Edizione di riferimento: da: Giuliano Briganti, Pietro da Cortona o della pit- tura barocca, Firenze, Sansoni, 1962
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Nel secondo decennio del Seicento si andava affer- mando in Roma una nuova maniera espressiva che dif- ficilmente può ricondursi all’autorità di un solo artista ma rivela piuttosto l’aspetto di un generale mutamento nei modi del rappresentare. Una tendenza che univa artisti di cultura diversa e che per la sua particolare natura fa supporre che nuovi mezzi espressivi fossero suggeriti loro dalle aspirazioni della società nella quale vivevano e dalla quale, per dirla brutalmente, erano mantenuti, cioè dalla classe dominante della società con- temporanea che gravitava intorno alla corte pontificia. Un suggerimento quindi estraneo alla pratica dell’arte, ai termini di «maniera» e di realtà, di disegno toscano o di colorito veneziano, di imitazione dall’antico o di riproduzione del naturale, a quei termini insomma di vita pittorica che avevano sino allora fornito argomen- to di discussioni, inimicizie e magari crisi di coscienze nell’ambito degli studi dei pittori, delle accademie o dei salotti dei nobili virtuosi poiché rappresentavano la sem- plice configurazione intellettiva o se si vuole letteraria di profondi mutamenti visivi. Non si trattava nemme- no di una «teoria» artistica. Anche quella ci fu, ma il suo riflettersi in concrete manifestazioni formali non accad- de che in un determinato settore della pittura e per breve tempo, un episodio solamente anche se i suoi stra- scichi furono tanto piú lunghi, e noiosi, nella storiogra-
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fia artistica. E fu la teoria del classicismo e dell’idea
della bellezza, maturata proprio in quegli anni ed enun- ciata prima dall’Agucchi e poi dal Bellori, le cui conse- guenze in pittura si manifestarono soprattutto sotto il pontificato di Gregorio XV Ludovisi, l’estate di San Martino dalla pittura bolognese.
La nuova espressione figurativa era il frutto di una
tendenza vasta e generale che affondava le sue radici ben piú profondamente nel terreno della società contempo- ranea e quanto accadeva nel secondo decennio del Sei- cento non era che l’affermarsi definitivo del patronato artistico dei committenti, l’adeguarsi degli artisti alle loro stesse idee, quindi l’invenzione del modo di espri- mersi piú adatto a «rappresentare» che soddisfacesse le esigenze ormai antiche della classe dominante, che da anni si facevano sentire con sempre maggiore autorità. Mutamento della visione: ed ecco che ci troviamo fra le mani, quasi senza volerlo, uno dei piú vecchi e con- sunti strumenti usati dalla critica d’arte per costruirsi un’immagine del Barocco, ché il mutamento della visio- ne nel Seicento fu proprio il cavallo di battaglia del Woelfflin che vi riconobbe, non a torto, «il piú impor- tante mutamento di rotta della storia dell’arte» e fu poi indagato da vari punti di vista, ponendosi sempre piú l’accento sui suoi rapporti con la società, sino al recen- te volume dello Hauser che dedica un capitolo della sua storia sociale dell’arte al Barocco nelle corti cattoliche. Strumento consunto ma non del tutto inutile ancora, a saperlo adoprare con qualche delicatezza e, forse, con meno ambizione. Ad una ricognizione da grande altez- za le linee del passaggio dal Manierismo al Barocco potranno anche offrire allo sguardo un aspetto che giu- stifichi le cinque coppie di concetti astratte dal Woelf- flin e tutte quelle definizioni generali sul mutamento della visione artistica e sulle sue cause che ne sono di poi
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seguite; ma a guardar troppo dall’alto per abbracciar piú
orizzonte si rischia di dover salire sino alle zone piú rare- fatte dell’astrazione e l’occhio può cader vittima di qual- che illusiva apparenza. Abbandonando invece l’idea ambiziosa di voler cogliere l’inesistente segreto dello «stile del tempo», guardando da una distanza che abbia una misura piú «umana», si resterà aderenti alla realtà della storia e in questa precisa congiuntura, nell’indagare quel cambiamento di stile che si affermò in Roma soprattutto a partire dal secondo decennio dei Seicen- to, ci si accorgerà che molte definizioni applicate ad un generico Barocco che partendo dalla fine del Manieri- smo abbraccia piú di un secolo, non convengono che ad un preciso momento e sono state quindi arbitrariamen- te estese e rese generiche. Per fermarci su di un aspetto concreto del muta- mento cui alludo serviamoci di un esempio, anche senza indugiar troppo nella scelta. Andrà benissimo il caso di un artista intelligente e soprattutto sensibile a quanto accadeva intorno a lui: Simon Vouet. Giunto a Roma nel 1613, cioè circa un anno dopo Pietro da Cortona, ma già ventiquattrenne e indipendente, non esitò a seguire la corrente che in quegli anni, specie fra gli stranieri, gode- va ancora delle attrattive della moda, il caravaggismo, pur mirando a «nobilitarlo» nella precisa accezione di allora derivandolo verso intenti di «historia» e di deco- razione. Il suo momento piú caravaggesco, il piú antico è lecito supporre, si mantiene rigorosamente nei limiti della «manfrediana methodus», come quello di altri francesi del resto, anche se nell’atteggiarsi reciproco dei personaggi, soldati, gonzi, indovine, suonatori, zingare, si nota un leggero insistere sull’episodio, come un dichia- rarsi, attraverso l’azione gestita, dei ruoli attribuiti al singoli attori. Se pur espressa meno palesemente, l’ade- sione al caravaggismo è tuttavia evidente anche in qua- dri di destinazione sacra, come la Natività della Vergine
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in San Francesco a Ripa, ove è sempre la rappresenta-
zione realistica di un fatto, in una sua pittoresca mani- festazione popolare, a costituire il tema del dipinto. Ma ecco che, proprio nel 1620, il Vouet sterza bruscamen- te verso una nuova e diversa maniera, licenziando la Ver- gine che appare a San Bruno destinata alla Certosa di San Martino di Napoli. Che l’intenzione sia nuova e diver- sa non c’è dubbio: se vi si può ancora riconoscere il sedi- mento di un’educazione caravaggesca isolando qualche pezzo, nella figura del Santo soprattutto, la luce al lampo di magnesio che lo illumina crudamente è tuttavia inte- sa, senza equivoci, come luce soprannaturale; dalla scena ideata è bandito ogni dato di ambiente naturale, ogni aspetto di quotidiano e accidentale accadimento che il caravaggismo anche in quegli anni avrebbe richiesto, mentre le nuvole (l’ingrediente meno caravaggesco) che invadono la scena, gli angeli, i cherubini fluttuanti nella gloria celeste, l’alone di luce che circonda l’apparizione della Vergine e del Fanciullo diventano i soli protago- nisti sí che appena ci si accorge come il luogo della scena sia all’aperto, un bosco forse dove il Santo è stato fol- gorato dall’improvvisa apparizione. La composizione soprattutto riflette una visione diversa e dimostra come al caravaggismo si sia sostituito un nuovo ideale cultu- rale, del tutto antagonistico; non è infatti difficile rico- noscere nella Vergine che appare a San Bruno un’eco ben distinta della Vergine che offre la pianeta a Sant’Idelfon- so di uno dei «sordini» della Cappella Paolina in Santa Maria Maggiore. Sia quest’affresco tutto del Reni o, come è piú lecito supporre, in parte del Lanfranco, è cosa che per il momento non interessa, ché si vuole qui porre l’accento sul fatto di come il Vouet aderisse alla separazione degli stili, scegliendo cioè per una rappre- sentazione sacra quello che si può chiamar di diritto lo «stile illustre» col tributare un deliberato omaggio ad un tipo di visione che, proprio nella Cappella Paolina, aveva
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avuto la sua consacrazione ufficiale. Ma anche nei
riguardi dell’affresco reniano il quadro di San Martino rappresenta un ulteriore passo avanti su quella strada per la quale insensibilmente si inoltrava in quegli anni la pit- tura e se ne differenzia quindi soprattutto, direi, nella destinazione. Il forte sott’in su del Sant’Ildefonso è giu- stificato dalla posizione elevata dell’affresco e la scena della miracolosa apparizione ha luogo nella penombra segreta di un oratorio privato, animata discretamente dal lucido riflesso delle sete e dal morbido luccichio delle pesanti frange dorate, fra preziosi arredi sacri, in un clima di austera ricchezza che nobilita l’estasi del Santo composto nel gesto rituale con le mani protese, ceree, di una florida eleganza episcopale e dove tutto riflette, esemplarmente, quel gusto di Paolo V di cui sopra si è fatto cenno. Il sott’in su e la decisa composi- zione diagonale dell’Apparizione a San Bruno ha invece un significato diverso e, rispetto al gusto della Cappel- la Paolina, nuovo; un significato che direi psicologico, quasi presupponesse uno spettatore inginocchiato, in basso, sotto l’altare, e il Santo fosse come il tramite, il legame umano fra lui e la divina apparizione che divie- ne cosí «apparizione» anche per lo spettatore-devoto. Al fasto severo e discreto, venato di un casto e patetico classicismo, che emana da quel momento dell’arte che Paolo V consacrò nelle due cappelle di Santa Maria Maggiore e del Quirinale agli inizi del secondo decen- nio del secolo, si costituisce un’espressione piú vistosa, indubbiamente meno colta, vorrei dire piú propagandi- stica e popolare. Di questo nuovo aspetto dell’arte sacra, e qui torna a proposito il termine, il quadro del Vouet non è che un riflesso, anche se un riflesso esemplare, e per ritrovar- ne le origini è necessario risalire qualche anno addietro e riportarsi alla persona che, in quella direzione, ebbe maggior peso in Roma: Giovanni Lanfranco. Non a caso
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della parte superiore dell’affresco di Sant’Ildefonso è
facile sospettare, e ne parlano due autorevoli fonti del Seicento, la presenza del pittore di Parma, che avrebbe sostituito un angelo di Guido con la Vergine che repen- tinamente si affaccia fra le nubi in un turbinoso flut- tuare di anni, e va ricordato come il Reni, alieno dalla ricerca di effetti e di contrasti drammatici, di lí a poco togliesse il campo per «tornarsene in patria a godere la sua quiete e la sua libertà». Anche l’elegante classicismo cattolico che Guido aveva portato alle sue conseguenze piú sottili e raffinate rischiava di condurre ad uno splen- dido isolamento, come del resto fatalmente accadde di fronte all’affermarsi di uno stile piú ricco di effetti e che consentiva una comunicazione piú immediata ed effica- ce con la massa dei devoti. In il senso Lanfranco dove- va risultare, all’evidenza, piú moderno. Nato nel 1582, apparteneva ancora alla generazione degli sbandati, poi- ché aveva passato la sua giovinezza nel momento piú acuto del dissidio fra classicismo carraccesco e naturali- smo caravaggesco, militando nella schiera del primo, giovanissimo, alla scuola di Agostino e poi di Annibale in Roma e non restando del tutto insensibile ai richia- mi del secondo. Ma sin da quando lavorava sotto la guida di Annibale a Palazzo Farnese, dipingendo nel camerino degli Eremiti, il Lanfranco, nemmeno venti- cinquenne, dimostrò una notevole indipendenza men- tale, posando piú decisamente l’accento sul dato d’am- biente e particolarmente sul paesaggio, con una ric- chezza di motivi naturalistici che evitavano ogni luogo comune del paesaggio classicheggiante, per ricercare aspetti piú crepuscolari e selvaggi della natura, [enun- ciando cosí una fantasia romantica e inquieta che era certo un’incrinatura in quel mondo sereno, ineffabile, di calma e dorata luce autunnale che emanava dall’atmo- sfera carraccesca, di Annibale in particolare. E dimo- strava la sua indipendenza anche nel concepire piú dram-
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maticamente la scena, conferendo un rilievo maggiore
all’azione dei personaggi che vivono nella luce crepu- scolare di quell’ambiente con un gestire ansioso, momen- taneo, irrequieto. Ma quando, lasciata Roma alla morte di Annibale, vi ritornò alla fine del 1612, lo stesso anno in cui vi giunse il Berrettini, dopo un soggiorno a Parma che fu ancora come un bagno nell’atmosfera corregge- sca e gli fruttò un proficuo contatto con lo Schedoni, ma soprattutto gli fece conoscere certamente le opere che sulla fine del primo decennio Ludovico Caracci aveva dipinto nel Duomo e nel Palazzo vescovile di Piacenza, il nuovo quadro che dipinse, La Madonna e Santa Tere- sa per la Chiesa di San Giuseppe a Capo le Case, dimo- stra quanta strada avesse fatta nel frattempo verso un’e- spressione nuova e diversa, anche se, purtroppo, non cosí alta pittoricamente, quanto quella del suo primo sensibilissimo momento romano. La piccola chiesa delle monache carmelitane di Capo le Case ospitò allora un quadro che certamente piacque piú dei suoi meriti; non stupisce quanto afferma il Pas- seri che «acquistossi il Lanfranco in Roma per quest’o- pera fama grandissima». La scena si svolge fra le nuvo- le che si aprono come quinte teatrali e alla Santa Mona- ca inginocchiata nel gesto della piú umile devozione si rivolge la Vergine, circondata dalla luce di una gloria celeste. «Lanfranco fu il primo a dilucidare l’apertura di una gloria celeste con la viva espressione di un immen- so splendore luminoso» (Passeri). Quanto accade è chia- ro e semplice nel suo effetto, ma irreale e improbabile, come una scena teatrale recitata da personaggi simboli- ci e umanamente inesistenti che nessun elemento richia- mi alla quotidiana realtà. Nel suo deciso sott’in su, nella proporzione stessa delle figure, nel predisporsi a quinta delle nubi, il dipinto ha un suo punto di vista preciso e fa parte di un insieme per il quale è calcolata la pro- spettiva ed ogni altro effetto pittorico; un insieme del
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quale l’altare è parte integrante, il fastoso altare baroc-
co ideato come un palcoscenico ricco e dorato, con la scena elevata, piú alta degli spettatori, ove quanto acca- de non si svolge al loro livello, non è un riflesso, tra- sposto in termini sacri, di una realtà visiva conosciuta o anche immaginata, ma soltanto un simbolo chiaro e tan- gibile che li sovrasta, l’ultimo appiglio del visibile alla devozione popolare e, data la natura di quella devozio- ne, il piú efficace. È chiaro come la rappresentazione miri ora soprattutto a colpire le reazioni sentimentali dello spettatore: reazioni, sarei per dire, già in prece- denza calcolate perché, essendo comuni a tutti gli spet- tatori cosí come all’artista stesso, costituiscono i carat- teri distinti di una determinata società. Una tale teori- ca degli affetti che identificava comunicazione e per- suasione fa supporre che l’artista, in questo caso il Lan- franco, considerasse le sue facoltà espressive in funzio- ne della disposizione sentimentale, e in particolare reli- giosa, del pubblico al quale erano destinati i suoi dipin- ti ed è solo sotto questo aspetto che va inteso il sugge- rimento della società contemporanea, cioè della classe dominante, che mai come allora era stata sollecita di per- suadere. Un suggerimento quindi che deve intendersi piuttosto come uno spontaneo asservimento dell’arte ai fini del ceto colto dominante del cattolicesimo romano, una vittoria di questo sulla libertà dello spirito, sí che il modo di intendere la religione era ormai lo stesso sia nella curia che negli studi e gli artisti l’avevano assorbi- to con i piú elementari principi della loro educazione, complementare e indissolubile dai principî generali della cultura media seicentesca. Questi elementi collocano la pala d’altare del Lan- franco, nella vicenda della pittura del Seicento, in un punto molto distante non solo dal caravaggismo (e seb- bene tale affermazione sia cosí evidente da parere super- flua, si pone qui soltanto perché non piú di due anni
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prima, nel 1611, il Lanfranco aveva tributato un certo
omaggio al caravaggismo nel San Luca del collegio nota- rile di Piacenza, che rifletteva chiaramente la composi- zione del San Matteo della cappella Contarelli), ma anche da ogni altra corrente contemporanea, quella tutta nar- rativa dei toscani per esempio, cosí come da quello che era stato il modo di rappresentare di Annibale Carrac- ci, nei cui quadri di altare la scena si svolgeva, per cosí dire, al livello dello spettatore, ove ogni gesto, ogni per- sonaggio, ogni oggetto e il paesaggio con la sua partico- lare atmosfera sempre diversa ma dolcemente evocativa del reale, richiamavano incessantemente ad una misura umana, ad un mondo di echi conosciuti e familiari. Una ricerca invece cosí diversa di effetti e quindi di scopi, che denota anzitutto la netta separazione degli stili per la quale si giunge ad un particolare modo di intendere il quadro sacro, pone la pala d’altare del Lan- franco all’inizio di una nuova espressione figurativa in Roma e potrà stupire che ciò accada cosí presto, nel 1613 o poco dopo, a soli tre anni dalla morte di Anni- bale e di Caravaggio, quando il diretto insegnamento dei due maestri era ancora vivo e operante. È certo che in quel momento il Lanfranco ci appare come una figura isolata dalle correnti contemporanee e, per quel che riguarda la sua influenza, se ho accennato ad un evidente riflesso sul Vouet, non voglio dire con questo che essa fosse decisiva per la storia della pittura degli anni suc- cessivi in Roma. Infatti non si tratta qui di ricercare la vicenda di un trasmettersi di modi pittorici, quanto di indagare sul fatto del mutarsi della visione, cioè del modo di rappresentare, riconoscendo in quel mutamen- to il riflesso di una concezione artistica sostanzialmen- te popolare, che dimostra cioè di raccogliere i suggeri- menti della classe dominante, indubbiamente sollecita ora di trovare una via di comunicazione visiva con le grandi masse. È in questo senso che un quadro come la
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Santa Teresa del Lanfranco apre chiaramente la via all’ar-
te sacra barocca quale si andrà delineando appunto per trionfare, poi, anche se con modi pittorici differenti e per mezzo di nuovi artisti, nei decenni successivi. È logi- co d’altra parte che un modo diverso di immaginare, di rappresentare, di comporre, portasse anche ad un modo diverso di dipingere e che le opere successive del Lan- franco, le piú tarde soprattutto (perché cosí come il Vouet dopo il San Bruno non mancò di tornare talvolta su temi caravaggeschi, anche il Lanfranco, dopo il ritor- no da Parma ritrovò, a Sant’Agostino per esempio, il romantico naturalismo degli anni giovanili), siano l’in- dice di una crisi nella storia della pittura. Una crisi note- volmente importante e che ci riporta, ma con piú pre- cisione, ad esemplificare una delle coppie di concetti del Woelfflin. Ecco infatti un fare indubbiamente piú affrettato, un pennelleggiare rapido, corsivo, talvolta persino sciatto, che collega rapidamente la composizio- ne cosí spesso diagonale e di sott’in su delle masse con tratti lunghi a striscio, evitando di soffermarsi su parti- colari o di insistere su elementi naturalistici. Una pittu- ra da nuvole o da apparizioni, fugace, mobile, illusiva. Una luce che non è mai la luce familiare dell’alba, del meriggio, della sera, ma che si affida alla trasfigurazio- ne momentanea e irreale di una perturbazione metereo- logica per rappresentare una atmosfera soprannaturale e piove obliqua sulle figure mettendone in rilievo rapida- mente i tratti essenziali. Un modo per allontanarsi anco- ra di piú dalla concezione anatomica dell’arte, dal culto del disegno come conoscenza, e se a quel mondo con- chiuso, seguace della norma, già Caravaggio aveva infer- to il piú valido colpo in nome dell’apparenza reale delle cose, lo si abbandonava ora, piú facilmente, in nome di una loro apparenza irreale per la ricerca di una illusiva, miracolistica trasfigurazione.
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L’affermarsi di modi cosí omogenei d’intendere la
raffigurazione religiosa farebbe supporre che a comin- ciare dal secondo decennio del Seicento si addivenisse ad una netta separazione degli stili. E cosí fu in un certo senso, perché alcuni fra gli impulsi piú vitali della vicenda pittorica dei decenni precedenti, come il natu- ralismo, continuarono a manifestarsi nei «generi», che rispondevano alle esigenze dei raccoglitori e dei com- mittenti, fossero essi nobili o semplici «amatori». Ma non si trattava di un differenziarsi dell’espressione pit- torica a seconda dei contenuti, quanto di un sopravvi- vere di antichi insegnamenti in nuove concezioni che, proprio perché avvilite al ruolo di «arti minori» in quel- la condizione dell’economia artistica che rifletteva la struttura gerarchica degli stati cattolici, non tardarono ad avvilirsi realmente col proseguire degli anni, dopo qualche episodio luminoso di felice aderenza alla realtà o di trasfigurazione poetica, a quel ruolo di diverti- mento cui la società le condannava. Il caso dei «bam- boccianti» e del loro progressivo declino può conside- rarsi esemplare, la posizione isolata in un tempo ideale di Claudio Lorenese il piú nobile esempio. A giustifica- re invece l’universalità espressiva dell’arte barocca è necessario considerare come questa alimentasse la pro- pria immaginazione attingendo ad un altro aspetto della cultura della classe dominante contemporanea; un aspet- to che potrebbe chiamarsi laico, se si dà alla parola un semplice valore formale, ma che nasceva dal medesimo ambiente che propagandava quel sentimento religioso, o meglio quel modo tutto pratico d’intender la religio- ne cui si è fatto cenno. A semplificare le cose quell’a- spetto della cultura seicentesca si potrebbe individuare, sintetizzando, in una particolare inclinazione verso il classicismo. Quando si parla di classicismo del Seicento si allude quasi sempre genericamente al classicismo bel- loriano, teorizzante sull’imitazione e sull’idea, che era
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invece soltanto un aspetto di una tendenza piú vasta e
generale. Ma da tale tendenza scaturivano anche rifles- si di carattere piú pratico e attivo che non l’idealismo classicista e che, come tali, per la possibilità cioè di un immediato e diretto rapporto con gli artisti, interessa- no piú da vicino la nostra indagine. Per attenersi al regi- stro dei tempi, se già verso il ’20 si erano concretate le meditazioni dell’Agucchi sulle opere di Annibale e di Domenichino, esse dovevano avere un’importanza soprattutto letterario-artistica, cioè libresca e intellet- tuale e uno sviluppo piú tardo ampliato dall’opera del Bellori, mentre la loro interferenza sulla pittura si limitò all’appoggio di tendenze già esistenti che furono valo- rizzate soprattutto nel momento di maggior potere del- l’Agucchi, durante il breve pontificato di Gregorio XV, o ad una qualche influenza sulla generazione dei bolo- gnesi posteriore ad Annibale. Ma intorno al ’20 e nei decenni successivi era ben radicato nella cultura roma- na un classicismo che aveva modo di esprimersi non solo teoricamente, e che deve intendersi come l’emana- zione di un eterno classicismo della cultura italiana e la sua modificazione al fuoco degli istinti e della comples- sa psicologia del nuovo secolo. Costituiva infatti uno degli interessi dominanti della società colta di allora e assumeva una sua particolare fisionomia seguendo le disordinate aspirazioni della curiosità seicentesca. Il movente non era quello della ricerca formale di un cano- ne, di una regola assoluta per le «arti del disegno», ma piuttosto una ricerca di contenuto accompagnata a un desiderio di conoscere, come se il fine fosse quello di arricchire il repertorio delle nozioni sull’antichità, di catalogarne le vestigia, illustrarne i suoi usi e costumi: in fondo un’embrionale archeologia. Un’archeologia però ove l’obiettività scientifica era quasi del tutto soffo- cata da un soggettivismo nostalgico e irrequieto, ove la smania di conoscere sostituiva al metodo una sorta di
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fanatismo, ove i risultati eran travisati, deformati,
distorti dalla stravagante erudizione di una società che voleva modellare sull’immaginaria perfezione e virtú di un mondo irrestituibile una propria retorica grandezza. Era un’inclinazione che può intendersi anche come cul- tura, poiché ha lasciato le sue positive conseguenze in opere e in fatti nella preistoria di quella scienza piú moderna che è appunto l’archeologia; ma era soprattut- to una moda, un diffuso costume intellettuale, perché si propagò ben presto nell’ambito della classe dominante, che non tardò a sostituire, con naturale processo, all’im- pulso del conoscere quello del possedere. Il classicismo, o per meglio dire l’interesse per l’antichità classica, divenne, come si direbbe oggi, l’hobby dei nobili e dei ricchi piú coltivati, formando un elemento essenziale del loro gusto di collezionisti e interferendo cosí anche sulla loro funzione di committenti di arte moderna. Fatto senza alcun dubbio che va tenuto nel debito conto poi- ché abbiam visto come l’arte avesse abbandonato in quegli anni le vie piú difficili della libera ricerca per ade- guarsi alle esigenze della società in cui viveva, fornen- dole i modi di rappresentazione piú adatti anche per illu- strare i vani sogni della sua fantasia. Secondare in que- sto caso la sua nostalgia di favole antiche, solleticarne l’ambiente esaltandone la potenza con invenzioni alle- goriche che la rapportavano alla sancita grandezza del- l’antichità, soddisfarla nella sua sete di conoscenza di antichi costumi. L’ambiente ove si coltivava piú attivamente e positi- vamente tale inclinazione per l’antichità e che nell’am- bito di una cultura sia pure spesso approssimativa for- niva le nozioni, sarei per dire la materia prima, a un tale diffuso costume intellettuale, era quello dei «virtuosi», fossero essi scienziati o poeti che spesso facevano pro- fessione di «antiquari» e avevano intorno a loro un numeroso seguito di «dilettanti» e di «amatori». Uomi-
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ni di piccola nobiltà e di qualche rendita o semplice-
mente borghesi che vivevano ai margini della corte pon- tificia, spesso segretari o bibliotecari di famiglie princi- pesche, «letterati» quindi come principale occupazione. Nel quadro della società seicentesca essi si possono con- siderare gli esponenti della media cultura e rappresen- tano l’anello di collegamento fra gli artisti e le grandi famiglie dei committenti. Nutrivano per l’arte un amore indubbio e costante, talvolta fanatico e paradossale, non esente da lunatiche stranezze, ma sempre vivo perché trovava modo di esprimersi praticamente in un continuo rapporto con gli artisti e con le opere, il che li induceva a preferire all’attività dello scrivere e del teorizzare – anche se talvolta scrissero e teorizzarono – quella del conoscere e del raccogliere. Furono infatti conoscitori, fra i primi nel senso moderno della parola, e collezioni- sti indubbiamente specializzati, coi loro singolari musei che erano il frutto tangibile di una appassionata e curio- sa erudizione. Giano Nicio Eritreo nella sua «Pinaco- teca» ce ne ha lasciato dei ritratti estremamente vivi che ce li fa distinguere, per la loro particolare psicologia, fra la folla di caratteri disordinati, squilibrati, pazzeschi, dei letterati e dei filosofi che vivevano nelle stamberghe, nelle suburre o nei palazzi della Roma seicentesca. Siano essi personalità ben note come Giulio Mancini o Cas- siano dal Pozzo, o meno note come Lelio Guidiccioni, «dilettante» e poeta del seguito del cardinal Scipione Borghese e poi del cardinal Antonio Barberini, amico dei fratelli Sacchetti, che aveva in Piazza di Spagna «dot- tissima libraria e bellissimi quadri», o Leonardo Ago- stini, antiquario senese, amico del cardinal Francesco Barberini, piú tardi «Antiquario Pontificio» e «Com- missario delle Antichità di Roma e del Lazio» e che aveva un «Museo vario di statue e marmi antichi» in via della Madonna di Costantinopoli, o Marzio Milesio Sarazano e Ludovico Compagno «li quali sapevano per
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lunga pratica dar giudizio dell’anticaglie delle quali have-
vano in casa loro fatto un gran cumulo» o Ferrante Carlo, amico del Lanfranco, o Francesco Angeloni, col- lezionista di disegni di Annibale, tutti pateticamente si affaccendavano intorno alle cose dell’arte, coltivando quasi senza eccezione un erudito amore per l’antichità, e mantenendo contemporaneamente un diretto rappor- to di amicizia con gli artisti cui fornivano gli elementi della loro cultura sia con la quotidiana frequentazione sia con lo stimolo pratico costituito dai loro musei che diventavano quasi insensibilmente le nuove accademie del Seicento. Erano invero musei particolari, che derivavano il loro carattere da una ricerca di contenuti e non di forma e che aspiravano alla funzione di repertori, assomiglian- dosi in qualche modo agli odierni musei didattici. Vole- vano essere il riflesso di determinate ricerche, il risultato tangibile di uno specializzato interesse storico e cultu- rale e rispecchiavano in questo il carattere sperimenta- le della nuova scienza naturale seicentesca. Si affianca- vano infatti a quelle curiose raccolte di botanica, mine- ralogia e zoologia che riunivano gli esempi piú rari repe- ribili dei tre regni della natura, stanze gremite di ogni curiosità ove cristalli di quarzo e blocchi di pietre dure erano posati accanto a capricciose conchiglie gigantesche portate da qualche missionario di ritorno dalle Indie Orientali, fra gusci di testuggini, fossili e denti di nar- valo, sotto l’immobile navigazione aerea dei coccodrilli impagliati appesi al soffitto. E soprattutto disegni o tempere che riproducevano fenomeni fisici, animali rari, costumi dissueti, fiori e piante, accanto a manoscritti di segreti medicinali o industriali e via dicendo. Talvolta l’interesse artistico si accompagnava a quello scientifico nella medesima persona di un collezionista, ed ecco quel- le stesse stanze cariche di pittoresche suppellettili natu- rali animarsi per la presenza piú umana di quadri e di
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statue in una interrotta contiguità tipica del carattere di
quelle straordinarie Wunderkammern seicentesche. Di conseguenza l’antichità classica vi era rappresentata con lo stesso spirito repertoriale con statue, frammenti di bassorilievi, calchi e disegni dall’antico, lapidi, iscrizio- ni trascritte in gran copia, gemme, piccoli bronzi di uso comune, si ché il risultato era certo piú utilitario, cioè didattico, che spettacolare, tanto che il piú famoso di quei musei, quello di Cassiano dal Pozzo, del quale il Poussin confessava di essere alunno, non era certo cosí grandioso quale può apparire a dare ascolto ai panegiri- ci contemporanei, limitandosi soprattutto, per merito di quella che si chiamerebbe oggi una ben organizzata cam- pagna fotografica, attraverso copie disegnate dalle anti- che vestigia, a creare come il repertorio delle usanze reli- giose, militari, civili del mondo classico. Per conferire maggiore concretezza anche cronologi- ca all’indagine intrapresa, nel precisare il riflesso che tali manifestazioni di un attivo classicismo ebbero sull’arte contemporanea, converrà fissare per un momento l’at- tenzione su Cassiano dal Pozzo. Questi fu senza dubbio la persona di maggior rilievo di quella tendenza e, anche per la sua elevata posizione sociale, ebbe un notevole influsso che cominciò ad esercitarsi molto presto. Sap- piamo infatti dagli scritti di Giulio Mancini che già prima del 1624 era in rapporto con Pietro da Cortona e possedeva alcune sue opere; prima quindi della missio- ne in Francia e in Ispagna intrapresa col cardinal Fran- cesco Barberini che gli fruttò, durante una sosta ad Avi- gnone, un primo incontro col Peiresc, venuto apposta da Aix per salutare il cardinale, incontro narratoci per este- so dal Gassendi e che fu certo di grande stimolo e orien- tamento al nobile piemontese, che forse da allora, sul- l’esempio dello scienziato provenzale, indirizzò i suoi interessi alla formazione del noto museo, costituito in anni piú tardi. Comunque, ancor prima di quel viaggio,
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il Dal Pozzo era già concretamente indirizzato nella sua
formazione intellettuale. Giunto a Roma nei primi anni del secondo decennio del Seicento – era nato nel 1588 – si legò di amicizia con Alessandro Orsini, fratello di Paolo duca di Bracciano, con Virgilio Cesarini, con Francesco Barberini, allora abate, con Federico Cesi, e, prima ancora del ’20 con Alessandro Tassoni, frequentando l’Accademia degli Umoristi in casa di Paolo Mancini e associandosi nel 1622 all’Accademia dei Lincei. Fece quindi parte del gruppo di punta dell’intelligenza della nobiltà romana di allora, alimentando anche un indubbio rapporto con alcu- ne delle correnti piú vive della cultura seicentesca. Edu- catosi in quell’ambiente egli mise a fuoco i suoi interes- si indirizzandoli soprattutto verso la conoscenza del- l’antichità classica, argomento dal quale fu costante- mente attratto per tutto il corso della sua vita. Dai pochi elementi che possediamo possiamo dedurre come il suo classicismo seguisse un determinato percorso che con- duceva fatalmente a quell’austero rigore formale che ci è testimoniato indirettamente anche dal parallelo svol- gersi stilistico dell’amico Poussin. Rigore che sembra anticipare le posizioni del Milizia in pensieri, per esem- pio, come quello riferitoci dal Dati, che piú volte l’a- vrebbe sentito esclamare: «È una grande onta per il nostro secolo che potendosi ammirare tante belle idee, tanti bei modelli lasciati dagli antichi nei loro edifici, Sia permesso tuttavia che per il capriccio di certi professori che vogliono allontanarsi dal gusto antico l’architettura retroceda verso la barbarie. Non è cosí che procedette- ro il Brunellesco, il Bonarroti, Bramante, il Serlio, il Pal- ladio, il Vignola, e gli altri restauratori di quella grande arte, che trassero dalle misure degli edifici romani le vere proporzioni da quegli ordini regolari dai quali non è permesso allontanarsi senza seguire una falsa strada». Le sue idee erano certo piú temperate nel secondo decen-
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nio e agli inizi del terzo, quando, prima ancora dell’arri-
vo a Roma del Poussin, conobbe Pietro da Cortona. Pensieri come quello ora riportato – ove è chiara l’al- lusione al Borromini e che denunciano piuttosto l’in- terferenza del Dati e la cultura degli anni in cui il pane- girico fu scritto – sono certo posteriori a quel tempo e riflettono un totale riconoscimento di ogni perfezione nella regola classica, che induceva alla considerazione pessimistica dei moderni rispetto agli antichi. Non era certo quella la posizione del volonteroso «commenda- tore»: un sincero entusiasmo lo spingeva verso gli arti- sti moderni e l’abbrivo ideale alle sue ricerche sull’anti- chità era dato dalla fiducia che la conoscenza degli anti- chi giovasse al moderni, non tanto come repertorio di regole formali quanto come arricchimento ed elevazio- ne della cultura dell’artista per raggiungere quella «subli- mità» di contenuti verso la quale la classe dirigente indi- rizzava la rappresentazione. Bisogna pensare che in que- gli anni il Dal Pozzo era ancora fresco delle discussioni con Alessandro Tassoni che gli avrà sostenuto piú volte, con argomenti estrosi e bizzarri, le tesi del libro X dei suoi «pensieri diversi», cioè la superiorità degli ingegni moderni sugli antichi; e se Cassiano si sarà opposto piú volte al suo vivace interlocutore rimproverandolo di una cultura sull’antichità del tutto approssimativa e dilet- tantesca, certamente condivideva con lui l’entusiasmo per il proprio tempo. Si aveva il coraggio, allora, di sen- tire la propria civiltà come civiltà esemplare accanto a quella antica e non v’è dubbio che nella corte pontificia a cominciare da Paolo V e soprattutto sotto Urbano VIII, l’assolutismo cominciasse a creare, nonostante le diversità di struttura economica e politica, quella esal- tazione di se stesso che caratterizzò piú tardi la Francia di Luigi XIV, che a sua volta l’impose all’Europa. Quando nelle sue case di via della Croce e poi di Sant’Andrea della Valle, Cassiano dal Pozzo cominciò
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a raccogliere marmi e calchi in gesso di cui riempiva le
stanze, i corridoi, i cortili, i solai, seguiva già quel prin- cipio che avrebbe intensificato negli anni seguenti con la raccolta dei grandi libri di disegni dall’antico affida- ti soprattutto al Testa, il principio cioè di raccogliere, in originali o in copie «tutto quel di buono – sono sue parole del 1654 – che habbi osservato tra marmi e metal- li che fossero capaci di suggerir qualche notizia riguar- devole dell’antico». Ma tale intento positivo di preli- minare archeologia celava in sé una contraddizione ideo- logica all’iniziale spunto scientifico e razionalista, la convinzione cioè che quelle notizie servissero agli arti- sti moderni, contribuendo ad elevare e nobilitare lo stile e i «pensieri», a fornire argomenti adatti ai sentimenti, direi piuttosto agli atteggiamenti, della società contem- poranea. In quel processo in atto della separazione degli stili per cui la rappresentazione religiosa o di «historia» doveva muoversi in un’atmosfera non contaminata dal riflesso di una realtà quotidiana, nella ricerca quindi di un mondo i cui personaggi vivessero solo la vita astrat- ta di una impersonificazione e ove quei dati sentimen- ti, coi quali essi dovevano «persuadere» ed elevare gli spettatori, erano connaturali alla essenza loro, insepa- rabili dalla loro stessa sostanza, l’antichità classica sop- periva proprio per i suoi costumi lontani dalla realtà, per il naturale processo di idealizzazione cui, da anni, era fatta segno. La separazione dell’espressione artistica dalle circostanze della vita giornaliera, o umano-creatu- rale come direbbe l’Auerbach, si andava attuando in modo mai prima di allora cosí radicale e Cassiano dal Pozzo, che nonostante i suoi punti vivi apparteneva alla classe dominante, sentiva come la ricerca di sublime, di nobiltà, di grandezza che mimetizzava gli aspetti nega- tivi di quella classe, potesse attingere dalla conoscenza capillare e quantitativa delle arti figurative antiche i propri argomenti.
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In questo senso la figura di Cassiano dal Pozzo, per-
sona prima del classicismo archeologico seicentesco, attraverso i vitali rapporti che sempre mantenne con gli artisti contemporanei assume una particolare importan- za nello svolgimento delle arti figurative e non è diffi- cile ritrovarne un po’ ovunque i riflessi. Tra i primi cro- nologicamente sono quelli appunto che illuminano la formazione mentale e stilistica di Pietro da Cortona, per diffondersi poi, col trascorrer degli anni, e seguendo quello sviluppo verso un puristico rigore formale cui si è fatto cenno, ad altre persone e altre tendenze. Per restare al giovane Berrettini, basti pensare alle copie che egli fece, con uno spirito suggerito sicuramente dagli insegnamenti dell’archeologo piemontese, dai rilievi della Colonna Traiana che restarono fondamentali sia per la sua concezione compositiva sia per la determina- zione dei tipi fisici dei suoi personaggi. Era in tal modo, comunque, che lo spirito classico, nella precisa accezione che andava assumendo in quegli anni, si metteva al servigio delle aspirazioni idealizzan- ti e retoriche della società, accompagnandosi, renden- dosi anzi complementare, alla nuova propagandistica psicologia religiosa e giustificando cosí l’unità di stile delle varie rappresentazioni di quell’età. Se non si con- sidera la situazione della società romana quale essa era a cominciare dai primi decenni del Seicento, quando paragonandosi a suo modo alla grandezza degli antichi richiedeva che l’esaltazione della sua struttura gerarchi- ca e assolutista si rispecchiasse nelle rappresentazioni dell’arte, e se non si considera altresí che essa era lon- tana dal possedere la solidità politica e il consenso di quella francese del gran secolo ma ne condivideva sol- tanto, in anticipo, le aspirazioni e gli aspetti esteriori, in altre parole la presunzione di grandezza, non sareb- be possibile rendersi conto delle vie per le quali la cul- tura classicheggiante era tratta al suo servizio e di come,
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anche per quel tramite, l’esaltazione e la retorica baroc-
ca potessero risplendere in un’epoca che sotto tanti aspetti e in tanti campi del pensiero, della filosofia, della scienza presenta il contrasto di una mentalità razio- nalistica, fornisce addirittura gli elementi primi di una moderna razionalistica metodologia. Il fatto è che nasce- va in quegli anni un’arte ufficiale, starei per dire un’ar- te che aveva l’investitura dalla ragion di stato, che era l’espressione di una parte ben distinta della società, la quale esercitava funzioni storicamente molto meno importanti di quello che volesse far presumere con l’e- saltazione del suo prestigio. Dal carattere particolare di quella minoranza, dal suo ideale di vita, trae origine la moda delle forme barocche e iperboliche, nonché la spiegazione del radicale rifiuto del realistico e del quo- tidiano. E in tal ordine di fatti operava il classicismo sei- centesco, collaborando alla ricerca di modi espressivi adeguati e ad una adeguata sublimazione dei pensieri e dei sentimenti, molto diverso quindi dalla pura imita- zione formale dell’antichità che il senso umanistico ali- mentava ancora nel secolo XVI.
Pietro da Cortona educò la propria immaginazione e
trovò la via per esprimersi tra le circostanze ora accen- nate, e le considerazioni sin qui fatte di come l’inclina- zione per l’arte e la maniera di concepire un quadro sacro o profano andassero mutando dal tempo di Paolo V in poi, si riferiscono in modo esemplare alla forma- zione del Berrettini quale ci è manifestata dalle sue prime opere. Esse ci testimoniano una singolare aderenza a quel- l’insieme di fatti che costituiscono la fisionomia intel- lettuale della classe dominante romana, una risposta adeguata alle sue aspirazioni. Cresciuto nella particola- re atmosfera creata dal sentimento religioso di quell’ul- timo atto della Controriforma, educato al nuovo gusto
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del classicismo, docilmente proclive a riconoscere i valo-
ri che si attribuiva l’autorità costituita, il Berrettini non tardò ad affermarsi nell’ambiente di Cassiano dal Pozzo, di casa Crescenzi, ove conobbe il Marino, e soprattut- to presso i fratelli Sacchetti, i suoi effettivi mecenati, che erano allora in piena ascesa sulla strada del potere economico, sociale e politico. Un gruppo notevole delle sue opere, che possono datarsi con sicurezza prima del 1624, cioè dipinte anco- ra sotto Paolo V e durante il triennale pontificato di Gregorio XV, affermano chiaramente l’inizio di un’e- spressione nuova, mostrandosi sostanzialmente diverse, a prescindere da ogni considerazione qualitativa, dalle manifestazioni artistiche contemporanee. Indirizziamo il nostro esame ad una qualsiasi di esse, per esempio al grande Sacrificio di Polissena dipinto per i Sacchetti, che si può datare, con presunzione di esattezza, in un tempo molto vicino al 1620. Le considerazioni fatte sinora sui limiti del realismo posti all’arte trovano qui l’esemplifi- cazione dei loro precisi motivi. È evidente, in un dipin- to come questo, la consapevole intenzione di escludere dalla scena ogni accenno ad una realtà quotidiana, di spogliare i personaggi di qualsiasi riferimento ad una umanità reale. Un tale processo di separazione delle immagini non solo dalle circostanze della vita giornalie- ra, ma anche da ogni rapporto con la individualità sen- timentale dello spettatore, è certamente nuovo per que- gli anni. Negli stessi mesi forse in cui il Cortona conse- gnava il dipinto ai Sacchetti, Simon Vouet lavorava nel suo studio intorno alle Tentazioni di San Francesco com- messogli per una chiesa di Roma, San Lorenzo in Luci- na, e immaginava la scena in un ambiente estremamen- te «vissuto» e reale, la camera da letto di un buio palaz- zotto romano ove un mozzicone scoppiettante di candela posato su un tavolo illumina con bagliore discontinuo gli stipiti in marmo della porta, la cornice del quadro alla
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parete, gli alari d’ottone del camino, il letto disfatto,
mentre tra i veri carboni accesi sparsi sui mattoni del pavimento avanza la solida figura della cortigiana discin- ta. E se questo richiamo ad una realtà vivente, piena di riferimenti al quotidiano, ci riporta agli epigoni dello spi- rito caravaggesco deviato verso la narrazione ambienta- le, non è men vero che l’esclusione di ogni motivo rea- listico da un quadro come il Sacrificio di Polissena postu- la una sua novità anche di fronte a manifestazioni arti- stiche ben lontane dal caravaggismo, di fronte cioè a quelle stesse che erano fra le piú ammirate per il loro idealismo. Prendiamo ad esempio un dipinto che Guido Reni dipinse nello stesso limitato giro di anni, il Nesso e Deianira ora al Louvre, databile appunto del 1621. Qui la composizione stessa, che segue come una traiettoria in movimento dallo sfondo, ove è la figura di Ercole, verso lo spettatore, posto in un punto ideale al quale sembra voler approdare Nesso nella sua disperata fuga, mi sembra voglia coinvolgere chi guarda nella momen- tanea attualità del dramma che la scena illustra: coin- volgerlo nel tempo e nello spazio del dipinto, in una con- temporaneità ideale con quanto sta accadendo davanti a lui, al suo livello, si che par di toccare il petto di Nesso solo alzando il braccio verso la tela, che il piede di Deianira, in atto di scendere, venga a posarsi sul nostro stesso spazio, oltre la cornice, e tutto è cosí vici- no da rapirci per un attimo nell’illusione di una realtà tangibile, anche se nessun elemento vuol richiamarla ai dati consueti e quotidiani. La favola diviene, cosí, viva e vera come erano «vere» le uve di Zeusi; e pur nella mancanza di ogni riferimento a luoghi attuali e cono- sciuti di una storica esperienza, la luce di una sera vio- letta che si riflette sulle nubi frastagliate dal crepuscolo della luna invisibile, la deserta riva boscosa, il silenzio delle acque scure e profonde del fiume che il centauro rompe in brevi frangenti, misteriosamente, per via di
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ne visiva che tocca le corde piú individuali dell’imma- ginazione e della memoria. Nel Sacrificio di Polissena invece la scena è come iso- lata e in sé conchiusa e non offre alcun riferimento all’e- sperienza individuale dello spettatore, ne per via reali- stica ne per via sentimentale. I personaggi sono privi di ogni attualità umana, gli stessi accenni a un ambiente naturale, cioè il «luogo» ove accade il fatto, fanno parte di un repertorio appena variabile che «decora» ogni quadro di questo periodo del Cortona: cipressi, templi, arche, querce, obelischi. Alberi convenzionali, edifici convenzionali, indispensabile e convenzionale cornice alla scena, necessari solo a nobilitarla con gli attributi di una convenuta e immobile classicità. In questa sublimità chiusa e isolata si svolge la «historia» e i personaggi anch’essi vestiti dell’immutabile aspetto che è conferi- to dagli attribuiti desunti dal classicismo, si atteggiano nei gesti piú adatti al loro ruolo ed esprimono le loro passioni. Neottolemo è l’immagine ideale del Re, Polis- sena quella della vittima innocente, spersonalizzati, distanti da ogni modello vivente cosí come è lontana dalla vita quotidiana la favola che rappresentano; il dolo- re della madre è tragico e sublime e lo stesso carnefice nel gesto di uccidere è privo di ogni «volgare» trucu- lenza. I personaggi indispensabili all’azione, ministri, familiari, sacerdoti, nei loro attribuiti desunti dal reper- torio classico, sono egualmente impersonali e dignitosi, sciolti dall’impaccio di ogni richiamo al presente perché i sentimenti che agitano il presente sono al di sotto della rappresentazione, non si convengono alla sua nobiltà esemplare e didattica che si svolge in un’atmosfera asso- luta, mitica, non determinabile sulla terra. La cornice del quadro viene cosí a identificarsi idealmente con i limiti di un palcoscenico che separa la finzione dalla vita e il rapporto tra la scena e chi guarda viene ad essere lo
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stesso, compositivamente e prospetticamente, che inter-
correrebbe fra una scena teatrale e lo spettatore. È necessaria a questo proposito un’osservazione sulla com- posizione e soprattutto sui suoi limiti, cioè su quale sia il suo rapporto spaziale con la cornice del quadro. In un quadro caravaggesco il nero del fondo su cui campeg- giano le figure è inteso come uno spazio entro il quale vive idealmente anche chi guarda il quadro, come se la scena si svolgesse nella stessa stanza ove sono i riguar- danti, sí che la fonte luminosa che investe i personaggi, rivelandoli contro quel fondo nero, è quasi sempre «fuori del quadro» in un immaginato spazio reale che coinvolge attori e spettatori. La cornice che inquadra la scena viene ad essere cosí come idealmente abolita per- ché vuol coincidere, con le necessarie limitazioni, con quella stessa del campo visivo di chi guarda. L’illusione di un legame spaziale fra scena dipinta e realtà esiste anche nella cosí detta corrente classicista seicentesca, e i Carracci sin dal tempo degli affreschi nel palazzi Fava e Magnani, usarono abbondantemente gli espedienti della composizione trasversale cinquecentesca, trasfe- rendola nella luce «vera» e nell’ambiente sempre indi- viduato delle loro storie, per indicare una prospettiva spaziale estranea alla cornice, una profondità nella quale si snodava la rappresentazione prolungata idealmente anche verso lo spettatore. La cornice non coincide mai coi limiti spaziali del dipinto ma, per così dire, ne taglia la scena da uno spazio piú vasto e sfogato. Qui invece nel Sacrificio di Polissena la composizione è in funzione dell’azione principale, posta al centro, e le figure, tutte in primo piano, come sul proscenio, si dispongono su di un semicerchio appena accennato i cui punti estremi laterali vengono a coincidere perfetta- mente con gli angoli inferiori della cornice del quadro. Una composizione quindi estremamente semplice e fron- tale, che conchiude l’azione in se stessa in uno spazio
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ben determinato, estraneo, per cosí dire, a chi guarda e
deliberatamente fittizio. E non è difficile riconoscere in tale procedimento compositivo i motivi piú determi- nanti della cultura del Berrettini; prima di tutto la sua cultura classica, che superava un semplice entusiasmo psicologico per gli aspetti esteriori dell’antichità, ma ne assorbiva piuttosto i figurativi procedimenti piú essen- ziali, ripetendo la composizione frontale dei bassorilie- vi, che concentrava ogni elemento sull’azione, svolta tutta in primo piano, in uno spiegamento in superficie che lasciava allo sfondo la semplice funzione di indi- spensabile commento scenico. E ciò coincideva anche con gli scopi proposti all’arte di «persuadere», cioè di insegnare, elevando gli spiriti con la dignità e la esem- plarità della rappresentazione, posta in una atmosfera ideale, isolata, classica, ove il ritegno, la grandiosità del gestire, la convenzionale nobiltà dei personaggi, riflet- tevano le relazioni rigidamente regolate dal costume e dall’educazione, l’arte del viver sociale, la presunzione di dignità e di grandezza della classe dominante con- temporanea. A illuminare i procedimenti di codesto atteggiamento mentale del Cortona si presta in modo particolare un dipinto databile degli stessi anni, tra il ’20 e il ’22 all’incirca, il Giuramento di Semiramide della collezione Mahon di Londra, anche perché offre l’occa- sione di un significativo confronto con le redazioni quasi contemporanee dello stesso raro soggetto dovute al Guercino (Dresda) e al Tiarini (Roma, Doria). Il sog- getto relativamente inedito nei primi anni del Seicento, non offrendo i modelli di una precedente tradizione ico- nografica dava libero campo alla fantasia rappresentati- va degli artisti, che potevano fissare cosí le immagini suscitate in loro direttamente da un brano di Ctesia, di Erodoto o di Diodoro fornito da qualche «virtuoso». E salta subito agli occhi come l’invenzione del Cortona si distingua nettamente da quelle piú intime, piú dimesse,
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dei due artisti bolognesi che, non a caso, avevano posto
l’accento sul lato piú gentile del carattere di Semirami- de, sul clima patetico dell’episodio, inquadrando piut- tosto l’interno della stanza della regina circondata dagli attributi della sua femminilità. Il Berrettini invece ha colto il momento eroico e melodrammatico della vicenda, immaginandola come su un proscenio, sullo sfondo di generiche quinte classiche dove Semiramide, fra il silenzio delle comparse, davan- ti al messo inginocchiato, sembra nell’atto di declama- re il suo giuramento in versi alessandrini, patetica e sublime come le eroine di Racine. Tali considerazioni, che potrebbero riferirsi ad ogni opera di Pietro da Cortona, dagli stupefacenti affreschi di Palazzo Mattei, precocissima manifestazione di imme- diatezza pittorica barocca, sino agli affreschi con le sto- rie di Santa Bibiana che rappresentano la sua prima affermazione pubblica di qualche risonanza, ci fanno comprendere i motivi essenziali della novità dei suoi modi espressivi, quella novità che fu subito riconosciu- ta dai contemporanei tanto da far dire al Passeri che, al suo apparire, «fece mutar la faccia allo stile del dipin- gere». Esse però mancherebbero di completezza se non si accompagnassero ad altre che riguardano la sua tec- nica e quindi la sua esperienza pittorica. Si è visto ora come, nel concepire una composizione, egli ricorresse alla cultura classica soprattutto per creare l’atmosfera piú adatta alla «sublimità» del soggetto; come in altre parole, il suo classicismo non si limitasse a desunzioni formali e stilistiche, o addirittura alla preferenza per determinati soggetti, suppellettili o costumi, ma lo sov- venisse piuttosto nella ricerca di un’espressione nobile ed elevata che fosse in armonia con l’elevatezza e la nobiltà espressiva che si riconosceva all’arte romana antica. Da un punto di vista formale il suo classicismo era meno evidente e si afferma già in questo rapporto la
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fisionomia del classicismo barocco. Se si considera che
l’unica esperienza dell’arte classica era fornita dalle scul- ture, non si ritrova nel suo stile nulla di fermo, di trop- po disegnato, in altre parole di «statuino», nulla di quel- la forma conchiusa, di quel disegno preciso, di quell’il- lusiva evidenza statuaria delle figure che erano i mezzi con cui, fin dal primo decennio, il Domenichino perse- guiva il suo sogno ingenuo, nostalgico di classicità, che concretò in un tono medio, fra il popolare e il colto, il quotidiano e il sublime, il vero e l’idea, trasportandolo in un mondo cordiale, dolcemente velato di affetti cono- sciuti e umani, di sentimenti gentili che non passano mai i limiti del dolore pietoso e compunto, della tenerezza o della docile cristiana rassegnazione. In confronto a tale classicismo dei bolognesi, del Domenichino o dell’Al- bani, pei quali il miraggio della grandezza antica si con- cretava su una variante del naturalismo di Annibale, nel purismo di una materia compatta, ma vera e vicina, i primi dipinti del Cortona si differenziano sostanzial- mente, rifiutando quella corporeità dolcemente illusiva che era ancora un tributo all’individuazione umana, a suo modo naturalistica, dei personaggi. Di diversa natu- ra era la sua «verosimiglianza», perché relativa alla rigi- da separazione del suo stile da ogni riferimento al quo- tidiano, relativa a quel luogo ideale, rialzato e isolato, ove i personaggi recitano la loro parte. Una verisimi- glianza che nasce soprattutto dalla coerenza del rappor- to visivo fra figure e ambiente, dall’unità della rappre- sentazione, che non vuol distrarre lo spettatore col par- ticolare o con elementi troppo individuati, ma apparire subito, nel suo insieme, nell’essenzialità della scena, fis- sata cosí nella momentaneità del suo apice drammatico con i soli elementi necessari ad una immediata perce- zione. Di qui una pittura libera, disciolta da ogni reali- stica precisione, immediata, che non insiste piú su una figura che su un’altra, piú sul primo piano che sullo
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sfondo, che non indugia sull’illusione visiva dei parti-
colari, ma che si diffonde con la luce, imparzialmente, per tutta la superficie del quadro, creando quella veri- simiglianza atmosferica che era il vero segreto dei vene- ziani cosí vanamente inseguito nei primi anni del Sei- cento. Anche in questo senso il Cortona afferma la sua priorità per una strada che ebbe tanto sviluppo negli anni seguenti del secolo; e anche per questo sarà bene seguirlo ancora una volta nel corso delle vicende del- l’arte contemporanea. Di che natura, per un artista educato in Roma, pote- va essere tra il secondo e il terzo decennio del Seicento la propensione verso la pittura veneziana? È necessaria un’osservazione preliminare: quanto prima si è detto della composizione in funzione di una «sublimità» espressiva che era il risultato di un particolare atteggia- mento mentale e di una particolare disciplina estetica, di quella concezione cioè di un rappresentare dissocia- to da ogni rapporto con la vita, non trova un letterale appoggio nelle teorie del tempo e nell’estetica corrente dei committenti. Anzi, le lodi dei contemporanei di fronte alle prime opere del Cortona si saranno fondate quasi certamente su espressioni quali «naturalezza», «verisimiglianza», «evidenza della natura accompagna- ta dallo studio» e simili. Può sembrar quindi logica con- seguenza che a quell’empirica esigenza del verisimile, a quella ricerca di unione tra composizione, disegno e colorito riflessa, in quei medesimi anni, dalle conside- razioni sulla pittura di un «dilettante» quale il Mancini e che certamente, piú delle teorie sull’imitazione «idea- le» anticipate dall’Agucchi, doveva essere la moneta corrente negli studi e nelle accademie dei pittori in Roma, dei toscani soprattutto, la pittura veneziana offrisse il seducente appiglio della «naturalezza». E se ancora nel terzo decennio del Seicento un uomo di gran- de esperienza, come appunto il Mancini, non condan-
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nava i tardi manieristi tipo il D’Arpino con la decisio-
ne che fu invece dell’Agucchi, ma si limitava, con bona- rio buon senso, ad accusarli di scarsa osservanza del vero, è logico pensare che un artista di una generazione piú giovane e che non condivideva con l’Agucchi l’a- stratto entusiasmo per il classicismo del Domenichino – ed è il caso di Pietro da Cortona – sentisse maggior- mente il vuoto di quella mancata osservanza del vero e cercasse di ovviarvi in nome di una naturalezza che, come abbiam visto, non poteva esser nemmeno il vero di natura caravaggesco. Per dar vita e verisimiglianza a quel mondo fittizio, a quel sublime teatro di affetti che gli suggeriva la fantasia a soddisfazione di quelle istan- ze sociali cui si è fatto cenno, la classica naturalezza veneziana era il coefficiente ideale. È certo questa una constatazione a posteriori, che possiamo fare noi oggi, ché le ragioni della propensione verso la pittura vene- ziana non si saranno configurate in tal modo nella mente del Cortona. Penso invece di non discostarmi troppo dal vero nell’immaginare i suoi pensieri in proposito, fin dal tempo in cui frequentava l’accademia in casa di Baccin da Barga o prima ancora: quando, giovinetto, accompa- gnava il suo buon maestro Andrea Commodi a visitare lo studio del Passignano e lo trovavano addosso alle grandi tele destinate alla cappella Barberini di Sant’An- drea della Valle, intento a rabescare le sagome d’oro sul bianco del damasco o a iridare le sete di qualche brivi- do di luce nella Presentazione al tempio; e mentre lavo- rava lo ascoltavano parlare, senza che per altro si distraesse da quella sua meccanica applicazione, dell’a- bilità di Paolo Veronese nel dipinger le stoffe e di come le sue opere piú di altre l’avessero sedotto al tempo del suo viaggio nella Repubblica per la piacevolezza del colorito e la nobiltà dell’invenzione. Oppure in circo- stanze poco diverse avrà pensato ancora ai veneziani osservando i dipinti del Cigoli ove, oltre al consueto
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omaggio tessile a Paolo, un tentativo di fondere i colo-
ri nell’atmosfera si risolveva spesso soltanto in un neb- bioso sfumato. Vennero poi gli esempi piú decisivi e cal- zanti, le piú profonde emozioni. Erano le opere che Annibale aveva lasciato in Roma, traduzioni lombarde di pensieri veneziani che lo portarono a comprendere, con mente piú aperta, ciò di cui prima aveva solo senti- to parlare: il paesaggio tizianesco, i problemi della tra- sparenza del lume naturale e della prospettiva aerea, della verisimiglianza degli atteggiamenti, del calore vita- le che l’immediatezza degli impasti conferiva all’incar- nato e gli rendevano piú profittevole la suggestione dei pochi originali allora visibili: un Tiziano (vero o falso) o un Tintoretto o un Bassano sbirciato di straforo sulle pareti di un salone, quando non si trattava di sugge- stione indiretta, quale ad esempio poteva giungergli da qualche rametto dello Scarsellino che certamente gli sarà venuto tra le mani. Ma non dimentichiamo che sin dal 1608, sul maggior altare di una chiesa di Roma, tre grandi quadri addita- vano, a chi l’intendesse, un nuovo modo d’apprendere la lezione di Venezia. Erano i Rubens della Chiesa Nuova, ove la florida naturalezza di Paolo Veronese, la sua felicità serena e maestosa, sbocciava inattesa nella greve atmosfera dell’agiografia contro riformista, ger- mogliando con insospettata freschezza dai succhi piú densi, direi sanguigni, celati sotto la verde scorza del solido tronco fiammingo ed espandendosi con violenza improvvisa per le grandi superfici dipinte. Nei quadri laterali lo spazio sembra vibrare e dilatarsi per accoglie- re le gigantesche figure che lo occupano in tutti i sensi con l’eloquenza solenne del loro gestire e sfogarsi poi liberamente nella fuga prospettica della gloria angelica centrale ove i raggi della luce divina, che partono da un punto focale cosí alto e lontano da suggerire una profon- dità infinita, irrompono per i fessi delle nubi e tra i corpi
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degli angeli in controluce, disposti in una vorticosa con-
tinuità. Un complesso come questo che, nel tempo, sta esattamente a mezza strada fra il Paradiso di Tintoret- to e la cupola di Lanfranco a Sant’Andrea della Valle, verso il 1620, dopo circa 15 anni, era maturo per dare i suoi frutti. Per il tramite di quella partecipazione vita- le ad una felicità fisica, corporea, cosí tangibile e illusi- va, si intravvedeva il lato drammatico della visione lumi- nosa veneziana tradotta nel linguaggio piú adatto agli scopi spettacolari del cattolicesimo romano. Era un esempio che rimase in serbo per molto tempo nell’absi- de della chiesa dei Filippini, ma che cominciò a frutta- re in quegli anni, accendendo di suggestioni, è facile immaginarlo, la mente di giovani come il Bernini o il Cortona o il Sacchi. V’era poi, s’è già detto, l’esempio, piú vicino nel tempo, di un pittore «lombardo», il Lan- franco, che certamente deve aggiungersi, come stimolo, agli altri suggerimenti per una pittura libera, aerea, di luminosità drammatica e spettacolare se non altro per quella sua particolare e riconosciuta propensione a dipinger «glorie celesti». Senza contare che il Lan- franco stesso, rielaborando in senso moderno remini- scenze correggesche, indirizzava in quegli anni le sue ricerche nella direzione che l’avrebbe portato di lí a poco, tra il ’25 e il ’28, a concepire il vortice di nubi e figure della cupola di Sant’Andrea della Valle, la prima cupola «barocca». Del resto, anche nel nitido campo del classicismo cri- stiano, all’ombra delle candide bandiere del Reni e del Domenichino, qualche fermento indicava come il vento che andava raccogliendo all’orizzonte le nuvole immi- nenti del Barocco già si annunciasse penetrando tra que- gli spalti ben muniti. Quasi insensibilmente cominciava a toccare di un lieve brivido le superfici troppo terse, a muover l’aria intorno alle forme statuarie, a scherzare tra i morbidi capelli degli angeli, a scomporre le barbe
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fluenti dei patriarchi. E se nello Zampieri, piú restio ai
nuovi tempi, non registreremo che una lieve alterazio- ne in quel suo statico equilibrio formale rappreso nel- l’aria ferma, soprattutto nella tribuna di Sant’Andrea dove le figure sembrano agitarsi oltre il consueto in un’atmosfera piú mossa, nell’Albani quel vento sembra portare un rinnovato romantico amore per Tiziano, piú valido e moderno di quello che spinse, anni prima, il Domenichino al freddo omaggio tizianesco del San Pie- tro Martire di Bologna. Ma nel Reni il presentimento dei tempi nuovi trovò un animo piú sensibile, vorrei dire indifeso. Un’interna metamorfosi, quasi una nascosta sottile malattia, sembra corrodere la levigata purezza di cammeo delle sue forme, rendendole larve luminose intorno alle quali l’atmosfera vibra di un fremito invi- sibile. La tavolozza crea i rapporti piú morbidi e legge- ri, le composizioni si dilatano, aeree e inconsistenti, non tanto perché viste attraverso il velo dell’aria ma per- ché assottigliate nella loro stessa materia, rese senza peso pur conservando intatto il disegno della castigata eleganza formale. A tutto ciò si aggiunge, dopo il ’21, un avvenimento che costituí l’occasione propizia a rendere piú attuale e concreta l’intelligenza della pittura veneziana. Un fatto che può paragonarsi a ciò che fu, piú di un secolo prima, la scoperta del Laocoonte. Il canone questa volta non giungeva dal sottosuolo né da epoche tanto rémote. Erano i Baccanali di Tiziano, giunti a Roma da Ferrara dopo la morte di Pietro Aldobrandini, passati successi- vamente nella collezione di Ludovico Ludovisi e visibi- li nella sua villa dei Giardini di Sallustio. Era l’avvio definitivo a quel movimento neo-veneziano, individua- to per la prima volta da Roberto Longhi, che unì intor- no a sé negli anni successivi una pleiade di artisti, dal Poussin al Duquesnoy, al Castiglione al Testa e al Mola ed è lecito supporre che, prima ancora dell’arrivo del
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Poussin, il Cortona, preparato dall’atmosfera propensa
al fascino della pittura veneziana cui si è fatto cenno, fosse tra i primi ad approfittare della lezione. Il destino volle che fossero opere, e tra le piú belle, della felice gio- vinezza del Tiziano quelle che furono esposte all’ammi- razione degli artisti romani del terzo decennio e non opere della sua dorata vecchiezza che piú si sarebbero prestate forse a servire da ponte fra la libertà ariosa della pittura veneziana e il nubiloso, miracolistico Barocco. Ma ciò poté accordarsi col sentimento di rinnovato clas- sicismo dei nuovi seicentisti, animandolo della grazia ineffabile di una fresca e luminosa pittura; e i risultati furono appunto quelli di una felice e colorita naturalez- za che diede vita alla cultura classicheggiante scancel- landone i segni dell’archeologico tirocinio. Tutte queste strade, fossero esse sentieri incerti e appena tracciati, viottoli tortuosi e campestri o larghe vie maestre, segnavano variamente il terreno confuso e tormentato della cultura pittorica romana del secondo e del terzo decennio del secolo e, a chi guardi col dovuto distacco quella complessa pluralità di fatti e di tenden- ze, indicavano chiaramente che il loro percorso, sia che si intrecciassero tra loro o seguissero un cammino paral- lelo o divergente, conduceva in ogni caso verso una medesima direzione. Non soltanto cioè esse si allonta- navano da ogni contatto con la vita reale, con la circo- stante condizione umana, ma abbandonavano anche i territori del classicismo piú individuale e romantico cosí come quelli del classicismo piú ingenuo e diligente. Si allontanavano soprattutto da ogni concezione «ravvici- nata», particolareggiata, della rappresentazione ed erano caratterizzate da un nuovo ritmo di visione e di conce- pimento, un ritmo piú affrettato, per una visione piú generale e immediata, per un concepimento piú sinteti- co e corsivo, in altre parole piú spettacolare. Nell’am- bito di questo impulso fecero la loro parte anche i Bac-
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canali Ludovisi (e fu una parte indubbiamente positiva)
ed ebbe vita il movimento neo-veneziano. In un ambien- te ove le suggestioni culturali avevano un peso determi- nante, illuminate come erano dal riflesso dilettantesco di un particolare atteggiamento «letterario» verso il pas- sato, quando le nozioni dell’antica grandezza si compi- tavano avidamente sui pezzi raccolti nei nuovi «musei» dei virtuosi, il tizianismo venne provvidenzialmente ad aggiungersi ai suggerimenti dei bassorilievi romani e a fornire cosí la materia prima per ritrovare quella tecni- ca pittorica libera, a macchia, quella immediatezza e freschezza di scrittura verso la quale si indirizzava la nuova espressione. Quindi anche quando sotto il triennale pontificato del Ludovisi gli orientamenti autorevoli dell’estetica indicavano la meta del piú rigoroso classicismo, quando sembrava che gli affreschi di Domenichino a San Luigi dei Francesi dovessero considerarsi il paradigma della vera pittura, il Cortona non guardò che distrattamente a quei ben costrutti teatrini ove gli attori non riusciva- no a nascondere la loro individuale umanità dietro la mimica cordialmente bolognese degli affetti, si limitò a notarne gli accorgimenti dello scenario classicista, quel- l’ideale ricostruzione di strade o d’interni di città impe- riale, attratto Piuttosto da altri fatti che si svolgevano in Roma in quegli anni, quali potevano essere, ad esem- pio, quelli suscitati dal passaggio del Guercino o di Gio- vanni da San Giovanni; il primo a Roma tra il ’21 e il ’23 e il secondo tra il ’23 e il ’25. Fatti di natura diver- sa, ma che gli offrivano un punto di comune interesse proprio perché indicavano possibili strade per il rag- giungimento di un’espressione pittoricamente libera, disciolta dagli impacci formali del disegno classicista fresca e immediata. Del Guercino vide subito nel 1622, è piú che lecito supporlo, almeno la Gloria di San Criso- gono (oggi a Lancaster House) commissionata da Sci-
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pione Borghese per l’omonima chiesa di Trastevere e
posta al centro del soffitto della navata; Jacopo Ales- sandro Calvi ci tramanda anzi, senza citare la fonte «...trovo memoria che Pietro Berrettini da Cortona non potea saziarsi di contemplarla e la celebrava con somme lodi». Senza dubbio comparava mentalmente quel super- bo squarcio di cielo tempestoso rotto dal bagliore di un lampo di luce ove le nubi sembrano correre col loro carico di figure irrequiete, ad un altro soffitto che era lì a pochi passi, oggetto delle piú alte lodi da parte dei con- temporanei, quello di Santa Maria in Trastevere, dove il Domenichino, fin dal 1617, su commissione del Car- dinal Pietro Aldobrandini, patrono allora dell’Agucchi, aveva innalzato una sua Vergine in gloria su nuvole gon- fie e compatte come sacconi imbottiti (i bracci degli angioletti vi segnano l’ombra) contro il telone ben teso di un cielo tersissimo, statuaria, freddina quale un buon compito di devoto classicismo raffaellesco. Non so se già nel ’22 poté fare un simile paragone, per lui tutto a van- taggio del giovane pittore di Cento, fra l’Aurora del casino Ludovisi e quella che Guido Reni aveva dipinto dieci anni prima nel casino del Cardinal Scipione Bor- ghese a Montecavallo, perché non son certo che, alme- no in quegli anni giovanili, avesse la possibilità di entra- re nei due palazzi, ma gli bastò Per intender quel momento felice del Guercino la Gloria di San Crisogo- no e la gigantesca tela per San Pietro con i Funerali di Santa Petronilla che vide un anno dopo, davanti alla quale avrà inteso però in qualche modo il disagio inci- piente di una crisi espressiva. Del suo bizzarro connazionale, Giovanni da San Gio- vanni, vide piú opere, ché piú ne lasciò in pubblico nelle chiese di Roma e a qualcosa poterono ispirarlo, almeno per procedimenti tecnici, gli affreschi dei Santi Quattro Coronati, finiti nel ’24, dipinti cosí velocemente, con tanta fresca immediatezza, con un senso compositivo
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moderno, molte volte grandioso; ma l’urtava certamen-
te il tono poco serio della rappresentazione, lo spirito grottesco, scanzonato, irrispettoso addirittura, con cui risolveva alcuni passi della narrazione. Passavano cosí gli anni del breve regno del vecchio pontefice bolognese e l’egemonia dell’avido Cardinale Nepote, passava il momento di fortuna insperata del buon Domenichino, della quale era artefice soprattutto l’Agucchi, segretario di stato e ritenuto non a torto dal- l’ambasciatore veneto «il principal ministro che oggidì si trovi in palazzo»; passava l’ultima ondata d’infatua- zione per i bolognesi e con essa quel momento di entu- siasmo retrospettivo, astratto e libresco, cristallizzato entro la teoria accademica del bello ideale. Artisti piú giovani, e fra essi Pietro da Cortona, prendevano chia- ramente partito per una nuova espressione annuncian- dola, decisamente, con nuove opere. Intorno al 1620 Gian Lorenzo Bernini collocava nel giardino di villa Montalto, pel cardinal Alessandro Peretti, il gruppo stu- pendo di Nettuno e Tritone (oggi al Victoria and Albert Museum di Londra) investito in pieno da un vento mari- no che sembra spazzare ogni indugio di preziosa ricer- ca alessandrina, di cesellato verismo. Lo scultore, poco piú che ventenne, andava già concludendo la ricca e compiuta esperienza dei suoi anni giovanili, che ecce- zionali doti di natura e studio incredibile avevano con- dotto al termine piú alto della perfezione tecnica, tale che chiunque avrebbe considerato il punto di arrivo di tutta una vita. Tra gli alberi ormai secolari di villa Mon- talto sul mobile riflesso d’una fontana, la figura di Net- tuno che scavalca Tritone è animata da una vita parte- cipe della natura circostante; la superficie marmorea vibra a contatto dell’atmosfera e sembra respirare attra- verso la scabra porosità; le forme, come investite dal vento dell’aperto mare, sono segnate con ombre improv- vise ed essenziali; gli occhi, aggrottati dalla gran luce,
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sono due segni neri sotto le sopracciglia intrise di spruz-
zi salmastri, i capelli e la barba una massa appena accen- nata scomposta dal vento. Si concluderanno poi nel giro brevissimo di anni, se non di mesi, le ricerche preziose nelle stanze del casino campestre del Cardinal Scipione Borghese, ove la fredda materia del marmo statuario è trasfigurata dalla tecnica perfetta che illude nella soda elasticità delle carni, nella morbidezza dei capelli, nella frusciante freschezza delle foglie, persino nella traspa- renza delle lacrime; ma quella prima esperienza di scul- tura en plein air affrontata con tanta geniale consapevo- lezza della destinazione sarà certo fondamentale e non tarderà a dare i piú fantastici frutti. Un altro artista della nuova generazione, Andrea Sac- chi, comincia, sotto il pontificato di Gregorio, a dar prove di sé dipingendo, poco dopo il ’22, la pala per Sant’Isidoro, ove mostra di guardar Lanfranco piú dei bolognesi, ma soprattutto di esser conscio della nuova tendenza neo-veneziana, per quella semplicità tizianesca di partiture tonali che infondono un tono vibrato e caldo al dipinto ed animano del bagliore dorato di un tardo tramonto estivo la consueta atmosfera crepusco- lare, che si indugia all’orizzonte secondo i canoni bolo- gnesi. Di Pietro da Cortona e del suo apporto nell’am- bito della nuova generazione s’è già detto e ciò basterà a dare un quadro di come sí configurasse lo schieramento delle forze piú giovani negli anni tra il ’20 e il ’21. E tra l’altro, fenomeno conseguente e secondario, a renderci noto il nuovo aspetto di cui si vestiva lo spirito classi- cista. Dico questo perché soltanto la conoscenza del- l’atmosfera in cui sbocciava in quegli anni una nuova cultura figurativa può darci pienamente ragione delle origini di quel classicismo seicentesco quale nel corso del secolo si impersona soprattutto nella figura del Poussin. E in questo caso, a parte la componente già nota del neo-venezianesimo e l’apporto dei Baccanali tizianeschi,
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non v’è dubbio che una parte fondamentale spetti a
Pietro da Cortona. Un dipinto come il suo Trionfo di Bacco già dei Sacchetti ora alla Capitolina può conside- rarsi infatti un archetipo del nuovo classicismo seicen- tesco. Essendo ricordato dal Mancini nella prima vita di Pietro da Cortona scritta quando quest’ultimo lavorava a Santa Bibiana, cioè non prima della fine del ’24, molto presumibilmente nel ’25, anno in cui gli affreschi della chiesa erano quasi giunti a termine, il quadro era già in casa Sacchetti prima di quell’anno e quindi penso sia logico porne la sua esecuzione anteriormente all’inizio dei lavori di Santa Bibiana, anteriormente quindi all’an- no, il 1624, nel quale il Poussin giunse a Roma. Non si può negare che il Trionfo di Bacco si distacchi per qual- che novità di stile – concepimento compositivo e modi pittorici – dal gruppo pur cosí ristretto delle opere gio- vanili del Cortona al quale tuttavia appartiene, sí che vien fatto di datarlo dopo gli affreschi della galleria Mattei, il Sacrificio di Polissena e quelle opere – come la Semiramide Mahon e la Nascita della Vergine di collezio- ne romana che ad esse strettamente si accompagnano. La differenza potrebbe sintetizzarsi in un piú attento se non proprio rigoroso indirizzo classicista. Alla vaga reminiscenza del Trionfo di Bacco e Arianna di Anniba- le della galleria Farnese si sovrappongono piú tangibili le conseguenze del lungo tirocinio sull’antico e lo svol- gimento compositivo del gruppo di figure in primo piano che corre per tutta la superficie del dipinto è concepito come un fregio o un bassorilievo romano. Non v’è dub- bio che un quadro siffatto, per la particolare maniera di attingere alla cultura classica, nell’accezione tutta sei- centesca di cui si è già detto, immergendola in un’at- mosfera neo-tizianesca, dovette servire al Poussin di prezioso orientamento, e penso che in questo senso debba intendersi il rapporto fra i due artisti e non nel senso opposto, attribuendo cioè quel leggero divario fra
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il Trionfo di Bacco e le opere precedenti del Cortona
all’influsso del giovane classicista francese, il che ci costringerebbe fra l’altro a datare il dipinto almeno del 1625, forzando cosí fino al limite estremo il termine «ante quem» posto dalla citazione del Mancini. Biso- gnerebbe inoltre immaginare un Poussin che fosse giun- to a Roma già avviato per la strada del classicismo molto piú di quanto in realtà non potesse essere, sfavorito in questo dalle evidenti circostanze che avevano invece favorito il Berrettini che aveva potuto dedicare anni e anni della sua giovinezza allo studio dell’antico. È coin- cidenza significativa che il Poussin, appena a Roma, fu accolto nell’ambiente dei Sacchetti che lo presentarono al cardinal Barberini. E le due Battaglie che, a detta del Bellori, dipinse ancor sconosciuto dopo la partenza del suo protettore per le legazioni della pace del 1625, e delle quali, sempre secondo il Bellori, ricavò soltanto sette scudi l’una, le Vittorie di Giosuè sugli Amalachiti e gli Amoriti oggi a Leningrado, risentono piú di Pietro da Cortona e del suo classicismo libero e pittoresco che non dello studio, piú volte ricordato, nell’Accademia del Domenichino. Comunque, delle nuove tendenze, seppe trarne par- tito il nuovo Pontefice, Maffeo Barberini, che salí al trono il 9 agosto del 1623, col nome di Urbano VIII. Se non vera, la frase di Urbano a Gian Lorenzo Bernini, riportata da Filippo Baldinucci è certo storicamente esatta: «È gran fortuna la vostra cavaliere, di veder papa il cardinal Maffeo Barberino; ma assai maggiore la nostra che il Cavalier Bernino viva nel nostro pontifi- cato». Essa illumina chiaramente l’importanza che sarà data, negli anni a venire, alle nuove tendenze dell’arte.
Nella primavera del 1626, il giorno in cui si tolsero i
palchi dalla stretta navata, nella chiesetta di Santa Bibia- na, Pietro da Cortona non aveva ancora compiuto
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trent’anni. Era quello per lui un giorno importante ed
importante senza dubbio anche per la vita artistica della Roma seicentesca. L’inevitabile confronto col Ciampel- li, che aveva dipinto la parete opposta entro il medesi- mo partito decorativo, era il piú adatto a mostrare il distacco fra due generazioni e, soprattutto, la grande novità dello stile di Pietro. A detta del Passeri, il Ciam- pelli, fiducioso della sua passata fortuna, rideva del nuovo collega e lasciava intendere agli amici che il Papa gli aveva dato per competitore un fagiolo ma che egli avrebbe durato poca fatica a mangiarselo. Naturalmen- te sbagliava di grosso e se ne accorse appena il pubbli- co poté giudicare. La patetica storia dell’eroica fanciul- la cristiana, recitata in costumi traianei con sublime gestire e appassionati atteggiamenti, fra il decoro di pesanti costruzioni imperiali che dovevano sembrare assai verosimili, nel mezzo di una selva di suppellettili classiche, quali fasci littori, insegne, armi, elmi, schi- nieri, tripodi, selle curuli, vasi lustrali, statue bronzee e marmoree, il tutto adoperato però con una tale sicura naturalezza («scimus mendacia dicere multum verisimi- lia») cosí connaturale ai personaggi e alla scena da eli- minare ogni apparenza di posticcio e pericoli dell’eru- dizione archeologica, esclusi del resto anche dalla calda spontaneità dell’afflato drammatico, sembrò cosa stu- pendamente nuova in confronto al noioso racconto del Ciampelli, di un tono ormai tanto familiare ai romani per la sua invincibile parlata fiorentina, per cui tutto era toscano, i costumi, le architetture, il sarcofago, il gesti- re stesso dei personaggi. Da quel giorno si può dire che la fama del Cortona fosse saldamente stabilita. La potenza della famiglia committente, i Barberini, l’autorità dei suoi diretti pro- tettori, i Sacchetti, il momento di notorietà che toccò in quegli anni alla chiesetta di Santa Bibiana per le cure dedicategli dal nuovo Pontefice e il geniale restauro
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architettonico del Bernini che nel ’26 collocava sull’al-
tare la florida statua della Santa atteggiata in lieve deli- quio, la sua prima importante commissione per un’ope- ra religiosa, erano tutti elementi che ponevano il Ber- rettini in una posizione di primissimo piano fra i pitto- ri contemporanei. Aveva legato il suo nome a quello del Bernini come esponente, in pittura, della nuova tendenza appoggiata dal Pontefice e la stima e i consensi che ne derivavano lo inducevano a guardare con fiduciosa certezza verso l’avvenire. Era giunto il suo momento, e se considera- va quanto andava accadendo in Roma in quegli anni non mancava di rendersi conto di essere in una posi- zione estremamente vantaggiosa, anche nei confronti di artisti pur tanto superiori a lui in fama per i molti suc- cessi conseguiti durante i regni dei precedenti pontefi- ci. Vedeva giungere alla Trinità dei Pellegrini, da Bolo- gna, la grande pala d’altare del famosissimo Guido com- messa ancora da Ludovico Ludovisi, assisteva al disco- prirsi, in Sant’Andrea della Valle, dei peducci con gli apostoli del Domenichino, ma riteneva quelle opere superate oramai per i nuovi compiti e sentiva di poter fare qualcosa di piú moderno, di piú adatto ad accen- dere l’ammirazione dei committenti. Poteva anche ritornare il Reni in persona, come ritornò infatti nel ’27 per la quarta volta, ma sapeva che non avrebbe piú tro- vato un ambiente adatto per lui, ed indovinava, ché in quel suo soggiorno Guido patí non poche amarezze. Era il momento degli artisti piú giovani e Urbano VIII pensando a riprendere, con grandiosi progetti, i lavori in San Pietro, allogava al Bernini appena venticin- quenne il gigantesco Baldacchino, deliberava di deco- rare le nicchie dei piloni e di sistemare nuovi altari. Molti lavori si annunciavano: fra l’altro i Barberini ave- vano comprato proprio in quegli anni (precisamente nel ’25) il palazzo degli Sforza alle Quattro Fontane e anda-
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vano progettando una grandiosa e ricchissima costru-
zione. Col successo, quindi, non mancava il lavoro e furo- no infatti per lui, quelli a partire dal ’26, anni di inten- sa attività. Fra le varie opere che in quel tempo felice dipinse per la galleria dei Marchesi Sacchetti, quella di maggior impegno e che gli fruttò di conseguenza mag- gior fama fu senza dubbio il Ratto delle Sabine che, a distanza di poco piú di cinque anni, accompagnava la tela di analoghe dimensioni del Sacrificio di Polissena. Il modo di rappresentare, di concepire visivamente una «historia», non è diverso, nel Ratto, da quello che era alla base del Sacrificio e che a tal proposito si è analiz- zato, ma il breve lasso di tempo che intercorre fra i due dipinti era stato messo a gran profitto dall’artista per arricchire i propri mezzi espressivi. Vorrei affermare che il 1629 – in tale anno suppon- go sia stato dipinto il Ratto delle Sabine – segna, per merito appunto di quel quadro, una data fondamentale nella storia della pittura del Seicento fornendoci la prima spettacolare dichiarazione dei metodi del Barocco roma- no in pittura. La composizione, pur rimanendo con- chiusa entro i limiti «scenici» della cornice che in uno spazio ideale e in un mondo fittizio la isolano da ogni realtà contingente, si arricchisce, in confronto al Sacri- ficio di Polissena, di drammatici contrasti di azione, si anima straordinariamente al soffio di una patetica e vitale agitazione che vibra, con timbro sonoro, entro i termini della sublime teatralità del Barocco. Tutto si muove, vive, palpita, fissato con rapida immediatezza pittorica nel bagno di una luce che investe, mobile essa stessa, i personaggi determinandoli nell’attimo del dram- matico avvenimento. Pur rimanendo quello spiegamen- to dell’azione in superficie, come sul proscenio, quel concepire a guisa di altorilievo romano già notato a pro- posito del Sacrificio, arricchito però qui da quinte suc-
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cessive che giungono sino a un quarto piano di lonta-
nanza, non v’è piú traccia di simmetria nel raggruppa- mento delle figure che sono disposte secondo un anda- mento centrifugo, estremamente movimentato e del tutto nuovo. L’apparente disordine però è sapiente- mente calcolato e segue all’evidenza lo schema compo- sitivo di una diagonale che occupa circa un terzo del dipinto, formata dai due gruppi in primo piano a destra (si veda il pentimento del braccio della donna sollevata dal guerriero, corretto per accompagnarne l’andamento e sottolineato dalle figure del secondo piano), anda- mento equilibrato, a sinistra, dal gruppo verticale del rapitore e della rapita, accentuato a sua volta dalle colon- ne del tempio. Una siffatta composizione asimmetrica, che rivela alla sua origine una idea immediata, iniziale (quasi di abbozzo) e si propaga, di conseguenza, sulla superficie della tela in un susseguirsi rapidamente accen- nato di macchie di luce e di zone d’ombra, quasi seguen- do di volta in volta l’impulso di una spontanea ispira- zione e che d’altra parte si avvale di calcolatissimi espe- dienti e di tutto l’ausilio della cultura classica, dichiara evidentemente un contrasto, una sorta di intima con- traddizione. Sí che vien fatto di guardare questo quadro da due punti di vista diversi: o incantati dal suo primo aspetto di turbinoso movimento e di atmosferica vibra- zione, da quelle figure agitate che vivono nell’atmosfe- ra, immerse nella luce irrequieta che irrompe dalla mac- china teatrale delle nubi e investe le fronde del bosco che sembrano agitarsi al vento riflettendo una mobile ombra sul terreno e sulle architetture circostanti; oppu- re ammirati dagli studiosi accorgimenti compositivi, dal profondo substrato culturale che traspare ovunque dalla sostanza figurativa e che si rivela, nei tre gruppi in primo piano, atteggiati in quelle «pose» bloccate ormai nella nostra memoria dall’eterna vicenda del classicismo italiano che va dalle statue romane a Raffaello, a Tizia-
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no, fino ai Carracci, sí che a fatica ormai ne ricuperia-
mo l’origine intuendole soltanto come punto di arrivo di un lungo e coltivato cammino. È nel contrasto di que- sti due elementi uno degli aspetti principali del Baroc- co figurativo e ritengo che sotto questo aspetto il Ratto delle Sabine possa considerarsi un’opera chiave. Per stabilire con maggiore esattezza i nessi del cam- mino del Berrettini va aggiunta qui un’osservazione che sarà utile altresí a comprendere un altro aspetto del- l’immaginazione figurativa quale si configurava in que- gli anni, intimamente legato a quel mutamento di visio- ne che ebbe luogo nel secondo decennio del secolo e di cui si è fatto cenno in alcune pagine precedenti, soprat- tutto a proposito del Lanfranco dopo il suo ritorno a Roma. Un’osservazione che tocca le opere di destina- zione sacra dipinte dal Cortona dopo gli affreschi di Santa Bibiana e, piú precisamente, i quadri d’altare. Tra questi ritengo debba considerarsi il piú antico La Vergine cui San Bernardo offre il libro della regola, già nella collezione Barberini, che alcune considerazioni mi fanno ritenere dipinto verso la fine dell’anno 1626. Vi rico- nosciamo la ben nota composizione diagonale, con la Vergine in alto a sinistra, in una gloria celeste, e il Santo inginocchiato in basso a destra, in un rapporto icono- grafico ormai codificato da piú di un decennio e che abbiamo analizzato nelle sue ragioni: una formula quin- di nettamente lanfranchiana anche se declinata in modi pittorici appena diversi, e da porre in stretto rapporto con quella adottata dal Vouet nel ’20 per il dipinto della Sala del Capitolo della Certosa di San Martino. Ma senza dubbio il Cortona non tardò ad accorgersi che una siffatta composizione, che pur corrispondeva cosí bene agli scopi della nuova iconografia religiosa, rischiava di divenire appunto una formula e si affrettò quindi ad abbandonarla, spinto dal fermento di nuove idee, dalla fresca atmosfera di entusiasmo inventivo e di proficue
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scoperte che caratterizza gli anni intorno al ’30. Ecco
infatti, a distanza di appena due anni e forse meno, il suo primo quadro d’altare d’impegno e di grandi dimen- sioni, la «Madonna e quattro Santi» dipinta per i Pas- serini e inviata per la chiesa di Sant’Agostino nella sua città natale. Un indubbio spirito di felice classicità quasi tizianesca anima la misurata composizione dei quattro santi posti in cerchio intorno al piedistallo sul quale tro- neggia sorridente la Vergine, e il Fanciullo paffuto e trionfante. Dal semplice arco che incornicia gli alberi di una ricca e nobile villa romana entra il caldo afflato del- l’atmosfera di una prima sera estiva che diffonde una tranquilla luce crepuscolare sulle maestose figure dei Santi. La Vergine si rivolge ad essi in un rapporto di gentile conversazione, apparentemente semplice e umano ma determinato dalle regole di un gerarchico galateo religioso che impone il gestire dedito e appas- sionato ai quattro santi che offrono, indicano, adorano. La Vergine non è piú un’apparizione tra le nubi media- ta ai fedeli dalla visione del Santo inginocchiato in esta- si, ma una statua vivente, una divina regina assistita dalla sua intima corte, il simbolico riflesso di come si configuravano allora le terrene gerarchie. Mentre prima la miracolistica formula barocca del secondo decennio illustrava un sentimento religioso che, pur nel suo chia- ro intento di persuadere teatralmente le masse, riflette- va ancora gli ultimi cupi bagliori di tempi piú severi, il quadro di Sant’Agostino di Cortona, cosí come le altre pale d’altare di pochi anni posteriori, quella, in tutto simile per spirito, della Pinacoteca di Brera, la Natività di San Salvatore in Lauro, lo stesso Anania che risana San Paolo dei Cappuccini, riflettono uno spirito diverso, piú sereno, piú umano. L’intento di «persuadere», di comu- nicare ai devoti, sotto forma di tangibile realtà visiva e di semplice rappresentazione, i simboli piú elementari della fede è sempre lo stesso, ma i mezzi escogitati dal
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Cortona sono consoni al nuovo spirito della società cat-
tolica romana di quegli anni. Che ubbidiva ad una rego- la sempre meno severa, sostituendo ogni giorno di piú alle abitudini contratte durante gli anni ormai lontani delle lotte religiose e dei fermenti spirituali, quelle impo- ste da ben piú terrene aspirazioni, soprattutto dalla pre- sunzione di grandezza conferita dai temporali poteri. Si aggiunga che da anni ormai quella società andava colti- vando, in una sorta di neo-umanesimo, lo spirito del classicismo, ritrovando il sapore pagano e imperiale di Roma; che gli artisti, da parte loro, avevano scoperto, nell’ambito di quello stesso spirito, il piú sereno classi- cismo cinquecentesco della pittura veneziana, e ci ren- deremo allora pienamente conto di come Pietro da Cor- tona rinnovasse, in queste pale d’altare, nel piú sensibile adeguamento ai nuovi orientamenti, l’iconografia reli- giosa. Sarà utile, cosí, a riprova del carattere generale di una tale tendenza, individuare un parallelo di quello svolgimento in un pittore di pochi anni piú giovane del Cortona e che mosse i suoi primi passi nell’ambito dello stesso ambiente culturale: Andrea Sacchi. Seguirlo cioè dalla sua prima pala d’altare, il lanfranchiano Sant’Isi- doro dipinto per l’omonima chiesa romana poco dopo il 1622, modulato sul profilo della nota formula diagona- le dell’apparizione, sino al Miracolo di San Gregorio Magno, dipinto circa il 1627 per la Basilica Vaticana, di una composizione tutta nuova e complessa, indubbia- mente dinamica. Insinuandosi nel vuoto che divide il gruppo degli assistenti sbigottiti da quello del Santo e dei due diaconi, un fascio di luce la traversa diagonal- mente, ma nel senso della profondità, e irrompe sui bianchi frangenti della sottana di Gregorio, abbaglia l’oro sui ricami della pianeta e fa brillare il sangue ver- miglio sulla candida spuma della pezzuola. Il punto di orizzonte bassissimo, calcolato secondo la nuova conce- zione dell’altare-palcoscenico, e l’incombere in primis-
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simo piano dei personaggi, che offre la piú tangibile e
dimostrativa evidenza alla scena del miracolo, impone uno slittare di piani obliquo, un torcersi di atteggia- menti, uno spezzarsi e divergersi continuo delle dire- zioni compositive – cui si aggiunge quella ideale del volo della colomba che segue la via del canale di luce – problemi risolti dall’artista con l’estro improvviso del- l’immediatezza pittorica. E va notato qui marginal- mente, anche a proposito della pala per Sant’Agostino dei Cortona, come all’esaltazione delle gerarchie della chiesa si giungesse anche per vie esteriori, direi quasi col creare una simpatia ambientale: se si vuole, per delibe- rata propaganda. Cosí come le armature, i cimieri, le ric- che insegne cavalleresche, i destrieri da battaglia, ave- vano assecondato le inclinazioni nostalgiche per il mestiere delle armi in una società feudale ormai al tra- monto, ora si esaltavano le pompose e simboliche uniformi del clero. Agli eroi-guerrieri, o piuttosto ai cortigiani mascherati da eroi-guerrieri, subentravano i verginali eroi dell’agiografia della controriforma, diaco- ni, catecumeni, preti, frati, vescovi, missionari nello splendore delle loro vesti rituali. Mai con tanto amore si dipinsero piviali, pianete, cotte, stole, parati, tuniche: e d’altra parte la monumentale grandiosità delle pesan- ti stoffe damascate e dorate, ricamate di sacre immagi- ni sotto le quali, come le elitre dai gusci dei coleotteri, esce la bianca spuma di pizzo della sottana pieghettata, forniva l’estro a vibranti virtuosismi pittorici, a rapide toccate di luce alla veneziana assai piú delle abbondan- ti metrature di stoffe fiorate di veronesiana presunzio- ne e di passignanesca memoria. Il Barocco romano si andava dunque affermando in quegli anni con una sua grammatica figurativa e orga- nizzava il suo repertorio. Nuovi temi si aggiungevano agli antichi: le romanzesche favole del Tasso si affian- cavano a quelle della mitologia pagana e vi si aggiunge-
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vano i fasti della piú recente mitologia cattolica; dal
nuovo e soprattutto dall’Antico Testamento si sceglie- vano episodi prima trascurati, come la patetica storia di Agar o altri fatti degli antichi patriarchi, favole roman- zesche, ricche soprattutto di possibilità narrative e ambientali, mentre della martirologia della chiesa dei primi tempi del cristianesimo o dei recentissimi della Controriforma si esaltava il lato eroico e sublime, sarei per dire melodrammatico, escludendone quegli aspetti truci, sanguinolenti e spaventevoli che avevano fornito l’argomento, per ben determinate ragioni, alla pittura del tardo manierismo negli anni cupi della prima con- troriforma e delle lotte di religione. Il nuovo repertorio barocco disponeva, come un teatro ben organizzato, di un ricco magazzino di scene e costumi: cieli drammati- ci con le quinte delle nubi traforate dagli obliqui raggi del sole, nobili gruppi di eroiche annose quercie, boschetti di allori, cespugli di acanto, templi, atri, ese- dre, edicole in stile dorico, ionico e corinzio, corazze, loriche, elmi, schinieri ripresi con fedeltà dell’antico, turbanti, zimarre, paramenti sacri. E gli attori erano gio- vinette in lieve deliquio, fossero esse martiri cristiane, ninfe od Erminie, giovani guerrieri con i capelli «alla Traiano» e i riccioli di una lieve peluria alessandrina sul volto, imperatori, re e tiranni egualmente maestosi, patriarcali vegliardi dalle barbe fluenti, santi vescovi dall’aspetto venerando glorificati dal martirio, diaconi, estatici gesuiti dallo sguardo esaltato e febbricitante fisso alle nuvole, fra i palmizi e le selve di un esotico giardino, immaginoso preludio alle pagine di Daniello Bartoli. Quale rapporto manteneva con la natura questo mondo «sublime», gesticolante, appassionato? Inesi- stente, si sarebbe tentati a rispondere riferendosi a quel- l’atmosfera fittizia, a quell’indubbio distacco dalla realtà quotidiana della rappresentazione, suffragati soprattut-
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to da quel parallelo col teatro cui ci ha cosí spesso por-
tato il discorso nel tentativo di spiegarne la reale essen- za. Fermarsi tuttavia alla logica apparente di una simi- le affermazione non varrebbe che a portare sbiaditi argo- menti all’immagine piú sfocata e convenzionale del nostro Seicento: quell’immagine moralistica e risorgi- mentale del Seicento seicentista. Varrebbe anzi a cor- redarla del piú valido argomento negativo. Un rapporto invece tra il Barocco e la natura ci fu e – come negarlo? – fu un rapporto nuovo e vitale. Se sostituiamo al ter- mine di natura quello, piú consono ma non contrastan- te, di spettacolo naturale, ecco che saremo indotti ad ammettere, piú facilmente, che fra questo e l’ispirazio- ne degli artisti barocchi corre un legame diretto, conti- nuo, imprescindibile. Lo schiudersi di nuovi orizzonti alla mente dell’uomo, quel capovolgersi della concezio- ne del mondo quale si andava attuando da tempo ormai e ribadendo luminosamente in quegli anni nell’ambito del piú moderno pensiero seicentesco trova, senza dub- bio, un riflesso diffuso nella visione artistica e, in fondo, sono proprio gli artisti barocchi, in quel succedersi cro- nologico del modo di rappresentare che abbiamo segui- to dal secondo decennio sino alle piú esplicite afferma- zioni intorno al ’30, che danno a modo loro, e magari con fini diversi, la piú aggiornata interpretazione visiva di quella nuova apertura mentale. Considerando le opere di Pietro da Cortona giunto alla maturità dei trent’an- ni, quelle del piú geniale e precoce Bernini o di altri che, al loro seguito, vissero nello stesso clima di cultura, dob- biamo renderci ragione come fra il terzo e il quarto decennio del Seicento il rapporto con la natura trovò una situazione molto precisa nella loro coscienza di arti- sti. La natura è uno spettacolo e loro sono gli spettato- ri: una visione circostante, continua, mutabile, infinita; inafferrabile nei particolari ma da contemplarsi nel suo insieme, con l’occhio che spazia nell’atmosfera, cerca il
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piú lontano orizzonte sino a perdersi nelle ultime pro-
spettive luminose delle nubi e del cielo. Uno spettacolo che le nuove scoperte del secolo educavano, sia pure indirettamente o inconsciamente, a vedere in modo del tutto diverso da quello delle generazioni d’artisti che li avevano preceduti. Educavano ad affrontarlo con atteg- giamento mutato che li allontanava sempre piú dall’at- tenta e assorta osservazione particolare per avvicinarli alla visione generale, all’immediata percezione del feno- meno. Una concezione della natura come azione, come spettacolo in movimento. Chi non ricorda le geniali intuizioni del Bernini, a proposito di una statua, sulla diversità di fattura e di proporzioni da concedere, per esempio, alla mano immaginata in movimento e circon- data dall’aria nei confronti di quella ferma, scolpita come un altorilievo tra le pieghe di un panneggio? O il suo modo di avvicinarsi alla vivente realtà individuale di un uomo, in tema di un ritratto, studiandolo prima in movimento, nella piena naturalezza del suo agire, o disegnandolo di schiena, immobile nel suo atteggia- mento piú vero e momentaneo derivatogli dall’abitudi- nario e personale rilassamento dei muscoli? Non piú quindi natura come umanità, ma umanità come natura, il che rivela chiaramente, nelle arti figurative, un paral- lelo a quello spostarsi dell’interesse, sul campo del pen- siero, dall’uomo verso l’infinito. Nel decenni preceden- ti, appena all’inizio del secolo, quella rivoluzionaria atti- tudine mentale aveva trovato in pittura un’altissima espressione che aveva alimentato, in modi del tutto diversi, la propria ispirazione ai suggerimenti del mondo circostante. La coscienza della destituzione dell’uomo dal trono rinascimentale che lo aveva posto al centro del- l’universo, aveva determinato una crisi, drammatica e amara, e quella realtà naturale cui l’uomo s’era rivelato sottoposto fu guardata con occhi nuovi ma soprattutto in relazione all’uomo, su di lui riflessa e a lui vicina. Di
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qui l’ispirazione umana, sarei per dire sociale, del Cara-
vaggio. Ma solo vent’anni piú tardi quel rapporto dia- lettico natura-uomo affrontato dalla mente profonda dell’artista lombardo ha esaurito in Roma, teatro prin- cipale delle sue azioni, l’ardua tensione dei propri argo- menti e, in un clima schivo di conflitti morali, la visio- ne andò sensibilmente mutando, dilatandosi e stempe- randosi nel campo piú vasto dello sguardo, come per una lunga «carrellata» alla rovescia, sí che accadde di veder l’uomo «nella natura», assorbito da essa, come risuc- chiato da un vortice vibrante di luminose circostanze. Vennero ad essere diverse, cosí, le fonti di ispirazione, che si cercarono al di là degli interni che limitavano e concentravano il problema della realtà rappresentata, ma nell’aspetto piú vario e distraente della natura-spetta- colo, in prospettive aeree, libere e sfogate. È il cielo forse, il cielo dei drammatici tramonti romani, col fasto- so corteggio delle nuvole trafitte dai raggi di un sole trionfante (quel sole che non a caso fu nello stesso seco- lo eletto a simbolo di regale potenza) che offre le piú sug- gestive e dirette ispirazioni agli artisti barocchi. La cat- tedra di San Pietro non è concepita forse come un pae- saggio di nuvole contro il sole? Molti sono i suggeri- menti che la natura, cosí contemplata, offre agli artisti della generazione romana del ’30 e sarebbe proficuo, sotto questo aspetto, raccogliere gli esempi piú adatti per un’antologia del naturalismo universale del Barocco. Il risultato sarà senza dubbio illuminante ma devo ammet- tere che a voler scegliere solo i raggiungimenti piú diret- ti di una siffatta ispirazione naturale bisognerebbe, nel piú dei casi, isolare frammenti, squarci, spiragli, ricer- cati nelle parti secondarie di turbinose composizioni, ricorrere, in altre parole, al solito lavoro di forbici sulle fotografie. Perché il naturalismo barocco ebbe il grave limite di non essere appieno conscio di se stesso e delle proprie possibilità. Le grandi risorse di una visione aper-
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ta sulla mutevole mobilità della natura furono sacrifica-
te, dagli artisti del Barocco romano, agli idoli piú cadu- chi del proprio tempo, all’allegorico simbolismo politi- co, alla propaganda cattolica e soprattutto al classicismo, l’eterna remora della cultura italiana. Fuori d’Italia altri artisti, negli anni immediatamente successivi, seppero trar profitto, in ben diversa misura, di quella viva e moderna visione del mondo che confondeva uomini e cose nel seno palpitante della natura, nella luminosa vibrazione dell’atmosfera. Ma anche senza ricorrere ai grandi spiriti del Seicento europeo a Roma stessa, in cro- nologico parallelo col Barocco, artisti di minor fama e spesso di assai minor temperamento seppero, forse per- ché stranieri e reietti dalle accademie, fissare con piú determinazione il loro sguardo su quella stessa natura e trasmettercene un’immagine indimenticata. Alludo, naturalmente, a Claudio Lorenese e anche a qualche brano dei modesti paesisti italianizzanti. Un dialogo diretto con la natura-spettacolo, l’attingere alle sue fonti immediate, accadde raramente agli artisti del ’30, ai pit- tori soprattutto, che piú avrebbero potuto approfittar- ne. Ma il punto fondamentale per la comprensione della pittura barocca consiste proprio nell’ammettere che la visione di quegli artisti, anche dove meno palesemente ricorreva alle fonti di natura, anche nelle sue piú irrea- li e macchinose immaginazioni, era del tutto determinata dal preciso sentimento di una natura universale nella quale l’uomo stesso era assorbito. Un reale rapporto con la natura dunque e nuovo e vitale come all’inizio dice- vo, anche se situato nelle zone meno affioranti della coscienza, che ci dà ragione non solo del modo di rap- presentare ma anche della tecnica pittorica barocca. Poi- ché quel sentimento era indissolubilmente intrecciato ad altri, di specie e di origine ben diverse, che gli artisti avevano egualmente assorbito dal loro tempo. Era pre- sente, alle origini piú segrete della loro immaginazione
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visiva, a determinare quelle invenzioni che altri moven-
ti inducevano appunto a concepire; legandosi quindi indissolubilmente, positivo e moderno sentimento della natura, al piú caduchi e negativi atteggiamenti del seco- lo, sí da rendere quasi sempre inutile il nostro tentati- vo di separarlo da quelli, nei risultati. Tale equilibrio di forze contraddittorie costituisce il limite della genera- zione romana del ’30 nei confronti dei maggiori artisti del Seicento europeo, che, come il Velázquez per fare un solo esempio, seppero limitare la pomposa soprastruttura sociale seicentesca a un puro dato accidentale e visivo confondendola nella luminosa e mobile realtà del vero di natura.
Queste considerazioni sono, a mio avviso, la pre-
messa piú adatta alla lettura delle opere maggiori di Pie- tro da Cortona che iniziano dal quarto decennio dei secolo: l’affresco della volta Barberini e quelli fiorenti- ni della camera della Stufa e delle stanze dei Pianeti a palazzo Pitti. Sono esse a darci la vera misura della nuova espressione figurativa che fra i caratteri piú inti- mamente connessi alla sua natura aveva quello di richie- dere complessità di temi da illustrare e grandi spazi con cui cimentarsi. Quella fiducia assoluta, tutta seicentesca, nelle risorse dell’ingegno, quasi metafisica e orgogliosa sublimazione della padronanza dei mezzi espressivi e degli accorgimenti del mestiere, quel pretendere, in altre parole, di saper la regola di romper le regole piú cono- sciute con qualcosa di nuovo e stupefacente, costituiva senza dubbio una sorta di carica vitale, una sicura riser- va di energia che stimolava le forze dell’intelletto di fronte ai problemi piú ardui e alle soluzioni piú diffici- li. Anche in questo Pietro da Cortona era un vero figlio del secolo e quando, un giorno qualsiasi dell’anno 1630, spinse per la prima volta i suoi passi nel vuoto sonoro del gigantesco salone del palazzo Barberini alle Quattro
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Fontane, appena abbandonato dai muratori, dai capi-
mastri e dagli scalpellini, alzando gli occhi all’enorme curvatura del soffitto senti certamente lo stimolo di mille idee sopraffare in lui il naturale timore della dif- ficoltà dell’impresa. Non si parlava ancora, in quell’an- no, di affidargli il lavoro se non forse per propositi vaghi che dimostravano come quell’idea si andasse facendo strada nella mente di alcuni suoi protettori, eppure penso che Pietro non dubitò un solo momento di esse- re l’unica persona in Roma capace a riempire quel gran- de spazio bianco con invenzioni adeguate alla sua vastità, all’importanza della nuova fabbrica cui lavora- va il Bernini, all’autorità e alla potenza della famiglia committente. Era una fiducia che si basava su piú di dieci anni ormai di operosità, in conseguente sviluppo verso idee piú grandiose che l’avevano portato dagli affreschi a palazzo Mattei a quelli poco posteriori di Santa Bibiana e ad altre opere ancora nelle quali aveva dimostrato di saper trovare nuove regole alla composi- zione e all’invenzione, atte soprattutto a mutar radical- mente i principî della «poetica» decorativa. Sotto que- st’aspetto, che vorrei dire dell’immaginazione composi- tiva, gli affreschi finiti l’anno prima nella villa dei Sac- chetti a Castel Fusano doveva considerarli poco piú che un divertimento, una serie di fresche e corsive inven- zioni per una lieta dimora campestre; ma proprio nel ‘30 era stata issata solennemente su di un altare di San Pie- tro, nella Cappella del Sacramento, l’enorme pala che era la sua ultima opera di grande impegno (consideran- do soprattutto la destinazione, la piú ambita, e il fatto di sostituirsi in una commissione al famosissimo Guido Reni), grandiosa macchina di nuvole e di angeli in ritmo maestoso a incoronare la visione della celeste Trinità. Una fiducia quindi giustificata dall’aver trovato una strada, nuova e promettente, e che mancò certamente al modesto e lunatico Camassei, che pare fosse stato per
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primo incaricato del lavoro della volta. Fu proprio quel-
la fiducia a comunicarsi ai committenti i quali, va a loro onore, non tardarono a rendersi conto della differenza dei due artisti e affidarono il compito a Pietro da Cor- tona. È sempre difficile, per non dire impossibile, recupe- rare tutta la storia di un’opera, che è come dire seguir- la dal suo primo nascere nella mente dell’artista sino alla sua ultima, definitiva configurazione. Difficile anche se si tratta di un’opera cosí complessa come il soffitto Bar- berini – la cui esecuzione richiese sette anni di tempo – ripercorrerne il cammino del concepimento, che fu certo lungo e laborioso e che rifletteva quindi successivi stadi di idee, progetti, risoluzioni e l’avvicendarsi di relazio- ni variamente approfondite e dialetticamente esaspera- te con la cultura pittorica contemporanea e degli anni precedenti; soprattutto difficile in questo caso, ove non ci soccorrono disegni preparatori, studi, bozzetti e nem- meno lettere dell’artista. Quanto sappiamo è che la volta fu portata a termine dai muratori fra la fine del 1629 e il principio del ’30, che nell’autunno del ’31 si comin- ciò a costruirvi i ponti per chi doveva dipingerla, che nel luglio del ’32 i ponti erano finiti e che al principio del ’33 Pietro da Cortona era già al lavoro. Non credo occorressero quei tre lunghi anni di tempo per passare la commissione dal Camassei al Cortona: essi furono impiegati piuttosto, se non tutti uno e mezzo almeno, e cioè dal ’31, anno in cui suppongo la commissione toccò al Berrettini, a immaginare figurativamente il macchi- noso soggetto di Francesco Bracciolini, a tradurne in ter- mini visivi le complicate, apologetiche allegorie. E fu soprattutto lavoro preliminare del Cortona. Quali idee, in quella contingenza, gli si affollassero nella testa, come le eliminasse via via e le adoperasse al concepimento del- l’idea finale, quali fossero, durante questo primo lavo- ro di immaginazione, i suoi pensieri, il suo stato d’ani-
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mo, come si configurasse entro di lui il rapporto con
imprese consimili contemporanee o anteriori, non sap- piamo. Tuttavia non si rischierà di eludere il vero imma- ginando che il pensiero della Galleria dei Carracci, sia pure come inevitabile futuro termine di paragone, fu il primo ad affacciarglisi alla mente. Era, è vero, la Gal- leria impresa di quarant’anni prima, e quarant’anni, nelle vicende della pittura, sono un tempo estremamen- te difficile a recuperare ai fini dell’utilità d’un rappor- to: troppi per un legame culturale diretto, troppo pochi per una «ripresa» o di motivi piú distaccata e per cosí dire storica, quale era ad esempio quella del neo-tizia- nismo. Ma bisogna por mente all’attualità, nel Seicen- to, della questione dei Carracci, all’attualità della Gal- leria in particolare e come il principio dell’autorità nor- mativa dell’arte di Annibale fosse stato impugnato anco- ra in tempi recentissimi, nel terzo decennio, e conti- nuasse ad essere indispensabile istrumento della cultu- ra corrente nella cerchia dei virtuosi e dei dilettanti, nelle accademie e negli studi stessi dei pittori. Qua- rant’anni non ne avevano appassito la fama e penso di non allontanarmi dal vero immaginando che il Cortona, conscio dell’importanza del suo compito, non trovasse altro termine di paragone piú degno e a lui piú prossi- mo della famosa Galleria, ristudiandone in quell’occa- sione la sapiente struttura, la complessa e geniale «poe- tica» decorativa. E penso altresí che un tale inevitabile paragone indirizzasse il cammino dei suoi pensieri e dei suoi primi esperimenti costringendoli, per cosí dire, a partire da una rinnovata considerazione appunto, della «poetica» della Galleria. Affermare ciò sarebbe cosa del tutto oziosa riferendoci agli indubbi stadi successivi ma irrecuperabili del concepimento, se di quel cammino e di quel rapporto iniziale non se ne trovasse traccia nel- l’opera compiuta, che riuscí tuttavia ad esprimere un mondo completamente diverso di spirito e di forme. E
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d’altra parte è proprio quel rapporto, quel legame
cosciente, iniziale, con la volta piú illustre e ammirata di un tempo ancor vicino e di una cultura ancora vali- da, che ne postula con maggior chiarezza il distacco, fa sentire come e quanto fossero mutati i tempi in quei pochi decenni trascorsi. Non v’è dubbio che l’idea di una marmorea costruzione architettonica, con le bian- che statue dei «termini» che reggono gli architravi e i finti medaglioni in bronzo o in marmo colorato figura- ti di storie sia ancora un’idea carraccesca, un richiamo alla struttura della Galleria, ma quella nobilissima rac- colta farnesiana di antiche favole disposte sulla volta a secondare le fantasie classicheggianti di un cardinale umanista, immersa nella tiepida luce dell’autunno del Rinascimento, esprimeva con indicibile sensibilità un momento ormai tramontato dello spirito e del costume italiano. Ora, una volta di piú, quel paragone che era sempre presente, piú o meno velatamente, alla coscien- za ombrosa e malata d’orgoglio degli uomini del Sei- cento, fra l’antico e il moderno, trovava un’affermazio- ne sicura della superiorità di quest’ultimo e dei suoi ingegni, implicita nella consapevolezza dell’inaudita grandiosità dei mezzi con cui si potevano illustrare le glorie del proprio tempo. O quelle almeno che si rite- nevano tali. Quindi a quel nostalgico amore per un tempo ormai irrestituibile che vela di una sottile malin- conia le favole mitologiche della Galleria, si sostituisce la precisa coscienza delle istanze piú mondane del pro- prio tempo, vi si unisce, a temperarne la retorica vuota e rumorosa o a volgerne almeno alcuni aspetti a fini arti- sticamente positivi, il nuovo sentimento turbinoso e centrifugo dell’infinito di natura. La cornice architet- tonica, unico residuo di un’invenzione strutturale car- raccesca, semplificata e ridotta per dar maggior luogo all’aperta luce del cielo, e immersa nella vibrante lumi- nosità dell’atmosfera che la varia di luci mutevoli, la vela
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di ombre trasparenti e leggere; qua e là è coperta dal-
l’agglomerarsi denso delle nubi ed è spezzata, quasi distrutta, in un punto ove sembra sgretolarsi sotto il peso del gruppo che la sovrasta. A sedici sono ridotte le figure delle statue, e raggruppate nei quattro angoli, e a quattro, e sempre negli angoli, i finti medaglioni in bas- sorilievo. A differenza della Galleria, ove le singole sto- rie erano isolate nei quadri riportati e l’illusione, o meglio l’inganno del vero si limitava alle complesse figu- razioni della cornice, cioè al «finto», qui tutto ciò che è immaginato come «finto» è contenuto nei limiti della cornice marmorea mentre il resto è immaginato come «vero», come scrosciante apparizione: cielo, nuvole, rocce, fiamme, alberi, fontane e la folla innumerevole delle figure che scavalcano la cornice, le sono intorno, dietro, davanti, l’invadono da ogni parte. Le stesse scene, a se stanti per soggetto, che utilizzano le quattro parti curve della volta, sotto l’aerea cornice, non sono da questa isolate ma comunicano con la parte centrale in una indubbia unità atmosferica, ché il cielo è lo stes- so in tutta la volta e la cornice è interrotta da gruppi di figure che si frappongono in uno spazio ideale fra essa e lo spettatore conferendo unione compositiva e un lega- me continuo, contrario ad ogni prefisso schema archi- tettonico, che percorre le cinque parti in cui la cornice divide l’affresco. Nonostante quindi la molteplicità degli episodi – che del resto sono collegati fra loro con ingegnosa inven- zione letteraria per confluire nell’apoteosi centrale – l’affresco è concepito come una visione unitaria e si attiene cosí ad una sorta di unità di tempo e di spazio. È concepito cioè, prima d’ogni cosa, per essere abbrac- ciato da un solo sguardo e a quello esprimere immedia- tamente il senso compiuto e unitario della sua inven- zione e del suo significato. A ciò contribuisce soprat- tutto la composizione, a gruppi collegati fra loro e distri-
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buiti pittorescamente, quasi come per estro improvviso,
seguendo un raggrupparsi e un diradarsi liberissimo ma sapientemente calcolato intorno al vuoto luminoso che fa da sfondo al gruppo centrale. Una tale composizione ignora, anzi contrasta, l’ordine regolare della cornice architettonica, dimostrando in questo un deliberato, esplicito, direi quasi ostentato intendimento di rompe- re una regola tradizionale di divisione e utilizzazione dei vari spazi. La fedeltà tuttavia al proposito di una visione unita- ria non contrasta il libero svolgersi dell’esuberante immaginazione narrativa dell’artista: singole prospetti- ve si aprono entro la prospettiva centrale e danno vita ai vari episodi. In questi particolarmente si afferma la vena pittorica ricca e felice del Cortona. Sia nella tre- mula luce boschiva che palpita sul gruppo stupendo del Sileno ebbro o si diffonde per il giardino incantato di Venere perdendosi all’orizzonte oltre la fontana e le ultime fronde degli alberi mossi dal vento; sia nel rifles- so inquieto delle fiamme della fucina di Vulcano che trae improvvisi bagliori dal gruppo di armi sparse al suolo o nella frana improvvisa del gruppo dei giganti che sem- bra provocato dallo scrosciare turbinoso dell’aria intor- no al volo di Pallade armata che minaccia l’integrità stessa della marmorea cornice. Vale per queste storie, cosí come per tutta la realiz- zazione pittorica dell’affresco, un’osservazione già fatta qualche pagina fa a proposito dei quadri sacri barocchi e del Cortona in particolare; un’osservazione che con- cerne il proposito di dare «verosimiglianza» alle appa- rizioni piú fantastiche e irreali, quella fiducia cioè che un illusivo aspetto di naturalezza rendesse piú persuasi- ve e universalmente comprensibili le rappresentazioni di idee miracolistiche, di immaginazioni allegoriche, quel dar quindi una immediata e fuggevole concretezza visi- va a ciò che vi era di meno concreto servendosi di quei
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mezzi espressivi che erano forniti dal nuovo mobile,
infinito sentimento della natura. Cui si aggiungeva, s’è già detto, l’avventura di un’esperienza particolare e feli- ce fatta sulla pittura veneziana del gran secolo. Ed è infatti la verisimiglianza atmosferica, la prospettiva aerea e luminosa e l’unità pittorica che ne deriva a con- ferire a tutto l’affresco il mezzo piú efficace per la vagheggiata illusione. Che questa fosse poi adoperata ai fini piú inverosimili, lontani persino da quelli della piú miracolistica persuasione religiosa, adoperata direi al piú iperbolico degli scopi, è altro discorso. Ronzano infatti, rombano sarei per dire come potenti aerei in for- mazione, al centro dello spazio celeste, le gigantesche api dorate dei Barberini; tutte le virtú immaginabili, umane e divine, in veste di floride e cordiali fanciulle fan loro corona, tutta la mitologia sacra e profana è chiamata a fornire gli argomenti per la loro glorificazione. Il tema era, si sa, il «Trionfo della Divina Provvidenza e il com- pimento dei suoi fini attraverso il potere spirituale e temporale del papato», ma quelle grandi api dorate inco- ronate da una fronda d’alloro proprio al centro dell’af- fresco stan lí a dire che il papato era quello di Urbano VIII, che il potere temporale e spirituale – e le stesse personali allegorie delle singole storie non ne fan miste- ro – era quello della famiglia Barberini. Mai era stata tentata, nemmeno al tempo dei potenti e orgogliosi Far- nese, una tale apologetica unione di sacro e profano a gloria di una famiglia, un colloquio a cosí alto livello, per usare un termine oggi comune, fra i simboli di una glo- ria terrena e quelli divini della religione cattolica. Che non si sentisse pudore di ciò era segno dei tempi, ma che da un’idea siffatta potesse uscir qualcosa di diverso dal prolisso, illeggibile poema di egual soggetto di France- sco Bracciolini, qualcosa di artisticamente positivo, è merito del Cortona e della nuova visione figurativa della sua arte, il che ci fornisce uno dei piú solidi argomenti
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per sostenere quella superiorità, nel Seicento, delle arti
figurative sulla nostra letteratura che pur viveva degli stessi argomenti e collaborava agli stessi fini esteriori, superiorità della quale si è già altrove fatto cenno. Ma c’è qualcosa di piú che può dirsi a favore di un’opera sif- fatta, qualcosa che riguarda, ancora una volta, il suo inserirsi positivo e moderno nella vita del proprio tempo. Con essa infatti seppe il Cortona, piú di ogni altro ai suoi giorni, immaginare e condurre a termine un’opera che rispondeva meravigliosamente a quella ten- denza giustamente riconosciuta dagli storici come una delle fondamentali del secolo, seppe anzi prevenirne le esigenze imminenti. Voglio dire che se il Seicento fu l’età dell’assolutismo monarchico, che avrebbe di lí a poco abbattuto l’individualismo politico per educare ad una piú alta e salda idea dello stato, trovo sia legittimo riconoscere nell’immagine grandiosa, unitaria, apologe- tica, del soffitto Barberini il simbolo piú adatto, l’im- magine figurativa piú consona che possa immaginarsi a servizio ed esaltazione di quei seicenteschi principî. Anche se il soggetto e lo scopo per cui era stato imma- ginato non collimano appieno con essi, anche se Urba- no VIII non sapeva né poteva essere il Re Sole, è certo che la poetica di quell’opera, i suoi metodi espressivi, il suo unitario concepimento, era il piú adatto ad illustra- re quella idea di regalità, di investitura divina, di incon- trastata potenza accentratrice che ebbe vita nel secolo XVII. Piú tardi, mi si dirà, e non in Italia, ché la legge dell’assolutismo si venne attuando in Europa di lì a poco e ad essa ci si piegò, da noi, senza mai farla pro- pria, senza accompagnarla coi nostri sforzi, senza cir- condarla, si dice, né d’amore né di poesia. Ma è privi- legio, lo sa ognuno, dei veri artisti quello di sentire le cose in anticipo sui fatti determinanti, di cogliere e esprimer le idee ancora vaghe e a loro stessi ignote, di prevenire le piú nuove esigenze. E questo mi sembra un
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altro punto a favore di Pietro da Cortona e della sua
vòlta. Per portar a fine quest’opera Pietro impiegò sette anni, dai primi del 1633 a tutto il 1639, e fu un tempo che parve lungo anche ai contemporanei, tanto che il Passeri ne esagerò ampiamente i termini sostenendo una volta che il lavoro durò dodici anni e un’altra volta quattordici. Il Cortona stesso disse in una lettera «che mi ha portato piú tempo che non credevo, sia per esse- re l’opera grande, si ancora per essere in Roma, dove è necessario le cose ridurle per bene». Comunque la gran- dezza dell’affresco non è sufficiente a giustificare quei sette anni né le ragioni della lunghezza del suo compi- mento potranno mai esserci chiare. Quel senso di per- fetta unità di cui si è detto non lascia intravedere le pause e le riprese che certo vi furono, i pentimenti, le parti rifatte di nuovo che indubbiamente seguirono a momenti di scoraggiamento e di scontentezza facilmen- te immaginabili. C’è poi il fatto, non facile a spiegare in termini di logica, della sua partenza improvvisa per un viaggio che doveva immaginare non breve, il viaggio tanto desiderato a Venezia, che aveva già rifiutato di fare in compagnia di Sandrart proprio con la scusa del- l’affresco nel 1635 e al quale si accinse invece nel 1637 lasciando incompiuta un’opera che costituiva certamen- te il centro dei suoi pensieri. A che punto era l’affresco quando Pietro da Cortona parei? Vi lavorava già da quattro anni, ma al Boschini nella Carta del navegar pito- resco non par vero di affermare che di ritorno da Vene- zia il Cortona buttò giú gran parte di quanto aveva fatto, ricominciando tutto da capo sotto l’impressione delle nuove esperienze veneziane. Il che non sembra vero o non è da addebitarsi almeno alle ragioni addotte dal Boschini e ovviamente dettate da pittorico amor patrio. Sappiamo che partito nel ’37 il Cortona arrivò nell’estate a Firenze ove rimase almeno tre mesi nei
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quali compí per accontentare il Granduca due delle sto-
rie della Stanza della Stufa, l’Età dell’Oro e dell’Ar- gento. Sono queste due storie talmente vicine alle parti piú belle dell’affresco Barberini e, se si vuole, anche nel senso neoveneziano, da rendere del tutto ingiustificata l’idea che il posteriore soggiorno a Venezia fu un’espe- rienza fondamentale per l’artista e tale da influire sul corso del suo stile. Per di piú fu un soggiorno brevissi- mo: due settimane se non meno di un piovoso novem- bre, con le chiese buie e una gran furia nel cuore di tor- narsene a casa. Oltre questa assenza di poco piú di sei mesi per un viaggio cui non trovo altra spiegazione che il bisogno di cambiar aria, di riposare le proprie idee allontanandole per qualche tempo dal luogo del loro continuo esercizio, non molte sono le ragioni forniteci dai documenti al ritardo di compiere l’opera. Il primo è del febbraio del 1633 e ce lo indica a dipingere sotto la volta; il che vuol dire che in quell’anno tutto il lavoro preliminare di studi, di progetti, di cartoni per la parte generale, cioè per l’insieme della composizione, era già fatto. E avrà occupato gran parte, immagino, dell’anno precedente, che fu infatti un anno per altri aspetti quasi vuoto di opere. Per tutto il ’33 si susseguono documenti di paga- mento e penso che l’artista interrompesse i lavori verso la fine dell’anno per contentare i padri dell’Oratorio e dipingere l’affresco nella volta della sagrestia della Chie- sa Nuova, che gli fu pagato all’inizio dell’anno succes- sivo. Pur nella sua magnifica invenzione quest’affresco a confrontarlo con le parti artisticamente piú alte del soffitto Barberini, mostra quasi una certa durezza, una forma appena piú chiusa, una pittura piú insistita, come se in quel tempo l’inevitabile esperienza verso una pit- tura piú libera e aerea che maturò certamente proprio sui problemi della volta Barberini non fosse ancora giun-
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ta a un termine soddisfacente. Il che fa supporre che
nessuna parte importante o nulla di definitivo fosse compiuto in quell’anno. Per il ’34 e il ’35 non molti sono i documenti che di tanto in tanto lo mostrano al lavoro sotto la volta: compí in quegli anni affreschi a San Lorenzo in Damaso oggi perduti e nella cappella di Urbano VIII in Vaticano e cartoni per gli arazzi Barbe- rini, opere tutte fatte un po’ in fretta, con una certa malavoglia e dalle quali non è dato trarre utili confron- ti per conoscere il punto cui era giunto l’affresco. Del ’36 e della prima parte del ’37 mancano addirittura documenti della sua attività nel palazzo; viene poi, nel- l’estate del ’37 il noto viaggio, il ritorno precipitoso nell’inverno dello stesso anno e poi un anno e mezzo, quasi due di lavoro, che ritengo fu il periodo piú inten- so e conclusivo. Non dico quindi che anche le esperienze del breve soggiorno veneziano non fecero la loro parte, ma non fu certo parte determinante per le ragioni suddette. Con l’affresco della volta Barberini Pietro da Cortona toccò il punto piú alto del suo cammino artistico e, insieme, il vertice della sua carriera. Già un anno dopo l’inizio del lavoro fu eletto Principe dell’Accademia di San Luca e gli anni a venire portarono largamente i frutti della fama acquistata con un’opera cosí nuova, cosí clamoro- sa, cosí impressionante.
Negli anni in cui fu Principe dell’Accademia di San
Luca, dal 1634 al 1638, Pietro da Cortona sostenne una discussione con Andrea Sacchi che per il tema e gli opposti argomenti ha per noi un notevole interesse, riflettendo un momento particolare, e importante, della storia della pittura barocca. La disputa verteva sui prin- cipi della composizione e il Sacchi sosteneva che, anche nei dipinti piú grandi e di soggetto piú complesso, fosse necessario limitare il numero delle figure per conserva-
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re alla composizione quella chiarezza, quella misura,
quell’ordine che erano sempre state il pregio delle opere classiche; il Cortona invece era d’opinione affatto diver- sa. Non che lui eludesse l’esempio dei classici – in quel- l’epoca chiunque si richiamava a loro –, ma dovevano sovvenirgli soprattutto due esempi sui quali si era tanto esercitata la sua studiosa gioventú, quello della Colon- na Traiana e quello dei Baccanali di Tiziano, che di figu- re non erano davvero poveri né l’una né gli altri. Come la pensasse del resto in proposito ce lo rivelano non solo le sue opere di quel tempo, e il soffitto Barberini in par- ticolare, ma anche un giudizio riferitoci dal Malvasia su di un grande e allora famoso dipinto di Guido Reni, le Nozze di Bacco ed Arianna, oggi perduto, ma che cono- sciamo attraverso copie. Il Cortona soleva chiamarlo ironicamente «il quadro della processione», irridendo cosí, dal suo punto di vista, quella semplicità composi- tiva che direi bidimensionale, quel disporre, come in un bassorilievo attico o in un antico cammeo, sul fondo unito del cielo azzurrissimo, contro la linea orizzontale del mare terso, la «processione» appunto delle figure sta- tuarie. Questa sorta di polemica, che al lume delle nuove tendenze riproponeva, fra artisti della nuova generazio- ne, il rapporto fra l’arte moderna e i principî del classi- cismo, non manca di una importanza esemplare perché ci dà ragione del primo divergere, in seno alla nuova espressione barocca, di due tendenze diverse. Dico in seno alla nuova espressione barocca; perché il classicismo di cui il Sacchi si faceva paladino, anche se si richiama- va alla teorica classico-idealista e filobolognese postula- ta dall’Agucchi, sortiva poi, nelle opere, a risultati del tutto diversi da quelli raggiunti tempo prima dai bolo- gnesi, dall’Albani, che pur era stato suo maestro, dal Domenichino in particolare, dallo stesso Reni, perché aderiva profondamente al nuovo sentimento della natu- ra che, insieme alle esperienze neo-veneziane, era stato
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alla base della formazione del Sacchi, comune del resto
per nutrimenti spirituali a quella degli artisti della sua generazione. Una divergenza tuttavia ci fu e abbastan- za profonda; sta a testimoniarcela, piú che il ricordo libresco dell’accademica discussione, la differenza fra l’opera maggiore del Cortona, la volta del Salone Bar- berini, e l’opera maggiore del Sacchi, la volta di una sala dello stesso palazzo che il Sacchi dipinse dal 1629 al 1633 su di un tema analogo e complementare a quello che era stato dettato al Berrettini: la Divina Sapienza. Nel concepire il suo affresco, che era già finito quan- do il Cortona aveva appena cominciato a lavorare al suo, il Sacchi ha rinunciato alla falsa cornice architet- tonica, ha deliberatamente evitato il ricorso ad ogni ele- mento statuario e decorativo limitandolo al necessario complemento di un cornicione dipinto e a quattro pic- cole figure femminili agli angoli. Sul profondo azzurro del cielo ove indugiano pigre nuvole rigonfie, contro la luce radiante e immobile del sole, ha accampato quat- tordici figure simboliche, composte nei gesti, rapite in una divina beatitudine. L’enorme sfera del mondo col suo liquido peso galleggia dilatata nello spazio celeste, trattenuta appena dall’equilibrio di una forza centripe- ta che sembra lí lí per rompersi, come quello di certe gocce d’acqua troppo pesanti, e influenza singolarmen- te, con la elementare struttura della sua grande massa, tutta la composizione, priva apparentemente di ogni studioso accorgimento nel suo assembrarsi quasi casua- le, nella sua possente semplicità. Un che di liquido, di molle, di blandamente diluito nella luce, percorre tutta la volta, si propaga dai contorni incerti delle figure, vela le fisionomie sorridenti, ne stempera le sagome, come riflesse sull’onda placida d’uno specchio d’acqua appe- na mosso. Una pittura semplice, lunga, quasi incerta, un tono unito, un colorire morbido e caldo, un calore trat- tenuto ma intenso di affetti contribuisce alla vasta sem-
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plicità del concepimento. Come non riconoscere quindi
anche qui quel sentimento barocco di una natura uni- versale, mobile e luminosa che ci circonda, come non registrare il riconosciuto debito verso la pittura vene- ziana? Eppure come diversi i risultati, come contra- stante questa semplicità pittorica, questa contenuta misura compositiva, questa maestosa larghezza, col mondo turbinoso, agitato, trionfante di Pietro da Cor- tona. Dobbiamo riconoscere cosí, fin dagli inizi, una profonda scissione nei modi espressivi del Barocco, una diversità di metodi nell’applicare principi visivi non dis- simili che avrà conseguenze determinanti per la storia della pittura nel corso di tutto il secolo. Per accennarle, e nella maniera piú sintetica, basterà menzionare l’ere- dità cortonesca raccolta da Luca Giordano, da lui divul- gata per tutta Italia e sino in Spagna con un seguito non indifferente, anzi gremitissimo, di fatti pittorici che, partendo dal Giordano appunto, prolifereranno un po’ ovunque, varrà ricordare il fondamentale epilogo del Baciccia, di origini ancora diverse, con cui si chiude validamente il secolo. E, per l’altra parte, accennare al classicismo barocco del Maratta, che dal Sacchi appun- to partiva, e al seguito che esso ebbe in Italia, a Roma soprattutto, fino ancora a gran parte del secolo XVIII. A giustificare il suo stile, a contrapporlo a quello del Cortona, il Sacchi si richiamava, come abbiamo visto, al classicismo. Ed era un altro modo ancora e da una spe- cula culturale diversa d’intendere quella sorta di costan- te illusione, di paragone inevitabile, di mèta irraggiun- gibile e sempre vagheggiata della cultura artistica italia- na. Tentare di far valere, in pieno Seicento, entro i ter- ritori piú saldamente tenuti dalla cultura barocca, i pro- blemi stilistici della regolarità, della simmetria, della sobrietà, della castigatezza formale – ché a tali argo- menti si appoggiava, almeno nelle intenzioni, la poetica del Sacchi – rivelava un’attitudine mentale che ai nostri
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occhi si colora vagamente di nostalgia, di patetico richia-
mo ad un bene ormai perduto. Vorrei scorgervi come un accenno appena incipiente di disagio e di crisi, di man- cata adesione agli idoli piú vistosi del proprio tempo, e in un momento in cui gli artisti italiani, e in particola- re il Cortona e il Bernini, gli incontrastati leaders del- l’espressione piú ammirata e moderna, si sentivano anco- ra superiori ad ogni altro in Europa, in un momento cioè in cui, sul precipizio di quella nostra «decadenza» civi- le, morale ed artistica che farà versar tanto inchiostro ai secoli futuri, si ammirava ancora la capacità, la dot- trina, la destrezza italiana, in tutte le pratiche e in tutte le arti. E accenno qui a quel disagio incipiente non tanto a proposito del Sacchi, legato cosí indissolubilmente per altre vie al movimento barocco, quanto per individuare nel sentimento che spingeva gli uomini del Seicento verso il classicismo anche una radice piú inquieta e nostalgica, quasi una lunatica e insoddisfatta ricerca di isolamento, una zona preromantica di accese immagi- nazioni. Ciò non tocca naturalmente il Cortona, ma ben s’addice ad un transfuga della sua scuola, Pietro Testa, che dopo aver collaborato con lui per tutto il terzo decennio non tardò ad abbandonare i suoi insegnamen- ti per tuffarsi, con una sorta di maniaca e cupa deter- minazione, entro il nudo mondo di una fredda classicità ben rivelatoci dalle sue singolari acqueforti, ravvivate tuttavia dall’estro bizzarro di fantastiche invenzioni. A ciò lo spingevano soprattutto gli spropositati studi sul- l’antichità intrapresi a servizio di Cassiano dal Pozzo, temperamento tutt’altro che nostalgico e inquieto, ma che con positiva pesantezza piemontese andava inaugu- rando in quegli anni una scienza che ebbe poi, nei tempi propriamente romantici, il piú forte impulso: l’archeo- logia. E che nell’ambiente di casa Dal Pozzo si collabo- rasse ad ogni modo ad allontanarsi dal movimento baroc- co, dopo quel primo momento che vorrei chiamar cor-
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tonesco degli studi dall’antico, quando l’entusiasmo
neo-veneziano forniva i mezzi pittorici piú felici per vivificare di morbidezza atmosferica le forme dei bas- sorilievi traianei, ci è dimostrato dal cammino stesso che seguivano le idee del sentenzioso archeologo piemonte- se, che andavano assumendo sempre piú posizioni di contrasto contro le manifestazioni artistiche del pro- prio secolo. Al lume di queste vicende cadrà piú chiaro l’accenno ad una diversione in senso classico ben piú decisiva e importante, anche se ebbe meno seguito in Italia e che al classicismo si richiamava con argomenti piú appropriati e propositi piú rigorosi. Una diversione tutta intellettuale, e come tale nata da meditazioni piú profonde, da una cultura meno dedita alle parvenze di un secolo fastoso che in ogni aspetto del suo costume, nello stesso vestire, atteggiarsi e vivere nel mondo era in fondo proprio il piú lontano dagli ideali classici. E fu quella di Nicola Poussin che, dopo una prima felicissi- ma adesione alla tendenza neo-veneziana che, almeno agli inizi, lo poneva in una sorta di comunità culturale con Pietro da Cortona e gli altri artisti barocchi, a par- tire dal terzo decennio andò ritrovando un suo solitario e faticoso cammino che lo conduceva a creare un mondo nudo e disadorno ove solo la chiara luce della ragione e l’interno nascosto calore di un acceso intelletto si riflet- tevano con straordinario rilievo sulla statuaria apparen- za di una venerata antichità. Un’inclinazione spirituale, quindi, che portava alla negazione dei propositi piú vistosi del Barocco ma che, oltre i limiti personalissimi della tenace fatica del Poussin, seppe in qualche modo accordarsi a quelli, modificandoli e raffreddandoli, nella pittura francese del «gran siècle sin quando il cortoni- smo razionalizzato, classicizzato, stretto al freno della rigorosa etichetta di corte, trionfò ancora col Le Brun a Versailles. Tuttavia in Francia il legame col Barocco romano era spesso piú blando, poiché l’adesione al suoi
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principî contrastava soprattutto con la diversa religiosità
di quella nazione. Meno spettacolare e piú meditata, meno popolare e sarei per dire piú filosofica, piú pre- murosa in altre parole della sostanza che delle apparen- ze o, se si vuole, meno «persuasiva» e piú «educativa». V’era infatti nelle raffigurazioni sacre della pittura fran- cese, paragonandole a quelle della pittura barocca ita- liana, come una ricerca di ricostruzione storica dei fatti del Testamento che rispondeva ad una fiducia piú medi- tata sulla realtà di quegli avvenimenti che si pensava poter ricostruire, con i mezzi che la cultura allora for- niva, nell’ambiente storicamente piú adatto, negli atteg- giamenti piú verosimili, nei costumi piú appropriati. Un geloso attenersi alle fonti storiche ben diverso dalle miracolistiche, immediate apparizioni del Barocco roma- no, immaginate soprattutto per commuovere i senti- menti, per esaltare le gerarchie della Chiesa, per fare intravvedere la gloria provvidenziale del Paradiso. Il Sacchi, in fondo, nella povera semplicità delle sue opere piú tarde, come le tele nel tiburio del battistero latera- nense cominciate proprio dopo la nota polemica, seppe toccare le corde di una religiosità piú intima e vera. Ma meno severa, meno intellettuale, anzi forse ancora piú umile e popolare. Espressa comunque in modi diversi e che con quel razionalizzante classicismo non avevano nessuna comunicazione, che partivano anzi, come abbiam visto, da un’origine tutta diversa. Si è accennato fugacemente a questi fatti per segui- re le vicende del classicismo seicentesco entro e fuori del movimento barocco e potere individuare meglio cosí la posizione del Cortona nel Barocco romano e nel Sei- cento. Quale fosse la strada che s’era prescelta abbiam visto, e possiam dire che la seguì fedelmente per tutta la vita. A partire infatti dagli anni in cui concepí e portò a termine la volta Barberini, non deviò mai sensibil- mente dagli ideali che avevano dato vita a quel momen-
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to della sua fantasia e del suo ingegno, non arricchí
altrimenti la sua cultura alla fonte di fatti nuovi e diver- si; sí che seguirlo ora sarà lavoro piú facile e, perché non rischi di divenir uggioso al lettore, piú breve.