intesa in chiave
individuale.197 Se vi è nella tradizione teologica occidentale, soprattutto a partire dal celebre testo di
Fausto di Riez,198 tutta una riflessione che si è spesa in questo senso, vi è una più antica e solida
riflessione teologica e prassi liturgica che riconosce tale valenza al sacramento che porta a
compimento Viter di iniziazione cristiana e che come tale introduce appunto alla tipicità della
maturità cristiana: l’eucaristia. È a questo sacramento che va riconosciuta, anche in ragione della
sua ripetibilità nella vita ordinaria del battezzato (e confer- mato/crismato), la qualità specifica
(sacramentale) di determinare il senso e la forma della maturità cristiana. La
confermazione/crismazione sta invece, analogamente al battesimo, sul versante di ciò che si realizza
una volta per sempre in rapporto alla radicale strutturazione del diventare cristiani, dell’essere
irripetibilmente iniziati alla vita cristiana per poter poi vivere da cristiani. La confermazione, riletta
nel quadro unitario dei tre sacramenti dell’iniziazione cristiana, ha come destinatario chi, seconde';
il linguaggio pregnante della Chiesa antica (sia in Occidente come in Oriente), è ancora infante
(novicioli, nepioi) e tale continua a essere anche dopo l’eucaristia battesimale fino al compimento di
tutto il successivo tempo della mistagogia. Nessuno si è mai sognato nella prassi della Chiesa antica
di trattare chi è appena nato alla vita cristiana come soggetto adulto nella fede. Egli è chiamato a
quella maturità alla quale fin dal battesimo è stato promesso e per la quale viene dotato di tutto ciò
che è necessario sul piano ontologico dal battesimo e dalla confermazione/ crismazione. La prima
partecipazione all’eucaristia (l’eucaristia battesimale) è la prolessi sacramentale di quella maturità
che dovrà realizzarsi nella storia del credente fino a portarlo, nella comunione ecclesiale, a quella
piena maturità che è Cristo (cf. Ef 4,13).

Ci rendiamo conto che l’aver indugiato nell’esposizione di questa tesi sembra come esulare
dalla attuale realtà pastorale. Il paradigma di riferimento, l’iniziazione cristiana preceduta dal
catecumenato (secondo la prospettiva offerta dal RICA), rappresenta una prassi eccezionale e non
sembra giocare il ruolo di forma tipica per la formazione cristiana. Nella prassi prevalente delle
Chiese in Italia la realtà è quella del pedobattesimo a cui segue a partire dai sette anni circa (l’età
della discrezione) l’inizio dell’istruzione catechistica (a livello parrocchiale) in vista della prima
comunione (preceduta dalla prima confessione). La confermazione sia. cronologicamente, alla fine
del processo di iniziazione ed è collocata normalmente (anche per esplicita indicazione della CEI)
nell’età della preadolescenza (undici o dodici anni).199 L’istruzione catechistica, svolta non sempre
196Si noti che il Rito della confermazione (RC), in quanto nel rito latino ha il vescovo quale suo ministro «originario», è parte del
Pontificale romano e non del Rituale romano. La nuova editio typica dell’Ordo confirmationis (OC) è stata promulgata il 22 agosto
1971; la versione ufficiale in lingua italiana a cura della CEI del Rito della confermazione, approvata il 28 marzo 1972, è divenuta
obbligatoria dal 1° gennaio 1973.
197Cf. GIRARDI, «La celebrazione della Confermazione nel contesto della iniziazione cristiana», in La Confermazione dono dello
Spirito per la vita della Chiesa, introduzione di D. BONIFAZI, Massimo, Milano 1998,62-64.
198Cf. P. DE CLERCK, «La confirmation: vers un consensus oscuménique?», in La Maison-Dìeu 211(1997), 86-88.
199Cf. W. RUSPI, «La pastorale della Confermazione e il progetto catechistico della Cei», in La Confermazione dono dello Spirito
in modo continuativo durante questo arco temporale (7-12 anni), è per lo più intesa in vista dei due
sacramenti dell’eucaristia e della confermazione o tre se si considera anche il sacramento della
penitenza (la cosiddetta «prima confessione») e non in vista della vita cristiana alla quale si è
iniziati mediante i sacramenti. Ridiscutere tale prassi non è cosa del tutto agevole anche perché ciò
che è maggiormente in causa è sia il modello del diventare cristiani oggi quanto l’effettiva esigenza
di dare un volto nuovo all’evangelizzazione. In ogni caso, limitando il discorso al sacramento della
confermazione, è ormai oggetto di comune constatazione il fatto che esso viene a essere
sovraccaricato di valenze che non gli appartengono e alle quali viene a essere piegato per rispondere
a più radicali e complessi problemi di fondo che riguardano il modello di Chiesa e di
evangelizzazione da proporre nel contesto odierno.

Il percorso di ricerca che viene proposto mira appunto a riconoscere, attraverso l’ascolto
della sacra Scrittura, della Tradizione e del Magistero, la peculiare caratterizzazione sacramentale
della confermazione/ crismazione per poter dare la possibilità di elaborare risposte più fondate e
adeguate alle stesse sfide pastorali presenti nella vita della Chiesa contemporanea.

per la vita della Chiesa, 117-127.


CAPITOLO PRIMO

I FONDAMENTI BIBLICI

1, Ricolmi dello Spirito di Gesù

Prima di intraprendere la ricognizione dei testi biblici - in particolare di quelli


neotestamentari - rilevanti per la fondazione e la comprensione della realtà sacramentale della
confermazione/crismazione, analoga mente a come si è proceduto per il battesimo, si ritiene
giustificato partire anche in questo caso dalla realtà in atto della comunità cristiana animata dal
dono dello Spirito effuso a Pentecoste (cf. At 2,1-13; 10,44-47) e scaturito dagli eventi pasquali
riguardanti Gesù di Nazaret.

È a partire da tale novità di vita che la stessa testimonianza degli evangelisti sulla vicenda
prepasquale di Gesù viene a essere colta come profondamente segnata dall’opera dello Spirito di
YHWH. Anzi tutta l’economia salvifica non si può comprendere se non nella continuità dell’azione
dello Spirito: dalla creazione, passando per le grandi gesta di salvezza da parte di YHWH, per
arrivare al compimento unico e irripetibile negli eventi pasquali di Gesù, Messia crocifisso e risorto.
Ed è da qui che inizia il tempo ultimo della salvezza nel quale lo Spirito viene riversi-, io
gratuitamente e abbondantemente «sopra ogni persona» (At 2,17 c'ne rimanda esplicitamente alla
promessa escatologica contenuta in Gioele al c. 3). La novità peculiare di questo tempo ultimo sta
nel fatto ere esso non solo è inaugurato da Gesù morto e risorto ma che lo stesso d'ino escatologico
dello Spirito è dono che viene da Dio Padre per mezzo 0: Gesù risorto (cf. Gv 14,26; Lc4,49).

Quanto lo Spirito di YHWH è venuto compiendo nella vita pubblica di Gesù (il loghion sul
«dito di Dio», cf. Lc1,20 II Mt 12,28) per attestare l’irruzione della sovranità definitiva e decisiva di
YHWH, ora nel tempo della Chiesa lo compie come Spirito del Risorto che, a partire dalla comunità
apostolica suscitata dall’effusione pentecostale, vuole estendere la sua portata salvifica fino agli
estremi confini della terra. Il Padre opera per mezzo del Cristo morto e risorto nella potenza dello
Spirito Santo per la salvezza di tutti gli uomini.

Gli apostoli e tutta la cerchia dei primi testimoni degli eventi pasquali, tra questi alcune
donne e in particolare Maria la madre di Gesù, rappresentano i primi destinatari di questa nuova
creazione che si opera nello Spirito donato a Pasqua. Mediante la predicazione apostolica viene a
configurarsi, in modi diversi e sempre rispondenti al libero e sorprendente dinamismo dello Spirito,
la disponibilità di giudei e pagani alla conversione al vangelo della salvezza. Questa azione
missionaria dello Spirito si pone in stretta continuità con la sua stessa azione all’interno della
comunità apostolica prima (i sommari di Atti) e poi delle altre comunità cristiane che via via
vengono costituendosi nell’articolato contesto dell’ecumene del tempo (i testi relativi alle comunità
di origine paolina).

In particolare occorre ora mettere in evidenza, all’interno di tale quadro globale, quanto
attiene al dinamismo dello Spirito Santo, sia in rapporto all’inizio della vita cristiana, sia in rapporto
al costituirsi della realtà fondamentale ed essenziale della vita della comunità cristiana. I due inizi,
quello relativo alla conversione personale al vangelo di Gesù e quello relativo al sorgere della
comunità cristiana, appaiono così, nella luce dello Spirito, strettamente interconnessi e mutuamente
intrecciati.

La nuova prassi battesimale legata all’esperienza della conversione, il battesimo nel nome (o
verso il nome) di Gesù, già oggetto di indagine nel capitolo precedente, va ora ripresa per mettere a
fuoco quei dati che la legano al sorgere di altri riti a essa strettamente connessi: in particolare
l’imposizione delle mani. Se infatti il battesimo di rigenerazione nel nome di Gesù è battesimo in
acqua e in Spirito Santo, anche l’imposizione delle mani che a esso si accompagna, secondo una
sequenza non sempre identica ma costante, è da intendersi come atto che conferisce il dono dello
Spirito donato agli apostoli a Pentecoste e trasmesso per mezzo di loro a chi è iniziato alla vita di
figlio di Dio nella comunità cristiana.200

2. Imposizione delle mani e unzione nell’Antico Testamento

Nella tradizione biblica l’azione e la presenza dello Spirito di YHWH emergono come
strettamente legate sia all’opera creatrice che all’iniziativa salvifica verso Israele. Anzi, sembra che
la radicalità della prima sia avvertita e scoperta da Israele proprio nella viva esperienza della
seconda: il Dio di Israele, il Dio dei padri, è il Dio creatore e unico Signore dell’universo.

Alla luce delle grandi cose (mirabilia, magnalia Dei) e delle gesta salvifiche compiute da
Dio verso Israele l’azione dello Spirito esprime e allo stesso tempo postula la dottrina
dell’elezione201 Nel suo piano di salvezza Dio chiama, sceglie e conferisce una missione
(investitura) sia a singole persone (patriarchi, guide, sacerdoti, profeti, re,...) sia all’intero popolo di
Israele. Ciò facendo YHWH viene a costituire con chi è eletto un rapporto di particolare intimità
tale da consentire la conoscenza vitale del suo mistero di salvezza. Tale connaturalità tra l’eletto e
YHWH diviene possibile solo mediante il dono dello Spirito (la sua ruach) da parte di YHWH
stesso. Entrare in tale relazione di comunione intima e vitale con Dio e i suoi disegni comporta un
essere scelti per appartenere solo a lui. Tale condizione di separatezza richiede all’eletto (sia come
singolo, sia come popolo) specifiche esigenze di fedeltà alla volontà di YHWH, alla sua legge (la
Torah). Ed è nuovamente YHWH che interviene con la sua fedeltà e misericordia per abilitare
l’eletto a permanere nella fedeltà alla sua Parola. L’elargizione dello Spirito, sia in modo tem-
poraneo che stabile, consente allora non solo la conoscenza della volontà di YHWH ma anche la
possibilità di aderire alla sua Parola di salvezza.

L’insieme di questi aspetti legati all’elezione rivela come l’azione e la presenza dello Spirito
siano allo stesso tempo unitarie e differenziate. Con il suo Spirito Dio crea le condizioni esterne di
accoglienza della sua Parola, predispone interiormente il destinatario ad accogliere tale dono, fa
conoscere il suo progetto, suscita la forza necessaria per aderirvi e infine accompagna
esistenzialmente il chiamato/scelto fino al compimento ultimo del suo piano. È sempre possibile per
l’eletto voltare le spalle a YHWH e venire meno alla fedeltà richiesta da tale vocazione. Dio può
allora rigettare il suo consacrato, consegnarlo a se stesso perché si penta e ritorni a lui con tutto il
cuore. La precarietà dell’elezione non dipende dunque da YHWH che è sempre fedele ma
dall’eletto che può con la sua ’libertà mettere a dura prova la misericordiosa benevolenza di Dio.
Anche la tale situazione di rottura dell’alleanza è sempre lo Spirito di YHWH che, ritiratosi
dall’eletto, continua nondimeno a fare sentire l’appello alla conversione e a condurre a compimento
il progetto di salvezza di Dio attraverso vie misteriose e inconoscibili al cuore dell’uomo.

200
201 Cf. G. CROCETTI, «LO Spirito Santo e Gesù Redentore. Il dono dello Spirito e l’imposizione delle mani (At 8,14-17; 19,1-7)»,
in La Confermazione dono dello Spirito per la vita della Chiesa, 139-198
L’eletto, sia come singola persona che come comunità di persone, si lascia configurare come
tale in ragione di una presa di possesso da parte dello Spirito di YHWH. È specificamente in
rapporto a tale nuova condizione esistenziale, posta in essere dall’iniziativa gratuita di Dio, che
prende forma anche un rito designato come rito di consacrazione nel quale giocano un posto
peculiare sia l’imposizione delle mani (o della mano) sia l’unzione.202

La ricorrenza di tali gesti rituali porta in primo piano l’esigenza antropologica di delineare,
per quanto possibile, l’intervento divino nella sua concreta esplicitazione storica e rispettivamente
tali riti in atto esprimono la coscienza viva dell’iniziativa divina come realtà soprannaturale che si
comunica qui e ora. Proprio in ragione di questa evocazione del divino e per la loro densa valenza
performativa tali riti sono al crocevia della coscienza politico-religiosa della comunità di Israele. In
quanto eseguiti secondo dettami precisi essi danno luogo alla consapevolezza di una peculiare
manifestazione dello Spirito di YHWH che costituisce i suoi inviati e li investe della sua forza,
autorizzandoli a una missione. Questa autenticazione dall’alto significata dai riti è tuttavia
controbilanciata dalla consapevolezza che YHWH è libero e può dotare chi vuole di questa sua
forza per realizzare i suoi disegni (cf. Nm 11,26-30; 22,22-35; Is 45,1).

Prendiamo ora più direttamente in considerazione la fisionomia di tali due riti limitandoci a
scandagliare il loro legame con la realtà della consacrazione. Se si prende Vunzione si può notare
che essa ha una linea di sviluppo che parte dalla sua esecuzione rituale per arrivare a designare
metaforicamente la sola realtà significata dal rito. Le investiture di re e sacerdoti nel loro ufficio
erano effettivamente eseguite mediante un rito di unzione. «I re di Giuda erano consacrati nel
tempio ed unti da un sacerdote: Salomone ricevette l’unzione da Sadoq (IRe 1,39), Joas dal sommo
sacerdote Jehojada (2Re 11,12)».203 Il sommo sacerdote e i sacerdoti venivano unti come nel caso di
Aronne unto da Mosè su comando di YHWH (Es 29,7), anche se i testi che ce ne danno notizia (cf.
ad es. Es 28,41; 40,15; Nm 3,3), appartenendo al codice sacerdotale (postesilico), lasciano pensare
che «sotto la monarchia, soltanto il re venisse unto». 204 Per quanto riguarda i profeti si deve pensare
all’effetto del rito, alla consacrazione, più che a un effettivo rito di unzione. «I profeti non erano
unti con olio; l’unzione dei profeti designa metaforicamente la loro investitura». 205 In questa
prospettiva l’autore di Is 61 parla della missione profetica dell’inviato di YHWH in termini di
consacrazione, evocata attraverso il richiamo dell’unzione: «Lo Spirito del Signore è su di me
perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione» (Is 61,1). Si deve infine ricordare la fortuna del
tema dell’unzione, quella regale in particolare, nel prefigurare e identificare il messia (cf. Sai 2).206
La consacrazione come rito si lascia specificare proprio dall’atto del versamento dell’olio
sul capo dell’eletto da parte di una persona riconosciuta come autorizzata da YHWH a compiere
tale ufficio (per es. Mosè per Aronne, Samuele per Saul e Davide, Sadoq per Salomone, ...). 207 L’un-
to diviene in tal modo partecipe dello Spirito di Dio in vista del compimento della missione
affidatagli (cf. ISam 16,13). L’unzione si lascia dunque comprendere come rito che comunica il
dono divino dello Spirito non per la persona presa in se stessa ma sempre in rapporto a una mis-
sione, quale ad es. nel caso del re il governo, secondo la legge (Torah), del popolo di Dio. Il dono
dello Spirito è dunque legato al rito dell’unzio- ne/consacrazione ma la sua permanenza nell’eletto
dipende dalla fedeltà dell’unto alla legge di Dio: se viene meno tale fedeltà, Dio ritira il suo Spirito
(cf. ad es. ISam 15,24; 16,14)! Sullo sfondo emerge chiaramente il rapporto intrinseco tra questa
donazione dello Spirito fatta ad alcuni e la sua ricaduta sulla vita dell’intero popolo di Dio. La
prima è tutta relativa alla seconda: la crescita, secondo i voleri di Dio, della comunità di Israele.
Deprivato di questo vitale rapporto con la comunità e con la legge, il rito dell’unzione non
dischiude appieno il suo specifico senso salvifico.
202Cf.: «xpLeo», a cura di autori vari, in GLNT, Paideia, Brescia 1988, XV, 845ss; «%eip», a cura di E. LOHSE, in ibidem, 661ss.
203I. DE LA POTTERIE, «Unzione», in Dizionario di Teologia Biblica, Marietti, Torino 1980,1318.
204DE LA POTTERIE, «Unzione», 1318.
205DE LA POTTERIE, «Unzione», 1319.
206Cf. G. JOSSA, Dal Messia al Cristo. Le origini della cristologia, Paideia, Brescia 1989,11-34.
207Cf. F. HESSE, «xpiro», in GLNT, XV, 856. La comunità di Qumran contesta la validità del sacerdozio del tempio di Gerusalemme
perché esercitato da persone che non sono nella discendenza di Aronne e dunque non autorizzate al culto del tempio perché senza
l’investitura aronnita, cf. STEGEMANN, Gli Esseni, Qumran, Giovanni Battista e Gesù, EDB, Bologna 1995,212-213.250-253.
L’imposizione delle mani approfondisce il significato rituale dell’unzione perché intensifica
il dinamismo della comunicazione di un potere, di una forza, di un dono a qualcuno da parte di chi
ne è depositario in nome di YHWH. Tale gesto ricorre in contesti diversi. Nel caso dell’imposizione
delle mani in vista della benedizione tale atto comporta il passaggio all’altra persona della
benedizione stessa (cf. Gen 48,14), «in modo che non può più essere revocata» (Gen 27,35). 208 In
altri casi esso assume 'a valenza di trasmissione di una forza particolare (per es. in atti simbolici di
profeti, cf. 2Re 13,16). Infine esso assume anche la valenza specifica di trasmissione e conferimento
di un incarico e della forza necessaria per assolverlo (si veda l’imposizione della mani da parte di
Mosè su Giosuè, cf. Dt 34,9; Nm 27,18-20). È proprio quest’ultima valenza che, unitamente a
quella significata dalla trasmissione della forza per il ministero profetico, pone in luce la funzione
consacratoria del gesto di imposizione delle mani. Esso «indica che lo Spirito di Dio separa un
essere che si è scelto, ne prende possesso, gli conferisce autorità e capacità di esercitare una
funzione».209 Questa situazione richiama quella già descritta del conferimento di una forza e di un
potere mediante il rito di unzione. «Compiuto davanti alla comunità, il gesto della imposizione delle
mani serve inoltre a «convalidare pubblicamente la legittimità della successione».210

Dopo questa breve rassegna si può sottolineare come unzione e imposizione delle mani
mostrino un comune riferimento al tema della consacrazione. L’unzione appare più compiutamente
organizzata all’interno di una struttura rituale minimale mentre l’imposizione delle mani emerge
come atto o gesto con una forte valenza rituale, non sempre sviluppato in un corrispondente
impianto rituale.

Nel quadro delle attese messianiche del compimento escatologico della salvezza la figura del
«consacrato o unto di YHWH» viene a occupare un posto di particolare rilievo (si vedano le diverse
varianti del messianismo: regale, sacerdotale, profetico nella forma del servo di YHWH). Lo stesso
significato della consacrazione legata all’unzione (e all’imposizione delle mani) sembra liberarsi
dell’impianto rituale per indicare la pienezza del dono della ruach di YHWH concentrata nell’unto
quale unico plenipotenziario del compimento finale della salvezza. Emerge in tale prospettiva una
particolare convergenza tra le attese messianiche e l’effusione escatologica dello Spirito di YHWH:
«Un germoglio spunterà dal tronco di lesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si
poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza,
spirito di conoscenza e di timore del Signore» (Is 1-2).Tale testo evidenzia una novità rilevante:
«Finora l’AT aveva presentato persone dotate di una sola ruach divina. Qui, invece, il profeta
preannuncia uno che possiederà lo spirito in modo pieno».211

Ed è proprio tale testo biblico che viene ripreso nella preghiera epicietica che il vescovo
proclama mentre impone le mani tenendole alzate su tutti i cresimandi. Il sacramento della
confermazione è riletto alla luce del dono escatologico della ruach di YHWH conferito al suo unto,
al suo messia Gesù (cf. RC 29 e RICA 230).

Nell’ambito della storia della salvezza la ruach si presenta così non solo come «artefice di
storia agendo su persone che guidano in vario modo il popolo eletto, ma ancor più la ruach prepara
il futuro radioso del piano definitivo di Dio, l’era escatologica con la persona e l’opera del Messia.
In questo modo l’AT mette il popolo eletto nell’attesa di Colui che possederà la ruach in pienezza e
la donerà all’umanità redenta dal SUo sangue, cioè Gesù Cristo redentore».212

208LOHSE, «%eip», in GLNT, XV, 674. Egli puntualizza che nell’AT e nella tradizione rabbinica «non si parla mai di imposizione di
mani in connessione con guarigioni miracolose», ibidem. Per il lignificato del gesto di «appoggiare le mani sulla vittima sacrificale»,
cf. ibidem, 675.
209J.-B. BRUNON, «Imposizione delle mani», in Dizionario di Teologia Biblica, Marietti,Torino 1988,539.
210LOHSE, «%eip», 675; cf. ibidem, 675-677.
211CROCETTI, «LO spirito Santo e Gesù Redentore», 148. Per gli altri testi VT esaminati per il rapporto con la ruach, cf. ibidem,
140-147.
212CROCETTI, «LO Spirito Santo e Gesù Redentore», 149-150.
3. Lo Spirito di Dio all’opera in Gesù

Da un punto di vista sinottico è il battesimo di Gesù l’evento che inaugura l’inizio della sua
missione salvifica (cf. Mt 3,13-17 e II). E tale inizio comporta la sua investitura messianico-
escatologica mediante il dono dello Spirito da parte del Padre: «In quei giorni Gesù venne da
Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, uscendo dall’acqua, vide aprirsi i
cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E si sentì una voce dal cielo: “Tu sei il
Figlio mio prediletto. in te mi sono compiaciuto”» (Mc,9-11). Anche l’evangelista Giovanni attesta
tale evento e ne amplifica il significato escatologico presentandoci il Battista che rende la sua
solenne testimonianza: «Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui.
Io non lo conoscevo, ma chi mi ha inviato a battezzare con acqua mi aveva deito: L’uomo sul quale
vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che batìezza in Spirito Santo. E io ho visto e ho reso
testimonianza che questi è il Figlio di Dio» (Gv 1,32-34). Nella sua redazione il quarto evangelista
sottolinea con la specificazione «scendere e rimanere» la novità di tale investitura dall’alto: lo
Spirito è dato da Dio per rimanere sul Figlio e c'indurlo lungo tutta la sua missione fino al
compimento pasquale (cf. G\ 19,30; 20,21-22). «Il Battesimo al Giordano fonda il rapporto opera-
tivo di Gesù con lo Spirito, rapporto che continuerà lungo tutta la vita pubblica del Divin Maestro e
che si esprimerà sempre nella docilità totale e filiale al volere del Padre».213

I dati scarni ma essenziali e strategici di Matteo e Marco relativi alla presenza e all’opera
dello Spirito di Dio in Gesù trovano nell’opera lucana (Vangelo e Atti) una esplicitazione più
diffusa ed elaborata. Così anche nel quarto evangelo il binomio Gesù/Spirito accompagna con una
profondità teologica originale tutto l’impianto redazionale (si vedano in particolare i detti di Gesù
sullo Spirito).214 Tra le attestazioni più storicamente attendibili della autocoscienza da parte di Gesù
di essere staio investito del dono escatologico dello Spirito di YHWH vi è il detto lucano sul «dito
di Dio». Nella disputa sulla natura della sua missione e in particolare sugli esorcismi da lui compiuti
Gesù chiarisce: «Se invece io scaccio i demòni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di
Dio» (Lc1,20; cf. anche Lc,16-30: il discorso programmatico nella sinagoga di Nazaret dove Gesù,
leggendo e interpretando Is 61,1-2, si identifica con il profeta/servo/unto ricolmo dello Spirito di
YHWH). Nel corrispondente parallelo matteano la locuzione «dito di Dio» è resa con «Spirito di
Dio» (cf. Mt 12,28; cf. anche Mt 12,18-21). La forma lucana, più arcaicizzante, restituisce al vivo la
consapevolezza che Gesù ha di operare in nome e per conto di YHWH: è il dito di Dio (la Sua
mano) che opera in lui, egli opera con la potenza di Dio, con quella potenza e forza salvifica che
vengono dall’avere ricevuto in un modo unico e straordinario il dono dello Spirito (= potenza
salvifica) di YHWH.

È sempre lo Spirito che abilita Gesù a completare con l’offerta della sua vita per i molti la
sua missione pubblica. La redazione giovannea pone in evidenza come la stessa crocifissione
comporti la consegna da parte di Gesù al Padre dello «spirito» (cf. Gv 19,30; cf. Lc3,46 e II). Nella
morte in croce il Figlio bene amato, l’unigenito (cf. Lc0,13 e II), porta a compimento la missione
affidatagli dal Padre: la consaerazione/unzione nello Spirito trova nell’obbedienza fino al sacrificio
di sé il suo sigillo conclusivo (cf. Mt 26,26-30 e II; Lc2,39-46 e II).

Ed è «con potenza secondo lo Spirito di santificazione» (Rm 1,4) che Gesù è stato
risuscitato dai morti. Nella seconda parte dell’opera lucana dopo l’effusione dello Spirito a
Pentecoste Pietro annuncia: «Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni.
Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva
promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire» (At 2,32-33). Da questo atto
escatologico della risurrezio- ne/pentecoste scaturisce la storia del popolo della Nuova Alleanza che
da Gerusalemme deve allargarsi «fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). L’inizio del nuovo
eone è nella storia ed è a partire da questo inizio, radicalmente nuovo, che il Risorto affida agli
213CROCETTI, «Lo Spirito Santo e Gesù Redentore», 156.
214Cf. G. Ferraro, LO Spirito e Cristo nel vangelo dì Giovanni, Paideia, Brescia 1984,155ss.
apostoli il mandato missionario: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni; battezzandole nel
nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho
comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,19-20).

Se si interroga il complesso del dato biblico NT viene alla luce un n ncleo iniziatico che è
globalmente denominato «battesimo nello Spirito». Al suo interno si viene a configurare la
distinzione tra il momento di una prima donazione dello Spirito e la pienezza di tale donazione.
Nella costituzione apostolica di Paolo VI Divinae consortium naturae (15 agosto 1971) è proprio a
questa distinzione che si risale per individuare il fondamento biblico NT della sacramentalità della
confermazione.

Fin da quel tempo gli apostoli, in adempimento del volere di Cristo, comunicavano ai
neofiti, attraverso l’imposizione delle mani, il dono dello Spirito, destinato a completare la grazia
del battesimo (cf. At 8,15-17; 19,5ss). Questo spiega perché nell’epistola agli ebrei viene ricordata,
tra i primi elementi della formazione cristiana, la dottrina dei battesimi e anche dell’imposizione
delle mani (cf. Eb 6,2). È appunto questa imposizione delle mani che giustamente viene considerata
dalla tradizione cattolica come la prima origine del sacramento delia confermazione, il quale rende,
in qualche modo, perenne nella Chiesa la grazia della pentecoste.215

È dunque nell’imposizione delle mani che viene riconosciuta «la prima origine del
sacramento della Confermazione». Consideriamo pertanto il valore e il significato dei testi
esplicitamente richiamati, in particolare At 8,15-17 e 19,5ss, dal punto di vista dell’analisi esegetica
per inquadrarli nella più complessa e ampia prassi relativa al diventare cristiani nella vita della
Chiesa dopo l’evento della pentecoste gerosolimitana (cf. At 2,1-13).216

I due testi menzionati offrono uno spaccato incompleto ma nondimeno rilevante per
descrivere alcuni aspetti salienti della prassi missionaria della Chiesa apostolica in Samaria e a
Efeso. Nel presentare l’analisi di tali testi riteniamo fondata l’ipotesi avanzata da quegli esegeti che,
come Crocetti, sostengono esservi un’unità dinamica tra il battesimo di acqua nel nome di Gesù e il
gesto dell’imposizione delle mani.217 «Noi pensiamo - nonostante le diverse opinioni - che questi
brani affermano il conferimento dello Spirito Santo già nell’amministrazione del Battesimo di acqua
e poi nella successiva imposizione delle mani; pensiamo anche che le due donazioni dello Spirito si
differenziano fra di loro».218

La situazione della Samaria descritta in Atti 8 rimanda all’azione evangelizzatrice svolta da


Filippo (At 8,5-40). Egli è uno dei «sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di
saggezza» (At 6,3) presentati agli apostoli dal gruppo dei discepoli (cf. At 6,5). «Li presentarono
quindi agli apostoli i quali, dopo aver pregato, imposero loro le mani» (At 6,6). A lui come agli altri
sei viene affidato dai Dodici «il servizio delle mense» (At 6,2). Il testo di At 8,15-17 si situa nel
contesto della problematica sorta in rapporto alla figura di Simone mago (cf. At 8,9ss) e suppone la
predicazione e l’azione taumaturgica svolta da Filippo (cf. At 8,5- 8) «in una città della Samaria»
(At 8,5). In questo quadro si pone la visita di Pietro e Giovanni a Samaria su invio della comunità di
Gerusalemme (cf. At 8,14). «Essi discesero e pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito
Santo; non era infatti ancora sceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome
del Signore Gesù. Allora imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo» (At 8,15-
17). Segue lo sviluppo della situazione di Simone mago nella quale torna nuovamente in evidenza il
gesto dell’imposizione delle mani in rapporto al potere di trasmettere lo Spirito Santo (cf. At 8,18-
25; si veda la terminologia usata per descrivere l’azione portentosa di Simone, At 8,10: «Questi è la
215Pontificale romano. Rito della Confermazione, 16: EV 4/1072.
216Ricordiamo qui la posizione che fin assunta da G. Dix in The Theology of Confirmation in relation to Baptism, London 1946, il
quale sosteneva che il battesimo attestato nella prassi della Chiesa apostolica era da intendere come riferito unicamente alla
remissione dei peccati mentre il dono dello Spirito era conferito con l’imposizione delle mani. Cf. R. FALSINI, «Confermazione», in
Nuovo Dizionario di Liturgia, EP, Roma 21984,271.
217Sulla distinzione tra il battesimo «nel» o «sul» nome di Gesù e quello «in/verso» il nome di (''-'sù, cf. CROCETTI, «Lo Spirito
Santo e Gesù Redentore», 170-173. L’Autore esclude di poter fondine una differenziazione di significato e di effetti interna alla prassi
battesimale della Chiesa apostolica, giustificabile a partire dalla diversità delle preposizioni.
218CROCETTI, «LO Spirito Santo e Gesù Redentore», 168.
potenza di Dio, quella che è chiamata Grande»). Il ciclo si conclude con l’episodio del battesimo
dell’eunuco etiope e l’accenno al proseguimento dell’azione missionaria di Filippo (cf. At 8,26-40).

Il gesto dell’imposizione delle mani risulta chiaramente riservato al ministero svolto da


Pietro e Giovanni, inviati in Samaria dal gruppo degli apostoli che stava a Gerusalemme. In questo
testo sembra che il battesimo conferito da Filippo non abbia potuto trasmettere il dono dello Spirito
Santo, diversamente da come si evince in altri casi narrati in Atti. 219 Avremmo dunque un battesimo
cristiano slegato dal dono dello Spirito Santo, anche se ad esso ordinato? Sarebbe allora necessario
l’intervento di un altro gesto capace di conferire tale dono: l’imposizione delle mani da parte degli
apostoli in quanto primi destinatari di tale dono pasquale/escatologico (cf. At 2,1-12)?
.
Occorre innanzitutto fare attenzione a non proiettare nell’esame di questo testo, come del
successivo, la preoccupazione di ritrovare già ben descritta e chiarita la prassi del sacramento della
confermazione. Alla linea esegetica che ritiene affermata in tale testo la separazione del dono dello
Spirito Santo dal battesimo per legarlo esclusivamente all’imposizione delle mani se ne può
accostare un’altra in base alla quale qui si «vuole affermare che i samaritani avevano ricevuto sì lo
Spirito Santo, ma non nella sua pienezza». 220 Allora la differenza tra un rito e l’altro rispetto allo
Spirito Santo può essere così descritta: «Luca vuole rimandare [...] allo Spirito Santo della
Pentecoste gerosolimitana; è questo Spirito che il Battesimo di Filippo non aveva conferito ai
samaritani» 221 Se si ritiene questa interpretazione del testo si ha dunque una modalità duplice, tipica
della tradizione apostolica, di conferire il dono dello Spirito: la seconda modalità, strettamente
legata al gesto dell’imposizione delle mani, è quella che prospetta l’emergere del «fondamento
biblico della Cresima» 222 In particolare la costruzione paratattica di At 8,17 - «imponevano [...] e
ricevevano» - illuminata da quella di At 8,18 - «lo Spirito veniva conferito con l’imposizione delle
mani» - mostra un rapporto causativo tra l’imposizione delle mani da parte di Pietro e Giovanni e il
dono dello Spirito Santo ai samaritani battezzati da Filippo. «Non è quindi un gesto dimostrativo,
ma efficace».223 Tale gesto, carico di questa efficacia salvifica, rappresenta un vero e proprio
completamento dell’atto battesimale.

Con l’altro episodio di At 19,1-6 siamo ad Efeso. Paolo incontra «alcuni discepoli» (At 19,1)
che avevano ricevuto solo il battesimo di Giovanni (At 19,3). Interrogati dall’apostolo se avevano
ricevuto lo Spirito Santo al momento in cui erano diventati credenti, essi rispondono: «Non
abbiamo nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito Santo» (At 19,2). Dopo aver illustrato la
superiorità del battesimo di Gesù rispetto a quelllo di Giovanni, egli battezza questi discepoli e
impone loro le mani: «Dopo aver udito questo, si fecero battezzare nel nome del Signore Gesù e
non appena Paolo ebbe imposto loro le mani, scese su di loro lo Spirito Santo e parlavano lingue e
profetavano» (At 19,5-6). Nuovamente un testo nel quale ricorre lo stretto rapporto fra battesimo e
imposizione delle mani e tra il battesimo e il dono dello Spirito Santo. L’intento redazionale di Luca
è chiaro: mostrare il ripetersi dei fenomeni pentecostali lungo lo sviluppo della missione
evangelizzatrice iniziata da Gerusalemme.

Questa conformità della «pentecoste» dei giovanniti con quella di Cornelio e famiglia (At
10,46; 11,15.17) e anche con quella di Gerusalemme ci fa intravedere che Luca sta dando una sua
interpretazione degli eventi. Come per At 8,5-25 così per At 19,1-7 è possibile trovare indizi che
fanno intravedere vari eventi antecedenti che Luca poi ha ripresi e armonizzati.224.

Tuttavia l’intervento redazionale sia in questo testo come nel precedente non fa che

219Per un esame dei testi che qualificano il battesimo cristiano come atto che conferisce il dono dello Spirito Santo, cf. CROCETTI,
«Lo Spirito Santo e Gesù Redentore», 170-178.
220CROCETTI, «LO Spinto Santo e Gesù Redentore», 178.
221CROCETTI, «LO Spirito Santo e Gesù Redentore», 179.
222CROCETTI, «LO Spirito Santo e Gesù Redentore», 186;per ilgesto della imposizionedelle
mani nella Chiesa apostolica alla luce dell’opera lucana e delle lettere pastorali (si veda inoltre anche Eb 6,2 che annovera tale rito
come uno degli aspetti fondamentali della dottrina cristiana), cf. ibidem, 184-186.
223CROCETTI, «Lo Spirito Santo e Gesù Redentore», 188.
224CROCETTI, «LO Spirito Santo e Gesù Redentore», 190.
elaborare un dato storico prioritario: «Egli attesta, almeno in riferimento al periodo apostolico
durante il quale scrive, il conferimento del dono dello Spirito Santo a quanti erano già stati battezza-
ti, dono che è compimento della grazia battesimale»?225

L’esame di questi testi inquadrati nell’insieme della prospettiva lucana mette a fuoco
l’emergere dello stretto legame tra il dono dello Spirito Santo e il gesto dell’imposizione delle mani.
Alla valenza taumaturgica e di benedizione che ha già questo gesto nella prassi di Gesù si unisce ora
la valenza di conferire la donazione dello Spirito pentecostale, donazione già operante nel battesimo
e tuttavia ordinata a essere completata mediante un nuovo atto designato in seguito da quel rito spe-
cificamente sacramentale che è la confermazione. Nell’atto battesimale lo Spirito è presente «per
consolidare la conversione e l’avvenuto perdono dei peccati. [...] Con l’imposizione delle mani, o
Confermazione, si riceve lo Spirito Santo in quanto puro dono e dono per eccellenza». 226 Tra
l’evento di Pentecoste, unico nella sua radicale novità, e la donazione dello Spirito pentecostale
mediante l’imposizione delle mani si viene a creare un rapporto di continuità e di discontinuità:
continuità per la sostanziale identità del dono, discontinuità per l’unicità della condizione degli
apostoli a pentecoste rispetto a ogni realtà successiva relativa al costituirsi della Chiesa.

Il battesimo segna l’inizio visibile dell’entrata nella comunità cristiana mediante la


conformazione a Gesù morto/risorto, il gesto dell’imposizione delle mani segna la ripresa e il
completamento di tale novità mediante la piena partecipazione del battezzato al dono pentecostale
dello Spirito. Nel battesimo emerge più chiaramente il riferimento cristologico e nella
confermazione quello pneumatologico. Tutte e due le missioni salvifiche, di Gesù e dello Spirito,
riportano all’unicità dell’iniziativa divina del Padre che vuole raggiungere, mediante l’opera degli
apostoli, tutti gli uomini.

È nel costituirsi dinamico della Chiesa apostolica che vengono a configurarsi quei due riti
(battesimo/imposizione delle mani) che esprimono l’inizio visibile dell’esperienza della salvezza in
coloro che rispondono alla chiamata alla conversione. In particolare il dono dello Spirito conferito
mediante il gesto dell’imposizione delle mani compie nei battezzati una più viva adesione di fede a
Gesù Salvatore e alla sua opera, un pieno e vitale inserimento nella Chiesa, una ricchezza di forza
necessaria per la testimonianza di fronte al mondo. Il fatto che l’imposizone delle mani sia
connotata dall’intervento dell’apostolo manifesta un aspetto costitutivo della Chiesa, un legame
stabile tra costoro e quelli che saranno investiti della missione di guidare le comunità cristiane (cf.
At 14.23; 20,17.28): a questi, mediante la successione apostolica ricevuta aneli essa attraverso
l’imposizione delle mani, compete di compiere lo stesso gesto per realizzare lo stesso effetto di
salvezza.

225CROCETTI, «LO Spirito Santo e Gesù Redentore», 190.


226CROCETTI, «LO Spirito Santo e Gesù Redentore», 194.
A margine di questa presentazione del fondamento NT del sacramento della confermazione non può
non essere notata la completa assenza di un legame tra la trasmissione del dono dello Spirito ai
neofiti e il rito dell’unzione, così rilevante nel retroterra biblico VT. I significati pneumatologici
veicolati da tale rito vengono ripresi ma il rito stesso non risulta essere presente nel momento tutto
speciale dell’inizio sacramentale della vita cristiana.227 CAPITOLO SECONDO LA TRADIZIONE
DELLA CHIESA

1. La confermazione/crismazione nel periodo patristico

Nel capitolo precedente affrontando la questione della prassi battesimale nella Chiesa antica
si è potuto notare come la confermazione sia stata fortemente ancorata al complesso unitario
dell’iniziazione cristiana. Con l’inizio della decadenza dell’istituto catecumenale (VI secolo circa)
si a ¡'ferma, almeno in Occidente, una prassi liturgica della confermazione sempre più autonoma
dalla celebrazione del battesimo.228 In Oriente invece la prassi liturgica si mantiene ferma sull’unità
celebrativa dei tre sacramenti dell’iniziazione cristiana, con la novità che il ministro della confer-
mazione/ crismazione può essere anche il presbitero purché l’unzione crismale sia conferita con il
myron benedetto dal vescovo il Giovedì santo. In Occidente il conferimento della confermazione
rimane strettamente riservato al vescovo, in conformità alla prassi dei primi secoli.

Prima di considerare il fenomeno tipicamente occidentale della separazione della


confermazione dall’unità celebrativa con il battesimo e la leologia del sacramento che si è venuta
nel contempo elaborando, è importante sondare le testimonianze dei primi secoli (II-V) per poter
lare emergere quali sono gli sviluppi che si sono venuti proponendo sul piano rituale e teologico a
partire dalla prassi della Chiesa apostolica descritta nel libro degli Atti.

La problematicità delle testimonianze relative a questo periodo è un dato che non può
sfuggire. La stessa individuazione della confermazione in uno specifico rito postbattesimale e la sua
interpretazione in chiave sacramentale è un’operazione che può e deve essere condotta con la cau-
tela di non proiettare nei risultati dell’indagine storica quella prospettiva teologico-sistematica sul
sacramento della confermazione che si è venuta precisando molti secoli dopo nel quadro della
teologia scolastica. Nella stessa costituzione apostolica di Paolo VI traspare chiaramente la consa-
pevolezza della complessità delle testimonianze offerte dalla tradizione della Chiesa antica: «Il
conferimento del dono dello Spirito Santo, fin dalle antiche età, avveniva nella Chiesa secondo riti
diversi. Tali riti in Oriente e in Occidente subirono molteplici trasformazioni, ma sempre tali da
mantenere intatto il significato di comunicazione dello Spirito Santo». 229 Si noterà come in questo
testo la problematicità e la varietà della tradizione non comportino tuttavia l’assenza del significato
sacramentale (la comunicazione dello Spirito Santo), esso è dato già a partire dalle testimonianze
NT (si veda sopra il paragrafo 4. p. 127) e si mantiene «intatto» negli sviluppi delle diverse prassi
rituali. Il problema è caso mai quello di accertare quali sono «gli elementi che appartengono sicu-
ramente all’essenza del rito della Confermazione».230 La questione verte dunque sull’individuazione
del «segno sacramentale» nella sua struttura essenziale, restando fermo il riconoscimento della
coscienza che la Chiesa ha sempre avuto, fin dal periodo apostolico, di una sacramentalità specifica
della confermazione.

Diversamente dal battesimo e dall’eucaristia l’esame delle testimonianze patristiche del I e


II secolo non offre, secondo Saxer, alcuna attestazione «di un rito specifico di conferimento dello
227II rito dell’unzione compare in Gc 5,13-15 ma qui il contesto è quello della guarigione dei malati.
228Cf. A. NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», in Anamnesis. Introduzione storico-teologica alla liturgia, Marietti,
Genova 1986, III/l, 97-102 (per le testimonianze liturgiche più rilevanti); V. SAXER, «La prassi sacramentale della Confermazione:
gesti e significati nella loro evoluzione storica nei secoli II-VI», in La Confermazione dono dello Spirito per la vita della Chiesa, 15-
(questo studio si basa sull’opera fondamentale sull’iniziazione cristiana, cf. V. SAXER, Les rites de l’initiation chrétienne du II e au VIe
siècle. Esquisse historique et signification d’après leurs principaux témoins, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto [PG]
1988,1992, ristampa anastatica).
229Pontificale romano. Rito della Confermazione, 16: EV 4/1074.
230Pontificale romano. Rito della Confermazione, 16.
Spirito Santo».231 La stessa parola sphragìs/sigillo (cf. TRm 4,11) è utilizzata solo in riferimento
o al battesimo stesso (il Pastore di Erma, Sim. IX, 17,4) o all’effetto del battesimo nel
neofita (il sigillo come marchio impresso nell’anima da Dio: Pseudo-Barnaba, Clemente
Alessandrino, Ireneo): «Nessuno di questi Padri riattacca dunque la sphragìs a un’azione dello
Spirito. Insomma, al di fuori del Battesimo stesso, non c’è per loro un altro rito per conferi re lo
Spirito Santo. Il Battesimo basta a darlo».232

Occorre aspettare il periodo successivo (III-V sec.) per riscontrare ampia attestazione «della
più grande fioritura dei riti battesimali».233 L’analisi delle varie testimonianze viene riepilogata da
Saxer in due tavole sinottiche: la prima relativa al III secolo (la Tradizione apostolica, il De
baptismo di Tertulliano, alcuni scritti di Cipriano di Cartagine, la Didascalia degli apostoli), la
seconda al IV-V secolo (le Costituzioni apostoliche, il Testamento del Signore, VEucologio di
Serapione di Tmuis, scritti di Giovanni di Gerusalemme, Teodoro di Mopsuestia, Gregorio
Nazianze- no, Ambrogio di Milano, Cromazio di Aquileia, Agostino d’Ippona, Quodvultdeus di
Cartagine). Per l’insieme di queste testimonianze la sintesi proposta dalla costituzione apostolica di
Paolo VI risulta molto utile per avere uno sguardo globale:

In molti riti dell’oriente sembra che fin dall’antichità fosse più frequente, nel comunicare lo
Spirito Santo, il rito della crismazione, che non era ancora chiaramente distinto dal battesimo. Tale
rito è anche oggi in vigore presso la maggior parte delle Chiese orientali. In occidente [...] dopo
l’abluzione battesimale e prima della recezione del cibo eucaristico, vengono indicati molti gesti
rituali da compiersi, come l’unzione, l’imposizione della mano e la consignatio, che sono contenuti
sia nei documenti liturgici sia in molte testimonianze dei padri.234

Pur non potendo riprendere in modo analitico l’esame di tutti questi documenti, è possibile
riconoscere nella variegata sequenza dei riti postbattesimali la ricorrenza di due gesti rituali
strettamente raccordati tra loro: l’unzione crismale, l’imposizione della mano (più raramente, come
nel Testamento del Signore, è attestata l’imposizione delle mani fatta dal vescovo in modo generale
su tutti i battezzati).235 Normalmente l’unzione crismale, compiuta dal vescovo, è seguita da una
signazione sulla fronte del battezzato (Tertulliano parla di signazione sulla fronte a forma di croce)
e accompagnata dall’imposizione della mano (in Tertulliano essa segue la signazione).236 Il
significato di questo gesto è spiegato da Tertulliano come illuminazione dell’anima operata dallo
Spirito (et De resurrectione mortuorum 8,3).

I due primi gesti (unzione crismale e signatio) tendono gradatamente a fondersi in un unico
gesto al quale si associa l’imposizione della mano da parte del vescovo. Tale situazione è già
attestata in Agostino il quale «distingue due atti postbattesimali compiuti sul neofita: unctus est,
imposita est ei manus (Serm. 324)».237 I due gesti sono intesi dal vescovo di Ippona non solo in
chiave cristologica ma anche pneumatologica dal momento che «l’unzione cruciforme con crisma
imprime all’anima del battezzato un segno indelebile o character (Serm. 302,3) che indica la sua
appartenenza a Dio».238 Agostino torna su questa caratterizzazione pneumatologica dell’imposizione
della mano quando sottolinea il conferimento al battezzato del dono settiforme dello Spirito da parte
di Dio. Tale dono viene invocato sul battezzato (cf. Serm. 249,3) e, secondo Saxer, tale invocazione
riveste «la forma classica di un’epiclesi».239 Tale lettura teolo- gico-trinitaria di questi due atti post-
battesimali avrà un notevole influsso sugli sviluppi successivi della prassi della confermazione in
231SAXER, «La prassi sacramentale della Confermazione», 18.
232SAXER, «La prassi sacramentale della Confermazione», 19.
233SAXER, «La prassi sacramentale della Confermazione», 19.
234Pontificale romano. Rito della Confermazione, 17: EV 4/1074.
235Si tenga conto che le fonti prese in considerazione non hanno sempre l’interesse di informare sull’esatta esecuzione dei riti,
spesso l’informazione sui riti postbattesimali è solo indiretta e incompleta o talvolta assente come nel caso di Giovanni Crisostomo e
Proclo di Costantinopoli, cf. SAXER, «La prassi sacramentale della Confermazione», 19.
236Dopo l’unzione crismale, mediante la quale viene espressa la configurazione del battezzato a Cristo intesa come consacrazione,
segue la signazione che, come annota Saxer, «è frontale e, accompagnata dall’invocazione dello Spirito, viene fatta in forma di croce
(Mardon. Ili, 2); il suo significato è poi spiegato esplicitamente: “La carne è segnata perché l’anima sia protetta” (Res. mort. 8)»,
SAXER, «La prassi sacramentale della Confermazione», 21.
237SAXER, «La prassi sacramentale della Confermazione», 25.
238SAXER, «La prassi sacramentale della Confermazione», 25.
239SAXER, «La prassi sacramentale della Confermazione», 26.
Occidente: l’unzione crismale viene interpretata in chiave cristologica, l’imposizione della mano in
chiave pneumatologica. Va tuttavia tenuto presente che «prima che questo duplice tesoro teologico
diventi un giorno il bene specifico del sacramento della Confermazione, i riti che la costituiscono
oggi dovranno staccarsi dal complesso primitivo dell’iniziazione cristiana. Il che si compirà nel VI
secolo».240

Per un quadro più attento agli sviluppi della prassi liturgica in Occidente occorre tenere
presenti tre testimonianze fondamentali: la Tradizione apostolica, il Sacramentario gelasiano antico
e l’Ordo Romanus XI.

Nel primo caso la descrizione dei riti postbattesimali, per quanto scarna, 241 offre una
testimonianza degli usi liturgici della Chiesa di Roma che, in quanto già attestati nel primo decennio
del III secolo (la Tradizione apostolica è compilata intorno al 215), sono espressione di una prassi
anteriore già nota e diffusa a Roma. I riti postbattesimali sono riportati nel contesto del c. 21,
dedicato appunto al battesimo. Dopo il lavacrum regenerationis il sacerdote (un presbitero) unge il
battezzato «con l’olio che è stato consacrato dicendo: “Ti ungo con l’olio santo nel nome di Gesù
Cristo”» (c. 21). Questa prima unzione postbattesimale da parte di un presbitero sembra essere fatta
sul corpo nudo del neofita. Ad essa segue l’unzione propriamente crismale da parte del vescovo.

E così, uno per uno, si asciughino, si rivestano ed entrino in chiesa. Il vescovo imponga loro
la mano e invochi dicendo: «Signore Dio, che li hai resi degni di meritare la remissione dei peccati
mediante il lavacro di rigenerazione dello Spìrito Santo [lat. lavacrum regenerationis Spiritus
Sancti\, infondi in essi la tua grazia, affinché ti servano secondo la tua volontà, poiché a te è gloria,
al Padre, e al Figlio con lo Spirito Santo nella santa Chiesa, ora e nei secoli dei secoli. A men». Poi
versandogli sul capo l’olio santificato e imponendogli la mano, dica: «Ti ungo con l’olio santo nel
Signore Padre onnipotente e in Gesù Cristo e nello Spirito Santo». Lo segni sulla fronte, lo baci e
dica: «Il Signore sia con te». Colui che è stato segnato risponda: «E con il tuo spirito». Così il
vescovo faccia a tutti, uno per uno (c. 21; i corsivi sono miei).242

È questa seconda unzione, fatta dal vescovo con Volio santificato versato sul capo del
battezzato, accompagnata dall’imposizione della mano e seguita dalla signatio, che indica
precisamente il momento specifico di quel rito che da consignatio passerà in seguito a essere
indicato come confirmatio. Se prima nel battesimo lo Spirito Santo era presente per compiere una
trasformazione nel battezzato, ora «i confermati saranno “riempiti” dello Spirito Santo». 243 In questo
contesto immediatamente postbattesimale l’atto del vescovo comporta il vero e proprio
conferimento del dono dello Spirito Santo. E questo dono è messo esplicitamente in relazione con il
servizio conforme alla volontà di Dio: si può pensare, osserva Nocent, che tale servizio sia da
comprendere alla luce del tema biblico della vita come sacrificio a Dio, come sacrificium laudis nel
compimento della volontà di Dio, come autentico servizio liturgico. 244 Cosa succede dopo il
conferimento di questa seconda unzione? Nel testo si annota: «(I neo battezzati) preghino ormai
insieme con tutto il popolo; ma preghino insieme con i fedeli solo dopo aver ricevuto tutto ciò» (c.
21; il corsivo è mio). Nocent rimarca il profondo significato di questa clausola:

Questo appare importante: il battesimo ma anche la confermazione sono indispensabili


affinché i neofiti possano pregare con i fedeli e scambiare con loro il bacio di pace. La
confermazione sembra dunque essere la deputazione alla preghiera, all’offerta del sacrificio che
segue immediatamente. Si tratta del «servizio» o della «consummatio» del battezzato, divenuto

240SAXER, «La prassi sacramentale della Confermazione», 26.


241Annota Saxer: «Ippolito non è molto loquace sui riti postbattesimali», in ID. «La prassi sacramentale della Confermazione», 20.
Il testo è citato secondo la traduzione italiana a cura di R. Tateo, EP, Roma 21979.
242Nocent pone in rilievo come la versione latina (palinsesto di Verona) della Tradizione apostolica, diversamente dalle altre
versioni, ponga esplicitamente in evidenza l’intervento dello Spirito Santo nel battesimo, cf. NOCENT «I tre sacramenti della
iniziazione cristiana», 97-98. Sulla complessità biella sequenza rituale dei riti postbattesimali descritti al c. 21 e sulle possibili
spiegazioni (tra le quali ¡1 possibile affastellamento o giustapposizione di due riti: quello con il solo presbitero e quello con il
presbitero e il vescovo), cf. SAXER, Les rites de l’initiation chrétienne du IIe au VT siècle, 117-119.
243NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 98.
244NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 98-99.1 riferimenti biblici, anche se non esplicitamente presenti a
Ippolito, sono attinti da Is 53 e da Giovanni, cf. ibidem, «L’intuizione ili p. Ligier sembra appoggiata da questi testi di Ippolito,
quando vede nella confermazione il sacramento che deputa alla preghiera», ibidem.
ormai atto a servire.245

Nel testo tale rito non è ancora designato con il termine confirmatio.

Nel Sacramentario gelasiano antico (fine del VI sec. ), nella linea già tracciata dalla
Tradizione apostolica, ricorre esplicitamente la descrizione di un rito postbattesimale in uso a
Roma, designato come consignatio: «Impositio manus episcopi. Deinde ab episcopo datur eis
spiritus septifor- mis. Ad consignandum imponit eis manum in his verbis: [segue l’epiclesi]».246 Esso
è preceduto dall’unzione compiuta dal presbitero con il crisma sulla nuca (lat. in cerebro) del
battezzato.247 Sono attestati due rituali: uno per la veglia pasquale, uno per la vigilia di Pentecoste.
La sequenza rituale è la seguente: imposizione della mano accompagnata dall’invocazione dello
Spirito settiforme, consignatio o unctio cruciforme con il crisma sulla fronte del battezzato da parte
del vescovo, bacio di pace seguito dal saluto 248 La signatio chrismalis segue l’epiclesi ed è
accompagnata dalla formula: «Signum Christi in vitam aeternam».249 Sul crisma, benedetto nella
messa crismale del Giovedì santo, il vescovo invoca il dono dello Spirito Santo con la seguente
preghiera:

Te igitur depraecamur, domine, sanctae pater, omnipotens aeternae deus, per Iesum
Christum filium tuum dominum nostrum, ut huius creaturae pinguidinem sanctifi- care tua
benedictione digneris et in sancti spiritus inmiscere virtutem per potenciam Christi tui, a
cuius sancto nomine chrisma nomen accepit, unde uncxisti sacerdotes reges prophetas et
martyres tuos, ut sit his qui renati fuerint ex aqua et spiritu sancto chrisma salutis, eosque
aeternae vitae participes et caelestis gloriae facies esse consortes: per eundem dominum
nostrum Iesum Christum filium tuum

La sequenza dei riti postbattesimali attestata dal Gelasiano pone dunque in evidenza la
presenza di due unzioni, quella del presbitero e quella del vescovo, come riti distinti all’interno
della stessa seduta battesimale. Le formule che accompagnano rispettivamente le due unzioni,
osserva Saxer, si rassomigliano al punto da fare supporre la provenienza da una matrice comune,
quasi che all’origine vi sia «uno solo e medesimo rito che si sarà raddoppiato quando al vescovo
non fu più possibile di essere presente a sedute battesimali contemporanee». 250 Diversamente dalla
liturgia romana quella gallicana parla di una sola crismazione, «quella amministrata dal presbitero
subito dopo il battesimo», mentre il vescovo interviene al di fuori del battesimo come è attestato dal
concilio di Orange del 441 che denomina tale intervento confirmatio.251 Da un punto di vista teo-
logico è chiaro lo stretto rapporto tra l’unzione conferita dal vescovo e il dono dello Spirito Santo.
Esso risalta dalle parole dell’epiclesi, accompagnata dall’imposizione della mano (lat. imponit eis
manum) su tutti i battezzati, indicata nelle rubriche come atto mediante il quale «datur eis spi- ritus
septiformis».252 Imposizione della mano su tutti i battezzati prima e unzione crismale con signazione
cruciforme poi: il primo gesto, ben radicato nella prassi attestata negli Atti degh apostoli, è
presentato dalla rubrica come rito che si pone ad consìgnandum. E in tale gesto rituale e nel-
l'epiclesi che l’accompagna che il vescovo, successore degli apostoli, conferisce ai battezzati la
pienezza del dono dello Spirito Santo.253

Con l’Ordo Romanus XI (seconda metà del VI sec. o inizio VII sec.) la situazione
dell’iniziazione cristiana a Roma, come anche altrove, si è notevolmente modificata per la
245NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 100.
246Enchiridion euchologicum fontium liturgicorum, a cura di E. LODI, CLV-Ed. Liturgiche, Roma 1979,686.
247La rubrica dice: «Postea cum ascenderit a fonte infans, signatur a presbitero in cerebro de chrismate his verbis», in LODI (ed.),
Enchiridion euchologicum, 685. Cf. SAXER, Les rites de l’initiation chrétienne du IF au VF siècie, 620-623.
248Cf. R. FALSINI, «Confermazione», in Nuovo Dizionario di liturgia, EP, Roma 21986,276.
249LODI (ed.), Enchiridion euchologicum, 685.
250SAXER, «La prassi sacramentale della Confermazione», 28; cf. ID., Les rites de Vinitiation chrétienne du IF au VF siècie, 622-
623.
251Cf. SAXER, «La piassi sacramentale della Confermazione», 28-29.
252Per il testo dell’epiclesi, cf. LODI (ed.), Enchiridion euchologicum, 686. Il nuovo Ordo con- firmationis riprende tale testo quasi
alla lettera, cf. OC 25.
253Cf. NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 100.
progressiva e crescente diffusione del pedobattesimo. 2541 riti catecumenali e prebattesimali tendono
a concentrarsi anche se tale Ordo attesta ancora lo svolgimento di una prassi cate- cumenale
articolata in sette sedute denominate «scrutini», di cui quattro comportano solamente degli
esorcismi. A partire dall’Ordo M. Andrieu ritiene, diversamente da quanto sostenuto da Duchesne,
che i preti della Chiesa di Roma fossero incaricati non solo di accompagnare l’itinerario
catecumenale ma anche di conferire il battesimo nei battisteri di tituli e basiliche diversi dal
battistero del Laterano, luogo dove la seduta battesimale era officiata personalmente dal papa.255
L'Ordo rappresenta appunto il direttorio autorizzato e destinato ai presbiteri della Chiesa di Roma in
cui sono stabiliti i riti da seguire. Esso presenta una sequenza dei .'iti postbattesimali molto simile a
quella del Gelasiano antico.256 Chi presiede è il vescovo di Roma:

Induti vero ordinantur per ordinem, sicut scripti sunt, in circuitu et dat orationem pontifex
super eos, confirmans eos cum invocatione septiformis gratiae spiritus sancti. Oratione
expleta, facit crucem cum police et chrisma in singulorum frontibus, ita dicendo: In nomine
patris et filii et spiritus sancti. Pax tibi. Et respondent: Amen

Il presbitero ha già fatto dopo il lavacro battesimale un’unzione crismale sul capo del
battezzato: «Ipse vero presbiter facit de chrisma crucem cum polìce in vertice eorum, ita dicendo:
Deus omnipotens pater domini nostri Iesu Christi, et reliqua 257 L’orazione epicietica pronunziata dal
vescovo (lat. dat orationem) è sicuramente quella attestata nel Gelasiano antico; il rito viene invece
designato non più con la locuzione «Ad consi- gnandum» ma con «confirmans eos»: dalla
consignatio si è passati alla confirmatio. UOrdo non segnala l’imposizione della mano: il vescovo
traccia sulla fronte di ogni candidato il segno della croce con il crisma con una formula diversa da
quella del Gelasiano antico. Interessante è l’annotazione che segue nella quale si raccomanda di
non trascurare di ricevere la confermazione: «Et hoc omnino praecavendum est ut hoc non
neglegatur, quia tunc omne baptismum legitimum christianitatis nomine confirmatur». 258 Sembra
doversi supporre che la confermazione sia separata dal battesimo come nel caso in cui questo non è
stato conferito dal vescovo ma da un presbitero presso un fonte battesimale diverso da quello del
Laterano. La raccomandazione è allora di completare l’atto battesimale con la confermazione da
parte del vescovo. È un segnale del graduale distacco della confermazione dai riti battesimali con la
conseguenza, sottolineata da Nocent, che «il significato della confermazione non era molto
conosciuto e che essa non era considerata come necessaria per la vita cristiana».259

La progressiva separazione dal battesimo di quello che sarà sempre più chiaramente in
Occidente il rito autonomo della confermazione comincia a manifestarsi già dal IV secolo. Ne dà
già testimonianza all’inizio del IV secolo il concilio di Elvira (300/303) nel quale si richiede a chi è
stato battezzato da un sacerdote, diacono o laico di rivolgersi al vescovo perché mediante
l’imposizione della mano ciò che si è operato nel battesimo possa essere portato a compimento.260
Tale situazione di separazione sembra così diffusa nella prassi successiva che papa Innocenzo I in
una lettera (416) a Decenzio, vescovo di Gubbio, si vede costretto a richiamare la necessità che i
fanciulli una volta battezzati debbano essere confermati «da nessun altro se non dal vescovo» (Denz
215). Indirettamente tale problema attesta il diffondersi della prassi del battesimo dei fanciulli senza
la presenza del vescovo. L’autorevole intervento pontificio deve indugiare nel difendere il compito
proprio del vescovo di fronte a una situazione nella quale i presbiteri, dopo il battesimo, compiono
un’unzione crismale che di fatto viene intesa come sostitutiva di quella episcopale. Essi sono
sacerdoti ma «non possiedono l’apice del pontificato» (ibidem). Il fondamento biblico
dell’attribuzione al vescovo e a lui soltanto del ministero «di confermare o di trasmettere lo Spirito
254Su questo, cf. Les Ordines romani du haut moyen age, II: Les textes (Ordines I-XIII), a cura ili M. ANDRIEU, Spicilegium Sacrum
Lovaniense, Louvain 1971, 404-408.409. Per il testo dell ’Ordo seguiamo l’edizione critica da lui curata, cf. ibidem, 417-447.
255ANDRIEU, Les Ordines romani du haut moyen age, 409-412.
256ANDRIEU, Les Ordines romani du haut moyen age, 402-404.
257Ordo Romanus X, n. 97, in ANDRIEU, Les Ordines romani du haut moyen age, 446.
258Ordo Romanus XI, n. 102, in ANDRIEU, Les Ordines romani du haut moyen age, 446.
259NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 101.
260«... ut per manus impositionem perfici possit», in Denz 120, cf. anche ibidem 121; cf. LIGIER, La Confermazione, 35.
Paraclito» (ibidem) è individuato nel passo di At 8,14-17. Ne segue che «ai presbiteri è permesso,
allorché o senza vescovo o in sua presenza battezzano, di ungere i battezzati col crisma - che però
era stato consacrato dal vescovo -, ma non di segnare la fronte con il medesimo olio, ciò che spetta
solo ai vescovi quando trasmettono lo Spirito Paraclito» (ibidem). Segnare la fronte con il crisma
compete dunque al vescovo; al presbitero, come già si è visto nelle altre testimonianze esaminate,
compete un’altra unzione, successiva al battesimo ma previa a quella episcopale, sempre con il
crisma consacrato dal vescovo. Nella lettera non si menziona esplicitamente il gesto
dell’imposizione della mano, sottinteso tuttavia nel richiamo esplicito del testo degli Atti degli
apostoli. Il problema non sembra infatti essere suscitato dal rito dell’imposizione della mano,
chiaramente riservato al vescovo, ma dalla possibile identificazione nella prassi tra l’unzione da
parte del presbitero e quella da parte del vescovo: la prima tende ad assorbire e vanificare il valore
specifico dell’altra. Secondo Ligier il silenzio a proposito dell’imposizione della mano si deve leg-
gere come attestazione che a Roma solo tale gesto godeva incontestabilmente di una specifica
efficacia sacramentale, solo in quanto relativa a tale gesto la stessa crismazione della fronte riceveva
importanza sacramentale.261

In questo contesto, nel quale la confermazione assume sempre più la valenza di rito
autonomo con una sua specifica rilevanza sacramentale, viene a collocarsi una Omelia per la
Pentecoste di Fausto di Riez (405- 490).262 La teologia della confermazione esposta in tale testo
assume un’importanza tutta particolare per l’influenza che in Occidente ha avuto sulla successiva
riflessione teologica. Il testo di questa omelia, inserito nella collezione delle Decretales pseudo-
isidorianae (IX sec.) e attribuita al papa Melchiade, passerà successivamente nel Decretum
Gratiani (XII sec.) e rappresenterà per la teologia scolastica il punto di riferimento pressoché
esclusivo per l’elaborazione della teologia del sacramento della confermazione. 263 Tenendo conto
che tale omelia può essere collocata tra il tempo dell’elezione episcopale di Fausto alla sede di Riez
(460) e il suo successivo Trattato sullo Spirito Santo (circa 470), essa offre indirettamente uno
spaccato sulla celebrazione dei riti dell’iniziazione cristiana nella Gallia meridionale verso la metà
del V secolo. La situazione, confrontata con le testimonianze di Salviano di Marsiglia (t 470) e di
Gennadio (f 499/505), si sta modificando: dall’unità celebrativa si va verso la separazione della
confermazione dal battesimo. Ciò è dovuto principalmente al fatto dell’istituzione delle parrocchie
rurali dove il vescovo non interviene nella celebrazione del battesimo, rimanendo a lui riservato un
altro rito (la confermazione) da compiersi successivamente per completare l’atto battesimale. 264
Quest’altro rito si compie per mezzo deWimposizione della mano mentre l’unzione crismale rimane
legata al lavacro battesimale, perdendo gran parte del significato che essa aveva quando precedeva
immediatamente la stessa imposizione della mano da parte del vescovo. 265 Nell’omelia Fausto è
richiesto di dare ragione della necessità della confermazione, di spiegare a che cosa serve e in che
cosa si distingue dal battesimo. La questione da chiarire è la seguente: «“Dopo il mistero del
battesimo, a che mai dunque può servirmi il ministero di chi conferma?” Pensa infatti: “A quanto
pare, nel battesimo non abbiamo ricevuto tutto se, dopo, abbiamo bisogno di un nuovo dono”». 266 In
tutta l’omelia torna continuamente l’identificazione tra il mysterium (o sacra- mentum)
confirmationis e il rito della manus impositio da parte del vescovo. I due sacramenti, battesimo e
confermazione, sono tra loro così strettamente uniti che nessuno può separarli se non il
sopravvenire improvviso della morte. Il secondo perfeziona il primo ed è da tenersi in grande
venerazione in quanto può essere conferito solamente dal vescovo che, come successore degli
261Cf. LIGIER, La Confermazione, 36.
262II testo è citato secondo la tr. it. del Bouhot ripresa in A. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa latina, San
Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2003,133-137. Cf. anche DE CLERCK, «La confirmation: vers un consensus oscuménique?», 86-88;
fondamentale lo studio di questo testo da parte di L.A. VAN BUCHEM, cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa,
132 (nota 116). Cf. anche NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 104.
263Cf. PL 130, 237-244 (la silloge di testi è così presentata: «Incipiunt Decreta Melchiadis Papae,A. D. 311, tempore Maximini
imper.», in ibidem 237). De Clerck fa notare che l’attribuzione a papa Melchiade non pare essere corretta, lo Pseudo-Isidoro si è
confuso con papa Miltiade (310-314 d.C), cf. DE CLERCK, «La confirmation», 88.
264Su questa preminenza del vescovo nel conferimento della confermazione, cf. quanto disposto dai concili di Riez (439) e di
Orange (441) per arginare l’insorgere di una prassi nella quale i presbiteri sembrano di fatto annettersi tale munus, cf. ELBERTI, La
confermazione nella tradizione della Chiesa, 304.
265Cf. PL, 134-135. Per le testimonianze di Salviano e Gennadio, cf. ìbidem, 131-133.
266ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 135 (PL 130,240).
apostoli, porta a compimento nel battezzato la promessa di cui parla il profeta Gioele: «“Negli
ultimi giorni, dice il Signore, effonderò il mio spirito su ogni carne”. Meditiamo le ricchezze della
suprema Bontà! L’imposizione della mano sui neofiti che devono essere confermati dà ad ognuno
ciò che la discesa dello Spirito sul popolo dei credenti donò a tutti insieme» 267 Per illustrare il
significato specifico della grazia sacramentale della confermazione, rispetto a quella del battesimo,
Fausto ricorre alla vita militare: «Il regolamento militare prescrive che un capo, quando accetta un
nuovo soldato, non si contenti di iscrivere la nuova recluta, ma che anche l’equipaggi per il
combattimento con le armi più convenienti. Ebbene, per il battesimo la benedizione è questo
equipaggiamento, se gli hai dato il rango di soldato, dagli anche le armi per combattere». 268
L’analogia tra l’iniziazione cristiana e l’ingresso nella vita militare spinge il vescovo di Riez a
coniare un assioma che diviene emblematico per dire la distinzione e l’unità tra battesimo e con-
fermazione: «Nel battesimo siamo rigenerati per la vita, dopo il battesimo siamo confermati per la
lotta».269 Il primo dona la vita nuova in Cristo, il secondo dona la capacità effettiva di realizzare
questa vita nuova: il primo riguarda l’essere, il secondo l’agire. In tutti e due è operante lo Spirito
Santo: nel primo «dà la pienezza quanto ad innocenza», nella confermazione «dà un accrescimento
quanto a grazia...» 270 La pneumatolo- gia sottesa a questa interpretazione della confermazione mira
a sottolineare il carattere agonico e martiriale della vita cristiana: equipaggiamento, armi, lotta
vittoria, ... «Se dovessimo morire subito, il beneficio della nuova nascita ci basterebbe, ma per
vincere, abbiamo bisogno del soccorso della confermazione» 271 II battezzato è inoltre paragonato a
un figlio piccolino che ha ricevuto dal padre grandi beni: a cosa servirebbe tutto ciò se lo stesso
padre non provvedesse ad affidarlo a un tutore? E il tutore per il vescovo di Riez è lo Spirito Santo
di cui parla Gesù nei detti sul Paraclito. «Così per quanti sono rigenerati nel Cristo, il Paraclito è
custode, consolatore e tutore».272 Tutto il testo dell’omelia prosegue sviluppando con ampiezza lo
stretto rapporto fra la confermazione e il dono dello Spirito Santo in analogia all’evento della
Pentecoste nella vita degli apostoli.

Per questo, prima della venuta dello Spirito Santo, i discepoli erano terrorizzati fino al
rinnegamento, ma, dopo la sua visita, si armarono di disprezzo per la loro vita, fino al martirio.
Siamo riscattati da Cristo, ma dallo Spirito Santo siamo illuminati col dono della sapienza
spirituale, siamo edificati, ben compaginati, istruiti, resi perfetti. E allora possiamo comprendere la
parola dello Spirito Santo quando dice: «Ti darò l’intelligenza e ti istruirò sulla via da
percorrere».273

Sullo sfondo di questa ricca elaborazione del significato pneumato- logico della
confermazione e della contestuale e reiterata riaffermazione del suo stretto rapporto con il
battesimo, si intravede il problema oggettivo posto dal diffondersi di una prassi che tende a
sottovalutare la peculiarità dell’intervento del vescovo e ad assorbire il rito della confermazione nel
rito propriamente battesimale. Il diffondersi delle parrocchie rurali pone d’altronde l’esigenza di
celebrare il battesimo senza la presenza del vescovo con la conseguenza che la confermazione,
prima di guadagnare una sua posizione autonoma rispetto al battesimo, rischia di essere o assorbita
nel gesto postbattesimale dell’unzione crismale a opera del presbitero o eclissata perché non
avvertita necessaria per il completamento del rito dell’iniziazione cristiana. Questa omelia, come
mezzo secolo prima la lettera di Innocenzo I, prende energicamente posizione di fronte a tale
situazione di fluttuazione ribadendo la peculiarità della confermazione e la sua necessità per il pieno
compimento della portata sacramentale dell’evento battesimale. Ciò che nella prassi precedente non
era avvertito come problematico ha bisogno ora di un supplemento di chiarificazione e di
giustificazione teologica sia in ordine al gesto sacramentale specifico (i testi insistono più
sull’imposizione della mano che sull’unzione frontale con il crisma), sia in ordine al ministro
richiesto (il vescovo o eventualmente un cor episcopo), sia all’effetto sacramentale (il dono dello
267ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 135.
268ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 135.
269ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 135 (PL 130,241).
270ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 135.
271ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 135.
272ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 135.
273ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 135.
Spirito settiforme trasmesso agli apostoli il giorno della Pentecoste). In particolare l’omelia di
Fausto di Riez approfondisce il rapporto della confermazione con il battesimo sottolineando che in
essa si opera un aumento di grazia (augmentum gratiae) e che mediante tale dono si è fortificati per
la lotta (robur ad pugnam).274 Lo schema «nascita/crescita», legato a questa teologia del rapporto tra
battesimo e confermazione, sarà ripreso nella teologia scolastica e in particolare nella teologia
dell’Aquinate per individuare il proprium della confermazione rispetto al battesimo: mentre questo
dice il riferimento alla nascita (rigenerazione spirituale), la confermazione riguarda invece la
crescita (crescita spirituale). Di qui sarà facile passare a considerare la confermazione come il
sacramento che abilita alla maturità cristiana intesa principalmente nell’ottica della testimonianza.

Questa attenzione privilegiata alla confermazione, tendente a configurarsi sempre più in


Occidente come rito autonomo dal battesimo,275 non deve fare perdere di vista il fatto che essa nelle
testimonianze più antiche sia in Occidente come in Oriente si trova ben inserita nell’insie- me
unitario della celebrazione pasquale dei sacramenti dell’iniziazione cristiana al cui vertice si trova
l’eucaristia, vero compimento della stessa iniziazione e punto di partenza del tempo della
mistagogia. La tradizione delle Chiese orientali ha mantenuto tale unitarietà sia liturgicamente che
teologicamente e in essa la confermazione sta, e rimane sempre, al secondo posto tra il battesimo e
la sinassi eucaristica battesimale. Prima di passare al capitolo successivo, attento a cogliere alcuni
sviluppi fondamentali della teologia scolastica e delle fonti liturgiche medievali sulla confer-
mazione, è dunque importante integrare la conoscenza del periodo che va dal IV al VI secolo con la
considerazione di alcune significative testimonianze dell’Oriente.

Nelle catechesi di Cirillo di Gerusalemme (350-387) l’unzione con il crisma rappresenta il


culmine del rito battesimale.276 In particolare l’unzione con il balsamo (myron) su cui è stato
invocato lo Spirito Santo segue il lavacro per mezzo dell’acqua: questo duplice rito costituisce nel
suo insieme l’azione battesimale. Il lavacro è segno della passione di Cristo, l’unzione con il
crisma/myron sulla fronte e tutti gli altri sensi è segno dello Spirito Santo.
Come per il battesimo voi siete fatti degni di essere crocifissi, sepolti e risuscitati a
somiglianza di Cristo veramente crocifisso, morto e risuscitato, così per la crisma- zione voi siete
stati unti col mistico unguento dell’esultanza con cui fu unto lui - cioè con lo Spirito Santo chiamato
olio di esultanza perché fonte vera e propria di ogni letizia spirituale - divenendo con l’unzione
partecipi e consorti di Cristo (Catechesi XXI o III Catechesi mistagogica, 2).277

Questo rito ha una sua distinta peculiarità rispetto agli altri riti battesimali ed è a partire da
questa santa crismazione che si può essere qualificati veramente come «cristiani» (cf. ibidem, 5).
Due testi delle Catechesi prebattesimali (XIV, 25; XVI, 26) lasciano pensare che il rito comporti
anche un’imposizione delle mani.278

Negli scritti di Giovanni Crisostomo (345/354-407), in particolare nelle Catechesi


battesimali, emerge il riferimento al gesto dell’imposizione della mano (sia come rito
prebattesimale che accompagna l’unzione sia come rito postbattesimale senza che si accenni
esplicitamente a una unzione) compiuto dal presbitero o dal vescovo mentre le unzioni sono
collocate tra i riti prebattesimali (cf. VI Catechesi battesimale, 22-24).279
Inoltre dopo questa unzione vi fa scendere nelle sacre acque, contemporaneamente
seppellendo l’uomo vecchio e risuscitando quello nuovo, rinnovato ad immagine di colui che lo
274Cf. DE CLERCK, «La confirmation», 88.
275Non possiamo proporre un esame analitico della confermazione nelle fonti liturgiche occi dentali,non romane, si rimanda al
quadro presentato da ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 253ss (ambrosiana, gallicana, ispanica, celtica,
anglosassone, tedesca...).
276Si tratta delle catechesi prebattesimali e di quelle mistagogiche. Le seconde sarebbero da attribuire a Giovanni di Gerusale mme
(387-417), cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 145-146.
277II testo è citato secondo la tr. italiana a cura di C. RIGGI, Città Nuova, Roma 1993. Ttitta la HI Catechesi mistagogica è dedicata
ad approfondire il significato teologico della crismazione con il santo myron, cf. ibidem, 449ss.
278Cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 150.
279II testo delle Catechesi battesimali è citato secondo la traduzione italiana a cura di A. CERESA- GASTALDO, Città Nuova, Roma
1982. Cf. ibidem, 121-122.
creò. Proprio allora attraverso le parole del sacerdote e mediante la sua mano discende a volo la
presenza dello Spirito Santo e risale uno al posto di un altro, dopo aver lavato ogni macchia dei
peccati, deposto il vecchio abito della colpa ed indossato il vestito regale (ibidem, 25; cf. anche
ibidem, 10.26 dove più volte ricorre il richiamo al gesto della mano del sacerdote che tocca il capo
del battezzato; cf. anche IV Catechesi, 3).

Il fatto che si taccia il richiamo a una unzione postbattesimale «non impedisce assolutamente
di fare emergere la teologia contenuta nella sua dottrina suirinsieme della stessa iniziazione
cristiana; l’importanza da lui riservata al tema del dono dello Spirito Santo nel contesto iniziatico è
a tutti ben nota».280 L’azione dello Spirito appare strettamente legata a tre momenti dell’iniziazione:
la benedizione dell’acqua, l’unzione prebattesimale, l’imposizione della mano. «Nel misterioso rito
dell’immersione in acqua, seguito dalle parole e dall’imposizione della mano che preparano alla
venuta dello Spirito, nasce l’uomo nuovo completamente trasformato, creato ad immagine del
Creatore, figlio adottivo di Dio, fratello e coerede di Cristo, trasformato in dimora e tempio dello
Spirito».281

Come osserva Ligier, a partire dallo studio analitico delle antiche testimonianze liturgiche
orientali, la valenza della crismazione come gesto sacramentale complementare al lavacro
battesimale prevale sul gesto dell’imposizione delle mani solo dopo il concilio di Nicea. Questa
evoluzione dei riti postbattesimali si presenta come graduale e tale da non fare completamente
scomparire se non molto lentamente la peculiarità del rito dell’imposizione delle mani. «Ai tempi
del concilio di Nicea (325) l’imposizione delle mani fu inizialmente, come abbiamo visto, il rito
comune all’ordinazione, alla penitenza, alla confermazione e alla riammissione degli eretici. Ma
ben presto, in questo secolo di organizzazione canonica e di eresie trinitarie, la necessità di
assicurare una qualificazione al sacerdozio portò le Chiese dell’Asia Minore a operare una diffe-
renziazione: evidenziare la crismazione nella riconciliazione degli eretici e nella confermazione,
riservando l’imposizione delle mani alle ordinazioni. Tuttavia un cambiamento di questa
importanza, pur valendosi del patrocinio del concilio di Laodicea che concluse quello di Nicea, non
riuscì a imporsi da un giorno all’altro: parecchie Chiese orientali infatti conservarono l’uso
dell’imposizione delle mani nella loro liturgia della confermazione. E anche dove la crismazione
finì per trionfare, l’imposizione delle mani scomparve soltanto a poco a poco».282

Giovanni Damasceno (650-750 circa) nella sua opera Esatta esposizione della fede
ortodossa offre una significativa testimonianza della prevalenza del gesto della crismazione
sull’imposizione della/e mano/i.283 Nel libro quarto un breve capitolo raccoglie gli insegnamenti
fondamentali e normativi della tradizione sulla fede e sul battesimo (cf. De fide orthodoxa, IV, 9). Il
battesimo cristiano è immediatamente legato al battesimo di Gesù al Giordano: «Anche noi siamo
battezzati secondo il perfetto battesimo del Signore, quello con l’acqua e lo Spirito» (ibidem, IV, 9).
Nel lavacro battesimale non si opera solamente la remissione dei peccati ma il battezzato riceve
anche «la primizia dello Spirito Santo, e la rigenerazione diventa per noi inizio di un’altra vita,
sigillo, presidio e illuminazione» (ibidem). La presentazione della teologia del battesimo si conclude
con un breve inciso sul significato dell’olio: si tratta chiaramente dell’olio impiegato nell’unzione
post-battesimale (la crismazione). L’intento del Damasceno non è quello di descrivere il rito ma di
esplicitare il significato cristologico e pneumato- logico di questa unzione: «L’olio è ricevuto nel
battesimo per manifestare la nostra unzione, per renderci Cristi e per annunciarci la misericordia di
Dio mediante lo Spirito Santo, poiché anche la colomba portò un ramo d’ulivo a coloro che erano
stati salvati dal diluvio» (ibidem). Un debole richiamo al gesto dell’imposizione della mano appare
nella singolare spiegazione di come nel battesimo di Gesù fu Giovanni stesso a essere battezzato:
«Giovanni fu battezzato avendo posto la sua mano sul divino capo del Signore, e anche con il suo

280 ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 155.


281 ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 158.
282LIGIER, La Confermazione, 167. Cf. LIGIER, La Confermazione, 122ss (per il senso del canone 8 del concilio di Nicea e per i
successivi sviluppi in Basilio e nella prassi liturgica dell’Oriente).
283Tale scritto fa parte di una trilogia composta non prima del 743; per il contesto, cf. introduzione di V. FAZZO al testo in tr. it., La
fede ortodossa, Città Nuova, Roma 1998,5ss.
proprio sangue» (ibidem).

L’esame attento di una serie di testimonianze liturgiche di aree diverse (Costantinopoli,


Antiochia, Asia Minore) dell’Oriente cristiano nel periodo che va dal IV al VII secolo permette a
Ligier di sottolineare la persistenza del legame originario tra il gesto apostolico dell’imposizione
delle mani e il conferimento del dono dello Spirito Santo.
Tuttavia la concezione che il dono dello Spirito si fa con l’imposizione delle mani, non sparì
completamente dai rituali battesimali passati alla crismazione, ma è stata riservata al rito del giorno
ottavo nella liturgia bizantina e in un Basilio melchita. In quell’occasione il neofita torna in chiesa
per farsi togliere la benda che gli copriva la fronte ed essere lavato. La celebrazione doveva
concludersi con le parole tradizionali: «Sei stato battezzato, illuminato, unto con il myron,
santificato e lavato»: in una parola, la sua iniziazione è stata completata. Le orazioni iniziali
commemoravano la liturgia battesimale e le sue grazie. La seconda in particolare menzionava il
«perdono dei peccati», poi il «pegno», arrhabón, cioè il dono dello Spirito, e nel momento in cui il
sacerdote chiedeva che questo pegno rimanesse inviolato, pregava Dio di stendere la mano sul
neofita: «Imponi su di lui, epithes auto, la tua mano, che è forte, proteggilo con la potenza della tua
bontà, conserva il suo pegno inviolato...» e in segno di ciò gli chiedeva - come pure all’assemblea -
di inclinare la testa per la benedizione. Il tema dell’imposizione delle mani è dunque liturgicamente
ricordato e riferito al pegno dello Spirito.284

2. La confermazione nel settenario sacramentale

Dopo aver considerato gli sviluppi della prassi e della teologia della confermazione alla luce
di alcune significative testimonianze del periodo patristico, si è potuto notare come, diversamente
dalla prassi attestata nelle diverse fonti liturgiche dell’Oriente cristiano, il rito della confermazione
ha conosciuto in Occidente una sua progressiva separazione dal rito battesimale fino a conseguire la
posizione di rito autonomo. Il gesto essenziale che caratterizza tale azione liturgica tende a
concentrarsi nell’unzione crismale sulla fronte accompagnata dall’imposizione della mano ed è
compiuto dal vescovo, ministro ordinario della confermazione (cf. concilio di Firenze, Bolla
sull’unione con gli armeni, Exsultate Deo, 22.11.1439, in Denz 1318).

Il contributo della teologia scolastica, nel contesto della formulazione di un discorso


sistematico sui sacramenti, rappresenta un luogo di passaggio decisivo per comprendere il
significato sacramentale della confermazione nell’ambito del settenario. In particolare
l’elaborazione proposta dall’Aquinate viene a costituire un punto di riferimento di notevole
rilevanza per l’influenza che in Occidente avrà tanto per la teologia come per il magistero e la prassi
pastorale successiva.

A sua volta il pensiero di s. Tommaso trova già nei grandi maestri dell’alta scolastica quel
retroterra dottrinale nel quale si viene forgiando un primo approccio sistematico sia dei sacramenti
in genere come più specificamente della stessa realtà sacramentale della confermazione. 285 Nel suo
trattato De sacramentis christianae fidei Ugo di S. Vittore (t 1141) espone quello che si può definire
«il primo grande tentativo di voler inquadrare l’iniziazione cristiana nell’ottica di una teologia siste-
matica, per cui i due primi sacramenti d’iniziazione sono tra loro intimamente uniti nella
costruzione dell’uomo nuovo in Cristo».286 Dopo la trattazione del battesimo divisa in quattordici
capitoli (cf. De sacr., Lib.6: PL 176, 441-460) segue quella della confermazione divisa in sei
capitoli (cf. ibidem: PL 176, 459-462) per arrivare alla parte conclusiva articolata in quattordici
capitoli e dedicata al sacramento del corpo e sangue di Cristo (cf. ibidem: PL 176, 461-472).
L’approccio alla confermazione tocca sei punti fondamentali: il crisma e il suo uso, l’imposizione
delle mani in quanto riservata solamente al vescovo, l’intervento di papa Silvestro relativo
all’unzione postbattesimale riservata al presbitero, l’importanza della confermazione rispetto al
battesimo (quale dei due sia più grande), la non reiterabilità della confermazione (come del
284LIGIER, La Confermazione, 209. Per il risvolto di questo legame in ordine al dialogo ecumenico, cf. ibidem, 211ss.
285Cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 367ss.
286ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 368.
battesimo), il tempo stabilito dalla Chiesa (sette giorni) per accompagnare i neoconfermati
attraverso un percorso che si potrebbe definire di tipo mistagogico. Si parte dunque dall’unzione
crismale (il cui significato è illustrato a partire dal fondamento biblico)287 per passare alla sua
peculiare rilevanza sacramentale nel rito della confermazione (l’unzione crismale mediante
l’imposizione della mano riservata solamente al vescovo), distinguendolo debitamente dall’altra
unzione postbattesimale (il richiamo all’intervento di papa Silvestro in base al quale al presbitero
spetta l’unzione crismale sulla nuca e non sulla fronte), 288 per arrivare all’individuazione della
specifica grandezza della confermazione rispetto al battesimo (la confermazione eccelle sul
battesimo perché può essere conferita solamente dal vescovo) restando ferma la loro stretta unità (i
due sacramenti sono così strettamente uniti «in operatione salu- tis» che solo il sopraggiungere
della morte può separarli). Le ultime due questioni toccano la condizione dei neoconfermati sotto
due punti di vista diversi: la confermazione non può essere conferita che una sola volta (come il
battesimo non è reiterabile) e per la sua celebrazione, analogamente al battesimo, richiede il digiuno
(sia del ministro che dei con- fermandi, salvo il caso di infermità e di pericolo di morte), il loro
accompagnamento per un periodo di sette giorni attraverso un percorso mistagogico mirato a fare
gustare la settiforme ricchezza del doni dello Spirito Santo.289 Al centro di questa dottrina emerge
con chiarezza il gesto sacramentale della confermazione:

Manus impositio quae usitato nomine confirmatio vocatur, qua Christianus unctio- ne
chrismatis per impositionem manus in fronte signatur; solis episcopis apostolo- rum vicariis
debetur, ut Christianum consignent, etspiritum Paracletum tradant; sicut in primitiva
Ecclesia Spiritum sanctum per impositionem manuum dandi soli apostoli potestatem
habuisse leguntur (Ibid.: PL 176,460 C-D).

Dopo questo originale abbozzo sistematico della teologia della confermazione nel quadro
dei tre sacramenti dell’iniziazione cristiana, si può ora considerare il contributo elaborato da Pietro
Lombardo (t 1160) nell’opera che rappresenterà un punto di riferimento essenziale per la teologia
scolastica successiva, ivi compresa quella di s. Tommaso d’Aquino: Sententiarum libri quattuor.290
Nel libro IV, dopo aver esposto la dottrina sui sacramenti in genere e quella relativa al battesimo, la
distinctio VII presenta una breve sintesi della dottrina della confermazione.291 Si tratta di due
capitoli: il primo torna sulla questione del ministro (la confermazione può essere conferita
solamente dal vescovo), sottolinea come la forma del sacramento sia costituita dalle parole che il
vescovo dice mentre compie l’unzione crismale sulla fronte del confermando (le parole non sono
riportate, più sotto si richiama il gesto di imposizione della mano), ricorda che Veffetto (virtus
sacramenti) è il dono dello Spirito santo ad robur - torna il riferimento alla dottrina di Fausto di
Riez conosciuta non come tale ma come tramandata da Rabano Mauro (t 856), abate di Fulda,
discepolo di Alcuino e personaggio eminente del periodo carolingio 292 - e ribadisce la necessità di
tale sacramento dopo quello del battesimo, «ut pieni Cristiani inveniantur» (ibidem: PL 192, 855);

287II testo sottolinea che il crisma «ex oleo et balsamo conficitur, quia per oleum infusio gra- tiae, per balsamum odor bonae famae
designatur», in PL 176,459 D.
288Dopo il richiamo all’intervento di papa Silvestro, Ugo commenta: «Manifestum est autem quod primis temporibus omnis unctio
chrismatis per solos pontifices fiebat. Sed et posteaquam insti- tutum est, ut baptizatum sacerdos in vertice liniat, consignatio tamen
frontis a solis pontificibus reser- vatur. Solus enim pontifex frontem consignare et Unire potest, et Spiritum sanctum tradere», in
ibidem, 461 A-B.
289Ogni giorno di questo tempo è descritto come un convivium nel quale gustare un peculiare dono dello Spirito Santo, in analogia a
quanto già realizzato da Gesù: «Talia convivia Christus apud hospites suos exercet: talia et Spiritus sanctus», in ibidem, 462 C. La
questione di tale tempo da osservare da parte dei neoconfermati (la disciplina chrismatis) rimanda al gesto rituale dell’unzione
crismale la quale, essendo fatta sulla fronte, sembra esigere un lasso di tempo durante il quale il con fermato non può lavare la testa:
«Solent quidam quaerere quando tempore debeant unctionem chrismatis observare in capite ut scilicet capita non lavent qui
accipiunt manus impositionem, absque tempore baptisterii», in ibidem, 462 B.
290Cf. PL 192,519-962. In tale opera, osserva Elberti, «la sua dottrina sacramentaria, che non è altrettanto originale come quella di
Ugo, sotto alcuni punti di vista dimostra di essere piuttosto dipendente dalla Summa sententiarum»: ID., La confermazione nella
tradizione della Chiesa, 371. Cf. HUGONIS DE S. VICTORE, Summa sententiarum septem tractatibus distincta, in PL 176, 41-174. Per
la confermazione si veda il Tractatus sextus, c. I, in ibidem, 137-139 C-A. Tale breve trattazione si sofferma sulla questione del
ministro (il vescovo), della specifica grazia sacramentale della confermazione rispetto al battesimo (si richiama la teologia di Fausto
di Riez anche se non conosciuta come tale ma attribuita a Rabano Mauro e la decretale attribuita a papa Melchiade), della sua
efficacia e necessità per la salvezza.
291Cf. PL 192,855-856.
292Sulla confermazione dalla riforma carolingia fino agli inizi della scolastica, cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della
Chiesa, 347-366. Per Rabano Mauro, cf. ibidem, 363-365.
nel secondo, riprendendo la decretale attribuita a papa Melchiade, si ricordano la maggiore dignità
della confermazione sul battesimo fondata sulla superiorità del ministro (il vescovo), sul fatto che è
conferita sulla fronte (luogo del corpo ritenuto più degno rispetto agh altri), sull’effetto che consiste
in un aumento della grazia battesimale (maius augmentum virtu- tum praestat; il tema è
nuovamente ripreso da Rabano Mauro), la necessità del digiuno (tanto per i confermandi quanto per
i ministri), la sua non reiterabilità. Tale breve trattazione risulta essere strettamente dipendente da
quella esposta nella Summa sententiarum.6s

Nella ricca produzione teologica dell’Aquinate (f 1274) sono fondamentalmente due le


opere nelle quali viene affrontato il tema della confermazione. Innanzitutto il Commento alle
Sentenze di Pietro Lombardo (cf. In IV Sententiarum, distinctio VII). Il commento si articola in tre
questioni: se la confermazione sia sacramento e la sua materia e forma, quale sia il suo effetto, come
debba essere celebrata.293 Riprendendo la comprensione del sacramento come costituito da
sacramentum tantum (il solo segno esteriore che significa e causa), res et sacramentum (significa ed
è causato) e res sacramenti (l’effetto ultimo del sacramento che è significato e causato), Tommaso
nella seconda questione, relativa all’effetto del sacramento (cf. ibidem, q. 2, a. 1), rispondendo a tre
obiezioni dimostra che la confermazione conferisce il carattere, in analogia al battesimo e
all’ordine, e che esso costituisce la res et sacramentum. Tenuto fermo che «il carattere è un segno
distintivo con cui uno si distingue dagli altri essendo deputato a qualcosa di spirituale», ne viene
che la confermazione conferisce quel carattere che deputa a fare «conoscere le realtà spirituali
mediante la loro forte confessione...» (ibidem, Solutio I). Nella prima questione, affrontando la
questione dell’istituzione del sacramento della confermazione (cf. ibidem, q. 1, a. 1, Solutio I), egli
concorda con coloro che ritengono che fu Cristo ad istituirlo anche se né nel vangelo, né negli Atti
degli apostoli appare specificata tanto la materia quanto la forma di questo sacramento. La ragione
di questo silenzio è attribuita alla pratica della disciplina arcani in base alla quale «le forme
sacramentali e le altre cose che sono richieste nei sacramenti dovevano essere nascoste nella Chiesa
primitiva per le derisioni dei gentili» (ibidem). L’unico fondamento implicito dell’istituzione divina
del sacramento della confermazione è riconosciuto nell’attestazione da parte dei vangeli del fatto
che «il Signore stesso imponeva le mani ai bambini» (ibidem). Ma è nella Summa Theologiae (cf.
STh III, q. 72) che la trattazione viene ripresa e rielaborata in un quadro più sistematico.294

L’esposizione della dottrina sulla confermazione è sviluppata in dodici articoli: se la


confermazione sia un sacramento (a. 1), se il crisma sia la materia conveniente (a. 2), se per la
validità del sacramento sia richiesto il crisma consacrato dal vescovo (a. 3), se la forma del sacra-
mento sia quella conveniente (a. 4), se imprima il carattere e se questo supponga il carattere
battesimale (aa. 5-6), se conferisca la grazia santificante (a. 7), se sia da conferire a tutti (a. 8), se
debba essere conferito sulla fronte (a. 9), se altri debbano assistere il cresimando (a. 10), se solo il
vescovo possa conferirlo (a. 11), se il rito con il quale è conferito sia conveniente (a. 12). La
trattazione della confermazione è dunque affrontata in una prospettiva integrale in grado di
analizzarne i diversi aspetti: la peculiarità di sacramento (la questione dell’istituzione), il crisma e la
formula essenziali al conferimento del sacramento (la materia e la forma: il segno esteriore o
sacramentum tantum), il carattere e la grazia santificante (gli effetti del sacramento: rispettivamente
la res et sacramentum e la res sacramenti), i destinatari (sottintesa la questione della necessità del
sacramento), il ministro richiesto per la validità del sacramento (solo il vescovo), la celebrazione (il
legame con la celebrazione del battesimo, il tempo liturgico da preferire, il digiuno richiesto, l’uso
del crisma benedetto dal vescovo due giorni prima della vigilia di Pasqua pur potendo essere
consacrato anche in altri tempi).

293Per il testo, cf. s. TOMMASO D’AQUINO, Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo e testo integrale di Pietro Lombardo, voi. 7:
libro quarto, distinzioni 1-13:1 Sacramenti in generale, il Battesimo, la Confermazione, l’Eucaristia, tr. it. a cura di R. COGGI, Ed.
Studio Domenicano, Bologna 1999, 466-537.
294Analogamente a quanto visto in Ugo di S. Vittore e Pietro Lombardo anche Tommaso d’A- quino tratta la confermazione dopo il
sacramento del battesimo (cf. STh III, qq. 60-71) e prima del sacramento dell’eucaristia (cf. STh III, qq. 73-83). Il testo è citato
secondo l’edizione curata dallo Studio Domenicano: La Somma teologica, introduzione di T. CENTI, Ed. Studio Domenicano,
Bologna 1986, XXVII, 380ss.
È proprio in questo ultimo contesto, la questione del rito conveniente alla celebrazione, che
torna il richiamo alla prassi antica che vede battesimo e cresima legati in una medesima
celebrazione (il riferimento esplicito è nuovamente la decretale attribuita a papa Melchiade) da
compiersi ordinariamente nella veglia pasquale (il battesimo solenne e la cresima a cui segue
l’eucaristia alla quale prendono parte i neofiti). «Ma poiché la cresima viene data soltanto dai
vescovi, che non sono sempre presenti dove i sacerdoti battezzano, è stato necessario nella prassi
comune che il sacramento della cresima fosse rimandato anche ad altri tempi» (ibidem, q. 72, a. 12).
Questa annotazione fa chiaramente luce su una prassi nella quale, salvo il caso eccezionale del
battesimo e della cresima amministrati dal vescovo nella veglia pasquale, il tempo della
celebrazione della cresima è ormai normalmente slegato da quello del battesimo che nella sua forma
non solenne viene celebrato ordinariamente nelle sedi parrocchiali, rurali e non, dai presbiteri. Il
legame tra il conferimento della confermazione e la celebrazione annuale della Pasqua (tempo
propizio per il battesimo solenne) viene tuttavia ribadito nel sottolineare come, pur potendo il
crisma essere benedetto in ogni tempo, sia conveniente utilizzare quello benedetto dal vescovo due
giorni prima della vigilia di Pasqua (la messa crismale del Giovedì santo) «affinché possa essere
portato in tutta la diocesi» (ibidem). La ragione teologica di una tale prassi è la seguente: «Quel
giorno però è molto adatto alla benedizione di qualsiasi materia sacramentale, perché in esso venne
istituito il sacramento dell’Eucaristia, che in qualche modo, [...] è il fine di tutti gli altri sacramenti»
(ibidem).

Se ora si vuole sapere come si configura il rito nella sua struttura essenziale, occorre andare
agli articoli che trattano della materia e della forma del sacramento della confermazione. Che il
crisma debba essere materia del sacramento sembra essere un dato problematico dal momento che
la testimonianza biblica NT parla di imposizione delle mani da parte degli apostoli e non di crisma
(cf. ibidem, a. 2, ad 2). Altre obiezioni discutono la convenienza dell’uso dell’olio (se debba essere
mescolato con il balsamo, se debba essere di oliva..., cf. ibidem). Per Tommaso il crisma resta la
materia conveniente: «Il crisma è la materia conveniente di questo sacramento. In esso, come si è
detto, viene data la pienezza dello Spirito Santo per ottenere il vigore spirituale, che è proprio
dell’età perfetta» (ibidem)?1 Le ragioni di tale convenienza hanno una loro logica nel rispondere
alle diverse obiezioni ma è evidente che l’Aquinate, specialmente per la prima obiezione, deve
giustificare una prassi d’uso del crisma da parte degli apostoli che può essere invocata basandosi
unicamente sull’autorità di Dionigi: «Tuttavia gli Apostoli usavano comunemente il crisma nel?
amministrazione del sacramento quando tali fenomeni sensibili non si producevano. Dice infatti
Dionigi: “C’è un rito perfettivo che le nostre guide”, cioè gli apostoli, “chiamano mistero del
crisma”» (ibidem)?2 E tale crisma deve essere consacrato dal vescovo (cf. ibidem, 3) che
«rappresenta nella

Chiesa la persona del Cristo» (ibidem).295 La questione della materia si allaccia così a quella
della istituzione da parte di Cristo (cf. ibidem, a. 1). Se istituire un sacramento «spetta al potere di
eccellenza che compete solo a Cristo», allora occorre concludere che «Cristo istituì questo
sacramento non di fatto, ma promettendolo, quando disse: “Se io non me ne vado il Paráclito non
verrà a voi; se invece me ne vado, ve lo manderò”. E ciò appunto perché in questo sacramento si dà
la pienezza dello Spirito Santo, che non era da concedersi prima della risurrezione e ascensione di
Gesù» (ibidem) PA Alla specificazione della materia segue quella della forma: «Consigno te signo
crucis, confirmo te chrismate salutis, in nomine Patris et Filii et Spirictus Sancii. Amen» (ibidem,
4). Si oppongono alla validità di tale espressione della forma sacramentale della cresima tre ragioni:
non se ne può mostrare il fondamento né in Cristo, né negli apostoli; non è universalmente recepita;
295Che il crisma debba essere benedetto dal vescovo non è ad solemnitatem ma ad necessita- tem. Anche il presbitero, si ricorda la
lettera di Innocenzo I al vescovo di Gubbio, non può ungere dopo il battesimo sulla nuca (in vertice) che con il crisma benedetto
precedentemente dal vescovo. La ragione di questa necessità è per Tommaso di natura cristologica: «Di unzioni visibili invece il Cri -
sto non fece uso, per non pregiudicare l’unzione invisibile con la quale “fu unto a preferenza degli altri”. Ecco perché tanto il crisma,
quanto l’olio santo e quello degli infermi, si benedicono prima di usarli per il sacramento», in ibidem, a. 3. Una materia per il
sacramento può essere consacrata o da Cristo stesso (l’acqua per il battesimo, il pane e il vino per l’eucaristia) da cui promana la
«virtù santificante dei sacramenti» (ibidem) o dal vescovo che lo rappresenta. Per questa ragione non è necessario che acqua o pane e
vino siano prima benedetti dal vescovo, se lo si fa, lo si fa ad solemnitatem.
non si rapporta in modo appropriato al battesimo di cui dovrebbe invece rappresentare il
perfezionamento. Nell’elaborare la sua risposta Tommaso attinge al solco di quella tradizione della
teologia della confermazione che ne sviluppa i significati ricorrendo all’analogia della vita militare
(si veda più sopra Fausto di Riez).296
La forma predetta è conveniente per questo sacramento. Come infatti la forma di una cosa
naturale ne costituisce la specie, così la forma del sacramento deve contenere quanto riguarda la
specie del sacramento. Ora, come risulta dall’esposizione già fatta, in questo sacramento viene dato
lo Spirito Santo per il vigore nel combattimento spirituale. Perciò nella confermazione sono
necessarie le tre cose accennate dalla forma suddetta. La prima è la causa che conferisce la pienezza
della forza spirituale, ed è la santa Trinità. Essa si indica dicendo: «Nel nome del Padre...». - La
seconda è lo stesso vigore spirituale che viene conferito all’uomo per la sua salvezza mediante il
simbolismo della materia visibile. A ciò si allude dicendo: «Ti confermo con il crisma di salvezza».
- La terza cosa è il contrassegno che viene dato al combattente, come anche per le battaglie
materiali i soldati vengono contrassegnati con i distintivi dei loro comandanti. E rispetto a questo si
dice: «Ti contrassegno con il segno della croce», cioè con il segno «con il quale trionfò il nostro
Re», come si esprime Paolo (ibidem).

La parte centrale della questione 72 è composta da tre articoli (aa. 5- 7) nei quali è presentata
la dottrina sugli effetti del sacramento della confermazione. Il primo è costituito dal carattere che,
quale res et sacramen- tum, comporta una duplice dimostrazione (cf. aa. 5-6). In primo luogo l’ar-
gomentazione verte sul fondamento teologico che giustifica l’affermazione di questo primo effetto.
In secondo luogo si mostra come il carattere della confermazione sia distinto da quello conferito dal
battesimo. L’effetto ultimo del sacramento, res sacramenti, è costituito dalla grazia santificante (lat.
gratia gratum faciens; cf. a. 7). È evidentemente sottintesa tanto la dottrina sull’efficacia dei
sacramenti con la distinzione delle diverse modalità della causalità sacramentale quanto il principio
teologico dell’efficacia ex opere operato. Se si considera il tema degli effetti dal punto di vista
dell’a. 7 - la res sacramenti - si può notare come le obiezioni prese in considerazione mirino a
destituire la sacramentalità specifica della confermazione negandole un effetto proprio sul
presupposto che la grazia santificante è ordinata a sanare la colpa e che tale effetto è tipico della
grazia battesimale. Si parte dunque, anche nel caso delle obiezioni all’assioma che l’Aquinate
difende, dallo stretto rapporto tra battesimo e cresima. Se nella prassi questa ha assunto una
posizione autonoma, nella dottrina rimane forte il riferimento al legame intrinseco tra i due. Questo
dato originario ripropone l’esigenza di sviluppare la teologia della confermazione nell’orizzonte
della realtà unitaria dell’iniziazione cristiana e in particolare della teologia battesimale. Tommaso
deve affrontare l’antica obiezione di fronte a cui si era già trovato Fausto di Riez: 297 se tutto è dato
nel battesimo, a cosa serve la confermazione? Ed è dalla risposta data in quel contesto (ritenuta di
papa Melchiade e conosciuta come tale attraverso il Decretimi Gratiani) che il Dottore angelico
elabora la sua argomentazione.
In questo sacramento, come si è detto, si dà ai battezzati lo Spirito Santo per rinvigorirli:
come fu dato agli Apostoli nel giorno di Pentecoste, e come lo davano ai battezzati gli Apostoli
stessi con l’imposizione delle mani. Ora, nella Prima Parte noi abbiamo spiegato che la missione, o
conferimento dello Spirito Santo non avviene se non insieme alla grazia santificante. È chiaro
quindi che in questo sacramento viene conferita la grazia santificante (ibidem, a. 7).298
Torna il theologumenon della grazia della confermazione come rinvigorimento di quella
battesimale, come dono dello Spirito Santo ad robur, supponendo così una prima donazione dello
stesso Spirito Santo nel sacramento del battesimo che viene confermata. Nell’ordine della grazia
santificante si parte dal piano del remedium (la grazia è data per la remissione della colpa) per
passare a quello dell'augmentum e della fir- mitatem iustitiae (come nel caso della confermazione).
In che senso la grazia santificante è conferita dalla confermazione visto che è già donata nel
296II ricorso a tale analogia si trova anche in scritti di padri orientali, cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa,
404 (Cirillo o Giovanni di Gerusalemme a seconda dell’attribuzione all’uno o all’altro delle Catechesi mistagogiche). Attraverso
Rabano Mauro e le Decretali pseudo-isidoriane il theologumenon arriva fino alla scolastica e a Tommaso, cf. ibidem, 403-408.
297Cf. PL 130,240 C-D.
298Nel testo latino non si ha il plurale «mani» ma il singolare «mano»; per impositionem manus, anche se il riferimento esplicito al
testo di Atti rimanda chiaramente al plurale. Che Tommaso abbia presente l’imposizione della mano come gesto del vescovo che
accompagna l’unzione si vede dalla Summa contra Gentiles, libro IV, c. 60. Cf. NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione
cristiana», 113.
battesimo?
Come si è detto, la grazia sacramentale aggiunge alla grazia santificante genericamente
intesa qualche cosa che è capace di produrre l’effetto specifico a cui il sacramento è destinato. Di
conseguenza, se la grazia conferita da questo sacramento si considera rispetto a ciò che è generico,
allora la cresima non dona una grazia diversa da quella del battesimo, ma aumenta la grazia già
esistente. Se invece si considera rispetto all’elemento specifico che viene aggiunto, allora essa non è
della stessa specie della grazia battesimale (ibidem, ad 3).

Non è tuttavia così chiaro ed esplicitato in cosa consista «l’elemento specifico che viene
aggiunto» (lat. ìllud speciale quod superaddìtur) se non si ha presente la dottrina sul carattere
esposta nei due articoli precedenti.

Nell’esplicitare la specificità del carattere conferito dalla confermazione rispetto al


battesimo (cf. aa. 5-6) viene tematizzata una linea di riflessione che, insieme al tema del miles
Christi, ha avuto grande influenza nella teologia e nella catechesi successive fino ai tempi più
recenti: la confermazione conferisce all’uomo la maturità spirituale (lat. perfectio spiritualis
aetatis). Tale linea interpretativa (a partire dall’analogia con la vita fisica) è più volte ripresa nel
corso della questione 72. Nel primo articolo: «Per questo, oltre il moto di generazione per cui uno
riceve la vita corporea, c’è anche il moto di crescita che conduce all’età perfetta. Perciò allo stesso
modo si riceve la vita spirituale mediante il battesimo che è rigenerazione spirituale. Nella cresima
invece si ottiene per così dire l’età perfetta della vita spirituale» (a. I). 299 Il cresimato deve essere
tuttavia assistito da qualcun altro per poter essere forte nel combattimento spirituale (lat. spiritualis
pugna; cf. a. 10, nel quale si dimostra il valore e la necessità dell’istituto del padrinato) e sotto
questo aspetto la maturità spirituale viene nuovamente riletta alla luce dell’analogia con la vita mili-
tare. Il cresimato è sì entrato nell’età della maturità spirituale ma ha bisogno di essere assistito in
quanto «ancora spiritualmente debole e immaturo» (a. 10). L’assioma secondo il quale «la cresima
sta al battesimo come la crescita sta alla generazione» emerge con tutta chiarezza nel secondo dei
due articoli direttamente dedicati alla questione del carattere (cf. a. 6). È in questo ambito che il
discorso sulla specificità del sacramento della confermazione e della relativa grazia sacramentale si
fa più chiaro. Il carattere (inteso come «potere spirituale destinato a delle funzioni sacre») conferito
dalla confermazione è da rapportarsi alla crescita spirituale come il carattere conferito dal battesimo
è relativo alla rigenerazione spirituale. «Infatti nel battesimo uno riceve il potere di compiere gli atti
che riguardano la propria salvezza, in quanto vive in se stesso; nella confermazione invece riceve il
potere di svolgere attività attinenti al combattimento spirituale contro i nemici della fede» (a. 5). La
crescita spirituale forma una cosa sola con il combattimento spirituale: la grazia sacramentale si
esplicita nella direzione della crescita spirituale (lat. aug- mentum gratiae) e della forza spirituale
(lat. robur ad pugnam) necessaria per la testimonianza pubblica della fede (cf. ibidem aa. 5.6 e 9).300
«La confermazione si dà per un’aperta professione di fede, non per una qualunque professione di
fede, perché a questa basta il battesimo» (ibidem, a. 9). In una questione precedente (cf. ibidem q.
63, a. 6) l’Aquinate aveva precisato che, nei sacramenti che conferiscono il carattere (battesimo,
cresima ed ordine), solo nei primi due - battesimo e confermazione - il carattere dona la capacità di
ricevere gli altri sacramenti, in particolare l’eucaristia. Nella testimonianza pubblica della fede a cui
abilita il carattere della confermazione va dunque compresa la partecipazione all’eucaristia quale
vertice del culto divino e centro di tutta la realtà sacramentale della Chiesa. La confermazione
ritrova in questa luce il suo stretto legame originario con il battesimo e con l’eucaristia.301

Un’ulteriore luce sulla grazia sacramentale della confermazione viene dalla trattazione della
questione relativa al ministro proprio di questo sacramento: solo il vescovo amministra validamente
il sacramento della cresima (cf. ibidem, a. 11). A monte di questa necessità ad validitatem sta il
299È sottintesa la nota tematica dell’augmentum gratiae, inteso come crescita spirituale.
300Nocent fa notare - alla luce dell’articolo di R. BERNIER, «Le sacrement de confirmation dans la théologie de saint Thomas», in
Lumière et Vie 51(1961), 59-72 - che tale lettura del carattere include l’essere deputati al culto divino (cf. STh III, q. 63, a. 6; il culto
liturgico di cui parla la Tradizione apostolica) comprensivo di quella testimonianza pubblica della fede che è la partecipazione
all’eucaristia, cf. NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 114. Cf. anche RUFFINI, Il battesimo nello Spirito, 391ss.
301Cf. NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 114 e ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 383.
fondamento scritturistico NT in base al quale «la pienezza dello Spirito Santo veniva data con
l’imposizione delle mani degli Apostoli, dei quali i vescovi fanno le veci» (ibidem). Il vescovo nella
confermazione comunica pienezza dello Spirito Santo ed è a causa di questo effetto che la
confermazione manifesta la sua superiorità rispetto al battesimo. «Ora,il sacramento della cresima è
come il coronamento del battesimo; nel senso che nel battesimo uno viene formato come un edificio
spirituale e viene scritto come una lettera spirituale; ma nel sacramento della cresima questo edificio
spirituale viene consacrato a essere tempio dello Spirito Santo e questa lettera sigillata con il segno
della croce» (cf. ibidem, a. 11).

Dopo questo excursus nella teologia scolastica e nella dottrina del- l’Aquinate poniamo ora
attenzione ad alcune significative testimonianze liturgiche della Chiesa latina. 3021 Pontificali di
questo periodo (dal sec. X alla fine del XIII sec.) presentano un rito della confermazione, normal-
mente per i bambini sia neonati che fanciulli (lat. infantes in brachiis e maiores), inserito nella
veglia del Sabato santo (Ordo in sabbato sancto) ma anche separato da esso come Ordo ad
consignandos pueros sive infantes (denominato anche De crismandis in fronte pueris).
Cominciando dal Pontificale romano-germanico del X sec. si può osservare l’introduzione
dell’imposizione della mano fatta dal vescovo contemporaneamente su tutti i confermandi presenti.
Questa nuova rubrica è secondo Nocent il segno di una prassi nella quale la confermazione, sempre
più spesso separata dal battesimo, vede coinvolti numerosi candidati «e l’imposizione della mano su
tutti diminuisce la lunghezza della celebrazione». 303 Questo fatto contribuisce verosimilmente a
conferire maggiore importanza al gesto dell’unzione crismale. Questa è accompagnata dalla
formula: «Confirmo et consigno te in nomine patris et filii et spiritus sancti. Resp. Amen. Pax
tecum. Resp. Et cum spiritu tuo».304 Nel caso di bambini battezzati in presenza del vescovo il rito
della confermazione si svolge subito di seguito. Nel Pontificale romano del XII sec. si prevede la
situazione della celebrazione di tutti e tre i sacramenti dell’iniziazione cristiana nella notte del
Sabato santo. Per la confermazione dei neonati e dei fanciulli si riporta il rito denominato Ordo ad
consignandos infantes.305 Mentre i primi sono tenuti nel braccio destro (lat. in brachiis dextris), gli
altri più grandi posano il piede su quello del loro padrino. Il vescovo impone la mano sul capo di
ogni confermando e dice l’orazione con la quale invoca il dono settiforme della grazia dello Spirito
Santo. Dopo una preghiera nella quale vengono distintamente invocati i sette doni dello Spirito
Santo (lat. ...emitte in eos...), segue l’unzione crismale cruciforme sulla fronte accompagnata dalla
formula preceduta dalla menzione del nome del confermando: «[N.] signo te signo crucis, confirmo
te chrismate salutis, in nomine patris et filii et spiritus sancti. Amen».306 Seguono altre preghiere e la
benedizione. Nella stessa messa presieduta dal vescovo i bambini, battezzati e confermati, accedono
alla comunione eucaristica. In assenza del vescovo la comunione viene data dal presbitero. Ai
neonati la comunione viene data «sive cum folio, sive cum digito intincto in sanguine domini
etposito in ore ipsorum...».307 Pressoché identica è la sequenza rituale prevista dalYOrdo qualiter
agendum sit in sabbato sanato del Pontificale della Curia romana (XIII sec.).308 Nella solenne
celebrazione del battesimo presieduta dal papa presso il battistero della basilica del Laterano i fan-
ciulli neobattezzati vengono unti prima sulla nuca dal presbitero con il sacro crisma poi, dopo essere
stati rivestiti della veste bianca e aver ricevuto la candela, ricevono la confermazione secondo il rito
stabilito: «Deinde pontifex illos tres quos baptizaverat in fronte confìrmat».309 UOr- do da seguire è
302Cf. NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 107ss e ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa,
408ss.
303NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 107. Cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 410-
411. Elberti sostiene: «Non è dunque da Roma che giunse in Gal- lia e nel resto della Chiesa latina l’u nzione cresimale, come
comunemente sostengono ancora alcuni autori, ma con ogni probabilità essa si diffuse dalla Spagna nella Gallia durante l’VIII secolo
e poi fu accolta a Roma durante il corso del IX secolo», ibidem, 411.
304Pontificale Romano-Germanicum, XCIX, n. 387, ed. a cura di C. VOGEL, ST 227, Città del Vaticano 1963,1966 (ristampa
anastatica), II, 109.
305Cf. Pontificale romanum, XXXII: Ordo in sabbato sancto: nn. 29-36, ed. a cura di M. ANDRIEU, ST 86, Città del Vaticano
1938,1983 (ristampa anastatica), 246-248.
306Pontificale romanum, XXXII, n. 33: 247. È quasi la stessa formula che ritroviamo nella Summa Theologiae di s. Tommaso, cf.
sopra, dove al posto di signo troviamo consigno.
307Pontificale romanum, XXXII, n. 29:246.
308Cf. Pontificale romanae Curiae, XLIV, nn. 20-26, ed. a cura di M. ANDRIEU, ST 87, Città del Vaticano 1940,1984 (ristampa
anastatica), 476-477.
309Pontificale romanae Curiae, XLIV, n. 26: 477.
presentato in una rubrica distinta denominata: Ordo ad consignandos pueros sive infantes.310
Arriviamo infine al Pontificale di Guglielmo Durando (fine XIII sec.) nel quale durante i riti del
Sabato santo dopo il battesimo (si tratta anche qui di infantes) si dice: «Hos quoque baptizatos
pontifex sacro crismale in fronte confìrmat» 311 II conferimento della confermazione si svolge come
previsto dal rito De crisman- dis in fronte pueris.312 «Tale Ordo mostra che, nella maggiore parte dei
casi, la confermazione si conferisce fuori del Sabato santo, in qualche parrocchia, senza legame con
il battesimo né con l’eucaristia».313 È prevista un’imposizione delle mani su tutti i confermandi
accompagnata da un’invocazione epicietica.314 Per il resto tutto si svolge come attestato nel Pon-
tificale della Curia romana tranne alcune piccole novità: l’introduzione dello «schiaffetto» da parte
del vescovo sulla guancia del confermato, gesto probabilmente ripreso dal rito dell’investitura dei
cavalieri (torna il tema del riferimento alla vita militare: il confermato come mìles Christi)\ l’uso di
portare dopo la crismazione una benda (lat. crismalia) sulla fronte in onore della Trinità (la benda
va portata per tre giorni e viene tolta dal sacerdote il quale lava la fronte del confermato e lo affida
al padrino o alla madrina perché gli insegnino il Credo, il Pater e l’Ave Maria). 315 Tale Ordo ripreso,
dopo il concilio di Trento, nel Pontificale Romanum del 1595, rimarrà sostanzialmente identico fino
alla riforma liturgica del concilio Vaticano II.

La vita del cristiano battezzato riceve dunque nel sacramento della confermazione quella
particolare pienezza del dono dello Spirito Santo (i sette doni) che lo abilita a entrare nell’età della
maturità spirituale. Mediante la partecipazione all’eucaristia e in particolare mediante la comunione
sacramentale egli accoglie quella grazia che gli permette di crescere quale figlio di Dio per poter
accedere, dopo il compimento del pellegrinaggio terreno, alla mensa dell’eterna gloria (lat. ad
mensam eter- nae gloriae). Nella confermazione viene perfezionato ciò che era implicito nel
battesimo (lat. augmentum gratiae): il cristiano è reso capace di attestare pubblicamente la sua fede
mediante gli atti tipici della vita cristiana (in particolare l’essere deputati al culto pubblico della
Chiesa). Tra questi eccelle in particolare la partecipazione all’eucaristia quale culmine del servizio
liturgico della Chiesa. Se il battesimo concerne soprattutto Vessere resi creature nuove in Cristo dal
Padre per mezzo dell’azione santificante dello Spirito Santo, la confermazione comporta soprattutto
Vagire da figli di Dio e testimoni di Cristo ricolmi del dono dello stesso Spirito che animò la
missione degli apostoli dal giorno di Pentecoste. È in questa prospettiva che occorre cogliere il
significato dell’assioma «la cresima sta al battesimo come la crescita sta alla generazione». La
teologia del carattere conferito dalla confermazione ricapitola nell’orizzonte della professione
pubblica della fede sia la dimensione del culto sia quella della testimonianza. Su questo fronte la
grazia santificante conferita dalla confermazione si lascia specificare come «irrobustimento» o
«rinvigorimento» della grazia battesimale per sostenere con coraggio e forza (lat. robur) la lotta
spirituale (lat. spiritualis pugna) tipica della vita cristiana nel tempo del pellegrinaggio terreno.
Ritrovare il senso della confermazione nella sola direzione del miles Christi non rende dunque
ragione alla completezza del dato teologico emerso dalla teologia dell’Aquinate il quale pone nella
debita evidenza sia la testimonianza ad extra (verso i nemici della fede cristiana) sia la
partecipazione al sacerdozio eterno di Cristo nel culto pubblico della Chiesa. Per l’esercizio
dell’una e dell’altra funzione il battezzato ha bisogno di un particolare potere spirituale (lat.
spiritualis potestas) che solo nella confermazione, mediante il carattere, viene ad essergli conferito
in modo irrevocabile. Sullo sfondo di questa teologia si lascia intravedere una realtà di vita cristiana
che è quella tipica della societas christiana medievale. I Pontificali, come si è visto, fanno
riferimento, tanto per il battesimo come per la confermazione, alla situazione divenuta ormai tipica
di candidati che sono o neonati o fanciulli. 316 La prassi battesimale decentrata nella parrocchie rurali
310Cf. Pontificale romanae Curiae, XXXIV, nn. 1-6:452-453. Qui la formula che accompagna la consignatio corrisponde
esattamente a quella riportata da s. Tommaso nella STh.
311Pontificale G. Durandi, Liber III: IV (Ordo in sabbato sancto), n. 19, ed. a cura di M. ANDRIEU, ST 88, Città del Vaticano
1940,1984 (ristampa anastatica), 591.
312Pontificale G. Durandi, Liber 1:1,1-8: 333-335.
313NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 111.
314Cf. Pontificale G. Durandi, Liber 1:1,1: 333.
315Cf. Pontificale G. Durandi, Liber 1:1,8:335. Per l’uso della lavatura della fronte del crisma- to, cf. sopra (Ugo di S. Vittore).
316Si tenga conto che il concilio Lateranense IV (1215) richiede che ciascun fedele, a partire dall’età della discrezione, si confessi
almeno una volta all’anno e riceva almeno a Pasqua il sacramento dell’eucaristia, cf. Denz 812. Cabié sottolinea come nella prassi
è normalmente separata dal conferimento della confermazione che, essendo riservato unicamente al
vescovo, si muove su nuovi percorsi liturgici (in particolare la fluidità dei tempi e dei luoghi della
celebrazione) e pastorali (in particolare le modalità della formazione catechistica di cui è incaricato
il parroco e con lui i padrini e le madrine) legati alla nuova fisionomia che il ministero episcopale
viene assumendo nella christianitas medievale.317 Ricorrenti sono i richiami magisteriali che
ribadiscono la necessità di presentare i battezzati al vescovo per la confermazione, chiaro segno di
una scarsa percezione della sua rilevanza nella vita cristiana.

Dopo lo scisma del 1054 la confermazione torna a essere oggetto di attenzione


nell’insegnamento di due concili (Lione 1274; Firenze 1439) che a titolo diverso sono caratterizzati
dal tentativo di ricomporre le divisioni con l’Oriente. La christianitas medievale porta in sé le
profonde conseguenze di questo scisma e tra queste la mancanza di unaNreciproca e feconda
circolazione tra Occidente e Oriente delle rispettive n^chezze spirituali, teologiche e liturgiche. Al II
concilio ecumenico di Lione il riferimento alla confermazione si ritrova nella Lettera
dell’imperatore Michele a papa Gregorio nella quale è contenuta la professione di fede dell’im-
peratore letta in presenza del papa nella IV sessione, 318 professione che nel 1385 sarà prescritta da
papa Urbano VI ai greci che passavano alla Chiesa cattolica. In essa si specifica che i sacramenti
della Chiesa sono sette (cf. Denz 860) e tra questi vi è anche il sacramento della confermazione
«che i vescovi conferiscono con l’imposizione delle mani, ungendo con il crisma coloro che sono
rinati» (ibidem). Come sottolinea Nocent la prassi descritta è quella praticata dalla Chiesa
romana.319 Il riferimento esplicito all’imposizione delle mani (lat. impositio manuum) è da spiegarsi
non in rapporto all’imposizione della mano che accompagna la crisma- zione. «Si tratta di un
supplemento; questi sono due riti: l’imposizione delle mani e l’unzione. Ma nulla permette di
pensare che il testo identifichi crismazione e imposizione delle mani. Quest’ultima è la tradizione
romana; la crismazione si rifà alla tradizione di Bisanzio; nient’altro».320 Nel contesto del concilio
di Firenze la dottrina della confermazione presentata nel Deeretum prò Armenis (cf. Denz 1310-
1313.1317-1319) non fa che riprendere in sintesi la teologia di Tommaso d’Aquino (materia, forma,
ministro, effetto). Ciò che papa Eugenio IV ha a cuore di sottolineare e difendere è la necessità che
solo il vescovo conferisca la confermazione: «Ministro ordinario è il vescovo» (Denz 1318).321
Come osserva Ligier tutta l’argomentazione del concilio, sulla scia delle lettere di Innocenzo III e
Innocenzo IV, è costruita per convincere gli orientali ad accettare il privilegio episcopale. Agli
orientali non viene dunque richiesto che adottino il rito occidentale dell’imposizione delle mani. 322
Per l’effetto del sacramento si dice: «Effetto di questo sacramento è che il cristiano possa
coraggiosamente confessare il nome di Cristo; infatti per mezzo suo viene conferito lo Spirito Santo
per rendere forti, come agli apostoli il giorno di pentecoste» (Denz 1319). Il magistero ha assunto in
pieno la prospettiva teologica inaugurata esplicitamente da Fausto di Riez: completa la grazia
battesimale (lat. augere) e rende forti, corrobora per la testimonianza (lat. roborare). Con la
l’individuazione dell’età della discrezione oscilla tra i sette anni, gli undici/dodici anni o anche più avanti e conclude osservando: «La
confermazione è sempre celebrata alla prima occasione in cui si può incontrare il vescovo senza alcuna considerazione dell’età dei
fanciulli», in CABIÉ, «L’iniziazione cristiana», 93. A proposito dell’età della confermazione Courth afferma: «Per quanto, nel secolo
IX, siano documentabili celebrazioni crismali autonome, nemmeno in quest’epoca si perde di vista il rapporto che queste intratten-
gono con il battesimo. Ciò appare chiaro anche dalle scadenze che vengono stabilite: la cresima dev’essere ricevuta nello stesso
giorno del battesimo, o a una settimana di distanza, o alla prossima visita del vescovo. Dopo il concilio Lateranense IV si afferma
l’usanza di cresimare i bambini a 4 o a 7 anni, gli adulti invece immediatamente dopo il battesimo. Alla dissociazione che di fatto
s’impose, seguì la relativa giustificazione teologica, accompagnata da una descrizione sempre più dettagliata del contenuto specifico
delle due celebrazioni», in COURTH, I sacramenti, 179.
317Si pensi solo alla questione della «residenza» del vescovo nella diocesi nel quadro politico religioso delle investiture. Su questo
dovrà intervenire energicamente il concilio di Trento.
318Cf. Denz 851-861. Per una breve introduzione al testo e alla sua storia, cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della
Chiesa, 318-319.
319Cf. NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 115.
320NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 115.
321Si tenga presente che subito di seguito si ricorda: «Si legge, tuttavia, che qualche volta, con dispensa della Sede apostolica e per
un motivo ragionevole e urgentissimo, anche un semplice sacerdote abbia amministrato il sacramento della confermazione con il
crisma consacrato dal vescovo», in Denz 1318. Questa era appunto la prassi tipica dell’Oriente nella quale era (ed è) consentito al
presbitero amministrare, dopo il battesimo, l’unzione con il myron per concludere l’iniziazione cristiana con la santa comunione. È
chiaro che nel contesto di questa prassi, sia prima come dopo lo scisma del 1054, non sono previsti né il carattere di straordinarietà,
né tanto meno una qualche dispensa.
322Cf. LIGIER, La Confermazione, 44. Per le lettere dei due papi, cf. LIGIER, La Confermazione, 37-40. Sul problema del gesto
sacramentale nella duplice tradizione di Roma (imposizione delle mani) e di Bisanzio (crismazione) tornerà Benedetto XIV con la
lettera apostolica Ex quo primum (1756) nella quale, senza prendere una posizione alternativa, offre un punto di vista equilibrato di
rispetto delle due tradizioni, cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 541-542.
confermazione «cresciamo nella grazia e ci irrobustiamo nella fede» (Denz 1311).

Quale sia la visione teologica del sacramento della confermazione in Oriente lo si può
assumere indirettamente dall’opera di un grande teologo della Chiesa bizantina del tempo: la Vita in
Christo di Nicola Cabasi- las (1322-1391/1398), composta a Costantinopoli negli ultimi anni della
sua vita (dopo il 1363).323 Non si tratta di un trattato mistagogico di iniziazione ai misteri, né di un
trattato di sacramentaria ma appunto della vita in Cristo nelle sue varie fasi, «oggetto del discorso è
dunque l’esistere e l’operare del Cristo in noi, e la nostra partecipazione alla sua vita divina». 324
Dopo il Libro primo dedicato a mostrare come «La vita in Cristo si forma per mezzo dei divini
misteri^eTBattesImo, del myron e della santa comunione»,325 Cabasilas passa al Libro secondo nel
quale presenta il rapporto tra il battesimo e la vita cristiana e, prima del Libro quarto - «Quale
apporto conferisce alla vita in Cristo la santa comunione» -, nel Libro terzo tratta di «Quale apporto
conferisce alla vita in Cristo il divino myron».326 La vita cristiana viene dunque compresa alla luce
della realtà dinamica (la ripresa del tema palamita delle «energie») e pneumatica posta in essere dai
tre sacramenti dell’iniziazione cristiana il cui vertice, l’eucaristia, accompagna tutto Viter del
credente fino al giorno in cui «assimilati totalmente in Cristo in virtù dell’eucaristia, saremo rapiti
incontro a Lui al suo apparire glorioso».327 La trattazione del Libro III si articola in tre capitoli che
sviluppano le seguenti argomentazioni: il myron, facendo partecipi dell’unzione del Cristo, dona lo
Spirito e abbatte il muro che separava da Dio; in virtù del myron tutti ricevono i carismi, benché non
sempre li rendano operanti; il myron consacra le chiese rendendole case di preghiera. È una vera e
propria antropologia teologica in chiave crismale. Per quanto concerne la crismazione
postbattesimale si afferma: «Una volta spiritualmente plasmati e generati a questo modo, occorre
ricevere l’energia conveniente a tale nascita e il movimento appropriato: ecco appunto quel che
opera in noi l’iniziazione del divinissimo myron. Essa ci rende attivi di energie spirituali, ciascuno
nella misura della sua preparazione al mistero...». Procedendo nella fondazione biblica di tale
evento sacramentale, Cabasilas sottolinea come l’imposizione delle mani e l’unzione «producono lo
stesso effetto e hanno la medesima potenza». Il richiamo va anche agli autori più antichi che
«chiamano la chirotonia dei sacerdoti unzione dei sacerdoti». L’argomentazione dell’equivalenza
dei due gesti permette di spiegare come fondata l’affermazione in base alla quale dopo il battesimo,
in assenza di imposizione delle mani, è l’unzione con il myron a conferire il dono dello Spirito
Santo. «Così anche ora, nell’atto di essere unti col myron, viene il Paraclito».328 È importante
sottolineare come venga esplicitato il fatto sacramentale operato dal myron nell’unzione
postbattesimale. «Per spiegare poi agli iniziati che cosa è l’iniziazione, la chiamano sigillo del dono
dello Spirito e così cantano nell’atto di conferire il crisma». 329 Le modalità dell’unzione non sono
descritte. Essa, secondo la prassi liturgica prevista dall’Officium sancti baptismatis, è cruciforme ed
è fatta sia sulla fronte che sugli occhi, sulle narici, su ambedue le orecchie e sui piedi dicendo ogni
volta la formula «Sigillo del dono dello Spirito santo».330 La novità apportata da questa unzione
viene spiegata in termini cristici e pneumatici al contempo, anzi pneumatici perché fondati nel
mistero della persona di Cristo, l’unto per eccellenza. «L’opera di questa iniziazione consiste
appunto nel comunicare le energie dello Spirito buono. Il myron introduce lo stesso signore Gesù e
in lui tutta la salvezza degli uomini e tutta la speranza dei beni, da lui ci viene la partecipazione allo
Spirito Santo e per lui abbiamo accesso al Padre».331
323II testo è citato secondo la traduzione italiana a cura di U. NERI, Utet,Torino 1971. Per l’approccio mistagogico alla liturgia
(l’eucaristia in particolare), cf. M. DAVITTI (ed.), Nicola Cabasila. Commento della divina liturgia, introduzione di A.G. Nocilli,
EMP, Padova 1984.
324CABASILAS, La vita in Cristo, 11.
325È il titolo del primo libro, cf. CABASILAS, La vita in Cristo, 61.
326Cf. Libro III, in CABASILAS, La vita in Cristo, 175-193.
327Cf. CABASILAS, La vita in Cristo, 252. Cf. anche ibidem, 110.
328CABASILAS, La vita in Cristo, 177-178. Ligier menziona proprio questo testo del De vita in Christo per evidenziare come
Cabasilas riscontri un cambiamento avvenuto nella prassi della cri- smazione ovvero perché nel suo tempo l’unzione sia riservata alla
confermazione e alla consacrazione dei prìncipi, perché non venga più applicata ai sacerdoti i quali, nondimeno, continuano a par lare
della loro cheirotonia o imposizione delle mani dell’ordinazione come di una «unzione», in LIGIER, La Confermazione, 105. Il
cambiamento intercorso rispetto alla prassi dei primi secoli sarebbe da individuare nell’aver riservato l’imposizione delle mani non
più alla confermazione che pure ne aveva titolo ma all’ordinazione sacerdotale (e dei re).
329CABASILAS, La vita in Cristo, 179.
330Cf. CABASILAS, La vita in Cristo (nota 10).
331CABASILAS, La vita in Cristo, 183. Cf. anche MEYENDORFF, La teologia bizantina, 233-236.
3. Dal concilio di Trento al nuovo rituale della confermazione

La posizione dei riformatori nei confronti della confermazione è consequenziale alla loro
dottrina generale sui sacramenti. A partire dalla riconsiderazione della loro istituzione da parte di
Cristo in quanto attestata dalla sacra Scrittura (sola Scriptum), essi si riducono fondamentalmente a
due: il battesimo e la santa cena. La confermazione appartiene all’ordine dei riti ecclesiastici. 332
Così afferma Lutero nel De captivitate babylonica ecclesiae (1520). Egli dedica alla «cresima o
confermazione» una breve trattazione che anche in questo caso risente dell’impostazione
globalmente polemica dello scritto.

Non capisco che idea sia loro venuta di dare valore di sacramento, facendone la cresima o
confermazione, all’imposizione delle mani, atto con cui leggiamo che Cristo toccava i piccoli, e gli
apostoli trasmettevano lo Spirito Santo, ordinavano i preti e curavano gli infermi, [...] Perché non
hanno trasformato in cresima anche il sacramento dell’eucaristia, [...] La confermazione, così,
comporterebbe tre sacramenti. Eucaristia, ordine e la cresima stessa. Se, poi, qualsiasi cosa fecero gli
apostoli è sacramento, perché non hanno trasformato in sacramento, e a maggior ragione, la
predicazione ?333

L’attenzione del Riformatore è concentrata sul gesto dell’imposizione delle mani. Certo esso
si trova nel periodo apostolico, abbia esso valore di confermazione o di risanamento, ma di tale
imposizione delle mani «non è rimasto nulla, eccetto quello che abbiamo inventato noi per dare
lustro alle funzioni dei vescovi, per non lasciarli completamente oziosi nella Chiesa». 334 Lutero
vuole invece cercare «i sacramenti istituiti da Dio, e fra essi non troviamo motivo di annoverare la
confermazione». Viene così nuovamente ripresa la questione dell’istituzione nei suoi principi
fondamentali:

Per costituire un sacramento, infatti, occorre prima di tutto la promessa divina che desti la nostra
fede. Ma non leggiamo in nessun luogo che Cristo abbia formulato una promessa a proposito della
confermazione, anche se ha imposto le mani a molti, e (nell’ultimo capitolo di Marco) ha detto,
dando a ciò valore simbolico: «Imporranno le mani agli ammalati ed essi risaneranno». Ma nessuno
ha usato questa espressione per costituire un sacramento, come in effetti, non è possibile fare.

Pertanto la confermazione deve essere considerata «come un rito ecclesiastico o una


cerimonia sacramentale...» e quindi non ha la virtù propria dei sacramenti, quella di operare la
salvezza per coloro «che credono alla promessa di Dio che c’è in essi».335

Nel Decretum de sacramentis del concilio di Trento (Sessione VII del 3 marzo 1547) la
dottrina dei riformatori viene confutata nella parte dei sacramenti in genere (cf. Denz 1601-1613) e
in alcuni canoni esplicitamente dedicati alla confermazione (cf. Denz 1628-1630). La conferma-
zione come parte del settenario appartiene ai sacramenti della nuova legge istituiti da Cristo,
imprime nell’anima il carattere (segno spirituale indelebile) come il battesimo e l’ordine e pertanto
non può essere ripetuta (cf. Denz 1601.1609). Gli anatemi colpiscono: coloro che negano che la
confermazione è un vero e proprio sacramento e affermano che è un rito o cerimonia inutile oppure
una catechesi utile per permettere a coloro che, arrivando a essere adolescenti, devono ratificare
pubblicamente la loro fede (cf. can. 1: Denz 1628), coloro che affermano che si opera una ingiuria
332La posizione di Lutero, Zwingli e Calvino su questo punto è la stessa. Cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della
Chiesa, 471-479.
333M. LUTERO, «Sulla prigionia babilonese della Chiesa», in Lc5 tesi, presentazione di S. Quinzio, Ed. Studio Tesi, Pordenone
1984,137.
334«Sulla prigionia babilonese della Chiesa», 137-138. Il testo prosegue con tagliente ironia nei confronti dell’ufficio episcopale.
335«Sulla prigionia babilonese della Chiesa», 138. Nel libro IV, c. XIX (4-13) dell’opera Istituzione della religione cristiana,
Calvino dimostra, attraverso una esposizione molto più ampia di quella di Lutero, che la confermazione non è un sacramento. Viene
confutata sia la prassi liturgica vigente come la relativa teologia. Di questa si offre una breve sintesi e in essa si possono facilmente
riconoscere i temi elaborati dalla scolastica, cf. Calvino, Istituzione della religione cristiana, IV, XIX, 4-5 (ed. it. a cura di G.Tourn),
Utet, Torino 1971, II, 1676-1678. Il tono si fa fortemente polemico quando al 9 si parla dei ministri della confermazione come
«oliatori» (il riferimento va alla crismazione),
allo Spirito Santo nell’attribuire qualche efficacia al crisma della confermazione (cf. can. 2: Denz
1629) e infine coloro che affermano che ministro ordinario della confermazione non è il solo
vescovo ma qualsiasi semplice sacerdote (cf. can. 3: Denz 1630). L’istituzione divina, la sua
peculiarità nel settenario sacramentale (in particolare il carattere e la grazia santificante), il segno
sacramentale (in particolare l’efficacia legata al crisma) e il ministro (il solo vescovo) sono i punti
sui quali si attesta la risposta del Tridentino ai riformatori per ciò che concerne la confermazione.
Nel primo canone si trova già annunciata quella che è ancora oggi la diffusa comprensione della
confermazione (ted. die Firmung) nella prassi del mondo protestante: un rito pubblico di
«conferma» e ratifica del patto battesimale compiuto nella prima adolescenza o giovinezza da
coloro che sono stati battezzati da bambini.336

Come si è già visto per il battesimo anche per la confermazione il periodo post-tridentino è
caratterizzato dalla nuova impostazione litur- gico-catechetica. Per la celebrazione della
confermazione l’Ordo è quello previsto dal Pontificale romanum del 1595 che riprende sostanzial-
mente quello del Pontificale di G. Durando, mentre per la formazione dei candidati alla
confermazione i parroci possono avvalersi del Catechismus ad Parochos del 1566.337 Per l’età dei
confermandi il Catechismus precisa: «Tutti i cristiani devono ricevere questo sacramento, ma non è
detto che esso possa essere ricevuto convenientemente a ogni età. Ai fanciulli, che non hanno
raggiunto l’uso di ragione, non è opportuno amministrarlo. Anche se non è necessario attendere i
dodici anni d’età, sembra giusto in ogni caso attendere almeno fino ai sette anni». 338 Di fatto la cele-
brazione della confermazione non si svolge quasi mai dopo il battesimo in un rito continuo che
culmina con l’eucaristia dal momento che il suo conferimento è riservato al vescovo il quale non
può ovviamente essere presente a ogni battesimo che i parroci celebrano nelle parrocchie sia cit-
tadine che rurali.339 Con l’intervento del decreto Quam singulari del 1910 di Pio X e l’abbassamento
dell’età della prima comunione all’inizio dell’età della discrezione (individuata verso il settimo
anno di età), anche il conferimento della confermazione è lecito che sia convenientemente differito
«ad septimum circiter aetatis annum, nihilominus etiam antea conferri potest, si infans in mortis
pericolo sit constitutus, vel ministro id expe- dire ob iustas et graves causas videatur» (cf. C1C del
1917, can. 788). Il quadro teologico che anima la formazione catechetica si sviluppa prefe-
renzialmente sul registro del confermato/cresimato che viene corroborato dal dono dello Spirito
Santo per essere perfetto testimone/soldato di Cristo.340

336cf. ibidem, 1682. In realtà tale gesto viene mostrato privo di fondamento biblico NT; nella prassi apo stolica emerge piuttosto un
altro gesto: l’imposizione delle mani, cf. § 7, in ibidem, 1680-1681. L’insieme è dominato da una visione del sacramento fortemente
ancorata sul rapporto tra parola e segno visibile dove è per la fede nella parola che si ottiene la salvezza e non per un potere salvifico
materializzato nel segno sensibile (olio, acqua, pane...), «tali sostanze infatti deperiscono e si disfano con la figura di questo mondo»,
in ibidem 1680. La prospettiva deve essere un’altra: «Ma in quanto queste cose sono santificate dalla parola di Dìo, per diventare
sacramenti, non ci vincolano alla carne ma ci forniscono un insegnamento spirituale...», in ibidem, 1681. Per la prassi vigente è
interessante notare un dato che Calvino fa emergere: «Quanta parte del loro popolo infatti si fa cresimare dopo il bat tesimo? Neppure
la centesima», 9,1683. La confermazione quale appare a Calvino nella prassi del suo tempo viene descritta come «una bestemmia
contro il battesimo...», 8,1682.
1
Anche se il Catechismo degli adulti del 1975 della Chiesa luterana di Germania sembra deporre verso una specificazione di tipo
sacramentale, cf. COURTH, La confermazione, 193-194. Cf. D. BOROBIO, «La iniciación cristiana en perspectiva ecuménica», in
Phase XXXVI(1996)213,203-208. 227-231 (l’A. offre anche un ottimo ragguaglio sulla situazione attuale dell’iniziazione cristiana
alla luce dei dialoghi ecumenici). La prassi odierna di un rito della confermazione nel mondo protestante si radica sui fondamenti
posti da Erasmo di Rotterdam e soprattutto da Martin Butzer, cf. ELBER- TI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 479-
482. Per la prassi anglicana, cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 487-494 (nel Rito alternativo del 1980 si
contempla sia una comprensione della confermazione che ne accentua la visione sacramentale, sia un’altra che, analogamente al
mondo protestante, la considera come rito di passaggio alla maturità cristiana di coloro che sono stati battezzati da piccoli).
337II Pontificale romanum, come già detto più sopra, riprende VOrdo del Pontificale di G. Durando. Per il testo, cf. l’ed. anastatica
delYEditio Princeps con introduzione e appendice a cura di M. Sodi - A. Triacca, in Monumenta Liturgica Concila Tridentini, LEV,
Città del Vaticano 1997, 8-
(De confirmandis). Cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 517-518. Per la confermazione nel Rituale del card.
Santori, cf. ibidem, 518-520. Per il Catechismus ad Parochos, 194- 206, cf. ed. in lingua italiana a cura di L. ADRIANOPOLI, Ares,
Milano 1983,195-206. Per uno studio, cf. P. STELLA, «Il Sacramento della Confermazione nel Catechismo ad Parochos (1566)», in
Ephemeri- des Liturgicae 86(1972)2,182-213.
338ADRIANOPOLI,// catechismo romano commentato, 203 (§ 203).
339Nel 1946 con il Decreto della Sacra Congregazione per la disciplina dei Sacramenti Spiri- tus Sancii munera Pio XII concedeva,
mediante un indulto generale, ad alcune categorie di sacerdoti il potere di conferire, in assenza del vescovo e come ministri
straordinari, il sacramento della confermazione, cf. AAS 38(1946), 349-354. Cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della
Chiesa, 549-552.
340Cf. ADRIANOPOLI, Il catechismo romano commentato, 196-197 (196). Per l’insieme cf. ELBERTI, La confermazione nella
tradizione della Chiesa, 499-504 e STELLA, «Il Sacramento della Confermazione». La nuova editio typica àelVOrdo Confirmationis è
stata promulgata il 22 agosto 1971; la versione ufficiale in lingua italiana a cura della CEI del Rito della Confermazione, approvata il
28 marzo 1972, è divenuta obbligatoria dal 1° gennaio 1973.
È con l’autorevole intervento magisteriale di Paolo VI nella costituzione apostolica Divinae
consortium naturae (15 agosto 1971) che il rito della confermazione, revisionato in alcuni suoi
punti essenziali, arriva a essere approvato in vista della nuova editio typica dell ’Ordo Confirma-
tionis (22 agosto 1971).341 Questa revisione non si può tuttavia comprendere se non alla luce
dell’insegnamento del concilio ecumenico Vaticano II che nella Sacrosanctum concilium offre le
linee fondamentali di attuazione di quella riforma che sarà portata a compimento dal Consilium ad
exequendam constitutionem de sacra liturgia e dalla s. Congregazione per il Culto Divino. Nella
costituzione su La sacra liturgia si afferma: «Sia riveduto il rito della confermazione, anche perché
apparisca più chiaramente l’intima connessione di questo sacramento con tutta l’iniziazione
cristiana; perciò la rinnovazione delle promesse battesimali precederà convenientemente la
recezione di questo sacramento. Quando si ritenga opportuno, la confermazione potrà essere
conferita durante la messa; per quanto riguarda invece il rito fuori della messa, si prepari una
formula da usarsi come introduzione» (SC 71).342

A questa solenne dichiarazione programmatica che vuole riconsegnare la confermazione al


suo originario legame con il battesimo e con l’iniziazione cristiana, occorre unire anche altri
interventi dai quali emerge lo stretto rapporto tra questi due sacramenti e l’eucaristia: nel contesto
del ministero presbiterale (cf. PO 5) e nell’ambito dell’impegno missionario di tutto il popolo di
Dio (cf. AG 36). In altri testi il discorso sulla confermazione viene proposto, sempre in stretta unità
con gli altri due sacramenti dell’iniziazione cristiana, per sottolinearne alcuni effetti in ordine alla
vita personale (cf. AG 11) e alla vita ecclesiale (cf. LG 11) nella quale il fedele esplica la funzione
sacerdotale, profetica e regale (oltre ai due testi già citati, cf. anche LG 10; 13; 33; AA 3). Nella luce
dell’ecclesiologia del popolo di Dio tornano a essere ripresi alcuni temi tradizionali della teologia
della confermazione: perfezionamento della grazia battesimale, dono dello Spirito Santo,
appartenenza alla Chiesa mediante un vincolo più perfetto ed edificazione della stessa mediante il
culto, la testimonianza e l’apostolato. Si sentono riecheggiare temi già elaborati sia dai padri come
nella teologia scolastica: il respiro è quello dell’ecclesiologia di comunione nella quale una
rilevanza tutta nuova viene a essere riconosciuta alla vita e alla missione del fedele laico. La
confermazione emerge come sacramento che edifica la Chiesa nella sua identità ad intra e nella sua
missione ad extra. Un eccessivo sbilanciamento della teologia della confermazione nella direzione
della testimonianza e dell’apostolato non rende ragione del principio iniziatico di cui tale
sacramento è espressione insieme al battesimo e all’eucaristia battesimale. Il conferimento della
pienezza del dono dello Spirito Santo si lascia certamente sviluppare, in accordo con il mistero della
pentecoste, sul versante della testimonianza/missione, come si vede chiaramente dalla lettura dei
testi conciliari richiamati. Gli stessi testi fanno però emergere anche il versante del perfezionamento
della grazia battesimale come realizzazione di un vincolo più perfetto con la Chiesa e come attua-
zione di una speciale consacrazione per la partecipazione attiva al mistero eucaristico e l’esercizio
del culto spirituale in unione a Cristo, unico ed eterno sacerdote.

In ultimo alcuni testi toccano in modo nuovo e significativo la questione del ministro della
confermazione (cf. LG 26; OE 13.14). Il vescovo è qualificato come ministro originario della
confermazione (cf. LG 26), lasciando così spazio al riconoscimento di prassi liturgiche come quella
orientale dove la confermazione è conferita ordinariamente dai presbiteri con il crisma benedetto
dal patriarca o dal vescovo e richiamando tuttavia il primato del ministero episcopale in rapporto a
un’azione sacramentale che, essendo strettamenste legata alla trasmissione del dono dello Spirito
Santo, appare convenientemente riservata a coloro che nella Chiesa sono i successori degli
apostoli.343

341Cf. A.TRIACCA, «Per una trattazione organica sulla “Confermazione”: verso una teologia liturgica (Rassegna e Ragguaglio)», in
Ephemerides Liturgicae 86(1972)2,128-181.
342CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum concilium, 4.12.1963: EV 1/123. Per le
successive direttive di revisione del rito della confermazione, cf. TRIACCA, «Per una trattazione organica sulla “Confermazione”»,
142-143.
343II nuovo CIC ha mantenuto la formula «ministri ordinari», cf. can. 882. Più articolata e globale la prospettiva del CCC 1312-
1314.
Facendo tesoro di questo contributo magisteriale del concilio e del lavoro svolto per la
revisione del rito della confermazione da parte del Consilium ad exsequendam constitutionem de
sacra liturgia, Paolo VI nella costituzione apostolica Divinae consortium naturae chiarisce e risolve
per la Chiesa latina il problema della precisa individuazione del segno sacramentale essenziale di
questo sacramento.344 Da una parte la tradizione parla di imposizione della mano/delle mani e
dall’altra parla di cri- smazione: l’una attestata come dato più costante specialmente in Occidente,
l’altra soprattutto in Oriente. Osserva Nocent:

La tradizione latina, [...] non è priva di complessità e vi si riscontra un movimento «di andata e
ritorno» tra l’imposizione «della mano», l’imposizione «delle mani» e l’unzione. La storia dei riti ci
mostra la progressione di una teologia ilemorfica che privilegia quanto è strettamente materia e
forma. D’altronde, i documenti indirizzati all’Oriente tendono a restare obiettivi, ammettendo
l’unzione e insistendo perché essa sia riservata al vescovo. 345

L’opzione compiuta con l’intervento diretto dell’autorità apostolica stabilisce: «Il


Sacramento della Confermazione si conferisce mediante l’unzione del Crisma sulla fronte che si fa
con l’imposizione della mano, e mediante le parole: “Accipe signaculum Doni Spiritus Sancti”». 346
La preferenza è dunque andata all’unzione che è tuttavia intesa come comprensiva del gesto di
imposizione della mano. Il gesto epicietico dell’imposizione delle mani che si compie sugli eletti
prima della crismazione, pur non essendo essenziale all’atto sacramentale, «è da tenersi in grande
considerazione, in quanto serve a integrare maggiormente il rito stesso e a favorire una migliore
comprensione del sacramento».347 Rispetto al rito della confermazione del precedente Pontificale
romanum si è cambiata anche la formula preferendo a quella in uso nella Chiesa latina «l’anti-
chissima formula propria del rito bizantino, con la quale si esprime il dono dello stesso Spirito
Santo e si ricorda l’effusione dello Spirito che avvenne nel giorno di Pentecoste (cf. At 2,1-
4.38)».348 Con tale riforma del rito si vuole dire che la crismazione rappresenta l’imposizione delle
mani usata dagli apostoli.349 Si tratta di quella imposizione delle mani «che giustamente viene
considerata dalla tradizione cattolica come la prima origine del sacramento della Confermazione, il
quale rende, in qualche modo, perenne nella Chiesa la grazia della Pentecoste».350

344Per la storia del problema, oltre al già citato saggio di LIGIER, cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 566-
577.
345NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 118.
346Pontificale romano Rito della Confermazione, 20.
347Pontificale romano Rito della Confermazione, 20.
348Pontificale romano Rito della Confermazione, 20.
349Cf. Pontificale romano. Rito della Confermazione, 19.
350Pontificale romano Rito della Confermazione, 16.
CAPITOLO TERZO LINEE PER UN APPROCCIO SISTEMATICO

1. Per un rinnovamento della prassi e della dottrina alla luce del magistero del concilio
Vaticano II e della riforma liturgica

Il nuovo Ordo confirmationis va oggi considerato alla luce dell’insieme della proposta
rituale che emerge dai nuovi libri liturgici diretta- mente legati all’iniziazione cristiana, in
particolare il nuovo Ordo initia- tionis christianae adultorum. Come sottolineavano i vescovi
italiani nella premessa ai prenotanda, tale Ordo (nella versione ufficiale in lingua italiana: RICA)
rappresenta il paradigma privilegiato a partire dal quale elaborare ogni progetto pastorale di
formazione cristiana.351 Anche Paolo VI nella Divinae consortium naturae, riprendendo
l’ispirazione di SC 71, ribadisce questo legame della confermazione con i sacramenti dell’inizia-
zione cristiana:

Da tutto ciò appare evidente la speciale importanza della confermazione ai fini


dell’iniziazione sacramentale, per la quale i fedeli, come membra del Cristo vivente, a lui sono
incorporati e assimilati per il Battesimo, come anche per la confermazione e l’eucaristia. Nel
battesimo i neofiti ricevono il perdono dei peccati, l’adozione a figli di Dio nonché il carattere di
Cristo, per cui vengono aggregati alla Chiesa e diventano, inizialmente, partecipi del sacerdozio del
loro Salvatore (cf. lPt 2,5-9). Con il sacramento della confermazione, coloro che sono rinati nel
battesimo, ricevono il dono ineffabile, lo Spirito Santo stesso, per cui sono arricchiti di una forza
speciale, e, segnati dal carattere del medesimo sacramento, sono collegati più perfettamente alla
Chiesa mentre sono più strettamente obbligati a diffondere e a difendere, con la parola e con
l’opera, la loro fede, come autentici testimoni di Cristo. Infine la confermazione è talmente
collegata con la Sacra Eucaristia che i fedeli, già segnati dal santo battesimo e dalla confermazione,
sono inseriti in maniera piena nel corpo di Cristo mediante la partecipazione nl- l’eucaristia.352

Questa rilettura dell’evento sacramentale della confermazione è la premessa teologica che


consente una maggiore flessibilità in ordine alla specificazione del ministro. Il vescovo è e rimane
ministro originario (et'. RC, Premesse, 7) ma, oltre alle situazioni già previste dal CIC in caso di
pericolo di morte (cf. ibidem), ha ipso iure facoltà di confermare: «il sacerdote che, in forza del
mandato a lui legittimamente conferito, battezza un adulto o un fanciullo nell’età del catechismo, o
accoglie un adulto già battezzato nella piena comunione della Chiesa» (ibidem; cf. ibidem 18).
Questa ulteriore possibilità va proprio nella direzione intesa dal- VOICA/RICA e nella prospettiva
dell’unità celebrativa dei sacramenti dell’iniziazione cristiana.

2. Il nuovo Rito della Confermazione

Venendo ora più direttamente alla proposta rituale del RC notiamo che essa si struttura,
come indicato da SC 71, secondo tre modalità celebrative: la confermazione conferita nella messa,
fuori della messa e a un malato in pericolo di morte. 353 Segue la presentazione della Messa rituale
della Confermazione (cf. RC, c. IV, 65-92). A testimonianza del rapporto fondamentale tra rito e
proclamazione della parola di Dio viene in ultimo offerto un ricco lezionario di testi biblici
dell’Antico e del Nuovo Testamento (cf. ibidem 93-121).

La confermazione si deve conferire «normalmente durante la Messa, perché risalti meglio


l’intimo nesso di questo sacramento con tutta l’iniziazione cristiana, che raggiunge il suo culmine
nella partecipazione conviviale al sacrificio del corpo e del sangue di Cristo» (RC, Premesse, 13). li
interessante notare che le rubriche prevedono che la confermazione sia conferita fuori della messa
351Cf. RICA, Premesse, 12.
352Pontificale romano. Rito della Confermazione, 16: EV 4/1073. Per una rassegna delle posizioni della teologia contemporanea
sulla sacramentalità della confermazione, cf: COURTH, I sacra- menti, 185-195; Y. CONGAR, Credo nello Spinto Santo, 3: Il fiume di
vita (Ap 22,1 ) scorre in Oriente <■</ in Occidente. Teologia dello Spirito Santo, Queriniana, Brescia 1983,225-235.
353Cf. RC, 140. Per gli adattamenti consentiti alle Conferenze episcopali, cf. OC 16-18, nel caso del RC sono stati inseriti nelle varie
parti del rito, cf. RC, Premesse, 16-17.
quando i confermandi sono fanciulli che non hanno ancora ricevuto la ss. eucaristia, né sono
ammessi a riceverla durante quella azione liturgica (cf. ibidem). In questi casi il vincolo dell’unità
celebrativa con l’eucaristia non può essere visibilizzato e si suppone che i fanciulli confermati
accedano in un tempo successivo alla prima comunione, completando così il loro itinerario di
iniziazione cristiana. Tali disposizioni tengono però ben saldo il principio della successione del
conferimento della confermazione prima dell’eucaristia. Si può prevedere anche il caso della stessa
messa nella quale i fanciulli già battezzati (o anche adulti già battezzati da piccoli) prima vengono
confermati e poi sono ammessi a ricevere la prima comunione (cf. RC, Premesse, 11).

La prassi vigente in Italia nella Chiesa latina non tiene presente normalmente né l’unità
celebrativa, né la successione tipica dei tre sacramenti dell’iniziazione cristiana: il battesimo è
conferito dopo la nascita, la prima comunione verso i sette/otto anni e la confermazione verso gli
undici/dodici anni.354 La questione dell’età della confermazione si rivela essere un falso problema se
nelle scelte pastorali si tiene debitamente presente il RICA come forma tipica della formazione
cristiana e la confermazione ritrova il suo posto, salvo casi particolari (non dunque come prassi
ordinaria), prima dell’eucaristia (o nella stessa celebrazione, o in ima celebrazione successiva). Per
parte sua il RC, dopo aver ribadito l’unità celebrativa di tutti e tre i sacramenti dell’iniziazione
cristiana per i catecumeni adulti e per i fanciulli che vengono battezzati nell’età del catechismo,
afferma: «Per quanto riguarda i fanciulli, nella Chiesa latina, il conferimento della Confermazione
viene generalmente differito fino ai sette anni circa. Tuttavia per ragioni pastorali, e specialmente
per inculcare con maggior efficacia nella vita dei fedeli una piena adesione a Cristo Signore e una
salda testimonianza, le Conferenze Episcopali possono stabilire un’età più matura qualora la
ritengano più idonea per far precedere alla recezione del sacramento una congrua preparazione»
(RC, Premesse, 11). E così le ragioni pastorali hanno determinato lo slittamento della
confermazione dopo la prima comunione (nell’età della preadolescenza: undici/dodici anni; con
molte altre varianti, fino verso i diciotto anni). Per questo motivo si ritiene normale che la
confermazione sia celebrata nella messa (cf. RC, Premesse, 13), dal momento che si suppone come
ovvia la prassi secondo la quale il confermato può partecipare, ma non per la prima volta, alla
mensa eucaristica. In tale quadro la confermazione rischia di diventare nella mentalità corrente la
celebrazione nella quale si ratificano gli impegni battesimali, normalmente assunti da diri (genitori e
padrini) in occasione del battesimo conferito subito dopo la nascita. Tutto il rito non mira certo a
questo, anzi, per ritus et preces, significa la natura sacramentale dell’evento: viene conferito il dono
dello Spirito Santo nella sua pienezza (cf. RC, Premesse, 1-2; l’orazione epicietica: 29). Di fatto la
prassi vigente sembra portare troppo in primo piano l’esigenza di «inculcare con maggior efficacia
nella vita dei fedeli una piena adesione a Cristo Signore e una salda testimonianza,...» (RC, Pre-
messe, 11). Non si è lontani da una comprensione riduttiva del rito sacramentale in chiave di rito
ecclesiastico, degno certamente di significato e di valore pastorale e pedagogico ma scarsamente
avvertito come azione attraversata da un’efficacia che, essendo sacramentale, implica l’intervento
unico e gratuito di Dio Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo.

Rimangono comunque da tenere ben saldi sia nel caso di una prassi (unità celebrativa o
almeno successione tipica) come dell’altra (slittamento della confermazione dopo la prima
comunione) il primato dell’evangelizzazione e quello della comunità cristiana. Il primo primato
assume evidentemente una fisionomia diversa a seconda della situazione dei candidati: bambini
nell’età del catechismo o adulti, già battezzati da piccoli o battezzati da adulti, catechizzati solo
nella fanciullezza o anche successivamente, praticanti o ricomincianti... Entrano in gioco a seconda
dei casi soggetti diversamente competenti per affiancare e aiutare il confermando nel suo cammino
di preparazione: i genitori, i catechisti, il parroco, il padrino o la madrina, il vescovo.
L’evangelizzazione si realizza attraverso la sinergia di questi diversi soggetti ecclesiali e rimanda
all’azione globalmente evangelizzante della comunità cristiana (cf. RC, Premesse, 3.12).

354Per le ragioni pastorali di tale prassi e le disposizioni CEI al riguardo, cf. RUSPI, «La pastorale della Confermazione», 126-128.
Nella confermazione la Chiesa è chiamata a esprimere la sua funzione materna come già nel
battesimo: i confermandi attendono infatti di essere pienamente introdotti nella comunità dei figli di
Dio mediante la partecipazione al banchetto eucaristico. Anche nel caso, normalmente ricorrente, di
confermandi che hanno già ricevuto la prima comunione, occorre esplicitare attraverso la catechesi
che da confermati essi partecipano alla stessa mensa ma con una novità di grazia che prima non
avevano ricevuto in pienezza. La situazione tutta speciale del conferimento di tutti e tre i sacramenti
dell’iniziazione cristiana nella notte di Pasqua rappresenta il modello per eccellenza dal quale
riprendere i tratti e il senso di questa maternità. In particolare è necessario rivisitare e riproporre il
valore della mistagogia affinché l’esercizio della funzione materna non si concluda con il
conferimento del sacramento ma prosegua a vantaggio dei neoconfermati per un loro più profondo
radicamento nel dono ricevuto.355 Se la cresima è l’inizio della maturità spirituale, ciò vuol dire che
tale condizione deve consolidarsi attraverso una crescita che ha nell’eucaristia, celebrata di
domenica in domenica, il suo luogo privilegiato. Mentre viene compiendosi questa lenta gestazione,
il cristiano si prepara ad assumere nella Chiesa e nel mondo quella peculiare espressione di
responsabilità nella quale potrà esercitare, secondo lo stato di vita a cui è chiamato, la funzione
profetica, sacerdotale e regale propria di tutto il popolo di Dio.

La confermazione rappresenta così, insieme al battesimo e all’eucaristia, il fondamento da


cui assumere la linfa necessaria per autentici itinerari di spiritualità, radicati nella vita della Chiesa e
capaci di discernere nel mondo i segni dei tempi per realizzare con forza e coraggio (si ricordi tutto
il lessico che evoca questa condizione martiriale e agonica del confermato: robur, pugna, mìles...) le
esigenze proprie del regno di Dio (cf. RQ Premesse, 13).356 In particolare è al fedele laico che
occorre riconsegnare questa ricchezza di spiritualità tipica della confermazione proprio a ragione
del suo effetto ultimo che è appunto il conferimento del dono pentecostale (dunque pieno e
definitivo perché pasquale) dello Spirito Santo. L’elaborazione pastorale della mistagogia della
confermazione potrebbe giovarsi di questa indicazione fondamentale per proporre itinerari di
scoperta dei doni dello Spirito Santo, riprendendo e rileggendo lo stesso segno sacramentale
dell’unzione crismale e del contesto epicietico di tale gesto (l’imposizione delle mani da parte del
vescovo e l’orazione epicietica che richiama esplicitamente il settiforme dono dello Spirito).

Per la sua irripetibilità, analogamente al battesimo, la confermazione costituisce il cristiano


in una condizione di novità di vita che è ontologicamente permanente (la teologia del carattere
come segno spirituale indelebile, come spiritalis potestas). Sotto questo aspetto la confermazione,
unitamente al battesimo, rimanda all’eucaristia come il fondamento al suo sviluppo, come l’inizio
della maturità cristiana al suo divenire nella storia. Questo riferimento alla storia come luogo della
testimonianza e della professione pubblica della fede cristiana - da diffondere e difendere - esplicita
la ragione di necessità della confermazione che è sempre stata avvertita ed esplicitata dalla teologia
e dal magistero come necessità relativa alla vita del cristiano come homo viator. Per tale condizione
pellegrinante che egli condivide con la Chiesa, si rende necessaria una speciale dotazione di forza
elargita da Dio, chiaro riferimento a una prima arcaica pneumatologia NT, al fine di portare a com-
pimento con Cristo Signore la sua missione di salvezza nel mondo. A colui che è solo battezzato
manca questa dotazione/donazione e di per sé la sua partecipazione all’eucaristia non può attuarsi se
non come invocazione di questo dono che certamente l’eucaristia elargisce ma non con le
peculiarità tipiche della confermazione (in particolare il conferimento del carattere).357

Arriviamo dunque alla conclusione di questo paragrafo presentando lo svolgimento del rito
della confermazione secondo la modalità celebrativa ritenuta più consueta: il rito della
355Noti sono gli slogan che dipingono la cresima come «sacramento dell’abbandono» (della pratica cristiana). Cf. RUFFINI, Il
battesimo nello Spirito, 366ss.
356Ci riferiamo all’ultimo capoverso del paragrafo 13 ove si pone in luce l’importanza dell’ascolto della parola di Dio mediante il
quale lo Spirito agisce nel battezzato/cresimato e fa conoscere nella vita cristiana la volontà del Signore.
357Di particolare interesse l’impostazione teologica del saggio di G. MAZZANTI, I sacramenti. Simbolo e teologia. 2. Eucaristia
Battesimo e Confermazione, EDB, Bologna 1998, dove la confermazione viene descritta come «sacramento della decisione nuziale
tra Dio e la Chiesa/sposa», in ibidem 257ss. Tale impostazione riesce a valorizzare tanto la prospettiva della tradizione orientale come
quella della tradizione occidentale. Il registro dell’esposizione è costruito sul filo conduttore offerto dalla pneumatologia.
confermazione durante la Messa (cf. RC c. I, 20-39). Per la celebrazione della messa, salvo nella
ricorrenza di determinati giorni del tempo liturgico (cf. ibidem 22), si devono usare i testi della
messa rituale (cf. ibidem c. IV). Ipotizziamo la celebrazione della confermazione di un gruppo di
fanciulli nella messa presieduta dal vescovo al quale si uniscono come concelebranti gli altri
sacerdoti presenti. Dopo la hturgia della Parola e prima dell’omelia i cresimandi devono essere
presentati al vescovo dalla persona che li ha accompagnati nella formazione (dal parroco o da un
altro sacerdote o dal diacono o dal catechista: cf. ibidem 24). I candidati, insieme ai rispettivi
padrini (o a uno dei genitori), stanno in un luogo opportuno davanti al vescovo. Dopo l’omelia
inizia la liturgia del sacramento. I cresimandi, interrogati dal vescovo, rinnovano le promesse
battesimali (cf. ibidem 26). È la saldatura rituale che rimanda al battesimo come primo dei
sacramenti dell’iniziazione cristiana. Segue l’imposizione delle mani su tutti i cresimandi da parte
del vescovo e dei sacerdoti che concelebrano: il gesto è accompagnato dall’orazione epicietica (cf.
ibidem 28-29). Il diacono presenta al vescovo il sacro crisma. Nel modo debito ciascun fanciullo
insieme al padrino si presenta al vescovo (spetta al padrino dire il nome ma può essere detto anche
dal cresimando). Segue l’unzione crismale cruciforme sulla fronte e lo scambio della pace (cf.
ibidem 32). La celebrazione prosegue con la preghiera universale e, omettendo il Credo, si prolunga
nella liturgia eucaristica per arrivare alla comunione che deve essere amministrata sotto le due
specie (cf. ibidem 37). La messa si conclude con la benedizione propria (cf. ibidem 38; oppure con
l’orazione sul popolo, cf. ibidem 39). Nelle premesse si sottolinea l’importanza della recita della
preghiera del Signore, «il Padre nostro, che i cresimati diranno con il popolo o durante la Messa
prima della comunione, o fuori della Messa prima della benedizione, perché è proprio lo Spirito che
prega in noi, ed è nello Spirito che il cristiano dice “Abbà, Padre”» (RC, Premesse, 13).

Nel battezzato Dio con la pienezza del dono dello Spirito Santo ha confermato la sua
«misteriosa» presenza perché il vincolo ecclesiale posto dal battesimo sia più perfetto e quale figlio
di Dio, unto di Spirito Santo, il cresimato possa edificare la Chiesa e dare buona testimonianza di
Cristo nel mondo. La fragranza del profumo che emana dal sacro crisma con il quale è stato unto
sulla fronte rimanda il cresimato alla novità pasquale e pentecostale che, inserito nel tessuto vivo
della comunità ecclesiale, è chiamato ad annunciare con la sua vita.358

3. Dalla confermazione all’eucaristia, culmine dell’iniziazione cristiana

La sequenza celebrativa dei sacramenti dell’iniziazione cristiana si configura come una


realtà fortemente unitaria. Il neofita è pienamente tale solo dopo aver preso parte per la prima volta
alla mensa eucaristica insieme agli altri fratelli e sorelle della comunità cristiana.

La prassi della Chiesa antica, ancora oggi così nelle Chiese cristiane dell’ortodossia, dà
luogo all’iniziazione vera e propria dopo l’impegnativa gestazione del periodo del catecumenato.
Nella vegha pasquale gli eletti accedono alla dignità di figli adottivi e membri del popolo della
nuova alleanza mediante il battesimo, la confermazione e la partecipazione alla mensa eucaristica.
L’iniziazione appare come sacramento conferito in tre tappe sacramentali intimamente unite.

Il battesimo dei bambini, nel rito romano, viene invece separato dal conferimento degli altri
sacramenti. Per l’adulto il RICA ha ripristinato, sul modello della prassi della Chiesa antica,
l’istituto del catecumenato con i suoi diversi gradi (entrata nel catecumenato, elezione) per ripro-
porre l’unitarietà celebrativa del conferimento dei sacramenti dell’iniziazione cristiana.

Il fatto che la prassi pastorale ordinaria nel rito romano sia riferita principalmente al
pedobattesimo ha determinato la diffusione di una sequenza celebrativa a tappe (collegate con le
358Si veda il bellissimo inno di Efrem il Siro che esalta le peculiarità dell’olio nell’economia sal vifica: EFREM IL SIRO, «Inni sulla
verginità, n. 7», in L’arpa dello Spirito, a cura di S. BROCK, Ed. Lipa, Roma 1999,67-71.
fasi evolutive della vita dei fanciulli) dove l’intimo legame tra i tre sacramenti non è più percepito
nel modo debito. Tra l’altro, proprio per l’introduzione della sequenza: battesimo (in stretta
vicinanza temporale con l’evento della nascita), prima comunione (in stretto raccordo con il
manifestarsi della capacità di discrezione verso i sei/otto anni), confermazione (in stretto raccordo
con l’età della preadolescenza verso gli undici/quattordici anni), nell’itinera- rio catechetico e
liturgico di formazione si è venuto a collocare in seconda posizione il sacramento della penitenza,
nella modalità della «prima confessione» da situarsi in un periodo precedente la celebrazione della
prima comunione.

La forma tipica ridisegnata dal RICA getta dunque una riserva critica su questa recente prassi
introdotta per ragioni pastorali da alcune Conferenze episcopali nazionali (come quella italiana ad
es.). In realtà la posta in gioco è molto alta: la manomissione della sequenza tipica dell’Orbo, pur
motivata da sollecitazioni di tipo pastorale, induce a sovraccaricare la confermazione di valenze
teologiche che sono piuttosto tipiche dell’eucaristia. Si è diffusa infatti una comprensione
unilaterale della confermazione come sacramento della «maturità» cristiana. In realtà questa
valenza, pur essendo anche della confermazione, appartiene spiccatamente all’eucaristia. La
maturità del cristiano assume infatti i lineamenti di una vita eucaristica alla quale sia il battesimo
come la confermazione sono ordinati e della quale essi pongono le irripetibili e irrevocabili
premesse fondative. La prima partecipazione all’eucaristia porta a compimento quanto ad essa era
teso e orientato, tanto l’essere (il battesimo) come il poter agire (la confermazione) da cristiano. Da
quel momento la sua storia nel mondo come membro del popolo di Dio dovrà esplicitare tutta la
novità che è data e detta nel segno eucaristico. Conseguire la maturità, la nuova misura di sé che è
Cristo, consisterà nell’eser- citare la profezia, il sacerdozio e la regalità sempre a partire e in vista
della celebrazione eucaristica del giorno del Signore, secondo la pedagogia dell’anno liturgico.
EXCURSUS UNO SGUARDO AI DIALOGHI ECUMENICI CON LA CHIESA ORTODOSSA
«Le coeur de l’Orthodoxie se trouve dans ses rites»
(S. Boulgakov)

A quarantanni dalla promulgazione del decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio


(21.11.1964) ritorniamo a leggerne alcuni passaggi relativi all’accento posto dai padri conciliari
sulla communicatio in sacrìs (cf. UR 8) con i fratelli e le sorelle delle Chiese orientali. Queste
Chiese, alle quali il concilio riserva una «speciale considerazione» (lat. peculiaris considerano; cf.
UR 14ss), «quantunque separate, hanno veri sacramenti e soprattutto, in forza della successione
apostolica, il sacerdozio e l’eucaristia, per mezzo dei quali restano ancora unite con noi da
strettissimi vincoli». Su questa base di unità, prosegue il testo, «una certa comunicazione nelle cose
sacre, presentandosi opportune circostanze e con l’approvazione dell’autorità ecclesiastica, non solo
è possibile, ma viene pure consigliata» ( UR 415; cf. anche OE 26). È su questo fondamento che
Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut unum sint ritiene di poter e dover guardare a tali Chiese come
Chiese sorelle. «Ora, dopo un lungo periodo di divisione e incomprensione reciproca, il Signore ci
concede di riscoprirci come Chiese sorelle, nonostante gli ostacoli che nel passato si sono frapposti
tra di noi» (57).

Grazie all’impegno della Commissione mista internazionale il dialogo ecumenico tra la


Chiesa ortodossa e la Chiesa cattolica romana ha registrato nel frattempo in rapporto alla tematica
sacramentale momenti di sviluppo particolarmente significativi. Fin dalla creazione della Com-
missione congiunta (1976) e dai primi lavori (1978) si era infatti proposto di porre in evidenza ciò
che già univa le due Chiese e si era deciso pertanto di dare la precedenza nella ricerca ai
«sacramenti, data la loro relazione con l’ecclesiologia».359

Il dibattito ecumenico successivo doveva poi proseguire ricevendo nuovo impulso dal
Documento teologico-ecumenico multilaterale di T/ima (1982), dedicato alla presentazione dei
punti di accordo, di differenza e di divergenza sulla triplice realtà fondamentale del Battesimo, della
Eucaristia e del Ministero (BEM).

Nell’attingere a questa ricchezza vogliamo fermare la nostra attenzione sul documento Fede,
sacramenti e unità della Chiesa messo a punto nella seconda fase della quarta sessione plenaria
della Commissione mista internazionale. I lavori su questa tematica, avviati nel 1984 a Creta (terza
sessione plenaria), dovevano continuare nel 1986 vicino a Bari (quarta sessione plenaria). Essi non
poterono svolgersi per un boicottaggio da parte di diverse Chiese ortodosse e ripresero in una
seconda fase, nel 1987, dando luogo al testo definitivo comunemente denominato «Documento di
Bari».360

Il documento è articolato in due sezioni precedute da un’introduzione. La prima sezione,


«Fede e comunione nei sacramenti» (cf. 5-36), rappresenta la parte centrale e più ampia dell’intero
testo. Il suo contenuto risponde all’intento di illustrare il nesso tra l’unità della fede e l’unità dei
sacramenti (cf. 2). Si tratta dunque di pagine che offrono, seppure in modo sintetico, una
sacramentaria generale. La seconda sezione, molto più breve (cf. 37-53), mette a fuoco il rapporto
dei sacramenti dell’iniziazione «fra di loro e in rapporto con l’unità della Chiesa» (4).
L’assioma di fondo che ispira lo sviluppo del dialogo è espresso nell’introduzione laddove si

359Cf. R.G. ROBERSON, «Dialogo cattolici-ortodossi», in Dizionario del movimento ecumenico, EDB, Bologna 1994,370.
360 Per il testo del documento di Bari, cf. COMMISSIONE MISTA INTERNAZIONALE PER IL DIALOGO TEOLOGICO TRA LA CHIESA
CATTOLICA ROMANA E LA CHIESA ORTODOSSA, documento Fede, sacramenti e unità della Chiesa, 16.6.1987: EO 3/1762ss (nel testo
indico i mi., omettendo il rimando alle pp.); sulle cause del boicottaggio cf. ROBERSON, «Dialogo cattolici-ortodossi», 370. Per uno
sguardo sintetico alle sessioni plenarie precedenti il 1984, cf. ibidem. Sarebbe auspicabile prendere in esame anche il Documento di
Vaiamo (1988) per il suo tema (il sacramento debordine) strettamente connesso con la struttura della Chiesa, la teologia sacramentale
e la teologia eucaristica in particolare, cf. COMMISSIONE MISTA INTERNAZIONALE PER IL DIALOGO TEOLOGICO TRA LA CHIESA
CATTOLICA ROMANA E LA CHIESA ORTODOSSA, documento II sacramento dell’ordine nella struttura sacramentale della Chiesa,
26.6.1988: EO 3/1812ss (in particolare 1835-1854).
precisa che l’unità della fede «è un presupposto per l’unità nei sacramenti e specialmente nella santa
eucaristia» (2).

Nel tentare una corretta ermeneutica del testo è utile seguire lo sviluppo dottrinale unitario
(tanto ortodosso come cattolico romano) della dinamica della fede nelle sue distinte implicazioni:
come dono divino, come atto personale (fides qua), come evento liturgico, come realtà ecclesiale,
come elaborazione dottrinale (fides quae), come comunione regolata da precise condizioni, come
prassi di iniziazione legata - secondo principi comuni, cf. 49 e modalità diverse, cf. 50-51 - a tre
sacramenti (battesimo/confermazione/ eucaristia).

Nel delineare la priorità della fede sui sacramenti e sulla comunione sacramentale, già
nell’introduzione si afferma:

... bisogna garantire che essa [la fede] venga considerata come una condizione preliminare,
di per sé già completa, prima della comunione sacramentale, e da questa accresciuta, come
espressione della vita della chiesa e mezzo di crescita spirituale di ciascuno dei suoi membri. La
questione va posta per evitare un accostamento errato al problema della fede, intesa come
condizione per l’unità. Tuttavia non dovrebbe servire a offuscare il fatto che la fede è condizione e
che non c’è comunione sacramentale senza la comunione nella fede, sia nel senso più vasto e sia
nella formulazione dogmatica (3; cf. anche 6 e 12).

Se delle differenze o nella dottrina o nella prassi liturgica «significano il rifiuto di dogmi
precedenti della Chiesa [...] ci si trova chiaramente davanti a una vera divisione sulla fede. Allora la
comunione sacramentale non è più possibile» (28).361 Vi è dunque una fides, richiesta quale con-
dizione preliminare per entrare nella comunione di salvezza espressa nella Chiesa locale, una fides
che si sviluppa e cresce nella dinamica sacramentale e dottrinale, una fede eterodossa che non può
più esprimersi e accrescersi nella e mediante la celebrazione sacramentale perché in dissonanza con
la traditio fidei autentica. «Ciascun sacramento presuppone ed esprime la fede della Chiesa che lo
celebra» (6).

L’ottica pneumatologica torna continuamente in tutto il testo (cf. in particolare il c. 3 della


prima sezione) fino alla densa formulazione che chiude la prima sezione: «La comunione nella fede
e la comunione dei sacramenti non sono due realtà distinte. Esse sono due aspetti della medesima
realtà, che lo Spirito Santo promuove, accresce e custodisce presso i fedeli» (36). Questa unità trova
conferma e sintesi nel costante richiamo alla dimensione eucaristica (cf. 17.18-19; 24) della fede sia
come celebrazione liturgica (cf. 13-14) che come elaborazione dottrinale (cf. 18- 20). «L’identità
della fede è espressa e rafforzata dall’atto sacramentale, in modo speciale dalla concelebrazione
eucaristica dei rappresentanti di diverse Chiese locali. Per questo i concili, nei quali i vescovi
condotti dallo Spirito Santo esprimono la verità della fede della Chiesa, sono sempre uniti nella
celebrazione eucaristica» (24).

La seconda sezione del «Documento di Bari» pur nella sua brevità offre preziosi elementi
per una riflessione e un approfondimento che ad una prima rapida lettura potrebbero sfuggire. 362 È
nostro intento metterli debitamente a fuoco.Un secondo passaggio sarà quello di presentare sin-
teticamente la comprensione della questione tenendo conto della voce di un teologo ortodosso:
Gheorghe Sava-Popa.363
Non si può che valutare positivamente il contenuto e lo stile dell’ultima parte del
documento. Sappiamo della difficoltà che hanno le Chiese ortodosse nel poter riconoscere la
vahdità del battesimo conferito in altre Chiese (per es. quella cattolica romana). L’autorità e la
361Viene presentata una griglia di criteri atti a determinare se nuove formulazioni della fede esprimono una differenza legittima
oppure portano ad una divisione, cf. 29-33.
362Per svolgere questa ricerca si tenga conto anche della prima sezione del documento e degli sviluppi intervenuti nel periodo
successivo al 1987 (in particolare la recezione ufficiale del BEM da parte della Chiesa cattolica romana, il Direttorio per
l’applicazione dei principi e delle norme sull e- cumenismo del 1993).
363Cf. G. SAVA-POPA, Le Baptème dans la tradition Orthodoxe et ses implications oecuméniques (Cahiers oecuméniques 25), Éd.
Univ. de Fribourg (Suisse) 1994.
competenza di un tale pronunciamento ufficiale spettano infatti unicamente al concilio
panortodosso.364 La sua convocazione è stata indetta ma attende ancora di essere concretizzata. Si è
allora consapevoli di quanto siano preziosi i risultati dei dialoghi realizzati nel frattempo. Essi, sia
bilaterali o multilaterali, potranno ispirare in chiave ecumenica le deliberazioni che si auspica
possano essere raggiunte in seno al concilio.

Poniamo ora in rilievo taluni termini o locuzioni che punteggiano il testo della sezione del
documento dedicata specificamente ai sacramenti dell’iniziazione. Dopo aver sottolineato
l’intreccio unitario dei tre sacramenti dell’iniziazione (cf. 37), se ne descrive con più precisione la
specifica valenza sacramentale. Arrivati all’eucaristia, compimento dell’itinerario dell’iniziazione,
si sottolinea che essa va «ricevuta con le dovute condizioni...» (ibidem) e se ne descrivono gli
effetti. Anche nella concezione cattolica romana dei sacramenti si pone l’esigenza di una parteci-
pazione secondo le dovute condizioni (per l’eucaristia, cf. CIC canoni 912-923; CCC 1355.1384-
1390).

Considerando «il modello di amministrazione» (39) dei sacramenti dell’iniziazione


sviluppatosi nella Chiesa, si afferma che essa «vedeva le varie tappe dell’iniziazione come
integranti, teologicamente e liturgicamente, l’incorporazione a Cristo mediante l’entrata nella
Chiesa e la crescita in lui attraverso la comunione al suo corpo e al suo sangue nella stessa Chiesa»
(ibidem). Cristo e Chiesa appaiono come saldamente integrati l’uno nell’altra secondo il nesso
incorporazione-crescita (cf. anche 38 dove si richiama il tema della maturità cristiana) nel quale si
manifesta l’opera dello Spirito Santo (cf. 39). Questo modello, ritenuto come «ideale» (46) dalle
due Chiese, non rappresenta forse un terminus a quo che sembra escludere in partenza le Chiese
sorte dalla Riforma?

Solo l’aver ricevuto tutti i sacramenti dell’iniziazione cristiana rende possibile «la piena
illuminazione della fede» (52) del neofita. Viene in tal modo reso più chiaro il rapporto tra fede e
sacramenti dell’iniziazione: essi suppongono la fede e nello stesso tempo questa è alimentata e illu-
minata da essi. Questa circolarità non potrebbe allora portare a concludere un’interazione reciproca
tra comunione nella fede e comunione nei sacramenti, ovvero da quella a questa ma anche
l’inverso? Anche in questo caso sorge la questione della rilevanza non solo del rapporto battesi-
mo/confermazione vs. eucaristia ma anche l’inverso: eucaristia vs. battesimo/ confermazione. In
questa seconda prospettiva si precisa infatti il compiersi nell’eucaristia di una potenzialità
eucaristica intrinseca al battesimo/confermazione. Perché non rendere possibile questo compimento
al battezzato di un’altra comunità ecclesiale? Non potrebbe così anch’egli innalzarsi a quella
illuminazione connaturata e iscritta nella sua identità filiale? Forse i problemi nascono più a livello
ecclesiologico, ma questi non sono allora già presenti anche nel primo dei sacramenti dell’ini-
ziazione, il battesimo?

Il permanere da parte ortodossa del mancato riconoscimento della validità del battesimo
conferito nella Chiesa cattolica romana sembra rispondere in verità a un criterio di profonda
coerenza. Laddove non esiste una piena comunione nella fede, non può essere celebrata la comu-
nione nei sacramenti a cominciare dal battesimo e a maggiore ragione nel suo compimento
eucaristico. Per i sacramenti dell’iniziazione ci si può chiedere tuttavia dove da parte ortodossa si
ravvisi questa carenza o difetto nella fede espressa dalla Chiesa cattolica romana. Leggendo e
rileggendo il «Documento di Bari» si può al massimo rilevare una problematicità nell’accettare da
parte ortodossa l’odierna prassi celebrativa dei sacramenti dell’iniziazione nella Chiesa cattolica
romana (segnata- mente: la diffusa prassi del battesimo per infusione piuttosto che per immersione,
la facoltà riconosciuta al diacono di essere ministro ordinario del battesimo, la consuetudine
pastorale di celebrare la confermazione dopo la prima partecipazione all’eucaristia, cf. 50-51).
D’altra parte, si afferma nel testo, la prassi della Chiesa antica rappresenta «l’ideale per le due

364Cf. SAVA-POPA, Le Baptème, 264. Cf. G. TSETSIS, «Conferenze panortodosse», in Dizionario del movimento ecumenico, 256-257.
Chiese» (46). Questa difformità rispetto al modello ideale praticato nella Chiesa antica, «che
provoca comprensibili obiezioni o riserve da parte sia degli ortodossi che di cattolici romani» (51),
è in sé così rilevante da non permettere questo mutuo riconoscimento del battesimo, tenuto conto
anche della soppressione delle reciproche scomuniche (cf. Ut unum sint 56)?

La concezione della dottrina liturgico-sacramentale intrattiene profondi legami con la


dottrina ecclesiologica e la struttura del documento ne è una chiara attestazione: la prima sezione
più ecclesiologica e la seconda più centrata sui sacramenti dell’iniziazione. Le questioni da chiarire
riguardano forse più direttamente le diversità a livello delle concezioni ecclesiologiche che
l’impostazione delVordo celebrandi dell’iniziazione cristiana. Anzi, a questo livello la Chiesa
cattolica romana, dopo il concilio Vaticano II, ha pienamente recuperato (non solo per gli adulti)
l’esemplarità teologico-pastorale del modello antico (cf. OICA).

L’articolazione fortemente sinodale delle Chiese ortodosse e la peculiare concezione del


ministero ordinato, studiate nella sessione di Vaiamo della Commissione mista (1988),365 portano il
dialogo ecumenico dinanzi alla «questione capitale» (1) del discorso ecclesiologico. Ad esse è
strettamente connesso il riconoscimento del primato petrino e del suo modo di attuarsi, stando
questo nuovo clima ecumenico. Il saggio monografico di G. Sava-Popa si sviluppa in cinque
capitoli.

I primi quattro presentano un’ampia teologia del battesimo a partire dalle fonti
scritturistiche, patristiche e liturgiche con particolare attenzione alla tradizione orientale antica e alla
teologia ortodossa contemporanea. Il capitolo quarto affronta in modo più diretto la relazione del
battesimo con gli altri sacramenti dell’iniziazione (crismazione, eucaristia). 366 L’ultimo capitolo
porge al lettore le implicazioni ecumeniche del battesimo nel dialogo cattolico-ortodosso.367

Meritano di essere riprese alcune considerazioni che l’A. esprime proprio all’interno di
questo capitolo quinto e precisamente nell’ultimo paragrafo: L’approche oecuménique à la question
des sacrements dans la théologie orthodoxe.368

Lo stretto legame della hturgia e della dogmatica comporta per l’ortodossia una sensibilità
particolare alle differenze nella pratica liturgica rispetto alla Chiesa cattolica romana. Le difficoltà
provengono soprattutto dalla posizione che la Chiesa ortodossa adotta «sui sacramenti al di fuori
della Chiesa, di cui l’economia è un’applicazione». 369 In ogni caso l’A. è convinto che queste
differenze «non possono costituire, [...] un ostacolo reale sulla via dell’unità».370

Tuttavia le differenze non possono essere sottovalutate. Un cattolico dovrebbe comprendere


che per l’ortodossia «non è il rito ad essere autentico per se stesso, ma la Chiesa che lo attua».
L’autenticità e l’autorità del rito «riposano unicamente sulla Chiesa canonica e sulla sua fede. Essa
conferisce potere e vita al rito come espressione della sua fede e del suo pensiero». 371 Certi sviluppi
postumi degli usi liturgici della Chiesa cattolica romana non sono solo «questioni canoniche sui riti
ma questioni profonde della fede».372

Che dire allora della validità dei sacramenti conferiti al di fuori dell’ortodossia? Dopo aver
365Cf. sopra nota 2. Si vedano anche il Documento di Balamand (1993) e le Dichiarazioni di Freising (1990) e di Ariccia (1991)
relativi alla spinosa e complessa questione delYuniatismo, cf. EO 3/1867-1937.
366Cf. SAVA-POPA, Le Baptème, 147ss (c. IV «Le Baptème dans son rapport avec la Chrismation et l’Eucharistie»).
367Cf. SAVA-POPA, Le Baptème: c. V, «Le Baptème dans le dialogue catholique-orthodoxe», 197- 277. Segue la conclusione
dell’intera monografia, cf. ibidem 278-281.
368^ Cf. SAVA-POPA, Le Baptème, 260-277. A questo ultimo paragrafo l’A. giunge dopo aver considerato i tre punti critici del
dialogo: 1. «La triple immersion ou infusión?», 2. «La position sur le ministre du Baptème», 3. «L’ordre des sacrements
d’initiation».
369Sava-Popa, Le Baptème, 261 (d’ora in avanti i testi citati sono tradotti direttamente dal francese). Per un approccio sintetico alla
nozione di «economia», cf. P. L’Huillier, «Economia (Oikonomia)», in Dizionario del movimento ecumenico, 456-457.
370SAVA-POPA, Le Baptème, 261.
371SAVA-POPA, Le Baptème, 264.
372SAVA-POPA, Le Baptème, 264.
richiamato il «Documento di Bari» che a tale proposito non si è espresso, né poteva esprimersi, 373
l’A. ricorda il valore vincolante per l’ortodossia dell’assioma di s. Cipriano «extra Ecclesiam nulla
salus» che rappresenta insieme a s. Basilio una vera e propria tradizione diversa da quella di Roma
e di s. Agostino.374

Dopo aver richiamato i tratti salienti e il contesto storico-teologico all’origine di queste due
tradizioni, si arriva a considerare la funzione storica e teologica del principio di economìa nel
temperare il rigore delle disposizioni canoniche e permettere di riconoscere la validità dei sacra-
menti e di altri atti «per il bene della Chiesa e la salvezza dei convertiti, in alcuni casi particolari,
ogni volta giustificati dalle circostanze».375 L’applicazione odierna di tale principio non dà luogo a
una soluzione uniforme ma variegata perché tale prospettiva non sembra portare alla soluzione della
questione del riconoscimento della validità dei sacramenti di coloro che restano fuori della Chiesa
ortodossa.376

Nella Chiesa ortodossa russa e rumena, ci sono tre rituali di accoglienza degli eterodossi: 1.
mediante nuovo battesimo; 2. mediante crismazione; 3. mediante una semplice testimonianza della
fede. I teologi greci sono generalmente d’accordo che la loro Chiesa ritorni alla pratica
dell’economia nei riguardi della Chiesa cattolica e protestante. Il professore Karmiris in un rapporto
presentato al santo Sinodo di Atene, dice che il futuro concilio panortodosso deve decidere: 1. chi
sono gli eterodossi che devono essere battezzati per essere accolti nell’Ortodossia; 2. chi deve
essere accolto mediante crismazione; 3. chi deve essere accolto mediante una semplice confessione
di fede. Egli propone che i cattolici, i cristiani cattolici e gli anglicani siano accolti mediante una
confessione di fede. Egli domanda alla Chiesa di Grecia che revochi la decisione del 1755 che
richiedeva il nuovo battesimo di tutti gli eterodossi.377

Il riferimento al principio di economia ha tuttavia dei limiti oggettivi per la questione del
riconoscimento della validità. Applicato o a fedeli ortodossi o a coloro che vogliono entrare nella
Chiesa ortodossa, esso «non risolve la questione sulla validità dei sacramenti di coloro che restano
fuori di essa». Fino ad oggi «la Chiesa ortodossa non ha preso una posizione ufficiale su questa
questione».378 Teologi come S. Boulgakov, G. Florovsky, P. Evdokimov, A. Borrely mostrano invece
altre ragioni ecclesiologiche in grado di aprire la strada al riconoscimento della validità: l’A. le
condivide e auspica una soluzione in questa direzione.379 «In questo periodo nel quale gli aperti
conflitti tra le confessioni appartengono al passato e tutti i problemi devono essere risolti sulla via
del dialogo, la Chiesa ortodossa è chiamata a essere più sensibile e più trasparente».380

373Cf. SAVA-POPA, Le Baptème, 264. L’A. rammenta come, non essendoci una presa di posizione ufficiale spettante al concilio
panortodosso, le decisioni prese in questa materia sono parziali e locali e non della Chiesa ortodossa in quanto tale e conclude: «In
queste condizioni, si comprende l’importanza che potrà avere, per l’avvenire dell’ecumenismo, la presa di posizione del Sinodo
panortodosso», SAVA-POPA, Le Baptème.
374Su questo l’A. fa riferimento a successivi contributi di A. DE HALLEUX, cf. SAVA-POPA, Le Baptème, 265 (note 1096,1097).
375SAVA-POPA, Le Baptème, 268. «L’economia non si applica a ciò che riguarda direttamente le dottrine di fede, come, ad esempio, i
principi fondamentali su cui si fondano la teologia sacramentale, l’ordinamento ecclesiale e l’etica cristiana. Ma il fatto che
l’economia non sia possibile in questi campi non autorizza a pensare che essa possa essere applicata senza restrizioni di sorta in tutti
gli altri casi», L’HUILLIER, «Economia (Oikonomia)», 456.
376Si veda la rassegna delle posizioni offerta dall’A., cf. SAVA-POPA, Le Baptème, 268-276 (di rilievo la citazione della posizione
della Conferenza panortodossa preconciliare, cf. ibidem, 270).
377SAVA-POPA, Le Baptème, 271-272.
378SAVA-POPA, Le Baptème, 273.
379SAVA-POPA, Le Baptème, 273-277.
380SAVA-POPA, Le Baptème, 276.
Tenendo conto dello studio di alcuni significativi testi dei dialoghi ecumenici proposto
dal Borobio (in particolare il BEM e il «Documento di Bari»),381 l’attuale situazione dottrinale,
pastorale e liturgica sull’iniziazione cristiana nei rapporti con le Chiese orientali può essere
riepilogata sotto due prospettive: prima di tutto i punti di convergenza, poi quelli ancora non
risolti in base ai quali si deve registrare il persistere di alcune divergenze. Sul piano dottrinale
le convergenze sono le seguenti: l’affermazione che l’unità di fede implica l’unità dei
sacramenti; il senso teologico del battesimo come partecipazione alla morte/risurrezione di
Cristo, perdono dei peccati, dono dello Spirito, incorporazione alla Chiesa, dono della vita
nuova; il senso teologico della confermazione come perfezionamento del battesimo e dono
dello Spirito; l’iniziazione cristiana come una realtà unitaria che ha il suo inizio nel battesimo
e il suo culmine nell’eucaristia. Le convergenze sul piano pastorale sono: la necessità della
preparazione al battesimo o iniziazione cristiana, la necessità di promuovere e sostenere la
crescita spirituale successiva (in analogia alla mista- gogia). Sul piano liturgico la convergenza
è essenzialmente una: la difesa dei riti essenziali e comuni all’iniziazione secondo il modello
della Tradizione apostolica (tempo del catecumenato; battesimo con i suoi diversi elementi
rituali; confermazione o crismazione conferita dal vescovo in Occidente e dal presbitero in
Oriente; eucaristia con piena partecipazione dei neofiti; mistagogia; centralità dei riti
essenziali dell’acqua e dell’unzione con il crisma). Per quanto concerne le divergenze ancora
presenti quelle sul piano dottrinale sono due: la maggiore insistenza degli orientali sul dono
dello Spirito, così come sull’unità dell’iniziazione cristiana, di fronte all’insistenza degli
occidentali sulla comunione ecclesiale mediante il ministero del vescovo. Sul piano pastorale
gli orientali insistono meno sulla preparazione al battesimo, non accettano la motivazione
pastorale per giustificare il ritardo della confermazione, non accettano l’inversione dei riti
(prima comunione poi confermazione) dovuta a motivi pastorali, di fatto non valorizzano
come gli occidentali il catecumenato. Infine sul piano liturgico: la differenza sul ministro che
per gli orientali può essere il presbitero come il vescovo per tutti i sacramenti dell’iniziazione
cristiana, mentre per gli occidentali la confermazione è riservata ordinariamente al vescovo e
il battesimo può essere conferito anche dal diacono; la preferenza accordata in Oriente al rito
di immersione rispetto a quello di infusione; l’inversione dei riti per cui la confermazione in
Occidente viene ad essere conferita dopo la prima comunione (anche se tale prassi è stata
corretta nel rito latino secondo la nuova impostazione prevista dal RICA sia per gli adulti
come per i bambini in età scolare).382 BIBLIOGRAFIA

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TERZA PARTE IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA
Carlo Rocchetta
INTRODUZIONE FONDAMENTO ANTROPOLOGICO

L’eucaristia è in se stessa una realtà trascendente, manifestazione- dispiegamento in atto


dell’economia di incarnazione redentiva dell’Unigenito di Dio nella storia, il Risorto in eterno, e
della sua presenza nella Chiesa. Una realtà che si inserisce, trasfigurandolo, nel ritmo più profondo
dell’esistenza umana e, in particolare, nel significato che in essa rivestono il «nutrirsi» e «la mensa
in comune». Tutto ciò nel quadro della cultura biblica di cui il cristianesimo è erede e compimento
escatologico.

1. Il «mangiare» e il «bere» nella vita dell’uomo

I gesti del «mangiare» e del «bere» esprimono bisogni primari della condizione dell’uomo
sulla terra; bisogni in perfetta corrispondenza con l’ordine biblico stabilito da Dio fin dall’inizio:
«Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo...» (Gen 9,3; 1,29). Il «mangiare» e
il «bere», se richiamano la superiorità dell’uomo sul creato (tutto è per lui), indicano nello stesso
tempo la sua radicale dipendenza dal Creatore (tutto gli è dato in dono). Sussiste un’armonia vitale
tra la natura, la persona umana, uomo-donna, e il Creatore. Il nutrirsi «rimanda» al Dio della vita e
manifesta la situazione di attesa dell’uomo (Sai 104,10-15.27-30). L’eucaristia, pur appartenendo a
un ordine di grazia tutto particolare, recupera - nella sua radice antropologica - il significato del
«nutrimento» nella vita umana e annuncia quale sia il vero cibo «che dà la vita al mondo» e la vera
bevanda, fino a proclamare che quanti mangiano di quel «pane» e bevono da quella «fonte» non
avranno più fame e sete in eterno (Gv 6,30-53).

I gesti del «mangiare» e del «bere» includono in se stessi, d’altronde, una fondamentale
valenza simbolica: quella di una morte che dà la vita. Ogni volta infatti che noi mangiamo e
beviamo, beneficiamo di qualcosa che in precedenza è stato sacrificato: ci cibiamo delle «carni» di
un animale che è stato ucciso o di frutti che sono stati strappati dalla terra; ci dissetiamo con
bevande che vengono dalla natura. Vi è stata una «morte», un «passaggio da... a...», perché noi
possiamo avere la vita. Il chicco di grano «muore» per diventare buon pane per l’uomo, l’acino di
uva «muore» per trasformarsi in vino prelibato per le nostre mense. Ogni volta che ci nutriamo
siamo dunque spettatori-partecipi di una dialettica di morte e di vita che appartiene all’ordine stesso
della creazione: un morire che consente all’uomo di vivere. L’eucaristia non ripropone forse la
medesima dialettica, sia pure a un livello nuovo, di redenzione e di grazia? È la dialettica
dell’Unigenito di Dio che accetta la realtà della morte perché abbiamo la vita nel suo nome (Gv
12,24-25).

2.La mensa come banchetto di comunione

I «mangiare» e il «bere» si realizzano, di norma, nella forma di un banchetto, di un pasto


preso in comune, in un clima di condivisione e di familiarità. Sussiste una radicale differenza - da
questo punto di vista - tra il semplice nutrirsi (come mero fatto biologico) e la mensa (come espres-
sione di solidarietà e di comunione conviviale). Coloro che si mettono a tavola per pranzare, se da
una parte intendono appagare un bisogno umano fondamentale, dall’altra desiderano sperimentare il
piacere di stare insieme, vivendo e realizzando un momento di comunicazione-convivialità. Non a
caso in tutte (o quasi) le culture umane, i principali avvenimenti dell’esistenza del gruppo (una
nascita, un matrimonio, un funerale, una ricorrenza) sono solennizzati con un pasto. A sua volta, il
pasto celebra e rafforza il senso dell’appartenenza al clan o alla comunità. Tutto ciò è particolar-
mente vero per il mondo dell’antico Oriente e la sua cultura.
Il banchetto in comune riveste un significato molto più ricco del semplice sedere insieme per
vincere la fame o - come si dice oggi - «per consumare un pasto». Condividere la mensa è entrare
in una profonda comunione di sentimenti e di vita con tutti i componenti del tavolo. La mensa in
comune è segno di accoglienza e fraternità. È sufficiente ricordare, a riguardo, il pranzo che
Abramo imbandisce per i tre personaggi che gli fanno visita e il senso ospitale che gli attribuisce
(Gen 18,1-8), il pasto di Isacco con Abimelec (Gen 26,30) e quello di Labano con Giacobbe per
suggellare la loro alleanza (Gen 31,4). Il pasto comunitario è un segno vivo di condivisione, fiducia,
pace. Per questo motivo, nella cui- tura biblica, come in molte altre, è intollerabile la presenza di un
falso commensale o di un traditore a un convito (Sai 41,10; anche Mt 26,23; Gv 13,27). Lo stesso
perdono è espresso mediante la possibilità concessa a qualcuno di sedere alla propria mensa: il re di
Babilonia accoglie alla sua tavola Joachin (2Re 25,27-30); lo stesso fa il re Agrippa con Sila dopo
che questi era caduto in disgrazia.383

Secondo l’ebraismo antico, l’atto del pasto fa partecipare i convitati alla stessa benedizione
divina che accompagna la frazione del pane e la circolazione del calice. Del resto in tutte le religioni
si conoscono pasti sacri che, pur con contenuti diversi e talvolta ambigui, sono vissuti come eventi
di comunione con la divinità, come ricorda lo stesso Paolo, contrapponendo tali usi alla verità del
banchetto eucaristico (ICor 10,14-30). Anche sotto questo aspetto, non è inutile - è anzi
significativo constatare come la scelta di Gesù di istituire la memoria della sua pasqua nella forma
di una mensa corrisponda alla modalità propria e ordinaria con cui i gruppi esprimono la propria
vita comunitaria, la celebrano e la attuano. Il dono dell’eucaristia si innesta in questa simbologia per
trasfigurarla con la novità dell’accadimento unico della pasqua e condurre l’umanità verso il
banchetto escatologico, compimento ultimo della storia. Ma per poter cogliere la valenza di tutto
questo e la sua verità occorre collegarsi alle sorgenti specifiche della fede eucaristica della Chiesa,
dall’AT al NT, e verificare come la riflessione teologica abbia compreso e interpretato questo
mistero lungo la sua storia e lo proclami sul piano dogmatico - all’uomo di ogni tempo e luogo.
Concluderemo con una verifica di carattere liturgico.

383 Giuseppe Flavio, Ani. Giud., 19,321.


CAPITOLO PRIMO ORIGINE BIBLICA

Il NT qualifica l’eucaristia con due titoli fondamentali: cena del Signore (ICor 11,20) e
frazione del pane (At 2,42.46; 20,7.11): due titoli che collegano il mistero eucaristico
&IYavvenimento storico dell’ultima cena vissuta da Gesù con i suoi e al riunirsi celebrativo della
Chiesa apostolica. La prima dizione evidenzia come l’azione eucaristica sia stata intesa, fin
dall’inizio, non come una semplice agàpè fraterna, ma come un rivivere in atto il mistero della
pasqua, dal momento che ciò che si celebra è la «cena del Signore», il ricordo di quanto il Kyrios ha
detto e fatto «la notte in cui fu tradito» (ICor 11,23), in relazione alla sua morte e risurrezione; un
ricordo in forza del quale i cristiani entrano in comunione col suo corpo dato e il suo sangue versato
(ICor 10,16), annunciando la sua morte finché egli torni (ICor 11,26). Il secondo titolo, riprendendo
una dizione di netta marca giudaica, richiama la comunione che si realizza ogni volta che i cristiani
si riuniscono per spezzare l’unico pane e mangiare all’unica mensa, diventando un unico corpo in
Cristo Gesù (ICor 10,17). Entrambi i titoli vanno compresi nel contesto dell’economia della
salvezza e degli eventi mirabili che la costituiscono. Il termine stesso «eucaristia», equivalente
greco della dizione biblica berakah, richiama un ricordo benedicente di Dio in rapporto alle sue
grandi opere. Benché la traduzione abituale dei LXX sia euloghein, nei libri conservati esclusiva-
mente in greco appare piuttosto il termine eucharistein. Lo stesso pane eucaristico viene
denominato o eucharistetheis artos, «ciò su cui sono rese grazie». La corrispondenza tra la berakah
biblica e l’eucaristia, d’altronde, non è solo a livello linguistico, ma di contenuto. In quanto
corrispondente neotestamentario di berakah, il termine «eucaristia» porta con sé una ricchezza di
contenuti molto più ampia di un semplice «ringraziamento»: come la benedizione ebraica,
comprende la lode, la narrazione, il ricordo, la dossologia; come essa, rimanda alla celebrazione dei
mirabilia compiuti da Dio nella nuova creazione offerta dalla pasqua di Gesù, in un contesto di
ammirazione e di stupore riconoscente.

1. Tipologia biblica ed eucaristia

Proprio in quanto berakah, non è possibile comprendere il senso dell’azione eucaristica se


non nel quadro dell'bistorta salutis e della sua lettura in chiave tipologica. La tipologia è lo studio
delle corrispondenze tra gli eventi della salvezza, passando dalla prima economia alla nuova fino al
tempo della Chiesa; essa permette di mostrare come Cristo e i suoi gesti siano la realizzazione delle
figure dell’antica legge e come entrambi si dispieghino nella realtà della Chiesa e dei sacramenti. 384
L’eucaristia appartiene a questo contesto; essa non rappresenta un accadimento isolato e senza alcun
riferimento al passato; al contrario, si situa al punto di convergenza di una vasta serie di eventi
biblici che ne formano, nel loro insieme, l’ambito peculiare di intelligenza intrabiblica. Tali sono, in
particolare, la pasqua di liberazione, il sacrificio di alleanza, il banchetto di comunione la
«dimora» di Dio (shekinah) in mezzo al suo popolo.

1.1. LA PASQUA DI LIBERAZIONE

In origine, la pasqua era la festa della primavera, legata alle prime spighe d’orzo e all’offerta
dei pani azzimi. Dopo la liberazione dall’Egitto, si trasforma nel ricordo dell’esodo, il passaggio
dalla schiavitù alla libertà; un passaggio che costituisce l’evento centrale della storia d’Israele,
ricordato di anno in anno, come il grande accadimento salvifico compiuto da YHWH in favore del
suo popolo. Celebrare la pasqua, per l’ebreo, significa commemorare l’uscita dalla terra del faraone,
con le «meraviglie» che l’accompagnano, in cammino verso la terra promessa, e rinnovare a ogni
384Per un’ampia verifica, cf. C. ROCCHETTA, I sacramenti della fede, Bologna 2001 (8a ed. riscritta), 2 voli.
svolta della storia la fede nella potenza salvatrice del Signore. I profeti si collegano a questa
memoria per annunciare una nuova pasqua, una pasqua di liberazione, immensamente più grande di
quella passata al punto da farla quasi dimenticare (Is 43,18-21). E questa una costante della prima
economia: volgere lo sguardo al passato per annunciare il tempo messianico come tempo nel quale
si riproporrà, in misura assolutamente superiore, l’accadimento mirabile della prima pasqua. Il NT
proclama che questa attesa/profezia si è ormai realizzata in Gesù di Nazaret e nella sua morte-
risurrezione. Paolo spiega che «Cristo, nostra pasqua è stato immolato» ed è dunque tempo di
passare dal «vecchio lievito» al «nuovo» (ICor 5,7-8). Giovanni introduce il racconto della passione
con una constatazione fondamentale: «Prima della festa di pasqua, Gesù, sapendo che era giunta la
sua ora di passare da questo mondo al Padre...» (Gv 13,1). Gesù è l’Unigenito che è venuto dal
Padre nel mondo, incarnandosi (Gv 1,1.14); la nuova pasqua è il suo passaggio da questo mondo al
Padre, dopo aver «dato il suo corpo» e «versato il suo sangue» per la salvezza di tutti (Gv 3,13-15;
12,32). Il banchetto che egli celebra con i suoi la sera del Giovedì santo rappresenta l’anticipazione
in atto di quell’evento di morte e di vita. L’eucaristia ne è il «memoriale». Attraverso di esso si
attualizza il grande passaggio di Cristo da questo mondo al Padre e si rinnova l’«esodo» della
salvezza per tutti i popoli della terra. Sono essenziali, per la piena comprensione di questo orizzonte
tipologico, i simbolismi biblici dell’immolazione sacrificale dell’agnello, dei doni della manna e
dell’acqua dalla roccia e il significato dell’ingresso del popolo eletto nella terra promessa.

a) Immolazione dell’agnello
Il sangue dell’agnello aveva preservato gli ebrei dal passaggio dell’angelo sterminatore e
aveva segnato l’inizio dell’uscita dall’Egitto. Mangiandone ogni anno una porzione, gli ebrei
partecipavano ai frutti di quella prima liberazione pasquale. Il pane azzimo era il simbolo dell’im-
mediatezza della partenza e del cammino da percorrere per il pieno raggiungimento della libertà
ricevuta. Cristo è presentato, dal NT, come l’Agnello di Dio che toglie il peccato dal mondo (Gv
1,29 e Is 53,7). L’ultima cena suppone questo rapporto tra l’antico agnello e il nuovo. L’Apocalisse
lo evoca, come consapevolezza della Chiesa apostolica, allorché, per una trentina di volte, qualifica
Gesù risorto come l’agnello immolato; un agnello che porta i segni del supplizio, ma in piedi, in
quanto ormai vincitore della morte e per sempre risorto. Questa medesima consapevolezza è sottesa
ai gesti di Gesù che, nell’ultima cena, al momento di mangiare l’agnello pasquale, prende il pane e
il vino, li benedice e proclama: «Questo è il mio corpo dato per voi... Questo è il calice del mio
sangue versato per voi». Un atto che, per la cultura giudaica, implicava un chiaro significato: la
morte cui il Signore e Maestro stava andando incontro, simbolicamente espressa nel pane spezzato e
nel vino versato e distribuito, come gesto profetico dell’immolazione di un nuovo agnello, quello
vero, che salva l’umanità dalla condizione di peccato e l’introduce nella condizione della libertà dei
figli di Dio. L’eucaristia è memoria di tutto questo: è la presenzializzazione simbolica dell’evento
pasquale di Cristo, nuovo agnello immolato, in ogni tempo e luogo, in virtù di un ricordo che con-
sente al nuovo popolo di Dio di rivivere in atto la pasqua di morte e risurrezione del Kyrios in attesa
della sua venuta (ICor 11,26).

b) La manna e Vacqua dalla roccia


Il soggiorno nel deserto è per Israele il tempo dell’esperienza degli interventi salvifici di
YHWH. Nonostante le ripetute mancanze di fede e l’idolatria, il Signore ha condotto Israele
attraverso il deserto come «su ali di aquila» alla terra di Canaan (Es 19,4). Alcuni di questi
interventi antichi sono riferiti dallo stesso NT all’eucaristia. Fra questi, in particolare, l’episodio del
dono della manna e l’immagine della roccia dell’Horeb. La manna è presentata da Gesù come segno
del «vero pane» e della «vera bevanda» che il Padre ha offerto in dono all’umanità (Gv 6,48-55).
«La corrispondenza profonda tra la manna e l’eucaristia risiede nelle condizioni in cui il nutrimento
è offerto nell’uno e nell’altro caso, e negli effetti che essa produce: tanto la manna che l’eucaristia
sono un dono dato da Dio solo, che l’uomo non può procurarsi da sé; esso è dell’ordine
dell’iniziativa di Dio e della grazia».385 La corrispondenza si risolve in un’opposizione a motivo

385J. DANIELOU - R. Du CHARLAT, La catechesi nei primi secoli, Leumann (TO) 1969,198.
della trascendenza della realtà rispetto alla figura («I vostri padri hanno mangiato la manna nel
deserto e sono morti... La mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda»). I padri della
Chiesa hanno ampiamente commentato la tipologia eucaristica della manna, sottolineandone sia
l’analogia che la superiorità.386 La roccia dell’Horeb è interpretata dallo stesso Paolo, insieme alla
manna, in riferimento a Cristo e all’eucaristia: «Tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti
bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti dalla roccia spirituale che li accompagnava,
e quella roccia era il Cristo» (ICor 10,3-4). Nella patristica la tipologia dell’acqua dell’Horeb è
collegata sia al battesimo, in relazione ai versetti di ICor 10,1-2 e al significato che l’acqua viva
assume in Giovanni, sia all’eucaristia. Per Ambrogio, l’acqua scaturita dalla roccia è figura
dell’acqua e del sangue scaturiti dal costato di Cristo in croce, e quindi dei due sacramenti
dell’iniziazione cristiana strettamente legati fra loro (De Myst. 48; De Sacr.V, 4). Giovanni
Crisostomo mostra lo stretto legame che si pone, nell’iniziazione cristiana, tra il battesimo e
l’eucaristia:

Riguardo al battesimo hai veduto qual era la figura e quale la realtà: ti mostrerò la mensa e anche la
comunione dei misteri qui tracciati. Infatti dopo il passaggio sul mare e la nube, Paolo (ICor 10,3-4)
riprende: «E tu hai mangiato lo stesso cibo spirituale e hai bevuto la stessa bevanda spirituale».
Come tu, uscendo dalla piscina dell’acqua, ti affretti verso la mensa, così essi, essendo usciti dal
mare, vennero a una mensa nuova e meravigliosa, cioè la manna. E come tu hai una bevanda miste -
riosa, il sangue della salvezza, così essi ebbero un genere meraviglioso di bevanda, acque
abbondanti, che zampillarono dalla roccia arida. 387

c) «Un paese dove scorre latte e miele»


Fin dagli inizi l’ingresso nella terra promessa è stato compreso come un dono esclusivo di
YHWH al suo popolo in stretto collegamento alla sua ricchezza di latte e miele. È quanto appare
nella promessa del Signore a Mosè: «Sono sceso per liberare Israele dalla mano dell’Egitto e farlo
uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele»
(Es 3,8; Is 7,22). Una tipologia particolarmente valorizzata dal catecumenato antico, dove i riti del
battesimo e della confermazione erano seguiti da una manducazione di latte e miele, simbolo della
terra promessa e prefigurazione della partecipazione al banchetto eucaristico. La catechesi che
accompagnava il rito spiegava come l’eucaristia realizzasse in se stessa questo ingresso nella terra
promessa, facendo rivivere l’esodo, azione a un tempo di YHWH che interviene in favore del suo
popolo e conquista faticosa del popolo. Il tutto riletto in relazione alla potenza manifestata da Dio
nel trionfo del suo Unigenito risorto da morte (Lc2,52; 11,21-22) e al pellegrinaggio esodale
richiesto ai credenti, impegnati come nuovo Israele a trionfare sul male e far vincere la grazia.
L’eucaristia, anamnesi della nuova pasqua, rende partecipe l’intero popolo cristiano della vittoria
del suo capo, il Cristo, nuovo Mosè, e lo pone in cammino verso la patria attesa per i tempi ultimi
della storia. L’eucaristia è il «segno» della vittoria del Risorto e del combattimento del cristiano,
finché ogni battezzato possa entrare in possesso della Gerusalemme celeste, preannunciata
dall’Apocalisse (Ap 21-22).

1.2. IL SACRIFICIO DI ALLEANZA

Il secondo orizzonte tipologico da segnalare è il sacrificio dell’alleanza. L’alleanza è una


delle grandi opere di Dio nell’economia biblica e contrassegna tutte le tappe della storia della
salvezza. Il suo carattere fondamentale è l’irrevocabilità: Dio stringe un patto col suo popolo e vi
resta irrevocabilmente fedele. Il rito con cui si attua è un rito di sangue. Lo si vede con Abramo, il
quale, utilizzando un gesto ancestrale, immola animali e li divide in due parti che YHWH stesso

386J. DANIELOU, La catéchèse eucharistique chez les Pères de l’Eglise, in La Messe et sa catéchè- se, Ceri, Paris 1947,33-72. Cf.
inoltre L’eucharistie des premiers chrétiens, Beauchesne, Paris 1976.
387In apostolicum dictum «Nolo vos ignorare», 4 (PG 51,247).
«consuma» passandovi in mezzo con il simbolo del fuoco (Gen 15,9-18). Lo si vede, in particolare,
nell’alleanza del Sinai dove Mosè, dopo aver offerto olocausti, asperge con il sangue l’altare
(simbolo di YHWH) e il popolo, proclamando: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha
concluso con noi sulla base di tutte queste parole» (Es 24,8). Il gesto assume un particolare rilievo
se si ricorda che il sangue - nella cultura biblica - rappresenta la vita: quando viene asperso fra due
parti, crea una comunione che le impegna a essere fedeli al patto stabilito. Nell’ultima cena, Gesù si
riferisce chiaramente al rito del Sinai per proclamare che la nuova alleanza, promessa dai profeti, si
realizza ormai nel sangue della sua morte: «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato
per molti» (Mc4,24; cf. Mt 26,27). «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue che viene
versato per voi» (Lc2,20; ICor 11,25). Il sangue della croce è il sangue dell’alleanza nuova e
definitiva attuata in Cristo (lPt 1,18-19; Eb 8,6-13). «Per questo sottolinea la Lettera agli Ebrei -
Cristo è mediatore di una nuova alleanza, perché, essendo ormai intervenuta la sua morte per la
redenzione delle colpe commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano
l’eredità eterna che è stata loro promessa» (Eb 9,15-28; 10,11-18; 24). Gesù pre-anticipa
nell’ultima cena la sua morte, e mostra come il suo «corpo dato» e il suo «sangue versato»
costituiscano ormai i «segni» dell’alleanza escatologica offerta in lui a tutta l’umanità. Il suo sangue
è il sangue che dà la vita al mondo (Gv 6,51-56); in esso si manifesta «lo sposalizio» di Dio con
l’umanità. Celebrare l’eucaristia vuol dire «far memoria» del mistero dell’alleanza definitiva
realizzata dal Padre nel dono del Figlio e dello Spirito alla Chiesa. Partecipare all’eucaristia è di
conseguenza - dimorare in Cristo e nella sua alleanza: «Chi mangia la mia carne e beve il mio
sangue dimora in me e io in lui; come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre,
così anche colui che mangia di me vivrà per me» (Gv 6,56-57); e poiché comunichiamo tutti a un
unico «calice» e a un unico «pane», tutti formiamo un unico corpo, il corpo di Cristo. «Il calice
della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane
che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur
essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (ICor 10,16-17). La
Chiesa è una «comunione» fondata nella «comunione» al corpo e al sangue di Cristo (ICor 11,23-
26).

Inseparabilmente collegato con l’evento dell’alleanza è il tema del sacrificio. L’ultima cena
di Gesù si presenta come un’anticipazione misteriosa, ma reale, del dramma dell’oblazione
sacrificale della croce. Non a caso, la fede della Chiesa primitiva commenterà - per bocca di Paolo -
le parole dell’istituzione con il proclama: «Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di
questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga» (ICor 11,26). L’eucaristia è
compresa come l’attualizzazione del sacrificio unico di Cristo, in ogni luogo ed epoca. E poiché il
sacrificio della croce ricapitola in sé tutta la storia dei sacrifici, dai primordi all’antica economia,
l’eucaristia rappresenta il sacrificio che manifesta e porta a compimento tutti i sacrifici dell’umanità
e del popolo d’Israele; una prospettiva sinteticamente espressa nella formula evocativo-invocativa
del canone romano: «Volgi sulla nostra offerta il tuo sguardo sereno e benigno, come hai voluto
accettare i doni di Abele, il giusto, il sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede, e l’oblazione
pura e santa di Melchisedech, tuo sommo sacerdote». L’eucaristia recupera, nelle profondità della
memoria della fede, il «primo» gesto religioso dell’umanità (Abele), l’offerta religiosa dei popoli
lungo i secoli (Melchisedech) e il «sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede». Memoriale del
sacrificio supremo di Cristo, essa racchiude in sé tutte le dimensioni del tempo e della vita e
costituisce il centro della storia nel mondo. In essa, l’unica oblazione sacrificale preannunciata da
Malachia (1,1-11) per i tempi escatologici è ormai presente in ogni luogo. L’eucaristia è la
celebrazione del sacrifico della nuova alleanza; evento che plasma di continuo la Chiesa come la
comunità dell’alleanza escatologica di Dio con l’umanità, in cammino verso la parusia finale.

1.3. IL BANCHETTO DI COMUNIONE


Con la tipologia della pasqua e dell’alleanza, si situa la prospettiva tipologica del banchetto
di comunione. L’ultima cena ci mostra Gesù seduto a tavola con i suoi che offre loro il pane come
cibo e il vino come bevanda, simboli reali del suo corpo dato e del suo sangue versato. Già la
pasqua antica, celebrata in occasione dell’uscita dall’Egitto, era - oltre che un sacrificio - una
mensa. Lo stesso accade ai piedi del Sinai: Mosè, Aronne e i 70 si riuniscono per consumare un
banchetto che esprime l’unione con YHWH sanzionata dal sacrificio di alleanza. A sua volta, la
liturgia del tempio conoscerà un banchetto rituale da consumarsi sulle montagne di Gerusalemme
come memoriale di quello del Sinai. E i profeti si compiaceranno nel descrivere l’alleanza
messianica come una tavola imbandita a cui tutti saranno invitati (Is 25,6; 55,1-3). Il tema si arric-
chirà di nuove risonanze in rapporto al simbolismo nuziale sviluppato specialmente da Osea,
Ezechiele e nel Cantico dei Cantici. La sera dell’arresto, Gesù si riferisce proprio a un banchetto
messianico: «Io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate
mangiare e bere alla mia mensa, nel mio regno» (Lc2,29-30). La realtà di questo banchetto trova
una prima realizzazione nei pasti presi da Cristo con i suoi, tutti pervasi della gioia messianica
suscitata dalla presenza dello sposo alla festa di nozze (Mc,18-22); ma esso si manifesta pienamente
nell’ultima cena, banchetto escatologico nel quale lo sposo si dona alla sposa in «cibo di vita» e
«bevanda di salvezza». «Li amò sino alla fine», commenta Giovanni (Gv 13,1). I sinottici
sottolineano con evidenza come Cristo stia esprimendo il dono di sé mediante i segni del pane e del
vino (Lc4,22-24; Mt 26,26-29; Lc2,15-20; ICor 11,23-25). Un banchetto orientato al banchetto
definitivo che il Redentore stesso prepara per i suoi: «In verità vi dico che non berrò più del frutto
della vite fino al giorno in cui lo berrò di nuovo nel regno di Dio» (Mc4,25; Mt 8,11).

Vi è dunque una linea continua che va dal banchetto dell’esodo a quello del Sinai fino
all’ultima cena e al banchetto escatologico, passando per i banchetti eucaristici delle comunità
cristiane, dove si rivive l’esultanza della pasqua e si prepara il banchetto della Gerusalemme celeste.
L’eucaristia si situa in questo tempo intermedio: è il convito di Cristo con i suoi, riuniti nel suo
nome, in cui egli si fa presente (Mt 18,20), fino alla fine dei tempi (Mt 28,20). La realtà di questa
presenza è creduta in forza delle parole stesse dette da Gesù: «Questo è il mio corpo». «Questo è il
mio sangue». È la consapevolezza di questa presenza che spiega la gioia della comunità primitiva
(At 2,42-47) e porta a rileggere in chiave di fede eucaristica sia i miracoli compiuti da Gesù, in
particolare la moltiplicazione dei pani, sia l’episodio della manifestazione ai discepoli di Emmaus
(Lc4,30-31). Alla fede si unisce la speranza: se il Signore risorto è presente, egli è anche colui che è
atteso, colui che tornerà a portare a compimento il suo Regno. Per questo il banchetto eucaristico è
nello stesso tempo il proclama della morte e risurrezione di Cristo e l’invocazione del suo ritorno
escatologico (ICor 11,26).

La prima comunità cristiana viveva nell’attesa di questo ritorno (At 1,11). Gli spiriti, assorti
dalla gioia futura, erano già trasportati sull’altro versante del tempo. E l’attesa toccava il massimo
d’intensità proprio nella celebrazione eucaristica. Non si credeva forse che egli sarebbe venuto nel
corso di un banchetto nuziale? E la «vigilia» che cosa altro era se non una veglia di attesa? Durante
un pasto egli era apparso risorto ai discepoli; al momento della cena eucaristica gli si chiede di
riapparire. La commemorazione del passato e la gioia della gustata presenza attuale sono dominate
dall’anticipazione del banchetto eterno, da cui ci si crede separati solo da un breve intervallo.
Sgorga ardente dai cuori la preghiera dell’Apocalisse (22,20) e della Di- dachè: «Venga il Signore e
passi questo mondo! Maranà tha\ vieni, Signore».388

1.4. LA «DIMORA» DI DIO (SHEKINAH)

Il banchetto di comunione rimanda a un’altra tipologia biblica fondamentale: quella della


«dimora» di YHWH in mezzo al suo popolo, la shekinah. A tutti i livelli della storia della salvezza,
Dio si rende presente fra i suoi: abita nel cosmo, dimora in Israele, si incarna nel mondo per mezzo
del suo Unigenito, abita in mezzo a noi nella Chiesa e dimora nel battezzato come in un tempio, si
388Cf. M. MAGRASSI, «Mananath. Il clima escatologico della celebrazione primitiva», in Rivista Liturgica 53(1966), 374-393.
fa presente nei sacramenti, riempirà di sé il mondo escatologico atteso.389 L’eucaristia appartiene al
seguito di queste «dimore» di Dio nella storia, in linea con quanto avevano annunciato i profeti per i
tempi messianici: «In mezzo a loro sarà la mia dimora. Io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio
popolo» (Ez 37,27). La profezia sull’E- manuele, il Dio-con-noi, realizzata nella venuta di Cristo
nel grembo di Maria (Is 7,14; Mt 1,22-23), si perpetua nell’eucaristia. Tre le diverse forme di
presenza del Kyrios nella Chiesa, la dimora eucaristica viene qualificata come una presenza «per
antonomasia», non perché le altre non siano reali, ma perché è quella eminente, la presenza per
eccellenza di Cristo con noi.390 La presenza eucaristica nel tempo tra le due venute si inquadra così
nel seguito delle opere mirabili di Dio nella storia e rappresenta essa stessa una di queste grandi
opere. Prima che in categorie di ordine metafisico, il mistero della dimora eucaristica va compreso
in questo specifico contesto, alla luce della fedeltà di Dio alle sue promesse e nel quadro di una
pedagogia che caratterizza tutta la storia della salvezza. Lungo questa storia, Dio si manifesta
sempre come colui che cammina con il suo popolo e dimora in mezzo a esso. L’incarnazione
appartiene a questo ordine: è ancora Dio che pone la sua tenda in mezzo a noi (Gv 1,14). Lo stesso
vale per l’eucaristia: essa è la grande shekinah del tempo della Chiesa, annuncio e anticipazione
della shekinah escatologica (Ap 21,3).

Risulta sufficientemente chiaro come la lettura tipologica degli accadimenti biblici della
pasqua, dell’alleanza, del banchetto e della «dimora» costituisca il contesto proprio di intelligenza
biblica del mistero dell’eucaristia. Sussiste infatti una radicale continuità tra l’economia biblica
della salvezza, l’evento messianico rivelato in Cristo e la memoria sacramentale della sua pasqua. E
tale continuità che consente di comprendere il passaggio spontaneo che la comunità delle origini ha
potuto scorgere tra la berakah, la benedizione giudaica, e Veucaristia.391

2.Dalla berakah all’eucaristìa

La berakah non è un semplice gesto rituale sulle «cose», ma un atto di rendimento di grazie
in risposta ai benefici operati da YHWH in favore del suo popolo. In quanto tale, essa implica un
ampio ventaglio di sentimenti che vanno dall’ammirazione alla fede e al riconoscimento delle colpe.
La berakah è in primo luogo un grido di ammirazione davanti al carattere straordinario delle opere
divine; un grido che si traduce spontaneamente in proclamazione allelujatica, canto di lode, invito a
contemplare lo splendore di Dio e la sua infinita tenerezza (Sai 107,1-2.31; 111; 113; 116-118; 135-
138; 146-150). Di conseguenza, essa rappresenta una confessione di fede, una proclamazione del
Dio unico che ha eletto Israele, liberandolo dalla condizione di schiavitù e che è sempre operante in
mezzo al suo popolo (Sai 30; 46-47; 66; 68). «Dite a Dio: Stupende sono le tue opere! Venite e
vedete le opere di Dio, mirabile nel suo agire sugli uomini» (Sai 66,3-5). «Dispiega Dio, la tua
potenza; conferma, Dio, quanto hai fatto per noi» (Sai 78,29; 30; 89; 105). In dipendenza dai due
atteggiamenti suddetti, la berakah suppone un riconoscimento delle infedeltà all’alleanza divina e si
presenta quindi come una domanda di perdono e un abbandono fiducioso all’immensa tenerezza di
YHWH: «Rialzaci, o Signore, Dio degli eserciti, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi» (Sai
80,20; 103,8-13; 106; 107).

La forma letteraria della berakah è generalmente innico-esclamati- va, personale e/o


comunitaria, in relazione alle «meraviglie» della creazione (per esempio Sai 104) e a quelle della
storia (Sai 103; 144). Prima che come movimento ascendente (dall’uomo a Dio), esprime un movi-

389Per uno sviluppo più ampio del tema, rimando a ROCCHETTA, / sacramen ti della fede, 1,152-162.
390Vedremo meglio, nella parte storica e in quella dogmatica, come vada intesa la specificità della presenza di Cristo nell’eucaristia.
391Cf. J. AUDET, Equisse du geme littéraire de la «bénédection» juive et de V«eucharistie» chré- tienne, in Revue Biblique
65(1958), 371-399; L. LIGIER, «La “benedizione” o il culto nell’AT», in II Canone, Padova 1968,9-21; TJ.TALLEY, «De la “berakah”
à P“eucharistie”», in MD 125(1976), 11-39; D. ALMAGIE, Berakòth. Introduzione alle benedizioni, Roma 1980; C. GIRAUDO, La
struttura letteraria della preghiera eucaristica, Roma 1981.
mento discendente (da Dio all’uomo). Infatti, solo perché Dio per primo si è fatto incontro a Israele
benedicendolo, il popolo può celebrare gli eventi della salvezza, benedicendo il nome di YHWH
(Sai 75,2; 115,12- 15): reactio aìYactio Dei. Nata fuori dal culto (si pensi alla benedizione del
servitore di Abramo, Gen 24,27; a quella di Jetro, Es 18,10 e di Chiram, IRe 5,21), la berakah entra
nella liturgia del tempio con diverse linee di sviluppo (ad esempio Sai 106; Gdt 8,25-27; 2Mac
1,11). Al termine della sua evoluzione, essa suppone almeno tre componenti fondamentali: 1) la
benedizione propriamente detta, piuttosto breve («Benedetto YHWH» o «Benedetto sii tu, o
Signore»); 2) il memoriale o «anamnesi» dei mirabilia Dei conservati nelle tradizioni di Israele; 3)
il ritorno alla benedizione iniziale, a modo di inclusione o come dossologia finale. Il rendimento di
grazie si svolge così tra la benedizione iniziale e quella conclusiva e si fonda sulla narrazione delle
opere divine. La parte più sviluppata è quella centrale: il ricordo che attualizza e fa partecipare nel
presente alle «meraviglie della salvezza» del passato e prepara quelle del futuro. E poiché le opere
divine vanno dalla creazione alla nascita d’Israele fino ai tempi messianici, il rendimento di grazie
abbraccia in un solo sguardo tutta la storia, diventando memoria collettiva di ciò che YHWH ha
compiuto di grande e profezia di ciò che egli compirà per la realizzazione del suo disegno di
salvezza. Proprio per questa sua ampiezza, la berakah non si forma come produzione estemporanea
di individui isolati, ma come espressione della fede del popolo, proclamata nell’assemblea
celebrante. Esempio significativo di tutto ciò è quello fornito dalla preghiera di benedizione del
libro di Neemia, al capitolo 9. Al termine della lettura della Torah, i leviti esortano il popolo
all’azione di grazie: «Alzatevi! Benedite il Signore vostro Dio per tutta l’eternità! Benedetto sia il
suo nome glorioso che sorpassa ogni benedizione e ogni lode». Segue allora una grande preghiera
che compendia tutta la storia della creazione e degli atti salvifici di Dio, da Abramo all’ora presente,
e si conclude con una consacrazione formale ai disegni di YHWH, insieme a una supplica insistente
affinché egli porti a compimento l’opera iniziata in favore dei suoi. Siamo ormai alle soglie del NT;
non rimane che un passo per giungere alla preghiera eucaristica cristiana passando per Yéschaton di
Cristo.

2.1. CENA PASQUALE E HAGGADAH

I mirabilia Dei della prima economia si riassumono in un avvenimento fondamentale nel


quale si è manifestata, in tutta la sua grandezza, la potenza di YHWH in favore del suo popolo;
avvenimento che sintetizza in sé tutti i suoi interventi, fino a costituirne il centro: la liberazione
dall’Egitto e il passaggio del Mar Rosso (Dt 6,2-22; 26,5-8; Gs 24,3-7). Il «cuore» della berakah
veterotestamentaria è fornito da questo avvenimento. Il libro del Deuteronomio lo rileva
ripetutamente, ribadendone il carattere sempre attuale (Dt 8,2.11.18; 9,7). È in relazione a questo
avvenimento che si istituzionalizza la festa della pasqua (Es 12,14.25-27; Dt 16,1-3); una
prescrizione biblica che prende la forma della «narrazione» rituale nel seder dell’haggadah di
pesach, nel rito della pasqua ebraica. Un rituale - la cui redazione definitiva risale al periodo dei
Tannaim tra il I e il II secolo, come conferma anche la Mishnà - che contiene le norme essenziali
della liturgia pasquale. La parte centrale consiste nel Maggid che contiene Vhaggadah, la
narrazione degli avvenimenti salvifici di YHWH culminanti nell’avvenimento della pasqua e
celebrati nello stile caratteristico della «memoria».

Il rito è ricco di simboli che spiegano l’avvenimento pasquale e si concentrano


principalmente intorno al pane e al vino: il pane azzimo come segno della liberazione, al tempo
dell’uscita dall’Egitto (Es 12,39); il vino come segno dell’agiatezza e della terra conquistata; i
quattro calici come simboli, secondo il Talmud, delle quattro espressioni, quasi sino- nime,
adoperate dall’Esodo per indicare la liberazione (6,6-7): «Vi sottrarrò dalla tribolazione dell’Egitto,
vi salverò dalla loro schiavitù, vi libererò con braccio disteso, vi prenderò quale mio popolo».392
Oltre al memoriale della liberazione, il rito contiene diverse espressioni di attualizza- zione
dell’intervento che si ricorda; attualizzazione operata mediante una serie di domande dalle quali è
392Cf.Jer.Pes. X,l,37 bc.
possibile cogliere la fede dell’interrogan- te: ci si può collocare dentro la storia della salvezza
oppure al di fuori. «Il malvagio domanda: Che cosa è per voi questo atto di culto?» (Es 12,26):
«per voi», dice, non «per lui». E avendo egli escluso se stesso dalla collettività gli si risponde «È a
motivo di quanto ha fatto il Signore per me, quando sono uscito dall’Egitto» (Es 13,8). In ogni
generazione, ognuno è consapevole di essere egli stesso liberato dalla schiavitù (Dt 6,23). Il rito
contiene inoltre una serie di espressioni che rivelano la sua tensione escatologica verso una
liberazione nuova e definitiva: «Quest’anno siamo ancora qui, l’anno venturo saremo in terra
d’Israele: quest’anno ancora qui schiavi, ma l’anno venturo liberi in terra d’Israele». E questo
l’augurio con cui il rito si conclude: «L’anno prossimo in una Gerusalemme ricostruita».

Gesù ha trovato nel rito haggadico l’ambiente cultuale, il clima e il genere letterario proprio
per manifestare e istituire il mistero della nuova pasqua nel suo sangue. Stando ai sinottici si deve
concludere che è stato questo il quadro in cui Cristo ha voluto inserire il suo memoriale: «Ho
desiderato ardentemente di mangiare questa pasqua con voi, prima della mia passione, poiché, vi
dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio» (Lc2,15-16). Ognuna delle
azioni di Cristo menzionate dagli evangelisti trova riscontro in altrettante azioni rituali del
banchetto ebraico, alle quali viene conferito un significato nuovo. Non è necessario supporre che
Gesù abbia modificato quello che costituiva il rito della cena pasquale ebraica. I sinottici
concordano nel dire che, «mentre cenavano», Gesù prese il pane e «rese grazie» (eucharistesas), in
corrispondenza alla benedizione sul pane che si svolgeva all’inizio della cena ebraica; e «dopo la
cena», prese il calice e «disse la benedizione» (ICor 10,16), in corrispondenza dell’ultimo calice. I
due riti sono stati chiaramente riletti nella prospettiva della sua pasqua: alla benedizione sul pane,
Gesù ha aggiunto l’affermazione fondamentale: «Prendete, questo è il mio corpo»; e alla
benedizione sul vino: «Questo è il sangue della nuova alleanza sparso per voi». Il pane e il vino si
presentano come il «segno» anticipatore del suo sacrificio e quindi di un’alleanza nuova che si sta
realizzando nella sua morte. Comunicare con quel «pane» non sarà più celebrare il ricordo
dell’uscita dall’Egitto, ma entrare in comunione con il suo corpo dato per tutti. Lo stesso per il
«vino».

Inserita in questo contesto, l’eucaristia appare in tutta la sua continuità con la storia della
salvezza, quasi compendio e coronamento di tutti gli interventi compiuti da Dio in favore del suo
popolo. Eucharistesas: ha reso grazie, perché la pasqua ha cessato in quel momento di essere una
figura ed è diventata una realtà. Con la cena e con la croce, inseparabili, il popolo di Dio è entrato
nel possesso delle antiche promesse. Hanno avuto compimento tutte le grandi realtà dell’economia
antica: dalla promessa ad Abramo alla pasqua dell’esodo. Tutti i desideri e le invocazioni del popolo
di Dio, tutta l’insoddisfazione che la sua storia, fatta di infedeltà, di pentimenti e di riprese, aveva
scavato in lui; tutto quel messianismo che in modo sempre più chiaro aveva orientato all’avvenire i
migliori dei suoi giusti, tutto trova compimento. Nell’anima di Cristo si raccoglie in quel momento
tutto il passato religioso del suo popolo, e al Padre si innalza la prima e più nobile eucaristia della
nuova alleanza: per la realizzazione di tutto ciò che era atteso, per la consumazione di tutto ciò che
era stato fino ad allora solo abbozzato e prefigurato.393

2.2. L’EUCARISTIA COME «MEMORIALE»

Proclamare le grandi azioni di Dio significa «ricordare» a Dio la sua promessa e l’alleanza
stabilita «una volta per sempre» col suo popolo (Es 32,13; Dt 9,27; Sai 74,2; 105,8; Ger 14,21). Un
atto che è al tempo stesso un ricordare a Israele gli interventi divini di cui è stato beneficiario e
suscitare in esso il rendimento di grazie e la fede nella continuità di questi interventi. Il sabato, la

393M. MAGRASSI, «L’eucaristia nell’economia della salvezza», in Vivere la liturgia, Noci (BA) 1978,292.
pasqua e le altre istituzioni cultuali sono oggettivazioni del memoriale, ricordi permanenti degli
interventi salvifici di Dio: «Così per tutto il tempo della tua vita tu ti ricorderai il giorno in cui sei
uscito dal paese d’Egitto» (Dt 16,3). «Sarà per te segno sulla tua mano e ricordo fra i tuoi occhi»
(Es 13,8-10; 12,14; Dt 5,16; 24,21-22). La celebrazione della pasqua rappresenta il «memoriale»
per eccellenza (Dt 16,3). Un’attualizzazione salvifica che non è automatica, né tanto meno un rito
magico. Il memoriale fa presente a Dio la sua promessa, i suoi interventi e la sua fedeltà nello stesso
tempo in cui ricorda al popolo le esigenze che comporta per la sua origine e la sua identità di popolo
dell’alleanza; un contenuto, questo, particolarmente vivo nel memoriale di Neemia dove la risposta
del popolo risulta altrettanto essenziale quanto l’invito rivolto a YHWH perché attualizzi la potenza
degli antichi interventi nell’oggi della storia d’Israele (Ne 9). Questa capacità di attualizza- zione
del memoriale si collega al modo particolare con cui la concezione biblica concepisce il tempo.
Israele non partecipa della concezione del tempo propria delle altre culture, dove esso si ripete
secondo un ciclo di eterno ritorno. Israele si è liberato da simili concezioni perché ha incontrato il
Signore nel bel mezzo della storia; un incontro che gli ha permesso di scoprire il senso peculiare
della propria vicenda. La fede gli ha rivelato un disegno di salvezza che va dal passato, al presente e
al futuro. In questa concezione, non è soltanto il presente che ha consistenza reale, ma anche il
passato e il futuro in quanto garanzia del tempo storico. La ritualità ebraica (dalla pasqua alla
rinnovazione dell’alleanza) si collega a questa percezione storico-salvifica del tempo. 394
L’eucaristia, come si vedrà più avanti, comporta una medesima visione del tempo: il fare ciò che
Cristo ha fatto non rappresenta soltanto un gesto rituale, ma un rivivere in atto quanto il Redentore
ha consumato nella sua persona «una volta per sempre», attualizzandolo nell’oggi della Chiesa. Il
passato diventa un presente e apre al futuro.

3.Istituzione dell’eucaristia

Il rito eucaristico istituito da Gesù si inserisce nel contesto profetico segnalato, anche se
esorbita in ragione del suo contenuto: Cristo stesso, nostra pasqua, come proclamerà Paolo (ICor
5,7). Se per gli ebrei tutta la storia della salvezza era sintetizzata nell’esodo di cui la celebrazione
della pasqua annuale era il memoriale in atto, per i cristiani Yhistoria salutis è interamente
compendiata nella nuova pasqua, di cui l’eucaristia è la presenzializzazione che dice in atto il senso
totale della storia della salvezza e riempie di sé il tempo della Chiesa. Questo memoriale si defi-
nisce anzitutto in rapporto alla croce a cui le parole dell’ultima cena si riferiscono, ma rimanda in
pari tempo a tutto ciò che è derivato da essa: il trionfo della risurrezione e la glorificazione, la
nascita della Chiesa per opera dello Spirito. E tale è la valenza plenaria dell’anamnesi eucaristica.

I testi dell’istituzione eucaristica del NT contengono una triplice sedimentazione della fede
pre- e post-pasquale: il tempo di Gesù (l’ultima cena vissuta dalla comunità apostolica prima della
morte); il tempo della Chiesa (ossia la cristallizzazione liturgica realizzatasi in ambiente palestinese
e antiocheno e, molto presto, in tutta l’area del bacino medi- terraneo); il tempo degli scritti, in
riferimento a una tradizione comune sostanzialmente concorde, ma con accentuazioni proprie in
relazione agli autori e alle loro singole prospettive. All’origine c’è un dato storico indiscutibile: la
cena di Gesù come «memoria anticipata» e «profezia in atto» dell’evento pasquale; un dato che noi
possediamo mediante i racconti che prima la comunità delle origini e poi gli autori neotestamentari
ci hanno trasmesso. Le recensioni neotestamentarie che ci riportano l’ultima cena sono quattro: Mt
26,20-21.26-29; Mc4,17-18.22-25; Lc2,14-20; ICor 23-26. Come appare da un’attenta
comparazione sinottica, le recensioni concordano nei punti essenziali: 1) tutte si riferiscono a una
cena di Gesù con i suoi in un contesto pasquale; 2) tutte sottolineano i due riti tipici del pasto
giudaico sul pane e sul vino: la benedizione e distribuzione del pane, l’offerta del calice ai
commensali; 3) tutte rilevano come il Signore abbia posto in relazione il pane al suo corpo «dato

394A riguardo, cf. ROCCHETTA, I sacramenti della fede, I, specie 55-80 e 225-250.
per» e il vino al suo sangue «versato per»; 4) tutte lasciano intravedere un profondo legame tra
l’ultima cena e il mistero della pasqua di Cristo: egli è il Servo di YHWH che dona la sua vita in
riscatto dei «molti» (Is 53,12); 5) tutte, sia pure con accentuazioni diverse tra Paolo/Luca e
Marco/Matteo, suppongono una relazione essenziale tra la cena di addio e il banchetto escatologico:
la comunità riunita attorno a Gesù rimanda alla comunità messianica dei tempi ultimi; 6) tutte le
recensioni, infine, per il loro carattere liturgico suppongono che la celebrazione della «cena del
Signore» sia una realtà già in atto nella comunità, ancor prima della testimonianza datane dagli
autori neotestamentari.

L’insieme di queste concordanze conferisce ai racconti un notevole valore testimoniale e una


grande unità complessiva. Questo non vuol dire che nei testi non siano riscontrabili delle differenze.
Le recensioni di Paolo e Luca, ad esempio, sembrano rispettare maggiormente l’ordine della cena
pasquale giudaica, con i gesti compiuti sul pane prima della cena e quelli sul vino dopo; le
recensioni di Marco e Matteo uniscono, invece, a tal punto i due atti da farli sembrare come
compiuti nello stesso momento, durante o a conclusione della cena. Ciò deriva con molta
probabilità dal fatto che Marco e Matteo riflettono più degli altri la formalizzazione linguistica
verificatasi nella prassi liturgica. Un’altra differenza riguarda l’ordine di ripetere ciò che Gesù ha
fatto: appare due volte in Paolo, sia in riferimento al pane che al vino; una volta in Luca in rife-
rimento al pane; manca in Marco e Matteo. Quest’ultimo elemento tuttavia non può essere
interpretato nel senso che Cristo non avrebbe dato l’ordine di ripetere la memoria eucaristica; a ciò
si oppone il carattere stesso dei testi - e in particolare proprio quelli di Marco/Matteo - che riflettono
con evidenza, come si è detto, la forma della celebrazione eucaristica in atto da anni nella comunità.
Del resto, la natura propria della cena-come-nuova-pasqua implicava la convinzione di una sua
ripetizione, come era stato per l’antico Israele e come risulta in modo diretto dalle testimonianze di
Paolo e Luca. Analoghe considerazioni si possono fare per le differenze stilistiche («il mio sangue
dell’alleanza» in Marco/Matteo, «la nuova alleanza nel mio sangue» in Paolo/Luca) che derivano
dal diverso ambiente liturgico in cui i testi hanno vissuto o da accentuazioni dei rispettivi autori.
In base a queste differenze, i testi vengono comunemente distinti in due tradizioni:
Marco/Matteo, che sembrano collegarsi alla tradizione palestinese primitiva, e Paolo/Luca, che
ricuperano la stessa tradizione, ma passando per la comunità antiochena; entrambe le recensioni
risultano notevolmente arcaiche, risalendo rispettivamente agli anni 40 e 45 e forse prima; una tale
arcaicità può essere comprovata dal fondo semitico comune alle parole e ai gesti che rimandano alla
tradizione liturgica propria di Gerusalemme e di Antiochia. Ci si può rappresentare la relazione tra
le quattro forme di racconto nel modo seguente:

CENA DI GESÙ
Tradizione palestinese (prima del 40) Tradizione antiochena (prima del 45)
Marco Paolo
Matteo Luca
La comparazione è confermata da altri dati. L’anahsi letteraria mostra ad esempio che, se dal
punto di vista della redazione scritta il testo di Paolo è da considerare il più antico, dal momento che
l’apostolo scrive la Prima lettera ai Corinzi verso gli anni 54/55, riferendosi a una tradizione che
egli stesso ha ricevuto verso il 40 e che aveva trasmesso nel 51, dal punto di vista filologico il
racconto di Marco, pur redatto più tardi, contiene una forma più antica, comprovata dall’abbondante
numero di semiti smi. I quattro testi ci riportano, in ogni caso, con sufficiente attendibilità storica,
all’evento stesso dell’ultima cena e offrono notevoli garanzie per enucleare sulla loro base il
contenuto fondamentale della cena di addio di Gesù con i suoi. A proposito della benedizione-
eucaristia, pronunziata da Cristo, né il testo dei sinottici, né 1Cor 11 ci riferiscono le sue parole, ma
ci avvertono:

1) Che nella benedizione sul pane egli menzionò come motivo di ringraziamento non solo il
ricordo della pasqua di liberazione dall’Egitto, ma il riferimento alla pasqua di liberazione che si sta
realizzando con la sua morte; riferimento espresso nella corrispondenza tra il «pane spezzato» e il
«corpo sacrificato»;

2) Che nel ringraziamento sul calice egli passò dal «sangue dell’alleanza» antica alla «nuova
alleanza» sancita nel suo sangue. Dal contesto della cena, descritto da Giovanni, si può inoltre
facilmente supporre che Gesù abbia introdotto, nella benedizione-anamnesi, l’elemento nuovo del
ringraziamento al Padre per la nuova «meraviglia» che si sta per operare in forza della sua pasqua,
inaugurazione della Chiesa e compimento della fase ultima della storia.

3.2. L’ULTIMA CENA NEL RACCONTO DEL NT

I Quattro testi dell’istituzione dunque, pur distinguendosi nei particolari rilevati, presentano
l’ultima cena con modalità sostanzialmente analoghe e complementari. Ciò consente di evidenziare
in essi il significato fondamentale dell’ultima cena, specie alla luce del contesto della vicenda totale
di Gesù, del suo passato e del suo futuro. Non si può e non si deve infatti isolare il suo racconto da
quanto lo precede e da quanto lo segue. La comunità post-pasquale ha certamente compreso questo
legame e vi si è riferita nel raccontare la celebrazione della pasqua che ha preceduto la morte del
Signore.

a) Tra passato e futuro


L’episodio dell’ultima cena si colloca anzitutto nel quadro dei pasti presi da Gesù: quelli con
i peccatori durante la sua esistenza e quelli con gli Undici dopo la risurrezione. E, dal momento che
Cristo è fedele erede del mondo ebraico, è importante tener presente la figura del pasto giudaico.
Ogni pasto giudaico festivo o di una certa importanza aveva, in quel mondo, il carattere di
un’azione quasi liturgica. Il capo-famiglia, stando seduto, prendeva la focaccia di pane, l’alzava in
alto e a nome di tutti pronunciava la benedizione, ricordando i benefici del Signore e rendendo
grazie al suo nome; spezzava poi il pane con le sue mani e ne distribuiva i pezzi ai commensali; per
ultimo ne assumeva una parte per sé e la consumava, dando ai commensali il segnale di fare
altrettanto. Seguiva il pasto vero e proprio. Alla fine, il capo-famiglia prendeva con la mano destra
il calice del vino e, tenendolo in alto, pronunciava la preghiera di benedizione su di esso; ne beveva
un sorso e lo faceva circolare fra i commensali. Sia alla benedizione del pane che a quella del calice
tutti i convitati rispondevano con un amen collettivo. Una condivisione che era molto più di un
semplice mangiare e bere insieme e assumeva un carattere sacro in quanto rappresentava un
entrare nella corrente della benedizione di Dio e in un’effettiva comunione di vita con lui e fra i
commensali. Prendere un pasto insieme, in questo contesto, significava esprimere una comunione di
mensa, sia in senso orizzontale che verticale: i commensali costituivano un’unità fra loro e con Dio,
datore di ogni dono, presente nella fraternità della mensa.395

Alla luce del significato del pasto giudaico si comprende la rilevanza che i banchetti di Gesù
con i peccatori e i pubblicani assumono nel vangelo. Sedendosi pubblicamente a tavola con coloro
che la convinzione comune del popolo escludeva, il Maestro compie un gesto «rivoluzionario» nei
confronti delle prescrizioni legali del tempo. Egli non lo fa per il gusto di stupire o fare qualcosa di
nuovo, ma per proclamare che con lui è ormai in atto il perdono universale annunciato dai profeti
per i tempi messianici e per manifestare come tutti siano chiamati alla partecipazione del banchetto
escatologico della salvezza (Is 25,6; Am 9,13). Mostrando Gesù a mensa con i peccatori e i
pubblicani, i vangeli offrono dunque molto più di una semplice annotazione di cronaca; intendono
testimoniare come i tempi della salvezza attesa siano presenti nell’Unigenito incarnato e come in lui
Dio-Padre inviti tutti, nessuno escluso, a «mangiare» e a «bere» alla mensa del suo Regno (Lc2,30;
Is 55,1-3). L’ultima cena si colloca in una stretta relazione con questi pasti; essa ne è come l’inter-
pretazione e il compimento, attestandone il significato escatologico e realizzandone il contenuto
come novità decisiva della storia. È grazie a questa stretta relazione che la comunità
neotestamentaria ha potuto rileggere i racconti della moltiplicazione dei pani nel quadro dell’ultima
cena dove il riferimento all’eucaristia appare nella stessa forma letteraria, e viceversa.396

Non meno importanti, in questo senso, sono i pasti del Signore risorto con gli Undici. I
vangeli ne riportano tre o quattro (Lc4,13-35; Mc[cf. Lc4,36-43]; Gv 21,9-14). La finalità di questi
pasti non è indirizzata solo a convincere i discepoli della realtà della risurrezione (in Lc4,36-43:
Cristo mostra le piaghe e chiede da mangiare) e a rafforzare quindi la loro fede esitante; essi mirano
anche a mostrare come il Kyrios si sia reso presente fra i suoi e continui a esserlo mediante il segno
pasquale del pasto. Questo è particolarmente visibile nella forma letteraria conferita all’episodio dei
discepoli di Emmaus; una forma che risente in notevole misura della fede eucaristica della comunità
apostolica. Il pane spezzato diviene l’espressione simbolica di una presenza/assenza: il Signore si
manifesta ed è riconosciuto, e tuttavia non può essere posseduto se non nel riconoscimento
accogliente della sua Parola e dello «spezzare il pane» con lui (Lc4,13-35). E del resto, per la
comunità degli apostoli, il fatto di aver «mangiato» e «bevuto» col Risorto non rappresenta solo
l’affermazione della verità della risurrezione, ma la consapevolezza di essere il nuovo popolo di Dio
nella storia riunito attorno a lui (At 10,40-43) e di cui l’assemblea eucaristica è espressione in virtù
dell’atto dello «spezzare il pane» (ICor 10,16.17; 11,17-34; At 2,42.46; 20,7-12).

b) Annuncio di morte e di vita


L’ultima cena giunge al termine di un passato che l’ha preparata e apre a un futuro che essa
già anticipa. Sotto questo aspetto, il racconto testimonia al tempo stesso un mistero di morte e di
vita. Già Yesordio e la conclusione lo lasciano intravedere. L’esordio. Quanto i sinottici mostrano
col narrare il contesto storico della passione, Paolo lo dice con la formula: «Nella notte in cui fu
tradito» (ICor 11,23). In entrambi i casi, si ha ben presente come il racconto dell’istituzione non
possa essere separato dall’evento della morte cui Gesù sta andando incontro. La conclusione. Il
versetto escatologico dei sinottici (Mt 26,29; Mc4,25; Lc2,18) e la proclamazione paolina:
«...finché egli venga» (ICor 11,26), mentre annunciano il banchetto ultimo a cui rimandano,
suppongono in pari tempo l’affermazione della glorificazione di Cristo e della sua signoria, dal
momento che la croce non sarà l’ultima parola, ma semmai la penultima. Esordio e conclusione
evidenziano così i due poli entro cui si inserisce il corpus del racconto: la morte come separazione
e assenza del Maestro, la vita oltre la morte come comunione e presenza nuova del Risorto fra i
suoi; una bipolarità evocata tra l’altro dal contrasto «notte-giorno» che connota tutto il racconto,

395È tale consapevolezza che portava i giudei a non poter condividere la loro mensa con i peccatori; confortati in ciò da una lettura
radicale del Salmo 1,1: «Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia sulla via dei peccatori e non siede in
compagnia degli stolti».
396Si veda, ad esempio, come Gesù in questi racconti venga presentato nell’atto della benedizione del pane (eucharistéo in luogo di
euloghéo)', spezza il pane (verbo klaio) e lo distribuisce; formulazioni che, mentre recuperano le dizioni del pasto giudaico,
testimoniano il linguaggio eucaristico ormai in uso al tempo della redazione scritta dei vangeli.
rafforzando l’opposizione tra il presente doloroso, segnato dalla profezia del tradimento e della
morte, e il futuro del Cristo con i suoi in forza della sua glorificazione. Sullo sfondo del racconto si
staglia anzitutto il passato di Gesù: giunto al compimento della sua ora, egli raccoglie intorno a sé
coloro che, ad eccezione di uno, l’hanno seguito fino a quel momento (Lc2,28); è con loro che egli
ha desiderato di celebrare la sua pasqua prima di soffrire (Lc2,15). Un’«ora» che assume il suo
pieno significato in quanto espressione-compimento della sua opzione fondamentale: quella
d’essere venuto per fare la volontà del Padre quando l’essere «venuto per» si manifesta come un
«morire per». Non meno rilevante è l’apertura verso il futuro sottesa al racconto, e ciò non solo in
relazione agli eventi della passione, ma nella prospettiva della sua glorificazione che trasformerà il
mistero della sua morte in un éscha- ton di salvezza per tutti. È grazie ad esso che i discepoli,
«facendo memoria» - in obbedienza al suo comando - di quanto Gesù ha vissuto in sé,
parteciperanno alla sua vittoria: una «memoria» nella quale il Risorto, assente visibilmente,
continuerà a essere presente per dare la vita ai suoi, fino al compimento ultimo della storia.

L’atto con cui Gesù, nell’ultima cena, si offre nei gesti del pane e del vino costituisce
dunque un’azione profetica che anticipa il mistero di morte/vita della sua pasqua: egli si consegna
volontariamente alla croce, facendo della sua esistenza un dono salvifico per tutti coloro che crede-
ranno in lui: il pane spezzato equivale al suo corpo dato, il vino rosso distribuito al suo sangue
versato. Un dono che si compie nella forma di un pasto: «Prendete, mangiate», «prendete, bevetene
tutti»', e si offre come evento di comunione e perdono, specie se si tiene presente il significato del
pasto giudaico e il contesto dei pasti di Gesù con i pubblicani e i peccatori cui si è fatto riferimento.
Si deve d’altronde aggiungere che il banchetto del Giovedì santo si presenta con i caratteri di un
banchetto di addio, analogo al banchetto-tipo di Isacco (Gen 27); un banchetto che, nella cultura
biblica, costituisce un vero atto testamentario nel quale l’uomo di Dio, di fronte alla morte, attinge
nel pasto la forza vitale per le ultime consegne e distribuisce la sua benedizione agli eredi; benedi-
zione in cui raccoglie e sintetizza la sua esistenza e si apre al futuro. L’ultima cena di Gesù è da
considerare come un banchetto di addio, anche se l’orientamento di fondo non è a una fine
irrimediabilmente conclusa, ma verso un orizzonte di risurrezione; e ciò sia in rapporto al Maestro
che si dona nei segni del pane e del vino sia in rapporto alla comunità dei discepoli che nasce da
quel dono e che sarà depositaria della «memoria» eucaristica. L’ultima cena appare, in ogni caso,
come l’esegesi di tutta l’esistenza di Gesù, prima e dopo gli eventi pasquali: un’esistenza che si
dispiega come un mistero di morte e di vita o, meglio, di morte che dà la vita, di morte per noi,
perché possiamo avere la vita in lui come risorti.

c) Banchetto pasquale ed eucaristia


I sinottici insistono nel descrivere i preparativi della cena in relazione alla celebrazione della
pasqua ebraica. A sua volta, Paolo - come si è notato - richiama la «notte in cui Gesù fu tradito»; ora
si sapeva che questo tradimento era avvenuto nei giorni della pasqua ebraica. Tutto il clima che
avvolge l’ultima cena, d’altronde, è ridondante di risonanze pasquali (Gv 13,1). È noto come la
celebrazione della pasqua ebraica orientasse il pensiero degli ebrei verso una doppia liberazione:

• la liberazione vissuta nel passato quando Dio aveva tratto Israele dalla schiavitù d’Egitto
«con mano potente e braccio disteso», facendolo diventare il popolo dell’elezione e dell’alleanza;

• la liberazione che Israele avrebbe conosciuto nel futuro con l’irruzione messianica e là
manifestazione della nuova e definitiva elezione/alleanza (Is 42; Ger 31; Ez 36).

Secondo la tradizione giudaica tutto questo avrebbe dovuto compiersi durante una pasqua. E
tale era il clima e l’attesa di ogni celebrazione annuale. Non è certamente privo di significato che
Gesù abbia voluto far coincidere la cena di addio con i suoi con la pasqua ebraica; è anzi un dato
essenziale (Lc2,15; Gv 13,1).
La cena pasquale si svolgeva nelle case nella forma di un pasto familiare e aveva il suo
culmine nella consumazione dell’agnello immolato poche ore prima; essa era preceduta da alcuni
riti preparatori e seguita da altri conclusivi. Dopo il tramonto del sole, quando i commensali - alme-
no in numero di dieci - avevano preso posto a tavola, il capofamiglia dava inizio alla celebrazione,
benedicendo Dio («Benedetto sei tu, YHWH, nostro Dio, che hai creato il frutto della vite!») e
mescendo la prima coppa di vino, temperata con acqua. Dopo che tutti ne avevano bevuto, si svol-
geva il rito dell’abluzione della mano destra, mentre venivano portate sulla mensa le erbe amare -
destinate a ricordare il cibo d’Egitto - condite con harroseth (salsa a base di datteri, fichi, mandorle,
vino; di colore biondo-rossastro, che richiamava ai commensali quel fango con cui in Egitto gli
israeliti avevano preparato i mattoni; cf. Gv 13,26); due pani azzimi e l’agnello pasquale, tutto
intero, arrostito. A questo punto il padre di famiglia, prendendo in mano i pani, li alzava in alto,
dicendo: «Questo è il pane della miseria, che i nostri padri hanno mangiato in Egitto. Chi ha fame
si accosti! Chi ha bisogno, venga e celebri la pasqua!». Nel frattempo era scesa la notte e occorreva
far luce; si accendevano perciò le lampade, previa una benedizione: «Sii benedetto, Signore e Dio
nostro, che hai creato le lampade di fuoco». Riempita una seconda coppa, il più giovane dei
presenti doveva chiedere: «Perché questa notte è tanto diversa dalle altre?». Gli rispondeva il padre
di famiglia, facendo la storia (haggadah) dei grandi interventi di Dio in favore del suo popolo: da
Thare, padre di Abramo, alla liberazione dall’Egitto, alla promulgazione della Legge; spiegava poi
il significato dell’agnello, delle erbe amare e del pane azzimo, e concludeva esortando a lodare di
tutto cuore il Signore: «Cantiamo dunque dinanzi a lui, Alleluia!».

Dopo questo primo atto si recitava la prima parte dell’Hallel minore comprendente i Salmi
113-114, mentre si faceva girare la seconda coppa di vino. Seguiva, a questo punto, un’altra lavanda
delle mani, la più importante, servita di solito dal più giovane dei commensali. 397 Finita la lavanda il
capofamiglia prendeva uno dei pani azzimi, lo spezzava e lo benediceva dicendo: «Benedetto sei tu,
o Signore Dio nostro, Re del mondo, che fai produrre il pane dalla terra»; quindi ne gustava egli
per primo e lo distribuiva ai presenti. A questo punto, cominciata la cena propriamente detta, si
consumava l’agnello arrostito con le erbe amare e gli altri cibi preparati, avvertendo tuttavia che
l’ultimo boccone doveva essere delle carni dell’agnello. Conclusa la cena, ci si lavava le mani e si
mesceva la terza coppa di vino, dopo che il capo di tavola l’aveva benedetta con una formula
particolarmente solenne e a cui i commensali rispondevano: «Benedetto colui che ci ha dato di
partecipare ai suoi beni». Negli scritti rabbinici questa terza coppa era chiamata «calice di benedi-
zione». Seguiva il canto della seconda parte dell’Hallel minore (Sai 115- 118) e dopo due brevi
preghiere di lode si intonava VHallel maggiore (Sai 136); intanto girava una quarta coppa di vino, la
più memorabile, detta il calice della pasqua o calice dell’Hallel. La celebrazione terminava con
un’eulogia di ringraziamento.

Gesù ha inserito la novità della sua pasqua nel quadro di questa cena pasquale. Come si è
accennato, Marco/Matteo - riflettendo uno stadio di avvenuta cristallizzazione liturgica dei racconti
- si limitano a dire: «mentre cenavano», supponendo una certa simultaneità fra i gesti-parole sul
pane e i gesti-parole sul calice. Paolo/Luca invece, più attenti alla struttura della cena pasquale,
situano l’atto sul pane all’inizio della cena e l’atto del calice alla fine, vale a dire prima del canto
della seconda parte dell’Hallel minore e dell’Hallel maggiore. Anche i primi due evangelisti,
tuttavia, si collegano alla cena pasquale quando riferiscono che Gesù, dopo la cena, proclama
insieme ai suoi l’inno di ringraziamento finale, anteriormente all’uscita dalla sala e al cammino
verso l’orto degli ulivi (Mc4,26; Mt 26,30). I racconti evangelici non descrivono lo svolgimento
dell’ultima cena. Sembra probabile tuttavia che la coppa di vino a cui solo Luca fa riferimento
prima delle parole dell’istituzione (Lc2,17) si riferisca a una delle due coppe appartenenti ai riti
preparatori della cena, mentre l’istituzione eucaristica dovrebbe essere collocata in parallelo ai riti
della benedizione del pane e della terza coppa di vino. È evidente che l’interpretazione giudaica del
pasto pasquale e degli elementi che lo caratterizzavano (azzimi, erbe amare, agnello) offriva a Gesù
397Nell’ultima cena sarebbe dovuta toccare a Giovanni, ma inaspettatamente volle compierla Gesù stesso, come ricorda lo stesso
Giovanni, lavando non solo le mani, ma i piedi (Gv 13,1-15).
un contesto particolarmente significativo e ricco di simboli per inserirvi l’annuncio della sua
pasqua. L’uso di espressioni cultuali-sacrificali come la coppia di vocaboli «corpo-sangue» e la
dizione «alleanza-sangue dell’alleanza» o «calice dell’alleanza» rendono assai probabile l’ipotesi
che Gesù abbia spiegato l’agnello pasquale in relazione a se stesso e alla sua pasqua di morte e di
risurrezione. Del resto, si sa come le prime comunità amassero qualificare Gesù quale nuovo
agnello immolato, che fa passare i battezzati dal vecchio al nuovo lievito (ICor 5,7-8) o «l’agnello
di Dio che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29). È in relazione a Cristo e alla sua pasqua che la
pasqua antica acquista un nuovo significato. Se la pasqua ebraica era il passaggio dalla schiavitù
d’Egitto alla libertà e proclamava l’attesa del definitivo passaggio dei tempi messianici, la nuova
pasqua indica il passaggio di Gesù al Padre (Gv 13,1) e, in lui, la novità salvifica introdotta una
volta per sempre nella storia. I tempi escatologici sono ormai in atto. Immolando la sua vita sulla
croce e risorgendo da morte, Gesù introduce la storia nell’escatologìa e l’escatologia nella storia e
offre a tutti la possibilità di rivivere il medesimo passaggio. Le parole che accompagnano i doni
eucaristici lasciano intravedere questa novità. Il pane e il vino costituiscono i segni vivi, espressivi,
del suo «corpo dato» e del suo «sangue versato» e Gesù stesso presenta la sua morte come
un’immolazione vicaria: egli si offre per i suoi («per voi», Mc/Mt) e «per molti», richiamandosi
chiaramente alla figura del Servo di YHWH, dalla cui morte espiatrice sgorga la nuova alleanza (Is
53).398 Il banchetto pasquale che egli celebra rappresenta l’anticipazione «sacramentale» del-
l’oblazione della croce e il segno reale dell’alleanza dei tempi messianici inaugurata dalla sua
risurrezione e dall’effusione dello Spirito sulla comunità degli apostoli. Così, se l’ultima cena è
inserita nella cornice della pasqua antica, essa esorbita da questa cornice dal momento che il suo
contenuto è Cristo stesso, nostra pasqua (ICor 5,7), inizio dei tempi dello Spirito preannunciati dai
profeti, come spiegherà con forza e chiarezza Pietro fin dal mattino di Pentecoste (At 2,14-36).

3.3. GESÙ, LA CREAZIONE, LA STORIA, IL PADRE

Il primo gesto che Gesù compie riguarda il pane: «Prese il pane e pronunciata la
benedizione (o: «dopo aver reso grazie», secondo la redazione di Marco/Matteo), lo diede ai suoi
discepoli». Un’azione analoga la compie sulla coppa del vino. Il pane e il vino - nell’orizzonte
biblico - rappresentano la terra che, al termine del viaggio nel deserto, doveva offrire agli ebrei
grano e uva. Nello stesso tempo, pane e vino suppongono il lavoro che ha trasformato i prodotti
della terra. Alzando in alto questi doni, Gesù si collega alla creazione, dono di Dio, e alla storia
umana, espressione dello sviluppo e dell’attività dell’uomo. Prendere il pane e il vino e pronunciare
su di essi la benedizione è, per ogni pio israelita, riconoscere che tutto è dono di Dio e ricevere
perciò questi elementi dalle sue mani. La benedizione infatti non si esaurisce, nella cultura biblica,
in una formula verbale; essa è un atto attraverso cui passa la vita divina e, nella distribuzione del
pane e del vino, si diffonde e si comunica a tutti i commensali. Benedicendo il pane e il vino, Gesù
collega dunque questi doni al Padre, fonte della creazione e della vita divina diffusa nel banchetto in
comune; nello stesso tempo, ponendo in relazione questi doni con la sua persona, egli indica come
attraverso il pane e il vino venga annunciato e comunicato un altro dono, immensamente più
grande, che il Padre attua per l’umanità intera: il dono della sua persona per il perdono dei peccati.
Così, durante l’ultima cena, il Signore e Maestro è insieme donatore e dono.

L’evento pasquale, espressione della benevolenza del Padre verso l’umanità, è preannunciato
nei gesti dello spezzare il pane e distribuire il vino, con le parole che li accompagnano. Il pane e il
vino riferiti al suo corpo-dato e al suo sangue-versato si presentano come anticipazione
sacramentale della morte a cui Gesù sta andando volontariamente incontro. Ciò è particolarmente
vero se si tiene presente il contesto della pasqua ebraica cui si è fatto allusione ed entro il quale

398Sul tema del Servo di YHWH in relazione all’eucaristia ritorneremo più diffusamente nella sezione sistematica.
l’ultima cena si svolge. In questo contesto, il pane ricorda la bontà di YHWH verso il suo popolo e
quindi la sua continua presenza: il dono della manna. Gesù, durante la sua vita, si richiama a questo
cibo dato da Dio al popolo per affermare come egli stesso sia il nuovo cibo, quello vero, che il
Padre dona agli uomini per la vita del mondo (Gv 6,48-58). Il vino a sua volta esprime, nel
linguaggio biblico, la gioia della vita, l’amore, l’amicizia e la felicità; il fatto che nell’ultima cena
esso sia collegato alla coppa alzata verso il Padre e benedetta sembra far riferimento al sacrificio di
ringraziamento di cui più volte i Salmi parlano: il calice della todah alzato nella lode, quale
espressione dell’alleanza di YHWH col suo popolo. Un tale riferimento è confermato dal linguaggio
utilizzato dai testi: si parla di «sangue dell’alleanza» (Mc/Mt) o di «nuova alleanza nel sangue» di
Cristo (Paolo/Le), collegandosi al sacrificio del Sinai mediante il quale Mosè aveva espresso la
prima alleanza (Es 24,5-8). Il fatto poi che questo sangue sia versato evoca l’aspetto sacrificale del
patto nuovo, richiamando nello stesso tempo la sorte dei giusti (da Abele in poi) e dei profeti, il cui
sangue era stato ingiustamente versato. Prendendo in mano il pane e il vino e benedicendoli, Gesù
inscrive così la creazione e la storia - simboleggiate nei segni del pane e del vino - nel dinamismo
stesso dell’alleanza di Dio con gli uomini, alleanza prima vissuta da Israele e adesso manifestata e
realizzata in pienezza nella sua persona e quindi nell’atto unico della sua morte e risurrezione. Se il
Padre non è nominato direttamente, egli è tuttavia presente sullo sfondo di tutto il racconto: Gesù
qualifica se stesso come colui che è venuto a compiere l’opera del Padre; al Padre è rivolto tutto il
suo pensiero e a lui si offre in riscatto per tutti, come risulta con forza dall’insieme del racconto
giovanneo e specialmente dalla preghiera sacerdotale (Gv 17).

3.4. GESÙ, I DISCEPOLI, LA CHIESA

I testi dell’istituzione, se esprimono il volgersi del Figlio al Padre, manifestano nello stesso
tempo il suo riferimento premuroso e attento ai discepoli e alla comunità che nascerà dalla
celebrazione della nuova pasqua che sarà loro affidata. Possiamo verificare questo dato da un
duplice punto di vista: a partire dalla consapevolezza di Gesù e in relazione ai destinatari dei suoi
gesti e parole e del suo comando.

a) La consapevolezza di Gesù
L’ultima cena appare inserita, in tutto il suo svolgimento, in un vivo contesto relazionale: è
riservata all’intimità del gruppo dei discepoli e presenta una struttura fortemente dialogica,
interpersonale. Gli stessi gesti del «dare» e i pronomi personali usati («mio corpo», «mio sangue...»,
«per voi...», «per molti...») rivelano la volontà del Signore di fare di questo gruppo la sua comunità,
la comunità escatologica del suo Regno. Se Gesù sta per lasciare i discepoli, egli sa che attraverso la
sua morte si realizzerà la nuova alleanza da cui scaturirà la Chiesa, nuovo Israele di Dio nella storia.
In questa nuova comunità, Gesù in persona sarà presente quale «cibo di vita» e «bevanda di
salvezza». Tale presenza sarà legata alla «memoria» che i discepoli faranno della sua pasqua. In tal
senso, lo spezzare il pane da parte di Cristo e il far comunicare al calice della sua alleanza
rappresenta un atto di natura sacramentale col quale egli inaugura la nuova comunità messianica e
istituisce il mistero eucaristico. Di tutto questo Gesù è perfettamente consapevole, anche se i disce-
poli al momento non sono in grado di comprenderlo e soltanto dopo gli eventi pasquali ne
percepiranno il pieno significato. «Fate questo in memoria di me» (ICor 11,24-25; Lc2,19): nel
momento in cui Gesù si incammina verso la croce, egli - come Signore del futuro - lascia in anticipo
la sua presenza che si attuerà ogni volta che i discepoli faranno «memoria» della sua pasqua. Sarà
da questa «memoria» che la Chiesa nascerà e rinascerà di continuo come comunità pasquale-
eucaristica.

Il rito del pasto, d’altronde, esprimeva in pieno un simile contenuto. Il simbolismo dello
spezzare il pane, come si è notato, si riferisce all’unità di tavola che si realizza nell’atto di
condividere il medesimo cibo e di partecipare alla medesima corrente di benedizione divina. La
stessa cosa vale per il calice. Questo simbolismo assume tutto il suo significato in relazione alle
parole di Gesù che accompagnano i gesti del «benedire» e del «dare»: quel «pane» dev’essere
«preso» e «mangiato»; quel «vino» dev’essere «bevuto» e fatto passare tra i commensali; essi sono
il suo corpo e il suo sangue, essendo stati collegati alla sua persona. Il corpo dato e il sangue versato
rappresentano, in quanto tali, il fondamento dell’essere della Chiesa sgorgata dall’evento della
morte e risurrezione di Cristo. «Corpo» - nel linguaggio biblico - indica la totalità della persona,
interamente donata; «sangue dell’alleanza» richiama sia il sacrificio di morte cui Gesù va incontro
sia il frutto universale (nuovo popolo) che da esso scaturisce. Se poi si tiene conto della convinzione
diffusa che il corpo è ciò che conduce ad unità le singole membra (ICor 12), si può intuire quale
ricchezza ecclesiologica sia nascosta nelle parole dell’istituzione: i discepoli di Gesù, facendo
proprio quel corpo donato sotto forma di pane, divengono un’unità fra loro, al punto da formare una
koinónia, un unico corpo (ICor 10,16-17). Il fondamento di tutto è il sangue della nuova alleanza
versato per i «molti» (Mc/Mt), intendendo con questa espressione la moltitudine, la totalità degli
uomini. Gesù, infatti, al di là del gruppo dei suoi discepoli, guarda alla Chiesa che - quale comunità
universale - si svilupperà da quel «piccolo resto» e, offrendosi alla Chiesa, si offre in dono
all’umanità intera.

b) I destinatari del comando


Se è il Signore e Maestro a dominare l’insieme della scena dell’ultima cena, i discepoli non
vi appaiono assenti o passivi. Il loro stesso silenzio è anzi più eloquente di qualsiasi discorso: indica
il loro essere raccolti attorno al loro Signore e Maestro come la sua comunità, la comunità dei tempi
messianici, e lascia intravedere che ciò che essi sono chiamati a fare è quanto Gesù per primo ha
realizzato nella sua persona con la pasqua. La cena che celebreranno, ogni volta che si riuniranno
per spezzare il pane, sarà «la cena del Signore» (ICor 11,20). Del resto, quel che interessa ai
narratori del NT non è mettere in evidenza ciò che i discepoli fanno durante l’ultima cena, ma ciò
che essi dovranno vivere in seguito, in obbedienza al comando-consegna del Signore Gesù. Nel
momento in cui siedono a tavola, i discepoli prendono il pane e ricevono il calice, mangiano e
bevono, ma ciò è essenzialmente indirizzato al futuro preannunciato dal Maestro; il che implica, da
parte loro, una duplice presa di coscienza. In primo luogo, che essi vedano Gesù come colui che è
padrone del proprio destino ed è perciò in grado di assicurare il futuro della sua comunità: quanto i
discepoli devono fare lo devono fare «in memoria di lui», come suo memoriale, non come qualcosa
che appartiene loro o che sarebbe nelle loro possibilità. Sotto tale profilo, il racconto della cena di
addio è interamente incentrato sulla persona di Cristo. Celebrando il ricordo della nuova pasqua, i
discepoli incontreranno proprio lui e rivivranno il dono della sua presenza, al punto che la sua
dipartita dal mondo è solo la condizione di una sua nuova forma di attuazione del tempo vissuto con
lui. Ciò suppone, in secondo luogo, che i discepoli comprendano sempre più chiaramente che anche
dopo la sua morte Gesù continuerà a essere colui che li riunisce come comunità messianica e li farà
esistere al cospetto del Padre come nuovo Israele che proclama il suo mistero pasquale «finché egli
venga» (ICor 11,26). E come per Gesù celebrare la sua pasqua significa passare dalla morte alla
vita, così anche per i suoi discepoli la «memoria» pasquale-eucaristica è atto che fa passare inces-
santemente dalla morte alla vita proclamando la sua presenza nella Chiesa. L’eucaristia che Cristo
istituisce durante l’ultima cena appartiene a questo dinamismo: è attestazione costante della sua
venuta fra i suoi, come ricorda con forza la più antica preghiera eucaristica della comunità
apostolica, il Maranà tha (ICor 16,22 e Ap 22,20), inteso sia come indicativo (il Signore viene) che
come imperativo (Vieni, Signore). Il clima dell’assemblea eucaristica della Chiesa delle origini è
caratterizzato da questa memoria che si fa presenza e profezia in atto.

c) Consegna della «memoria» eucaristica


La pasqua di Gesù recupera il significato complessivo del «memoriale» dell’antica
economia e, in particolare, della pasqua e lo conduce a pienezza. «Fate questo come mio
memoriale» (Lc2,19; ICor 11,24-25), proclama Gesù al momento di andare incontro alla morte. Un
«memoriale» che, al pari di Israele, caratterizza in profondità l’identità della nuova comunità,
popolo della nuova alleanza e nuovo Israele di Dio nella storia. Una prospettiva in qualche modo
sottesa alla stessa teologia lucana del «ricordo». Si pensi, ad esempio, alla consapevolezza espressa
nel Benedictus: «Il Signore si è ricordato della sua alleanza» (Lc,72) o al messaggio degli angeli
alle donne in Lc4,6-8 all’interno di tutto il capitolo 24: la comunità post-pasquale riconosce il
Signore e «ricorda» le parole che egli aveva detto prima della pasqua. La «memoria» scaturisce, in
questo caso, dalla consapevolezza che il Signore è il Risorto ed è letta come l’«esperienza» della
sua nuova presenza nella comunità mediante la parola, lo spezzare il pane e la comunione fraterna
(Lc4,30-31.35). La stessa teologia giovannea non è priva di un’analoga convinzione: si pensi alla
ricchezza della formula «si ricordarono» (emnésthesan) di Gv 2,17.22; 12,16 nel contesto pasquale
entro cui si situa o al concetto di memoria come «passaggio» di Cristo dal Padre al mondo e dal
mondo al Padre (Gv 1,1.14; 13,1), a cui si collega la «memoria» della Chiesa come frutto dello
Spirito promesso e donato dal Risorto (Gv 14,15-17.26; 15,26; 16,7-15; 20,22-23). 399 Ma è
soprattutto al comando eucaristico di Gesù (Lc2,19; ICor 11,24) che occorre far riferimento per
cogliere il senso della comunità cristiana come comunità che vive della memoria pasquale e, in
essa, si rigenera e si edifica. Il testo greco «touto poiéite eís ten emèn anàmne- sin» dev’essere
preferibilmente tradotto con «Fate questo come mio memoriale». L’espressione «eís ten emèn
anàmnesin» riecheggia, infatti, un semitismo (introdurre un predicato verbale con una preposizione,
eís), piuttosto frequente nella Bibbia ebraica (ad esempio: «lo unsero in re» per «lo unsero come
re»). L’ordine che Gesù lascia ai suoi si collega con evidenza al concetto ebraico di «memoriale»,
almeno come contesto culturale e d’intelligibilità. La sua novità consiste nel rimandare non all’an-
tico esodo, ma al «passaggio» pasquale, di morte e di resurrezione, che Cristo stesso vive in sé per
tutti, come servo fedele del Signore. Il suo comando implica l’invito a «far memoria»
d&Wéschaton decisivo che si sta compiendo in lui; un invito affidato ai Dodici e quindi alla
comunità ecclesiale in quanto comunità dei tempi escatologici.

Il soggetto del «memoriale» rimane Dio, colui che risusciterà il Figlio da morte e lo farà
sedere alla sua destra nella potenza dello Spirito. Non senza fondamento, J. Jeremias ritiene che il
comando si colleghi alla forza salvifica di YHWH e la evochi a tal punto da poter essere parafrasato
nel modo seguente: «Fate questo come mio memoriale, perché Dio si ricordi di me». Il motivo è
che la formula eís anàmnesin, specie nel linguaggio liturgico del tardo giudaismo, aveva
normalmente Dio come soggetto e supponeva un farsi valere davanti a YHWH per provocare la sua
azione.400 La spiegazione di Jeremias dev’essere tuttavia completata dalla consapevolezza che se
Dio ricorda il Figlio suo, risuscitandolo da morte, ciò vale anche per la Chiesa resa partecipe del
nuovo esodo del Risorto e abilitata in tal modo a celebrare il mistero della nuova pasqua come
comunità dei tempi ultimi della salvezza. La potenza salvifica di Dio opererà entrambe le
meraviglie: la risurrezione di Cristo e l’attualità del suo mistero pasquale nell’oggi della comunità
credente riunita per «farne memoria». La dimensione cristologica del «memoriale» è inseparabile,
in altre parole, dalla dimensione ecclesiologica. Il comando eucaristico assume, di conseguenza, un
fondamentale spessore escatologico: celebrando il memoriale della pasqua, la comunità proclama
in atto ciò che è diventata «una volta per sempre», riconosce la presenza del Risorto nelVassemblea
eucaristica riunita nel suo nome e implora il suo avvento, in attesa della definitiva consumazione
della storia.401 La «memoria» eucaristica si colloca tra il passato della morte-risurrezione di Cristo e
il futuro della sua venuta gloriosa. Non si deve infatti dimenticare che già il rito pasquale ebraico,
sia nella sua forma di benedizione (berakah) che nella sua struttura di narrazione cultuale
(haggadah), supponeva la consapevolezza di una presenzializzazione dell’evento passato e una
399Sul tema del «venire» e del «tornare» di Gesù al Padre nel Vangelo di Giovanni, cf. V. PASQUETTO, Incarnazione e comunione
con Dio. La venuta di Gesù nel mondo e il suo ritorno al luogo di origine secondo il IV Vangelo, Roma 1982.
400J. JEREMIAS, Le parole dell’ultima cena, Brescia 1973,296-318.
401JEREMIAS, Le parole dell’ultima cena, 307-310. Questa valenza attuativa della celebrazione del memoriale eucaristico nella
Chiesa, anche in riferimento al testo di ICor 11,24-25 con il suo ampliamento nel v. 26, è stata ampiamente dimostrata da un numero
considerevole di autori contemporanei. Ci limitiamo a ricordare: H. SCHÜRMANN, Der Abendmahlsbericht Lucas 22, 7-38, Paderborn
1957; M. THURIAN, L’Eucaristia, memoriale del Signore, Roma 1967; H. KOSMALA, «Das tut zu meinem Gedächtnis», in Novum
Testamentum 4(1960), 81-94; H. PATSCH, «Anàmnesis», in Exegetische Wörterbuch zum NT 1(1980), 203-205; X. LÉON-DUFOUR,
«Faites ceci en mémoire de moi», in Christus 24/94(1977), 200-208; Id., Condividere il pane eucaristico, Leumann (TO) 1983,179-
282.
costante tensione messianica verso il futuro. Situando il suo comando nel contesto della pasqua
ebraica e affermando che la nuova pasqua è quella che si realizza in lui, Gesù conferisce
all’eucaristia un valore unico: essa sarà l’attualizzazione perenne della sua presenza e della sua
pasqua, finché egli torni, e la sorgente vitale della Chiesa come comunità pasquale. La «memoria»
che Gesù consegna diviene «memoria-in-atto» in forza di cui lo stesso Risorto si incontra con noi,
attualizzando la sua oblazione pasquale in ricordo al Padre e rendendo partecipe la comunità dei
discepoli dei frutti della redenzione realizzata «una volta per sempre» in favore dell’umanità.

4.Assemblee eucaristiche nella comunità apostolica

Non è facile avere un’idea del modo in cui, nelle comunità cristiane delle origini, era
celebrata l’eucaristia all’indomani della pasqua e della Pentecoste. I testi neotestamentari in nostro
possesso (ICor 11,17-34; 10,16-17; At 2,42.46; 20,7.11; 27,35) sono tuttavia sufficienti per delinear-
ne alcune prospettive di fondo.

4.1. La TESTIMONIANZA DI PAOLO

Fin dagli anni 50, Paolo aveva trasmesso alla comunità di Corinto quanto egli stesso aveva
ricevuto prima del 40, epoca della sua conversione e del suo primo contatto con la comunità di
Antiochia (At 9,1-25) e con quella di Gerusalemme (At 9,26-30; Gal 1,18-20). Nella Prima lettera
ai Corinzi, da collocare verso il 54-55, l’Apostolo dà per scontato che la comunità si ritrovi in
assemblea eucaristica per celebrare la «cena del Signore»; ciò che gli preme è di richiamare i suoi
interlocutori alla consapevolezza del contenuto dell’eucaristia e perciò del modo in cui deve essere
creduta, celebrata e vissuta.

A Corinto la celebrazione dell’eucaristia era preceduta da un pasto in comune o agape.


Questo non ha niente di sorprendente se si ricorda il significato che il pasto aveva nel giudaismo, sia
in circostanze particolari della vita familiare (circoncisione, matrimoni, funerali), sia in riferimento
al culto e alle feste religiose (solennità particolari, pasto di comunione nel cortile del tempio dopo il
sacrificio, banchetto pasquale). Vi erano anche gruppi particolari, come i farisei e gli esseni, che
organizzavano dei propri banchetti, chiamati habburòt, con i quali s’intendeva manifestare la
coscienza di aver ricevuto tutto da Dio e di formare il «resto fedele» chiamato a ricostruire l’Israele
di Dio nel compimento dei tempi messianici. Presso gli stessi pagani esistevano pasti cultuali che,
dopo i sacrifici sacri, riunivano gli offerenti per la consumazione dei resti della vittima immolata
(ICor 10,19-22). Risultava perciò del tutto normale che la comunità ecclesiale di Corinto, formata
da cristiani provenienti sia dal giudaismo che dal paganesimo, celebrasse l’eucaristia durante un
pasto finalizzato a manifestare e consolidare la comunione fraterna. Del resto, ciò corrispondeva
perfettamente alle circostanze storiche nelle quali si era svolta l’ultima cena di Gesù ed era nata
l’azione eucaristica. Non è neppure da escludere che in tal modo si volesse inserire il riunirsi
eucaristico in un contesto concretamente caritativo, con particolare riferimento ai più bisognosi
della comunità. In ambiente ebraico, specie a Gerusalemme, sembra accertata l’usanza del «piatto
del povero» distribuito alla vigilia di ogni sabato. Se si pensa al «servizio della mensa» cui fa
riferimento At 6,2 e al clima di condivisione al quale, sia pure in forma idealizzata, si richiamano i
sommari lucani (At 2,42-47; 4,32-35; 5,12-16), si può supporre con buon fondamento che il pasto di
ICor 11,17-34 fosse indirizzato alla distribuzione dei doni ai più indigenti della comunità, in modo
tale che la celebrazione eucaristica apparisse legata alla fraternità e al servizio ecclesiale. È
d’altronde su tali preoccupazioni che si poggia gran parte dell’argomentazione critica paolina: una
riunione indirizzata per sé a esprimere comunione e aiuto ai più poveri è diventata invece occasione
per dividere gli animi e mettere in evidenza le disuguaglianze. Questo, dice Paolo, «non è più man-
giare la cena del Signore» (11,20), perché non manifesta più il vero senso del pasto fraterno
collegato alla memoria della cena di Gesù con i suoi. Se la fraternità non è rispettata, non si
riconosce in quel che si celebra ciò che il Signore ha detto di fare come suo memoriale e si finisce
per disprezzare il significato profondo dell’eucaristia. Proprio per questo l’Apostolo riporta il
racconto dell’ultima cena con il comando del Signore trasmesso dalla Chiesa (11,23-25) e spiega
ciò che suppone il celebrarla nella comunità (11,26). Se l’eucaristia, dice in sostanza Paolo, è la
memoria vivente della morte del Signore, comunicarsi con il pane e con il calice benedetti è entrare
in una comunione di vita col suo corpo e col suo sangue e diventare quindi un solo corpo in lui
(10,16-17). Ciò significa che chi, riunendosi in assemblea eucaristica, non vive la fraternità, non ha
neppure compreso il senso reale dell’eucaristia, dal momento che non riconoscere nel pane e nel
vino il corpo e il sangue di Cristo, e partecipa quindi in modo indegno all’«annunzio della sua
morte», «mangiando» e «bevendo» la propria condanna (11,27-29). Non si può infatti dire di aver
accolto la realtà del corpo di Cristo «dato» e del sangue di Cristo «versato», se non si risponde alle
esigenze di comunione che una tale accoglienza implica. Nella prospettiva paolina, i due eventi
(quello eucaristico e quello ecclesiale) costituiscono un solo e medesimo atto di discernimento o di
condanna: non si può accettare l’uno senza accettare l’altro, e viceversa.

Il nucleo centrale di questo gesto celebrativo è l’incontro vivo con colui che, risorto da
morte, è la ragion d’essere stessa della comunità e del suo riunirsi in assemblea: il Signore Gesù che
è venuto, viene in mezzo ai suoi, e verrà a portare a compimento la storia. È lui l’Ospite di ogni
celebrazione eucaristica. Il pane spezzato e il calice benedetto sono «comunione col suo corpo» e
«col suo sangue» e proclamazione in atto del ritorno glorioso del Signore. A questo tema Paolo
aveva fatto cenno già nel capitolo precedente della Prima lettera ai Corinzi, supponendo che una
tale prassi fosse ben conosciuta dai suoi interlocutori (ICor 10,16-17). Il contesto di questo cenno è
tuttavia diverso rispetto al capitolo undici: riguarda l’opposizione tra la mensa del Signore e la
mensa del demonio, la celebrazione eucaristica e i pasti idolatrici (10,14.19-21). Ciò che
caratterizza la mensa del Signore è di essere comunione col corpo e col sangue di Cristo: «Il calice
della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane
che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?» (10,16). Con il plurale «noi
benediciamo», «noi spezziamo», Paolo sembra richiamarsi all’azione rituale compiuta dal
presidente dell’assemblea a nome di tutti. L’inversione degli elementi del pane e del vino non
indica una sequenza celebrativa, ma riveste piuttosto un carattere funzionale, in quanto serve
all’apostolo per continuare il suo discorso sulla realtà di un unico-pane-spezzato che fonda
l’identità di un unico- corpo-ecclesiale: «Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un
corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (10,17). L’eucaristia, come presenza
sacrificale-conviviale di Cristo, si pone in netta contrapposizione ai pasti dei pagani e si offre come
evento di grazia che manifesta e realizza la Chiesa, plasmandola come corpo di Cristo nell’unità di
un unico Spirito, di un unico Signore, di un unico Dio e Padre di tutti (ICor 12,1-27).

4.2. LA TESTIMONIANZA DEGLI ATTI

Gli Atti ricordano più volte un gesto che la comunità compie fin dai suoi inizi. L’autore ne
parla come di un gesto in corso da tempo, limitandosi a indicarlo con la dizione tipicamente
giudaica di «frazione del pane». L’unica precisazione che offre è che esso avviene «nelle case» (At
2,46), in un quadro comunitario a forte impronta liturgica, come è per la riunione di Gerusalemme
(At 2,42.46) o per quella di Troade (At 20,7.11). Il gesto dello «spezzare il pane», come si è notato,
era il gesto che dava inizio al pasto giudaico; esso era preceduto dalla preghiera di benedizione e
seguito dalla distribuzione dei pezzi ai singoli commensali, l’atto significava «comunione di tavola»
e partecipazione alla benedizione di Dio, il Donatore, creduto presente nell’atto della condivisione. I
primi cristiani si sono indubbiamente collegati a questo uso, al quale Gesù stesso si era attenuto, ma
rileggendolo nel contesto della «cena del Signore», come appare dai testi paolini e in particolare in
ICor 10,16-17, dove viene fatto un espresso riferimento all’azione dello «spezzare il pane» in senso
eucaristico. Lo scopo di questo pasto non è semplicemente di saziare i convitati, ma di far rivivere
ai credenti l’evento nuovo della pasqua del Kyrios.

«Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nella


frazione del pane e nelle preghiere» (At 2,42). La «frazione del pane» è inserita in un ambito
ecclesiale-orante di notevole significato: essa si colloca infatti tra l’insegnamento degli apostoli, e la
comunione ecclesiale che ne consegue, e le «preghiere» nel nome di Gesù tipiche delle assemblee
primitive (ICor 10,31; Ef 5,18-20; Col 3,16- 17). Tutta la celebrazione è profondamente pervasa
dalla gioia messianica (agalliasis, At 2,46) come segno e manifestazione della consapevolezza
dell’adempimento dei tempi annunciato dai profeti (Ap 19; lPt 4,13).402 In Gesù, Dio ha realizzato le
promesse fatte a Israele e inviato lo Spirito Santo atteso, facendo sorgere da quell’alleanza di morte
e risurrezione il nuovo popolo di Dio. Il riunirsi eucaristico proclama questo evento e lo rinnova
instancabilmente. Una convinzione analoga soggiace al racconto della «frazione del pane» celebrata
a Troade, della quale Luca si dice testimone, accompagnando Paolo nell’ultimo grande viaggio
missionario (At 20,7-8.11). I cristiani si riuniscono di sabato sera, nel momento in cui inizia il
giorno solenne, «il giorno del Signore». La sala è illuminata da molte lampade, trattandosi di
un’assemblea liturgica come appare dal verbo synàgo. La finalità del riunirsi è di celebrare la
«frazione del pane», in un contesto di liturgia della Parola e di insegnamento che si prolunga fino
all’alba. Dato che questa riunione si svolge la domenica è difficile negare che si tratti di una
riunione eucaristica. Del resto, la fractio panis di At 20,7-8.11 deve essere vista alla luce di quanto
lo stesso Paolo aveva detto nella Prima lettera ai Corinzi, poco tempo prima di passare per Troade
(ICor 10,16-17; 11,17-34). La stessa vicenda del ragazzo che muore e torna in vita (At 20,9-10)
sembra assumere un contenuto di tipo simbolico-eucaristico: l’apostolo, durante la «frazione del
pane», avrebbe parlato della potenza di risurrezione dell’eucaristia, il miracolo del ritorno alla vita
del fanciullo caduto rappresenta l’attestazione della veridicità dell’omelia. Un ultimo riferimento
alla «frazione del pane» nella Chiesa primitiva si trova in At 27,33-38: l’apostolo è in viaggio verso
Roma; durante una tempesta che mette in serio pericolo l’incolumità di tutti, prende l’iniziativa di
un pasto che Luca ha cura di presentare in termini eucaristici, mettendo in relazione la «frazione del
pane» con la salvezza della nave e lasciando intravedere - sia pure velatamente - come l’eucaristia
possegga una forza di salvezza per tutti.

5. Dottrina eucaristica di Giovanni

Giovanni conosceva la prassi eucaristica della Chiesa apostolica. Se non riporta il racconto
dell’istituzione, ciò è dovuto al fatto che questo racconto era già conosciuto dalle sue comunità e
utilizzato nella liturgia, essendo già stato riportato dagli altri scrittori del NT. Ma forse vi è anche un
motivo più profondo: è probabile che l’evangelista volesse far comprendere come l’eucaristia,
celebrata nella Chiesa, fosse da comprendere nel contesto più ampio di tutta l’esistenza di Gesù,
vista come una glorificazione del Padre nel venire in mezzo a noi per darci la sua vita e nel tornare
al Padre per attirarci a sé. È in tale contesto che vanno compresi la ricchezza del discorso sul pane
di vita e lo stesso testamento di addio del Signore e Maestro prima di incamminarsi verso la
croce.403

5.1. IL DISCORSO SUL PANE DELLA VITA

402Cf. R. BULTMANN, «Agalliàomai», in GLNT, 1,51-58.


403Cf. R. SCHNACKENBURG, Il Vangelo di Giovanni, Brescia 1977, II, specie 115-159; H. SCHLIER, «Il capitolo 6 del Vangelo di
Giovanni e la concezione giovannea dell’eucaristia», in La fine del tempo, Brescia 1974,115-139.
Tutta l’esistenza di Gesù è come un grande passaggio pasquale: dal Padre al mondo
(l’incarnazione), dal mondo al Padre (morte e risurrezione) 404 È in virtù di questo passaggio che si
manifesta e si attua la salvezza dell’umanità (Gv 3,13-15). I sacramenti, secondo Giovanni, mani-
festano lo stesso dinamismo. Il battesimo è un rinascere dall’alto, e quindi un itinerario di discesa e
di risalita a immagine dell’itinerario vissuto dall’Unigenito (3,1-15). Il discorso sul pane di vita
(6,26-66) si inscrive in un medesimo movimento di discesa e di risalita: il dono dell’eucaristia è il
pane vivo disceso dal cielo che fa risalire verso il Padre. Un pane che Dio dona a tutti come un pane
imperituro, in grado di dare la vita al mondo, non come quello che mangiarono gli ebrei nel deserto
e morirono (6,31-33). Di fronte alle obiezioni dei giudei, il discorso di Gesù si snoda come un
progresso continuo, fino all’attestazione esplicita di un cibo e di una bevanda qualificati come la
sua carne e il suo sangue per la vita del mondo. Letterariamente il discorso si suddivide in cinque
sezioni:
- il vero pane di Dio (vv. 26-34);
- Gesù è il pane di Dio (vv. 35-47);
- il pane vivo che dà la vita (vv. 48-51);
- la vita nel mangiare la sua carne e bere il suo sangue (vv. 52-58);
- l’esigenza della fede (vv. 59-66).

Il punto di arrivo è la proclamazione di Gesù come vittima offerta in sacrificio («carne» e


«sangue») e come dono quindi di redenzione universale. Questa vittima è identicamente colui che si
fa «cibo» e «bevanda» eucaristici: «Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la
vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vive per me» (6,55-
57). La parola «carne» evoca la stretta relazione esistente tra rincarnazione (Gv 1,14), la croce e
l’eucaristia, dal momento che il credente si nutre in essa dell’Unigenito di Dio fatto Uomo, morto
per noi, e vive di lui e in lui, il Risorto in eterno. Questa relazione può essere accolta solo nella fede.
La ragione umana, da sola, ne è incapace (6,59-66). L’eucaristia risulta così inseparabilmente
collegata con la disponibilità di chi crede e rimanda a una rilettura altrettanto credente della persona
di Gesù e del suo evento pasquale. «Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; e noi
abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (6,68-69).

5.2. IL TESTAMENTO DI ADDIO

capitoli 13-16 del quarto Vangelo sono una «celebrazione di addio» che sintetizza
perfettamente la prospettiva teologica della testimonianza giovannea. Gesù sta vivendo «l’ora» di
passare da questo mondo al Padre (13,1); tutta la sua vicenda è un itinerario pasquale: venuto dal
Padre, adesso, giunta la sua ora, torna al Padre. L’evento pasquale realizza questo ritorno. Già la
croce costituisce l’inizio della sua risalita al luogo di origine. I discepoli devono ripercorrere questo
medesimo itinerario; non possono sottrarvisi, come pensa di fare Pietro quando si rifiuta di lasciarsi
lavare i piedi dal Maestro e Signore. «Se non ti laverò (i piedi), non avrai parte con me» (Gv 13,8).
Al pari dell’ultima cena, l’episodio della lavanda (Gv 13,2-20) rimanda al passaggio pasquale
dell’Unigenito di Dio che sulla croce si fa servo obbediente del Padre e morendo attira tutti a sé (Gv
12,32-33). La scena manifesta il senso totale della sua esistenza: il dono del consegnarsi alla morte
in risposta alla volontà del Padre (Gv 10,1-18). È grazie a questo passaggio/dono che noi possiamo
essere «lavati» dalle colpe e aver parte al suo Regno (13,7-9); un dono che, come si vedrà, diventa
paradigma di riferimento per la comunità dei discepoli (13,15: «Vi ho dato l’esempio perché, come
ho fatto io, facciate anche voi»).

404Si pensi alla struttura del prologo di Giovanni (1,1-18), aU’inciso di 13,1 e ai verbi ricorrenti di «discendere» e «risalire»,
«venire» e «tornare».
L’episodio della lavanda dei piedi porta con sé un riferimento indiretto all’eucaristia, in
quanto lascia intravedere come la memoria della pasqua - secondo Giovanni - dovrà essere
compresa nel contesto del servizio che Gesù ha vissuto in prima persona e quindi del servizio
fraterno reciproco che i discepoli sono chiamati a incarnare in tutta la loro vita, alla luce del
comandamento nuovo lasciato dal Signore come suo testamento spirituale. E tale è il tema
dominante di tutto il discorso di addio (13,34-35; 15,12-13) e della «preghiera sacerdotale» (17,1-
26). L’eucaristia è dono di amore che richiede un contesto di amore, sul modello di quello realizzato
da Cristo con la sua vita e la sua morte. È questo l’aspetto di cui maggiormente si preoccupa
l’apostolo Giovanni, forse anche in riferimento a forme di ritualismo esteriore che già al suo tempo
si stavano infiltrando nell’atto della celebrazione eucaristica.22
22 Per un approfondimento di questa prospettiva, cf. gli studi riportati in C. ROCCHETTA (ed.),
«Universa nostra caritas est eucharistia». Per una teologia dell’eucaristia come teologia della
comunione e del servizio, Bologna 1994.
CAPITOLO SECONDO STORIA DEL DOGMA

La «cena del Signore» è stata al centro della comunità cristiana fin dai primi inizi non tanto
come tema di studio o oggetto di speculazione quanto come prassi celebrativa, vissuta in un clima
di fede, di incontro con il Risorto e di attesa del suo ritorno glorioso. Una «frazione del pane» in
ricordo della nuova pasqua a cui si sono collegati, sin dal tempo apostolico, l’ascolto della parola di
Dio illustrato dai responsabili della comunità, un pasto fraterno (agape) con la condivisione di beni
e le preghiere in comune (At 2,42; ICor 11,17-34) innalzate al Padre di Gesù il Cristo, il Messia dei
tempi attesi. Mediante il rendimento di grazie sui doni della mensa, la comunità sperimenta la
presenza del Kyrios, in una profonda continuità con l’esperienza degli apostoli e dei discepoli di
Emmaus, e celebra l’evento salvifico realizzato «una volta per sempre» nella morte e risurrezione
del Salvatore del mondo. L’eucaristia è il sacramento della nuova alleanza e la sua attualizzazione
nella Chiesa.

1. Epoca patristica

È in questo ambito che, sul fondamento dei racconti neotestamentari dell’istituzione i quali
avevano tradotto il «benedire» di Gesù con eulo- ghein (così Mc/Mt, a proposito del pane) o
eucharistein (Paolo/Lc in generale e Mc/Mt per il calice), l’azione celebrativa viene qualificata
come eucaristia, azione di grazie, molto presto come sinassi (synaxis), assemblea ecclesiale, e come
anafora, preghiera sui doni mediante l’invocazione dello Spirito; una terminologia che viene presto
ampliata a designare tutto il banchetto pasquale, con diverse linee di interpretazione teologica sia
alla luce della storia della salvezza che del suo evento centrale, Véschaton di Cristo. Le qualifiche,
pur con diverse accentuazioni, vengono a indicare il memoriale (zikkaròn/anàmnèsis), celebrato
nella riconoscenza per l’azione salvifica realizzata da Dio nell’invio del suo Unigenito, morto e
risorto per tutti. L’eucaristia rappresenta/ripresenta il ricordo della pasqua che il Signore Gesù
stesso attualizza nella sua comunità per far partecipare i credenti ai frutti della sua redenzione ed
edificare la Chiesa come il nuovo Israele di Dio nella storia.

1.1. PADRI APOSTOLICI E APOLOGISTI

Il primo documento patristico che fa riferimento all’eucaristia è probabilmente la Didachè;


una sorta di manuale catechetico-liturgico estremamente arcaico se è vero, come sostiene J. Audet,
che sarebbe stato composto in Siria non oltre il 70.4051 capitoli 9-10 contengono tre preghiere a
sfondo eucaristico: le prime due sono di preparazione all’azione celebrativa vera e propria,
concluse con l’invito che «nessuno mangi né beva della nostra eucaristia se non i battezzati nel
nome del Signore»; la seconda si presenta come una preghiera di accompagnamento in forma di
rendimento di grazie rivolta al Padre per la salvezza di Gesù, suo servo, e i doni eucaristici detti
cibo e bevanda spirituali, con la formula liturgica conclusiva: «Venga la tua grazia e passi questo
mondo! Osanna al Dio di David! Se qualcuno è santo venga; se non lo è, si converta. Maran thà!
Amen». I capitoli 14-15 si riferiscono direttamente alla Coena Dominica:

Nel giorno del Signore, radunati insieme, spezzate il pane e rendete grazie, dopo che avete
confessato le vostre colpe, affinché il vostro sacrificio sia puro. (...). Lo ha detto il Signore. «In ogni
luogo e tempo si offra a me un sacrificio puro, perché io sono il gran Re e il mio nome è mirabile in
mezzo alle genti» (MI 1,11). Provvedetevi dunque con l’ordinazione di vescovi e diaconi degni del
Signore, di uomini pacifici e distaccati dal denaro, soggetti idonei alla celebrazione del servizio
liturgico.

Sono notevoli gli elementi liturgici presenti in questo antichissimo testo:


405J. AUDET, La didachè. Instructions des Apòtres, Paris 1958.
• il «dunque» che fa da passaggio tra il capitolo 14 e il 15 evidenzia come si tratti di un’unica
prescrizione: l’azione celebrativa collegata alla necessità di procurarsi i ministri per la sua
presidenza;
• la domenica (dies Domini) è il giorno della celebrazione; annotazione confermata da
Giustino nella sua Prima Apologia e, più tardi, da Tertulliano nel De Oratione, 19;
• l’assemblea eucaristica è concepita come una convocazione («radunati insieme»), segno
della comunità del Signore risorto e del nuovo popolo di Dio;
• l’azione celebrativa è qualificata con la dizione di fractio panis ed è intesa come un
rendimento di grazie, eulogia, implicante l’idea di un sacrificio spirituale, universale e non cruento,
come quello preannunciato da Malachia per i tempi messianici;
• l’atto eucaristico è preceduto da una confessione delle colpe dei presenti, perché si partecipi
all’oblazione con verità e carità fraterna;
• si conclude con l’invito ad assicurarsi i vescovi e diaconi che possano presiedere e cooperare
all’attuazione del gesto eucaristico; ministerilità di cui parlerà diffusamente Ignazio di Antiochia
nelle sue lettere, auspicando «una sola eucaristia», dal momento che «una è la carne del Signore
nostro Gesù Cristo e uno il calice nell’unità del suo sangue, uno l’altare, uno il vescovo con i
presbiteri e i diaconi» (Ad Phil., 4).

L’identità dell’azione eucaristica risulta chiaramente espressa, fin dall’inizio del II secolo,
nella Prima Apologia di Giustino, dove - dopo aver trattato del battesimo (capitoli 61-64) - si
descrive la comunità dei battezzati come un’assemblea celebrante nella quale ci si saluta con un
bacio di pace, si presentano i doni del pane e del vino, si innalza una lunga preghiera di lode e di
supplica al Padre nel nome del Figlio suo Gesù Cristo, alla quale tutti rispondono: «Amen Amen» in
lingua ebraica; segue la comunione ai doni consacrati, riservandosi una porzione di pane da portare
agli assenti (capitolo 65). Nel capitolo 66, Giustino propone, inoltre, una densa sintesi di dottrina
eucaristica:

Questo alimento è da noi chiamato eucaristia. A nessuno è permesso mangiarne, se non a


colui che crede essere vero ciò che noi insegniamo, che è stato battezzato col battesimo della
remissione dei peccati e della rigenerazione e vive come Cristo ha raccomandato. Poiché noi
non mangiamo questi doni come se fossero pane e bevande comuni; ma allo stesso modo
con cui Gesù Cristo nostro Salvatore, in quanto Verbo di Dio, ha preso carne e sangue, così
anche l’alimento eucaristizzato mediante la parola che viene da lui - alimento di cui il nostro
sangue e la nostra carne si nutrono in vista della trasformazione - abbiamo appreso essere la
carne e il sangue di Gesù Cristo incarnato. Gli apostoli infatti, nelle testimonianze da loro
scritte e da noi chiamate Vangeli, ci hanno riferito che a loro era stato comandato così: «Fate
questo in memoria dì me; questo è il mio corpo». E del pari, avendo preso una coppa, Gesù
ha reso grazie dicendo: «Questo è il mio sangue». E ad essi soli egli ne diede (...). Da allora
facciamo sempre fra di noi la memoria di tutto questo.

Al capitolo 67, VApologia descrive, infine, lo svolgimento dell’azione eucaristica nel


«giorno del sole», facendo riferimento a una liturgia della parola («si leggono le memorie degli
apostoli e dei profeti»), a un’omelia tenuta dal presidente, alla liturgia eucaristica prima delineata,
alla distribuzione dei doni eucaristici e a una raccolta di beni per i più poveri.

L’impostazione di fondo della Didachè e la spiegazione che Giustino fornisce dell’azione


eucaristica, specie al capitolo 65, lasciano intravedere gli inizi di due linee di pensiero teologico che
caratterizzeranno la patristica più antica: l’orizzonte dell’eucaristia come sacrificio spirituale e
quello dell’incarnazione eucaristica; due linee di pensiero in stretta correlazione tra loro.

L’eucaristia, sacrificio spirituale. Se l’eucaristia è ricordo nel quale si loda Dio e si


manifesta il ritorno del creato a lui, essa è in pari tempo realizzazione del sacrificio senza macchia
preannunciato dalle Scritture e attuato nella croce di Gesù. Secondo la Didachè e Giustino
l’eucaristia è in atto la celebrazione di questo ringraziamento (eucaristia), vero e perfetto sacrificio
gradito a Dio (Dial. 117,2; Corp. Apoi. 2,418). Una prospettiva, questa, che si ritrova in modo
particolarmente forte in Ignazio di Antiochia, anche se in un quadro più esistenziale-mistico che
dottrinale. Secondo lui, il convito del Signore realizza una vera unione col Cristo stesso, morto e
risorto (Eph. 20,2; Magn. 1,2; 7,3). E tale è il contenuto cristologico dell’eucaristia su cui si fonda
la sua interiore aspirazione al martirio: «Io desidero il pane di Dio, cioè la carne di Gesù Cristo, e
come bevanda desidero il suo sangue, cioè l’eterno convito di amore» (Rom. 7,3). Il banchetto della
cena del Kyrios è «la carne del Nostro Salvatore Gesù Cristo che ha sofferto per i nostri peccati e
che il Padre nella sua bontà ha risuscitato» (Sm. 7,1; anche: Rom. 7,3; Fil 4). L’eucaristia
rappresenta «l’unica carne di nostro Signore Gesù Cristo e l’unico calice che unisce al suo sangue»
(Philad. 4); un incontro con lo stesso Signore Gesù (Magn. 1,2; 7,3); «una medicina di immortalità
e un antidoto perché non si muoia, ma si viva sempre in Cristo» (Eph. 20,2). Più globale è la
prospettiva di Ireneo di Lione. La teologia dell’eucaristia si colloca nel quadro di una rilettura totale
del mistero redentivo del Signore glorioso in chiave di historia salu- tis. I doni eucaristici sono, per
lui, immagine viva e operante della creazione nuova, inaugurata dal Risorto, in cammino verso la
progressiva riconduzione di tutto verso il Padre per mezzo dello Spirito Santo. Egli testimonia che
«Gesù proclamò il calice suo sangue, con il quale inebrierà il nostro sangue, e assicurò che il pane
è il suo corpo, con il quale fortifica i nostri corpi»? Secondo Ireneo, i cristiani sacrificano,
ringraziando Dio per i suoi benefici (donatio) e consacrano gli elementi creaturali in relazione alla
novità dell’Unigenito incarnato e della sua grazia redentiva. Il sacrifi- ciò eucaristico non è anzitutto
un atto dell’uomo verso Dio, ma «un sacrificio spirituale» (thusia loghikè) di Dio verso l’uomo; un
atto che rende partecipi i credenti dell’unico atto di lode del Redentore. In esso non si escludono
ma, al contrario, si includono i doni della creazione, interiormente specificati e trasformati dalla
potenza dell’azione glorificatrice del Signore risorto. Le offerte sono assunte al di là del loro
significato visibile come simboli di una nuova realtà: il pane non è più solo pane, ma il corpo di
Cristo; il vino non è più solo vino, ma il sangue di Cristo; l’azione celebrativa non è semplicemente
il ricordo dell’esodo, ma la memoria dell’evento pasquale di Dio in Cristo Gesù e, come tale,
l’inaugurazione del mondo escatologico, il suo «già» e «non-ancora». 406 Una concezione anam-
netica che sarà tipica, anche se non esclusiva, della tradizione greca.407

L’eucaristia, incarnazione eucaristica. La prospettiva che abbiamo già visto presente in


Giustino suppone l’orizzonte appena accennato, ma è più orientata a sottolineare la continuazione
tra la venuta dell’Unigenito di Dio nella carne (Gv 1,14; 6,57) e la presenza di Cristo nei doni
eucaristici. Così, la cena del Signore, se è memoria della morte sacrificale di Gesù, è un evento che
dispiega al momento stesso la sua incarnazione nel tempo della Chiesa e la fa rivivere in forza dei
doni del pane e del vino consacrati. L’affermazione di Giustino citata è - sotto questo profilo - densa
di significato ed esprime una linea che sarà ripresa da gran parte della patristica: «Noi non
mangiamo questi doni come se fossero pane e bevande comuni; ma allo stesso modo con cui Gesù
Cristo nostro Salvatore, in quanto Verbo di Dio, ha preso carne e sangue, così anche l’alimento
eucaristizzato mediante la parola viene da noi appreso essere la carne e il sangue di Gesù Cristo
incarnato».408 Il convito del Signore è considerato in un oggettivo e reale parallelo sacramentale con
l’incarnazione: l’eucaristia è la carne e il sangue dell’Unigenito di Dio fatto Uomo. Anche in Ireneo
è reperibile una prospettiva analoga: gli elementi «ricevono il Logos di Dio e diventano eucaristia,
corpo e sangue di Cristo».409 L’eucaristia consiste, di conseguenza, «di due realtà, una celeste e
l’altra terrestre»? È per questa ragione che essa è creduta «farmaco di vita» e ci si accosta alla
mensa eucaristica come «pane di immortalità», e non come a un cibo comune.410 Infatti è mediante
il Logos fatto carne che i nostri corpi, alimentati dall’eucaristia, sono preparati alla resurrezione e -
in un certo senso - già introdotti in essa. La partecipazione all’azione eucaristica attesta, infatti,
l’inserimento del corpo nella redenzione apportata dal Risorto, in assoluta antitesi con quanto
pensava la gnosi, allo stesso modo in cui la presentazione dei doni del pane e del vino testimonia la
406Adv. haer., IV,18,6 (SCh 100,612).
407Così, ad esempio, La lettera di Barnaba, 5,3; CLEMENTE ALESSANDRINO, Strom. VII 79,2; GIOVANNI CRISOSTOMO, In Mt hom.
23 (PG 57,331).
408Apoi. 1,66; Corp. Apoi. 1,182.
409Adv. haer., V 2,3 (SCh 153,36).
410Adv. haer., Ili 19,1 e IV 38,1 (SCh 100, 646-948).
bontà del creato e il suo radicale orientamento a Dio. 411 Sussiste una profonda reciprocità tra
creazione e redenzione. «Il nostro modo di pensare è conforme all’eucaristia, allo stesso modo in
cui l’eucaristia si accorda con il nostro modo di pensare».412

Non è senza corrispondenza con questi sviluppi la formazione di una liturgia eucaristica
unitaria come quella già reperibile nell’ordinamento ecclesiastico di Ippolito, risalente all’inizio del
secondo secolo e comprendente una preghiera che celebra l’opera salvifica di Dio in Cristo e la sua
presenzializzazione nella memoria eucaristica della comunità.
Ti ringraziamo, o Dio, per mezzo del tuo diletto servo Gesù Cristo, che tu ci hai inviato negli
ultimi tempi come redentore, salvatore e messaggero della tua volontà salvifica. Egli è il tuo Logos,
unito a te inseparabilmente; per suo mezzo, tu hai creato ogni cosa. Secondo il tuo beneplacito lo
hai inviato dal cielo nel grembo della Vergine, ed in esso è diventato carne e si è mostrato quale tuo
Figlio, generato dallo Spirito Santo e dalla Vergine. Per compiere la tua volontà e acquistarti un
popolo santo, egli aprì le sue braccia alla passione in modo da salvare mediante la passione stessa
coloro che credono in te. E quando si consegnò volontariamente alla passione per vincere la morte,
per spezzare le catene del diavolo, per illuminare i giusti, per porre una pietra miliare e annunciare
la resurrezione, egli prese il pane, ringraziò e disse: «Prendete e mangiate! Questo è il mio corpo
che è stato spezzato per voi». Lo stesso fece con il calice dicendo: «Questo è il mio sangue, che
viene versato per voi. Ogni qualvolta fate questo, fatelo in mia memoria». Memori della sua morte e
resurrezione, noi quindi ti offriamo il pane e il calice ringraziandoti di averci trovati degni di stare al
tuo cospetto e di servirti. Ti preghiamo: manda il tuo Santo Spirito su questo offerta della Chiesa.
Raccogliendola nell’unità dà a tutti i santi che se ne cibano la pienezza dello Spirito Santo che ne
fortifichi la fede nella verità, affinché ti celebriamo e lodiamo mediante il tuo servo Gesù Cristo, per
mezzo del quale salgono l’onore e la gloria a te, Padre, e al Figlio insieme allo Spi rito Santo nella
tua Chiesa santa, ora e nell’eternità. Amen.

La preghiera contempla l’intero arco del compimento dell’evento di Cristo,


dall’incarnazione alla morte e resurrezione, compresa l’istituzione eucaristica. L’anàmnèsis
concerne tutto il mistero della salvezza ed è strutturata nella forma di un’offerta cultuale
(prosphorà). I due atti, memoriale e oblazione, sono considerati in stretta unità fra loro, in dipen-
denza dell’unica opera del Redentore: «ricordando... offriamo» (memores... offerimus). Secondo
l’impostazione teologica di Ippolito, è fonda- mentale inoltre il ruolo dell’epiclesi come principio di
compimento del mistero dell’eucaristia e della comunione dei credenti; un’invocazione che, a
partire dall’Egitto, assumerà la forma di una vera e propria epiclesi consacratoria precedente lo
stesso racconto dell’istituzione. È evidente come, a questo punto, la teologia eucaristica ci si offra
già con le sue connotazioni specifiche fondamentali di anamnesis, prosphorá, epiclesis, come verrà
ampiamente confermato dalle liturgie posteriori. La koinó- nia, già viva nelle testimonianze
precedenti, è ribadita nella Traditio in chiave di invocazione e di dossologia trinitaria. Si ha già
quella che possiamo qualificare come l’intelaiatura del canone romano.

1.2. TEOLOGIA ALESSANDRINA

L’essenza della fede, secondo gli alessandrini, consiste nella partecipazione dei battezzati al
Logos eterno; partecipazione resa possibile grazie alla venuta dell’Unigenito di Dio nel mondo e
alla sua consegna pasquale. L’eucaristia è manifestazione in atto di questo accadimento unico.
Clemente e Origene vedono nell’eucaristia il corpo e il sangue di Cristo, il Christus totus, presenza
e oggettivazione del Logos in linea con l’evento dell’incarnazione. Secondo Clemente, «il cibo è il
Kyrios Gesù, il Logos di Dio, Pneuma diventato carne, carne celeste santificata»413 e nutrimento
spirituale.414 La fede è chiamata a cogliere quanto la parola di Dio opera sui doni. «Non mettere in
dubbio che la presenza di Cristo sia vera; piuttosto accetta con fede la parola del Salvatore, perché
411Adv. haer.,V, 2,2 e 2,3 (SCh 153,36).
412Adv. haer., IV,18,5 (SCh 100, 611).
413Paed. I 6,42,3 e 43,3 (GCS 1115,20-24 e 116,21).
414Paed. 16, 41,3; 42,2; 47,2.
essendo egli la verità non può mentire». 415 Per Origene, il mistero dell’eucaristia è «il pane
sostanziale» donato dal Padre al mondo e quindi «il vero cibo, ossia la carne di Cristo, il Logos
secondo l’essere diventato carne».416 In forza della memoria celebrativa, l’Unigenito si rende
presente come cibo e bevanda spirituali per incontrare i battezzati e farli crescere nella comunione
con sé.417 Con particolare forza ammirativa, Teofilo di Alessandria espone un’analoga convinzione:
«Cristo oggi ci ospita; oggi ci serve. Cristo, l’amico degli uomini, ci offre il riposo... Il re della
gloria si lascia pregare, il Figlio di Dio dà ricevimento, il Dio-Logos divenuto carne ci incoraggia
ad andarvi».418 Non manca, tuttavia, nell’impostazione della scuola alessandrina, una tendenza
orientata a spiritualizzare talmente l’incontro col Cristo da svalutare la recezione del Logos sotto le
specie di un alimento materiale come il pane e il vino; un’impostazione reperibile negli Stromata di
Clemente (10,66) e, in maniera più marcata, in Origene. L’audizione spirituale della Parola è
promossa così a esperienza primaria di incontro con il Logos, con un contenuto pari a quello
dell’eucaristia, come dimostra l’esegesi origeniana del racconto dell’istituzione. 419 Ciò che
trasforma l’uomo non sono anzitutto i doni eucaristici - altrimenti ne verrebbero trasformati gli
stessi comunicandi indegni - ma l’illuminazione della Parola e la comunione spirituale con il Verbo
incarnato.420

La teologia alessandrina successiva tenderà a correggere queste posizioni e a sostenere che


la pratica della cena del Signore conduce a comunicare con il Logos e che dunque la comunione
orale va di pari passo con quella spirituale: l’eucaristia fa comunicare con il Figlio di Dio fatto
Uomo e nutre lo spirito umano per la conoscenza (gnosis), e costituisce perciò una via fondamentale
di salvezza.421 Decisivo, in questo quadro, è l’apporto di Atanasio. Per lui il Logos non è un
comunicatore di conoscenze, ma l’autore stesso della salvezza e il portatore di una «divinizzazione»
che riguarda tutta la realtà dell’uomo, compreso il suo corpo. Un simile evento può essere attuato
soltanto dal Signore risorto presente nell’eucaristia: «Noi veniamo divinizzati in quanto riceviamo il
corpo del Logos, e non dalla partecipazione al corpo di un uomo».422 In quanto carne del Logos
incarnato, l’eucaristia è ricolma del suo Spirito e lo comunica in una forma tutta speciale. 423 Una
concezione soteriologico- pneumatologica che verrà ripresa, tra gli altri, da Cirillo di Alessandria.
Ueulogia mistica - come quest’ultimo qualifica la celebrazione eucaristica - riveste la prerogativa
peculiare di far partecipare al «corpo del Logos» e quindi allo Spirito che dimora in lui 424 L’umanità
di Gesù, infatti, sia quella storica che quella eucaristica, è unita al Logos in una forma diretta,
costituendo una cosa sola con lui.425 Ne consegue che i doni eucaristici, trasformati dalla potenza
dello Spirito, sono comunicatori della vita stessa del Logos eterno. Cirillo fa propria Videa di
trasformazione, già presente da tempo in Oriente e la utilizza per mostrare che, se gli elementi del
pane e del vino diventano il suo corpo e il suo sangue, hanno il potere di mettere in comunione con
l’umanità assunta dal Logos e far partecipare allo Spirito che la inibita in pienezza.426

1.3. PADRI ANTIOCHENI PRE-EFESINI

Il tema dell’umanità salvifica di Gesù è ribadito dalla teologia orientale che, ad Antiochia, si
415Comm. in Le. 22,19 (PG 72.921B).
416De orat. 27,4 (GCS II 365,22-24).
417Da notare che in modo analogo pensano tanti altri autori e padri: Eusebio di Cesarea, Ata nasio, Serapione, Didimo, Cirillo e i
cappadoci Basilio, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa.
418Pseudo-Cirillo, Hom. 10 in coen. myst. (PG 77,1017A).
419In Mtser. 85 e 86 (GCS XI 196,19-197,6 e 198,15).
420In Mt tom. 11,14 (GCS X 57,11-58,14).
421Tra i latini, Gerolamo, sosterrà una comunione spirituale, accanto a quella eucaristica; una comunione «non soltanto nel
sacramento, ma nella stessa lettura della Scrittura» (In Eccl. 3,12; CC 72,278).
422Epist. ad Maximum phil. (PG 26). Cf. anche: GIOVANNI CRISOSTOMO, Hom. de pascha 2,18.
423Cf. MARCELLO DI ANCIRA, De incarnatione et contra Arianos, 16: «Lo Spirito comunicatore di vita è la carne del Signore,
poiché essa deriva dal suo Spirito vivificante. Tutto ciò che ha origine dallo Spirito è Spirito».
424In Jo. 6,64, comm. 4,3 (PG 73, 604).
425In Jo. 6,54, comm. 4,2 (PG 73,576).
426Frammento su Mt 26,26 e su Lc2,19. Nella stessa linea, MARCO EREMITA, Adversus Nesto- rianos, 8,23.
sviluppa in una forma autonoma rispetto ad Alessandria, sulla scorta del pensiero semitico-
palestinese e come teologia-scritturale rivolta al carattere storico dell’opera salvifica di Cristo più
che all’aspetto spirituale. Un’impostazione che conduce ad accentuare una teologia dell’eucaristia
come sacramento dell’umanità del Kyrios. Viene tenuta presente l’incarnazione, ma l’accento è
posto soprattutto sull’accadimento pasquale. Gli elementi del convito e l’azione liturgica sono
qualificati come «simbolo» (symbolon) e «tipo» (typos) della morte e risurrezione di Cristo
collegandosi per questa rilettura al concetto-chia- ve di anàmnèsis. È quanto appare con forza, tra le
molteplici testimonianze, in un celebre testo di Giovanni Crisostomo, indirizzato a commentare la
cessazione dei sacrifici veterotestamentari:

Sacrifichiamo anche noi tutti i giorni? Certo, anche noi sacrifichiamo, celebrando la
memoria della sua morte; ma questo è un sacrificio solo, non molti. Come uno e non molti? Perché
egli è stato offerto soltanto una volta (...). Noi infatti offriamo sempre lo stesso, non oggi questo e
domani quell’agnello, ma sempre lo stesso (Cristo). Si tratta quindi di un unico sacrificio. Ci sono
allora molti Cristo perché in molti luoghi si fa l’offerta? Affatto. Piuttosto si deve dire che si tratta
sempre dell’unico Cristo, qui e là, nella sua totalità, un unico corpo. Ora come l’Offerto in molti
luoghi è un corpo e non molti corpi, così si partecipa a un unico sacrificio. Il nostro Sommo
Sacerdote è colui che ha offerto il sacrificio che ci purifica. Noi offriamo ora ciò che è stato offerto
un tempo e che è in se stesso inesauribile. Il sacrificio presente viene attuato in memoria di quello
compiuto un tempo. Egli infatti dice: «Fate questo in mia memoria!».427

Giovanni Crisostomo afferma l’identità dell’azione sacrificale della Chiesa con quella della
croce e l’unità dell’unico sacrificio offerto in tutte le azioni eucaristiche. Il termine thusia assume
una simile accezione e contiene già in germe una teologia dell’eucaristia come sacrificio e come
gesto di Cristo e della sua Parola mediante la persona del ministro. «Non è l’uomo che fa diventare
le realtà offerte corpo e sangue di Cristo, ma è Cristo stesso, che è stato crocifisso per noi. Il
sacerdote, ministro di Cristo, pronunzia le parole, ma la loro virtù e la grazia dei doni viene da
Dio»?6 Lo stesso autore afferma con forza la presenza dell’unico Kyrios nel convito santo della
cena: «Si tratta sempre dell’unico Cristo, qui e là»? 1 Un analogo orizzonte lo ritroviamo in
Teodoreto, il quale insiste nel dire che noi non celebriamo un sacrificio diverso da quello offerto da
Gesù; al contrario, attuiamo quell’unico sacrificio. In forza dell’anàmnè- sis, l’azione salvifica
compiuta da Gesù un tempo diventa un oggi ed è rivissuta dalla comunità. 428 Secondo Teodoro di
Mopsuestia, nell’eucaristia, Gesù si offre in forma simbolica, morendo, risuscitando da morte e
salendo al cielo, e ci pone in grado di entrare in una relazione attuale con i misteri della sua vita
redentrice.429 Aspetto specifico della teologia di Teodoro è il porre l’accento sull’epiclesi
consacratoria come azione dello Spirito in corrispondenza a quella che ha operato la risurrezione di
Gesù dal sepolcro: in entrambi i momenti, è l’unico e medesimo Spirito che vivifica una realtà
morta e le conferisce la forza di una vita nuova, immortale. 430 Lo sviluppo antiocheno relativo
all’orizzonte dell’anàmnè- sis si estende alla concezione stessa dei doni consacrati, identificati con
il corpo e il sangue di Cristo e segni viventi della sua offerta al Padre realizzata una volta per
sempre. A motivo di questa identità, più che ricorrere alla designazione degli elementi eucaristici
come «simboli», si parla di essi - in modo diretto - come del corpo e sangue di Cristo in virtù del -
l’epiclesi attuata su di essi.431 Anche gli Atti di Tommaso (15,8) e le Costituzioni apostoliche (VII
25,4) ritengono una concezione dello stesso genere. Nel tentativo di operare una sintesi tra la
visione alessandrina e quella antiochena, Gregorio di Nissa sottolinea l’identità del corpo euca-
ristico con quello incarnato. I doni del banchetto non sono più semplici realtà naturali, ma doni
nuovi, trasformati dalla potenza dello Spirito. La trasformazione avviene in quanto lo Spirito tocca,
si impossessa, trasfigura gli elementi per renderli corpo e sangue di Cristo. I termini usati per
connotare questo passaggio sono metabàllein, metapoìen e simili, e hanno l’intento di esprimere un

427In Hebr. hom.ll,?> (PG 63,131).


428In Hebr. 8,4-5 (PG 82,736).
429Cat. 15,20 (ST 145,497).
430Cat. 15,10 (ST 145,475). Per l’insieme della prospettiva, cf. F.J. REINE, The Eucharistic Doctrine and Liturgy of the
Mystagogical Catechese of Theodore of Mopsuestia, Washington 1942; J. QUASTEN, «The Liturgical Mysticism of Theodore of
Mopsuestia», in Theological Studies 15(1954), 431-439.
431TEODORO DI MOPSUESTIA, Frammento su Mt 26,26 (TU 61, 255); ADAMANZIO, De recta in Deum fide (GCS 184,14); EFREM,
Adv. haer. 47,8 (BKV 61, 166); GIOVANNI CRISOSTOMO, In ICor. hom., 24,5 (PG 61,200-205).
cambiamento in senso dinamico-funzio- nale, accessibile solo agli occhi della fede, senza voler
affrontare questioni di ordine filosofico. Si tratta, in altre parole, di una prima forma di teologia
della presenza eucaristica centrata sulla spiritualizzazione dei doni eucaristici, la cui finalità è più
quella di dire il fatto, ossia il valore nuovo, soprannaturale, assunto dagli elementi dopo la
consacrazione, che di entrare nel merito relativo al modo.

1.4. PADRI GRECI POST-EFESINI

Le affermazioni sul concetto di trasformazione conoscono un’attenuazione dopo il concilio


di Efeso. Gli antiocheni Nestorio, Euterio di Tiana, Teodoreto di Ciro e l’autore dell’Epistula ad
Caesarium spiegano che il pane e il vino rimangono ciò che sono e non subiscono un’oggetti- va
modifica nella loro natura fisica (ousia), ma un cambiamento di significato che solo la fede è in
grado di riconoscere e affermare. Gli elementi sono qualificati come «corpo» e «sangue» di Gesù
allo stesso modo in cui Cristo si è autodefinito «pane di vita» e «vite». 432 Ciononostante la
consacrazione eucaristica non si riduce unicamente a un cambiamento di nome o a un significante
meramente metaforico; sugli elementi eucaristici è invocata la potenza dello Spirito e ciò produce
un nuovo incremento di grazia e di presenza del Risorto; ed è per questo che sono detti «corpo» e
«sangue» di Cristo. Il motivo per cui questi autori faticano ad accettare una trasformazione reale
degli elementi del pane e del vino deriva dalla loro cristologia. Contro un monofisismo che dissolve
l’umanità di Gesù nella divinità, essi sono preoccupati di affermare il permanere immutato delle due
nature in Cristo, anche dopo la sua pasqua, e di corroborare quindi un duofisismo cristologico che
ritenga le due nature di Gesù nell’unità della sua persona. Dal punto di vista della dottrina
eucaristica, la loro attenzione è indirizzata a evitare un monofisismo eucaristico in nome di un
duofisismo che salvaguardi la duplice dimensione dell’eucaristia, divina e umana, senza confusione
o mescolanze indebite. La cristologia e la teologia eucaristica, in questa visione, sarebbero
situazioni del tutto equiparabili. L’argomentazione, in un primo momento, sembra ricevere una
buona accoglienza e perfino i calcedoniani papa Gelasio, Efrem di Antiochia e Leonzio di
Gerusalemme, per gli stessi motivi, sono orientati a negare la trasformazione degli elementi
consacrati sotto il profilo della loro natura o essenza.433

Il periodo successivo non manifesta un effettivo progresso rispetto a queste posizioni. La


ragione si collega ancora all’impostazione cristologia cui si è fatto cenno. Alla fine dell’era
patristica, una buona sintesi degli sforzi portati avanti dalla teologia orientale è offerta da Giovanni
Damasceno nell’opera De fide orthodoxa (4,1) dove, in modo abbastanza organico, si applica
all’eucaristia la nozione di anàmnèsis, secondo il principio dell’incarnazione sacramentale, e si fa
propria l’idea, ormai diffusa, di trasformazione operata dalla discesa dello Spirito sugli elementi. Il
pane della comunione non è più «il pane ordinario, ma il pane unito alla divinità». 434 Il Damasceno
non ha dubbi circa l’identità del corpo eucaristico con quello storico di Gesù e non teme di
affermare che essi sono «uniti ipostaticamente con la divinità e le due nature sono unite ipo-
staticamente nel corpo di Cristo da noi ricevuto»? 435 Si tratta di un passo di indubbio valore verso
la piena affermazione della presenza del Chri- stus totus nell’eucaristia, superando la problematiche
post-efesine e post-calcedonensi.

1.5. PADRI LATINI

432NESTORIO, Liber Heracl. 1/1,58, ritiene che nel pane consacrato noi possiamo scorgere il corpo di Gesù, ma solo nel senso che
egli lo ha assunto come suo modo di manifestarsi (prósoporì).
433GELASIO, De duobus naturis in Christo, tr. Ill; EFREM DI ANTIOCHIA, In Fozio (PG 103,980); LEONZIO DI GERUSALEMME, Tract,
de Trinitate et Incar. (CSCO 2/27,100).
434De fide orthodoxa, 4,13, (PG 94,1141-1152).
435De imaginibus 3,26 (PG 94,1348).
La teologia latina dell’eucaristia è probabilmente meno unitaria di quella greca. In
particolare, se essa non manca di assumere l’idea di memoriale dell’opera redentrice di Cristo,
sembra rivolgersi con più insistenza agli elementi del convito eucaristico nell’ottica della presenza
di Cristo e dell’attualizzazione del suo sacrificio nella Chiesa. Tertulliano identifica il pane e il vino
con il corpo e il sangue di Gesù e spiega che, in forza dei simboli eucaristici, il Signore rende
presente (repraesentat) il suo corpo e il suo sangue. È per questo motivo che niente di questi doni
può cadere in terra o in mani profane.436 Il banchetto eucaristico è definito come figura corporis
Christi; una qualifica che non intende volatilizzare la realtà della presenza di Cristo, ma piuttosto
sottolinearla, contrapponendosi alla tesi gnostica relativa all’irrealtà dell’umanità storica di Gesù. 437
L’eucaristia è talmente la realtà del corpo storico di Cristo da attestare la realtà oggettiva di
quest’ultimo. La substantia della «figura» eucaristica è stata annunciata da Gesù stesso mediante
l’aggiunta del termine «sangue». La «carne» e il «sangue» costituiscono componenti inseparabili
dell’unico evento pasquale. In questa linea, Tertulliano documenta una dimensione dell’eucaristia
già presente nella teologia orientale, ma non sempre così espressamente approfondita: il suo
carattere sacrificale, definendo l’azione eucaristica come sacrificium o oblatio, e affermandone il
legame indissolubile con la croce,438 a tal punto che è come se Cristo stesso morisse di nuovo
(rursus mactabitur Christus)?439 Non meno importante, per lo sviluppo della dottrina eucaristica dei
latini, è l’opera di Cipriano. Egli si contrappone esplicitamente alle celebrazioni compiute solo con
l’acqua, e quindi senza il vino.440 Soltanto se il calice contiene il sangue redentore, infatti, si
attualizza il mistero della croce. Il vino allude al sacrificio di Gesù, in quanto - per il suo
simbolismo naturale - presuppone la pigiatura, allo stesso modo in cui il sangue di Cristo è passato
attraverso il torchio della passione. L’azione eucaristica è il sacrificium crucis in forma
sacramentale; un’azione commemorativa che rende presente Yoblatio Christi nella comunità, e che
la comunità rivive, partecipandovi in prima persona e venendo trasformata da essa. È per tale via
che Cipriano illustra l’idea di memoriale.441 Gli elementi del banchetto non ricordano solo la pasqua
di Cristo, ma la rendono presente ogni volta che il popolo cristiano ne fa memoria. L’unico pane
formato da molti chicchi di grano, l’unico vino spremuto da molti grappoli, simboleggiano l’unità
del nuovo Israele nato dalla pasqua, mentre la mescolanza dell’acqua con il vino rappresenta
l’unione dei credenti con Cristo, Dio e Uomo. 442 Degno di nota è il fatto che la comunione della
Chiesa sia considerata non solo come il frutto, ma il presupposto del convito del Signore, come
verrà sviluppato da Agostino, tanto che, al di fuori della comunità ecclesiale, non vi può essere
valida eucaristia, così come per il battesimo.443

Ambrogio tratta prevalentemente della celebrazione eucaristica in quanto attua la realtà


concreta del corpo e del sangue di Gesù.444 Un’attuazione possibile in virtù della parola di Cristo
che risuona oggi come ieri nella Chiesa e fa assumere ai doni eucaristici un nuovo contenuto. La
parola di Dio pronunciata dalla Chiesa trasforma i segni; è così che nel sacramento eucaristico si
rende presente lo stesso corpo nato dalla Vergine e crocifisso per noi. Se la parola di Dio ha creato
ciò che non era, essa può mutare ciò che già esiste, trasformando la natura delle cose. «La parola di
Cristo che fu in grado di creare dal nulla ciò che non esisteva, non può trasformare in una diversa
realtà ciò che già esiste? Non è minore l’impresa di dare una nuova identità alla realtà che
trasformarla».445 II corpo e il sangue di Cristo sono presenti non tanto nella loro forma connaturale
(species) quanto in una similitudo, affinché l’orrore del sangue non trattenga dall’avvicinarsi al
sacramento eucaristico. Ambrogio non si interroga sul modo in cui la trasformazione eucaristica

436Adv. Marc. 1,14 (CC 1,455); De cor. mil. 3 (CC 2,1043).


437Adv. Marc. 4,40 (CC 1,656).
438 De orat. 19 (CC 1,268); De cultu fem. 2,11 (CC 1,366); De cor. mil. 3 (CC 2,1043); Ad ux. 2,8 (CC 1,393).
439’39 De pud. 9,11 (CC 2,1298).
440Ep. 63,7 (CSEL 3,705).
441Ep. 63, 9 e 15 (CSEL 3,708 e 713).
442Ep. 63,13 (CSEL 3,711).
443Ep. 70,2 (CSEL 3,768), De unii. 8 (CSEL 3,217).
444De Myst. 9,53 e 58 (CSEL 73,112 e 115).
445De Myst. 9,50.52 (PL 16,405-406).
avviene; si limita ad affermarla 446 Egli testimonia, inoltre, il carattere sacrificale dell’eucaristia,
mostrando come l’offerta celebrata dalla Chiesa rappresenti la proclamazione vivente della morte,
risurrezione e ascensione di Gesù Cristo al cielo.447

La dottrina di Agostino è assai più complessa. Egli si muove tra realismo e simbolismo. Per
un verso, in quanto vescovo, egli dà prova di fedeltà alla convinzione della Chiesa sulla presenza
reale di Cristo nell’eucaristia, dichiarando che il pane posto sull’altare e il contenuto del calice,
consacrati dalla virtù della parola di Dio, costituiscono il corpo e il sangue del Signore; 448 per un
altro, in quanto teologo, si sforza di interpretare il mistero, introducendo apporti personali che non
mancano di qualche elemento di indebolimento della dottrina eucaristica. Il problema di fondo è
costituito dal concetto di segno. Secondo Agostino, il segno (signum) rinvia alla realtà (res), ma non
si identifica con essa: il segno è altro rispetto alla realtà da esso significata. 449 La corrispondenza
tra il signum e la res si fonda su una relazione di somiglianza, non di identità effettiva. Di
conseguenza, solo secundum quaedam modum, il sacramento del corpo di Cristo è il corpo di
Cristo, e il sacramento del sangue di Cristo è il sangue di Cristo.450 La realtà oggettiva (res) del
corpo e del sangue del Risorto non viene contenuta in una forma fisica nei segni consacrati, ma
nella maniera stessa in cui il segno contiene la realtà e rimanda a essa. «Aliud videtur, aliud
intelligitur».451 Di qui la distinzione modale tra il corpo storico di Gesù e il corpo sacramentale
presente sull’altare: la cena è un segno (signum) del corpo e del sangue assunti da Gesù nell’in-
carnazione e in forza di cui si è offerto sulla croce, ma non è la stessa res del corpo e sangue di
Cristo. Una concezione che permette ad Agostino di insegnare come i cattivi, gli eretici e i cattolici
indegni ricevano i doni consacrati nel segno, ma non nella realtà; li ricevono come signum, non
come res ipsa.452

Non si può negare che l’interpretazione del dottore di Ippona si sviluppi secondo uno statuto
fortemente simbolico e susciti qualche interrogativo sul senso della presenza reale di Cristo
nell’eucaristia. I motivi di una simile impostazione derivano sia da un presupposto medio-plato-
nico che tende a svalutare il visibile rispetto all’invisibile, sia da una cristologia che non riesce a
tenere nel dovuto conto il realismo dell’incarnazione e sia, soprattutto, da un’ecclesiologia che non
vuole ammettere il conferimento della grazia - e quindi anche del corpo e sangue di Cristo - a coloro
che, per scisma o apostasia, sono fuori della Chiesa, come appare per altre ragioni dalla polemica
antidonatista. L’aspetto debole dell’interpretazione agostiniana è peraltro compensato dal fatto che,
in essa, la res eucharistiae a cui il signum rimanda non è soltanto il corpo individuale di Cristo, ma
al tempo stesso quello ecclesiale, il Christus totalis, caput et corpus, ossia il Signore glorioso che
assimila a sé l’unità molteplice dei cristiani viventi in lui per il battesimo e li fa suo segno reale in
re ipsa. Quanto mai indicativa, in quest’ottica, è l’esortazione che il vescovo di Ippona rivolge ai
neobattezzati che, per la prima volta, si accostano all’altare: «Se voi siete il corpo e le membra di
Cristo, il vostro mistero è deposto sulla tavola del Signore: voi ricevete il vostro proprio mistero!
Voi rispondete amen a ciò che voi siete, e con la vostra risposta sottoscrivete. Sentite dire: corpus
Christi, il corpo di Cristo, e rispondete: amen/ Siate dunque membra del corpo di Cristo, affinché il
vostro amen sia vero».453 Sussiste un’identità radicale tra il corpus Christi formato dai battezzati e il
corpus Christi significato dall’eucaristia: l’uno fa essere l’altro, e mai l’uno senza l’altro. Uamen
detto alla comunione eucaristica esige Vamen alla comunità ecclesiale, e viceversa. È per questo
che, rivolgendosi a coloro che si sono già accostati al banchetto eucaristico, Agostino spiega come,
«compaginati nel suo corpo, divenuti sue membra, siamo ciò che riceviamo» 5A Comunicando con il
446De Sacr. 4,4,14; 4,5,23 (CSEL 73,52 e 56); De Myst. 9,52 e 54 (CSEL 73,112 e 113).
447De Sacr. 5,4,25 (CSEL 73,69).
448Sermo 227 (PL 38,1099); 234,2 (PL 38,1116); 272 (PL 38,1246); En. in Ps 98,9 (PL 37,1264);
En. in Ps 33,1.10 (PL 36,306); Civ. Dei 10,20 (CSEL 40,1,418).
449Sermo 57,7 (PL 38,389); 71,11,17 (PL 38,455); 112,4 (PL 38,645); InJo tr. 25,12 (PL 35,1602); 27,2,3,5 (PL 35,1616); Civ. Dei
21,20,25 (CSEL 40,2,552s.564-567); En. in Ps 98,9 (PL 37,1264).
450Ep. 98,9 (CSEL 34,531).
451Sermo 272 (PL 38,1247).
452Ep 185,11,50 (CSEL 57,43); Civ. Dei 21,25 (CSEL 40,2,567); In Jo tr. 26,18 (PL 35,1614); 27,11 (PL 35,1621), Sermo 131,1 (PL
38,729).
453Sermo 272 (PL 38,1247).
corpo eucaristico di Cristo, i fedeli infatti sono costituiti e plasmati come corpo ecclesiale. La
comunione con il Signore nell’eucaristia edifica la Chiesa; e tale è la res et signum del sacramento.
Il centro di gravità si sposta dai doni conviviali consacrati all’azione vissuta dai partecipanti nel
ricevere i segni sacramentali come grazia di koinonia ecclesiale. È in questo quadro che Agostino
predica la comprensione spirituale dell’eucaristia, intendendo richiamare i credenti non tanto al
riconoscimento della sua natura empiricamente indimostrabile quanto alla sua piena accoglienza
come accadimento interiore-per- sonalizzante, con il cuore quindi, e non soltanto con la bocca,
vivendo ciò che l’eucaristia rappresenta e lasciandosi trasformare da essa. È così che, guardando al
Cristo eucaristico che si assimila la Chiesa-come-suo-corpo, Agostino esclama: «O sacramentum
pietatis! O signum unitatis! O vincu- lum cantatisi»; ed esorta: «Conservate l’unità! Avete appena
mangiato il vincolo che vi unisce».454

Non meno rilevante è la dottrina agostiniana circa il carattere sacrificale dell’eucaristia. Non
si può dissociare l’atto sacramentale della Chiesa dall’evento fondante della croce. La celebrazione
eucaristica porta in sé un rapporto essenziale con il sacrificio di Cristo e ne costituisce la memoria e
il sacramentum, la partecipazione e il dono permanentemente in atto dell’oblazione sacrificale di
Gesù, orientata a far diventare la comunità credente ciò che celebra e riceve nel banchetto eucari-
stico. Un tema che è presente in Leone Magno in un testo citato dallo stesso concilio Vaticano II
(LG 26): «Invero la partecipazione al corpo e al sangue di Cristo non è ordinata ad altro che a
trasformarci in ciò che prendiamo, con il fine di renderci portatori integrali, in anima e corpo, di
colui con il quale e nel quale siamo morti, sepolti e risuscitati».455

Il realismo ambrosiano-liturgico e il simbolismo-ecclesiologico agostiniano si intrecciano in


vari modi tra di loro, anche perché il pensiero agostiniano è stato interpretato, in un primo tempo, in
maniera abbastanza realistica. Così, fanno ad esempio Fausto di Riez e Gregorio Magno. Il primo
sviluppa specialmente il concetto di trasformazione degli elementi del pane e del vino; 456 il secondo
sottolinea il carattere sacrificale dell’eucaristia: se Cristo, in quanto risorto, non muore più, nel
memoriale della Chiesa si offre per noi in virtù di un atto sacramentale, di modo che ogni volta che
partecipiamo all’offerta del sacrificio eucaristico rappresentiamo la morte di Cristo e la riviviamo in
atto 457 Anche Isidoro di Siviglia si sforza di ricercare una sintesi unitaria tra realismo e simbolismo.
Nel mistero dell’eucaristia, sotto il segno visibile, opera la virtus divina, intesa come sacrificium
crucis e sacramentum gratiae; e tale è la duplice valenza della cena del Signore e del parteciparvi.
L’eucaristia è sacrificium (= sacrum factum) in quanto - mediante la prex mystica - rende presente la
memoria della morte del Signore, ed è sacramentum in quanto - in forza dello Spirito invocato -
diviene il corpo e il sangue di Cristo e quindi un bonum gratiae per noi.458

2. Prescolastica e scolastica

La lettura dell’eucaristia in prospettiva sacrificale rappresenta l’orizzonte dominante di tutto


il medioevo. Ne è testimone la fioritura dell’«allegoresi commemorativa della Messa» che connette
i riti particolari e le singole preghiere con gli episodi della vita e morte di Gesù, conducendo a
sentire l’azione eucaristica come un rivivere il dramma di Cristo e della sua passione. Si deve
specialmente ad Amalario di Metz la diffusione di questa concezione in forma sempre più
generalizzata, nonostante l’opposizione di Floro di Lione e, più tardi, di Alberto Magno. La
spiegazione simbolico-scenica della celebrazione eucaristica conduce, di fatto, a una attenuazione
della sua significazione propriamente sacramentale, a servizio della catechesi del popolo che, non
potendo comprendere la lingua, può almeno vedere i gesti e partecipare in modo diretto alla
rappresentazione sacra. Paradossale, in questo contesto, è il rapido diffondersi (divenendo
normativo con Innocenzo II) della messa «privata», specie nei monasteri e nei conventi, dove il
454In Evan. Joh. 26,6,13 (SCh 47).
455Sermo 63,7 (PL 54,357).
456PSEUDO-GEROLAMO, Hom. 38 (PL 20,271-276).
457GREGORIO, Hom in Evang. 2,37,7 (PL 76,1279A).
458Etym. 6,1938-40 (PL 82,255 B e C).
ministro fa tutto da solo, favorendo l’idea - peraltro già diffusa - di una mera «assistenza» dei fedeli
all’atto celebrativo, senza che sia indispensabile un’effettiva e attiva partecipazione. Un contesto
che prepara direttamente la reazione della Riforma e quanto ne consegue. Prima tuttavia è
necessario soffermarsi sui problemi dottrinali che si sviluppano a partire dagli inizi del medioevo.

2.1. PRIMA CONTROVERSIA SUI DONI EUCARISTICI

Il grande problema che la riflessione teologica si trova ad affrontare, fin dal primo
medioevo, riguarda l’irrisolta questione del contenuto degli elementi consacrati, con una forte
oscillazione tra «realismo materialista» e «simbolismo spiritualista». Il realismo materialista viene
di fatto rappresentato da Alcuino, Amalario e, per alcuni aspetti, da Incma- ro di Reims; il
simbolismo spiritualista da Beda e Giovanni Scoto Eriu- gena. Una tensione tra due tendenze che
sfocerà nella prima controversia eucaristica, iniziata dall’abate di Corbie, Pascasio Radberto,
intorno all’844, secondo il quale il banchetto del Signore non è soltanto la presenza di una forza
divina, ma di ciò che in esso è annunciato, ossia del corpo dato e del sangue versato, e lo è in modo
fisico. In virtù della consacrazione, infatti, la «figura» eucaristica porta in sé la realtà stessa rap-
presentata, al punto che la presenza del corpo e del sangue di Cristo nell’eucaristia non è diversa da
quella che si è verificata in Maria e da quella di Gesù sulla croce, facendo riferimento a un realismo
di trasformazione dei segni eucaristici in senso fisico, fortemente materiale.459 Un’impostazione che
suscita immediatamente la violenta protesta di Rabano Mauro, Godescalco e, in modo particolare,
di Ratramno, monaco anch’egli a Corbie. Quest’ultimo, collegandosi alla differenza già posta da
Agostino tra il segno e la realtà, rifiuta decisamente l’identità del corpo eucaristico con quello
storico di Gesù. I doni consacrati sono il corpo e il sangue di Cristo secondo un’intelligenza
spirituale (spiritualiter), e non in quanto identità fisica (corporaliter). Gli elementi eucaristici
devono essere compresi come simboli (figura, similitudo) della realtà, non come la realtà stessa; in
quanto tali, essi suppongono un distacco oggettivo dalla res a cui rimandano, pur implicando una
partecipazione ad essa.460 Ratramno non manca di richiamarsi a una trasformazione degli elementi
creaturali a opera del Logos, ma nega un cambiamento interiore nella natura del pane e del vino,
ammettendo solo una crescita di virtus, ossia di significazione salvifica e di grazia.461

2.2. BERENGARIO E LA PRESENZA REALE

Il dibattito che si apre trova un esponente di primo piano in Berengario di Tours. In linea con
la posizione di Ratramno e muovendo dal concetto agostiniano di sacramento come signum gratiae,
egli distingue nettamente il signum dei doni consacrati dalla res. Gli elementi del pane e del vino, in
forza dell’invocazione dello Spirito e delle parole consacranti, subiscono un cambiamento di
significato, ma non di essere: essi diventano simboli del corpo e del sangue di Gesù e sono quindi
degli indicatori visibili che invitano a unirsi spiritualmente al Kyrios celeste, ma non contengono
direttamente lo stesso Signore. La presenza di Cristo nel corpo e sangue eucaristici è la res
sacramenti, non il sacramentum stesso. Berengario respinge quindi la presenza e la trasformazione
reale dei doni del pane e del vino. Parlare di mutazione degli elementi equivarrebbe, per lui, a far
scendere dal cielo lo stesso Risorto, la cui moltiplicazione o anche divisione in molte portiunculae
carnis Christi significherebbe la distruzione della loro sostanza quanto agli elementi e la
continuazione delle species dopo la consacrazione senza soggetto; operazione impossibile per lo

459Liber de corpore et sanguine Domini 1,2 (PL 120,1269B); 12,1 (PL 120,1310C); 21,9 (PL 120,1340C).
460De corpore et sanguine Domini 1A (PL 121,158BC):
461Sul pensiero dell’autore, cf. J.F. FAHEY, The Eucharistic Teaching of Retramn of Corbie, Mundelein 1951.
stesso Dio.462

La tesi incontra un’immediata opposizione, specialmente da parte di Adelmanno di Liittich,


Ugo di Langres e Durando di Troarn, i quali ribadiscono che i doni consacrati sono oggettivamente
identici al corpo e al sangue storici di Gesù e costituiscono il suo modo reale e concreto di
comunicarsi con noi. Berengario viene condannato diverse volte (nel 1050 a Vercelli, nel 1051 a
Parigi, nel 1054 a Tours). Al sinodo lateranen- se del 1059 viene costretto a sottoscrivere la
professione composta dal cardinale Umberto di Silva Candida: «Il pane e il vino che vengono depo-
sti sull’altare, dopo la consacrazione, non sono soltanto sacramentum, ma il corpo reale e il sangue
reale del nostro Signore Gesù Cristo e vengono toccati, spezzati dalle mani dei sacerdoti e
masticati dai denti dei fedeli... in maniera sensibile e non soltanto come vuoto segno, ma in verità»
(Denz 690). Una formulazione che, nel suo genere letterario, è da leggere più come una confessio
fidei che come un’effettiva argomentazione teologica; una confessio che intende opporsi alla
negazione della presenza reale, ma che riflette chiaramente una teologia eucaristica ancora
immatura. Soltanto così si spiega il suo esagerato realismo. La critica di Berengario aveva acceso,
in ogni caso, la questione circa il modo con cui poter legittimare l’identità ontologica tra il corpus
Christi, nato da Maria, e il corpus Christi presente nell’eucaristia; ed è su questo punto che sono
decisivi i contributi di Lanfranco di Bec e Guitmondo di Aversa. Il corpo di Gesù - affermano essi -
è presente nella sua essentia (o substantia) nei doni consacrati, ma senza che la trasformazione
consacrante comporti un cambiamento nelle species degli elementi stessi: «terrenas substantias
converti in essentiam Domini corporis», dirà Lanfranco.463 Guitmondo, da parte sua, connota l’atto
della consacrazione eucaristica come il passaggio trasformante di una realtà esistente in un’altra già
esistente: ossia come trasmutazione sostanziale (substantialiter transmutari) della sostanza degli
elementi del pane e del vino, pur permanendo gli aspetti fisici, nella sostanza del corpo e del sangue
del Signore. Il problema si concentra, dunque, sul concetto di sostanza (substantia); un concetto che
non corrisponde più, come in Berengario, alla realtà naturale empirica, ma al subiectum che fa
essere una realtà ciò che è e non un’altra. Il termine «sostanza» viene ad assumere un significato
propriamente e tipicamente metafisico, indirizzato a designare il substrato meta-empirico
dell’essere del pane e del vino e il suo principio ontico di sussistenza, al di sotto e oltre la sola
forma percettibile e le qualità visibili esterne (species).

Un passo positivo in questo cammino interpretativo circa il modo della presenza reale è
offerto dalla seconda formula di giuramento sottoposta a Berengario nel 1079, dove si sottolinea
l’identità degli elementi consacrati con il corpo e il sangue storici di Gesù in virtù di una trasfor-
mazione sostanziale e quindi di un passaggio di essenze (Denz 700). Viene introdotta, in questo
modo, l’idea della transustanziazione, anche se il termine lo si troverà solo più tardi, e precisamente
verso il 1142 nelle Sentenze di Rolando Bandinelli. Ulteriori chiarificazioni sono date, nel
frattempo, da Stefano di Tournai con la Glossa di Bamberga (Cod. Patr. 128) e dalla scuola
porretana. La categoria di «transustanziazione» comincia a essere utilizzata in modo sempre più
chiaro per significare come le sostanze terrene vengano mutate in una sostanza superiore pre-
esistente, ossia nella sostanza del corpo e del sangue di Cristo. Si muove in questa direzione il
concilio Lateranense I quando parla di «transsub- stantiatis pane in corpus et vino in sanguinem»
(Denz 802). A partire da questi sviluppi la categoria di «sostanza» e il suo corrispondente «transu-
stanziazione» assurgono a concetti-chiave per l’intelligenza del mistero della presenza reale di
Cristo nell’eucaristia e tali sono fino a oggi.

2.3. SINTESI TEOLOGICA MEDIEVALE

462Si veda specialmente lo scritto di BERENGARIO, De sacra coena, edito da W.H. BEEKENKAMP, Gravenhage 1941.
463De sacramento corporis et sanguinis Christi (PL 150,430C).
La prima scolastica non si fossilizza sugli aspetti filosofici del dibattito; essa conserva la
lettura dell’eucaristia in una prospettiva storico-salvifica ed ecclesiale, come accadimento di
memoria, presenza e profezia del- Yéschaton pasquale e forma plasmante della Chiesa. È vero
tuttavia che, specie con la Summa Sententiarum e l’opera di Pietro Lombardo e poi con Innocenzo
III (Denz 793), prevale un processo di cristallizzazione della dottrina eucaristica sulla base di
precise nozioni centrali.464 Il duplice livello agostiniano del sacramentum, signum e res sacramenti,
si trasforma in una triade, grazie all’introduzione del termine medio res et signum:

• il signum tantum corrisponde alle specie visibili o segno sacramentale in sé e per sé;
• la res et signum rimanda alla realtà contenuta al di là delle specie o segno e corrisponde
all’attualizzazione effettiva del sacrificio di Cristo nell’azione eucaristica e alla presenza reale del
suo corpo e del suo sangue nell’eucaristia;
• la res tantum costituisce la grazia che deriva dall’incon- tro/comunione con il Signore Gesù e
dall’incorporazione alla sua Chiesa, evocati dagli elementi stessi consacrati e operati dalla par-
tecipazione al corpo e sangue di Cristo.465

L’attenzione tende a spostarsi sul secondo e terzo elemento, la res et signum e la res tantum,
con un’involontaria accentuazione del contenuto sacrificale e individuale dell’azione eucaristica.
Mentre infatti, fino ad allora, gli effetti di grazia nell’eucaristia erano riferiti al dono dello Spirito
Santo e il corpus Christi eucaristico era considerato in relazione con il corpus ecclesiale, adesso ci
si concentra prevalentemente sulla memoria del sacrificio di Cristo e sul rapporto del corpus
Christi, singolarmente percepito, e il comunicando. L’eucaristia viene qualificata sempre più
decisamente come il corpus verum, la Chiesa come il corpus mysticum, in una sorta di prospettiva
parallela che modifica la visione neotestamen- traria e patristica di un’ecclesiologia radicalmente
eucaristica; modificazione che rimarrà fino alle soglie del Vaticano II466

Non meno rilevante è la sempre più accentuata formalizzazione ieratica della celebrazione
della messa: la preghiera eucaristica viene detta in silenzio, si moltiplicano gli altari privilegiati, la
comunione è sotto una sola specie ed è talmente rara che il concilio Lateranense IV del 1215 arriva
a prescriverne l’obbligo almeno una volta all’anno, sotto pena di privazione della sepoltura
ecclesiastica. La negazione di Berengario e la sua condanna suscitano, d’altra parte, una forte
reazione di fede nel popolo cristiano che spinge a una venerazione sempre più accentuata del
Santissimo Sacramento, in collegamento anche ai diversi «miracoli eucaristici» che
l’accompagnano. Non mancano, in questo sviluppo, atteggiamenti di ambigua devozione: i fedeli
accorrono in chiesa per «vedere l’ostia» più che per fare la comunione; si prolunga l’elevazione del
pane consacrato, con l’attribuzione a essa di guarigioni e prodigi. È in questo clima che si
concretizza la festa del Corpus Domini stabilita da Urbano IV con la bolla Transiturus de hoc
mundo del 1264, mentre resta vivo il dibattito sulla questione della transustanziazione. Già qualche
autore aveva utilizzato le categorie di materia e forma per designare il segno sacramentale
dell’eucaristia. La riflessione della scolastica procede nella medesima direzione, introducendo una
più chiara distinzione tra il subiectum della materia inteso come sostanza che cambia nell’atto di
consacrazione eucaristica e le proprietà o «accidenti» che permangono (accidentes) al di là del
cambiamento avvenuto; distinzione che viene ulteriormente approfondita dalla recezione
dell’ilemorfismo aristotelico, dopo il 1200, come risulta dal Commentario alle Sentenze di
Alessandro di Hales. La transustanziazione è allora definitivamente compresa come il passaggio, a
livello metafisico, dell’miera sostanza - e soltanto della sostanza del pane e del vino, rimanendo
intatte le loro qualità fisiche - nell’intera sostanza del corpo e del sangue di Cristo. Una convinzione
condivisa da tutti i grandi teologi del tempo, da Alberto Magno a Tommaso d’Aquino a

464Summa Seni. 6,3 (PL 176,140); PIETRO LOMBARDO, IV Sent. 8, c.7.


465Ugo di San Vittore preferisce designare i tre livelli con le dizioni di: species (segno), veritas (realtà), virtus (potenza). A riguardo,
cf. H.R. SHLETTE, «Die Eucharistielehre Hughos von St. Viktor», in Zeitschrift für Katholische Theologie 81(1959), 67-100; 163-
210.
466Per una più ampia analisi, cf. B. FORTE, La chiesa nell’eucaristia. Per un’ecclesiologia eucaristica alla luce del Vaticano II,
Napoli 1988.
Bonaventura e a Riccardo di Mediavilla. Guglielmo di Champeaux, fondatore della scuola dei
Vittorini, è il primo a nominare tutti i momenti che fanno parte del contenuto sacramentale della
presenza reale: corpo, sangue, anima, divinità. Quasi subito si elabora il concetto di concomitantia
in forza delle parole della consacrazione e si legittima la presenza oggettiva del totus Christus in
ognuna delle due componenti e in ogni parte di ciascuna.467 Dalla presenza di Cristo secundum
modum substantiae, san Tommaso d’Aquino riesce a trarre tutta una serie di conseguenze che
costituiranno la matrice di gran parte dell’inse- gnamento eucaristico successivo.

Una teologia radicalmente fondata sul rapporto Cristo-eucaristia come sacrificio e come
presenza reale; meno sul rapporto Spirito Santo- eucaristia ed eucaristia-Chiesa. Il corpo di Cristo è
presente con le sue proprietà essenziali (intrinseca accidentia), in forza di un’effettiva con-
comitanza (vi realis concomitantiae), non alla maniera dell’estensione locale, ma per modum
substantiae: personaliter, e non semplicemente localiter, in rapporto alle species del pane e del
vino, e come evento di «incontro» per noi e per la nostra salvezza. 468 L’idea fondamentale è data
dall’identità sostanziale dei doni consacrati con la persona fisica di Gesù, e comporta quindi
l’affermazione del fatto oggettivo della presenza di Cristo grazie alla conversione da sostanza a
sostanza. Non manca chi ritiene, in linea con Tommaso e Bonaventura, che la trasformazione per
modum substantiae rappresenti una verità di fede. Non così riguardo al modo della presenza per il
quale non si invoca la fede, ma piuttosto la ragione.469

Meno dibattuta è la questione della natura sacrificale della messa come atto che rende
partecipi la Chiesa e i fedeli del sacrificio unico di Cristo. Secondo Alberto Magno, la messa è
memoriale amarissimae passionis Christi et transitus Christi ex hoc mundo ad Patrem? 470
spiritualis mactatio et immolatio.471 Secondo Tommaso, il sacrificio eucaristico della Chiesa si
identifica con il sacrificio di Cristo e costituisce la memoria attualizzante della passio Christi472 Alla
croce fanno riferimento non soltanto i particolari del rito, specie con il segno della croce, ma
soprattutto la consacrazione e la struttura stessa del sacramento eucaristico in quanto commemora-
zione dell’unico sacrificio vissuto dall’unico offerente sul Golgota (ipse of- ferens, ipse et oblatio).
In forza dell’atto sacramentale, le sostanze del corpo e del sangue del Redentore sono presenti l’una
separata dall’altra a significare la separazione delle medesime realtà nella morte di Gesù. In questo
modo, l’identità sacrificale della messa viene ancorata alla significazione dei doni e al loro essere
divisi.473 È per questa via che Tommaso radica il sacrificio della croce nella consacrazione
eucaristica in quanto presenza, vi verborum, dell’«una volta per sempre» della passione del
Redentore.

2.4. TARDO MEDIOEVO E NOMINALISMO

L’epoca che segue alla grande scolastica ritiene i dati acquisiti finora (sulla presenza reale e
il carattere sacrificale della messa) come dati incontestabili, ma nell’interpretazione non mancano
teologi che seguono vie abbastanza diverse da quella di Tommaso e si perdono in teorie spesso
marginali. Un interrogativo, in particolare, occupa l’attenzione dei teologi: che cosa ne è delle
sostanze naturali del pane e del vino dopo la consacrazione! Nella ricerca di una risposta si
possono individuare almeno quattro teorie. 1) Teoria della trasformazione : le sostanze del pane e
del vino, dopo la consacrazione, si dissolvono negli elementi del corpo e del sangue di Cristo,
acquistandone la forma, come avviene per le gocce in un oceano (teoria già sostenuta nella prima
467Cf. J. BETZ, «L’eucaristia come mistero centrale», in J. FEINER - M. LÖHRER (edd.), Mysterium salutis, Queriniana, Brescia
3
1982, Vili, 289-293.
468STh III, q. 76, a. 3.
469STh III, q. 75, a. 3.
470De corp. Dom., d. 2 tr. II c. 4,2.
471De corp. Dom., d. 3 tr. Ili c. 2,3.
472STh HI, q. 22, a. 3, ad 2; q. 83, a. le.
473STh III, q. 83, a. 5, ad 3-9.
scolastica da Guglielmo di Thierry e ripresa dopo il XIII secolo da qualche altro autore). 2) Teoria
della consustanziazione: in forza della consacrazione si realizza una coesistenza o co-presenza del
corpo e sangue di Gesù con le sostanze degli elementi del pane e del vino (teoria già sostenuta nella
scolastica e respinta da Alberto Magno e Bonaventura, ma che riceve in questo tempo un nuovo
impulso). 3) Teoria dell’annichilazione: in opposizione alla precedente, si spiega che, con la
consacrazione, le sostanze degli elementi del pane e del vino scompaiono in forza della presenza
della sostanza del corpo e sangue di Cristo; una teoria che Tommaso aveva già respinto come
teologicamente inaccettabile,474 ma che risorge col nominalismo. Guglielmo di Ockahm, in
particolare, la fa propria e la divulga con forza. Anche per Gabriele Biel la transustanziazione
dovrebbe essere intesa come una cessazione della sostanza del pane e del vino, anche se a tale
cessazione consegue un’entità positiva, non un mero annientamento. 4) Teoria dell’adduzione o
transustanziazione vera e propria: se per Tommaso la consacrazione è il passaggio diretto della
sostanza del pane in quella del corpo e sangue di Cristo, Giovanni Duns Scoto muove dal corpo
preesistente del Risorto in cielo che, nel sacramento dell’altare, non riceve un nuovo esse
simpliciter, ma un nuovo esse hic che sostituisce l’essere-qui della sostanza del pane e del vino. In
questo senso la transustanziazione assume l’attributo di adductiva, in quanto il punto finale della
trasformazione non è il nulla, ma il corpus et sanguis Christi come nuova forma di essere fondante
la presenza reale del Signore nell’eucaristia 475

3. La Riforma e il concilio di Trento

Le quattro teorie a cui si è fatto riferimento, se rivestono un qualche interesse di ordine


speculativo, non fanno compiere progressi realmente significativi alla teologia eucaristica. Appare
chiaro, anzi, come l’indirizzo della riflessione si sia in pratica ridotto solo o quasi solo alla questio-
ne della transustanziazione, in un orizzonte concettuale scarsamente fecondo. Il significato storico-
salvifico dell’atto celebrativo risulta per lo più trascurato o comunque non particolarmente
valorizzato. Minimo è il coinvolgimento dei fedeli alla messa e la frequenza alla comunione euca-
ristica. È inevitabile l’impressione che la dottrina della Chiesa abbia assunto un carattere lontano
dalla concezione biblica e venga mantenuta solo con l’autorità del Magistero, senza parlare di
alcuni eccessi liturgici in atto da tempo, con la ricerca smodata di meriti per sé e per i defunti, abusi
nella richiesta di indulgenze, esteriorismi liturgici, e così via. È in questo quadro, non certo
particolarmente positivo, che prende origine, e trova il suo alveo, il movimento della Riforma, con
le aspre contestazioni che muove alla prassi celebrativa della messa per giungere fino al cuore
dell’ortodossia della fede.

3.1. POSIZIONE DEI RIFORMATORI

L’eucaristia, come è noto, è oggetto di dure lotte da parte degli oppositori. Non è soltanto la
forma celebrativa della Messa, ma la stessa idea cattolica di essa come sacrificio e come presenza
reale a sollevare il rifiuto, muovendo dai tria sola tipici del protestantesimo : sola Scriptu- ra/sola
fide/sola grafia. Considerare il sacramento dell’altare come il sacrificio che la Chiesa offre
equivale, secondo i riformatori, a sostenere una dottrina estranea alla rivelazione, che mette avanti
un’opera buona dei cristiani e annulla il senso stesso dell’essere salvati per pura grazia da Dio. Su
questo aspetto i protestanti - da Lutero a Zwingli a Calvino e altri - si trovano d’accordo,
respingendo con forza l’identità sacrificale della messa e presentando posizioni diversificate, ma
sostanzialmente negative, sul senso della presenza reale di Cristo nell’eucaristia.

Martin Lutero considera l’eucaristia come summa et compendium Evangelii e ritiene la

474STh III, q. 75, a. 3.


475Cf. BETZ, «L’eucaristia come mistero centrale», in FEINER - LÖHRER (edd.), Mysterium salu- tis, VIII, 293-304.
presenza corporale di Cristo come una presenza prò nobis, in continuità con la sua incarnazione.
Egli ne sostiene la realtà e la riconosce come dono di remissione dei peccati, considerata da lui
come il frutto centrale della santa cena. Secondo Lutero Yest dei racconti dell’istituzione va
compreso come simultaneità tra presenza di Cristo e consacrazione eucaristica. Si scosta dalla
dottrina cattolica quando, nella sua spiegazione, fa propria l’idea - già presente in ambito teologico -
di una consustanziazione, rifiutando invece quella della transustanziazione. In base a tale idea, egli
ritiene che il pane e il vino rimangano nella loro consistenza, formando un’unità sacramentale con il
corpo e il sangue di Cristo; un’unità di coesistenza legata però unicamente all’atto/momento della
celebrazione come unio sacramentalis finalizzata aìYactio e aìYusus, non alla permanenza. Per
questo motivo, si deve evitare - secondo Lutero - l’adorazione dell’eucaristia, vista come un gesto
di idolatria. La durata della presenza reale si estende fino al momento della sumptio o consumazione
delle particole rimaste, non al tempo che segue. Nei confronti del carattere sacrificale della messa,
Lutero afferma un «no» deciso e intransigente, in quanto un simile carattere sconvolgerebbe il senso
fondamentale dell’istituzione e falserebbe il dono che Dio ci ha fatto, trasformandolo in una
prestazione di carattere umano che esclude la natura di puro dono della grazia e della salvezza.
L’eucaristia può essere considerata un ricordo della santa cena e una memoria passionis Christi, ma
non una sua rinnovazione operata dalla comunità che renderebbe presente l’unico e irripetibile
sacrificio di Cristo.476

Ulderico Zwingli elabora la sua prospettiva a partire dall’idea che la santa cena sia solo una
commemorazione comunitaria per l’azione sacrificale compiuta un tempo sulla croce; azione storica
di Gesù che non può essere ripetuta o attualizzata. Zwingli esclude quindi che l’eucaristia possa
avere un contenuto sacrificale oggettivo. La messa non è un sacrificio, né può esserlo. Quanto alla
presenza eucaristica di Cristo, essendo il corpo di Gesù eternamente localizzato in cielo con
l’ascensione, non può rendersi realmente presente in terra nel pane. I doni della santa cena non sono
il corpo di Cristo, ma unicamente il suo ricordo e un richiamo simbolico per la fede dei battezzati.
Uest dell’istituzione va inteso in un’accezione solo metaforica. Il Christus totus diviene presente
nell’anima mediante l’atto della fede. Per Zwingli, edere corpus Christi significa credere corpus
Christi, facendo memoria dell’ultima cena vissuta da Gesù con i suoi, senza pensare a una sua
presenza reale.477

Giovanni Calvino cerca di operare una sintesi tra Lutero e Zwingli. Collegandosi ad
Agostino, egli non accetta l’idea di un’identità sostanziale e parla invece di una corrispondenza
analogica tra il segno e la realtà, affermando la possibilità di una partecipazione del credente al
corpo e al sangue di Cristo significata dal sacramento dell’eucaristia. Ciò significa che la santa cena
non è un «mezzo di grazia», né può esserlo, ma non è neppure un segno vuoto o senza alcun
significato; costituisce come un segnale, un indice, che rende certi dell’azione predestinante di Dio
per coloro che sono chiamati alla salvezza. È da considerare invece come perversa superstitio ogni
forma di adorazione eucaristica. Uest dei racconti istitutivi va letto in un senso unicamente
allegorico, non identificativo o oggettivo. La partecipazione al corpo celeste di Cristo di cui
l’eucaristia è simbolo è prodotta dallo Spirito Santo, in essa però non riceviamo la caro Christi
ipsa, ma la vita che scaturisce dalla sua redenzione operata sulla croce una volta per sempre. Ciò,
tuttavia, vale solo per i credenti eletti da Dio; non si può invece pensare a una manducatio
impiorum 478 Come si vede, attribuire a Calvino una «presenza pneumatica di Cristo nella santa
cena» non è corretto, dal momento che non si tratta di una presenza reale in senso cattolico. Nella
concezione cattolica non si intende solo una presenza di Cristo operata dallo Spirito Santo nel cuore
dei credenti, ma di una realtà oggettiva in forza della trasformazione del pane e del vino nella
sostanza del corpo e del sangue di Cristo.479
476L’opera maggiore di LUTERO, in questo campo, è il De captivitate babylonica ecclesiae pre- ludium del 1520. Per uno sguardo
generale alla sua concezione, cf.: H. PETERS, Realpräsenz. Luthers Zeugnis von Christi Gegenwart im Abendmahl, Berlin 1966 e
H.B. MEYER, Luther und die Messe, Paderborn 1965.
477Su Zwingli, cf. in particolare C. GESTRICH, Zwingli als Teologie, Zürich 1967,137ss.
478Sulla teologia di Calvino, si veda in particolare: W.M. NIELSEN, Die Teologie Calvins, München 1957,210-225; J. GOTTSCHALK,
Die Gegenwart Christi im Abendmahl, Essen 1966,48-64.
479Cf. H. CHAVANNES, «La présence réelle chez st. Thomas et chez Calvin», in Verbum Caro 13(1959), 151-170.
3.2. DOTTRINA DI TRENTO

La forte reazione cattolica alle posizioni della Riforma si concentra soprattutto sui punti
messi in discussione: il concetto della messa come sacrificio, la presenza reale di Cristo
nell’eucaristia (fatto e modo) e la comunione.

Quanto alla messa come sacrificio, la via di risposta era sottesa alla contestazione stessa
avanzata dai riformatori in base alla quale affermare che l’eucaristia fosse un sacrificio sarebbe
stato come annullare o deprezzare la morte di Cristo e la sua valenza salvifica unica. Dinanzi a
questa accusa, il problema era di mettere in luce l’unità inseparabile che intercorre tra il sacrificio
della croce e la celebrazione della messa. In campo cattolico non esistevano dubbi sul carattere
sacrificale dell’azione eucaristica. La questione era di stabilire come questo carattere si conciliasse
con il sacrificio unico della croce, senza svalutarlo o moltiplicarlo in senso materiale. Tra le
spiegazioni teologiche, emerge quella del teologo pre-tridentino, Caietano: il sacrifico eucaristico è
numericamente identico al sacrificio della croce di Cristo, non ne è una sua ripetizione e neppure
un suo completamento, quasi che esso fosse insufficiente, ma solo e unicamente la sua
attualizzazione nella «memoria» sacramentale della Chiesa e la partecipazione ai frutti che
scaturiscono dalla croce. Il concilio di Trento, nella sessione XXII del 1562, fa propria questa
dottrina, affermando come dottrina di fede l’unità indissociabile che sussiste tra il sacrificio della
croce e il sacrificio eucaristico, nell’identità dell’unico offerente e dell’unica vittima; diverso è solo
il modo di offrirsi, là in modo cruento, qui in modo incruento (Denz 1743).480 II sacrificio della
messa non consiste in altro che neìYoblatio oblationis Christi, un’offerta sacrificale dell’offerta
unica di Cristo. Le categorie utilizzate sono quelle di repraesen- tatio, memoria, applicatio: la
messa rende presente l’oblazione sacrificale stessa di Cristo, ne prolunga la memoria nell’azione
celebrativa della Chiesa e ne applica la sua efficacia salvifica in favore dei credenti, sino alla fine
dei tempi (Denz 1740; 1751). La cena del Giovedì santo è stata l’anticipazione dell’offerta
sacrificale che Gesù stava per vivere, in prima persona, sulla croce. La celebrazione eucaristica
rende presente quell’unico evento, comprendente il ricordo dell’ultima cena e il sacrificio della
croce, senza ripeterlo, ma attualizzandolo in forma sacramentale; in quanto tale, essa non costituisce
una diminuzione della morte del Signore, ma la proclamazione della sua valenza salvifica unica e
della sua unicità meritoria (Denz 1754). Il comando dell’istituzione, l’est di Gesù, significa
l’istituzione sia dell’eucaristia che del sacerdozio grazie a cui la Chiesa può fare memoria della
pasqua e, in virtù di ministri ordinati, è abilitata a offrire il corpo e il sangue di Gesù (Denz 1752).
Intesa come sacrificio, la messa è al tempo stesso un atto sacramentale di carattere redentivo-
propiziatorio, oltre che di lode e ringraziamento, e di espiazione per i vivi e i defunti (Denz 1743;
1753). Altre affermazioni di Trento definiscono la liceità della cosiddetta «messa privata» e della
celebrazione eucaristica in onore dei santi, e difendono sia il canone che la forma della liturgia uti-
lizzata dalla Chiesa cattolica (Denz 1744-1750; 1755-1759).

Quanto alla presenza eucaristica, il concilio la definisce come vera, reale, sostanziale, e non
soltanto simbolica o metaforica; una presenza oggettiva del corpo e del sangue di Cristo, insieme
alla sua anima e divinità (Denz 1636-1637; 1651); presenza non meramente «funzionale» o legata
unicamente al momento della celebrazione, ma permanente, oltre l’atto comunitario e l’assunzione
delle sacre specie (Denz 1654). I padri tridentini mettono in luce il fondamento ontologico della
presenza reale, riprendendo l’idea della conversione dell’intera sostanza del pane nella sostanza
del corpo e dell’intera sostanza del vino nella sostanza del sangue di Cristo (Denz 1652); e
dichiarano la categoria di «transustanziazione» come particolarmente adeguata a esprimere questa

480Una medesima concezione sarà esplicitata dal Catechismo Romano (II, 4,769) pubblicato dopo Trento.
conversione, e quindi a testimoniare il dogma creduto dalla fede della Chiesa (Denz 1642 e 1652).
Come fanno capire le affermazioni del concilio, con questa categoria si intende affermare il fatto
della presenza reale come dottrina de fide tenenda, senza voler dogmatizzare la concettualizzazione
relativa alla modalità della trasformazione. Lo scopo è quello di delimitare l’ortodossia credente nei
confronti dell’errore, non di decidere su questioni di carattere filosofico-naturale. Muovendo da
questa consapevolezza, il concilio - in linea con san Tommaso - trae molteplici conseguenze logiche
dalla dottrina della presenza reale ad modum substantiae, definendo:

• la presenza del totus Christus in ognuna delle due specie e in ogni parte di esse (Denz 1640-
1641 e 1653);
• la durata della medesima extra usum e quindi il dovere di conservare e adorare il Signore
Gesù nell’eucaristia fuori della messa (Denz 1643-1645,1654 e 1656-1657);
• l’assunzione non soltanto spirituale, ma sacramentale di Cristo nella comunione (Denz
1658);
• la liceità per il sacerdote di comunicarsi da solo (Denz 1648-1649 e 1660).
Quanto alla comunione eucaristica, il concilio rifiuta la limitazione del frutto dell’eucaristia
alla sola remissione dei peccati e richiama la necessità di una degna preparazione per accostarsi ad
essa, oltre a ribadire il precetto già enunciato dal Lateranense IV di comunicarsi almeno una volta
all’anno (Denz 1664; 1655; 1659). Trento anatematizza, infine, l’affermazione secondo cui per la
salvezza sarebbe necessaria la duplice comunione e definisce il diritto della Chiesa di praticare la
communio sub una specie, data la presenza concomitante del Christus totus sotto ognuna delle due
specie e in ogni loro parte (Denz 1639-1643 e 1651; 1653 e, specialmente, i canoni 1725-1734
dedicati alla comunione e ai suoi singoli contenuti).

4. Epoca moderna fino a oggi

La dogmatica eucaristica dei secoli successivi viene radicalmente orientata dal Tridentino e
dalla controversia con la Riforma; risulta invece meno caratterizzata dalla vita liturgica e dagli
sviluppi che si fanno avanti, specie con il XVII e XVIII secolo. L’elaborazione del trattato De
Euchari- stia si organizza attorno a tre sezioni fondamentali: presenza reale, sacramento, sacrificio.
L’aspetto di «mensa» rimane in subordine, data l’enfatiz- zazione che ne avevano fatto i protestanti.
Lo stesso per il sacerdozio dei fedeli e il coinvolgimento dell’assemblea nell’azione celebrativa.
Grande sviluppo conoscono invece la pietà e il culto eucaristico fuori della messa.

4.1. IL DIBATTITO POST-TRIDENTINO

Sulla questione della transustanziazione vengono riprese e rielaborate le enunciazioni


dell’alto medioevo. Teologi tomisti come Billuart, F. Suarez, Lessio, Franzelin e altri cercano di
spiegare la trasformazione eucaristica come una productio del corpo già esistente di Cristo, senza
che ciò comporti una sua moltiplicazione, ma piuttosto una sua nuova forma di presenza. Alla base
vi è il concetto di passaggio da sostanza a sostanza acquisito dalla coscienza comune cattolica come
dato praticamente indiscusso. Teologi gesuiti come R. Bellarmino, G. Vàsquez, Gregorio di
Valencia fanno propria invece la teoria scotista dell’adductio, ma spiegando come essa non
comporti un cambiamento di luogo da parte del Signore glorificato, ma un suo nuovo esserci a
motivo della mutazione della sostanza del pane e del vino. Entrambe le teorie rappresentano dei
tentativi lodevoli di esplicitazione del fatto della transustanziazione, ma rimangono ancora
insufficienti. Il loro rischio è anzi quello di voler andare oltre le possibilità stesse della ragione,
presumendo di poter valicare le soglie del mistero o, comunque, di non rispettarlo nella sua
peculiare alterità.
Una problematica particolarmente viva riguarda il carattere sacrificale della celebrazione
eucaristica. Il Tridentino, come si è notato, aveva definito come verità di fede che la messa è verum
et proprium sacrificium e insegnato che l’azione eucaristica è una ripresentazione-memoriale-appli-
cazione del sacrificio della croce, e quindi un sacrificio di per sé relativo, non assoluto: relativo
rispetto a quello di Gesù, non avente una ragione in se stesso, ma unicamente nel Cristo offertosi
una volta per sempre, per tutti. La domanda che rimane aperta è la seguente: come si esplica questa
identità sacrificale dell’eucaristia! L’interrogativo presuppone un concetto di sacrificio che, in un
primo momento, viene desunto più dalla fenomenologia religiosa e dal culto veterotestamentario
che dalla novità dell’oblazione unica di Gesù sulla croce. Va in una direzione di questo genere, ad
esempio, Gabriele Vàsquez quando fa risiedere l’essenza del sacrificio nella distruzione totale della
vittima, a motivo del fatto - spiega - che solo così si manifesta il potere assoluto di Dio sulla vita e
sulla morte, trovandosi poi in difficoltà nel momento in cui deve applicare questo concetto alla
messa. E infatti non ci riesce. È chiaro che il concetto di sacrificio come distruzione della vittima
vale per il sacrificio storico di Gesù, ma non per la sua memoria eucaristica. È da questa difficoltà
che sgorga la ricerca di altre forme esplicative della natura sacrificale dell’eucaristia, non sempre
sufficientemente convincenti. Vàsquez, in linea con s.Tommaso, la ricerca nella duplice separazione
del corpo e del sangue: due parti divise come segno di un sacrificio incruento quale è appunto
quello eucaristico. Una spiegazione scarsamente convincente, anche se sarà ripresa da diversi altri
autori e talvolta dagli stessi documenti della Chiesa. Ciò che si ricerca è soprattutto una
«distruzione». Suarez la scorge nella cessazione delle sostanze degli elementi naturali in forza della
transustanziazione. Cano nella frazione dell’ostia e al suo mescolarsi con il sangue del calice. De
Lugo e, più tardi, Franzelin, la individuano nel dato di fatto che Cristo si uniformi all’umile stato di
cibo. Bellarmino la coglie, infine, nella masticazione dei doni eucaristici al momento della
comunione.481

Il problema di fondo, occorre ribadirlo ancora una volta, è dato dalla nozione di sacrificio
cui ci si collega, chiaramente inadeguata. Data la strada imboccata non si potevano avere sviluppi
particolarmente significativi in questo ambito di riflessione. È solo successivamente, con il XVIII e
soprattutto XIX secolo, che le cose cambiano quando ci si comincia a riferire non tanto al concetto
comune di sacrificio quanto al significato unico dell’oblazione di Cristo, ravvisando l’essenza del
sacrificio nell’offerta personale, interiore, vissuta da Gesù sulla croce, di cui la memoria
eucaristica è presenzializzazione sacramentale. È su questa linea che si muovono i maestri
dell’École frangaise e, in modo particolare, V. Thalhofer, il quale parla di un sacrificio eterno di
Cristo che dispiega e continua il suo gesto offertoriale nell’azione celebrativa della Chiesa dove si
rende presente in una forma spazio-temporale data dal sacramento stesso: è il Cristo stesso che, in
forza della consacrazione eucaristica, attualizza l’unico atto interiore oblativo vissuto sulla
croce.482 Non mancano su questa linea autori che spiegano ogni messa come la presenza di un vero
sacrificio del Cristo glorificato.483 In modo più dettagliato, M. de la Taille spiega che il sacrificio
redentivo di Gesù è già dato in forma sacramentale nel gesto offertoriale vissuto durante la cena
quando presenta ai suoi il pane e il vino come suo corpo e suo sangue; un gesto offertoriale
incruento che si concretizza nell’immolazione cruenta del Golgota. La memoria eucaristica della
Chiesa non fa che perpetuare l’oblazione personale manifestata da Gesù nella cena e consumata
nella sua passione e morte: Gesù si offre al Padre ogni volta che la Chiesa ne attua la memoria; la
Chiesa offre e si offre, coinvolta da quell’unico sacrificio reso presente in virtù della
transustanziazione. È chiaro che, a questo punto, prende campo l’idea di una morte mistico-
sacramentale di Cristo nella messa e, con essa, la comprensione dell’azione eucaristica come sacra-
mento dell’«una volta per sempre» del sacrificio unico della croce. 484 Un contributo decisivo viene
dato, in questo senso, da A. Vonier con il suo studio A Key to thè Doctrine of thè Eucharist,
481Su queste diverse posizioni, cf. BETZ, «L’eucaristia come mistero centrale», in FEINER - Löh- RER (edd.), Mysterium
salutis,~VIII, 313-315.
482V. THALHOFER, Das Opfer des alten und des neuen Bundes, Regensburg 1870. Sostengono un’analoga posizione diversi altri
autori tra cui J.A. Mölher, H. Klee, M. Lepin.
483Già Suarez e i salmanticesi si erano orientati verso una simile teoria. Cf. R. GARRIGOU- LAGRANGE, De eucharistia, Torino
1944,290-300.
484M. DE LA TAILLE, Mysterium Fidei, Parigi 1931.
pubbhcato a Londra nel 1925.485 Specie dopo la sua traduzione in francese, avvenuta parzialmente
nel 1937 e, in modo completo, nel 1942, il libro avrà grandi risonanze, mostrando come la soluzione
della questione eucaristica non potesse essere ricercata che nel concetto di sacramento riferito alla
singolarità irripetibile del sacrificio di Gesù. La messa non è un sacrificio naturale, ma il sacrificio
di Cristo in forma sacramentale. Vonier approfondisce, in questa linea, come l’eucaristia, in quanto
sacramento della nuova legge, sia segno della passione dell’Unigenito di Dio e della sua
glorificazione. Per il fatto che l’eucaristia significa e contiene la morte di Cristo (il Christus
passus), rende presente il Signore Gesù stesso nel gesto della sua unica ed eterna oblazione al
Padre; ciò è possibile in forza di un atto sacramentale quale è appunto la «memoria eucaristica».
Indubbiamente la questione aveva bisogno di ulteriori chiarificazioni, ma pur nel modo in cui era
stata formulata aveva il merito di aver spostato l’attenzione dalla problematica delle teorie classiche
al rapporto tra l’evento unico della pasqua e la sua celebrazione eucaristica. 486 Uno sviluppo
teologico notevole che rimarrà acquisito fino a oggi.

All’evoluzione di questa dottrina corrisponde un significativo incremento della prassi


eucaristica e del culto della presenza reale di Cristo fuori della messa. La pietà appare
profondamente orientata all’adorazione del Signore e il tabernacolo acquista una posizione
particolarmente dominante nell’architettura delle chiese e nel contesto della preghiera delle
comunità. A causa del giansenismo, si verifica tuttavia un nuovo arresto nella frequenza alla
comunione eucaristica. Solo chi si sente perfettamente a posto può accostarvisi; il che allontana un
gran numero di fedeli dal banchetto del corpo e del sangue di Cristo. Un rilancio importante in
questo ambito è rappresentato dal decreto del 1905 di Pio X sulla comunione, il quale stabiliva
come scopo essenziale dell’azione eucaristica la santificazione dei battezzati e incoraggiava quindi i
cattolici alla comunione quotidiana. Data la polemica antiprotestante, si accentua invece la figura
dominante della ministerialità del sacerdote consacrante; meno il sacerdozio comune dei fedeli: che
l’assemblea concorra all’offerta del sacrificio in virtù del sacerdozio battesimale è un’idea
scarsamente presente nella coscienza comune di questo periodo. Sarà solo con il Vaticano II e il
post-concilio che si verificherà una svolta in questa direzione e l’assemblea dei fedeli tornerà a
occupare il ruolo che le compete.

4.2. LA RIFLESSIONE DEL XX SECOLO

L’impostazione controversista che domina l’orizzonte del XIX e della prima parte del XX
secolo viene violentemente messa in discussione dal modernismo, fin dai primi decenni del secolo
scorso. Il pensiero del modernismo riprende e ripropone buona parte delle tesi dei riformatori e
della teologia liberale protestante, contestando in modo radicale, oltre all’identità della Chiesa e
della fede, il carattere sacrificale della messa, la presenza reale di Cristo nell’eucaristia e il culto
eucaristico fuori della messa. La forte presa di posizione della Chiesa, con il decreto Lamentabili e
l’enciclica Pascendi del 1907 di Pio X,487 se per un verso contribuisce a ribadire i punti fermi della
dottrina eucaristica della Chiesa in un rinnovato contesto di tomismo, per l’altro mette in moto tutta
una serie di studi storici, biblici e di teologia sacramentale finalizzati a mostrare la peculiarità del
cristianesimo e dei suoi mysteria fidei che, sia pure lentamente, condurranno a una rilettura
rinnovata e più ricca del mistero eucaristico.
La prima spinta innovativa non è venuta dalla speculazione, ma dal movimento liturgico.
Partito da istanze pastorali, il movimento ha contribuito a riscoprire come il sacramento - e quindi
l’eucaristia - non sia soltanto un mezzo oggettivo di grazia, ma Vagire salvifico personale di Cristo:
incontro con il Redentore e attuazione della sua opera di salvezza. A questo primo sviluppo, si è
affiancata la rinnovata ricerca esegetica, storico-patristica e storico-liturgica, che ha condotto in

485A. VONIER, La chiave della dottrina eucaristica, Milano 1955.


486L’esplicazione di Vonier venne condivisa da molti autori, tra cui C.-V. HÉRIS, Le mystère du Christ, Paris 1927 e A. MICHEL,
«Messe», in DThC, X, 1143ss.
487Cf. rispettivamente: Denz 3401-3466 e Denz 3475-3500.
modo sempre più marcato a una rilettura dei sacramenti e dell’eucaristia sia in chiave anamne- tico-
salvifica, in linea con la tradizione patristica greca, sia in chiave personalista, in corrispondenza con
lo sviluppo del pensiero dialogico portato avanti da diverse correnti moderne di pensiero. Un
particolare contributo è stato offerto, in campo teologico, da Odo Casel il quale ha fornito un
fondamentale apporto per la riscoperta della liturgia come presenza dell’azione salvifica della
pasqua sotto il velo dei simboli e per un recupero della partecipazione attiva dei fedeli al sacrificio
eucaristico, il cui compimento implica la comunione come atto integrante. Sviluppi che ricevono la
loro conferma ufficiale grazie a Pio XII con l’enciclica Media- tor Dei del 1947 dove si dichiara che
l’eucaristia è la continuazione del sacrificio della croce di Cristo: memoria della sua morte e
risurrezione e partecipazione al mistero pasquale, da vivere nella fede.488

4.3. Il CONCILIO VATICANO II

Il Vaticano II ha saputo fare tesoro delle istanze in atto nella comunità cattolica, facendole
proprie, in una sintesi di alto livello, ancora non del tutto recepita sia a livello di riflessione
teologica che di prassi liturgica. Due tematiche, per quanto ci riguarda, sono fondamentali:
l’eucaristia nel contesto della liturgia della Chiesa come fons et culmen del settenario sacramentale
e Pinserimento della celebrazione eucaristica nella Chiesa come popolo sacerdotale.

Liturgia, eucaristia, sacramenti e sacramentali. L’economia sacramentale vive all’interno


dell’esperienza liturgica della Chiesa. L’eucaristia ne è il centro. Già la struttura della costituzione
Sacrosanctum conci- lium è indicativa: dopo il proemio, un’ampia sezione è dedicata alla liturgia
come sorgente e vertice della vita della Chiesa (c. I); si passa poi a trattare il mistero eucaristico,
cuore della fede della comunità e della sua economia sacramentale (c. II), e subito dopo i sacramenti
e i sacramentali (c. III), per analizzare infine la liturgia delle ore, il tempo liturgico, la musica e
l’arte sacra (cc. IV-VII). L’eucaristia, i sacramenti e i sacramentali appaiono inseriti in pieno nella
vita liturgica della Chiesa grazie alla quale, come dice la costituzione, «si attua l’opera della nostra
redenzione» e si vive il mistero della pasqua (SCI). Il soggetto originario dell’a- gire liturgico della
Chiesa è il Signore Gesù, eternamente risorto e vivente nella comunità dei suoi. La liturgia si
connota come sua presenza storica, secondo modi e livelli diversi (SC 1). Il centro di queste diverse
modalità di presenza è il mistero eucaristico nel quale si perpetua la memoria della morte e
risurrezione di Cristo, fino alla parusia finale, si riconosce il Kyrios e lo si adora (SC 47).

Attorno all’eucaristia, si pongono i sacramenti e i sacramentali; per mezzo di entrambi,


seppur a diversi livelli e con differente efficacia, si attua l’unico evento della redenzione nella
prospettiva della piena riconduzione di tutto sotto la signoria di Cristo, allorché la Chiesa intera par-
teciperà all’inno che viene eternamente cantato nelle sedi celesti (SC 59- 60). La Parola rivela
questa presenza del Risorto fra i suoi e la dispiega. Il riunirsi celebrativo dei fedeli obbedisce alla
medesima consapevolezza. Analogalmente ai sacramenti, i sacramentali manifestano e, per l’impe-
trazione della Chiesa, significano una consecratio mundi già in atto, seppure all’interno del «Teo-
dramma» che, nel tempo tra le due venute, pervade ancora la storia. A partire dall’eucaristia, dai
sacramenti e sacramentali, tutta la liturgia - dalla preghiera alla dedicazione delle persone e delle
realtà del creato a Dio - diviene azione indirizzata alla santificazione della vita umana e del cosmo.
È a questo livello che la liturgia ricupera gli stessi ritmi naturali del giorno, della settimana e
dell’anno (con la liturgia delle ore, la domenica e l’anno liturgico) e dello spazio (con l’edificio del
culto, l’arte sacra, la musica) e li santifica come «germe e inizio», nella città dell’uomo, del Regno
escatologico inaugurato dal Signore glorioso (SC 83-85; 102-106; LG 5).
La liturgia dei sacramenti e dei sacramentali offre ai fedeli ben disposti la possibilità di
santificare quasi tutti gli avvenimenti della vita per mezzo della grazia divina che fluisce dal mistero
488Per ulteriori ragguagli su questi sviluppi, cf. C. ROCCHETTA, Sacramentaria fondamentale. Dal «mysterion» al «sacramentum»,
Bologna 31999, specie 346-372. Per l’opera di O. CASEL, cf. ibidem, 360-362.
pasquale della passione, morte e risurrezione di Cristo; mistero dal quale derivano la loro efficacia
tutti i sacramenti e i sacramentali. E così quasi ogni uso retto delle cose materiali può essere
indirizzato alla santificazione dell’uomo e alla lode di Dio (SC 61).

L’universo liturgico rappresenta, in questo quadro, il recupero simbolico della condizione


originaria dell’Eden e, al tempo stesso, il preannuncio/ anticipazione della Gerusalemme celeste
(SC 8).

L’eucaristia, centro del popolo sacerdotale. Qualificando la liturgia «come l’esercizio del
sacerdozio di Cristo» (SC 7), la Sacrosanctum con- cilium aveva già aperto la strada
all’approfondimento che viene svolto nella Lumen gentium, specialmente ai numeri 10-11. Scelto
tra i popoli della terra, il nuovo popolo di Dio si presenta come un popolo sacerdotale: un popolo
interamente dedicato a Dio, chiamato a proclamare le sue grandi opere come «sacramento di
salvezza» per l’intero genere umano. Il paragrafo 10 descrive come il sacerdozio appartenga
all’intero popolo di Dio. Il paragrafo è suddiviso in due parti: nella prima, si evocano le numerose
attestazioni neotestamentarie nelle quali la Chiesa è qualificata come «un regno di sacerdoti» e un
«sacerdozio santo»; nella seconda, si approfondisce la natura di questo sacerdozio, presentandolo
come partecipazione al sacerdozio unico di Cristo e spiegando come esso supponga due forme
reciproche, seppur distinte, di attuazione: il sacerdozio comune che sgorga dal battesimo e il
sacerdozio ministeriale che deriva dal sacramento dell’ordine. Pur preoccupandosi di affermare che
le due forme si distinguono non solo di grado ma essenzialmente, l’accento del paragrafo è posto
sull’unità di un sacerdozio che appartiene a tutta la Chiesa e la fonda come comunità radicalmente
sacerdotale. Il sacerdozio ministeriale è anzi a servizio del sacerdozio comune, in una corrispon-
denza ontica reale. Non si tratta, come è ovvio, di confondere le due forme di sacerdozio o di
pensare che il sacerdozio ministeriale non sia essenziale; si tratta invece di reagire a un
esclusivismo che rischiava di ridurre il ruolo dell’assemblea dei fedeli a una semplice cornice
esterna, quasi che i battezzati partecipassero all’attuarsi dell’evento sacramentale solo con gesti
esteriori, assistendo, come si usa dire, senza essere strutturalmente coinvolti nel compiersi dell’atto
sacramentale. Nell’eucaristia, il ministero del vescovo o del presbitero è assolutamente
insostituibile; ma ciò non vuol dire che i fedeli siano degli spettatori o solo dei beneficiari di
qualcosa che si svolgerebbe al di fuori o al di sopra di loro; i battezzati costituiscono in realtà
un’assemblea con il ministro ordinato (benché necessariamente per mezzo di lui) che partecipa alla
grande offerta di Cristo al Padre. Il fedele non comunica a un sacrificio che solo il presbitero offre;
egli partecipa a un evento che l’assemblea intera celebra mediante il ministero del sacerdote. Questo
aspetto, espresso implicitamente nella conclusione del paragrafo 10 della LG, è chiarissimo neìYIn-
stitutio generalis del Messale Romano promulgato nel 1969 da Paolo VI: la celebrazione
eucaristica, centro di tutta la vita cristiana, è definita come «azione di Cristo e del popolo di Dio,
gerarchicamente ordinato» (IGMR 1). Il paragrafo 11 della LG considera l’eucaristia in relazione al
popolo sacerdotale sotto un triplice aspetto:

• è «fonte e apice» della vita cristiana, evocando come la Chiesa sia una comunità
essenzialmente eucaristica (come sarà più ampiamente spiegato in LG 26 in relazione alla Chiesa
particolare);
• tutti i battezzati, «partecipando al sacrificio eucaristico, offrono a Dio la vittima divina e se
stessi insieme con essa», sicché ognuno, fedeli e ministro, manifesta e attua la propria parte nel
compimento della celebrazione dell’eucaristia;
• la mensa eucaristica esprime, nel massimo grado, la comunione del popolo di Dio, la compie
e la produce, secondo la concezione patristico-agostiniana dell’eucaristia come sacramento di unità
(LG 26).

4.4. TEORIE POST-CONCILIARI


Partendo dalla riscoperta del pensiero simbolico, alcuni autori hanno cercato di rileggere il
dogma della presenza reale in una chiave più esistenziale rispetto a quella cosiddetta
«sostanzialista» della tradizione. Riprendendo il principio di Tommaso secondo cui «sacramentum
ponitur in genere signi»,489 essi intendono interpretare il mistero eucaristico in rapporto al concetto
di significato e funzione nuova che i doni del pane e del vino acquistano dopo la consacrazione. In
quanto simboli, i doni consacrati subiscono un cambiamento di significato e di finalità, più che di
natura o essentia; di qui la terminologia di «transignificazione» e «transfinalizzazione» in luogo di
quella di «transustanziazione». La dogmatica tradizionale aveva considerato il significato dei segni
del pane e del vino nella cena sotto l’aspetto ontologico-naturale, prima e dopo la consacrazione.
Nella nuova interpretazione la loro novità di contenuto deriva dall’insieme dell’evento celebrato: se
in se stessi gli elementi del pane e del vino sono dei semplici mezzi di nutrizione, in forza
dell’azione eucaristica divengono segno e strumento dell’auto dedizione di Cristo ai suoi nella sua
carne e nel suo sangue e quindi segno dell’incontro personale del Risorto con i suoi. Più che
ontologicamente, il cambiamento va inteso in senso dinamico-funzionale, prò nobis, per noi e per
la nostra salvezza.

Il primo a elaborare questa concezione sembra sia stato J. de B aciocchi, in Olanda,490


ripreso da altri autori nordeuropei.491 Pare essere orientata in questa linea la spiegazione che sarà
data qualche anno più tardi dal Catechismo olandese: «La proprietà o l’essere delle cose materiali
con- sistr in ciò che esse sono per l’uomo, ciascuna a modo suo. Così, per noi la proprietà del pane
è di essere nutrimento terrestre per l’uomo. Nel pane della messa, questo essere diviene qualcosa di
totalmente diverso: il corpo di Gesù come nutrimento per la vita eterna». 492 Nel quadro di una
simile concezione, nella consacrazione eucaristica, si danno dei mutamenti di senso, ma senza che
ciò comporti una trasformazione nell’essere stesso delle realtà del pane e del vino. I concetti di
transignificazione e di trans- finalizzazione equivarrebbero, secondo i sostenitori di queste teorie, a
quello di transustanziazione. Ma è proprio qui il punto di rottura critica. Le due forme di
cambiamento non sono affatto eguali o equivalenti. La prima è legata alla soggettività della persona
e della fede: sono io, come singolo e come comunità, che - in forza dell’azione celebrativa - conferi-
sco un nuovo significato agli elementi del banchetto eucaristico; la seconda all’oggettività delle
realtà che entrano in gioco; le realtà subiscono un cambiamento interno, nella loro sostanza, e non
solo sul piano della mia adesione. Nel concetto di transignificazione e transfinalizzazione il rischio
è che la presenza reale svanisca come presenza reale. Va in questa linea la critica alle nuove teorie
avanzata da C. Colombo, il quale si collega al concetto di sostanza per mostrare come il
cambiamento debba essere inteso in un senso oggettivo; certo non a un livello fisico-chimico, ma
metafisico, da sostanza a sostanza, ribadendo in questo modo la dottrina classica e specificandola.493

Il risvolto positivo della discussione è di aver evidenziato la dimensione personalistico-


relazionale della presenza di Cristo nell’eucaristia: il Signore Gesù si rende presente nei
simboli/segni sacramentali eucaristici per incontrarsi con noi: come Qualcuno, non come qualcosa.
L’essenziale è non separare nell’eucaristia Vesse-pro-nobis àzll’esse-in di Cristo. Infatti, solo se la
presenza del Kyrios è un in sé, al di là degli elementi visibili, può essere un per-noi, e l’incontro col
Cristo eucaristico viene sottratto all’arbitrio soggettivo, agli alti e bassi della sola attualità della
fede. Sussiste una precedenza ontologica della transustanziazione senza cui non è possibile parlare
di transignificazione e tranfinalizzazione. È entro queste preoccupazioni che si muove Paolo VI
nell’enciclica Mysterium fidei del 1967 quando afferma un legame causale tra transustanziazione e
presenza di Cristo, lasciando intendere come solo per questa via si possa parlare di nuovo
significato e nuova finalità assunti dagli elementi eucaristici, mentre non è vero il contrario. La
489STh, q. 60, aa. 1-3.
490J. DE BACIOCCHI, «Le mystère eucharistique dans les perspectives de la Bible», in Nouvelle revue théologique 77(1955), 561-
580; ID., «Présence eucharistique et transsubstantiation», in Irénikon 33(1959), 139-164.
491Per uno sguardo di sintesi, cf. E. SCHILLEBEECKX, La presenza eucaristica, Roma 1968; e J. POWERS, Teologia eucaristica,
Brescia 1969.
492II Nuovo Catechismo Olandese, Leumann (TO) 1969,55-60; A AS 60(1968), 689.
493C. COLOMBO, «Teologia, filosofia e fisica nella dottrina della transustanziazione», in La Scuola Cattolica 83(1955), 89-124.
stessa verità viene ribadita con forza nella professione di fede proclamata dallo stesso pontefice il
30 giugno 1968 alla chiusura dell’anno della fede:
Noi crediamo che la messa, celebrata dal sacerdote che in virtù del potere ricevuto nel
sacramento dell’ordine rappresenta la persona di Cristo e da lui offerta nel nome di Cristo e dei
membri del suo Corpo mistico, è il sacrificio del Calvario reso sacramentalmente presente sui nostri
altari. Noi crediamo che, come il pane e il vino consacrati dal Signore nell’ultima cena sono stati
convertiti nel suo corpo e nel suo sangue che di lì a poco sarebbero stati offerti per noi sulla croce,
allo stesso modo il pane e il vino consacrati dal sacerdote sono convertiti nel corpo e nel sangue di
Cristo gloriosamente regnante nel cielo; e crediamo che la misteriosa presenza del Signore, sotto
quello che continua ad apparire come prima ai nostri sensi, è una presenza vera, reale e sostanziale.
Pertanto Cristo non può essere presente in questo sacramento se non mediante la conversione nel
suo corpo della realtà stessa del pane e mediante la conversione nel suo sangue della realtà stessa
del vino, mentre rimangono immutate soltanto le proprietà del pane e del vino percepite dai nostri
sensi. Tale conversione misteriosa è chiamata dalla Chiesa, in maniera assai appropriata,
transustanziazione. Ogni spiegazione teologica, che tenti di penetrare in qualche modo questo
mistero, per essere in accordo con la fede cattolica, deve mantenere fermo che nella realtà obiettiva,
indipendentemente dal nostro spirito, il pane e il vino hanno cessato di esistere dopo la consacra-
zione, sicché da quel momento sono il corpo e il sangue adorabili del Signore Gesù ad essere
realmente dinanzi a noi sotto le specie sacramentali del pane e del vino, proprio come il Signore ha
voluto, per donarsi a noi in nutrimento e per associarci all’unità del suo Corpo mistico. L’unica ed
invisibile esistenza del Signore glorioso nel cielo non è moltiplicata, ma resa presente dal
sacramento nei numerosi luoghi della terra dove si celebra la messa. Dopo il sacrificio, tale
esistenza rimane presente nel santo sacramento che è, nel tabernacolo, il cuore vivente di ciascuna
delle nostre chiese. Ed è per noi un dovere dolcissimo onorare e adorare nell’Ostia santa, che
vedono i nostri occhi, il Verbo Incarnato, che essi non possono vedere e che, senza lasciare il cielo,
si è reso presente dinanzi a noi.

Gli anni ’70-80 e gli ultimi decenni del secolo scorso hanno vissuto sull’onda lunga del
concilio e degli sviluppi conseguenti, aiutati sia dall’attuazione della riforma liturgica che
dall’elaborazione dei nuovi Catechismi nazionali. Un ruolo particolare in questo quadro lo ha
assunto la pubblicazione del Messale Romano del 1969 e l’Institutio generalis posta all’inizio del
nuovo Messale, con le puntuali precisazioni sul concetto di messa apportate nei proemio in risposta
ad alcune critiche avanzate circa il rischio di trascurarne la dimensione sacrificale a vantaggio di
quella conviviale.494 Importanti passi sono stati inoltre iniziati in campo ecumenico, specialmente
con il documento di Lima Battesimo, Eucaristia e Ministero del 1982 e con gli incontri che ne sono
seguiti.495

494Cf. Institutio generalis. Principi e norme per l’uso del Messale Romano, Roma 1984.
495Sul tema eucaristia ed ecumenismo si può vedere, tra i tanti lavori, la disamina offerta in Eucaristia sfida alle chiese divise (L.
SARTORI ed.), Padova 1984. Inoltre: L. SARTORI, «L’eucaristia: fonte e culmine della comunione», in E.R. TURA (ed.), Per una
teologia in Italia, Padova 1990,1,380- 391; e G. GOTTARDI, «L’assemblea di Graz “alla luce della compassione di Dio”», in Credere
Oggi 106(1998), 67-82.
CAPITOLO TERZO INQUADRAMENTO SISTEMATICO
«Il nostro Salvatore nell’ultima cena, la notte in cui fu tradito, istituì il sacrificio eucaristico
del suo corpo e del suo sangue, onde perpetuare nei secoli, fino al suo ritorno, il sacrificio della
croce, e per affidare così alla sua diletta sposa, la Chiesa, il memoriale della sua morte e della sua
risurrezione; sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità, convito pasquale, nella quale sì
riceve Cristo, l’anima viene colmata di grazie e ci è dato il pegno della gloria futura» (SC 47).

1. Mistero della fede tra il «già» e il «non ancora»

Il mistero dell’eucaristia presenzializza in forma sacramentale l’evento unico


dell’autoconsegna dell’Unigenito al Padre sulla croce e concentra in sé il massimo grado della
presenza del Signore glorificato in mezzo a noi; come tale, esso costituisce un accadimento che
supera ogni logica umana o possibilità di esplicazione razionale. Di fronte a esso l’unica via di
accesso è la fede; una fede colma di stupore e di lode. Senza questa attitudine, l’eucaristia si riduce
a un segno vuoto o a un rito privo di contenuto reale. È questa la ragione per cui, nel cuore stesso di
ogni celebrazione eucaristica, il presidente dell’assemblea esclama con forza, quasi gridandolo:
mysterium fidei, «mistero della fede»; un’esclamazione che costituisce al tempo stesso un annuncio
e un invito, una pro-vocazio- ne e un imperativo, affinché i fedeli si ricordino che, senza la fede,
non si può partecipare in verità all’azione eucaristica. L’eucaristia è talmente un mistero di fede che,
al di fuori di un simile contesto, non può essere compresa, né celebrata. Quanto si compie in essa
può essere attinto solo da chi possiede occhi che sanno andare al di là del visibile e un cuore aper to
all’accadimento che si attua - per la potenza dello Spirito invocato - sull’altare. Lo stesso linguaggio
teologico che cerca di «dire» l’eucaristia e le concettualizzazioni a cui il pensiero cristiano ricorre
possono essere validamente impiegati solo entro un contesto di accoglienza credente: è la fede che,
aderendo a Cristo e alla sua Parola, cerca un’intelligenza sempre più profonda di ciò che già
crede, non il contrario.

Solo chi riconosce Gesù come il Figlio di Dio, Redentore dell’uomo e del mondo, e si apre
al suo essere venuto da parte del Padre nel mondo (Gv 6,32-40) è in grado di partecipare
all’oblazione eucaristica e «mangiare» e «bere» la sua «carne» e il suo «sangue» (Gv 6,53). Chi
crede in Gesù, crede che egli sia il pane vivo disceso dal cielo; pane che il Padre ha donato non
come la manna che i padri mangiarono e morirono, ma come il pane vero che dà la vita al mondo
(Gv 6,48-50). E tale è la promessa del Salvatore: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha
la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue
vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui» (6,54-56).
Chi accoglie le parole del Figlio accoglie il dono del Padre che, come lo ha risuscitato da morte,
così continua a donarlo all’umanità come pane di vita per la salvezza di chiunque crede in lui. Non
è senza significato che, di fronte allo scandalo degli ascoltatori, Gesù non attenui per niente il senso
delle sue parole ed esiga invece la disponibilità della fede (6,59-66), aggiungendo che ciò è
possibile nella grazia dello Spirito, non in un ambito di mera materialità carnale (6,63).

La fede è il solo modo, dunque, per essere iniziati alla «realtà» a cui il «segno» rimanda e
porsi in contemplazione adorante del Signore eucaristico, tra il «già» e il «non ancora» nel tempo
attuale dell’historia salutis. L’appello alla fede non va compreso, peraltro, come richiamo a un
fideismo cieco o come l’adesione a un qualcosa di arbitrario che non attingerebbe ad alcun contesto
di riferimento o di intelligibilità; al contrario, si colloca in profonda continuità con la pedagogia
dell’incarnazione reden- tiva, accolta e riconosciuta come l’evento decisivo della storia. Parlare di
«incarnazione» significa fare riferimento all’autocomunicazione personale di Dio-Trinità all’uomo-
Gesù. L’eucaristia appartiene al medesimo dinamismo storico-salvifico come - per i padri greci -
un’incarnazione sacramentale, un prolungamento del donarsi di Dio all’uomo nel suo Logos.
Secondo l’inno riportato in Fil 2,6-11, l’incarnazione costituisce un abbassamento che raggiunge il
suo limite supremo nell’immersione di Gesù nella morte di croce; una kenosis nella quale l’umanità
assunta dall’Unigenito raggiunge il punto più basso della sua discesa, prima della sua ascesa in
forza della risurrezione gloriosa (Ef 4,9-10). «Contro ogni apparenza, questa morte non è una
separazione da Dio, ma un ritorno a lui, un doloroso rimettersi a lui. Il Padre accoglie questo
sacrificio del Figlio suo, e a motivo dell’eccellenza del soggetto, della vittima e dell’azione sacrifi-
cale», lo riceve come oblazione di valenza infinita e, in risposta, «risuscita il Crocifisso ad una vita
trasfigurata, non più sottomessa alle limitazioni spazio-temporali» e nella quale Gesù stesso dispone
del suo essere in una maniera nuova e insospettata. 496 Il convito dell’ultima cena era un’anticipa-
zione di questo accadimento totale. L’eucaristia si situa entro di esso e corrisponde alla medesima
logica di sviluppo: è un evento di incarnazione redentiva dentro l’unico evento di Gesù, il Cristo, e
ne è l’attualizzazione nel tempo della Chiesa. Gli elementi del pane e del vino, in virtù dello Spirito,
si offrono a noi come segni reali nei quali si continua e si dispiega questa economia in favore della
Chiesa e del mondo.

2. «Memoriale» della pasqua di Cristo

L’ultima cena - come si è visto - si pone nel quadro dell’antica tradizione del memoriale
ebraico legato all’uscita dall’Egitto, ma con Gesù che vi inserisce la novità peculiare della sua
pasqua: al centro non è più l’agnello il cui sangue era stato segno di salvezza per le famiglie
israelitiche, ma lui stesso, il Servo di YHWH, il nuovo agnello di Dio che toglie il peccato del
mondo (Gv 1,29). Compimento di un’esistenza totalmente per noi, la cena del Giovedì santo svela il
mistero di morte e di vita che l’Unigenito incarnato sta attuando in se stesso, inaugurandolo: è
«memoria» anticipatrice del sacrificio della croce e della grazia che scaturisce dalla risurrezione.
Sussiste un legame indissolubile tra l’ultima cena e la morte di Gesù: la cena di addio è come il
sacramento del sacrificio della croce, lo preannunzia e lo compie in figura; è quel medesimo
evento, anche se, nella sua forma cruenta, sarà consumato solo con la passione e morte. Il «pane» e
il «vino» offerti in dono sono il «suo corpo dato» e il «suo sangue versato», profezia in atto della
sua oblazione al Padre, «pane che dà la vita al mondo» e «bevanda di salvezza». Sussiste una
relazione inseparabile tra la cena pasquale di Gesù e la sua pasqua di morte e di risurrezione. Allo
stesso modo, sussiste un’altrettanto inseparabile unità tra quell’evento (nella sua totalità di cena-
morte-risurrezione) e la «memoria» eucaristica attuata dalla Chiesa. Due unità che non devono mai
essere scisse, pena una mancata comprensione del sacramento dell’altare. Si tratta di un unico
accadimento di grazia.

Ogni qualvolta la comunità dei discepoli, obbedendo al comando del suo Signore, si riunisce
per «far memoria» della pasqua, non celebra una seconda o una nuova pasqua, ma l’unica pasqua
vissuta da Gesù. Non si deve pensare a due realtà separate o separabili, ma a un unico e medesimo
avvenimento; ciò che cambia è il modo: sulla croce l’azione oblativa si compie in forma cruenta,
sull’altare in forma incruenta; sulla croce è Cristo che si offre al Padre in rappresentanza vicaria di
tutta l’umanità, sull’altare egli unisce alla sua offerta la Chiesa ed è attraverso il gesto posto dalla
Chiesa che attua la presenza del suo mistero oblativo. È verità di fede, come si è notato, che
l’eucaristia non è un sacrificio numericamente distinto da quello della croce, ma quell’unico e
medesimo sacrificio reso presente nell’atto sacramentale della Chiesa (Denz 1740; 1743)). I padri
del concilio di Trento hanno opportunamente spiegato l’unità tra l’evento della croce e la sua
celebrazione eucaristica ricorrendo al concetto biblico di memoria, a cui hanno collegato i termini
di repraesentatio e applicatio (Denz 1739-1741). E tale è infatti la portata del «memoriale»
eucaristico (zikkarón) anàmnests); non si tratta di un semplice ricordo mentale, ma della presenza
reale dell’evento che si ricorda, partecipando a esso come a un oggi di vibrante attualità. Ogni
volta che la Chiesa pone in essere la memoria eucaristica rivive l’evento unico della pasqua o,
meglio, è il Signore stesso che, nella potenza del suo Spirito operante nella Chiesa, lo presenzializza

496BETZ, «L’eucaristia come mistero centrale», in FEINER-LÖHRER (edd.), Mysterium salutis, Vili, 327.
e chiama i suoi a mangiare il suo corpo dato e a bere il suo sangue versato, incontrandosi con lui,
vivente nella comunità dei suoi sino alla fine dei tempi (Mt 28,20). L’eucaristia, nella fede della
Chiesa, è il «memoriale» attuativo di quell’evento unico e irripetibile.497

3. Sacramento del sacrificio della croce

Un contenuto che, entro questo quadro generale, è stato posto costantemente in luce dalla
fede della Chiesa concerne il carattere sacrificale della memoria eucaristica: l’eucaristia è il
sacramento del sacrificio di Cristo. È dottrina di fede, come si è avuto modo di verificare, che l’eu-
caristia è «un vero e proprio sacrificio» (Denz 1751), prefigurato dagli antichi sacrifici e istituito da
Cristo stesso (Denz 1739-1742); sacramento di un sacrificio non a titolo di una semplice
commemorazione rituale, ma come una sua effettiva attualizzazione/attualità (Denz 1753). Nella
memoria eucaristica, infatti, è contenuto e immolato in modo incruento lo stesso Cristo che si
offerse una volta in modo cruento sull’altare della croce... Si tratta, infatti, di una sola e identica
vittima e lo stesso Gesù la offre ora per il ministero dei sacerdoti; egli che un giorno offrì se stesso
sulla croce: diverso è solo il modo di offrirsi (Denz 1743).

La motivazione di questa verità di fede è stata evidenziata dall’analisi biblica nel primo
capitolo e dallo sviluppo del dogma nel secondo. Da questa duplice analisi è emerso che, se è vero
che il NT non usa la parola «sacrificio» (thusìa) per indicare l’eucaristia, i sinottici e Paolo colloca-
no con evidenza l’ultima cena nel contesto della pasqua ebraica e l’interpretano come una
prefigurazione anticipata dell’oblazione di Gesù sulla croce. La tradizione (orientale e occidentale)
è unanime, d’altra parte, nel considerare l’eucaristia in relazione al sacrificio unico di Cristo come
un vero e proprio sacrificio sacramentale. Il concilio di Trento fa riferimento a questa tradizione
quando afferma l’identità tra l’offerta della croce e quella che «si compie nella messa» (quod in
missa peragitur; Denz 1743). Lungo la storia del pensiero cristiano, gli autori hanno cercato di
esplicare in diversi modi questo carattere dell’eucaristia, elaborando teorie talvolta non sempre
convincenti. Il loro limite è stato di muovere più da una definizione di sacrificio desunto dalle
religioni e dall’ebraismo che dalla natura peculiare della morte di Gesù sulla croce. L’orientamento
teologico odierno si muove in questa seconda direzione.

3.1. AUTO-OBLAZIONE PERENNE DEL KYRIOS

Ogni volta che la Chiesa si riunisce in assemblea eucaristica per far memoria della pasqua è
lo stesso Signore Gesù che attualizza l’oblazione unica di sé al Padre, compiuta «una volta per
sempre» (éphapax). Grazie alla messa il sacrificio che Cristo ha offerto sulla croce rimane perenne-
mente in atto e lo sarà sino alla fine dei secoli. La domanda che ha occupato gran parte della
riflessione cristiana riguarda il modo in cui questo sia possibile. Come si spiega l’identità tra
l’evento pasquale vissuto da Gesù e la celebrazione sacramentale della Chiesa? Come evitare il
pericolo di pensare a un moltiplicarsi dell’unico sacrificio della pasqua nel mol teplice dispiegarsi
della memoria eucaristica nello spazio e nel tempo? Come si motiva l’identità numerica tra la
morte di croce e la messa?

Il concetto a cui occorre far riferimento è la nozione agostiniana di sacrificio, inteso come
atto di oblazione interiore, manifestato in un gesto visibile.498 Ciò che fonda la realtà sacrificale
della morte di Cristo, e la rende salvifica per sempre e per tutti, non è tanto il sangue versato o la
distruzione della vittima in quanto tale, ma l’atto volontario, l’auto- oblazione interiore, libera e
gratuita, mediante cui l’Unigenito incarnato si è offerto «una volta per sempre» al Padre per tutti
noi. Ciò che rende efficacemente redentivo il sacrificio della croce - nella sua essenza profonda -
non è tanto la sofferenza fisica, morale o spirituale vissuta da Gesù, ma l’opzione lìbera (Gv 10,17-
18) con la quale egli si è consegnato al Padre per tutti (Gv 19,28-30); un’opzione anzitutto interiore
497Per un’analisi più ampia del concetto biblico di «memoria», cf. ROCCHETTA, I sacramenti della fede, 2001 (8a ed.), 1,226-250.
498Cf. Civ. Dei, 10,6 (CSEL 40/1,454).
che appartiene al suo Io divino, pur venendo espressa e vissuta nella natura umana ipostaticamente
assunta ed esteriorizzata nella forma del sacrificio cruento della croce. Il soggetto degli atti umani di
Gesù è il suo Io personale, l’Io della seconda persona della Trinità al cospetto del Padre e vivente
nello Spirito. Tenendo presente questo duplice livello dell’essere proprio di Gesù e del suo agire, si
deve dire:

1. che la croce rappresenta un atto storicamente collocabile nello spazio e nel tempo, in quanto
vissuto come evento di passione e morte nella carne assunta e che, come tale, riveste una determi-
nata configurazione storica cruenta, irripetibile per sé, situata com’è in un passato definitivamente
passato;
2. che quel medesimo atto, in quanto posto dall’Io divino di Gesù, costituisce un atto meta-
storico, in grado di trascendere lo spazio e il tempo, al punto che, una volta realizzato, è realizzato
per sempre e acquisito in modo irrevocabile in Cristo Gesù, il Risorto in eterno.

L’oblazione della croce come atto interiore, libero e gratuito, appartiene infatti all’Io divino
del Logos incarnato e valica, in quanto tale, i confini della localizzazione storica, rimanendo ben
oltre i secoli e il luogo. Entrato nella gloria del Padre, con la sua risurrezione e ascensione al cielo,
il Cristo glorioso è definitivamente colui che, dopo aver offerto se stesso per tutti, vive in un
atteggiamento di perenne offerta al Padre, «sempre vivente ad intercedere in nostro favore» (Eb
7,25). Quando la Chiesa, in risposta al comando del suo Signore, si riunisce per far memoria
dell’evento pasquale, non moltiplica e neppure semplicemente rinnova l’oblazione unica di Cristo -
quasi si trattasse di un qualcosa d’altro o addirittura di diverso -, ma attualizza quell’unico
accadimento oblativo, rivivendolo nell’oggi della sua celebrazione sacramentale. Il soggetto
operante della «memoria eucaristica» rimane sempre lo stesso Kyrios glorioso: è lui che rende
presente il suo unico gesto di offerta pasquale nell’azione celebrativa della Chiesa. Il contenuto di
quella celebrazione non è altro che l’unico atto sacrificale vissuto da Gesù sulla croce nel suo
significato salvifico incruento e trascendente.

L’eucaristia proclama, in tal modo, la permanenza indistruttibile del Risorto nel tempo tra le
due venute e la continua attualità dell’oblazione unica che egli ha vissuto e presenta perennemente
al Padre e di cui rende com-partecipe la Chiesa. È in questa precisa accezione che l’eucaristia è
«sacramento di un sacrificio» o «sacrificio sacramentale». Già le parole dell’istituzione e il loro
riferimento all’evento della passione ce lo hanno fatto intravedere. «Mangiare quel pane» e «bere
da quel calice» - direbbe Paolo - è «annunciare la morte del Signore, finché egli venga» (ICor 11,
26). Va in questa direzione la convinzione di fede secondo cui l’eucaristia è un vero e proprio
sacrificio (Denz 1751): sacramento dell’unico sacrificio di Cristo, al quale tutti i fedeli - ben
disposti - sono invitati a partecipare come una vera comunità conviviale (SC 48 e 55).

3.2. ATTO DI CRISTO E DELLA CHIESA

Quanto si è detto richiede che si puntualizzi come la messa non sia un ricordo realizzato da
altri e neppure semplicemente dalla Chiesa isolatamente considerata, ma la presenzializzazione
dell’unico evento pasquale, attuata dal Kyrios stesso, sedente alla destra del Padre: un suo atto, in
un’azione sacramentale della Chiesa. La comunità ecclesiale, il celebrante e l’assemblea dei fedeli
svolgono un ruolo di mediazione fondamentale, ma il ministro originario costitutivo della
celebrazione eucaristica è lo stesso Signore Gesù, eternamente glorificato presso il Padre (Eb 7,26-
28), il quale è «in possesso di un sacerdozio che non tramonta» (Eb 8,1-2; 9,12.24). Non sempre
questo dato teologico è stato tenuto nel debito conto o esplicitato come sarebbe stato opportuno. La
stessa forma delle preghiere eucaristiche post-conciliari non lo evidenzia abbastanza. Fa eccezione
la quinta (a,b,c,d) quando, dopo la consacrazione, afferma: «Guarda, Padre santo, questa offerta: è
Cristo che si dona con il suo corpo e il suo sangue, e con il suo sacrificio apre a noi il cammino
verso di te». «È Cristo»: in effetti - e non si dovrebbe mai dimenticarlo - ogni volta che la Chiesa si
riunisce in assemblea per celebrare il mistero dell’eucaristia partecipa a un evento che è anzitutto un
atto del Signore Gesù e solo subordinatamente un suo agire: offertosi una volta per sempre sulla
croce, egli attualizza la sua unica oblazione al Padre nel gesto sacramentale della Chiesa.

La presenzializzazione che Cristo fa di sé, e della sua unica offerta pasquale, suppone
necessariamente la Chiesa, suo corpo. Il Signore glorificato non può agire, in forma sacramentale,
nel tempo tra le due venute, se non attraverso il nuovo Israele di Dio che è la Chiesa, sacramento
fondamentale della sua presenza nel mondo. Il gesto sacrificale di Cristo si attualizza in forza
dell’azione posta dalla Chiesa, e non può esistere azione eucaristica che non sia azione ecclesiale.
Ogni eucaristia è celebrazione della Chiesa: è lei, nella sua interezza, che fa memoria, rende grazie,
offre e si offre, invoca il Padre, per mezzo di Cristo, con Cristo e in Cristo, nell’unità dello Spirito
Santo. Questa dimensione è simbolica- mente manifestata dalla stessa assemblea dei fedeli,
gerarchicamente ordinata e presieduta dal ministro, vescovo o presbitero. 499 Ogni messa è
accadimento ecclesiale, pubblico, e non può mai essere intesa come un agire individuale o privato
(SC 27; 48). Dire che l’eucaristia è azione di Cristo nella Chiesa e per mezzo della Chiesa, significa
affermare che l’eucaristia è azione del «Cristo totale» (Christus caput et corpus), secondo la dizione
cara ad Agostino: azione del Capo e del suo corpo, inseparabilmente uniti in virtù dello Spirito
Santo. Le due azioni sono tanto profondamente intrecciate che l’una non può stare senza l’altra.
Non a caso, secondo l’ottica neotestamentaria e patristica, sussiste una profonda corrispondenza tra
il corpo storico di Gesù di Nazaret, il corpo di Cristo che è la Chiesa e il corpo di Cristo che è
l’eucaristia. Si tratta di un’unica economia divina che ha operato l’evento dell’incarnazione nel
grembo di Maria, ha suscitato la nuova comunità nella potenza dello Spirito di Pentecoste e attua la
memoria eucaristica nella potenza dello stesso Spirito. Chiesa ed eucaristia, come si è avuto modo
di constatare, sono il «corpo di Cristo» e come tali, senza ulteriori aggettivazioni, sono state
qualificate durante il primo millennio. Sarà solo successivamente, dopo l’eresia di Berengario, che
si tenderà a evidenziare in modo sempre più marcato la distinzione tra l’eucaristia, corpus Christi
verum, e la Chiesa, corpus Christi mysticum. La teologia contemporanea, opportunamente, tende a
recuperare questa unità originaria: eucaristia e Chiesa non esistono da sole, l’una fa l’altra-, ed è
nella loro corrispondenza reciproca che rappresentano l’epifania del Kyrios vivente nei secoli.
L’antichità cristiana sottolineava questa profonda unità nell’uso stesso dei verbi conficere, efficere,
fieri, convertere, mutare, transire, trasfigurare, usati sia per indicare la trasformazione del pane e
del vino nel corpo e nel sangue di Cristo sia per esprimere la formazione del corpo ecclesiale dei
battezzati e il suo realizzarlo nella comunione eucaristica. È sufficiente ricordare la lapidaria
affermazione di Stefano di Baugè: «Conficere unum corpus quod est Christus et Ecclesia», 500 o le
parole che Gerardo di Cambrai mette sulla bocca di Cristo: «Meam carnem credentibus distribuo,
ipsos in meum corpus transfundo», «Distribuisco la mia carne ai credenti e li faccio diventare il mio
corpo».501

Il convito del Signore è l’attuazione più radicale, intensa e profonda della Chiesa, corpo di
Cristo. «In esso, infatti, Cristo prende corpo nei segni sacramentali e si consegna ai cristiani al fine
di incorporarseli, non solo spiritualmente ma anche in maniera corporale-totale, di renderli suo
corpo e di coinvolgerli così nel suo movimento sacrificale per elevarh al Padre». 502 È grazie a questa
incorporazione/coinvolgimento che il sacrificio unico di Cristo diventa il sacrificio attualizzante
della Chiesa e dei cristiani. L’una e gli altri resi partecipi dell’evento oblativo unico del loro
Signore, in una reale identità sostanziale che va dall’atto sacrificale di Cristo alla memoria
celebrativa della Chiesa, e viceversa. È quanto, commentando la Lettera agli Ebrei, Giovanni
Crisostomo ha espresso in una maniera estremamente chiara e puntuale: «Anche noi ora offriamo il
sacrificio del grande sacerdote offerto una volta... e nessun altro, ma sempre il medesimo
sacrificio».503 L’atto interiore che costituisce l’essenza peculiare del sacrificio unico di Cristo passa
499Introduzione al Messale Romano, c. 1, n. 1.
500Traci, de sacr. altaris, 12 (PL 172,1285). Cf. B. BOTTE, «Conficere corpus Christi», in Année théologique 8(1947), 309-315.
501Ep. a Reginaldo (PL 142,1280A).
502BETZ, «L’eucaristia come sacramento centrale», in FEINER-LÖHRER, Mysterium salutis, Vili, 328.
503In Hebr. hom. 17,3 (PG 63,131). Il testo completo è già stato riportato nella sezione storica, c. II, 1,1.3, p. 241.
alla Chiesa, quasi personificato nell’atto stesso con cui la Chiesa offre e si offre con la celebrazione
eucaristica. I doni sacrificali del pane e del vino, infatti, non sono soltanto dei simboli dell’auto-
oblazione di Cristo, ma in pari tempo simboli della Chiesa che offre e si offre in essi. Memores...
offerimus, «ricordando... offriamo», proclama il celebrante a nome di tutta l’assemblea eucaristica
dopo la consacrazione. L’evento dell’auto-oblazione perenne del Kyrios si trasforma in un atto
sacramentale, situato nel tempo e nello spazio, e quindi raggiungibile da noi, mediante l’agire della
Chiesa, sacramento fondamentale della sua presenza e della sua azione nel mondo. È alla sua
Chiesa che Cristo ha comandato di «fare la memoria» della pasqua, finché egli torni. Il sacrificio
della croce è affidato al popolo nuovo guidato dalla comunità degli apostoli e su cui ha effuso la
potenza del suo Spirito: è questa comunità che, mediante il ministro e l’assemblea, pone il
sacramento del sacrificio di Cristo. L’eucaristia è azione di Cristo per mezzo della Chiesa e come
azione della Chiesa:

• in quanto sacrificio è esclusivamente atto del Signore glorioso;


• in quanto sacramento è atto della Chiesa, corpus Christi.

Questo dice perché, offrendo, la Chiesa si offre. Facendo memoria dell’«una volta per
sempre» del sacrificio della croce e attualizzandolo sacramentalmente, la Chiesa è coinvolta in tutte
le profondità del suo essere in ciò che celebra, divenendo partecipe dell’offerta unica del suo
Signore. «Far memoria» dell’evento pasquale significa, per la comunità cristiana, ripercorrere
Vitinerario fondatore della propria nascita e rinascere di continuo in ciò che celebra come comunità
della pasqua del Signore. Ogni volta che la Chiesa celebra l’eucaristia, essa accetta di lasciarsi
plasmare da quell’evento e divenire comunità che vive in atteggiamento di perenne offerta al Padre
in Gesù, il Crocifisso, risorto in eterno, e nel suo Spirito.504 Un’idea, questa, reperibile nelle più
antiche iconografie dove la Chiesa è spesso rappresentata come una donna in preghiera, con le
braccia aperte, in attitudine orante: come il Cristo offerente, la comunità ecclesiale vive in
atteggiamento offerente e - per mezzo di lui, in lui e con lui - offre e si offre al Padre, intercedendo
per tutta l’umanità. Il sacrificio cruento di Cristo acquista così, nel sacrificio cultuale della Chiesa,
una sua presenzialità spazio-temporale in ordine alla progressiva integrazione dell’umanità nel
Christus totalis. La Chiesa eucaristica è primizia e segno di questa nuova umanità rigenerata nel
Risorto e radicalmente protesa verso la gloria della Trinità.

3.3. EPIFANIA DELLO SPIRITO

L’attualizzazione del mistero pasquale nell’azione celebrativa della Chiesa è possibile grazie
alla potenza dello Spirito operante nel nuovo Israele; azione che rende capace la comunità credente
di «far memoria» nel segno dell’evento unico del sacrificio pasquale e presenzializzarlo nella
realtà. Da sola la Chiesa non potrebbe far niente: è lo Spirito il principio sorgivo dell’agire
sacramentale della Chiesa. Così, se l’eucaristia è atto del Kyrios glorioso, essa è in stretta relazione
con lo Spirito che il Cristo ha promesso e inviato da parte del Padre sulla Chiesa. L’eucaristia è
dono dello Spirito, come viene evocato dall’epiclesi, e dona lo Spirito, in quanto - secondo i padri -
realizza un particolare contatto dei fedeli con l’umanità glorificata di Cristo. 5051 manuali classici
post-tridentini non davano un esplicito rilievo alla dimensione pneumatologica dell’eucaristia. Gli
stessi testi liturgici ufficiali - il canone romano ad esempio - fino alla riforma del concilio Vaticano
II, erano talmente discreti su questo punto da rasentare il silenzio. Dietro vi era la polemica, sorta
dopo il mille, con la Chiesa orientale. In realtà, la dimensione pneumatologica è una dimensione
assolutamente essenziale per un’adeguata teologia eucaristica.

L’eucaristia è dono dello Spirito Santo. Situare l’eucaristia in relazione all’agire del Kyrios
glorioso conduce ad affermare lo stretto rapporto che sussiste tra lo Spirito Santo che il Cristo
504Ritornerò più avanti, al paragrafo 6, sui contenuti ecclesiologici deireucaristia.
505Si veda ad esempio AMBROGIO, Enar. 118,15,28; De Myst. 9,58.
celeste invia da parte del Padre sulla Chiesa e l’eucaristia come dono dello Spirito per la gloria della
Trinità. Se la celebrazione eucaristica è un atto del Signore risorto, essa dipende radicalmente dal
dono dello Spirito diffuso sugli apostoli e si qualifica come una manifestazione privilegiata della
presenza dello Spirito operante nella Chiesa. L’intronizzazione del Cristo risorto coincide con
l’inizio dell’azione dello Spirito nella comunità ecclesiale; un’azione descritta dal NT come il
presupposto per l’invio dello Spirito: «... è bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne
vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato ve lo manderò» (Gv 16,7).
L’umanità glorificata del Figlio di Dio rappresenta il sacramento fontale della diffusione dello
Spirito e dell’agire sacramentale della Chiesa. Il compito dello Spirito è quello di proseguire l’opera
dell’Unigenito incarnato e di portarla al suo pieno compimento (Gv 14,26; 15,26-27; 16,7-15).
Appartiene infatti alla persona del Pneuma tou Theou operare nella storia perché il disegno della
salvezza raggiunga il suo teléiosis, la sua pienezza. L’eucaristia si colloca entro questo dinamismo e
costituisce una «meraviglia di grazia» operata dallo Spirito dimorante nella Chiesa. Tutta l’azione
celebrativa è sotto il segno dello Spirito: lo Spirito è all’opera nel ministro dei sacramenti, in quanto
egli agisce in nome di Cristo e della Chiesa; l’invocazione dello Spirito Santo consacra gli elementi
e realizza l’identità tra il sacrificio pasquale e l’atto sacramentale. Senza lo Spirito di Dio, in effetti,
l’offerta del Cristo rimarrebbe lontana nel tempo e non potrebbe rendersi realmente presente nei
segni sacramentali. La presenza dello Spirito non si giustappone alla causalità unica di Cristo, ma la
prepara, la compie e la dispiega. L’economia sacramentale ricapitola così l’intera oikonomia
trinitaria. Il mistero della salvezza che ha origine, come da sorgente, dall’amore eterno del Padre e
si attua mediante la duplice missione del Figlio e dello Spirito Santo, si continua nel mistero
eucaristico che è, nel contempo, dono dell’amore compassionevole del Padre, atto del Kyrios
celeste ed epifania dello Spirito nella Chiesa.

L’eucaristia dona lo Spirito Santo. Ciò che la teologia chiama la res sacramenti, la realtà o
effetto ultimo dei sacramenti, è sempre il donum sanctiSpiritus quale dono escatologico e sintesi di
tutti i beni messianici che promanano dall’opera redentrice di Cristo, radice e cuore di ogni altra
grazia salvifica. L’eucaristia appartiene a questa economia sacramentale, ne è l’origine e l’apice. La
memoria eucaristica è uno spazio speciale in cui si attua il dispiegamento del dono dello Spirito
nella comunità credente e nei battezzati: è lì, in particolare, che egli è all’opera per realizzare quella
creazione nuova di cui la risurrezione di Cristo è l’inizio e la primizia (Rm 8; ICor 15). L’eucaristia
è come una «Pentecoste permanente». E infatti, nella preghiera liturgica, l’epiclesi non è indirizzata
solo all’attualizzazione dell’evento pasquale nei segni del pane e del vino, ma in pari tempo alla sua
venuta nei credenti per fare di loro «un solo corpo e una sola anima». L’invocazione dello Spirito
sui doni è inseparabile da quella sui fedeli: anzi, la trasformazione dei doni del pane e del vino è in
funzione della trasformazione dei fedeli, perché siano la Chiesa di Dio nel grembo della storia e te-
stimonino la novità assoluta della nuova pasqua. Il concilio Vaticano II ha perfettamente recepito
questo contenuto quando ha qualificato l’eucaristia come «lo stesso Cristo, nostra pasqua e pane
vivo che, mediante la sua carne vivificata dallo Spirito Santo e vivificante, dà vita agli uomini, i
quali sono in tal modo invitati e indotti a offrire assieme a lui se stessi, il proprio lavoro e le cose
create» (PO 5). L’espressione latina carnem suam Spirita Sancto vivificatam et vivificantem
sottolinea, ancor meglio della traduzione italiana, lo stretto rapporto che sussiste tra Spirito Santo ed
eucaristia: è lo Spirito che «vivifica» l’eucaristia e la rende «vivificante» dello Spirito per tutti
coloro che la celebrano, vi partecipano e la vivono. La relazione dell’eucaristia con lo Spirito Santo,
infatti, non è un dato secondario o periferico, ma una dimensione costitutiva del suo stesso
«attuarsi» («...per il tuo Spirito operante in questi santi misteri...», recitiamo nella preghiera li-
turgica) e della comunicazione dello Spirito ai credenti.

3.4. SACRIFICIO DI LODE (zèbah tòdah)

La «struttura» profonda del sacrificio di Cristo è di costituirsi come azione di grazie


(eucaristia). Gli stessi gesti dell’ultima cena, indirizzati a significare l’evento della croce, sono
introdotti da una preghiera di rendimento di grazie. D’altra parte, come si è avuto modo di notare, il
banchetto pasquale faceva parte dei sacrifici di comunione (shelàmtn) nei quali si attuava
l’immolazione della vittima e le cui carni erano consumate in una mensa conviviale, espressione di
comunione e di partecipazione alla conclusione dell’alleanza. Tra questi sacrifici di comunione,
particolare importanza aveva - specie nel giudaismo dell’èra cristiana del primo secolo - il
sacrificio di lode o di ringraziamento (lo zèbah tòdah), di cui si hanno molteplici risonanze nei
Salmi 69; 51; 40,1-12.22 e nel testo messianico di Is 25,1-10. La comunità apostolica, con tutta
probabilità, ha celebrato l’evento pasquale di Gesù (cena-morte-risurrezione) nel contesto dello
zèbah tòdah. In esso, a differenza del semplice sacrificio di comunione, oltre alle carni immolate, si
assumono «pane» e «vino» con i loro significati di benedizione, di pienezza di vita e di festa. Il
contesto dello zèbah tòdah, se ha permesso alla comunità primitiva di svelare il significato pieno
dell’ultima cena e il suo legame inscindibile con l’evento della pasqua di Cristo, ha consentito nello
stesso tempo di comprendere come l’eucaristia non possa essere intesa nel senso di una pura e
semplice ripetizione dell’ultima cena, quasi che la sua struttura fonda- mentale sia solo quella del
pasto, ma piuttosto come un’azione di grazie che rende partecipe la Chiesa - in virtù dello Spirito
inabitante in lei - del rendimento di grazie perennemente acquisito da Cristo a lode di Dio Padre.
Secondo la fede della Chiesa il significato di rendimento di grazie e di lode è inseparabile dal
significato intercessorio della messa. Il contenuto latréutico è indissociabile da quello sacrificale-
espiatorio, e mai l’uno senza l’altro. Contro i riformatori che rifiutavano ogni idea di sacrificio
riferito all’eucaristia, il Tridentino ha affermato che la celebrazione eucaristica del sacrificio unico
di Cristo rappresenta un atto sacramentale con valore propiziatorio per i vivi e i defunti (Denz 1753)
e può essere offerto in onore dei santi e per ottenere la loro intercessione (Denz 1755). Pensare il
contrario sarebbe mettersi fuori della dottrina cattolica. Nella messa si recupera la struttura trinitaria
dell’economia salvifica, in senso discendente e ascendente: tutto viene dal Padre per il Figlio nello
Spirito e tutto nello Spirito per il Figlio torna al Padre. Questo schema delYa, per, in, ad (a Patre
per Filium eius, Jesum Christum, in Spirito sanc- to, ad Patrem) 506 condensa ed esprime
perfettamente il senso trinitario dell’eucaristia come sacrificio di salvezza per la remissione dei
peccati (senso discendente) e sacrificio di lode e ringraziamento al Deus Trinitas (senso
ascendente). E tale è il senso della dossologia che conclude la preghiera eucaristica, come
rendimento di grazie per l’opera trinitaria di cui si è beneficiari nella messa: «Per Cristo, con
Cristo, in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per
tutti i secoli dei secoli. Amen». L’eucaristia ci rivela in atto quale sia l’essenza del culto cristiano:
esso non consiste semplicemente nel presentare a Dio delle vittime di riparazione, in modo da
ripristinare i rapporti perturbati con lui, ma nell’accogliere con animo riconoscente i doni che egli ci
ha fatto nell’Unigenito incarnato, morto e risorto, e nell’invio dello Spirito. Per questo la forma
essenziale del culto cristiano si chiama eucaristia, rendimento di grazie.

Non siamo noi che glorifichiamo Dio, offrendogli qualcosa di presumibilmente nostro -
quasi che non fosse già per principio suo! - bensì facendoci regalare qualcosa di suo e
riconoscendolo così come l’unico Signore... Il sacrificio cristiano non consiste nel dare a Dio ciò
che egli non avrebbe senza di noi, bensì nel nostro farci completamente ricettivi nei suoi confronti e
nel lasciarsi integralmente assorbire da lui. Permettere a Dio di operare su di noi: ecco la
quintessenza del sacrificio cristiano.507

L’eucaristia come sacrificio è esattamente questo: atto di gratitudine e di lode.

4. Mensa di comunione

L’istituzione dell’eucaristia avviene mentre Gesù è seduto a tavola con i suoi e offre loro il
pane come cibo e il vino come bevanda, esortandoli a mangiare e a bere di quei doni, segni portatori
della nuova alleanza realizzata nella sua persona. Questo dato implica che l’eucaristia si presenti a
506C. VAGAGGINI, Il senso teologico della liturgia, Roma 1965,209-242.
507J. RATZINGER, Introduzione al cristianesimo, Brescia 1977,229-230.
noi come un banchetto: un banchetto di Cristo con gli apostoli e degli apostoli con Cristo; non un
banchetto qualsiasi, ma un banchetto sacrificale, perché l’oblazione che il Signore e Maestro fa di
sé nei segni del pane e del vino non è l’offerta di un semplice cibo o di una semplice bevanda, ma
Vanticipazione sacramentale dell’oblazione unica che egli sta per vivere in prima persona sull’altare
della croce: «Questo è il mio corpo dato per voi». «Questo è il sangue versato per voi». È vero che
tutto ciò avviene nella forma di un convito, di una mensa: «Prendete... mangiate. Prendete...
bevete», ma il contenuto è l’autoconsegna che Gesù sta per vivere in sé con la morte di croce. Per
questa ragione è inaccettabile l’alternativa che, fin dalla Riforma e dalla Controriforma, si è fatta tra
una messa-sacrificio o una messa-cena. Non si tratta di scegliere fra l’una o l’altra identità, ma di
affermarne la simultaneità. Purtroppo non mancano, a tutt’oggi, coloro che continuano a porre la
questione in termini alternativi e pensano che si debba optare o per l’una o per l’altra. È chia-
ramente un falso dilemma.

La celebrazione eucaristica è simultaneamente mensa e sacrificio, sacrificio e mensa. In


quanto sacramento del sacrificio unico della croce è inseparabilmente celebrazione della cena del
Signore: è convito sacrificale e sacrificio conviviale', due contenuti indissociabili. E tale è il duplice
significato dell’altare, simbolo di Cristo e del suo evento pasquale: luogo di un’oblazione sacrificale
e convocazione a un banchetto di comunione. Lo rileva sant’Ambrogio con una formula tanto
sintetica quanto incisiva: «L’altare è l’immagine del corpo di Cristo, e il corpo di Cristo sta
sull’altare».508 Ogni dibattito sull’identità del mistero eucaristico che privilegi un solo aspetto a
scapito dell’altro rischia di sminuirne la globalità o di non esprimerla compiutamente. Lo stesso
farsi presente del Signore negli elementi sacramentali del pane e del vino è al tempo stesso segno
della sua oblazione al Padre e atto di consegna indirizzato a fare dei discepoli un’unica comunità
vivente di lui e per lui. Così, se nell’eucaristia contempliamo con stupore la venuta del Signore
Gesù in mezzo a noi e lo riconosciamo nella fede, questa venuta si pone al tempo stesso come
accadimento di incontro, per renderci partecipi della sua pasqua, e accadimento di koinonia
fondante la comunione dei molti in un unico pane e in un solo calice (ICor 10,16-17). La
distribuzione del «pane spezzato» e il bere all’«unico calice» esprimono questo evento totale.
Accostandosi all’unica mensa i fedeli accettano di lasciarsi coinvolgere dall’offerta sacrificale di
Gesù e manifestano, rafforzandolo, l’essere divenuti in lui membra del suo corpo che è la Chiesa
(ICor 12,12-27).

Molto opportunamente il concilio Vaticano II ha spiegato come il rito della comunione vada
inteso come parte integrante del realizzarsi della «memoria» eucaristica e di una partecipazione
piena, consapevole, attiva (SC 11; 48); segno di una «partecipazione più perfetta, grazie a cui i
fedeli ricevono il Corpo del Signore dal medesimo sacrifìcio» (SC 55). Egualmente significativa, in
questo ambito, è la comunione sotto le due specie, come spiega il Messale Romano al n. 240: «La
santa comunione esprime con maggiore pienezza la sua forma di segno se viene fatta sotto le due
specie. In essa risulta infatti più evidente il segno del banchetto eucaristico». E tale era la prassi
normale dei primi secoli. Come si è accennato, le cose sono cominciate a cambiare verso la fine del
IV secolo. La stessa teologia cercherà di giustificare questo fenomeno, spiegando che il sacerdote si
comunica a nome di tutti i presenti. E chiaro che, se è vero che si partecipa alla messa con l’offrire e
l’offrirsi con Cristo nella comunità, è altrettanto vero che una piena partecipazione al sacrificio
eucaristico chiede di comunicarsi col suo corpo immolato e il suo sangue versato per poter rivivere
compiutamente il mistero celebrato e «fare» nella propria esistenza un segno di ciò che Cristo ha
fatto una volta per sempre sulla croce. La comunione eucaristica, infatti, non solo presuppone, ma
esige e chiama al dono di sé a imitazione di colui che si fa perennemente dono per noi. Solo in
questo modo è vissuta in pienezza e i fedeli attuano quanto Gesù ha comandato di «fare in sua
memoria». Il ricevere i doni eucaristici è componente specifica della celebrazione a cui si partecipa.
Cristo si rende presente per essere accolto nel banchetto della comunione. La teologia tradizionale
ha enumerato quattro effetti principali dell’incontro eucaristico: 1) realizza e fa crescere nella

508De Sacr. 4,7 (PL 16,437D); 5,7 (PL 16, 447C).


comunione con il Salvatore, coinvolgendoci più pienamente nel suo unico mistero pasquale; 2)
edifica la Chiesa e fa crescere nella comunione con i membri del corpo di Cristo in quanto comunità
del Risorto inabitata dal dono del suo Spirito; 3) è rimedio necessario contro il peccato, sia in
quanto libera dai peccati veniali sia in quanto preserva da quelli mortali (Denz 1638), ed è forza
medicinale contro le tentazioni;509 4) prepara i credenti alla gloria della risurrezione; un effetto,
quest’ultimo, che appare particolarmente visibile quando la comunione - come si dirà più sotto - è
ricevuta in forma di viatico.

5. Presenza «per antonomasia» del Risorto

La celebrazione sacramentale dell’evento pasquale, sia come sacrificio che come convito,
rimanda alla presenza reale del Kyrios, in corrispondenza a quanto promesso da Gesù stesso non
solo ogni volta che la comunità si riunisce in assemblea orante (Mt 18,20), ma nel quadro delle sue
stesse parole istitutive: «Questo è il mio corpo». «Questo è il mio sangue». Un est che la fede della
Chiesa, a Trento, ha interpretato in senso storico-letterale come effettiva identità tra i doni del pane
con il suo corpo e del vino con il suo sangue donati da Cristo sulla croce e come segni della sua
presenza reale (Denz 1636-1637; 1752).

Il concilio Vaticano II, da parte sua, ha evidenziato come i modi di presenza del Risorto nella
Chiesa siano molteplici e diversificati (SC 7). Tra questi modi, la presenza eucaristica è da ritenere e
comprendere come la presenza per antonomasia del Signore glorioso fra noi. E Paolo VI che,
nell’enciclica Mysterium fidei, utilizza questa qualifica: «La presenza di Cristo nell’eucaristia è
detta “reale” non per esclusione, quasi che le altre non siano reali, ma per antonomasia, per
eccellenza, in quanto ci fa incontrare direttamente con Cristo, Dio Altissimo, nella pienezza di
redenzione».510 La questione che si pone alla riflessione teologica è proprio quella di esplicare, nella
maniera più adeguata, questo tipo di presenza, non svalutando le altre forme di presenza, ma
affermandone la peculiarità: il fatto e il modo.

5.1. IL FATTO DELLA PRESENZA REALE

Il magistero della Chiesa è intervenuto più volte, come si è avuto modo di constatare, contro
coloro (da Berengario ai riformatori e fino ai modernisti) che hanno negato la realtà di questa
presenza e, nel concilio di Trento, ha definito come dottrina di fede che «nel santissimo sacramento
dell’eucaristia si contiene veramente, realmente, sostanzialmente il corpo e il sangue, insieme con
l’anima e la divinità di Nostro Signore Gesù Cristo, e perciò tutto Cristo» (Denz 1651). Il testo
tridentino utilizza tre avverbi latini (vere, realiter, substantialiter), scelti in diretta antitesi alle
concezioni dei protestanti che tendevano a conferire alle parole dell’istituzione un significato solo
indicativo o metaforico, finendo per negare la presenza oggettiva di Cristo nell’eucaristia come
azione celebrativa e come sacramento permanente. Secondo Trento è «tutto Cristo» che si rende
presente nel «santissimo sacramento dell’eucaristia». La connotazione per modum sub- stantiae
dice la differenza specifica della presenza eucaristica rispetto agli altri modi di presenza. Il concetto
di fondo è fornito dall’identità degli elementi consacrati con la presenza corporea del Cristo
trasfigurato. Il termine «presenza» va inteso nell’eucaristia, in senso pieno, e non in un’accezione
soggettiva o legata unicamente al pensiero di chi crede:

• è presenza oggettiva della totalità di Cristo nel sacramento dell’altare, in ognuna delle due
specie e in ogni parte delle specie divise (toto in tota et in omnibus partibus; Denz 1653);
• in quanto «sostanziale», suppone un legame essenziale con i segni sacramentali consacrati:

509AMBROGIO, De sacr. 4,28 (PL 16,446A).


510PAOLO VI, lettera enciclica Mysterium fidei, 3.9.1965: EV 2/424.
dove si danno tali segni, là vi è la presenza reale di Cristo;
• la presenza eucaristica non va pensata come una moltiplicazione in molti luoghi dell’unico
corpo e sangue di Cristo: il Risorto oltrepassa le limitazioni dello spazio e del tempo e si rende
presente in tutte le specie validamente consacrate;511
• la presenza reale è realizzata in forza dell’invocazione dello Spirito (epiclesi) e in virtù delle
parole della consacrazione (vi conco- mitantiae verborum);
• la presenza reale va oltre l’atto celebrativo della messa e rimane finché permangono i segni
sacramentali validamente consacrati] solo quando essi perdono la loro natura propria cessa la loro
relazione con la presenza di Cristo.

Il soggetto della presenza è il Christus totus che trasfigura gli elementi naturali e li rende vie
e mezzi realmente portatori della sua realtà come autodedizione oblativa e perenne del Figlio
incarnato, morto e risorto, al Padre. Non si deve infatti dimenticare che il dogma della presenza
eucaristica di Cristo non può essere isolato dal suo mistero pasquale o considerato come una sorta di
miracolo astratto; appartiene alla logica incarnatoria delVhistoria salutis, costantemente
caratterizzata dal farsi presente di Dio con i suoi, fino all’invio dell’Unigenito nel grembo di Maria
e alla sua immersione nel mistero della morte. In quanto presenza dell’Offerente Gesù Cristo, la
presenza eucaristica costituisce una continuazione/tappa del suo evento incarnatorio-sacrificale e
del suo farsi dono per noi. Parlare della presenza eucaristica del Risorto per modum substantiae
implica almeno quattro contenuti teologici, strettamente intrecciati fra loro: 1) La presenza
eucaristica è presenza della persona fisica di Gesù Cristo sotto i segni (o species) del pane e del
vino. 2) Tale presenza non è la presenza di qualcosa, ma di Qualcuno e quindi un evento di
carattere relazionale: è un farsi incontro del Signore Gesù ai suoi per entrare in comunione con
loro. 3) La presenza relazionale del Kyrios si configura come presenza anamnetico-pneumatica, in
quanto porta con sé il mistero pasquale realizzatosi nella sua persona e nel dono del suo Spirito alla
Chiesa. 4) La presenza di Cristo nei segni del pane e nel vino non è limitata al solo atto dell’azione
celebrativa, ma suppone la sua permanenza e quindi la sua adorabilità e il culto eucaristico fuori
della messa come dato essenziale della fede (Denz 1656).

Già Tertulliano ricordava che era prassi diffusa fra i cristiani quella di portare nelle loro case
il pane consacrato, dopo la celebrazione eucaristica domenicale, per comunicarsi durante la
settimana (De or al, 19). E lungo tutta la storia della Chiesa i fedeli hanno manifestato la loro fede
conservando il pane eucaristico dopo la messa per la comunione dei malati e per il viatico dei
morenti. Successivamente, «approfondendo la fede nell’eucaristia - come osserva il Catechismo
della Chiesa Cattolica (CCC1370) - la Chiesa ha preso sempre più coscienza del significato del-
l’adorazione silenziosa del Signore presente sotto le specie eucaristiche», sviluppando varie forme
di culto pubblico e personale in relazione alle singole epoche. Rimane vero che l’adorazione
eucaristica non dovrebbe mai trascurare il profondo legame che sussiste tra la presenza della per-
sona di Cristo e il suo accadimento pasquale: colui che si adora è colui che vuole renderci partecipi
della sua dedizione sacrificale e che, dopo essersi consumato per noi, vuole essere consumato da
noi per trasformarci in sé e plasmarci nel suo «noi» ecclesiale. Un’autodedizione, dunque, che
vuole darsi al tempo stesso come evento di comunione in senso verticale, con lui, e in senso
orizzontale, degli uni con gli altri. Già san Tommaso d’A- quino puntualizzava come la presenza di
Cristo non debba essere interpretata in una prospettiva semplicemente spaziale (localiter), ma
personale (personaliter), e quindi come espressione del libero donarsi di un io a un tu e come un
evento che costruisce la Chiesa.17 Questo tipo di presenza - già a livello antropologico - implica dei
segni, per poter essere percepita e attuarsi pienamente nella storia e nella vita dei credenti. Nel-
l’eucaristia i segni sono gli elementi materiali del pane e del vino trasformati in segni portatori della
realtà di Cristo e del suo amore totale. A riguardo è sufficiente richiamarsi alle parole
dell’istituzione: «Prendete, mangiate: questo è il mio corpo... Prendete, bevete: questo è il mio
sangue». Nel linguaggio semitico, le locuzioni «corpo» (o «carne») e «sangue» indicano tutta la

511Tommaso parla di una relazione sostanziale del corpo glorioso di Cristo con le specie consacrate (STh III, q. 76, a 6c.).
persona; aggiungere che quel corpo è «dato per» e quel sangue è «versato per» significa fare
riferimento al dono incondizionato di Gesù nel sacrificio della croce. Celebrando l’eucaristia la
Chiesa rivive, dunque, questa autodonazione dell’Unigenito incarnato realizzata una volta per
sempre nella sua morte, e la fa propria. Prendendo il pane e il vino consacrati, noi accogliamo il
Signore stesso che si consegna a noi in un libero e gratuito gesto di oblatività, entrando in una
effettiva comunione relazionale con lui e, in lui, con il suo corpo che è la Chiesa.

5.2. IL MODO: LA TRANSUSTANZIAZIONE

La presenza-dono del Signore nell’eucaristia è stata tradizionalmente descritta, come si è


visto, a partire dalle categorie aristoteliche di «sostanza» e «accidenti» (o «specie esterne»). Questo
modo di affermare la presenza reale viene qualificato come transustanziazione: passaggio di tutta la
sostanza del pane e del vino nella sostanza del corpo e del sangue di Gesù. Una forma esplicativa
che non appartiene - propriamente parlando - al dogma di fede, ma che rappresenta la modalità più
appropriata, conveniente e adatta (propria, conveniente, aptissima; Denz 1642 e 1652) per proporlo
e salvaguardare Voggettività della presenza di Cristo, evitando di indurre a forme di soggettivismo
che finiscono per far dipendere il dono che il Signore fa di sé nell’eucaristia dal riconoscimento,
dalla fede o dall’accettazione del soggetto umano. È ovvio che il concetto di transustanziazione non
dev’essere inteso in un senso fisico-chimico, ma a livello ontologico-sacramentale, tipico di ogni
manifestazione divina nel mondo. Il mistero eucaristico dice mutamento non nel complesso delle
proprietà materiali del pane e del vino, ma nel passaggio di essere della sostanza - in senso
metafisico - del pane e del vino nella sostanza del corpo e del sangue di Cristo; e ciò in virtù di
un’azione divina, operata dalla parola di Cristo nella grazia dello Spirito, paragonabile a un atto di
«nuova creazione» e di «incarnazione sacramentale». Lo sviluppo del dogma ha mostrato come
questo concetto si sia via via precisato, con la preoccupazione costante di mostrare il principio di
un’identità ontica tra il Cristo storico, morto e risorto, e la sua presenza sacramentale. È il concetto
di sostanza il discrimine, il punto critico, di tutto il dibattito relativo al modo della presenza
eucaristica. La «sostanza» non va intesa nei termini con cui la comprendono le scienze naturali o
biologiche, come il complesso fisicochimico di un ente, ma come la profondità del suo essere, il
nucleo essenziale che fa essere una realtà ciò che è, e la distingue da ogni altra realtà. Rispetto a
questa profondità o nucleo essenziale, la forma esterna è costituita dalle proprietà o qualità visibili
di quell’ente. La transustanziazione attinge alla dimensione metafisica dell’essere, a un livello trans-
empirico, al di là delle sue proprietà o qualità solo materiali. Se non si coglie questa dimensione si
rischia di non essere in grado di avvicinarsi alle soglie del mistero o di confondere la
transustanziazione con un metabolismo naturale delle realtà che niente avrebbe a che vedere con
l’esplicazione che la dottrina della Chiesa cerca di dare del dogma in cui crede.

Non meno rischioso è il pericolo di tutte quelle nuove teorie che sono state formulate negli
anni ’70, nel tentativo di interpretare con nuove categorie la presenza eucaristica; teorie a cui si è
fatto cenno e che vanno sotto il nome di «transignificazione» e «transfinalizzazione». A riguardo,
già Paolo VI nella Mysterium fidei e nella professione di fede proclamata il 30 giugno 1968, alla
chiusura dell’anno della fede, e poi Giovanni Paolo II in svariate occasioni, sono intervenuti per
precisare che ogni spiegazione diversa da quella della transustanziazione deve assolutamente
salvaguardare la presenza reale di Cristo nell’eucaristia, pena il mettersi fuori dell’ortodossia
cattolica. Grazie all’eucaristia Cristo continua a essere l’Emmanuele, il Dio-con-noi (Is 7,14; Mt
1,22-23) che ha posto definitivamente la sua tenda nel mondo (Gv 1,14). La «dimora» di YHWH
(shekinah) rappresenta una realtà biblica fondamentale, realizzata in mezzo a Israele e insieme
attesa per i tempi ultimi della salvezza: «La mia dimora sarà in mezzo a loro: io sarò il loro Dio ed
essi saranno il mio popolo» (Es 37,27). Se nel NT l’intera comunità cristiana è descritta come
dimora di Dio in mezzo all’umanità (lPt 2,4-5; Ef 2,19-22), all’interno della Chiesa la presenza
eucaristica di Cristo costituisce la forma di presenza più alta come presenza del Risorto fra i suoi: la
presenza eminente del Signore glorificato che ci attira a sé, per ricolmarci della grazia salvifica
della pasqua, in attesa di trasfigurare con la potenza del suo Spirito l’intero universo.
Teologicamente si comprende che se Cristo si fa presente attraverso il cambiamento della
«sostanza» del pane e del vino nella «sostanza» del suo corpo e del suo sangue, la sua presenza non
cessa dopo la conclusione dell’azione liturgica e il pane eucaristico conservato dalla Chiesa ne
rimane il segno vivo.

È quanto ha espresso con estrema chiarezza e calore ammirativo l’istruzione Eucharisticum


mysterium:

La pietà che spinge i fedeli a prostrarsi presso la santa eucaristia li attrae a parte cipare più
profondamente al mistero pasquale e a rispondere con gratitudine al dono di colui che con la sua
umanità infonde incessantemente la vita divina nelle membra del suo corpo. Trattenendosi presso
Cristo Signore, essi godono della sua intima familiarità e dinanzi a lui aprono il loro cuore per loro
stessi e per tutti i loro cari, e pregano per la pace e la salvezza del mondo. Offrendo tutta la loro
vita con Cristo al Padre nello Spirito Santo, attingono da quel mirabile scambio un aumento di
fede, di speranza e di carità. Alimentano quindi così le giuste disposizioni per celebrare, con la
devozione conveniente, il memoriale del Signore e ricevere frequentemente quel pane che ci è dato
dal Padre (n. 50).

6. Chiesa e celebrazione della nuova alleanza

Come ama dire la teologia contemporanea, la Chiesa «fa» l’eucaristia, l’eucaristia «fa» la
Chiesa: è la Chiesa che ha ricevuto da Cristo il mandato di «fare» l’eucaristia; ed è dunque
attraverso l’atto della Chiesa che il mistero pasquale si dispiega nel tempo e nello spazio come
accadimento eucaristico; ma è proprio in quell’atto stesso con cui la Chiesa «fa» l’eucaristia che
l’eucaristia «fa» la Chiesa, nel senso che la dice, la suscita e la rigenera di continuo come la
comunità della pasqua del Risorto, plasmandola quale comunità della nuova ed eterna alleanza, il
nuovo Israele di Dio nella storia. Sotto ogni aspetto, l’eucaristia appare come la sorgente
permanente della Chiesa e il vertice del suo essere: centro focale che fonda, manifesta e proclama il
mistero del nuovo popolo di Dio. Fin dai primi tempi la fede ha riconosciuto questa identità
eucaristica della Chiesa. Il concilio Vaticano II arriva ad affermare che «nessuna comunità
cristiana può mai costruirsi senza avere come radice e cardine la celebrazione della santissima
eucaristia» (LG 26; PO 6).

Tre contenuti meritano di essere posti in luce in questo contesto: la Chiesa dell’eucaristia
come comunità che prolunga la vocazione del Servo di YHWH, facendosi serva sulle tracce del suo
Maestro e Signore (diakonia); la Chiesa dell’eucaristia come comunione di fratelli e sorelle attorno
all’unico pane e all’unico calice (koinonia); la testimonianza che la Chiesa dell’eucaristia è
chiamata a portare al mondo alla luce della pasqua di Cristo (ethos).

6.1. LA CHIESA EUCARISTICA COME DIAKONIA

La fede della Chiesa indirizza verso una precisa forma di accoglienza del mistero
eucaristico.

Facendo memoria del suo Signore, in attesa che egli ritorni, la Chiesa entra nella stessa
logica del dono totale di sé. Attorno all’unica mensa eucaristica e condividendo l’unico pane, essa
cresce e si edifica come «carità». Dall’eucaristia scaturisce quindi un impegno preciso per la
comunità cristiana che la celebra: testimoniare visibilmente e nelle opere, il mistero di amore che
accoglie nella fede.512

512CEI, Evangelizzazione e testimonianza della carità, Roma 1990, n.17.


La teologia dell’eucaristia non poteva essere riassunta in modo migliore: celebrando il
mistero dell’auto-oblazione di Cristo per noi, la comunità ecclesiale - e in essa ognuno di noi - è
chiamata a rivivere la medesima logica del dono e quindi di servizio sul modello di quello del suo
Signore e Maestro. La prospettiva di fondo può essere sinteticamente enunciata in questo modo:
associando alla missione di servizio di Gesù, r‘ebed YHWH, l’eucaristia edifica la Chiesa come
comunità di diakonia, di servizio salvifico al mondo e di servizio ab intra, come comunità di fratelli
e sorelle nell’unico popolo di Dio.

Gesù Servo dì YHWH. La tradizione evangelica è unanime nel collocare la figura di Gesù
nella linea del «servo fedele» descritto dal Deutero- Isaia. La sua intera esistenza è una ‘abodah, un
«servizio cultuale» al Padre, un glorificarlo nel fare la sua volontà (Gv 17,1-5). La scena del bat-
tesimo al Giordano è interpretata da tutti e tre i sinottici (Mc,9-11 e par.) come il riconoscimento di
Gesù in quanto «servo» del Signore secondo Is 42,1 sostituendo il termine «servo» con quello di
«figlio» grazie al doppio significato del termine greco paisP Esplicitamente Mt 12,17-21 collega la
missione di Gesù all’annuncio di Is 42,1-4. A loro volta, i pre-annunci della passione evocano da
vicino l’eco dei canti del servo fedele.513 La passione è descritta, specialmente da Matteo, con i tratti
tipici del servo sofferente.514 In tutto questo, c’è indubbiamente da tener presente l’apporto reda-
zionale degli evangelisti, ma ciò non implica che non vi sia un dato originario consistente nel fatto
che Gesù stesso, per primo, ha delineato la propria esistenza come una ‘abodah, un «servizio
cultuale» in risposta alla volontà del Padre. 515 Di straordinario interesse, da questo punto di vista, è
il detto fondamentale di Mc0,45 (e par. Mt 20,28 e Lc2,24-27): Il figlio dell’uomo infatti non è
venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti.

Secondo le dettagliate analisi di J. Jeremias, il detto dev’essere fatto risalire nella sostanza e
perfino nella forma a Gesù stesso.516 Il detto si colloca sullo sfondo del terzo annuncio della
passione (Mc0,32-34) e, pur situandosi in un contesto esortativo (Mc0,44), enuncia quello che
rappresenta il programma stesso di vita di Gesù. L’espressione «dare la propria vita in riscatto per
molti» è chiaramente ispirata alla vicenda del Servo di YHWH (Is 42,14[15-19]; 49,1-6; 50,4-9[10-
ll]; 52,13-53,12), chiamato a offrire la propria vita, sacrificando se stesso per espiare il peccato del
popolo (53,10.11) 517 La stessa allusione alla figura del «Figlio di uomo» di Dn 7,13-14 riceve - in
questo detto - una rilettura nuova e originale: Gesù si presenta come il «figlio dell’uomo» che,
anziché chiedere gloria e potenza, pone se stesso come servo di tutti. Con la libera accettazione
della sua morte, egli diviene «riscatto» per «i molti» (i rabbini di Is 53,11-12, o i polloi di Mc4,24 e
Mt 26,28). Un modo di descrivere l’oblazione di Gesù in evidente corrispondenza con le parole
dell’ultima cena sul pane e sul vino.

La cena di addio come esegesi della missione totale di Gesù, Servo di YHWH. Secondo la
tradizione evangelica, il senso del banchetto pasquale si incentra essenzialmente sulla presenza del
Servo fedele del Signore.518 In questo banchetto si condensa la missione totale di Gesù, i suoi pasti
con i peccatori e il senso della sua venuta come «figlio dell’uomo venuto non per essere servito, ma
per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mc0,45). Lapro-esistenza dell’Unigenito
incarnato, la sua esistenza-per-gli-altri, converge nell’evento del suo autoconsegnarsi alla morte per
tutti. L’ultima cena manifesta e contiene, come profezia in atto, questo evento, assumendo in sé
513Cf. Mc,31; 9,30; 10,32-34 e par., con le dizioni «soffrire», «riprovato», «messo a morte», «consegnato nelle mani degli uomini»,
«lo scherniranno», «gli sputeranno addosso», «lo flagelleranno e lo uccideranno».
514Gesù versa il suo sangue «in remissione dei peccati» (Mt 26,28 con Is 53,12); di fronte agli accusatori, egli tace (26,63 e 27,14
con Is 53,7); gli sputano in faccia e lo bastonano (26,67 con Is 52,14; 50,6); lo crocifiggono «tra i malfattori» (27,38 con Is 53,12.9);
viene sepolto nella tomba di un uomo ricco (27,59-60 con Is 53,9).
515Una conferma indiretta viene dal fatto che anche Paolo, indipendentemente dai vangeli, presenta Gesù come il servo obbediente
che si offre per gli uomini con la sua morte (Fil 2,7-8 con Is 52,13-53,12; 42,1-4). Cf inoltre: ICor 6,20; 7,23 e Gal 3,13; 4,5 dove
l’azione salvifica di Gesù è presentata come un pagare il debito contratto dagli uomini con il loro peccato.
516Cf. JEREMIAS, Teologia del NT, 334-336.
517Si ha un perfetta corrispondenza tra l’espressione semitica di Isaia sym naphsho (porre la propria vita) e quella greca dounai ten
psychen di Mc0,45.
518Ciò è vero sia che questo banchetto sia stato un banchetto di haburot o un vero e proprio pasto pasquale. I sinottici insistono nel
descrivere i preparativi della cena in relazione alla celebrazione della pasqua ebraica. A sua volta, Paolo richiama la «notte in cui
Gesù fu tradito»; ora si sapeva che tale «tradimento» era avvenuto nei giorni della pasqua ebraica. Tutto il clima in cui si compie l’ul-
timo banchetto appare carico, del resto, di risonanze pasquali, come risulta esplicitamente da Gv 13,1.
tutto il passato e preanticipando il futuro della pasqua che Gesù sta per vivere in se stesso. La
diakonia della croce è come sacramentalizzata in anticipo in un banchetto di addio, quello
delV‘ebed YHWH. Il «pane» e il «vino» offerti in dono agli apostoli costituiscono i significanti vivi
del suo «corpo dato» e del suo «sangue versato», i simboli reali della sua persona e del suo dono
salvifico, come evocano le stesse parole di Gesù.

Il legame tra 1’ ‘ebed YHWH e l’ultima cena non è di ordine semplicemente esplicativo; fa
parte dell’accadimento stesso del convito pasquale e del suo significato: la morte di Gesù in croce è
una diakonia, un servizio, in risposta alla volontà del Padre. I racconti evangelici hanno cura di
rilevare questo dato, mentre ne omettono molti altri. Particolarmente indicativo, in questo senso, è il
fatto che Luca inserisca nel contesto dell’ultima cena i due detti sull’obbligo dei capi di servire a
tavola sull’esempio di Gesù che sta in mezzo ai suoi come colui che serve (Lc2,25- 26.27). Secondo
H. Schurmann, con questa collocazione Luca vuol ricordare che il mistero eucaristico, in quanto
celebrazione della missione dell’ ‘ebed, è un atto di «servizio cultuale», inseparabile dal servizio
fraterno e dalla condivisione dei beni.519 È soprattutto Giovanni che - riportando l’episodio della
lavanda dei piedi (13,1-15) e ponendolo in relazione all’evento della passione (vv. 1 e 3) - manifesta
la consapevolezza di una diakonia che Gesù svolge nell’attuazione del suo mistero pasquale. Al
centro dell’episodio si colloca il Signore e il Maestro che serve i suoi fratelli; un gesto che vuol
essere un segno visibile del suo offrirsi redenti- vo, del suo darsi sulla croce per tutti. Il gesto viene
interpretato da Gesù stesso come un «servizio», un porsi quale «servo» (doulos) a servizio dei
«molti» (vv. 13-15). È evidente, del resto, come l’intero episodio della lavanda dei piedi sia
indirizzato all’evento della croce (dal tradimento di Giuda: v. 2, all’incomprensione di Pietro con la
possibilità di recepirne il significato «dopo»: vv. 6-7, fino all’allusione circa la necessità di una
purificazione per «aver parte con Gesù»: w. 8-11). La «diakonia» della lavanda dei piedi si presenta
così come una rappresentazione simbolica che prefigura la diakonia della croce come ‘abodah,
«servizio cultuale» in cui si coniugano inseparabilmente la glorificazione del Padre e la salvezza del
mondo (Gv 17,4). Nella prospettiva del Vangelo di Giovanni, la lavanda dei piedi viene a sostituire
il racconto dell’istituzione, rivelandone il contenuto profondo: la celebrazione eucaristica - sembra
dire l’evangelista - raggiunge la sua piena verità e il suo effetto pieno solo se i discepoli accettano
di porsi nella linea di quanto Gesù ha vissuto in se stesso e si fanno - come lui - servi gli uni degli
altri, fino a dare la propria vita per la salvezza del mondo. Sussiste, in questo senso, un
fondamentale parallelismo tra il comando di far memoria del banchetto eucaristico e l’imperativo a
servire. Il comando: «Fate questo in memoria di me» trova il suo corrispondente nelle parole: «Voi
mi chiamate Maestro e Signore e dite bene perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro ho
lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio
perché, come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 15,12-13). All’imperativo sinottico: «Fate
questo», fa riscontro quello giovanneo: «Fate anche voi», o l’ottativo: «Facciate anche voi». Non si
è abituati a mettere in parallelo questi imperativi, ma è indispensabile: in essi, infatti, nel loro
reciproco richiamarsi e coniugarsi, risiede il cuore della teologia neotestamentaria dell’eucaristia,
integralmente intesa, e il ruolo che essa svolge nell’edificazione della comunità ecclesiale.

La Chiesa, comunità di servizio plasmata dal mistero eucaristico. I segni del pane e del vino
racchiudono il significato totale dell’esistenza di Gesù, Servo di YHWH, il suo passato, il suo
presente e il suo futuro: lo spezzare il pane e il porgere il calice dell’alleanza ai discepoli rappresen-
tano degh atti di ordine sacramentale nei quali il mistero pasquale è detto in anticipo come
contenuto peculiare e forma specifica della comunità della nuova ed eterna alleanza. Con quegli atti
il Signore e Maestro costituisce il nuovo popolo di Dio come la sua comunità di servizio, la diako-
nia dei tempi ultimi della salvezza. In quel banchetto di addio, infatti, Gesù crea tra sé e la comunità
dei suoi - per il fatto stesso di mangiare e bere con loro - un legame vitale non solo di comunione,
ma di identificazione. Il gruppo dei discepoli rappresenta la comunità- ‘ebed YHWH dei tempi

519Cf. H. SCHURMANN, Le récit de la dernière Cène, Paris 1966,62-65; 71-73. Questa interpretazione è chiaramente confermata
dalla concezione lucana dell’eucaristia testimoniata dagli Atti.
escatologici, modellata sul suo servizio. Durante la cena Gesù si rivolge a un tempo al Padre, al
quale si offre in riscatto per tutti (coordinata verticale del racconto), e ai discepoli ai quali - come
primizia della comunità salvifica - si autodona nei segni del pane e del vino e ai quali affida il
mandato di celebrare la sua pasqua fino al compimento della storia (coordinata orizzontale del
racconto). I gesti del «dare» e i pronomi personali impiegati da Cristo («mio corpo», «mio sangue»,
«per voi», «per molti») manifestano la sua esplicita volontà di fare della comunità dei discepoli la
comunità messianica, manifestazione in atto e dispiegamento della sua missione di ‘ebed. Con l’atto
stesso dell’istituzione eucaristica, la Chiesa è così fondata e strutturata come comunità-serva di
YHWH.

Il senso di questa comunità-serva risulta, con particolare evidenza, dal simbolismo del
banchetto e del calice. Si sa come in ambiente biblico il pasto preso in comune, specie in
circostanze speciali, significasse perdono, fraternità e unisse i commensali in una comunione sacra
al punto che il violarla rappresentava una delle colpe più gravi. 520 Sedendosi a mensa con Gesù e
accogliendo il suo pane spezzato, i discepoli ricevono da lui e in lui il dono del Padre che adempie i
tempi attesi e inaugura la comunità dei tempi ultimi. Poiché partecipa al corpo offerto, la comunità
comunica al destino dello ‘ebed, divenendo anch’essa Serva di YHWH. «Mangiando il corpo-
donato deve diventare, nella potenza che esso gli comunica, anch’essa corpo-ecclesiale-donato,
corpo-per-gli-altri, corpo- off erto-per-le-moltitudini. E ciò deve compiersi nello stesso tempo in
ciascuno dei membri e come comunità».521 L’istituzione eucaristica plasma dunque una comunità
che, originariamente, è una diakonia, una fraternità di servizio, forgiata sulla diakonia che Gesù ha
vissuto per primo in se stesso e che lascia ai suoi quale testamento-sempre-in-atto. Lo stesso
significato risulta dal calice sul quale è pronunciata la preghiera di benedizione alla fine del
banchetto. Anch’esso implica il contenuto di una comunione stabilita mediante la partecipazione al
dono di Dio, ma con un’intonazione particolare. Offrire a qualcuno il calice di benedizione
significava associarlo al bene divino per il quale si è reso grazie; bere al calice di un altro comporta
infatti un profondo grado di intimità con lui (ISam 12,3). Nell’atto stesso di passare il calice ai
discepoli, Gesù indica la sua volontà di renderli partecipi della sua missione di ‘ebed YHWH.
Facendo circolare il calice di benedizione affinché tutti - e su questo «tutti» insistono Marco e
Matteo - ne bevano, Gesù attua la partecipazione alla sua diakonia di tutti coloro che prendono
parte alla sua cena.522

La Chiesa si trova perciò stabilita, con il medesimo atto che la fa nascere, come diakonia,
popolo-servo a servizio di tutti gli uomini: più si fa serva, più la Chiesa proclama ciò che è divenuta
«una volta per sempre» e manifesta la fedeltà al mandato ricevuto. Il pane e il vino collegati alla
persona di Gesù e all’evento della sua pasqua rappresentano la sorgente costitutiva ed esplicativa di
ciò che la Chiesa è ed è chiamata a essere: la comunità serva di YHWH. Inserendola nella
comunione del Servo, l’eucaristia rende infatti partecipe la comunità alla stessa missione di Gesù.
Questo passaggio dalla vocazione di Gesù-Servo alla vocazione della Chiesa-Serva risulta ancora
più chiaro se si tiene presente il concetto biblico di «personalità corporativa» in base a cui
nell’individuo- Servo è la totalità del popolo di Dio che realizza il suo mistero.523

Di qui l’ulteriore prospettiva che ne deriva: offrendosi nei simboli del pane-spezzato e del
vino-versato e invitando i suoi a mangiare di quel pane e bere a quel calice, Gesù costituisce la sua
comunità come comunità-comunione nel dinamismo della sua ‘abodah pasquale. Partecipando alla
520Cf. H.L. STRACK - P. BILLERBECK, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, München 1924, 619-620. Tra
gli innumerevoli studi, si può vedere il piccolo, ma prezioso studio di J. JEREMIAS, «Questo è il mio corpo...», Brescia 1973,9-19.
521J.-M.R. TILLARD, Eucaristia e fraternità, Milano 1969,42-43.
522Si tenga presente che il calice ha spesso l’idea di sorte, per comprendere come, distribuendo il calice ai suoi, Gesù chiami i
convitati a partecipare alla sua stessa vicenda di ‘ebed YHWH.
523Questo concetto è stato introdotto da H.W. ROBINSON con il suo articolo fondamentale: «The Hebrew Conception of Corporate
Personality», in Werden und Wesen des AT, 66, Berlin 1.936, 49-62. La ricchezza del tema è stata rilevata da J. DE FRAINE, Adam et
son lignage. Etudes sur la notion de «personalità corporative» dans la Bible, Bruges 1959; Io., «Individu et societé dans la religion
de l’AT», in Biblica 33(1952), 324-355; 445-475; e da S. SPADAFORA, Collettivismo e individualismo nel VT, Rovigo 1953. In
relazione al Servo sofferente, cf., tra i tanti, lo studio di R. NORTH, The suffering Servant in Deutero-Isaiah, an historical and critical
Study, Oxford 1956.
missione del Servo, V‘ebed-popolo si costituisce come koinonia che accetta di fare del
«comandamento nuovo» il segno manifestativo e rea- lizzativo della sua peculiare identità.524

L’eucaristia come «sacrificio di alleanza». L’alleanza rappresenta la struttura fondamentale


del NT e della nascita della Chiesa. Luca vede il compiersi dell’evento della Pentecoste cinquanta
giorni dopo Pasqua (Lc,16 e At 1,5), esattamente come l’alleanza del Sinai che era avvenuta cin-
quanta giorni dopo l’uscita dall’Egitto (Es 19-24).525 Alla teofania del Sinai (Es 20,1-17)
corrisponde la manifestazione dello Spirito, accompagnata da segni analoghi (At 2,2). La promessa
della nuova alleanza, collegata al dono dello Spirito (Ez 26,27) e a una nuova legge scritta nel cuore
dei redenti, e non solo su tavole di pietra (Ger 31,33), appare adesso realizzata (At 1,17-24).
L’eucaristia appartiene a questo adempimento. Tutte e quattro le versioni del racconto dell’ultima
cena, pur differenziandosi in più di un punto, concordano nel far espressamente menzione di una
«nuova alleanza» che si compie nell’autoconsegna di Gesù per tutti (hypérpollon), con un esplicito
riferimento al «sangue dell’alleanza» (Mc/Mt) o alla «nuova alleanza nel suo sangue» (Paolo/Le). È
chiaro, in ogni formulazione, il collegamento con il sacrificio del Sinai in forza del quale Mosè
aveva proclamato il patto del Signore con Israele: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha
concluso con voi» (Es 24,8b). Quell’alleanza era stata attuata con un rito di sangue (24,5-6.8a)
«sulla base delle parole» proclamate da Mosè a nome del Signore e accettate dal popolo (Es 24,7-
8); un evento che, nella fede biblica, evocava due contenuti essenziali: 1) Israele era nato da un
«sacrificio di alleanza»; 2) Israele, con la sua adesione, era coinvolto in pieno nell’alleanza del
Signore; non ne era un semplice spettatore, ma un protagonista in risposta all’impegno assunto.
Ogni volta che Israele rinnovava l’alleanza «diceva» in atto l’identità ricevuta in dono e rinasceva
di continuo in questa identità. «Far memoria» dell’alleanza significava dunque, per il popolo eletto,
rivivere la propria vocazione unica, impegnarsi a rinnovarla e realizzarla a ogni svolta della storia.
La dimensione vocazionale se per un verso suppone la fedeltà incrollabile di Dio, per l’altro
richiama l’adesione sempre nuova del popolo d’Israele all’alleanza, affinché il rito della
rinnovazione non sia svuotato della sua verità, ma pienamente compreso e attuato. 526 «Alleanza» e
«legge», sotto questo profilo, sono inseparabili nella fede biblica. 527 L’alleanza (berìth/diathèkè),
pur essendo un dono gratuito del Signore, esige una risposta puntuale del popolo, un’opzione
fondamentale, in linea con ciò che il rito stesso significa e richiede. Tale è il richiamo ricorrente e
forte dei profeti: mai un rito senza la vita.

L’alleanza proclamata da Gesù durante l’ultima cena si collega all’antica alleanza e alla sua
rinnovazione, per affermarne l’adempimento escatologico come «nuova alleanza» nel suo sangue.528
La morte di Gesù, anticipata nel banchetto di addio, si dà come realizzazione definitiva dell’attesa
messianica: un «sacrificio di alleanza per il peccato» dal quale sgorga il popolo della nuova
alleanza, annunciato dai profeti («Io sarò il loro Dio, essi il mio popolo», Ger 31,33). Alla nuova
alleanza fa riscontro il nuovo Israele di Dio. L’assoluta novità di questa stipulazione di alleanza
consiste nel fatto che essa non avviene - come ricorda la Lettera agli Ebrei - per mezzo di riti
sacrificali esteriori, ma in e attraverso la persona stessa di Cristo. Un dato inequivocabilmente

524Per comprendere tale ulteriore prospettiva, in senso teologico e non solo moralistico, occorre tener presente il legame che si pone
tra eucaristia e sacrificio di alleanza e quindi tra il codice dell’antica alleanza e il comandamento della nuova alleanza in Cristo; un
aspetto che è stato magistralmente illustrato, già negli anni ’70, da S. LYONNET, Eucaristia e vita cristiana. Il sacrificio della nuova
alleanza, Roma 1982 (II ed., con prefazione del card. C.M. MARTINI); ed è stato ripreso da Fr. RICHARD di TAIZÉ, Dio ha rivelato il
suo Cuore, Leumann (TO) 1989 (con prefazione di S. LYONNET).
525Come è noto è a partire da quell’evento che la Pentecoste, da festa della mietitura (Es
1
23,14), diventa festa della rinnovazione dell’alleanza (2Cr 15,10-13).
526Questo duplice aspetto appare con particolare evidenza nel racconto della rinnovazione dell’alleanza avvenuta a Sichem (Gs
24,1-28): Israele manifesta la sua peculiare identità e la realizza nell’atto stesso con cui fa memoria della propria origine, rinnovando
l’alleanza stretta con YHWH e accettando di obbedire alla sua legge (24,24-25). Lo stesso vale per la solenne rinnovazione dell’al -
leanza dopo il ritorno da Babilonia (Ne 8-10).
527«Alleanza» e «legge» sono talmente unite che il Deuteronomio è presentato come «le parole dell’alleanza con YHWH» (Dt
28,69; 5,1-2). «Libro della legge» (2 Re 22,8.11) e «libro dell’alleanza» (2 Re 23,2.21) sono spesso usati come sinonimi; entrambi
rivelazione e dono di Dio.
528In diversi modi l’AT aveva annunciato un’alleanza futura, eterna (Is 55,3; Ger 32,40; Ez 16,60; 37,26), un’«alleanza di pace» (Is
54,10; Ez 34,25), anche se l’espressione «nuova alleanza» ritorna solo in Ger 31,31. La caratteristica essenziale di questa «alleanza»
consisteva nel superamento dell’esteriorismo della legge; essa infatti doveva essere inscritta nel cuore degli uomini (Ger 31,31- 33) e
accompagnata dal dono dello Spirito (Ez 36,26-28).
esplicitato dalle parole con le quali Gesù collega i doni del pane e del vino alla sua persona, al suo
corpo e al suo sangue: il pane è il suo corporato, il vino il suo sangue-versato. Le espressioni
«corpo» e «sangue» designano, come è evidente, la totalità dell’essere del Servo di YHWH,
«sacrificio di alleanza» offerto per tutti. La nuova alleanza si compie in forza di questo sacrificio nel
quale offerente e offerta coincidono.529 La sua persona si fa oblazione redentiva, consegnata alla
comunità dei discepoli come contenuto decisivo del nuovo culto, il culto dei tempi escatologici. Se
Gesù è V‘ebed YHWH, egli è al tempo stesso colui che fa dono di sé per riunire i figli dispersi e
suscitare la comunità della nuova e definitiva alleanza nel suo sangue. Con il mangiare il pane-dato
e il bere il vino-versato, la comunità dei discepoli diviene partecipe di questa nuova alleanza, in una
osmosi vitale che significa almeno due realtà costitutive della Chiesa:

• la fedeltà del Servo-Gesù passa alla comunità-serva; in forza di questo passaggio, di questa
fedeltà-donata, la comunità ecclesiale sarà per sempre la comunità della nuova alleanza, la comunità
indistruttibile dei tempi ultimi della salvezza;
• la comunità, partecipando all’unico pane spezzato e all’unico calice, è per ciò stesso
coinvolta nella medesima dinamica di autoconsegna, di accoglienza e di dono di sé; un
coinvolgimento che non risiede soltanto nel dire «sì» a una «legge» proclamata dall’esterno, ma
nell’essere detti ab intra dal «sacrificio della nuova alleanza», costituiti e determinati quindi dal suo
contenuto oblativo.

L’autoconsegnarsi di Gesù chiede l’autoconsegnarsi dei discepoli. Così, se la nuova alleanza


implica l’impegno solenne di Gesù che si offre per tutti, la celebrazione eucaristica che ne è la
«memoria» suppone il coinvolgimento di coloro che accolgono il corpo-dato e il sangue-versato,
fino a farsi a loro volta «pane spezzato» e «vino condiviso» con tutti. Solo in questa direzione i
discepoli realizzano il senso profondo del «far memoria» del sacrificio della nuova alleanza. E dal
momento che la morte di Gesù è un far morire ogni germe di divisione e abbattere ogni muro di
divisione (Ef 2,11-18), la nuova alleanza stabilisce la Chiesa come una comunità in cui sono vinte
tutte le separazioni e le divisioni e si dà forma a uria comunione-comunità. La res offerta dai gesti
del pane e del vino, collegati alla sua persona, è la realtà di una fraternità conviviale, da costruire
nella storia come progetto nuovo inaugurato dalla pasqua del Redentore. 530 Se Gesù, è l’ebed
YHWH, assume, nell’ultima cena, i gesti della mensa comunionale, per farne l’atto che significa la
koinonia instaurata dal suo corpo offerto e dal suo sangue versato e riunire gli uomini in un solo
corpo, il corpo ecclesiale.

Il comandamento nuovo. L’eucaristia rappresenta, di conseguenza, l’atto centrale e peculiare


in cui si edifica e si modella la Chiesa-koinonia nel Signore. La consegna del «comandamento
nuovo» si colloca in questo preciso ambito. Se l’antica alleanza aveva richiesto l’impegno di acco-
gliere la legge mosaica e di osservarla, la nuova alleanza esige la realizzazione del comandamento
529È noto come nell’orizzonte biblico pane e vino rappresentassero la terra che, al termine del viaggio nel deserto, doveva offrire
agli ebrei grano e uva. Ponendo tali doni in relazione con la sua persona, Gesù indica come attraverso il pane e il vino venga
annunciato e comunicato un altro dono, immensamente più grande, che il Padre offre all’umanità: il dono della sua persona come
compimento e centro della nuova ed eterna alleanza. Il pane ricordava agli ebrei la bontà di YHWH verso il suo popolo ed evocava
la manna donata dal Signore a Israele durante il cammino nel deserto; un lin guaggio carico di significato a cui Gesù stesso si era
richiamato durante la sua esistenza quando aveva proclamato di essere il «pane di Dio», quello vero, che il Padre offre agli uomini
(Gv 6,48-58). Adesso questo «pane alzato» diventa segno portatore della sua salvezza pasquale e della sua presenza fra gli uomini. Il
vino era segno di vita, di gioia e di convivialità; il fatto che, nell’ultima cena, esso sia collegato alla coppa alzata verso il Padre e
benedetta, fa riferimento al sacrificio di ringraziamento di cui più volte i salmi parlano: il calice della todah, sollevato nella lode
riconoscente per l’alleanza stretta da YHWH con il suo popolo. Un tale riferimento è confermato dal linguaggio uti lizzato dai
racconti dell’istituzione: l’accenno al sangue versato evoca il carattere sacrificale del patto, non senza un’allusione alla sorte dei
giusti (da Abele in poi) e dei profeti.
530Si comprende questo significato del memoriale eucaristico alla luce del simbolismo ebraico del banchetto. L’atto dello spezzare il
pane che dà inizio al banchetto riveste un significato religioso particolare, tanto che chi arriva dopo si vedrà escluso dalla sua
partecipazione. Colui che presiede, distribuendo a ciascuno un pezzetto di pane sul quale è stata pronunciata la benedizione, costi -
tuisce attorno a sé una solidarietà alla quale appartiene egli stesso. E tutti assieme beneficiano della benedizione pronunciata sul pane
e quindi della benedizione stessa di Dio. Comunicando al dono ricevuto, in un atto comune di lode, i commensali divengono una
comunione gli uni con gli altri, come un unum, «una cosa sola» (si pensi all ’ut unum sint della preghiera sacerdotale di Gv 17,11.21;
D. MARZOTTO, L’unità degli uomini nel Vangelo di Giovanni, Brescia 1977). Allo stesso modo, l’unicità del calice a cui tutti bevono
evoca l’unica comunità dei commensali, come esplicherà molto presto Paolo (ICor 10,16-17). La ricchezza ecclesiologica delle
parole di Gesù sul pane è ulteriormente confermata dalla convinzione diffusa che il corpo è ciò che conduce a unità le singole
membra (si pensi a ICor 12). Il significato si trasferisce dal pane e dal vino al corpo e al sangue dell’‘ebed come luogo e sorgente
della nuova comunità riunita attorno a lui.
dell’amore e la piena sottomissione a esso come segno distintivo e plasmante della comunità nuova
inaugurata dalla pasqua. È quanto vuol far comprendere Giovanni quando insiste, con accenti di
vibrata passione, nel ricordare il comandamento nuovo dato da Gesù durante l’ultima cena:
«Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato» (Gv 13,34-35; 15,12-17). Ha ragione S. Lyonnet
quando osserva che «è difficile non vedere nel comandamento nuovo la promulgazione della legge,
senza la quale per un israelita non è possibile alcuna alleanza. I sinottici ci insegnano che
l’eucaristia è un sacrificio di alleanza. Giovanni ci indica qual è la legge di questa alleanza, ad
osservare la quale i cristiani si impegnano, per conseguenza, ogni volta che partecipano al mistero
eucaristico».531 «Proprio per farci capire che il dono della sua vita attua una comunione, Gesù dà il
comandamento nuovo insieme al pane e al vino corpo e sangue suoi. Il dono di se stesso rinnova a
fondo il nostro rapporto con Dio mediante il perdono, e trasforma i nostri rapporti reciproci
mediante l’amore fraterno che ha in lui la sua sorgente». 532 Il «come» (kathos) del comandamento
nuovo riveste un’importante sfumatura di causalità: non significa soltanto: «Prendete il mio amore
ad esempio», ma più profondamente: «Amatevi a motivo dell’amore che vi ho manifestato e
dell’amore posto in voi in forza dell’evento della mia pasqua».533 Il comandamento richiama dunque
una fraternità che scaturisce dal dono di Gesù che si autoconsegna alla morte, una fraternità fon-
dante la comunità dei discepoli come una comunione di amore sgorgata da quell’evento (cf. Gv
19,34). Il comandamento è detto «nuovo» non solo perché supera il precetto veterotestamentario di
«amare il prossimo come se stessi» (Lv 19,18.34), ma perché si modella sull’evento nuovo,
gratuito, con cui Gesù ha offerto se stesso, «tutto» e «per sempre». La misura dell’amore, a partire
da quel momento, non è più soltanto l’amore che ognuno prova per sé, ma la motivazione e
l’esemplarità unica di Gesù che ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, con un atto di pura
benevolenza (Ef 5,25-27). L’eucaristia, sacrificio della nuova alleanza nel sangue della croce, attua
questo tipo di amore e lo proclama come legge peculiare del popolo della nuova alleanza e di ogni
sua componente. Un amore che non si costituisce tanto (o in primo luogo) come un dato etico, ma
come l’attuazione del dono dello Spirito promesso, sua espressione e suo segno visibile. La nuova
alleanza operata dalla morte del Servo si compie infatti nello Spirito Santo. Per questo motivo, lo
Spirito che egli invierà da parte del Padre non solo illuminerà i discepoli sul senso dei gesti e delle
parole dell’ultima cena e dell’itinerario vissuto da Gesù, ma rappresenterà in pari tempo il principio
fontale della Chiesa come comunità trinitaria adunata nella carità del Padre, del Figlio e dello
Spirito.534 L’eucaristia, dono dello Spirito alla Chiesa, manifesta il senso del tempo tra le due venute
come un tempo della carità nello Spirito e un tempo che costituisce la comunità dei credenti quale
comunione nello Spirito dell’amore del Padre e del Figlio. È per questa via, la via dello Spirito, che
la «memoria» eucaristica riconduce la Chiesa fino al grembo della Trinità e la suscita come il
popolo dell’eterna dedizione trinitaria nella storia. E in questo senso che la res eucharistiae, allo
stesso modo in cui implica la diakonia della carità, esige la koinonia come suo segno e suo frutto
imprescindibile, al punto che solo in essa la celebrazione della «memoria» pasquale di Cristo
attinge alla sua piena valenza. Dev’essere compreso in questa accezione globale il comando: «Fate
questo in memoria di me». Non si tratta di una mera rubrica liturgica, ma dell’invito - anzi del
comando - a entrare nella logica proclamata da Gesù con la distribuzione del pane e del calice ai
suoi discepoli e dall’evento di oblazione a cui i suoi gesti rimandano. Celebrare l’eucaristia, per la
comunità credente, non è semplicemente adempiere al comando del Signore, osservando
ritualmente quanto egli ha fatto e ha detto di fare; è attingere all’evento stesso della propria origine,
accettando di lasciarsi modellare da esso per ridiventare di continuo la comunità della nuova
alleanza di Gesù, il luogo della sua koinonia vivente nella storia. Attualizzando il passato e ren-
dendolo presente nell’oggi, la memoria eucaristica rappresenta così un atto di meta-storia
531LYONNET, Eucaristia e vita critiana, 27.
532RICHARD DI TAIZÉ, Dio ha rivelato il suo cuore, 80.
533Questa interpretazione trova conferma nella preghiera sacerdotale: «Perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in
loro» (Gv 17,26).
534È quanto appare nel giorno di Pentecoste: un’irruzione dello Spirito sulla comunità dei discepoli, riuniti con Maria, che
rappresenta un evento di nuova creazione e dà inizio al cammino del nuovo Israele di Dio. Compimento necessario dell’annuncio
delFultima cena, la Pentecoste fonda la Chiesa come comunione nell’unico Padre, nell’unico Signore, nell’unico Spirito, comunione
di ministeri e carismi a servizio dell’unico Corpo di Cristo (ICor 12-13). È da questo dono dall’alto, che è l’amore di Dio diffuso nei
nostri cuori per lo Spirito che ci è stato dato (Rm 5,5), che sgorga la consapevolezza dell’assoluto primato del carisma della carità su
tutti gli altri carismi (ICor 13).
inaugurale, perennemente generativo della comunità, della sua ragione d’essere e della sua identità
peculiare.535 E dal momento che il contenuto ultimo di questa memoria è la pasqua, il gesto di
amore col quale Gesù, autodonandosi, crea la nuova comunità, la celebrazione eucaristica sarà per
sempre fons et culmen della Chiesa come comunione-comunità fondata sulla carità dello Spirito.

6.3. ETHOS DEL MISTERO EUCARISTICO

È su questa identità che si gioca Vethos dell’eucaristia. Quando la Chiesa si riunisce per
attuare il ricordo della pasqua si inserisce, per ciò stesso, nel dinamismo del suo Signore e Maestro
nell’atto che gli è proprio e nel quale la sua stessa oblazione pasquale l’ha fissato eternamente, l’at-
to del donare se stesso per tutti. Celebrando l’eucaristia, la comunità partecipa a questo gesto, lo
rivive in sé e accetta di lasciarsi plasmare da esso, impegnandosi a trasformare i rapporti tra gli
uomini in rapporti di fraternità donante e accogliente, di servizio e di comunione. Di qui le
prospettive di fondo dell’ethos eucaristico: esse vanno dalla dimensione antropologica a quella
cristologica e trinitaria fino a quella ecclesiale e missionaria.

Dall’uomo al Cristo dell’eucaristia. Il punto di partenza è antropologico. L’evento della


croce è, per i cristiani, il paradigma supremo e insuperabile della libertà umana: Gesù si offre per
amore; la sua libertà consiste nell’autoconsegna gratuita e totale al Padre al posto dell’uomo pec-
catore. In Gesù crocifisso, l’amore trinitario si manifesta come offerta ed evento di grazia 536
Comunicando all’amore trinitario attuato nella Croce e dispiegato nell’eucaristia, il credente accetta
che la sua libertà obbedisca alle leggi di un amore senza riserve e si rende disponibile perché il suo
amore si lasci plasmare dall’amore trinitario. La sua distanza con la Trinità è superata dal dono con
cui la Trinità stessa gli si concede, consentendo alla sua libertà di entrare nel mistero della nuova
pasqua e di venirne modellata.

Dal Cristo dell’eucaristia all’uomo. Risiede in questa totalità di amore, quale si è


manifestato nella morte di croce, la singolarità unica dell’eucaristia. La «memoria eucaristica» è un
atto che dice la vocazione dell’uomo all’amore e alla comunione, fondandone e consentendone la
realizzazione.537 Celebrare l’eucaristia significa lasciarsi dire, guidare e determinare dal dinamismo
di un amore in forza del quale Gesù si è offerto per tutti. In caso contrario, non si celebra Yephapax,
l’«una volta per sempre» del mistero pasquale, ma qualcos’altro, un gesto a sfondo religioso, un
ricordo fine a se stesso o chissà che cosa! L’evento pasquale di Gesù si attua nella celebrazione
eucaristica come la modalità storicamente voluta da Dio per plasmare l’esistenza credente e
realizzarla nella sua più profonda verità come esistenza amante. Solo chi entra in questa logica è in
grado di partecipare al mistero eucaristico con autenticità e trovarvi il suggello della vera libertà, la
libertà di lasciarsi amare e di amare secondo l’esempio del Redentore e nella pienezza del suo
Spirito.

Dalla Chiesa dell’eucaristia alla Trinità. Il contenuto dell’eucaristia è detto dal mistero
totale di Gesù nella sua duplice kenosis di incarnazione e di croce. E dal momento che tale
contenuto trova la sua realizzazione meta-storica nell’evento della risurrezione, l’eucaristia - come
anamnesi di un accadimento che ha costituito il passaggio dell’escatologia nella storia e della storia
nell’escatologia - è l’atto che significa e opera la novità dell’esistenza dei battezzati come epifania
535Ciò è vero per Israele quando celebra la pasqua della sua nascita, ed è vero per la comunità cristiana ogni volta che si riunisce per
«far memoria» dell’evento pasquale da cui è sgorgata (Gv 19,34).
536«L’uomo non anticipa le forme concrete secondo cui il mistero suscita e guida la storia. Pro prio il fatto che esse non siano
misurate dalle decisioni umane, ma dipendano dalla misteriosa gratuità di Dio le rende corrispondenti alle leggi interiori della
libertà» (C.M. MARTINI, «L’eucaristia, memoriale della pasqua di Cristo e forma della vita della Chiesa», in R. FALSINI [ed.], Un solo
pane e un solo corpo, Milano 1982,16-17).
537Si veda, al riguardo, il testo della Familiaris consortio, n. 11, dove la vocazione creaturale delFuomo è descritta come vocazione
nativa e fondamentale all’amore e alla comunione.
della carità trinitaria e partecipazione a essa. L’itinerario esistenziale-cristologico si presenta come
un itinerario inseparabilmente trinitario. La pasqua proclama che Dio vuole estendere la sua
comunione al di fuori sé: il mistero di comunione proprio di Dio Padre, Figlio, Spirito, il loro essere
«una sola cosa», viene partecipato a una moltitudine di fratelli e sorelle chiamati a formare «una
cosa sola fra loro», come il Padre, il Figlio, lo Spirito. La celebrazione eucaristica è la «memoria»
centrale di questo progetto-chiamata e la sua attuazione vitale. Così, se la Chiesa, per natura, è «un
popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo», 538 la celebrazione eucaristica
manifesta questa identità, la plasma e la compie, orientando la Chiesa verso Dio-Trinità.

Dalla Trinità alla Chiesa dell’eucaristia. La forma trinitaria dell’eucaristia dice e struttura la
Chiesa; e mai l’una senza l’altra. Secondo questa forma tutto viene dal Padre per il Figlio nello
Spirito e tutto ritorna nello Spirito per il Figlio al Padre. L’eucaristia condensa in sé questo
movimento dialettico: è un atto ecclesiale di rendimento di grazie rivolto alla Trinità ed un evento di
grazia offerto dalla Trinità ai credenti. La Chiesa sarà per sempre, in modo indefettibile, questa
comunità sgorgata dalla carità trinitaria e plasmata dall’eucaristia come accadimento della carità di
Dio-Trinità nella storia. Il concilio Vaticano II ha recepito questa prospettiva quando ha descritto la
Chiesa locale come una comunità che sgorga dall’eucaristia e trova il suo centro vitale in essa (LG
26). Dall’eucaristia nasce una Chiesa che accetta di lasciarsi modellare dall’evento di un «corpo
dato» e di un «sangue versato», di cui l’eucaristia è il sacramento; una comunità che accetta di
sottoporre i rapporti fra le persone e tutte le sue strutture di comunione e di servizio alla logica della
pasqua, superando ogni altra logica che le si opponga.

Dalla Chiesa dell’eucaristia alla Chiesa della carità. La Chiesa dell’eucaristia è - di


conseguenza - la Chiesa della diakonia nella koinonia e della koinonia nella diakonia. È questa la
forma che la Chiesa riceve dall’eucaristia. Il memoriale eucaristico costituisce la Chiesa come una
comunità pasquale, riunita attorno al suo Signore, e orientata a realizzarsi secondo l’identità stessa
del mistero che celebra. L’eucaristia sgorga dall’azione dello Spirito operante nella Chiesa ed
effonde lo Spirito che fa della vita dei battezzati un’oblazione perenne e un culto spirituale che
investe la totalità dell’esistenza battesimale (Rm 12,1; lPt 2,4-5). Tutto il mistero della carità di Dio
rivelato e attuato nell’invio dell’Unigenito, morto e risorto, e nel dono del suo Spirito alla Chiesa è
racchiuso nel mistero dell’eucaristia, fonte e vertice dell’esistenza credente.

Dalla Chiesa della carità alla Chiesa della diakonia/koinonia. La diakonia della carità è
essenzialmente servizio alla koinonia nella fraternità. La diakonia eucaristica è chiamata alla
comunione, e viceversa, in un’inseparabile corrispondenza. Tutto questo suppone almeno due con-
sapevolezze fondamentali: in primo luogo, che la comunità ecclesiale, lasciandosi plasmare
dall’eucaristia, si orienti sempre più a farsi segno visibile e credibile dell’amore trinitario nello
spirito e nelle opere del vangelo; in secondo luogo, che la sua missione non si dia come generica
risposta ai bisogni umani, ma come progetto implicante uno stile di rapporti interpersonali esemplati
sull’eucaristia e orientati alla costruzione di strutture di comunione e di servizio nella storia. La
prima consapevolezza rimanda a un’evangelizzazione ad intra centrata sull’eucaristia come forma
propria di costruzione della comunità ecclesiale; un’evangelizzazione che si faccia espressione di
fraternità e sua ricerca instancabile. La seconda richiede che si porti a chiarezza la potenzialità
trasformante dell’eucaristia e si accetti che essa sia in grado di misurare non solo il costituirsi della
Chiesa, ma gli stessi rapporti umani sul modello della koinonia delV‘ebed YHWH. La «memoria»
eucaristica, in questa duplice ottica, rappresenta il paradigma dell’attuazione dell’umanità nuova
inaugurata dalla pasqua; come tale, essa di-svela il senso di una famiglia umana - per usare il
linguaggio del concilio - indirizzata a divenire famiglia dei figli di Dio, la promuove e la edifica
(GS 32).

538CIPRIANO, De Orat. Doni., 23 (PL 4,553); AGOSTINO, Serm., 71,20,33 (PL 38,463s).
6.4. EUCARISTIA E MISSIONE

Il tempo della Chiesa, come tempo tra le due venute di Cristo, è essenzialmente tempo di
missione: tempo di annuncio e di comunicazione della salvezza pasquale ormai realizzata.
L’eucaristia riproduce in sé questo mistero missionario di «annuncio» e di «comunicazione».
Partecipare all’eucaristia è, di conseguenza, essere coinvolti in un radicale dinamismo missionario:
è chiamata a dispiegare nella storia il mistero pasquale che si celebra nella «memoria» celebrativa
e di cui si è beneficiari. L’eucaristia è avvenimento di missione perché esprime e contiene in sé la
missione stessa del Christus totus, missione affidata alla Chiesa nella potenza dello Spirito (Lc4,48-
49; At 1,8; Gv 20,21-23). Questo significa che l’origine della natura missionaria dell’eucaristia
risiede nel comando stesso del Signore: «Fate questo in memoria di me» (Lc2,19; ICor 11,24-25), e
nella destinazione universale del suo corpo dato per tutti e del suo sangue versato per tutti «in
remissione dei peccati». Ogni volta che si celebra l’eucaristia (o ci si pone in adorazione dinanzi al
Signore eucaristico) si mette a fuoco questo essere missionario della Chiesa e di ciascun battezzato.
L’eucaristia chiama ogni comunità a divenire comunità missionaria, lanciata sulle strade del mondo,
per aprirlo al regno di Dio.

L’icona dei discepoli di Emmaus porta in sé questo fondamentale orizzonte: la


trasformazione che avviene nei due discepoli, prima in modo progressivo, ascoltando la parola del
Signore, e poi in modo totale al momento del condividere il pane con lui, indica una risurrezione
che si opera anzitutto nei loro cuori e li rende annunciatori entusiasti del Risorto: da di-missionari,
impauriti e scoraggiati, che erano, diventano missionari, intrepidi e senza paura: tornano a
Gerusalemme e proclamano a tutti la novità del Signore che hanno incontrato lungo la strada e
nell’atto dello «spezzare il pane» (Lc4,13-35). La memoria eucaristica porta con sé questa forza: è
una «memoria pericolosa», per usare il linguaggio di J.B. Metz, non è per niente una memoria
tranquillizzante o che consenta di situarsi nell’atteggiamento dei beati possidentes] è la memoria
della pasqua che giudica ogni scelta che le si oppone e impegna in modo totale a testimoniare nella
vita quanto si celebra nel rito. Ciò è vero per tutti i sacramenti, ed è vero, in modo eminente, per
l’eucaristia; essa è talmente il sacramento della missione da rendere presente lo stesso atto
redentore da cui la Chiesa procede, ossia il sangue della nuova alleanza versato sulla croce, e da far
risuonare perennemente nella comunità l’invito a compiere quanto Gesù ha vissuto in prima
persona, ossia l’offerta totale di sé per la salvezza di tutti. E tale è la missione cristiana: farsi dono
per gli altri. Lo aveva ben compreso sant’Ignazio quando chiedeva di poter andare a Roma per esser
dato in pasto ai leoni allo stesso modo in cui il Cristo si era fatto cibo per noi, ponendo in stretto
parallelismo il convito eucaristico con il suo martirio: «Io desidero il pane di Dio, cioè la carne di
Gesù Cristo, e come bevanda desidero il suo sangue, cioè l’eterno convito di amore» (Rm 7,3). In
effetti, sussiste una relazione profonda tra l’eucaristia e il martirio. «Mangiare il corpo dato» e
«bere il sangue versato» significa accettare di fare della propria vita un dono totale sul modello
della pasqua, seguendo Cristo fin sul calvario. Mai missione senza eucaristia; mai eucaristia senza
missione.

7. Cristocentrismo eucaristico

Secondo l’inno della Lettera agli Efesini (1,3-14), Gesù è il grande ricapitolatore della storia
dell’universo. In lui, secondo Col 1,1-20, tutto è stato riconciliato, il cielo e la terra; «immagine di
Dio invisibile» e «capo del corpo che è la Chiesa», egli è «il principio» e il «primogenito» della
nuova creazione. Questo evento di ricapitolazione, inaugurato dall’incarnazione dell’Unigenito
nella storia e realizzato nella sua morte e risurrezione, si prolunga, si attua e si estende al cosmo
intero nel mistero eucaristico. A sua volta, il sacramento dell’eucaristia rivela il cristocentrismo
eucaristico nascosto in tutta la creazione. Un contenuto dell’eucaristia che non è un abituale
oggetto di approfondimento della teologia cattolica. L’autore che più decisamente si è orientato in
questa direzione è stato il gesuita Pierre Teilhard de Chardin. Oltre all’opera centrale: L’ambiente
divino, dove il cosmo intero è compreso come grande dimora di Dio e luogo della «cristificazione»
inaugurata dall’incarnazione redentiva, è sufficiente ricordare qui i tre racconti mistici pubblicati
nell’Inno dell’universo del 1916539 e lo stupendo libretto La Messa sul mondo del 1923, scritto nel
deserto di Ordos in Cina il giorno della trasfigurazione quando, trovandosi senza pane e senza vino,
egli presenta a Dio la storia dell’universo come una grande offerta che per mezzo di Cristo nello
Spirito riconduce tutto al Padre: «Poiché, ancora una volta, sono senza pane, senza vino e senza
altare, mi eleverò al di sopra dei simboli alla pura maestà del reale, e ti offrirò, io tuo sacerdote,
sull’altare della terra totale, il lavoro e la pena del mondo».41

7.1. SIGNIFICATO EUCARISTICO DEL COSMO

Le preghiere eucaristiche della Chiesa, composte secondo la migliore tradizione ebraica,


contengono costantemente una benedizione rivolta a Dio per il creato e i frutti della terra; esse
includono la santificazione del tempo, del lavoro e della materia e richiamano il significato sim-
bolico del mondo come scala per andare a Dio e rendergli grazie. Dono gratuito del Creatore e
segno della sua potenza, il cosmo riveste già in se stesso un senso eucaristico, come una narrazione
in atto della gloria Dei e un inno di lode al suo nome, come ci insegnano instancabilmente i Salmi. I
testi della Genesi sulla creazione sono nati in questo clima di fede e riconoscenza. Il cosmo è un
grande tempio nel quale il Creatore si incontra con le sue creature ed esse con il loro Creatore. Tutto
è armonia e libertà. L’uomo chiama le creature per nome e le riconduce al Signore Dio come
«voce» del cosmo. Il lavoro è un servizio divino, una grande liturgia a lode del Creatore. Il peccato
originale viene a infrangere questo progetto, come una «catastrofe cosmica» che vela il significato
eucaristico del creato e il senso liturgico dell’attività umana. La persona, uomo-donna, smarrisce il
senso della sua ministerialità, e solo a fatica riesce a scorgere nella natura un segno visibile, un
«grande sacramento» che rivela la bontà e la grandezza di Dio. Il lavoro diviene un peso, anziché
una collaborazione gioiosa con il Signore.

L’evento della venuta dell’Unigenito di Dio nella «carne» si pone come dono di grazia e
possibilità donata per uscire da questa situazione; esso di-svela il significato del creato e lo ridona
all’uomo in tutta la sua rilevanza eucaristica. La natura umana che il Figlio assume nell’unione
ipostatica del suo Io-divino unisce cielo e terra e condensa in sé la simbolicità totale del creato,
facendole attingere la sua pienezza definitiva. La ministerialità cosmica dell’uomo è allora assunta
in forma vicaria nella ministerialità cosmica dell’Unigenito incarnato e risorto. Il creato appare
come una «grande eucaristia». Quanto l’uomo aveva perso a causa del peccato è ora riacquisito in
Gesù di Nazaret, il Redentore dell’uomo e del mondo. Come primogenito di ogni creatura e
primizia dei risorti, egli appare come il grande liturgo del cosmo. Così, se la creazione si ricapitola
nell’uomo, l’uomo si ricapitola in Cristo, secondo la scala cosmica enunciata con estrema
precisione da Paolo: «Tutto è vostro... Voi siete di Cristo... Cristo è di Dio» (ICor 3,21-22). Grazie al
Salvatore tutte le realtà ritrovano la loro pienezza di significato. Egli realizza in sé il contenuto
eucaristico del creato, riportando l’uomo alla sua missione originaria.

Esistenza personale assoluta, egli trasforma in soma pneumatikon la materia universale. Non
soltanto porta in sé il paradiso, ma il Regno: in lui il cielo e la terra diventano nuovo cielo e nuova
terra. I miracoli del vangelo sono il segno di questa ri-crea- zione escatologica. Grazie alla
risurrezione, la natura umana e, attraverso essa, il cosmo si trovano assunti dalla stessa persona del
Figlio di Dio... In Cristo, attorno a lui, lo spazio e il tempo non si separano più: egli oltrepassa
tutte le porte chiuse.540

539Cf. P. TEILHARD DE CHARDIN, Inno dell’Universo, Brescia 1992,25-38.


540S. CHARALAMBIDIS, «Cosmologia cristiana», in Iniziazione alla pratica della teologia, Brescia 1986, III, 29.
La croce sta ormai al centro della storia del mondo come il nuovo albero della vita. «Il
Figlio di Dio - proclama Ireneo -per essere stato crocifisso, ha messo la propria impronta
sull’universo in forma di croce, suggellando in certo qual modo l’universo intero con il segno della
croce».541 Una croce che rimanda alla glorificazione del Figlio e, in lui, del creato stesso con al
vertice l’uomo. Un ruolo perfettamente espresso nelle grandi raffigurazioni bizantine e romaniche
dove il Risorto è rappresentato come il Pantokrator, il Signore ascendente alla destra del Padre che
diffonde il suo Spirito sulla Chiesa e trascina con sé, nella sua intronizzazione, il cosmo intero,
simboleggiato dai festoni, dalla flora e dalla fauna. Il Kyrios, con la Chiesa-suo-corpo, è la primizia
e il principio di ricapitolazione di tutta la creazione.

Con l’incarnazione del Figlio, il mondo è assunto nella relazione personale da Dio all’uomo
e dall’uomo a Dio. In unione con la grazia interiore, tutto il modo creato diviene una «grazia
esteriore», un’offerta di grazia sotto forma sacramentale. La parola ecclesiale e i sacramenti
ecclesiali - con l’eucaristia fonte e vertice - non sono che i centri irradiatori ardenti di questa
manifestazione del Signore, che comprende il mondo intero, nella concentrazione di questa
presenza di grazia visibile che è la Chiesa, nella quale Cristo è realmente presente somatikós,
«corporalmente», e dunque personalmente.542

7.2. SIGNIFICATO COSMICO DELL’EUCARISTIA

L’eucaristia, centro di tutti i sacramenti e cuore dell’esistenza cristiana, proclama in atto e


attua progressivamente questo mistero di «cri- stificazione», già operante nel grembo della storia, lo
manifesta e lo dispiega nello spazio e nel tempo, fino alla parusia finale (ICor 11,26). Nel
memoriale eucaristico, il «mistero nascosto da secoli in Dio» (Ef 3,9) si fa azione liturgica nella
prospettiva della riconduzione di tutto al Padre. In tale azione, realtà appartenenti al creato, come il
pane, il vino e l’acqua, sono sollevate al di sopra di loro stesse e trasfigurate dalla potenza dello
Spirito, diventando «sacramento», «simbolo reale», della creazione escatologica inaugurata dal
Signore risorto. Realtà del nostro mondo, vengono attraversate dalla presenza del Soffio divino, fino
a diventare segni attuativi e portatori della novità della pasqua.

Il mondo che entra nello spazio liturgico è il mondo decaduto, ma esso non vi entra per
rimanere tale: la liturgia è un rimedio di immortalità perché nella sua accettazione e nella sua
affermazione del mondo, essa ne rifiuta appunto la corruzione per offrirlo invece a Dio, al Creatore.
In tal modo, nella liturgia eucaristica, il mondo non cessa di essere il cosmo di Dio: una simile
visione non lascia possibilità alla dissociazione tra naturale e soprannaturale; ciò che qui esiste di
fatto è l’unica realtà della natura e della creazione completa fino all’identificazione tra la realtà
terrena e la realtà celeste.543

L’eucaristia condensa in sé il massimo grado della presenza del Kyrios nel mondo e attua nel
più alto livello possibile la ministerialità della Chiesa nel cosmo. A partire dall’eucaristia, passando
per l’economia sacramentale della Chiesa (sacramenti e sacramentali), tutte le realtà del cosmo e
della vita umana - purché non contrarie al progetto salvifico di Dio - divengono segno che rimanda
al Signore glorioso, in una sorta di «sacramentalità diffusa» che si apre fino ai confini dell’universo.
Grazie all’eucaristia, è possibile scorgere nelle realtà create dei luoghi di incontri col Signore
glorioso, superando un duplice opposto pericolo: quello di uno spiritualismo contrario alla materia,
il quale non corrisponderebbe al realismo dell’incarnazione e dei segni sacramentali, e quello di un
materialismo contrario allo spirito, che impedirebbe di collegare il reale all’azione redentrice di
Cristo, il cielo alla terra. Di fatto, nell’eucaristia e nei gesti sacramentali, «le cose diventano incontri
con Cristo. Con esse e in esse si compie la dedizione a Lui. Egli sta in mezzo alla vita quotidiana e
dà alle realtà ordinarie significati, appoggio e sicurezza».544 Grazie all’eucaristia e ai sacramenti si è
541IRENEO, Dimostr. della verità apostolica (SCh 62,46).
542E. SCHILLEBEECKX, Cristo sacramento dell’incontro con Dio, Roma 1966,296. Per un approfondimento liturgico di questa
prospettiva, rimando a: J. CORBON, Liturgia alla sorgente, Roma 1982.
543CHARALAMBIDIS, Cosmologia cristiana, 39-40.
544M. SCHMAUS, Dogmatica cattolica, 4/1:1 sacramenti, Casale Monferrato (AL) 1966,123.
introdotti nel più alto significato simbolico del creato. In essi si manifesta, in trasparenza, la realtà
del Risorto e si proclama la dipendenza di tutto il cosmo da Dio-Trinità. Tutto assume o può
assumere un significato eucaristico. L’eucaristia è la pasqua dell’universo', e lo è nella realtà, e non
semplicemente in figura, in relazione al «già» e «nonancora» che connota il tempo della Chiesa. La
liturgia dell’azione eucaristica esprime, dall’inizio alla fine, questo contenuto: il contenuto cosmico
del mistero pasquale di Cristo che si attua nell’oggi dell’atto celebrativo della Chiesa e rende i
battezzati protagonisti della creazione escatologica.

7.3. EUCARISTIA E CREATO

Fin dagli scritti patristici più antichi, come ad esempio quelli di Cirillo di Gerusalemme,
l’eucaristia è essenzialmente incentrata:
- sul ringraziamento a Dio per il dono della creazione: un’esultanza conservata tutt’oggi nel
prefazio di ogni Messa;
- su un ri-offrire a Dio i doni del pane e del vino, frutto della terra e del lavoro dell’uomo,
come un primo ritorno della creazione al Creatore;
- su un’elevazione dei doni del pane e del vino al Padre, in quella preghiera che qualifichiamo
giustamente «anafora», elevazione, perché Dio li trasformi - nella potenza dello Spirito - nel corpo e
nel sangue di Cristo quale segno vivo della grande offerta del Figlio, coinvolgente nel suo
dinamismo la Chiesa che offre e si offre;
- su un invito a partecipare al banchetto, mangiando di quel pane e bevendo a quel calice, per
realizzare l’incontro con il Signore risorto ed essere resi partecipi del grande convito messianico e
del processo di ricapitolazione eristica di tutte le cose verso Dio-Trinità.

L’eucaristia come «rendimento di grazie». L’eucaristia è il grande rendimento di grazie della


Chiesa che, in Cristo, ritrova la ministerialità cosmica dell’uomo e la celebra, facendo diventare il
credente portavoce della totalità del creato: «Fatti voce di ogni creatura, esultanti diciamo».

Una visione in cui si afferma il ruolo sacerdotale del credente, chiamato a dare voce alle
creature perché proclamino la grandezza del Creatore. Tutto il mondo si presenta come una grande
liturgia di lode, colma di esultanza e di stupore. Il prefazio ricorda all’uomo che solo se egli - come
osserva Zizioulas - si fa essere liturgico diviene capace di ritrovare il senso vero del creato e
superare la crisi ecologica.545 Farsi «essere liturgico», per il credente, infatti significa mettere in atto
una percezione estetica del creato che lo pone nel mondo non nell’atteggiamento di uno sfruttatore,
ma in quello del fruitore, non in quello del distruttore, ma in quello del rispetto e dell’incanto come
dinanzi all’opera del Signore. La celebrazione eucaristica suppone questa percezione del cosmo,
educa allo stupore coscientizzato della fede e chiama a vivere l’attività umana come una grande
liturgia al cospetto del Signore.

L’eucaristia come «presentazione dei frutti della terra e del lavoro dell’uomo». La
processione offertoriale, con la presentazione dei doni e la loro elevazione, costituisce un momento
di grande significato: il pane è frutto della terra e del lavoro dell’uomo, il vino è il frutto della vite e
del lavoro dell’uomo. Si offrono i doni più semplici della terra, espressione del creato e
dell’operosità umana; essi sono innalzati al Padre, il Dio dell’universo, perché nella potenza dello
Spirito li trasformi nel corpo e nel sangue del Suo Figlio fatto Uomo, il Redentore, e diventino
«cibo di vita» e «bevanda di salvezza» per tutti. In una simile riattualizzazione sacramentale, la
presenza di Cristo opererà un evento di trasfigurazione che renderà i doni offerti simboli reali della
presenza del Kyrios fra i suoi: gli elementi del pane e del vino diverranno portatori di una presenza
effettiva, personale, quella del Signore Gesù, il ricapitolare della storia e il principio della nuova
creazione. Celebrando l’eucaristia, la Chiesa vive in atto il ritorno dell’intera creazione al Padre per
545ZIZIOULAS, Il creato come eucaristìa, 10.
mezzo dell’Unigenito incarnato nella potenza dello Spirito. Se infatti la pasqua di Cristo è l’azione
centrale della storia umana e l’anticipazione del mondo futuro, la memoria eucaristica la dispiega
nel tempo e nello spazio come pasqua trasfigurante del mondo atteso e inaugurazione della
creazione escatologica.

L’eucaristia come «offerta del mondo a opera di Cristo». Va compreso in questa accezione il
grande offertorio che segue la consacrazione degli elementi del pane e del vino: è Cristo che si offre
mediante l’atto della Chiesa nell’attualizzazione della sua unica offerta al Padre, rendendo la Chiesa
partecipe della sua grande offerta e facendole rivivere il dinamismo della sua discesa/ascesa: «Che
significa la parola ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo
stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli per riempire tutte le cose» (Ef 4,9-10).

Secondo questo dinamismo la glorificazione del Risorto non è un sottrarsi dal mondo, ma
un cominciare a essere presente in esso in altro modo come principio di ricapitolazione di tutto
verso il Deus Trinitas. L’oblazione eucaristica celebra questo ritorno, lo manifesta e lo attua nelle
profondità del cuore umano e nel grembo della storia. Non è esagerato dire che ogni celebrazione
eucaristica è come un passo in avanti verso la pienezza del Christus totus, quando egli sarà tutto in
tutti e noi saremo uno in lui, con la celebrazione dei «cieli nuovi» e della «terra nuova» descritti
dall’Apocalisse. In forza dell’unica oblazione eucaristica tutto il passato è ricapitolato e il futuro
anticipato: il passato, con la totalità delle offerte della storia umana, da quella di Abele, di
Melchisedech e di Abramo fino a quelle dell’antico Israele e di tutti i popoli della terra; il futuro,
con la celebrazione anticipata della riconduzione del cosmo al suo significato ultimo. Gesù lo aveva
detto: «Quando sarò elevato, attirerò tutto a me» (Gv 12,31). L’eucaristia è la celebrazione
attualizzante di questo evento. La stessa presenza eucaristica di Cristo, che permane dopo la
celebrazione, che cosa è se non la presenza del Risorto in mezzo a noi per attirarci a sé e attirare il
cosmo intero verso il Padre? Essa è l’espressione in atto di un dinamismo di trasformazione ormai
impresso nel creato e nella storia. La presènza del Signore Gesù nell’eucaristia è come la garanzia,
la promessa e il richiamo perenne che tutte le realtà del cosmo sono irrevocabilmente incamminate
verso di lui, e che il Kyrios intronizzato alla destra del Padre le attira a sé in una forma misteriosa,
ma irresistibile. «Il disegno del Padre - come diciamo in una bella antifona dei vespri - è di fare di
Cristo il cuore del mondo».

L’eucaristia come «convivialità cosmica». L’eucaristia porta in sé questa forza irradiatrice,


trasfigurante e orientante di tutti e di tutto a Cristo e, in Cristo, verso il Padre nello Spirito. L’unirsi
con lui è un manifestare e divenire sempre più protagonisti del grande evento di ricapitolazione del
mondo nel Signore risorto. E tale è la valenza della comunione eucaristica. Il partecipare alla mensa
del «corpo dato» e del «sangue versato» include il coinvolgimento in questo mistero: il mistero del
Kyrios che vuole trasfigurare il creato, cominciando dal cuore dell’uomo. La comunione con Gesù
eucaristico fa vivere in questa assoluta novità pasquale; una novità che fonda la missione propria e
peculiare dei battezzati nel mondo. La sua venuta in noi è infatti una venuta dinamica e, se pone il
credente nell’attesa del suo ritorno, lo chiama in pari tempo a operare nella storia l’evento che attua
nel mistero. La convivialità dei doni eucaristici rimanda alla convivialità dei doni del creato e
chiede alla comunità cristiana e a ogni battezzato di farsi testimone di una cultura della eonvivialità.
E tale è la dialettica della celebrazione eucaristica, dall’inizio alla fine. Se «il convenire» a essa
implica il portare il rapporto con la terra e il proprio lavoro, il «tornare» da essa suppone l’accettare
di essere stati plasmati o ri-plasmati come uomini e donne nuovi in senso eucaristico. L’invito
conclusivo: «andate in pace», suppone questa precisa consapevolezza. Chi partecipa alla mensa
eucaristica ne assume il contenuto e accetta di lasciarsi coinvolgere in esso, vivendo in modo nuovo
il suo rapporto con il mondo e il suo stesso impegno lavorativo, per fare della propria vita
un’eucaristia realizzata: un’offerta e un ringraziamento a Dio. L’augurio di «pace» (shalom)
costituisce l’invito a costruire rapporti armoniosi tra noi e il creato, noi e gli altri, noi e Dio. Grazie
all’eucaristia, il Dio della creazione cessa di essere un Dio lontano, per essere colui che ha posto la
sua dimora in mezzo a noi e ci accompagna in ogni momento della nostra vita. Non è un Dio al di là
dell’esistenza, ma un Dio dentro l’esistenza, un «Dio-con noi».

8. Verso la Gerusalemme celeste

La Chiesa celebra l’azione eucaristica tra l’ascensione e la parusia. E infatti l’eucaristia è un


convito sacrificale che si colloca tra il banchetto pasquale di Cristo e il banchetto escatologico
atteso per i tempi ultimi. Lo stesso ricordo del passato è essenzialmente finalizzato al futuro che si
dovrà manifestare con la seconda venuta del Signore. Questo fatto non è un semplice dato
cronologico; indica la natura stessa della Chiesa, popolo in cammino nella storia verso il pieno
compimento del Regno, e mostra come l’eucaristia sia il convito dei pellegrini: un banchetto
pasquale in cui si annuncia e si partecipa in anticipo «al banchetto delle nozze dell’Agnello» (Ap
19,9).

8.1. MARANÀ THA

L’altare eucaristico è orientato verso l’altare celeste che - secondo la rappresentazione


globale di Ap 21-22 - si colloca al centro della Gerusalemme celeste e, nella forma ormai di un
trono, diventa sorgente di vita per tutti i redenti dal sangue della croce. Di tutto questo l’eucaristia è
caparra, dono vivo e reale; è infatti inizio e fondamento del mondo nuovo verso cui la Chiesa tende
con tutta se stessa. Come si esprime il Vaticano II: «Il Signore ha lasciato ai suoi un pegno di
questa speranza e un viatico per il loro cammino in quel sacramento della fede nel quale elementi
naturali, coltivati dall’uomo, vengono transmutati nel corpo e nel sangue glorioso di Lui, in un
banchetto di comunione fraterna, che è pregustazione del convito del cielo» (GS 38). Così, se
l’eucaristia è «memoria» del passato e «presenza» di Cristo nell’oggi della Chiesa, essa è al tempo
stesso «profezia» del futuro. La kenosis del Risorto nei segni sacramentali del pane e del vino è un
preludio del suo ritorno glorioso; per il momento, la comunità credente vive nell’alba, il giorno non
è ancora spuntato; in questo fra-tempo, essa si volge pellegrinante verso la manifestazione ultima
del Signore e la invoca. Maranà tha, «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20). La presenza di Cristo
nell’eucaristia pone la Chiesa in un’attesa permanente del suo ritorno. Di celebrazione in
celebrazione, annunziando il mistero pasquale di Gesù «finché egli torni» (ICor 11,26), il popolo di
Dio avanza verso il banchetto celeste nel quale tutti i popoli della terra siederanno alla mensa
glorificando il Redentore. È entro questa consapevolezza che, nella celebrazione eucaristica, si
plasma e si realizza quell’attesa vigilante, fatta di preghiera e di laboriosità, a cui fa riferimento il
vangelo. L’eucaristia è, in questo senso, un «paradigma orientativo» sempre in atto: solo chi può
celebrare l’eucaristia in modo degno, e disponibile all’incontro con il Signore che viene, è pronto
per la sua parusia finale e realizza il senso e il contenuto reale dell’eucaristia. Si colloca in questo
ambito la teologia dell’eucaristia come viatico.

8.2. L’EUCARISTIA COME VIATICO

La riflessione cristiana sul viatico esige oggi una riscoperta; gli studi di sacramentaria, anche
i più recenti, si limitano a cenni di passaggio in rapporto all’aspetto escatologico dell’eucaristia.
Storicamente la conservazione delle sacre specie al di fuori della messa è stata determinata dalla
comunione ai malati e appunto dalla celebrazione del viatico. Fino al V-VT secolo, quando la
riconciliazione sacramentale si poteva ricevere una sola volta in vita, al penitente ricaduto in
peccato grave non era concessa l’assoluzione nemmeno in punto di morte, e tuttavia in tale
circostanza gli era consentito di ricevere il viatico. Il valore di un simile gesto era tale nella
coscienza di fede della Chiesa da far saltare ogni obbligo di digiuno, anche nei periodi in cui esso
era rispettato in modo rigido. Il viatico è stato considerato, nei primi secoli, come il sacramento del
passaggio dalla morte alla vita, da questo mondo al Padre; un passaggio che avviene in Gesù,
vincitore della morte, risorto ed eternamente intronizzato nella gloria del Padre. E, in effetti, la
comunione al corpo e sangue di Cristo, ricevuta dal battezzato nel momento della sua morte,
assume un significato tale come sacramento del trionfo della vita sulla morte, del «passaggio
pasquale», portando a termine il primo «passaggio» compiuto nel battesimo e realizzandone il
significato ultimo. La fede nel Risorto trasforma la morte in un evento escatologico. La teologia del
viatico va collocata entro questo realismo di morte e di risurrezione per proclamare che il morire
non rappresenta l’ultima parola dell’esistenza, ma semmai la penultima.

Dimensione pasquale. La morte rappresenta un momento di estrema solitudine: la creatura


umana si trova a tu per tu con se stessa, col suo passato e il suo futuro definitivo. Tutto il suo
vissuto storico si condensa in quell’istante supremo. La comunione data ai morenti è la
«provvigione» (ephodion/viaticum) per il grande viaggio oltre la morte; essa ha anzitutto il
significato di nutrimento, di forza, di sollievo e di difesa dinanzi al mistero della morte. La
comunione al corpo e al sangue di Cristo sostiene il battezzato contro gli ultimi assalti del
«nemico»: è cibo di vita e bevanda di salvezza in grado di rinvigorire il credente nel passaggio da
questa condizione terrena a quella ultraterrena. La comunione eucaristica rappresenta un
accadimento sacramentale che offre la grazia di morire cristianamente. Risiede in questo contenuto
il significato pasquale del viatico. Il rito insiste giustamente nel raccomandare che esso sia celebra-
to, per quanto possibile, sotto le due specie durante la messa celebrata nella casa del morente. La
ragione è che una simile forma celebrativa esprime in una modalità più piena il significato del
viatico come evento di partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo. «La comunione in forma
di viatico è infatti un segno speciale della partecipazione al mistero celebrato nel sacrificio della
messa, il mistero della morte del Signore e del suo passaggio al Padre». 546 Se infatti la morte di
Cristo è l’oblazione libera di sé al Padre, la comunione viatica ha il potere di rendere partecipi della
medesima oblazione, trasformando la morte del battezzato in un sacrificio santo, gradito a Dio,
come una riconsegna totale di sé al Padre della vita. Il Kyrios stesso, nell’incontro eucaristico,
assume la morte del battezzato e la introduce nella sua risurrezione per presentarla al Padre nello
Spirito come oblazione cultuale. In quanto partecipazione al sacrificio del Redentore, al suo «corpo
dato» e al suo «sangue versato», il viatico si dà come partecipazione sacramentale all’evento del suo
passaggio da questo mondo al Padre e al suo trionfo glorioso. Se questo effetto è proprio di ogni
eucaristia, esso riveste un significato particolare nel momento della morte, quando il cristiano vive
l’atto ultimo della sua dipartita da questo mondo. Ciò che il fedele ha celebrato finora nel simbolo
sta per manifestarsi nella sua realtà totale. Il viatico rappresenta questo accadimento di passaggio,
verso il di-svelamento escatologico della gloria dei risorti. Il contenuto di risurrezione nascosto in
ogni eucaristia trova in esso la sua piena manifestazione. In nessun altro momento, la connessione
tra pasqua, eucaristia ed escatologia attinge al suo pieno realismo come nella celebrazione del
viatico.

Dimensione battesimale. La comunione viatica è in stretta relazione con il battesimo, come


sua attuazione e suo compimento definitivo. «Conviene - nota VIntroduzione al Rito, n. 28 - che il
fedele nella celebrazione del viatico, rinnovi la fede nel battesimo con il quale ricevette l’adozione
dei figli di Dio e fu fatto coerede della promessa della vita eterna». Sussiste infatti un parallelismo
fondamentale tra la prima iniziazione (battesimo/confermazione/eucaristia) che introduce nella
comunione del popolo di Dio - popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito - e
l’ultima iniziazione {penitenza sacramentale/unzione/viatico) come ingresso nella comunione della
Trinità.547 «Come i sacramenti del battesimo, della confermazione e dell’eucaristia - spiega il
Catechismo della Chiesa Cattolica - costituiscono un’unità chiamata iniziazione cristiana, così si

546Introduzione al Rito del Sacramento dell’Unzione, 26.


547Si veda il capitolo V del Rito del Sacramento dell’Unzione, 165-187.
può dire che la penitenza, la sacra unzione e l’eucaristia come viatico, costituiscono - al termine
della vita cristiana - i sacramenti che preparano alla patria, sacramenti che concludono il
pellegrinaggio terreno» (CCC 1525). Termina l’iniziazione sacramentale e ha inizio l’iniziazione
alla vita eterna. Il legame del viatico col battesimo è richiamato, all’interno stesso del rito,
dall’aspersione con l’acqua benedetta; è egualmente evocato dalla professione di fede richiesta: una
sorta di redditio symboli che il battezzato vive a conclusione del suo itinerario terreno segnato dalla
traditio symboli. Un significato particolare lo assume, in questo contesto, la preghiera del «Padre
Nostro»: è la preghiera del figlio, rinato dall’acqua e dallo Spirito, che proclama la sua fiducia in
Dio-Trinità e manifesta la sua invocazione (il pane quotidiano, la venuta del Regno, il compimento
della volontà del Padre, la libertà dalla tentazione e dal male), e rinnova in tal modo il suo desiderio
di entrare come figlio amato nella gloria dei beati. Mai come in questo momento, il battezzato
avverte tutta la propria esistenza come un pellegrinaggio. Il viatico è il sacramento del compimento
di questo pellegrinaggio e la celebrazione dell’ultima pasqua col Cristo in questo mondo. Il fedele
celebra la sua condizione di credente e si affida al Padre, accogliendo in sé i doni eucaristici del
corpo e sangue di Cristo. E poiché ogni comunione è una nuova effusione dello Spirito che dimora
in pienezza nell’Unigenito incarnato, egli riceve dallo Spirito la forza per poter proclamare la sua
figliolanza battesimale e affidarsi totalmente al Creatore e Padre del Signore Gesù.

Dimensione ecclesiale. Un momento supremo come questo non è vissuto nella solitudine,
ma nella Chiesa, con la Chiesa e come Chiesa. Il cristiano non muore da solo. Se con il battesimo è
stato incorporato alla comunità ecclesiale, il passaggio da questo mondo all’eternità non può essere
vissuto che in comunione con essa e accompagnato da essa; una comunità con la quale tante volte
ha pregato, ascoltato la parola di Dio, celebrato i sacramenti e ha esercitato la carità. Il viatico, da
questo punto di vista, è un diritto dei battezzati e un obbligo morale, un dovere della comunità
cristiana nei confronti dei suoi figli morenti.548 La Chiesa che ha rigenerato il credente con il
battesimo non può essere assente nel momento in cui un suo membro conclude il suo itinerario
terreno; essa deve circondarlo della sua presenza. È quanto appare dall’insieme del rito, specie se
celebrato in forma comunitaria. La partecipazione della Chiesa è espressa dalla presenza del
ministro, dei parenti e del gruppo dei fedeli che prende parte al rito. Particolarmente significativo,
sotto questo aspetto, è il bacio di pace previsto dalla sequenza rituale: un bacio che, se per un verso
richiama quello dato ai neofiti e che i credenti si scambiano in ogni assemblea eucaristica, per
l’altro manifesta in modo forte e toccante il saluto della comunità terrena al figlio morente, quasi
come una consegna che essa fa di lui alla Chiesa del cielo. La Chiesa pellegrinante si stringe attorno
a un suo figlio, lo sostiene con la preghiera, ne riceve l’ultimo atto di fede e gli offre il dono
dell’eucaristia, accompagnandolo con il suo abbraccio e presentandolo alla misericordia perdonante
di Dio e alla comunione dei fratelli e delle sorelle già beati in cielo. La comunità terrena si
trasforma, per il battezzato morente, nell’icona della Gerusalemme celeste in cui anch’egli sta per
entrare: lo accompagna col suo saluto e gli dà la fiducia e il coraggio della fede per poter superare la
solitudine della morte e sentirsi accolto nella comunità dei santi.

Dimensione escatologica. Il viatico, in se stesso, è seme di vita eterna. Il corpo e il sangue di


Cristo sono segni della vita escatologica del Risorto. Colui che il morente riceve in dono è lo stesso
Signore Gesù, eternamente glorioso in cielo. L’eucaristia è non solo presenza di Cristo e grazia di
conforto, ma principio reale di risurrezione, come evoca la formula che ne accompagna il rito: «Ti
custodisca e ti conduca alla vita eterna». Gesù stesso ha lasciato ai credenti questa promessa: «Chi
mangia la mia carne e beve il suo sangue ha la vita eterna ed io lo risusciterò nell’ul- timo giorno»
(Gv 6,54). Non solo l’avrà, dice Gesù, ma «ha la vita eterna». Ciò che è vero di ogni eucaristia, è
vero in un senso tutto speciale dell’eucaristia che celebra la morte del battezzato in Cristo e compie
il suo passaggio dal mondo al Padre. «Nel passaggio da questa all’altra vita, il viatico del corpo e

548Si può forse parlare, a riguardo, di un precetto di diritto divino (ius divinum). Il n. 27 del- l’Introduzione al Rito afferma in modo
lapidario, ma incisivo: «Tutti i battezzati che possono comunicarsi sono obbligati a ricevere il viatico».
sangue di Cristo fortifica il fedele e lo munisce del pegno della risurrezione».549 L’effetto
dell’eucaristia è totale: riguarda il corpo e lo spirito. L’essere del battezzato, in corrispondenza
all’evento pasquale-battesimale, viene unito a Gesù morto e risorto per partecipare alla sua
glorificazione definitiva. Questo aspetto va recepito in un senso forte, non come una metafora solo
indicativa. Il viatico rappresenta il «segno efficace» della grazia escatologica e dell’introduzione in
essa: «segno efficace» in quanto manifesta, indica, conferisce ciò che significa. Grazie al viatico il
credente si incammina verso la morte con la certezza incrollabile di essere per sempre con il
Christus totus, verso il cuore della Trinità e la comunione dei santi. Il viatico è il sacramento del
viaggio verso la gloria dei risorti. Invece che paura, esso dovrebbe risvegliare il senso della gioia
cristiana, la nostalgia del volto di Dio e il canto alleluia pasquale, e come tale dovrebbe essere
creduto, celebrato e vissuto.

9. Eucaristìa ed ecumenismo

Il cammino ecumenico della Chiesa cattolica e del Consiglio ecumenico sull’eucaristia


manifesta un’importante corrispondenza di fondo su due prospettive preliminari: la «compassione
di Dio» come teologia critica nei confronti di ogni divisione e l’orizzonte del regno di Dio come
orizzonte trascendente rispetto alla Chiesa e alle singole comunità.
I documenti finali dell’assemblea ecumenica di Graz del 1997 (Testo- base, Messaggio finale
e Raccomandazioni operative) hanno avuto come filo conduttore il ricorso alla categoria biblica
della «compassione di Dio». «Alla luce della “compassione di Dìo” - afferma il testo-base, n. 11
- siamo chiamati a riconoscere il nostro peccato, sia individuale sia collettivo». La scelta non è
stata casuale e indica anzi un percorso: mettersi alla scuola della «compassione di Dio» per cercare
di creare in noi un «cuore compassionevole», in grado di farci superare ogni forma di intolleranza
e/o di integralismo e metterci in un cammino di autentica riconciliazione.550 Il Dio della rivelazione
biblica non è un Dio olimpico, che guarda gli uomini dall’alto al basso, ma un Dio che si rende
partecipe della condizione umana, fino alla morte e alla morte di croce. Se infatti il pensiero greco è
determinato dalla curiosità teoretica (il potere delle idee) e il pensiero romano e germanico dalla
forza del diritto (il potere della legge), il pensiero biblico-cristiano è dominato dalla prospettiva
centrale della «compassione»: la tenerezza di un Dio che si fa incontro al suo popolo, facendosi
carico del dolore del mondo, fino all’oblazione di sé sulla croce. È guardando a questo Dio che ci si
educa come Chiese all’arte della riconciliazione e della comunione.

Una seconda prospettiva su cui occorre basare l’ecumenismo è la riscoperta della


dimensione escatologica della fede, ponendo in risalto la sua tensione verso un futuro più alto,
nell’orizzonte trascendente del Regno.
Le chiese sono chiamate a proiettarsi in avanti, a risentirsi unite non tornando indietro
(anche se debbono sempre confrontarsi col proprio passato), ma misurandosi col futuro.
Ecumenismo non è tentativo di convertire l’uno all’altro, mettendosi per così dire di fronte, in
opposizione, come due contendenti che si sfidano a lotta finché uno dei due vinca e l’altro capitoli.
È tendere, invece, insieme verso una pienezza che sta più in là, verso l’età finale della Chiesa, in cui
essa si trovi più inserita nel mistero di Dio. Ogni chiesa che ha riscoperto la dimensione
escatologica, la tensione al Regno, si riconosce imperfetta, resta in attesa e si pone in ricerca di
sempre maggiore perfezione; cammina verso la pienezza.551

L’eucaristia si colloca al punto di raccordo tra queste due grandi prospettive: essa è, nel
tempo attuale, il massimo grado di manifestazione della «compassione di Dio» e partecipazione al
dono di grazia dell’evento redentivo unico realizzato in Cristo Gesù, ed è al tempo stesso il «già» e
il «non ancora» del regno di Dio, espressione storica di una ricerca di comunione a cui la Chiesa
guarda e tende con tutta se stessa. Solo quando le Chiese si ritroveranno attorno all’unica mensa,

549Introduzione al Rito del Sacramento dell’Unzione, n. 26.


550G. GOTTARDI, «L’assemblea di Graz “alla luce della compassione di Dio”», 67-82.
551L. SARTORI, «L’eucaristia: fonte e culmine della comunione», 1,391.
l’eucaristia sarà celebrata in pienezza di verità. È quanto viene auspicato di continuo dal CEC e
dalla Chiesa cattolica. Fin dalla conferenza di Losanna (Fede e Costituzione, 1927) si affermava:
Quando tutti i figli di Dio potranno liberamente accostarsi, senza distinzione di chiese, alla santa
Cena, allora solo si avrà la tangibile attuazione della completa comunione di spirito fra tutti i fedeli;
e noi dobbiamo compiere i passi più efficaci per giungere a questa meta.

A Bristol (1967, Fede e Costituzione) si ribadiva:


L’eucaristia... praticata da un’assemblea locale di cristiani in qualsiasi tempo e luogo ha la pienezza
della cattolicità. La partecipazione al pane comune e al calice comune in un dato luogo dimostra
l’unità dei partecipanti con il Cristo totale e con tutti gli altri partecipanti di tutti i tempi e di tutti i
luoghi... A causa della sua cattolicità, r eucaristia è una sfida radicale alle tendenze «demoniache»
manifestatesi nella vita della Chiesa verso la discordia, la separazione e la divisione... L’eucaristia
viene contraffatta, quando si permette che persistano i muri della separazione distrutti da Cristo sulla
Croce.

A Lovanio (1971, Fede e Costituzione, dove sono presenti anche i cattolici) si ribadisce:
L’eucaristia, essendo in relazione con lo stesso centro della fede cristiana e della vita della Chiesa, è
necessariamente situata al centro del movimento ecumenico. Le discussioni sulla questione dell’inter
comunione rivelano l’esistenza di due posizioni opposte. Alcuni professano che l’eucaristia è il
segno e la realtà dell’unità della Chiesa... Altri ritengono che l’eucaristia non è soltanto un segno
dell’unità, ma anche il mezzo che Dio ci dà per ricevere la grazia dell’unità... Oggi i cristiani si
sforzano di mantenere l’equilibrio tra le due posizioni, attingendo da ciascuna ciò che è vero e valido
per una tappa particolare dell’ecumenismo.

Da Salamanca (1973) ad Accra (1974) a Nairobi (1975) e fino a oggi si continua a ripetere
che la comunione perfetta tra le Chiese si avrà solo quando ci troveremo tutti concordi «nella stessa
fede, nello stesso ministero e nella stessa eucaristia». I testi cattolici camminano in parallelo con le
tappe del cammino dell’ ecumenismo. È sufficiente richiamare il decreto conciliare Unitatis
redintegratio:
Il battesimo di per sé è soltanto l’inizio e l’esordio, poiché esso tende interamente
all’acquisto della pienezza della vita in Cristo. Pertanto il battesimo è ordinato all’integrale
professione della fede, all’integrale incorporazione nell’istituzione della salvezza, come lo stesso
Cristo lo ha voluto, e, infine, all’integrale inserimento nella comunione eucaristica (UR 22).

Il dato di fondo è che tutte le Chiese hanno scoperto come l’eucaristia si ponga più in alto
della loro stessa esistenza e si offra come la sorgente e la méta ultima di ogni cammino ecumenico,
dono e attesa che richiama la «compassione di Dio» e rimanda al Regno: l’eucaristia non è solo
«dentro la Chiesa», ma «sopra la Chiesa», come una forza propulsiva e un dinamismo profetico che
la sollecita verso un’instancabile ricerca di perdono e di unità.

9.1. DAL SEGNO ALLA REALTÀ

Non è inutile ricordare come l’eucaristia non sia un qualcosa di nostro, un’opera dell’uomo,
ma unaprofessio fidei che si fa professio lau- dis in Cristo Gesù; non è una nostra proprietà, ma la
celebrazione più alta dell’opera di Dio realizzata nell’Unigenito incarnato, morto e risorto, e
nell’invio del suo Spirito: memoria viva di quell’unica opera che il Signore stesso ha consegnato
alla Chiesa per significare e realizzare la sua pasqua e la sua perenne presenza tra noi. Di suo, la
Chiesa ci mette l’adesione della fede, ma l’eucaristia rimane sempre e solo un’opera di Dio, un atto
del Signore Gesù per mezzo dell’azione celebrativa della Chiesa.

Memoria passionis Christi. L’eucaristia sta di fronte al mondo, alla storia, alle stesse Chiese
come una sfida, una sfida che denuncia l’insufficienza, la povertà radicale di qualsiasi attività
umana, proclamando che solo Dio salva, unifica e guida. Come nel cantico di Maria, il Magnificat,
ogni comunità che celebra la memoria eucaristica afferma il primato degli ultimi, dei deboli e dei
poveri rispetto ai primi, ai potenti e ai ricchi, rovesciando la scala abituale dei valori. È proprio nella
debolezza/povertà dei segni (un po’ di pane, un po’ di vino) che si manifesta l’onnipotenza salvante
di Dio. Sostenere questo, sostenere che «un pezzo di pane», «un calice di vino» sono il segno più
potente della comunione, può sembrare una follia; eppure è questo l’apice della fede. Ciò che si
ricorda in quella cena non è il trionfo di un Dio di potenza, ma la sua impotenza di croce, la
memoria passionis Christi, con tutta la forza eversiva che questo annunzio porta con sé. E tale è il
messaggio che si sprigiona da quel: «Fate questo in memoria di me». Gesù non ha limitato
l’orizzonte del ricordo a qualcosa; lo ha identificato con la sua persona che si offre per amore sulla
croce. E infatti l’eucaristia è legata al suo «testamento», come a dire che la cena condensa la sua
esistenza terrena e preanticipa il dono di sé, proprio dentro l’«ora» della sua morte, del suo
passaggio dal mondo al Padre, come suo atto supremo. «Avendo amato i suoi... li amò sino alla
fine» (Gv 13,1). Ed è la parola di Dio che ci introduce in questo mistero. L’eucaristia porta al vertice
il dinamismo della parola della fede. Il cristiano si affida a questa parola non soltanto come a una
dottrina, ma a un evento di incontro con lui, il Risorto che ha promesso di rimanere per sempre con
i suoi (Mt 28,20). Parola ed eucaristia sono inseparabili, e mai l’una senza l’altra. L’eucaristia non
celebra solo la potenza della parola di Cristo, ma colui che l’ha detta, colui che dà la vita al mondo:
è lui che spezza il pane e distribuisce il calice per farsi cibo di vita e bevanda di salvezza ai credenti.

Presenza di un Assente. Già il credere in Dio, soprattutto oggi, riveste il valore di una sfida.
Tanto più impegnativo è accettare la realtà eucaristica. Dio nessuno l’ha mai visto. Il credente
proclama una presenza, la presenza dell’Assente glorificato. Cambiano i modi di professare questa
realtà; ma tale è la forza della fede: poter fare appello a un Presente, a colui che si fa compagno di
viaggio, fonte di vita e di comunione per i suoi. Non è inutile ricordare, a questo proposito, una
tradizione popolare, diffusa nei paesi nordici o di montagna: la tavola imbandita per la cena nella
notte di Natale dove viene riservato un posto in più, un posto vuoto, quasi sempre quello del capo-
tavola, come a dire che si è invitati a un banchetto per fare comunione con Qualcuno che non si
vede, ma che rappresenta l’Ospite per eccellenza. L’eucaristia riveste questo carattere: la povertà di
un segno, il segno di un posto vuoto; ma in quel segno, in quel posto vuoto, i credenti riconoscono
presente Colui che spezza il pane con loro e versa il vino per porgerlo ai commensali, donando se
stesso in simili umili segni/gesti.

Convocazione universale. L’eucaristia, in quanto attuazione del banchetto dei tempi


messianici, si offre come comunione all’unica mensa e convocazione universale, non solo dei
credenti, ma di tutti gli uomini. Già la Didachè richiama questo tema quando spiega il simbolismo
del pane e del vino e del banchetto della salvezza. Di fatto, l’eucaristia non rappresenta solo un
segno di fede personale o una pratica di devozione individuale; essa non è indirizzata a consacrare
le nostre solitudini o i nostri egoismi, ad avallare e rafforzare le parzialità o le chiusure, ma a fare
esplodere i conflitti, a far saltare gli steccati e aprire all’universalità della convocazione salvifica.
Ogni celebrazione eucaristica è pienamente attuata quando in essa sono presenti gli stessi assenti,
almeno come attesa o desiderio. Nel «posto vuoto», indice dell’Ospite per eccellenza, si richiamano
e si ricapitolano tutti gli assenti, considerati come fratelli e sorelle attesi e amati di ogni cele-
brazione. Solo una comunità veramente «cattolica», una comunità aperta alle altre comunità, in
comunione con esse e con l’intera umanità, celebra in modo autentico l’eucaristia. Unicamente un
«noi» veramente universale costituisce il soggetto celebrante adeguato della celebrazione eucaristi-
ca. Anche per questa via il mistero dell’eucaristia si innalza sopra ogni opera umana e si colloca al
di sopra delle stesse Chiese.

9.2. DALLA REALTÀ ALLA REALIZZAZIONE


L’eucaristia è infatti sempre più in avanti delle comunità che la celebrano, anche se si attua
dentro di esse. Se la Dei Verbum spiega che la Chiesa deve collocarsi costantemente «sotto la
parola», ciò è eminentemente vero per l’eucaristia: la Chiesa, ogni Chiesa, si pone «sotto l’euca-
ristia», non sopra o altrove. Lo stesso vale per l’ecumenismo che vive «sotto la croce» e impegna
ogni comunità a misurarsi su di essa. Solo così, le Chiese sono in grado di testimoniare nella vita il
Dio della compassione, confessando le proprie colpe e aprendosi alla speranza del futuro.

L’inter comunione. La questione più importante, in questo quadro, riguarda


l’intercomunione, con la tensione tra Yeucaristia come segno e l’eucaristia come causa di unità. Se
si guarda alla valenza del «segno», l’in- tercomunione - secondo UR 8 - sembra in gran parte
vietata (plerumque vetat), dovendo l’eucaristia esprimere e celebrare un’unità già conseguita e
attuata; se si guarda invece alla sua valenza di «causa», sembrerebbe talvolta possibile (aliquando
commendai), essendo l’eucaristia un accadimento di grazia che opera la comunione. Attualmente,
sembra che le Chiese siano orientate più verso la prima che la seconda opzione, rilevando di
preferenza il valore di «pienezza», di mèta più alta, rispetto all’unità imperfetta, dando
l’impressione di aver elevato il tiro, di avere - per così dire - alzato il prezzo della comunione,
mettendo in maggiore evidenza le difficoltà dell’intercomunione che i possibili vantaggi. Si sono
fatti passi avanti a livello di vissuto e di scambi culturali, meno sotto l’aspetto della convivialità
eucaristica. Questo avviene un po’ in tutte le Chiese, non solo nella Chiesa cattolica o in quella
ortodossa, ma anche nei confronti delle Chiese della Riforma tra loro. Agli occhi dei protestanti, in
ogni caso, la posizione della Chiesa cattolica appare legata a un «troppo» (esigere «troppo» per
celebrare insieme); viceversa agli occhi dei cattolici la posizione delle Chiese protestanti appare
riferita a un «troppo poco» (non si rilevano abbastanza le differenze). Le interpretazioni al testo
citato dell’ Unitatis redintegratio, n. 8, nelle dichiarazioni romane successive (Istruzione del ’72 e
Precisazioni del ’73 e interventi successivi) hanno dato chiaramente la precedenza alla funzione di
segno rispetto a quella di causa, restringendone spesso la portata in ordine ad applicazioni
estensive. L’idea che prevale è che l’eucaristia è certamente causa di grazia, e quindi di unità, ma a
partire dal fatto che ne sia segno; essa la esprime, ma non la crea da sola. L’ecumenismo, di fatto,
attinge oggi forza dall’eucaristia solo o prevalentemente nei singoli credenti o nelle Chiese singole,
non in un cammino d’insieme.

Il «confiteor» della Chiesa. La situazione di disunione tra i cristiani è sotto il segno del
peccato e contraddice apertamente il senso della croce e del mistero eucaristico. Manca l’unità
dottrinale; manca l’unità nel ministero. Anche in questi campi è penetrato il peccato come divisione.
Ma, oltre a ciò, si può riflettere su un aspetto più specifico: il fatto che nelle Chiese sia ancora
troppo diffusa la mentalità del possesso e la stessa eucaristia sia vissuta come un bene proprio: una
sorta di proprietà privata o un bene di cui poter disporre. D’altra parte, anche quando si volesse
aprire l’eucaristia all’ospitalità verso fratelli di diversa confessione, si rischia di creare nuove
scissioni o lacerazioni, dentro la stessa propria comunità. L’eucaristia diventa allora causa o,
comunque occasione, di altre divisioni! Non si dovrebbe parlare automaticamente, a questo
proposito, di peccato e di colpa in senso morale, come se si avesse a che fare con persone male
intenzionate, votate a creare difficoltà, ad alzare barriere. Talvolta si combatte contro l’immobilismo
delle Chiese, ma per individuarne subito degli imputati da colpevolizzare o denunciare arbitrarietà e
volontà di sopraffazione, specialmente nelle autorità ecclesiastiche. Sappiamo invece che le ragioni
che impediscono l’intercomunione - ciò è stato ribadito più volte da molti, e non solo dalla Chiesa
cattolica - non sono soltanto ragioni disciplinari; sono anche ragioni teologiche, toccano cioè
interpretazioni e convinzioni di fede. Nella fase attuale è già reperibile una certa comunione o
un’attesa di comunione; rimane vero che il convito eucaristico assomiglia piuttosto a un incontro di
fratelli e sorelle ammalati, ognuno dei quali si sente a suo agio solo col «suo» cibo, e non gli va
bene quello degli altri; ma, in definitiva, esiste già un trovarsi a una mensa, anche se ciascuno porta
con sé la sua liturgia e la sua teologia. Tutto quello che si può fare, per il momento, è di evitare di
fare dell’eucaristia un segno e un’occasione di ulteriori e più gravi divisioni nella speranza che
divenga sempre più segno e causa di incontro e di comunione.552

552Per un’analisi più dettagliata delle problematiche, cf. F. COURTH, I sacramenti. Un trattato per lo studio e per la prassi dei
sacramenti, Brescia 1999,283-290 e 295-303.
CONCLUSIONE
La comunità cristiana si riunisce, fin dai primordi, per «fare» quanto Gesù ha comandato di
fare la sera dell’addio, celebrando nella gioia pasquale-pentecostale le «grandi opere di Dio» (tà
megaléia tou Theou, At 2,11). L’azione eucaristica è vissuta come il memoriale delle meraviglie
salvifiche che trovano nell’éschaton di Cristo la loro piena pienezza e il loro compimento
messianico. Se infatti, per gli ebrei, il ricordo dei mirabilia Dei aveva il suo centro
nell’avvenimento dell’esodo, per i cristiani la storia della salvezza converge nell’evento del
Crocifisso, il Risorto in eterno. In virtù dell’eucaristia, i credenti sono resi partecipi di questo
accadimento e vivono l’esperienza dell’incontro con «Colui che è, che era e che viene» (Ap 1,4) per
fare della sua Chiesa un’assemblea in perenne rendimento di grazie, in attesa della Gerusalemme
celeste.

1. L’eucaristia come celebrazione

La liturgia della celebrazione eucaristica si struttura in questo contesto. Echi di essa sono
reperibili già negli scritti apostolici. L’inno di Ef 1,3-14, ad esempio, ripropone la forma della
berakah biblica alla luce della novità dell’evento cristico: si passa dalla benedizione propriamente
detta (1,3), all’anamnesi del mystérion nascosto in Dio dall’eternità e ora manifestato in Gesù e nel
dono del suo Spirito (l,4-14a), fino alla dossologia finale (l,14b). L’ampiezza di orizzonti e il clima
ammirativo, unito alla lode benedicente, evocano da vicino il ritmo di quella che doveva essere la
modalità della memoria eucaristica fin dagli inizi. Impostazione che ritroviamo nella preghiera di
Clemente Romano {Lettera ai Corinzi, cc. 29-61) e in quella dell’anonimo di cui parla il rito del
martirio di san Policarpo. Tutte intessute di temi biblici, tali formulazioni recuperano la modalità
della benedizione ebraica in relazione alla pienezza di Cristo. E tali sono le precise indicazioni di
Giustino e Ippolito: le «grandi opere» della vecchia alleanza sono continuate e superate da quelle
della nuova. Un semplice confronto è sufficiente.

BERAKAH
Azione di grazie
EUCARISTIA
1. Perché hai dato in eredità ai nostri padri Azione di grazie
una terra buona.
1. A Dio per aver creato l’uomo e il mondo
2. Perché ci hai tirati fuori dal paese d’Egitto con tutto ciò che contiene (GIUSTINO, Dial).
e liberati dalla servitù.
2. Per la liberazione «dal male nel quale
eravamo nati» (GIUSTINO, ivi).
Perché ci ha liberati dalle sofferenze e hai
spezzato le catene del diavolo (IPPOLITO,
3. Per la nuova alleanza, «per essere stati resi Trad. Ap. IV).
degni di queste cose», per l’acquisizione di
«un popolo santo». 3. «Per la tua alleanza, la vita, la grazia,
l’amore di cui ci hai gratificati».
4. Per il nutrimento con cui ci nutrì e ci
sostieni costantemente.
4. Racconto dell’istituzione.
5. Benedetto sia il tuo nome.

Dossologia conclusiva
.Le anafore eucaristiche più antiche, tra cui quella di san Basilio, riflettono una struttura di
base analoga. L’eucaristia appare, fin dall’inizio, come l’apice e il cuore dell’intero piano divino.

Ricapitolando tutte le fasi, essa si proietta ad un tempo verso il passato e verso il futuro. Anzitutto
verso il passato: ricapitolazione retrospettiva. È il termine convergente di un’immensa serie di linee
forza che dalla creazione in poi tendevano ad essa come alla loro ragion d’essere. All’indomani della
caduta, la croce è già alzata sull’orizzonte della storia. E quando, nella pienezza dei tempi, il Cristo
verrà innalzato da terra su di essa (Gv 12,32) sarà per aver sollevato il desiderio (e per aver portato il
peso) dell’età anteriore e dei millenni della storia. Si proietta poi verso il futuro: ricapitolazione
prospettica, anticipando nel mistero la realtà della parusia e della vita futura. E intanto, perpetuando
fino al suo ritorno il memoriale della morte del Signore, assume e ricapitola tutte le offerte di questa
nostra età intermedia, che corre tra le due venute del Signore, e le inserisce miste riosamente
nell’unica grande offerta della croce a modo di applicazione e di derivazione.553

Tale è il senso teologico della celebrazione eucaristica: «rendimento di grazie» che il Kyrios
attualizza nella Chiesa e «ricordo» degli eventi salvifici di Dio nel tempo tra le due venute di Cristo.
Così ogni volta che rinnoviamo l’atto centrale della salvezza con l’eucaristia, riviviamo tutta
la storia che da questo atto prende il suo senso: la Messa è come il microcosmo di questa storia.
Una rievocazione che, proclamando i benefici divini, suscita l’azione di grazie e viene pronunciata
sul pane e sul vino. L’anamnesi si fonde con il rendimento di grazie, poiché la storia della
redenzione è proclamata in un clima di lode e di riconoscenza. Si riconosce nel giubilo che tutto è
grazia e che la grazia di Dio è meravigliosa.554

Non meno rilevante è il fatto che l’eucaristia sia celebrata sotto la croce di Cristo. E poiché
il suo sacrificio ricapitola in sé tutta la storia dei sacrifici, dai primordi all’AT e al NT, l’eucaristia è
il grande sacrificio che porta a compimento tutti i sacrifici celebrati dall’umanità e dal popolo
d’Israele. Grazie alla messa, l’unica oblazione preannunziata da Malachia per i tempi messianici
(MI 1,10-11) è ormai realizzata e si rende presente in ogni luogo e tempo. 555 Tutto ciò è possibile in
forza dell’avvenimento della pasqua grazie al quale Cristo è passato dalla morte alla vita e si offre a
noi come il Risorto in eterno. Lo specifico della celebrazione eucaristica è di essere «memoria»
attualizzante di quell’accadimento totale di morte, risurrezione, dono dello Spirito, ritorno alla fine
dei tempi, secondo quanto viene espresso al centro della celebrazione eucaristica stessa:
«Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta».

2. Popolo di Dio e assemblea celebrante

La «memoria» eucaristica è atto del Signore celeste e del popolo di Dio rappresentato
dall’assemblea celebrativa. È la formula utilizzata dal- Vlnstitutio generalis del Messale romano: la
celebrazione eucaristica è definita come «azione di Cristo e del popolo di Dio gerarchicamente
ordinato» (IGMR, 1).

L’eucaristia è presentata non come un’azione del celebrante, al quale si unisce il popolo, ma
come azione di tutto il popolo di Dio, riunito hic et nunc, costituito dalla totalità e diversità dei suoi
membri, esercitanti i loro diversi ruoli. La presenza e l’azione del prete-ministro, in quanto tiene il
posto di Cristo, è indispensabile perché il popolo sacerdotale possa esercitare il suo sacerdozio, ma
essa non esaurisce l’azione della comunità ecclesiale, né si sostituisce ad essa.556

Il fondamento teologico di questo recupero è dato dalla riscoperta conciliare della categoria
biblica di popolo di Dio riferita a tutta la Chiesa, e non solo ai laici (LG 9-17), e alla sua natura
sacerdotale (LG 10-ll).557 Scelto tra i popoli della terra, il nuovo Israele si presenta come un popolo
totalmente dedicato al Signore, chiamato a proclamare le sue grandi opere come «sacramento di
salvezza» per l’intero genere umano.

553Magrassi, Vivere la liturgia>, 283-284.


554MAGRASSI, Vivere la liturgia, 297-298.
555J. DANIELOU, Sacramentum futuri, Paris 1950, 105-111; ID., Il mistero dell’Avvento, Brescia 1958,57-72.
556P.R. ROCHA, «La principale manifestazione della Chiesa», in Vaticano II. Bilancio e prospettive venticinque anni dopo (1962-
1987), a cura di R. LATOURELLE, Assisi 1987,610.
557Per un ampio commento alla LG, si può vedere: G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero. Storia, testo e commento della LG,
Milano 1982, specie 119-163.
Il paragrafo 10 della LG, in particolare, dopo aver evocato le molteplici attestazioni
neotestamentarie sulla Chiesa come un «regno di sacerdoti» e un «sacerdozio santo», approfondisce
la natura del sacerdozio della Chiesa in quanto partecipazione al sacerdozio unico di Cristo,
spiegando come esso implichi due forme reciproche, seppur distinte, di attuazione: il sacerdozio
comune che sgorga dal battesimo e il sacerdozio ministeriale che si fonda sul sacramento
dell’ordine. Pur rilevando come le due forme si distinguano non solo di grado, ma essenzialmente, il
testo conciliare pone l’accento sull’unità di un sacerdozio che appartiene a tutta la Chiesa e la fonda
come comunità tutta sacerdotale. Il sacerdozio ministeriale è a servizio del sacerdozio comune, in
una vissuta reciprocità.

Entro questa riscoperta è implicito il superamento dell’idea dell’eucaristia come un atto che
apparterrebbe alla sola gerarchia: l’azione eucaristica è azione della Chiesa intera, resa possibile
grazie al ministero ordinato, ma che suppone e rimanda al sacerdozio di tutti i fedeli. La sfumatura
è essenziale. Non si tratta, ovviamente, di confondere le due forme di sacerdozio o di pensare che il
sacerdozio ministeriale non sia essenziale all’attuazione dell’evento eucaristico, ma di reagire a un
esclusivismo che condurrebbe a ridurre il ruolo dell’assemblea dei fedeli a una semplice cornice
esterna, come se i battezzati partecipassero all’attuarsi dell’evento sacramentale solo con gesti
esteriori, senza venir sacramentalmente coinvolti nel compiersi stesso della memoria della pasqua e
dei suoi doni. I fedeli non sono degli spettatori di qualcosa che si svolgerebbe al di fuori o al di
sopra di loro; essi costituiscono un’assemblea celebrante con e per il ministro ordinato, partecipanti
alla grande offerta di Cristo al Padre e beneficiari dei frutti. Il fedele non comunica ad un sacrificio
che solo il presbitero offrirebbe; egli partecipa ad un evento che tutta l’assemblea celebra e di cui è
beneficiario grazie al ministero del sacerdote.

3. La preghiera eucaristica

Afferrati dall’azione di grazie di Cristo, i battezzati sono chiamati a divenire in tutto il loro
essere una lode vivente (Ef 5,20), «per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio
santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dìo» (lPt 2,5). E tale è l’impostazione di fondo che
contraddistingue le preghiere eucaristiche: quella già in uso denominata Canone romano, le tre
nuove preghiere volute dalla riforma conciliare e le altre introdotte successivamente. Non si tratta di
«ripetere» il mistero della pasqua, che è stato compiuto «una volta per sempre», ma di ripresentare e
comunicare in modo sacramentale a quell’unico mistero salvifico, in attesa della seconda venuta del
Risorto. E poiché il mistero salvifico della pasqua riveste dimensioni cosmiche, l’eucaristia porta
con sé gli stessi orizzonti e costituisce - in quanto tale - il centro teologale del mondo: ciò che si
realizza in essa è il «segno» (espresso dal «pane» e dal «vino», unitamente ad alcune gocce di
acqua) e il «principio» della trasfigurazione di tutto il cosmo in Cristo per mezzo dello Spirito. Tale
è l’attesa impaziente della creazione (Rm 8,18-30). Questo contenuto globale è configurato dalla
preghiera eucaristica, pur nella diversità delle espressioni, secondo una sequenza rituale
comprendente cinque momenti essenziali: prefazio, epiclesi, anamnesi, intercessioni, dossologia. Il
prefa- zio segna l’inizio; esso non è - come si pensa comunemente - un’introduzione al sanctus, ma
il primo grande rendimento di grazie per le mirabili opere del Signore nella storia della salvezza e
durante il tempo della Chiesa. Se oggi è ridotto nella forma, in compenso assume una serie di
mutamenti nell’anno liturgico che gli permettono di enumerare ogni fase delYhistoria salutis e ogni
aspetto centrale dell’unico grande mistero della salvezza, proclamato e attualizzato nella Chiesa. Il
prefazio si continua nell’epiclesi, prima e dopo la consacrazione: un’invocazione dello Spirito che
configura l’identità della memoria eucaristica come atto dello Spirito nella Chiesa, nel suo attuarsi e
nel suo dispiegarsi nel cuore dei fedeli. L’anamnesi conduce a rivivere il racconto dell’istituzione e
a partecipare alla grande offerta della pasqua che il Cristo attualizza ogni volta che la Chiesa ne fa
memoria. Le intercessioni evocano la comunione ecclesiale in tutti e tre gli stati della sua
realizzazione: in terra, in cielo, in via di purificazione. La preghiera si conclude con la dossologia
indirizzata al Padre, «per Cristo, con Cristo e in Cristo nell’unità dello Spirito Santo», a cui fa
riscontro Yamen dei fedeli come segno di piena adesione all’evento celebrato e di partecipazione
all’oblazione pasquale dell’Unigenito, atto unico di glorificazione del Padre e di santificazione
dell’umanità.

Ogni preghiera eucaristica, in una struttura fondamentalmente comune, sottolinea qualche


aspetto specifico dell’evento pasquale. La prima preghiera eucaristica riveste una particolare
coralità ecclesiale, sia prima che dopo l’anamnesi, con l’evocazione ripetuta dei santi quasi corona
gloriosa dell’atto della celebrazione. Particolarmente sottolineato, inoltre, è il contenuto sacrificale
dell’eucaristia nelVhistoria salutis attraverso la menzione dei sacrifici di Abele, di Abramo e di
Melchisedech e il «ricordo» della «vittima pura, santa e immacolata» a cui tutta la Chiesa si unisce,
offrendo e offrendosi. Meno esplicita è la dimensione epicietica. La seconda preghiera si distingue
per la sua brevità e semplicità. Composta tenendo presente un antico formulario che si trova nella
Traditio apostolica di Ippolito, risalente all’anno 215 circa, essa si qualifica per il rilievo dato al
mistero di Cristo. Ha un prefazio proprio che fa corpo con tutto il resto, ma che può essere sostituito
con altri in corrispondenza all’anno liturgico. Introdotto dal dialogo celebrante-comu- nità, esso
costituisce un rendimento di grazie per le «meraviglie della salvezza» attuate dal Padre con l’invio
del Figlio, «fatto uomo per opera dello Spirito Santo», dal cui sangue è scaturito il nuovo popolo di
Dio che, a una sola voce, può ormai proclamare la santità infinita di Dio. Dopo aver affermato il
dovere di «rendere grazie sempre e dovunque» al Padre per Gesù Cristo Figlio del suo amore, si
ricorda sia 1’«opera mirabile» della creazione che quella della redenzione: «Per mezzo di lui, tua
Parola vìvente, hai creato tutte le cose e lo hai mandato a noi salvatore e redentore, fatto uomo per
opera dello Spirito Santo e nato dalla vergine Maria». Cristo è il centro del culto cristiano. Il
prefazio sottolinea come l’incarnazione del Verbo raggiunga il suo compimento nel mistero della
pasqua da cui, come da sorgente, è derivato tutto il mistero della Chiesa: «Per compiere la tua
volontà e acquistarti un popolo santo, egli stese le braccia sulla croce, morendo distrusse la morte
e proclamò la risurrezione». In tal modo, la redenzione è descritta come un’obbedienza del Figlio
alla volontà del Padre, l’acquisto di un popolo consacrato, e la passione nella quale il crocifisso
stende le mani sulla croce come per benedire e abbracciare l’universo: così egli annuncia la morte
e manifesta la risurrezione. La concisione di questo proclama unisce la morte e la risurrezione di
Cristo in un solo atto liberante e vittorioso. 558

La formula di passaggio: «Padre veramente santo, fonte di ogni santità», riprende l’idea
della santità di Dio, ma la sviluppa sottolineando come ogni santità e santificazione derivino dal
Padre. Siamo così in pieno nell’ambito delle «meraviglie di Dio»: la santità è una di esse. Da questa
convinzione di fede, sgorga l’epiclesi dello Spirito. Infatti, se Dio Padre è la fonte di ogni santità, è
logico che lo si invochi per la santificazione dei doni. L’agente di tale opera è lo Spirito Santo:
«Santifica questi doni con l’effusione del tuo Spirito, perché diventino per noi il corpo e il sangue
di Gesù Cristo nostro Signore». Immediatamente si giunge al racconto dell’istituzione. Si tratta
dell’anamnesi vera e propria che attualizza nei segni il mistero della pasqua e impegna a riviverlo in
tutta la sua intensità e le sue conseguenze. L’alleanza è rinnovata nell’oblazione di Cristo.
L’eucaristia è la nuova shekinah, la dimora di Dio fra gli uomini. Si può ormai accogliere l’invito di
Cristo: «Prendete... mangiate... bevete...», partecipando così al suo banchetto di salvezza. La
«meraviglia» della pasqua è ormai attualizzata sull’altare; naturalmente si tratta di una «meraviglia
sacramentale» e, come tale, raggiungibile solo dallo sguardo della fede. Per questo, subito dopo la
consacrazione, il presidente aggiunge: «Mistero della fede», a cui l’assemblea risponde, affermando
il contenuto dell’eucaristia in corrispondenza all’annuncio paolino di ICor 11,26: morte,
risurrezione, attesa della parusia. Dopo aver affermato che quanto si è compiuto rappresenta in atto
la «memoria» del mistero pasquale di Cristo, il celebrante - insieme a tutta la comunità - esprime
l’offerta al Padre del «pane della vita» e del «calice della salvezza» quale «azione di grazie» per
quanto Gesù ha compiuto per noi. Ritorna così il tema della berakah, dell’azione di grazie che

558M. THURIAN, La théologie des nouvelles prières eucharistiques, in MD 94(1968), 95.


pervade tutta la celebrazione eucaristica e accompagna il gesto dell’offerta. Con uno stile semplice e
conciso, si invoca poi, una seconda volta, lo Spirito Santo perché coloro che partecipano alla
comunione del corpo e del sangue di Cristo siano riuniti «in un solo corpo». Dopo l’epiclesi, le
intercessioni, affinché i frutti del sacrificio celebrato si riversino sulla Chiesa, sul mondo e sui
defunti. Si prega ugualmente «per tutti noi», perché possiamo far parte della Chiesa dei santi che già
canta, nella beatitudine, la gloria del Padre, per mezzo del

Figlio nello Spirito. Ed è con questa dossologia che si conclude la preghiera eucaristica. Con
l’amen dei fedeli si ripercuote ormai in tutta la Chiesa e nell’eternità.

La terza preghiera eucaristica è una composizione nuova, ma con elementi attinti alla
tradizione, specialmente a quella occidentale di tipo gallicano e mozarabico. Non ha un prefazio
proprio e può quindi essere utilizzata con qualsiasi prefazio, come avviene per il Canone romano.
Analogamente alla seconda preghiera, la formula di passaggio è caratterizzata dal tema della santità
divina, ma con espressioni più ampie e sviluppate. L’oggetto della lode è Dio, sia come creatore,
origine della vita (fai vivere) che come redentore (santifichi). L’universo è il luogo in cui Dio ha
riversato il suo amore. La lode della Chiesa si eleva al Padre per mezzo del Figlio nello Spirito. È in
questo contesto che si pone l’epiclesi in forma analoga a quella della seconda preghiera. Una
piccola differenza è data dalla frase introduttiva al racconto dell’istituzione: «Nella notte in cui fu
tradito», derivata da ICor 11,23, che serve a rilevare il terribile contrasto tra il tradimento di Giuda
e il gesto di amore che Cristo compie nella sua pasqua. Identica è anche l’acclamazione del popolo
in risposta all’annuncio: «Mistero della fede». Questa acclamazione riassume l’azione di grazie per
la storia della salvezza e orienta la celebrazione eucaristica verso il compimento escatologico.
Segue il grande offertorio: celebrando il memoriale... ti offriamo; sono le espressioni-chiave del
ricordo eucaristico. Il sacrificio è detto «vivo e santo» a sottolineare il valore peculiare dell’offerta
del Signore Gesù al Padre. L’eucaristia si presenta come azione di grazie di Cristo e della Chiesa.
La seconda epiclesi è analoga a quella della seconda preghiera, ma più sviluppata e collegata al
ricordo di Maria e dei santi. L’intercessione si apre e si chiude con una visione di respiro universale:
si prega per la salvezza del mondo, per la comunità ecclesiale pellegrina sulla terra, per i
componenti di questa comunità, i figli dispersi e i defunti, e si conclude con il ricordo della
mediazione universale di Cristo e la dossologia.

La quarta preghiera eucaristica si distingue dalle altre sia per l’afflato biblico che per la sua
tipica prospettiva storico-salvifica. Grazie al prefazio fisso, alla sequenza ordinata del mysterium
salutis e al rilievo dato al memoriale del Signore, si avvicina molto alla forma delle anafore
orientali, in particolare della tradizione antiochena. Centrata sul tema dell’amore di Dio, essa
sottolinea lo stretto rapporto di continuità che sussiste tra l’economia biblico-cristiana e l’eucaristia
del tempo della Chiesa. Al solito dialogo tra celebrante e assemblea, fa seguito un prefazio che
forma un tutt’uno con l’insieme della preghiera eucaristica. In esso si contempla il mistero di Dio
creatore da cui sgorgano l’azione di grazie e la lode. Il termine della preghiera è come sempre il
Padre, il Dio della bontà, «fonte della vita» e «luce». Il contesto biblico richiama quello del primo
capitolo della Genesi. Va in questa direzione il canto del pre- fazio. In esso si racconta la storia della
salvezza, cominciando da Dio che «ha disposto tutto con sapienza e amore» fino all’uomo a cui è
stato affidato il compito di portarlo a compimento e all’evento del peccato che fin dall’inizio ha
«infranto» il disegno divino, passando per la promessa, la preparazione delle diverse alleanze e
l’attesa dei profeti, l’invio del Figlio unigenito nella pienezza dei tempi, la sua opera nel mondo, la
redenzione, il dono dello Spirito, «primizia della nuova vita nei credenti e compimento dell’opera
trinitaria nel mondo». Del mistero pasquale di Cristo si sottolinea particolarmente la volontarietà
della sua immolazione. Lo Spirito di pentecoste è invocato perché consacri le offerte e le trasformi
nel corpo e nel sangue del Signore, come «segno dell’eterna alleanza» stabilita per sempre sulla
croce. L’eucaristia ne è l’attualizzazione «qui e ora», per noi. Il racconto dell’istituzione si
differenzia da quello delle altre preghiere per l’introduzione del tema dell’«ora» e di quello
dell’«amore supremo», tipici del Vangelo di Giovanni. Lo stesso vale per l’anamnesi e l’offerta,
espresse in un linguaggio che non manca di ricordare la discesa di Cristo nel regno della morte,
seguita dalla sua risurrezione e ascensione al cielo, in attesa del suo ritorno glorioso. L’offerta della
comunità non è altro che l’offerta stessa che Cristo ha fatto di sé al Padre. Ad essa è congiunta la
certezza che tale «offerta» si fa «fonte di salvezza per il mondo intero». La seconda epiclesi è
indirizzata alla «costruzione» della Chiesa, a partire dalla «comunione» nel «mangiare l’unico
pane» e nel «bere all’unico calice». La preghiera di intercessione si sviluppa in tre momenti
successivi: si prega per le intenzioni della Chiesa e dei presenti, per i defunti e si conclude con
l’invocazione dell’assemblea celeste. Tutto il corpo mistico di Cristo «partecipa» all’offerta
eucaristica ed è chiamato a beneficiarne.
Le preghiere eucaristiche quinte {a, b, c, d), al di là dei singoli aspetti, hanno questo di proprio
rispetto alle precedenti: 1) evocano in modo più diretto come la celebrazione eucaristica sia
un’azione di Cristo mediante la quale egli attualizza la sua unica offerta al Padre nella Chiesa
(«È Cristo che si offre...»); 2) modificano la sezione delle intercessioni in rapporto a tematiche
evangeliche evocate di volta in volta. Un discorso analogo vale per le preghiere eucarìstiche
della riconciliazione, dove si sottolinea con particolare forza e ricchezza di riferimenti il dono
della redenzione dispiegato nel sacramento della penitenza in favore dei battezzati e il
significato di rendimento di grazie che l’eucaristia assume in un simile contesto. L’eucaristia
appare il grande rendimento di grazie della Chiesa, attualizzazione dell’éschaton pasquale,
ricapitolazione della storia della salvezza e anticipazione dell’escatologia definitiva.
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SACRAMENTARIA SPECIALE. I. Battesimo, confermazione, eucaristia........................................1
PRESENTAZIONE..............................................................................................................................4
PRIMA PARTE IL SACRAMENTO DEL BATTESIMO................................................................5
INTRODUZIONE LO SFONDO ANTROPOLOGICO: NASCITA E RINASCITA.........................6
CAPITOLO PRIMO I FONDAMENTI BIBLICI.........................................................................10
1. Battezzare nel nome di Gesù..............................................................................................10
2. Il retroterra giudaico...........................................................................................................11
3. Giovanni il Battista e Gesù................................................................................................12
CAPITOLO SECONDO LA TRADIZIONE DELLA CHIESA....................................................18
1. Il battesimo nella Chiesa antica.........................................................................................18
2. La via orientale dell’iniziazione cristiana..........................................................................32
3. Il battesimo, primo sacramento del settenario...................................................................34
4. Battesimo e giustificazione: la Riforma e il concilio di Trento.........................................40
5. Evangelizzare e battezzare nel dinamismo missionario della Chiesa moderna.................48
CAPITOLO TERZO LINEE PER UN APPROCCIO SISTEMATICO.........................................50
1. Il battesimo alla luce del magistero del concilio Vaticano II e dei nuovi rituali. Aspetti
teologici e liturgici......................................................................................................................50
SECONDA PARTE IL SACRAMENTO DELLA CONFERMAZIONE.....................................67
CAPITOLO PRIMO.......................................................................................................................71
I FONDAMENTI BIBLICI............................................................................................................71
1, Ricolmi dello Spirito di Gesù............................................................................................71
2. Imposizione delle mani e unzione nell’Antico Testamento...............................................72
3. Lo Spirito di Dio all’opera in Gesù....................................................................................74
CAPITOLO SECONDO LA TRADIZIONE DELLA CHIESA....................................................79
1. La confermazione/crismazione nel periodo patristico.......................................................79
2. La confermazione nel settenario sacramentale..................................................................88
3. Dal concilio di Trento al nuovo rituale della confermazione.............................................98
CAPITOLO TERZO LINEE PER UN APPROCCIO SISTEMATICO.......................................103
1. Per un rinnovamento della prassi e della dottrina alla luce del magistero del concilio
Vaticano II e della riforma liturgica..........................................................................................103
2. Il nuovo Rito della Confermazione..................................................................................103
3. Dalla confermazione all’eucaristia, culmine dell’iniziazione cristiana...........................106
EXCURSUS UNO SGUARDO AI DIALOGHI ECUMENICI CON LA CHIESA ORTODOSSA
......................................................................................................................................................108
TERZA PARTE IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA........................................................115
INTRODUZIONE FONDAMENTO ANTROPOLOGICO........................................................116
1. Il «mangiare» e il «bere» nella vita dell’uomo................................................................116
2. La mensa come banchetto di comunione.........................................................................116
CAPITOLO PRIMO ORIGINE BIBLICA..................................................................................118
1. Tipologia biblica ed eucaristia.........................................................................................118
2. Dalla berakah all’eucaristìa.............................................................................................123
3. Istituzione dell’eucaristia.................................................................................................126
4. Assemblee eucaristiche nella comunità apostolica..........................................................136
5. Dottrina eucaristica di Giovanni......................................................................................138
CAPITOLO SECONDO STORIA DEL DOGMA......................................................................140
1. Epoca patristica................................................................................................................140
2. Prescolastica e scolastica.................................................................................................149
3. La Riforma e il concilio di Trento....................................................................................154
4. Epoca moderna fino a oggi..............................................................................................157
CAPITOLO TERZO INQUADRAMENTO SISTEMATICO.....................................................164
1. Mistero della fede tra il «già» e il «non ancora».............................................................164
2. «Memoriale» della pasqua di Cristo................................................................................165
3. Sacramento del sacrificio della croce..............................................................................166
4. Mensa di comunione........................................................................................................171
5. Presenza «per antonomasia» del Risorto.........................................................................173
6. Chiesa e celebrazione della nuova alleanza.....................................................................176
7. Cristocentrismo eucaristico..............................................................................................185
8. Verso la Gerusalemme celeste.........................................................................................189
9. Eucaristìa ed ecumenismo................................................................................................192
CONCLUSIONE..........................................................................................................................197
1. L’eucaristia come celebrazione........................................................................................197
2. Popolo di Dio e assemblea celebrante.............................................................................198
3. La preghiera eucaristica...................................................................................................199

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