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Contraddizione e contraddirsi in Severino: alcune riflessioni critiche

di Aldo Stella, Dipartimento di Scienze Umane e Sociali, Università per Stranieri di Perugia, Piazza
Fortebraccio 4, 06123 Perugia – aldo.stella@unistrapg.it

Riassunto

In questo lavoro abbiamo analizzato i concetti di “contraddizione” e di “contraddirsi” in Severino, il


quale afferma che il “contenuto contraddittorio della contraddizione” deve essere considerato del
tutto inesistente, mentre il "contraddirsi", cioè il fatto che il soggetto può pronunciare un enunciato
contraddittorio, deve essere considerato come esistente. Questa analisi permette un confronto con il
principio di non-contraddizione indicato da Aristotele. La riflessione critica si esercita altresì sul
concetto di “negazione”, che non può essere intesa nel senso di un’attività estrinseca: in questo ca-
so, è la negazione che presuppone l'esistenza di ciò che viene negato, quindi anche della contraddi-
zione. Si conclude affermando che la contraddizione non può essere risolta nel non-essere, ma il
non-essere deve essere inteso come una contraddizione. Quest'ultima è da intendersi come l'atto di
contraddirsi, cioè come l'atto del trascendere se stessa.

Abstract

In this paper we analyzed the concepts of “contradiction” and of “contradicting itself” in Severino,
who says that the “contradictory content of the contradiction” must be regarded as completely non-
existent, while the “contradicting itself”, i.e. the fact that the subject can make a contradictory
statement, must be regarded as existent. This analysis allows a comparison with the principle of
non-contradiction indicated by Aristotle. The critical reflection is practiced on the concept of “nega-
tion”, which can not be understood in the sense of an extrinsic activity: in this case, it is the nega-
tion which presupposes the existence of what is negated, therefore also of the contradiction. It is
concluded that the contradiction can not be resolved in the non-being, but the non-being must be
understood as a contradiction. The latter is to be understood as the act of contradicting itself, that is
as the act of transcending itself.

Introduzione

Il tema della contraddizione è stato spesso affrontato da Emanuele Severino nelle sue molteplici
opere. E il contenuto contraddittorio della contraddizione è stato spesso contrapposto al contrad-
dirsi, per mostrare che il primo “non è”, laddove il secondo non può venire negato e, dunque, “non
può non essere”.
Precisamente su questa distinzione intendiamo riflettere e per farlo prendiamo in considera-
zione un testo di Severino, intitolato Fondamento della contraddizione1, che presenta un duplice
vantaggio: è un testo relativamente recente e tratta la differenza indicata in forma esauriente ed ap-
profondita. Ciò ci consente di circoscrivere l’indagine, tenendo conto anche del fatto che è lo stesso

1
E. SEVERINO, Fondamento della contraddizione, Adelphi, Milano 2005.
Autore che dichiara di avere concentrato in questo suo lavoro quanto precedentemente scritto sulla
contraddizione e sul contraddirsi.
Procederemo, pertanto, nel seguente modo: indicheremo via via i passi di Severino che giu-
dichiamo più significativi per intendere i due concetti indicati e la differenza che sussiste tra di essi;
svolgeremo, poi, alcune riflessioni e considerazioni critiche, che possono venire suscitate dai passi
citati.
Il nostro obiettivo non è soltanto quello di saggiare la consistenza della differenza proposta,
ma altresì quello di precisare se contraddizione, intesa appunto come contraddittorietà, e contraddir-
si possano venire intesi in modo diverso da quello proposto da Severino, e cioè se possano venire
pensati non in contrapposizione, ma nel senso che il contraddirsi valga come l’essere stesso della
contraddizione/contraddittorietà, un essere che, quindi, viene a coincidere con il non-essere, così
che del contenuto contraddittorio della contraddizione si dovrà dire che tanto è quanto non è.

Contraddizione e contraddittorietà

Scrive Severino proprio all’inizio della sua opera: «Il senso autentico della distinzione tra contrad-
dizione (contraddirsi) e contenuto della contraddizione: è un tema al quale i miei scritti continuano
a rivolgersi. In genere, essi chiamano tale contenuto “contraddittorietà” o “contenuto contradditto-
rio” della contraddizione»2.
Egli, dunque, mostra di voler riassumere e ricapitolare, con questo suo lavoro, un tema giu-
dicato centrale, per intendere l’intera struttura della sua concezione filosofica, cioè la struttura ori-
ginaria.
Con l’espressione «contraddittorietà» Severino intende il «contenuto della contraddizione»
o, più precisamente, «il contenuto contraddittorio della contraddizione». Il fatto stesso che si parli di
un «contenuto» dimostra che lo si contrappone a qualcosa che dal contenuto si differenzia e sul con-
tenuto emerge. Ebbene, il contenuto si differenzia dal «contraddirsi», che indica il fatto che chi pro-
nuncia un enunciato può trovarsi nello stato di formulare un enunciato dal contenuto contradditto-
rio.
Se il contenuto della contraddizione è destinato ad annullarsi, proprio per il suo essere con-
traddittorio, di contro il fatto che il parlante può trovarsi a formulare un enunciato contraddittorio
non può venire negato, così che il contraddirsi non subisce lo stesso destino della contraddittorietà.
Il contenuto contraddittorio della contraddizione deve risolversi nel nulla proprio in virtù del
principio di non contraddizione (p. d. n. c.) e ciò dimostra che non si può svolgere un’indagine sulla
contraddizione prescindendo dall’indagine sul p. d. n. c., il quale «afferma sì che il contenuto con-
traddittorio della contraddizione è assolutamente inesistente, ossia è nulla, ma […] non afferma cer-
to l’inesistenza e l’esser nulla della contraddizione, cioè del contraddirsi. […] Questo, comunque
venga inteso l’esser ente la cui contraddittorietà resta negata dal p. d. n. c.»3.
Il passo è capitale: in esso viene riassunta in forma icastica la differenza tra contraddittorietà
e contraddizione. Il primo aspetto che vogliamo sottolineare è l’uso dell’aggettivo «contraddittorio»
che specifica il sostantivo «contenuto». Si parla di «contenuto contraddittorio della contraddizione»
perché esso si nega e, negandosi, si riduce a nulla. Si tratta, in questo caso, di un ente che effettiva-

2
Ibid., p. 21.
3
Ibidem.
mente non è: di un inesistente. Di contro, il contraddirsi, cioè il fatto che si possa formulare un
enunciato contraddittorio, è un ente a tutti gli effetti.
Come è noto, Severino ripete di continuo nelle sue opere che l’ente non è un nulla e l’errore
che sta alla base del pensiero e della cultura dell’Occidente è rintracciabile nel pensiero greco del
divenire, che implica la riduzione dell’ente a non-ente. La contraddizione, cioè il contraddirsi, è in-
vece un ente; dunque, come tale è eterna, come qualunque altro ente. Non è pensabile, infatti, che
l’ente esca dal nulla e vi ritorni, se è veramente un ente, un essente: se è, non può non essere né può
esservi stato un tempo in cui non era e un tempo in cui tornerà a non essere.
Proprio insistendo su questo punto, Severino dichiara la necessità di ritornare a Parmenide,
anche se il suo ritorno si traduce nella trasformazione dell’essere di Parmenide in ente. Ma su que-
sto rifletteremo più avanti.
Qui ci interessa sottolineare un aspetto ulteriore: se anche la contraddittorietà fosse un ente,
allora tutta l’argomentazione di Severino verrebbe inficiata. Sarebbe anche ciò che non è, anche ciò
che si risolve in nulla. La contraddittorietà, di contro, è una proprietà che viene attribuita all’ente,
ma una proprietà che viene contraddittoriamente attribuita all’ente. Una proprietà, insomma, che
non può appartenere all’ente, perché, se gli appartenesse, ridurrebbe l’ente a niente, contradditto-
riamente.
All’eventuale obiezione che, comunque, della contraddittorietà si parla, Severino risponde-
rebbe che si parla incontraddittoriamente della sua intrinseca contraddittorietà, cioè del suo intrin-
seco non-essere. Ciò che si dice di essa, insomma, è diverso da ciò che essa dice: si dice che essa
non è, e lo si dice in modo incontraddittorio, laddove essa dice negando il suo stesso dire, cioè con-
traddicendosi («Questo, comunque venga inteso l’esser ente la cui contraddittorietà resta negata dal
p. d. n. c.»).
Si potrebbe esprimere lo stesso concetto anche così: l’ente può venire inteso in qualunque
modo. V’è, però, un modo che non può non venire escluso: il modo della contraddittorietà o l’esser
contraddittorio dell’ente. Questo modo, che Severino definisce «contenuto contraddittorio», non
può venire attribuito all’ente senza negare il principio fondamentale, cioè il p. d. n. c., che sta a fon-
damento di ogni ente e di ogni discorso sull’ente.
Per sintetizzare questo punto rilevantissimo, potremmo usare un controfattuale: “Se l’ente
fosse contraddittorio, allora non sarebbe, non sarebbe un ente”.
Seguendo alla lettera Severino, si dovrebbe dunque dire che, più rigorosamente, «il principio
più saldo» non è il “principio di non contraddizione”, ma il “principio di non contraddittorietà”.

Il ruolo della negazione all’interno del p. d. n. c.

Giunti a questo punto dell’indagine, l’attenzione non può che incentrarsi sul tema della negazione e,
anche in questo caso, devono essere precisati alcuni aspetti.
Il primo aspetto concerne la negazione della contraddittorietà, perché si deve cercare di co-
gliere il senso che Severino dà a questa negazione. La domanda che si impone è, a nostro avviso, la
seguente: se la contraddittorietà è l’impossibile, l’inesistente, il nulla, allora cosa effettivamente ne-
gherebbe la negazione che negasse la contraddittorietà? Che è come dire: se il p. d. n. c. di Aristote-
le andasse inteso nel senso del principio di non contraddittorietà e se la contraddittorietà fosse il
nulla, così come Severino afferma, cosa negherebbe, in questo caso, la negazione presente nel prin-
cipio di non contraddittorietà?
La risposta ci pare una soltanto: essa negherebbe il nulla. Se non che, una negazione del nul-
la non può non equivalere ad una negazione-nulla. Con questa conseguenza: poiché la negazione-
nulla sarebbe essa stessa un nulla, il principio, che poggiasse su tale negazione, poggerebbe sul nul-
la e non emergerebbe mai come principio. O, se si preferisce, emergerebbe solo a condizione che il
nulla fosse, contraddittoriamente.
Il secondo aspetto riguarda il fatto che Severino sa perfettamente che è insensato parlare di
«negazione pura». Egli, infatti, così scrive in Ritornare a Parmenide (saggio che compare in Essen-
za del nichilismo): «Il toglimento della negazione non è dunque determinato dall’accertamento della
contraddittorietà di questa (ché la negazione intende precisamente porsi come affermazione della
contraddittorietà), ma dal rilevamento che la negazione non riesce a vivere come negazione pura
(cioè come negazione che non si fondi su ciò che essa nega): la negazione è tolta rilevando che essa
è autotoglimento»4.
La nostra ipotesi è che Severino, da un certo punto di vista, riconosce che la negazione è au-
totoglimento; tuttavia, da un altro punto di vista, egli ritiene necessaria la posizione della negazione,
perché solo in forza di questa il principio acquisisce un’identità determinata. Precisamente per que-
sta ragione afferma che l’opposizione di essere e non-essere costituisce il fondamento della stessa
negazione: «l’opposizione non può essere negata, perché anche la negazione può vivere come nega-
zione solo se, a suo modo, afferma l’opposizione. […] l’affermazione dell’opposizione, ossia
l’opposizione, è il fondamento di ogni dire, e quindi, e perfino, di quel dire in cui consiste la nega-
zione dell’opposizione. […] L’elenchos è appunto l’accertamento di questo autotoglimento della
negazione, ossia è l’accertamento che la negazione non esiste come negazione pura, ossia come ne-
gazione che non abbia bisogno, per costituirsi, di affermare ciò che nega. Dire che l’opposizione
“non può” essere negata, significa dunque rilevare che, proprio perché il fondamento della negazio-
ne è ciò che essa nega, essa consiste nella negazione di se medesima, nel suo togliersi come discor-
so»5.
Il nodo è centrale. In esso si indica il fondamento della negazione nell’opposizione (di essere
e non-essere) e ciò in ragione del fatto che solo mediante l’opposizione è possibile determinare sia
il principio sia la sua negazione. Solo mediante la determinazione del principio, inoltre, è possibile
configurare l’ordine formale, ossia l’ordine del discorso. Se non che, ciò che configura problema è
proprio l’opposizione indicata, non soltanto perché in essa si postula l’essere del non-essere, ma an-
che perché l’opposizione è una relazione negativa, così che in essa vige il riproporsi della negazio-
ne.
Non di meno, per Severino l’opposizione di essere e non-essere costituisce l’autentico fon-
damento, perché la verità stessa dell’essere si pone solo in quanto si oppone al non-essere: «Alla ve-
rità dell’essere appartiene l’opposizione dell’essere e del nulla […] nel senso che, quando si dice
che nulla resiste all’essere, l’essere lo si pensa nella sua relazione al nulla, e in questa relazione
prende significato»6.
Su questo punto, che è fondamentale nell’economia del presente discorso, si concentrerà la
nostra attenzione e proprio su di esso la riflessione critica continuerà a svolgersi.
Per procedere lentamente e con la dovuta attenzione, ci accontentiamo qui di mettere in luce
un terzo aspetto, e cioè quello per il quale si fa valere la possibilità di negare anche ciò che è. Orbe-
ne, se la negazione pretende di negare ciò che è, allora essa è una negazione contraddittoria. Negare
4
E. SEVERINO, Essenza del nichilismo, Paideia, Brescia 1972, p. 46.
5
Ibid., pp. 42-44.
6
Ibid., p. 36.
ciò che è, tuttavia, non solo è possibile, ma costituisce precisamente ciò che nella storia
dell’Occidente vale come la regola, almeno secondo Severino. Se non fosse possibile il configurarsi
di quel fatto, che è la negazione di ciò che è, allora l’errore non sarebbe mai sorto e non si spieghe-
rebbe la storia del pensiero occidentale, che è storia della pretesa negazione dell’ente: «Ma se, se-
condo quanto pensa Aristotele, non solo il contenuto contraddittorio della contraddizione, ma la
contraddizione stessa è l’impossibile, l’inesistente, il nulla, come è possibile che il nichilismo sia la
positività che domina quella storia [la storia dell’Occidente]?»7.
Per le ragioni addotte, Severino afferma che il contraddirsi è un autentico ente. Lo è per il
fatto che la negazione può sempre venire pronunciata dell’ente: il soggetto che nega l’ente o
l’enunciato che formula tale negazione configurano, dunque, il contraddirsi, il quale è un ente pro-
prio perché è un fatto.
Se non che, se il contraddirsi è un ente, proprio in quanto tale esso è da sempre stato e per
sempre sarà, essendo contraddittorio pensare che esca dal nulla e vi ritorni. Ciò significa che anche
la filosofia futura8 non potrà eliminare l’errore, cioè il contraddirsi, e che, anzi, essa ha bisogno di
tale errore per configurarsi come sua negazione.
Giunti a questo punto della ricerca riteniamo opportuno procedere secondo due direttrici: la
prima, volta ad indagare il p. d. n. c. di Aristotele, confrontandolo con l’interpretazione che ne for-
nisce Severino. La seconda, volta a precisare un aspetto ulteriore, che è fortemente connesso al pre-
cedente: la riduzione dell’essere di Parmenide, che coincide con la sua assolutezza, ad ente, che in-
vece vale in quanto è determinato.

Il p. d. n. c. in Aristotele e l’interpretazione di Severino

Per riflettere sul p. d. n. c. di Aristotele e proporre di intendere la contraddizione come contradditto-


rietà, ossia come contenuto contraddittorio della contraddizione, Severino rinvia al capitolo quinto
del testo che stiamo esaminando e che si intitola Aristotele, “Il principio di non contraddizione”.
Prima di svolgere il tema, Severino fa una premessa, che è della massima importanza. Il p. d.
n. c. aristotelico è già contenuto, anche se implicitamente, in Parmenide: «Alla base delle sue inda-
gini Parmenide pose questa affermazione: che “l’essere è e il non-essere non è”, o, detto in altro
modo, che “è impossibile che l’essere non sia e che il non-essere sia”. Queste due proposizioni,
esprimenti, sia pure in modo diverso, lo stesso contenuto, vennero più tardi chiamate, rispettiva-
mente, principio di identità e principio di non contraddizione. Contro coloro che le negano Parme-
nide inveisce con violenza: si mettono per una via del tutto inindagabile, “gente dalla doppia testa”,
“sordi”, “ciechi”, “istupiditi”; ma, lui, non va più in là. Cioè non mostra in concreto in che consista
questa sordità e cecità, ossia che accada propriamente, a parte le immagini, a coloro che, quelle pro-
posizioni, appunto negano. È quanto invece farà Aristotele in questo libro IV della Metafisica»9.
A nostro giudizio, sarebbe più opportuno definire principio dell’essere quello di Parmenide,
per il suo valere quale autentico fondamento. Ci pare, inoltre, che l’essere parmenideo valga come
autentico fondamento perché ha valore trascendentale e cioè perché si pone quale condizione di in-
telligibilità del sistema degli enti. Una condizione, si badi, che non può venire condizionata da ciò
che unilateralmente essa condiziona.

7
E. SEVERINO, Fondamento della contraddizione, cit., p. 22.
8
E. SEVERINO, La filosofia futura, Rizzoli, Milano 1989.
9
E. SEVERINO, Fondamento della contraddizione, cit., p. 238.
L’essere è assoluto e, per questa ragione, incondizionato. Con questa ulteriore precisazione,
che cercheremo di giustificare nel prosieguo del presente discorso: solo l’assoluto è incondizionato,
perché emerge oltre ogni relazione. La relazione, infatti, vincola i relati e li subordina reciproca-
mente. Ne consegue che il fondamento non può entrare in relazione con ciò che fonda, se non nel
senso che è innegabilmente richiesto, ma richiesto proprio come assoluto, ossia come emergente ol-
tre il sistema che lo richiede.
Del resto, se l’essere entrasse in relazione, non potrebbe che entrare in relazione con ciò
che è diverso da sé, cioè con il non-essere, così che è precisamente la relazione che decreta la nega-
zione dell’essere e che fa essere il non-essere, negando ciò che il non-essere effettivamente è e de-
terminando un costrutto di per sé contraddittorio, perché in sé negazione di se stesso.
Abbiamo cercato di riassumere quello che, a nostro avviso, costituisce il senso dell’essere
parmenideo, affinché possano progressivamente emergere, da un lato, le conseguenze dell’assumere
quale fondamento l’opposizione di essere e non-essere; dall’altro, le conseguenze della riduzione
dell’essere ad ente e il ruolo che tale riduzione ha nell’interpretazione dell’incontraddittorio e della
contraddittorietà.
Tradurre il principio dell’essere nel principio di identità o nel principio di non contraddizio-
ne equivale a ridurlo ad un principio formale, ossia ad un principio che, vincolandosi ad altro da sé,
si subordina a ciò cui esso non dovrebbe subordinarsi, per essere autenticamente “principio” o
“fondamento”. E ciò vale anche nel caso in cui la negazione venga intesa come autotoglimento:
senza quest’ultimo, infatti, non si darebbe principio. Come giustificare questa nostra affermazione?
Facendo valere le seguenti considerazioni. Innanzi tutto, Parmenide non dimostra il princi-
pio, per la ragione che, se ne desse dimostrazione, ciò significherebbe ammettere un’inversione nel-
la priorità logica: non già la dimostrazione si fonderebbe sul principio, ma il principio verrebbe a
derivare dalla dimostrazione. E, pertanto, si fonderebbe su di essa, cessando eo ipso di valere come
principio.
In effetti, e questa è la seconda considerazione, Aristotele è consapevole di questo rischio ed
esclude che la dimostrazione del principio possa essere una deduzione. Per metterlo ben in luce, Se-
verino ripropone il libro IV della Metafisica e, a proposito del p. d. n. c., che è il «principio più sal-
do di tutti», usa le parole di Aristotele: «È poi per ignoranza che alcuni pensano che anche questo
principio debba essere dimostrato; ché non altro che ignoranza è non sapere di quali cose bisogna
esigere dimostrazione e di quali no. È infatti impossibile che di ogni cosa si dia dimostrazione, per-
ché altrimenti si andrebbe all’infinito, sì che non ci sarebbe dimostrazione di nulla»10.
Tuttavia, del p. d. n. c. è possibile dare una dimostrazione particolare, una dimostrazione
per via confutatoria, detta anche elenchos: «di questo principio si può dimostrare, in modo confuta-
tivo, che è impossibile contestarlo: a condizione che chi lo contesta dica qualcosa: che se non dices-
se nulla sarebbe ridicolo escogitare ragioni contro chi a ragionare non si mette nemmeno. Chi si
trovasse in questo stato sarebbe infatti simile a un tronco. Orbene, il dimostrare in modo confutativo
differisce dalla dimostrazione [in senso proprio] […]. La norma da seguire in casi come questo è di
pretendere non che l’avversario riconosca che qualcosa è o non è […], ma che dia un significato, al-
le parole che pronuncia, e per sé e per gli altri: di ciò non può fare a meno, sempreché voglia dire
qualcosa. Se questo non è concesso, non sarà nemmeno possibile intavolare alcun discorso con co-

10
Ibid., p. 260.
stui, né a lui sarà possibile discorrere tra sé e sé e con altri; ma se quella concessione è fatta, la di-
mostrazione è allora possibile: ci sarà già qualcosa, infatti, che viene determinato»11.
Il p. d. n. c., dunque, svolge un ruolo fondamentale per determinare e per dire in forma de-
terminata, che a livello formale significa “incontraddittoria”. Esso, inoltre, da un lato non può veni-
re presupposto, perché il presupposto è assunto come se fosse vero, senza essere effettivamente di-
mostrato tale. Dall’altro, per dimostrarlo, non si può fare ricorso ad una dimostrazione ordinaria,
cioè ad una dimostrazione deduttiva, perché, se fosse il risultato di una dimostrazione, non varrebbe
più come principio, giacché si subordinerebbe alle premesse (presupposti) da cui muove la dimo-
strazione.
L’elenchos sembra rispondere alla duplice esigenza di valere come dimostrazione di un
principio che sia autentico, cioè tale che non si subordini a premesse, e che, non di meno, venga ef-
fettivamente dimostrato e non semplicemente assunto. La dimostrazione per confutazione, infatti,
consente di porre il principio perché ogni pretesa negazione di quest’ultimo non fa che riproporlo,
nell’intenzione di essere una vera negazione, ossia una negazione incontraddittoria.
Il principio, insomma, risulta affermato in virtù dell’esclusione dell’ipotesi opposta: questa è
la sintesi che può essere fatta dell’argomentazione di Aristotele, ripresa da Severino. Il quale così
scrive: «Ove appunto [si parla del IV libro della Metafisica] si mostra che il principio di identità-
non contraddizione non può essere negato, e insieme si mostra che significato ha dire che tale prin-
cipio “non può essere negato” (e quindi non possono essere negate le affermazioni che su tale prin-
cipio si basano). Se così stanno le cose, non si dovrà forse dire che c’è un dominio, nella conoscen-
za umana – il dominio sottoposto appunto al principio di non contraddizione –, che sfida ogni tem-
po e ogni attacco, e si costituisce quindi come verità assoluta e definitiva?»12.
Il p. d. n. c. vale come il fondamento stesso della verità, cioè come la verità intesa nella sua
essenza ultima. La forza del principio, tuttavia, è la forza stessa della negazione che consente di
porlo come esclusione (negazione) della sua pretesa negazione. Si impone, dunque, la necessità di
riprendere il tema della negazione, sul quale abbiamo già cominciato a riflettere.

Negazione formale e negazione trascendentale

Facciamo notare che, se si intende la negazione del principio in senso procedurale, cioè nel senso
che inizialmente si ha la posizione della pretesa negazione del principio e successivamente si pone
la negazione di questa negazione pretesa, allora non si può non concludere che il principio emerge
come principio se, e solo se, si pone la negazione di esso. Con questa conseguenza: senza la posi-
zione della contraddizione non si porrebbe la negazione di essa e senza questa negazione (esclusio-
ne) non emergerebbe il principio.
In tal modo, però, sarebbe precisamente il p. d. n. c. a richiedere la contraddizione e a ri-
chiederla per poterla negare o, detto con altre parole, il falso (l’errore) entrerebbe nella costituzione
intrinseca del vero (fondamento).
L’argomento di Severino, sul quale ci siamo inizialmente soffermati, in effetti riprende
l’essenza del discorso svolto da Aristotele. Lo Stagirita sostiene che il negatore del principio si tro-
va in questa situazione: se dice qualcosa, allora non può non riaffermare il principio, per la ragione
che il suo dire ha un contenuto effettivo solo nella misura in cui è un dire incontraddittorio. Se, di

11
Ibid., pp. 261-263.
12
Ibid., p. 241.
contro, dicesse contraddittoriamente, allora il contenuto del suo dire si annullerebbe e chi dice sa-
rebbe come una pianta: non direbbe alcunché.
La questione, che la posizione di Aristotele e quella di Severino aprono, riguarda insomma
la rilevanza che la negazione ha nella posizione del principio. Per Aristotele, senza un negatore il
principio non emergerebbe, ma allora la conseguenza non può che essere catastrofica: senza la con-
traddizione, la negazione non potrebbe esercitarsi e, conseguentemente, il principio configurarsi.
Per Severino, il principio si pone come negazione della sua pretesa negazione o come auto-
toglimento della negazione pretesa. Egli, insomma, paventa il rischio di un’eccessiva valorizzazione
della negazione e crede di evitarlo parlando del suo autotoglimento. Tuttavia, anche in questo caso
la negazione continua a risultare essenziale all’emergere del principio, ancorché valga come una
negazione che si toglie.
A nostro giudizio, ciò deriva dall’avere inteso il principio non più nella forma dell’essere
parmenideo, in sé assoluto e indeterminato, ma come un essere che, per determinarsi, si relaziona ad
altro da sé: dunque, come un “essere relativo”, secondo l’interpretazione che dell’essere è stata for-
nita per primo da Platone. Da questo punto di vista, sia Aristotele che Severino fanno del p. d. n. c.
un principio formale, proprio perché vincolato a ciò che ordina.
La differenza che, invece, sussiste tra la posizione di Aristotele e quella di Severino concer-
ne il soggetto che si contraddice, cioè il fatto del contraddirsi. Per Aristotele, chi si contraddice può
venire assimilato, come visto, ad una pianta. Egli, cioè, parla, ma solo apparentemente, perché so-
stanzialmente non dice alcunché. Parla, ma è come se tacesse. Per questa ragione, anche il suo esse-
re un parlante viene meno.
Di contro, per Severino il contraddirsi da parte di un soggetto costituisce un fatto e, proprio
in quanto tale, vale come un ente, per sua natura innegabile e irriducibile a non-ente.
Tornando al principio di non contraddizione, rileviamo che se esso emerge solo in forza del-
la sua negazione, allora il vero finisce per vincolarsi al falso e ciò perché si intende evitarne
l’indeterminatezza.
Ci domandiamo: la determinatezza del principio è conciliabile con l’assolutezza che lo pone
come autentico fondamento? E inoltre: è possibile evitare la contraddizione fondamentale, genesi di
ogni altra, e cioè che il vero si fondi sul falso?
La risposta che proponiamo è la seguente: si impone la necessità di distinguere due livelli. Il
livello formale, che è inevitabile, non può non venire distinto dal livello trascendentale, che è inne-
gabile.
A livello formale il principio risulta posto in forza del procedere dimostrativo e cioè della
posizione dell’opposto. Senza la posizione del negatore del principio non potrebbe mai emergere la
posizione del principio stesso, il quale poggia sulla negazione del negatore. Per questa ragione Se-
verino fa dell’opposizione l’autentico fondamento, giacché solo in forza dell’opposizione il princi-
pio assume una forma determinata e consente la posizione dell’ordine della forma, cioè del discorso
(linguaggio).
Se l’autotoglimento della negazione si fonda, per Severino, sull’opposizione, la quale diven-
ta così il principio stesso, a noi sembra di poter controbattere che è proprio l’opposizione che si
fonda, a sua volta, sulla negazione, configurando un circolo vizioso. Si potrebbe, anzi, dire che
nell’opposizione vige una duplice negazione: la negazione dell’essere, che costituisce il non-essere,
e la relazione negativa che oppone il non-essere all’essere e che decreta l’essere di entrambi, in
quanto termini della stessa relazione oppositiva. Se ne conclude che è proprio l’opposizione che co-
stituisce quel costrutto contraddittorio che viene indicato come “non-essere”.
A livello trascendentale, invece, la posizione dell’opposto viene colta come mai autentica,
così che essa non viene mai autenticamente negata proprio perché mai autenticamente posta.
L’opposizione, cioè, non viene esclusa perché non si pone mai veramente.
Per chiarire meglio questo punto, che è centrale nel discorso che andiamo svolgendo, diremo
che il secondo livello non si struttura come una procedura, ossia come un passaggio dalla posizione
dell’opposto alla posizione del principio. Questo passaggio, a rigore, è fittizio, poiché già
nell’opposizione si configura la posizione del principio: la posizione del principio è richiesta dalla
stessa opposizione ad esso.

Il non-essere come contraddizione

Riflettendo sul concetto di “opposizione”, non possono non emergere almeno due aspetti fonda-
mentali.
Il primo aspetto è questo: l’opposizione è l’insensata presupposizione di ciò che si pretende
di negare. L’opposizione è una relazione, in cui il “posto” viene presupposto da ciò che ad esso si
oppone. L’opposizione al principio, dunque, non può non presupporre, intrinsecamente, il principio
cui si oppone. L’essere, insomma, è necessariamente presupposto dal non-essere.
Il secondo aspetto è il seguente: se il principio assume forma determinata, allora esso si pone
solo in quanto si differenzia, così che anche da questo punto di vista il circolo della presupposizione
torna a riproporsi. Se prima era l’opposto che presupponeva il principio, ora è il principio che, in
quanto determinato, presuppone l’altro da sé, cioè ciò che principio non è: dunque, il suo opposto.
Per questa via, pertanto, il principio non emerge come autentico fondamento, perché viene ingloba-
to nell’ordine che esso dovrebbe unilateralmente fondare.
Ciò che è determinato è condizionato, laddove il principio, cioè l’essere, non può non valere
quale condizione incondizionata, cioè non può non essere inderivabile.
In quale senso, allora, può venire mantenuta la sua inderivabilità unitamente alla necessità
che esso venga dimostrato? Intendendo l’opposto come opposto a se stesso, ossia come il suo stesso
opporsi.
Siamo davvero pervenuti al cuore della questione. Così come l’opposizione al principio è, in
sé, opposizione a se stessa – almeno a livello trascendentale –, altrettanto la contraddizio-
ne/contraddittorietà è il suo stesso contraddirsi. Non uno status, che prima si pone e poi viene nega-
to, come risulta a livello formale, bensì uno status in cui l’essere è tutt’uno con il non-essere, senza
risolversi nel nulla.
Contraddizione è, infatti, la conciliazione di inconciliabili (essere et non-essere) non la riso-
luzione-dissoluzione di uno dei due termini (corni), che compongono l’alternativa (aut essere, aut
non-essere), nell’altro (dell’essere nel non-essere). La risoluzione-dissoluzione dell’essere nel non-
essere, a rigore, ripropone proprio il problema della contraddizione, che invece si pensava risolto-
dissolto.
Per intendere adeguatamente questo punto, si impone la necessità di tornare all’essere e al
non-essere di Parmenide. Non si dovrà dimenticare, infatti, che tutto l’impianto della dimostrazione
aristotelica, interamente ripreso da Severino, poggia sull’assunzione dell’essere in senso relativo,
compiuta da Platone. Severino ce lo ricorda nella sua Introduzione a I principi del divenire di Ari-
stotele: se in Parmenide «l’essere, come determinazione esaustiva o unica del principio, è anche
l’unica o l’esaustiva determinazione dell’intero»13, così che «ricondurre le cose all’unità significa
[…] negare il loro valore di realtà»14, di contro non è possibile non avvedersi «dell’impossibilità di
negare la realtà del mondo molteplice e diveniente, per salvare o per tener ferma l’unità e
l’immobilità dell’essere»15.
Conclude Severino: «Se Aristotele, come già Platone, tiene ferma la validità assoluta del
principio di non contraddizione, ne modifica d’altra parte la formulazione in conseguenza della ne-
cessità di intendere l’“essere”, che compare nella formulazione parmenidea del principio, in modo
diverso da come lo intendeva Parmenide»16.
Ebbene, il nostro obiettivo è ora quello di riprendere il concetto di “essere relativo” e di mo-
strare cosa comporta la riduzione dell’essere ad ente. Ciò ci consentirà di chiarire il punto fonda-
mentale del discorso, che concerne il senso del non-essere parmenideo.
L’ipotesi che intendiamo proporre – e che anticipiamo per comodità del lettore – è che il
non-essere di Parmenide non vada inteso come il nulla, ma come la contraddizione. Secondo la no-
stra lettura, dunque, il nulla non è un assoluto nulla: ciò equivarrebbe ad opporre all’assolutezza
dell’essere l’assolutezza del nulla.
Di contro, il non-essere è un costrutto contraddittorio formato dall’essere e dalla sua pretesa
negazione, nel quale la negazione dell’essere è pensata come essente, ancorché pretenda di negare
proprio l’essere.
Per queste ragioni, riteniamo che il non-essere sia la contraddizione espressa nella sua forma
paradigmatica, cioè il suo stesso contraddirsi. Se, quindi, Severino, riprendendo Aristotele, assume
la contraddizione/contraddittorietà come il nulla, a nostro giudizio il discorso deve invece venire
capovolto, per intendere il nulla come contraddizione.
Torniamo, allora, a Parmenide e al famoso parricidio compiuto da Platone, posto da Severi-
no come preambolo dell’intero discorso sul p. d. n. c. aristotelico.

L’essere relativo o l’entificazione dell’essere

L’essere parmenideo, inteso come assoluto essere, non può non escludere la molteplicità e il diveni-
re: «Perché la negazione parmenidea dell’esistenza del molteplice – compiuta, unitamente alla ne-
gazione del divenire, in nome del principio di non contraddizione – rende esplicito che l’“essere”,
che in questo principio compare, è inteso da Parmenide come quell’assolutamente semplice (un si-
gnificato senza parti) che rimane allorché dall’essere siano separate tutte le determinazioni di esso;
le quali, in quanto così separate, sono non-essere; sì che, se di esse (cioè del molteplice) si afferma
l’essere, si afferma l’essere del non-essere. Ma intanto: che cosa si dovrà dire allora della manife-
stazione del mondo che ci circonda, la quale attesta che l’essere è molteplice […] ed è diveniente?
Parmenide non nega certo di aver presente il mondo […]. Ma quella stessa impossibilità di negare il
mondo, la cui manifestazione viene peraltro così squalificata al cospetto della ragione, ci dice che
come il principio di non contraddizione non può essere negato, così non può essere negata
l’esperienza»17.

13
E. SEVERINO, Introduzione a Aristotele, I principi del divenire, La Scuola, Brescia 1973, p. XVII.
14
Ibidem.
15
Ibidem.
16
E. SEVERINO, Fondamento della contraddizione, cit., p. 241.
17
Ibid., pp. 241-242.
Per Severino, insomma, l’errore di Parmenide, opportunamente corretto da Platone, è quello
di non avere visto che non si dà un unico principio, ma se ne danno due: «questa è l’aporia cui dà
luogo l’indagine eleatica: che esperienza e ragione – i principi del sapere umano! – si negano a vi-
cenda: e, in quanto sono principi, nessuno dei due può essere negato»18.
La questione, che ci pare meriti di venire affrontata, concerne la differenza che sussiste tra i
due principi. Ci domandiamo: perché il principio di ragione necessita di una dimostrazione che lo
legittimi, laddove il principio di esperienza viene considerato come innegabile, a prescindere da
qualsivoglia dimostrazione?
Ciò che ci sembra di dover sottolineare è che, in effetti, Parmenide non viene mai confutato
esplicitamente. Non si dimostra, cioè, il suo errore, bensì si fa valere il principio dell’esperienza o
come di per sé evidente o come se esso si fondasse su una dimostrazione implicita.
In questo secondo caso, si argomenta così: non si può negare il mondo, perché, per negarlo,
si deve comunque riconoscerlo come qualcosa che necessita di venire negato. Per evitare questa
contraddizione, si riconosce l’innegabilità del molteplice e del divenire e ciò impone che si ridimen-
sioni l’essere parmenideo, vincolandolo al non-essere: l’essere cessa di valere come assoluto e di-
venta un essere relativo.
Il punto, adeguatamente esplicitato da Severino, è che solo attraverso l’entificazione
dell’essere si perviene al p. d. n. c. formulato da Aristotele: «L’accertamento del senso, secondo il
quale deve essere affermato l’essere del non-essere, è insieme introduzione di un nuovo concetto di
“essere”, l’essere, cioè, come sintesi della determinazione, essenza, e dell’essere (einai) della de-
terminazione: l’essere come ente (on), come ciò che è (o estin, id quod est). Su questo concetto
dell’essere, prospettato da Platone, si concentra l’attenzione di Aristotele; ed è appunto tale concetto
– che non implica la negazione del molteplice – a comparire nella formulazione aristotelica del
principio di non contraddizione»19.
Il passo citato va letto alla luce di un altro passo fondamentale dello stesso Severino, che
compare ancora nella Introduzione a I principi del divenire di Aristotele. Scrive Severino: «Si dice-
va dunque che l’aporia parmenidea viene risolta solo con Platone e con Aristotele. Platone riesce
infatti ad eliminare la negazione della molteplicità, introducendo la distinzione tra il non essere che
è opposto all’essere, o non essere assoluto, e il non essere che è l’altro dall’essere, o non essere re-
lativo»20.
Ebbene, il tema del non-essere relativo, intrinsecamente vincolato a quello dell’entificazione
dell’essere, merita il dovuto approfondimento.
Innanzi tutto si deve rilevare che non è chiaro il senso della distinzione proposta. Parlare di
non-essere relativo, infatti, ci sembra fare uso di un pleonasmo, giacché non è pensabile il non-
essere, in quanto tale, se non in forza della relazione all’essere. Il non-essere assoluto, dunque, è
una mera contraddizione, come affermato implicitamente da Parmenide. Parlare di essere relativo,
inoltre, implica non solo la negazione dell’assolutezza dell’essere, ma anche la postulazione di ciò
che, essendo altro dall’essere, non può non risolversi nel non-essere. Parmenide si chiederebbe
come sia pensabile un altro dall’essere, cioè un diverso dall’essere, che possa non di meno “essere”.
“Essere”, infatti, non è una proprietà dell’essere, ma ciò che unicamente e integralmente lo connota
e che quindi coincide interamente con esso e solo con esso. Per questa ragione l’Eleate non esite-
rebbe a rispondere che far essere l’altro dall’essere equivale a far essere il non-essere, cioè a co-
18
Ibid., p. 242.
19
Ibid., pp. 242-243.
20
E. SEVERINO, Introduzione a Aristotele, I principi del divenire, La Scuola, Brescia 1973, pp. XVIII-XIX.
struire la contraddizione dell’essere di ciò che non è, e a noi sembrano decisamente insufficienti, da
un punto di vista teoretico, tutte le contro-argomentazioni, volte a smentire il principio di Parmeni-
de.
In secondo luogo, l’entificazione dell’essere impone che si riprenda il tema dell’esperienza
e, dunque, che si continui a riflettere sul concetto di negazione.
Cosa significa “negare l’esperienza” e, più in generale, cosa significa “negare”? Se la nega-
zione viene intesa come un’attività che si dispone estrinsecamente sul negato, allora ogni negazione
è la contraddizione dell’assumere qualcosa per poi procedere a negarlo. Del resto, se la negazione
non si disponesse su una qualche determinazione, presupposta come essente, essa – su questo punto
abbiamo insistito – sarebbe indeterminata come negazione, sarebbe negazione di nulla e, quindi, si
risolverebbe in una negazione-nulla.
Tuttavia, se la negazione viene intesa come un’attività estrinseca, allora non soltanto il p. d.
n. c. deve postulare l’essere della contraddizione, proprio per poter poi procedere a negarlo, ma, più
in generale, ogni ente risulta, a rigore, innegabile, perché richiesto proprio dalla sua negazione. Non
ci sembra affatto un caso che l’approdo severiniano sia l’assolutizzazione dell’ente. Ciò deriva, a
nostro avviso, dall’intendere la negazione precisamente in questo modo.
Anche quando si parla di “autotoglimento” della negazione, si intende una procedura che
muove dalla posizione della negazione e perviene al suo toglimento mediante un’attività che la ne-
gazione compie su se medesima. Per noi, invece, il togliersi dell’opposizione, dunque il negarsi del-
la pretesa negazione dell’essere, è un atto, non un’attività. L’attività permane sempre estrinseca
perché intesa come relazione che intercorre tra l’agente e l’agito. L’atto, invece, indica che la nega-
zione non è una procedura: il porsi della negazione del principio è tutt’uno con il suo stesso togliersi
e per questo configura una contraddizione.
Affinché il contraddirsi della contraddizione possa venire inteso pienamente, si impone una
attenta riflessione proprio sull’ente, che Severino assume come l’innegabile stesso. La domanda da
formulare è questa: cosa consente la posizione dell’ente? Più precisamente: cosa consente all’ente
di assumere un’identità determinata?

Identità e relazione

Per esaminare adeguatamente il concetto di identità, e stante l’importanza che esso riveste
nell’economia del presente discorso, ricordiamo come l’identità viene ordinariamente intesa. Ebbe-
ne, il principio di identità afferma che ogni cosa è identica a se stessa e proprio per questa ragione è
diversa da ogni altra.
Per chiarire, consideriamo la definizione di identità che ci viene offerta ancora da Aristotele
nel V libro della Metafisica: «L’identità è una unità d'essere o di una molteplicità di cose, oppure di
una sola cosa, considerata però come una molteplicità: per esempio come quando si dice che una
cosa è identica a se stessa, nel qual caso essa viene considerata appunto come due cose»21.
L'identità esprime, dunque, o che una cosa è identica a un'altra (A id. B, A è B) o che una
cosa è identica a sé stessa (A id. A, A è A). Nell'un caso come nell'altro il punto fondamentale, che
deve essere messo bene in evidenza, è il seguente: l'identità si costituisce come identità tra due ter-
mini. Ciò consente di mettere in luce un punto nodale: l’identità si fonda sulla relazione o, detto con
altre parole, la relazione è costitutiva dell’identità. L’alterità (non-A), infatti, non può non venire ri-

21
ARISTOTELE, Metafisica, V, 9, 1018a 16; trad. it. di G. Reale, Rusconi, Milano, p. 236.
chiesta, anche se viene richiesta per venire negata, affinché risulti la medesimezza sostanziale dei
due termini che la forma, invece, presenta come distinti.
Ciò vale anche quando si afferma l'identità della cosa con se stessa. Anche questa identità,
infatti, si esprime nella forma “A è A”, ossia come una relazione sancita dalla copula “è”: tale rela-
zione decreta un’identità proprio per la ragione che il primo termine coincide con il secondo.
D'altra parte, però, è da rilevare che, se i termini non si disponessero come due, non si po-
trebbe rilevare – né si potrebbe affermare – il loro essere un medesimo. Con questa conclusione: la
relazione funge e opera nel concetto di identità. Solo per la ragione che i termini sono due, di essi
può dirsi l'identità.
Per affermare lo idem, o l'unità, si deve, insomma, presupporre la differenza, così che, anche
quando si afferma l'identità della cosa con se stessa, si è costretti a sdoppiarla, a reduplicarla, ossia a
introdurre una relazione nel suo essere, onde inscrivere la molteplicità all'interno dell'unità. Per que-
sta ragione Aristotele afferma che una cosa viene considerata come due cose.
Che sia effettivamente così lo si comprende anche svolgendo un altro ragionamento. Se,
quando parliamo di un’identità, intendiamo un’identità determinata, allora non possiamo dimentica-
re che ciò che la de-termina, cioè la rende finita, è precisamente il limite. Se non che, il limite è tale
solo per la ragione che ha due facce: una che guarda verso il limitato e una che guarda verso il limi-
tante. Ciò spiega quanto avevamo affermato in precedenza, e cioè che l’identità determinata si pone
in forza del suo contrapporsi ad altra identità: A è A perché non è non-A.
Solo l’identità dell’assoluto, quindi, non necessita della relazione e proprio per questo è de-
finito “assoluto”: ab-solutum indica ciò che è “sciolto da vincoli, da relazioni”. Ma per questa ra-
gione l’assoluto è, a rigore, indeterminato e indeterminabile. Di contro, se si parla di un’identità or-
dinaria, la si deve intendere come determinata, così che la relazione oppositiva alla differenza risul-
ta essenziale.
Ciò implica che, se la relazione è essenziale al costituirsi dell’identità, allora non si potrà
evitare di mettere in discussione la rappresentazione sensibile che dispone non-A fuori da A.
La rappresentazione, infatti, induce la convinzione che una certa indipendenza possa conti-
nuare a sussistere, dal momento che A e non-A occupano spazi diversi, anche nell’enunciato. Del
resto, è da rilevare che lo stesso “concetto”, per quel tanto che esprime un congiungere, un cum-
capere, rivela un carattere congiuntivo di momenti distinti. In questo senso, esso permane irrime-
diabilmente vincolato alla rappresentazione sensibile.
Esso congiunge, ma solo perché mantiene distinti i congiunti, così che si rivela un concetto
ancora formale. Il sistema formale, infatti, si configura grazie al mantenimento dei dati, assunti per
la loro presunta immediatezza, e delle relazioni estrinseche che intercorrono tra di essi.
Di contro, affermare che concettualmente non-A è essenziale al costituirsi di A (e viceversa)
non può non significare che la differenza viene riconosciuta come intrinseca e costitutiva
dell’identità e ciò non può non imporre la necessità di andare oltre l’ordine della forma.

Identità determinata e contraddizione

Il contributo di Hegel è fondamentale proprio su questo punto. Egli osserva che, se omnis determi-
natio est negatio, allora la differenza, che l’ordine formale pone estrinsecamente rispetto
all’identità, in effetti costituisce l’identità intrinsecamente.
A è in sé non-A, perché non-A gli è essenziale per essere. Ogni determinazione, pertanto, è
in sé una contraddizione (la contraddittorietà di Severino), così che si dovrà ben intendere il suo
contraddirsi.
Lo stesso Hegel distingue la relazione estrinseca dalla relazione intrinseca e costitutiva. La
relazione, che l’ordine formale rappresenta come intercorrente tra due determinazioni (A e B),
coincide con il costrutto mono-diadico e assume l’identità come autonoma dalla differenza. Tale re-
lazione, però, propone in sé un’aporia: proprio in quanto medio tra estremi, essa moltiplica
all’infinito il medio, perché postula un nuovo medio tra ciascun estremo e il medio stesso. Questa
aporia, del resto, è stata messa in evidenza proprio da Platone nel Parmenide e successivamente è
stata definita “aporia del terzo uomo”.
La relazione estrinseca risulta, pertanto, un costrutto aporetico e, inoltre, non coglie
l’intrinseco costituirsi della determinazione, la quale è sé solo in quanto si riferisce ad altro da sé.
La relazione, pertanto, deve venire pensata come immanente a ciascuna identità determinata (ad A e
a B): non più come relazione estrinseca (äuβerliche Beziehung), ma come relazione intrinseca (im-
manente Synthesis)22.
Se viene intesa come intrinseca e costitutiva, allora essa mette in luce che ogni determina-
zione è negazione, ma non negazione di altro, bensì negazione di se medesima.
Pervenire alla consapevolezza che A e B sono due identità che si pongono solo in forza del
loro inviare l’una all’altra implica il riconoscere che tale invio non può venire pensato come succes-
sivo alla costituzione dell’essere di A e di B, ma come coincidente con l’essere di entrambi: A è re-
lazione a B, e viceversa, perché A non può stare senza B: ciascun termine entra nella costituzione
intrinseca dell’altro e la relazione risulta una immanente Synthesis.
Gioverà ricordare che chi ha ripreso l’indicazione hegeliana, e l’ha portata alle estreme con-
seguenze, è stato Bradley, il quale in Apparenza e Realtà perviene a questo punto fondamentale:
«Una relazione indipendente dai suoi termini è un’illusione. Se essa deve essere reale deve esserlo
in un certo senso a spese dei termini o, per lo meno, deve essere qualcosa che si manifesta in loro o
a cui essi appartengono. Una relazione tra A e B implica realmente un fondamento sostanziale in lo-
ro. […] La nostra conclusione sarà, in breve, la seguente: la relazione presuppone la qualità [i ter-
mini], e la qualità la relazione; nessuna delle due può esistere indipendentemente dall’altra né in sua
compagnia e il circolo vizioso nel quale entrambe si avvolgono non può essere l’ultima parola sulla
realtà»23.
La vera realtà, dunque, non può non emergere oltre la relazione, perché non può non emer-
gere oltre la contraddizione. Proprio per salvare il mondo dell’esperienza ordinaria, invece, Rus-
sell24, in consonanza con Moore25, afferma il carattere estrinseco della relazione, la quale si dispor-
rebbe tra i dati e come tale darebbe luogo all’implicazione.
Cogliere il valore costitutivo della relazione non può non imporre un ripensamento del con-
cetto di identità: ogni identità è in sé il riferimento ad altro da sé, come era emerso considerando il
ruolo che il limite ha nella posizione dell’identità determinata. Ogni identità, pertanto, altro non è
che una contraddizione: ciascun A è in sé altro da sé; è sé e la propria negazione; A è in sé non-A.

22
G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, trad. it. di A. Moni, Laterza, Bari 1974³, pp. 87-109.
23
F. H. BRADLEY, Apparenza e realtà, trad. it. di D. Sacchi, Rusconi, Milano 1984, pp. 160-163.
24
B. RUSSELL, I principi della matematica, trad. it. di E. Carone e M. Destro, Newton Compton Italiana, Roma 1971;
Logica e conoscenza, trad. it. a cura di L. Pavolini, Longanesi, Milano 1961; B. Russell e A.N. Whitehead, Principia
Mathematica, trad. it. a cura di L. Geymomat, Longanesi, Milano 1963.
25
G.E. MOORE, “The Refutation of Idealism”, Mind (1903), 12, pp. 433-453.
Se, insomma, la differenza vale come esterna (estrinseca) rispetto all’identità, allora si im-
pone quello che abbiamo definito l’ordine formale; di contro, se vale il loro intrinseco riferirsi, allo-
ra si impone il superamento dell’ordine formale e tale superamento coincide con la mediazione
dell’immediato, cioè con la consapevolezza che la relazione va intesa come atto e non come medio
tra estremi.
Il livello formale è quello nel quale vigono e operano sia l’aspetto disgiuntivo della relazio-
ne, che consente il configurarsi del momento sensibile dell’esperienza, sia l’aspetto congiuntivo del-
la relazione stessa, che consente il configurarsi dell’ordine concettuale dell’esperienza, basato però
su un concetto ancora formale di “concetto” e di “relazione”. Di contro, il livello trascendentale
coincide con la mediazione in atto del dato e con il trascendersi della relazione intesa come costrut-
to.
In altre parole, il livello trascendentale restituisce l’ente al suo intrinseco contraddirsi. Non
di meno, il contraddirsi dell’ente non va inteso come la sua cancellazione, ma come il suo trascen-
dersi in atto. L’espressione usata da Hegel, lo Aufheben, non rende appieno ciò che intendiamo dire.
Lo Aufheben indica infatti un “togliersi conservando”, cioè un passaggio da una determinazione ad
un’altra determinazione.
Di contro, il contraddirsi della contraddizione, cioè della determinazione, indica, nella nostra
lettura, il suo valere come segno: l’essere del segno è tutt’uno con il suo inviare oltre se stesso, ver-
so quell’unico significato che fonda ogni determinazione perché a nessuna è riducibile.
Per comprendere adeguatamente questo punto, risulta fondamentale intendere la relazione
non più come costrutto mono-diadico, ma come atto: l’atto del riferirsi.

La relazione come atto

Il dato immediato, cioè l’ente, se deve venire inteso nel suo essere pienamente intelligibile, non può
non subire una intrinseca mediazione, che comporta la sua intrinseca trasformazione. L’immediato
non viene più inteso come un dato o un fatto, ma come l’atto del suo andare oltre se stesso, l’atto
del suo trascendersi.
Se, insomma, l’immediato non può venire pensato come un’identità autonoma e autosuffi-
ciente, nonché compatta e monolitica, altrettanto intenderne la struttura nella forma del costrutto re-
lazionale significherebbe riproporre quella stessa immediatezza, che, di contro, si intendeva oltre-
passare. La relazione come medio, infatti, poggia sulla presunta immediatezza dei termini e si pone
essa stessa come un nuovo termine.
Di contro, a nostro giudizio quando Severino attribuisce una struttura all’originario egli in-
tende precisamente la relazione. Quest’ultima gli consente di porre l’originario come dotato di una
sua intrinseca articolazione ed è tale articolazione che legittima la posizione del molteplice. In tal
modo, l’originario viene assunto come un complesso, giacché è nella relazione intesa come costrut-
to che l’unità del riferimento viene conciliata con la dualità dei termini relati.
Da un certo punto di vista, pertanto, l’originario viene pensato come un immediato, proprio
in quanto originario; da un altro punto di vista, come dotato di una sua struttura e a noi pare che ciò
equivalga a conciliare l’inconciliabile, giacché l’immediato che prevede una sua intrinseca articola-
zione è contraddittoriamente immediato.
Altrimenti detto: per Severino, la posizione di un immediato che si articola al suo interno
non è la posizione della contraddizione/contraddittorietà, ma del complesso. Lo strutturarsi
dell’immediato, inoltre, consente di spiegare la genesi del mondo delle determinazioni. Queste ul-
time valgono come “enti” e, poiché l’ente è “non-niente”, le determinazioni valgono come eterne.
A noi sembra, invece, che l’obiettivo non sia spiegare la genesi del mondo: il mondo delle
determinazioni costituisce il presupposto a muovere dal quale si argomenta e del quale si deve co-
gliere il limite di intelligibilità. Il presupposto non è il fondamento: il primo viene assunto a pre-
scindere dalla legittimità della sua posizione; il secondo è se stesso e in virtù di questo suo essere
impone all’altro da sé di contraddirsi.
Ogni determinazione empirica si presenta come un immediato, cioè si presenta come se fos-
se autonoma e autosufficiente, ma è proprio la sua determinatezza che le impone di riferirsi alla dif-
ferenza. Quest’ultima, pertanto, entra nella costituzione dell’immediato e per questa ragione
l’immediato non può non subire una intrinseca trasformazione (mediazione). Tale trasformazione
(mediazione) deve venire intesa come l’atto in virtù di cui l’immediato oltrepassa la sua parvente
immediatezza e non già come la struttura relazionale, che invece lo legittimerebbe per come esso si
presenta.
Proprio per le ragioni addotte, a nostro giudizio il fondamento (principio) non è determinabi-
le come immediato né come mediazione. Esso, piuttosto, è la condizione che consente di rilevare il
limite tanto di un immediato che si determina, quanto di una mediazione che si configura in forma
relazionale. In questo senso, lo si potrebbe pensare come quell’incontraddittorio che impone alla
contraddizione di contraddirsi, giacché solo contraddicendosi essa è effettivamente contraddizione.
Il fondamento, insomma, è la ragione per la quale il mondo delle determinazioni non può
venire assolutizzato o eternizzato, ma deve venire colto nel suo andare oltre quella presunta autosuf-
ficienza che sembrerebbe decretarne l’oggettività.
Ciascuna determinazione, se pensata nel suo originario trascendersi, viene colta come un
segno e quest’ultimo dà luogo ad un riferirsi orizzontale, che spinge il segno verso ogni altro segno,
ma anche e soprattutto ad un riferirsi verticale, che spinge il segno verso ciò che è ulteriore, ossia
verso ciò che emerge oltre l’ordine dei segni.
In tal modo, la realtà non vale più come un’immediatezza, cioè come un insieme di determi-
nazioni autonome e indipendenti. Se si parla di “seconda immediatezza” (zweite Unmittelbarkeit),
come fa Hegel a più riprese, ciò è accettabile solo a condizione di non intenderla come un nuovo
dato, cioè solo a condizione di mantenere la trasformazione che l’atto produce sulla realtà
dell’esperienza.

Contraddizione e contraddirsi

Se, dunque, l’ente, proprio in quanto determinato, è una contraddizione, altrettanto lo è la relazione
intesa come medio, giacché essa si pone postulando l’essere dei termini, che sono dei dati, degli en-
ti.
Tuttavia, deve venire aggiunta un’ulteriore considerazione che concerne la relazione, intesa
in senso ordinario. Essa si pone conciliando l’indipendenza dei termini, richiesta affinché l’uno pos-
sa distinguersi dall’altro, con la loro dipendenza, essenziale per il loro porsi in relazione.
A rigore, però, l’indipendenza dei termini non è mai autentica, perché, se lo fosse, allora non
potrebbe porsi la determinatezza del dato, che è tutt’uno con il suo differenziarsi da ogni altro dato.
Né è autentica la dipendenza dei termini, perché, se lo fosse, posto l’uno si porrebbe immediatamen-
te anche l’altro, così che essi non potrebbero più venire distinti. Ciò ci ha portato a concludere che
tanto il dato quanto la relazione, intesa come costrutto intercorrente tra dati, configurano una con-
traddizione, così che l’intero ordine formale, che sui dati e sulle relazioni poste tra di essi poggia,
necessita di trascendersi, ossia di contraddirsi.
Il significato da noi attribuito all’espressione “contraddirsi”, dunque, è ben diverso da quello
che a tale espressione riserva Severino. Per Severino il contraddirsi è un modo d’essere del soggetto
enunciante. Egli, per specificare tale concetto, lo contrappone a quello di coloro che sostengono una
«concezione psicologistica della logica»26, ma soprattutto al modo aristotelico di intenderlo, espres-
so dallo Stagirita nel capitolo 3 del libro IV della Metafisica, precisamente nel passo 1005 b 26-31:
«E se non è possibile che i contrari sussistano insieme in un identico soggetto […] e se un’opinione
che è in contraddizione con un’altra è il contrario di questa, è evidente che è impossibile, ad un
tempo, che la stessa persona ammetta veramente che una stessa cosa esista e, anche, che non esista:
infatti chi si ingannasse su questo punto, avrebbe ad un tempo opinioni contraddittorie»27.
Così commenta Severino: «Si rileva questa contrapposizione, non già nel senso che Aristote-
le intenda affermare che il contenuto contraddittorio della contraddizione possa essere esistente e
differire dal nulla […], bensì nel senso che questo testo aristotelico […] non solo afferma
l’inesistenza, la nullità e l’impossibilità di tale contenuto, ma afferma anche l’inesistenza,
l’impossibilità, la nullità dello stesso contraddirsi: l’impossibilità della contraddizione, sì che im-
possibile non è solo l’errore, ma anche l’errare e l’errante»28.
Come abbiamo già visto, Severino sostiene che, se fosse stato davvero impossibile contrad-
dirsi, cioè cadere in errore, non si spiegherebbe l’intera storia dell’Occidente, che per lui si fonda
sulla persuasione che l’ente sia niente: «La persuasione che gli enti siano niente sta al culmine della
contraddizione ed è la positività (l’esser ente) dominante la storia dell’Occidente»29.
Per Aristotele, insomma, poiché il principio più saldo di tutti esclude la contraddizione, nel
senso del contenuto contraddittorio dell’enunciato, per usare la terminologia di Severino, allora tale
principio esclude eo ipso la possibilità di trovarsi in errore: «Si è detto […] che l’“impossibilità di
trovarsi in errore rispetto al principio più saldo” significa che esso implica che il trovarsi in errore è
appunto ciò che viene negato da questo principio»30. In fondo, Aristotele dice che chi afferma la
contraddizione in effetti nega ciò che afferma: come visto, è assimilabile ad una pianta. Costui,
dunque, non commette un errore, perché è come se non parlasse affatto. Che è come dire: il conte-
nuto contraddittorio dell’affermazione neutralizza non solo l’enunciato, ma anche l’enunciante.
Apparentemente si può cadere in errore; effettivamente non si può, perché chi cade in errore
non è un parlante. E questo ha, a nostro giudizio, un’importanza capitale: anche per Aristotele si
impone la necessità di distinguere due livelli: quello fattuale o empirico, in cui il fatto di cadere in
errore si impone, deve venire distinto da quello effettivo, che noi abbiamo definito “trascendentale”,
in cui è solo ciò che non si contraddice.
Aristotele ritiene che gli enti siano, proprio perché non si contraddicono. A noi sembra inve-
ce di poter dire, con Hegel, che l’ente, proprio perché determinato, è sé in quanto altro da sé e,
quindi, è il suo contraddirsi, senza tuttavia che questo contraddirsi possa venire inteso come una
cancellazione empirica dell’ente.
Di contro, Severino, non soltanto assolutizza gli enti, ma assolutizza anche quell’ente che è
il contraddirsi, poiché cadere in errore è un fatto e ogni fatto è un ente, dunque un non-niente.

26
E. SEVERINO, Fondamento della contraddizione, cit. p. 22.
27
ARISTOTELE, Metafisica, cit., p. 185.
28
E. SEVERINO, Fondamento della contraddizione, cit. p. 22.
29
Ibidem.
30
Ibid., p. 30.
Aristotele si muove bensì nel solco tracciato da Platone, e cioè dell’essere relativo, ma non
arriva fino al punto di considerare un ente “il contraddirsi” di chi afferma un enunciato contradditto-
rio. Per Aristotele, il fatto di parlare non è più un fatto, quando chi parla pronuncia un enunciato
contraddittorio. Il fatto di parlare diventa contraddittoriamente un fatto, si potrebbe aggiungere. E
ciò dimostra che il fatto come tale non è innegabile.
Per Severino, invece, l’entificazione dell’essere mette capo ad una conseguenza radicale:
non solo ogni ente è innegabile, assoluto come l’essere di Parmenide, ma lo è anche il contraddirsi,
proprio perché è un fatto, ossia qualcosa che può accadere nell’universo dell’esperienza. Ciò ci con-
sente di comprendere che per Aristotele, a rigore, i principi non dovrebbero essere due, quello della
ragione e quello dell’esperienza, o almeno non dovrebbero porsi al medesimo livello, perché in
qualche modo il principio di ragione può discutere il fatto del contraddirsi e riconoscerlo come un
fatto non autentico: come un fatto contraddittorio e, pertanto, un fatto che tanto è quanto non è.
Il punto che domanda di venire adeguatamente chiarito, quindi, è quello che riguarda la
struttura contraddittoria della contraddizione nonché l’emergere dell’incontraddittorio riconosci-
mento della sua struttura contraddittoria.

Struttura contraddittoria della contraddizione e incontraddittorio

La struttura della contraddizione è contraddittoriamente una struttura perché non si articola in due
momenti distinti: in essa l’essere è tutt’uno con il non-essere. La contraddizione, insomma, non è
“qualcosa”, ma è et non è qualcosa. L’essere coincide con il non-essere, ma non si risolve totalmen-
te in quest’ultimo, come è per Severino la contraddittorietà. Si ricorderà, infatti, che per Severino la
contraddittorietà, ossia il contenuto contraddittorio della contraddizione, è l’inesistente, il nulla. A
noi sembra che, piuttosto, debba valere la reciproca e cioè che il non-essere è intrinsecamente con-
traddizione.
Delle due l’una: o il non-essere viene distinto dalla contraddizione, ma allora non si può dire
che la contraddizione è nulla. Oppure dire contraddizione e dire non-essere equivale ad esprimere lo
stesso concetto: l’insensata assunzione dell’essere del non-essere, il quale in sé postula l’essere per
poterlo negare e per poter essere promosso ad essere in quanto non-essere.
Ecco, la contraddizione esprime questo status, che non è l’assoluto nulla per la semplice ra-
gione che di assoluto c’è solo l’essere. Ogni altro dall’essere non può non contraddirsi, per la sua
pretesa di differenziarsi dall’essere e tuttavia di essere anch’esso. Si potrebbe anche dire che la con-
traddizione trasforma la relazione disgiuntiva esclusiva che sussiste tra essere e non-essere (aut
l’uno, aut l’altro) in una relazione che concilia gli inconciliabili: essere et non-essere.
Tuttavia, anche su questo punto si deve fare attenzione. Diventa essenziale chiarire che la
contraddizione non indica il dicere contra, che configura piuttosto una opposizione, quanto il dicere
et non dicere. Quest’ultimo indica bensì un’opposizione, ma un’opposizione a sé e non
un’opposizione ad altro. La contraddizione è il contrapporsi a sé di ciò che si contraddice od anche
il suo contraddirsi.
La contraddizione è veramente tale solo se si contraddice, così che è sensato individuare un
contraddirsi contraddittorio della contraddizione, per distinguerlo dal suo contraddirsi incontrad-
dittorio. Il contraddirsi contraddittorio della contraddizione presenta la contraddizione come qual-
cosa-che-si-contraddice, distinguendo dunque due momenti: il qualcosa e il suo contraddirsi. Di
contro, la contraddizione è l’atto del suo contraddirsi. Questo atto configura ciò che definiamo il
contraddirsi incontraddittorio della contraddizione.
Del resto, ciò che è emerso dal discorso che siamo andati svolgendo è precisamente che il p.
d. n. c. è un principio solo formale. Esso, infatti, pone la negazione come estrinseca rispetto a ciò
che deve venire negato, subordinando il principio alla contraddizione.
Potremmo così sintetizzare quanto detto: se la cosa (l’ente) non è, allora non si differenzia;
ma, se non si differenzia, non si determina. Con che il determinarsi della cosa non risolve in sé il
suo “essere cosa”, ma anzi lo richiede come fondamento, come condizione di intelligibilità.
Ciò consente di distinguere l’essere della cosa (ente) dalla cosa in quanto determinata
(dall’ente in quanto ente). L’essere è il fondamento assoluto richiesto come conditio a parte ante di
ogni ente e coincide con l’essere parmenideo. Di contro, l’ente è la determinatezza che implica la
relazione alla differenza, quella relazione che non funge mai da fondamento perché è un continuo
rinviare da un ente ad altro ente (da un termine all’altro): ciascuno è sé perché si differenzia da al-
tro, così che nessuno è in grado, fondando sé, di fondare ogni altro. La catena dei rinvii procede
all’infinito e il circolo non può venire confuso con l’autentica fondazione.
L’ente, dunque, mantiene un’irriducibile differenza ontologica dall’essere. Affermare la
contraddittorietà dell’ente significa, quindi, negare la pretesa che esso possa venire identificato con
l’essere. In questo senso, l’ente è il suo contraddirsi: è sé nel suo trascendere se medesimo, nel suo
rinviare a quel fondamento che costituisce la sua destinazione e il suo toglimento. Il fondamento,
quindi, non può che essere assoluto: se non lo fosse, si riproporrebbe come ente determinato, dun-
que come segno, e il circolo si perpetuerebbe.
Questo contraddirsi di ciò che è determinato, dunque di ciò che è – in sé – sé e il suo altro, è
incontraddittorio perché l’essere stesso ne costituisce la ragione: poiché l’essere – e solo l’essere –
è, ciò che è diverso dall’essere non può non contraddirsi. Il livello in cui si colloca il contraddirsi
dell’ente non è quello formale, ma quello trascendentale. A livello formale, il principio è il risultato
della negazione della contraddizione. A livello trascendentale, la contraddizione si contraddice per-
ché il principio, cioè l’essere, è e non può non essere. Il non poter non essere dell’essere, inoltre, è
la sua intrinseca incontraddittorietà. Il p. d. n. c., pertanto, altro non è che la traduzione formale
dell’incontraddittorio, cioè dell’essere di Parmenide.
Indubbiamente, a livello formale il p. d. n. c. svolge una funzione insostituibile (inevitabile):
consente il distinguersi degli enti ed evita che l’uno si con-fonda con l’altro. Ma la funzione svolta
non può venire confusa con il valore. Il valore è dell’incontraddittorio, giacché non solo costituisce
la ragione del contraddirsi della contraddizione, ma altresì il significato cui rinvia il trascendersi di
ciò che è determinato.

Conclusioni

Il “ritorno” di Severino a Parmenide configura, dunque, la più radicale negazione del pensiero
dell’Eleate. In tale ritorno, infatti, si consuma la riduzione dell’essere ad ente. Essa finisce per asso-
lutizzare l’ente e per sottrarre all’essere quel valore che, invece, lo pone come l’autentica ragione
che spinge ogni determinato a trascendersi.
Non sarà inutile riprendere il punto centrale dell’intero discorso svolto, e cioè l’opposizione
di essere e non-essere, che così Severino sintetizza in Ritornare a Parmenide: «Il gran segreto sta
pur sempre in questa povera affermazione che “L’essere è, mentre il nulla non è”. Nella quale non
si indica semplicemente una proprietà, sia pur quella fondamentale, dell’essere, ma se ne indica il
senso stesso: l’essere è appunto ciò che si oppone al nulla, è appunto questo opporsi. L’opposizione
del positivo e del negativo è il grande tema della metafisica, ma esso vive in Parmenide con quella
sconfinata pregnanza che il pensiero metafisico non saprà più penetrare»31.
Severino interpreta l’essere di Parmenide nel senso del suo opporsi al nulla. Egli, dunque, fa
dell’opposizione il luogo del disporsi tanto dell’essere quanto del non-essere. L’opposizione di esse-
re e non-essere è precisamente la relazione negativa che sussiste tra di essi, così che è proprio tale
relazione che decreta l’essere del non-essere. Se il non-essere, infatti, non fosse, non potrebbe costi-
tuirsi come termine dell’opposizione.
In secondo luogo, è da rilevare che Severino pensa l’essere come un opporsi, laddove, a no-
stro giudizio, l’opporsi è del non-essere: quest’ultimo non si oppone all’essere, ma a se stesso, nel
suo negare quell’essere che pure presuppone, cioè nel porsi come sua pretesa negazione.
In terzo luogo, egli fa della relazione, ancorché della relazione negativa, il luogo teoretico
fondamentale, quel luogo nel quale si dispongono positivo e negativo, la cui opposizione costituisce
«il grande tema della metafisica».
Non può destare, quindi, alcuna meraviglia che Severino intenda l’originario in forma di
una struttura, appunto la struttura originaria, la quale altro non è che «l’essenza del fondamento».
Quest’ultima, del resto, sempre secondo Severino, non può venire intesa come «un che di semplice,
ma una complessità, o l’unità di un molteplice», in modo tale che del principio o dell’immediato si
afferma il suo «strutturarsi».
Il punto è che affermare lo strutturarsi dell’immediatezza (o della principialità) non può non
implicare il configurarsi di quel costrutto che è la contraddizione (o contraddittorietà), giacché in
esso trovano conciliazione l’unità e la molteplicità, l’immediatezza e la mediazione. E tale concilia-
zione è resa possibile dalla relazione, intesa appunto come costrutto mono-diadico, cioè nel senso di
due estremi vincolati da un medio.
In forza del costrutto relazionale, sembra che la conciliazione degli inconciliabili sia possibi-
le. Cos’è, del resto, la relazione, se non la conciliazione dell’indipendenza dei termini, essenziale
perché ciascuno di essi mantenga una propria identità, con la loro reciproca dipendenza, essenziale
perché possano dirsi in relazione? Il discorso da noi svolto ha inteso dimostrare che, in effetti,
l’identità determinata non si pone in forma autonoma dalla differenza; essa, anzi, è il suo richiedere
intrinsecamente la differenza, così che si rivela, in sé, sé e il suo altro: l’identità determinata si rive-
la il proprio contraddirsi.
Di contro, Severino non riconosce il carattere contraddittorio della relazione intesa come co-
strutto mono-diadico né dell’identità determinata: se lo riconoscesse, non affermerebbe la relazione
come struttura originaria né l’ente come innegabile.
Egli, proprio in forza di questo modo di intendere l’originario, scrive: «la posizione del fon-
damento implica essenzialmente il toglimento della negazione del fondamento [….]. Sì che il fon-
damento è posto solo in quanto la sua negazione è posta (come tolta)»32. In tal modo, anche la verità
si pone solo in quanto si oppone alla non-verità: «In quanto necessariamente implicate, come nega-
te, dalla verità, le determinazioni dell’errore (e pertanto della contraddizione) hanno lo stesso signi-
ficato delle determinazioni della verità, che nell’errore restano negate»33.
Ebbene, queste affermazioni ci aiutano a capire ancora meglio il discorso svolto sul princi-
pio di non contraddizione. Il principio si pone solo in quanto si pone la sua negazione, la quale poi,
risultando inintelligibile, si toglie. Il fatto che la negazione del principio si tolga, tuttavia non elimi-
31
E. SEVERINO, Essenza del nichilismo, cit., p. 14.
32
E. SEVERINO, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981², p. 111.
33
E. SEVERINO, Fondamento della contraddizione, cit., p. 36.
na il suo ruolo essenziale nella posizione del principio (fondamento), perché è solo in forza della re-
lazione ad altro da sé che il principio si pone in forma determinata.
Severino, insomma, parla di autotoglimento della negazione, ma attribuisce ad esso un valo-
re fondamentale: è in forza di questo autotoglimento che emerge il principio nonché la sua determi-
natezza. A nostro giudizio, invece, il discorso deve venire capovolto: poiché il principio, cioè
l’essere, è e non può non essere, la negazione dell’essere non può non togliersi unitamente a tutto
ciò che si oppone all’essere perché se ne differenzia. Solo così si evita di fondare il principio su ciò
che lo nega, cioè il vero sul falso. Ovviamente, ciò comporta intendere il principio nella sua assolu-
tezza, dunque oltre la sua pretesa determinatezza.
Il nodo teoretico centrale è il seguente: parlare di “essere relativo” ha come conseguenza de-
cretare il primato della relazione sull’essere. Tale primato, a sua volta, implica l’entificazione
dell’essere, ma anche l’entificazione del nulla. L’entificazione del nulla, del resto, altro non è che
l’entificazione della contraddizione o della contraddittorietà, cioè di quel contenuto contraddittorio
della contraddizione che, invece, Severino vorrebbe dichiarare inesistente. Se non che, avendo enti-
ficato il nulla, non può evitare che il circolo si chiuda, nel senso che anche la contraddizio-
ne/contraddittorietà diventa un ente, eterno come ogni ente.
In effetti, cosa distingue l’ente dalla contraddizione, se ciascun ente è in sé la necessità del
riferirsi ad altro, così che è, in sé, sé e non sé? Tanto l’ente quanto la contraddizione devono venire
intese come il loro intrinseco contraddirsi. Quell’intrinseco contraddirsi che connota proprio il
non-essere, per il suo essere strutturalmente una contraddizione: la postulazione di ciò che si pre-
tenderebbe di negare.
In tal modo, e solo in tal modo, si configura un autentico ritorno a Parmenide.
L’incontraddittorio ritorno all’essere parmenideo implica il riconoscere che solo l’essere è
l’autentico principio, cioè il vero fondamento. Solo l’essere, infatti, vale come la ragione che impo-
ne a tutto ciò che non è l’essere di contraddirsi, cioè di essere sé solo riferendosi ad altro. L’essere
riferendosi costituisce la struttura del segno, così che ogni determinazione (ente) deve venire pensa-
ta come un segno che si riferisce all’unico, autentico significato: l’essere, appunto.
Il contraddirsi, pertanto, non può venire ridotto ad un errore soggettivo che si trasforma in
un’enunciazione contraddittoria nel contenuto. Di contro, deve venire inteso come il modo d’essere
dell’ente, il suo trascendersi intrinseco che rinvia non già ad un altro ente, comunque in sé contrad-
dittorio, ma solo a quell’essere assoluto che non lascia essere ciò che è diverso da sé.
Tutto ciò consente di precisare in quale senso si può continuare a parlare di due principi. Il
principio di ragione, cioè l’essere incontraddittorio, va bensì distinto dal principio d’esperienza, ma
solo nel senso che di quest’ultimo esso rivela il limite, ossia solo perché, collocandosi nell’ordine
formale o nell’ordine del discorso, non si può prescindere dal principio ordinatore della forma. Ciò
equivale a dire che l’universo formale (o empirico) è inevitabile, non innegabile: il fatto non può
venire sostituito, se non da un altro fatto, ma questa insostituibilità (inevitabilità) del fatto non indi-
ca il suo essere vero, cioè incontraddittorio.
In conclusione, la negazione dell’immediato (dato) è la trasformazione (mediazione) della
sua immediatezza, cioè la negazione della sua pretesa autonomia e la restituzione del dato alla sua
natura intrinsecamente relazionale. E la relazione, che non è riducibile a medio, cioè ad un nuovo
dato, è l’atto del riferirsi, ossia l’atto del trascendersi dell’immediato nonché della contraddizione,
che del dato costituisce la struttura.
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