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(POLI_series style)
Giuseppe Duso

La logica del potere


Storia concettuale come filosofia politica
A Elena e Tomaso
7

Indice

Prefazione................................................................................................ 11

1. Storia concettuale come filosofia politica.......................................... 17


1.1 Oltre l'alternativa tra storia e teoria................................................. 17
1.2 I concetti hanno una storia? ........................................................... 20
1.3 Storia concettuale e storia sociale................................................... 25
1.4 Storia e critica dei concetti moderni ............................................... 28
1.5 Il concetto di storia è un concetto moderno .................................... 32
1.6 La nascita dei concetti moderni nella nuova scienza politica ......... 38
1.7 Un piano più radicale per il rapporto tra storia concettuale e filosofia
politica ........................................................................................... 51

2. Politica e filosofia ................................................................................ 61


2.1 Politica e scienza politica................................................................ 61
2.2 Politica antica e politica moderna................................................... 67
2.3 Problematizzare la politica moderna? ............................................ 71
2.4 Il riemergere di una struttura originaria .......................................... 74
2.5 Filosofia politica e rischio della prassi ........................................... 81

3. Fine del governo e nascita del potere ................................................ 83


3.1 L’arché e le parti della polis ........................................................... 84

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©2007 Polimetrica International Scientific Publisher Monza/Italy
8 Indice

3.2 Naturalità della consociatio e naturalità dell’imperium .................. 91


3.3 Il moderno concetto di sovranità e la dimensione del potere.......... 99
3.4 Governo come esercizio del potere sovrano ................................. 103
3.5 Il governo come potere esecutivo e la sovranità del popolo ......... 109
3.6 Governo e principio rappresentativo............................................. 113
3.7 Linee di tendenza e aporie ............................................................ 119

4. Alle origini del moderno concetto di società civile ......................... 125


4.1 La societas civilis nella prima età moderna .................................. 125
4.2 La consociatio in Althusius e il significato politico dell’agire degli
uomini .......................................................................................... 132
4.3 La dimensione plurale del popolo e la concezione della rappresen-
tanza............................................................................................. 141
4.4 La socialitas e il ruolo del concetto di individuo nella dottrina di
Pufendorf ..................................................................................... 145
4.5 Insicurezza dello stato di natura e necessità di una «certa norma»150
4.6 Solo il potere della civitas permette di realizzare la socialitas ..... 153

5. Rappresentanza politica e costituzione ........................................... 161


5.1 Opinioni diffuse e problema ......................................................... 161
5.2 Genesi del concetto nell’ambito della questione della sovranità .. 163
5.3 La rivoluzione e i concetti del diritto naturale .............................. 168
5.4 La costituzione tra rappresentanza e potere costituente................ 172
5.5 La struttura teoretica della rappresentazione ................................ 179
5.6 Rappresentanza politica e rappresentanza degli interessi ............. 181

6. Teologia politica e logica dei concetti politici moderni in Carl


Schmitt................................................................................................... 189
6.1 Schmitt pensatore epocale ............................................................ 189
6.2 La forma e l’origine...................................................................... 192

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Indice 9

6.3 La teologia politica come struttura teoretica: l’idea e la sua visibilità 200
6.4 Rappresentazione e forma politica................................................ 208
6.5 Oltre Schmitt e la scienza politica moderna ................................. 215

7. Considerazioni su democrazia e federalismo ................................. 219


7.1 Istanze contradittorie nell’uso del termine «democrazia» ............ 219
7.2 Identità concettuale della «democrazia»? ..................................... 222
7.3 Democarzia come forma di governo............................................. 224
7.4 La scienza politica moderna e il potere del popolo....................... 229
7.5 Le costituzioni moderne e la morsa dell’unità politica ................. 232
7.6 L’eccedenza del potere costituente ............................................... 237
7.7 Federalismo come «altro» modo di intendere la politica .............. 242
7.8 Federalismo come «altra» democrazia?........................................ 245

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Prefazione

Se si prova a riflettere sul modo in cui, con maggiore o minore con-


sapevolezza, si usano i concetti fondamentali relativi all’ambito so-
ciale e politico, ci si può rendere facilmente conto che due sono i
presupposti più diffusi. Da una parte con essi si intendono indicare
realtà oggettive (si pensi ad esempio a concetti quali società, Stato,
popolo), dall’altra valori, che sono spesso assai diffusi e sostan-
zialmente da tutti condivisi (si pensi a diritti umani, uguaglianza,
libertà, democrazia). In ambedue i casi sembra che tali concetti ab-
biano una dimensione atemporale, siano cioè validi per epoche di-
verse, pur con declinazioni differenti e specifiche. Tale situazione
non sembra propria solo del linguaggio comune e di quello usato
nel dibattito politico, ma anche di molti lavori che hanno carattere
scientifico e storico, nei quali tali concetti sono spesso usati senza
essere a loro volta tematizzati per scoprirne l’origine, i necessari
presupposti, le conseguenze logiche e la loro pertinenza in relazione
alle fonti e ai contesti che mediante essi si intendono comprendere.
Si assiste tuttavia negli ultimi tempi ad un intensificarsi dell’in-
teresse per una determinazione più precisa dei concetti politici, co-
me testimonia il proliferare di strumenti – dai lessici, alle enciclo-
pedie, ai dizionari, agli studi monografici – che hanno come tema le
grandi parole della politica. In questi strumenti si presenta spesso,
per la comprensione del significato dei concetti, la difficoltà
dell’isolamento in cui questi ultimi sono costretti dalle stesse inizia-
tive editoriali: come si cercherà di mostrare, in realtà essi non pos-
sono essere intesi nel loro significato se non all’interno del contesto
complessivo in cui si relazionano l’uno all’altro. Ma la maggiore
difficoltà è costituita dal fatto che differenti sono le prospettive e le

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metodologie usate dai diversi autori che collaborano a queste opere


collettanee: è perciò arduo ricavarne un quadro di orientamento.
Prospettive di storia dei concetti si incrociano e si confondono con
una più consueta storia delle idee, nella quale le idee o sono gran-
dezze costanti o semplicemente indicano le diverse costruzioni ide-
ali degli autori, oppure si identificano con una storia delle parole.
È sembrato utile perciò mettere insieme una serie di riflessioni
svolte nell’arco di un decennio sulla storia dei concetti politici, per
indicare una via di approccio che abbia insieme un carattere storico
e teoretico. Il punto di riferimento iniziale è costituito dalla corrente
storiografica della Begriffsgeschichte tedesca (in particolar modo da
Reinhart Koselleck e da Otto Brunner), che sembra aver dato i ri-
sultati più interessanti e rigorosi per una comprensione critica dei
concetti politici; ma la base sostanziale dell’impostazione storico-
concettuale proposta si trova in una serie di lavori di ricerca che
hanno mostrato la centralità dell’elaborazione teorica della filosofia
o scienza politica moderna, per la caratterizzazione di quei concetti
politici che non sono eterni, come spesso si è portati a credere, ma
piuttosto – nel significato determinato che si è inevitabilmente se-
dimentato nelle parole che utilizziamo – trovano la loro nascita
nell’epoca moderna, e diventano causa di fraintendimenti quando
sono usati per intendere contesti di pensiero e di realtà diversi.
Non si tratta tuttavia solamente di ricercare una maggior corret-
tezza storiografica, ma piuttosto di interrogare, mediante un tale ap-
proccio, gli stessi concetti che si sono sedimentati nel nostro modo
di ragionare e di intendere la politica. Risultano in tal modo messe
in questione certezze consolidate: concetti che sembravano saldi e
coerenti conducono a contraddizioni e a paradossi, aprendo la stra-
da ad una domanda radicale sull’agire umano, che si ripresenta co-
me originario atteggiamento filosofico. Lavoro storiografico e lavo-
ro teoretico si rivelano in tal modo indissociabili tra loro.
I capitoli di questo volume, al fine di affrontare le tematiche
dell’ambito pratico e politico, cercano di indicare un quadro di rife-
rimento che non abbia un mero carattere metodologico, ma che ri-
sulti dall’attraversamento critico delle costruzioni teoriche in cui
nasce la concettualità moderna.
All’intento didattico che mi sono proposto risponde anche
l’attraversamento – a volte forzatamente rapido – di alcuni testi e

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Prefazione 13

autori fondamentali. Essenziale, per la comprensione delle rifles-


sioni qui contenute, è il riferimento a quei materiali – lavori collet-
tanei e monografici – che sono stati prodotti nell’ambito del gruppo
di ricerca sui concetti politici, che da diversi anni coordino presso
l’Università di Padova.
Questo volume è in qualche modo introduttivo a un lavoro stori-
co-concettuale perché, pur basandosi su alcuni risultati acquisiti, si
presenta anche come la proposta di un possibile quadro di orienta-
mento: si tratta certo di una proposta non neutrale, che sollecita per-
ciò, fin dall’inizio, l’avvertenza critica del possibile lettore. Essa
intende porsi in dialogo innanzitutto con studenti e studiosi che si
occupano di filosofia politica, nel tentativo di comprendere i classi-
ci e di fornirsi di strumenti per affrontare, in quest’ambito, un lavo-
ro di ricerca; e inoltre con tutti coloro che cercano di acquisire armi
critiche per pensare i concetti che si utilizzano nel linguaggio poli-
tico.
In tutti questi casi il dialogo può essere tuttavia proficuo solo se
si è disposti a superare, almeno per l’attimo di una riflessione o di
una lettura, l’atteggiamento che ci è consueto nel momento in cui ci
riferiamo a concetti dell’ambito etico e politico: quello cioè di avere
convinzioni, di credere a valori, di utilizzare i concetti per segnalare
agli altri e a noi stessi (rassicurandoci) una collocazione culturale e
ideale. La constatazione innegabile che non possiamo non scegliere,
e che sempre ci troviamo nell’ambito della prassi, non comporta un
rapporto immediato tra l’uso del pensiero e il progetto dell’agire:
non rende valido il pensiero a partire dalle buone intenzioni che si
hanno nell’azione. C’è la necessità di comprendere. Se ci si pone in
questo atteggiamento si può forse, con sorpresa, vedere capovolti
tutti i concetti che sembravano certi; scoprire una serie di presuppo-
sti, di significati e di conseguenze a cui non avevamo pensato e che
ci appaiono contraddittori; accorgersi infine dell’apparire di una
domanda sconcertante in ciò che sembrava ovvio.
Un’analisi storico-concettuale, che sia anche filosofia politica,
può da una parte aprirci ad intendere meglio realtà e pensieri non
catturabili attraverso la concettualità politica moderna, e dall’altra
porci di fronte al compito di intendere la realtà, a volte nuova, che
ci sta di fronte, senza usare concetti che sono ormai divenuti obso-

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leti, non solo, ma che contengono al loro interno contraddizioni in-


sanabili.
Un ringraziamento per questo mio lavoro va ai membri del
gruppo che coordino, che hanno per diversi anni discusso con me
queste tematiche e hanno condotto ricerche nell’ambito della storia
concettuale. Un debito particolare sento di avere nei confronti
dell’amico Sandro Biral, come si può riscontrare nella lettura del
volume che raccoglie i suoi saggi dedicati alla filosofia politica
(Storia e critica della filosofia politica moderna, FrancoAngeli, Mi-
lano 1999). Naturalmente è solo mia la responsabilità di questa pro-
posta.
Dedico questo lavoro a Elena e Tomaso, entrambi ora alle prese,
per vie diverse, con i problemi della ricerca.

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Prefazione 15

Nota

Accanto a parti nuove, sono qui ripresi, a volte integralmente, a vol-


te con modifiche e aggiunte, alcuni saggi pubblicati negli ultimi an-
ni. Queste le indicazioni bibliografiche relative:

- Rappresentanza, in Lessico della politica, a cura di G. Zacca-


ria, Edizioni Lavoro, Roma 1987, pp. 479-488;
- Pensare la politica, in «Filosofia politica», III (1989), n.1, pp.
59-73;
- Costituzione e rappresentazione: nesso insopprimibile e apore-
tico dell'epoca moderna?, in Logiche e crisi della modernità, a cura
di C. Galli, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 143-158;
- Fine del governo e nascita del potere, in «Filosofia politica»,
VI (1992), n.3, pp. 429-462;
- Sulla genesi del moderno concetto di società: la “consociatio”
in Althusius e la “socialitas” in Pufendorf, in «Filosofia politica»,
X (1996), n. 1, pp. 5-31;
- Carl Schmitt: teologia politica e logica dei concetti politici
moderni, in «∆αιµων», 1996, n. 13, pp. 77-98;
- Storia concettuale come filosofia politica, in «Filosofia politi-
ca», XI (1997), n. 3, pp. 396-426.

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1. Storia concettuale come filosofia politica

1.1 Oltre l’alternativa tra storia e teoria

Il dibattito sui concetti della vita sociale e politica, in relazione alla


loro determinatezza e all’ambito storico in cui sono significativi e
impiegabili, ha preso oggi una rilevanza facilmente percepibile. Si è
diffusa un’attenzione critica di cui è sintomo ad esempio l’uso sem-
pre più raro del termine stato per riferirsi alla polis greca o alla filo-
sofia politica di Platone e di Aristotele, o quello di società nel me-
dioevo in riferimento a presunti rapporti tra gli uomini solo sociali,
scevri di contenuto politico. Analisi di storia dei concetti accompa-
gnano anche molti lavori scientifici sulle tematiche sociali e politi-
che. Tuttavia non è sempre semplice intendere cosa si voglia espri-
mere con l'espressione storia dei concetti o storia concettuale e a
che cosa miri e come si strutturi un lavoro che tale espressione in-
tende indicare. Può anzi sembrare che, pure riferendosi alla tedesca
Begriffsgeschichte – quale si è delineata attraverso i lavori di Otto
Brunner, Werner Conze e Reinhart Koselleck, gli ideatori dei Ge-
schichtliche Grundbegriffe1 che sono qui tenuti particolarmente
presenti – molti autori che tendono a produrre storie di concetti si
muovano in realtà in un piano assai diverso, se non addirittura op-
posto.

1 Geschichtliche Grundbegriffe, Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Spra-


che in Deutschland, hrsg. O. Brunner, W. Conze, R Koselleck, Klett Cotta, Stut-
tgart 1972-1992 (d’ora in poi GG o Lexikon). Per una presentazione dell’opera ri-
mando alla mia nota, Historisches Lexikon e storia dei concetti, «Filosofia politi-
ca», 1994, n. 1, pp. 109-120

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Il significato della Begriffsgeschichte si è andato chiarendo in


una serie di lavori e in un lungo dibattito2. A tale chiarimento appa-
re utile il confronto con la direzione critica propria della storiogra-
fia del discorso politico della cultura anglosassone. Questa discus-
sione trova un momento rilevante nel dialogo tra Pocock e Kosel-
leck e nello stimolo alla mediazione tra le due posizioni che provie-
ne da Melvin Richter3. Non è tuttavia su questo confronto tra pro-
spettive storiografiche che intendo riflettere, quanto piuttosto diret-
tamente sulla tedesca Begriffsgeschichte, nel modo in cui essa si è
venuta configurando, non solo nel lavoro e nella esplicitazione me-
todologica di Koselleck, ma anche, e in modo prevalente, in una se-
rie di indicazioni che ravviso nelle opere di Otto Brunner. A giusti-
ficazione di tale scelta stanno non solo le caratteristiche critiche
della storia dei concetti, che ne fanno un modo di approccio indi-
spensabile ai concetti politici, come si potrà in seguito riscontrare,
ma anche il fatto che è nel riferimento prevalente alla Begriffsge-
schichte che ha preso corpo un lavoro di ricerca svolto nell’arco di
un quindicennio, di cui si vogliono nel presente volume ricordare le
linee fondamentali. Ciò a cui si mira è dunque la presentazione di
un modo di intendere e praticare la storia concettuale che ha una
sua dimensione specifica, nella quale l’elemento filosofico risulterà
determinante; tale approccio storico concettuale è intrinsecamente
legato ai risultati conseguiti nella ricerca svolta, e a un confronto
critico con autori quali Koselleck e, soprattutto, Brunner.
Il tentativo è anche quello arrischiare una proposta relativa alla
struttura e alla pratica della filosofia politica. La proposta consiste
nello stretto legame tra storia concettuale e filosofia politica, anzi

2 Per una informazione su questo dibattito si vedano i saggi di S. Chignola, Storia


concettuale e filosofia politica. Per una prima approssimazione, «Filosofia politi-
ca», 1990, n.1, pp. 5-36 e Storia dei concetti e storiografia del discorso politico,
«Filosofia politica», 1997, n.1, pp. 99-124.
3 Per la discussione tra Pocock e Koselleck favorita dai lavori di M. Richter, si ve-
da il volume The History of Political and Social Concepts. A Critical Introduction,
edited by H. Lehmann and Melvin Richter, Oxford University Press, New York
and Oxford 1995; i saggi di Richter, Pocock e Koselleck sono tradotti in «Filosofia
politica», XI (1997), n. 3. Sulla difficoltà per altro di trovare un piano omogeneo
tra le diverse strategia di ricerca a cui aprono queste due impostazioni metodologi-
che si veda Chignola, Storia dei concetti e storiografia cit., spec. p. 115.

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1. Storia concettuale come filosofia politica 19

nella loro identità, se il lavoro storico concettuale è inteso nella sua


criticità e radicalità, e se la filosofia politica non è intesa come una
costruzione astratta della nostra mente, a cui ci si sente autorizzati,
come dice Hegel, quasi non si pensasse in una realtà (Wirklichkeit)
in cui si danno rapporti politici4. L'identità proposta nasce anche da
una interrogazione rivolta a quelle posizioni di filosofia politica che
pretendono di poter svolgere una riflessione teoretica sulla politica
usando i concetti senza una loro determinazione, quasi fossero uni-
versali, significanti in modo univoco per tutte le epoche. Si cercherà
di mostrare come, se si compie una riflessione, ad esempio, sul po-
tere, o sulla democrazia, senza che questi concetti siano determinati
in modo specifico – che si chiarirà come storico-concettuale –, ciò
comporti non solo indeterminatezza e confusione, ma, ancor più, la
mancanza di consapevolezza critica dei concetti che noi usiamo nel-
la nostra riflessione: da dove vengono, quali presupposti hanno,
quale la loro logica e quali le aporie che in essi si rivelano? Queste
sono invece le domande che una riflessione teoretica mi pare debba
assumere per essere tale.
L’identità di filosofia politica e storia concettuale cozza contro
l’assetto accademicamente consolidato e giustificato da fonti auto-
revoli delle discipline scientifiche, che si distinguono appunto in
storiche e teoretiche. Ma è proprio la possibilità di una conoscenza
storica a sé stante e oggettiva, come pure di una riflessione teorica
che rifletta per modelli e che possa comparare in un piano unitario
ciò che la conoscenza storica ci offre, che deve essere problematiz-
zata, al di là della sua apparente ovvietà. Quando si tende a deter-
minare la filosofia politica come piano teorico, in cui si possono
confrontare e valutare le produzioni del pensiero politico che si so-
no date nella storia (ad esempio la polis di Aristotele, il Common-
wealth di Hobbes, lo Stato di Hegel) in realtà si cristallizzano, e-
stendendoli a validità universale, i concetti politici moderni, e si
perde la specificità di ciò a cui ci si vuole riferire. Uguale esito ha
anche la storia del pensiero politico, che pone pur sempre in un pia-
no unitario le diverse posizioni e non si interroga sui concetti che

4 Cfr. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, Later-
za, Bari 1987, Prefazione, p. 6.

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usa nel fare storia. In ambedue i casi ciò che non viene posto a tema
è proprio il filosofico, nel significato platonico del termine, come
domanda originaria e come atteggiamento di meraviglia (lo thau-
mazein) che sono suscitati all'interno di ciò che appare ovvio5.
L'approccio storico-concettuale al problema politico, nella proposta
che intendo avanzare, mette in questione proprio la praticabilità del-
le due vie di analisi, quella teorica (che si basa in realtà su concetti
storicamente determinati) e quella solo storica (che implica in realtà
concetti di cui bisogna dare ragione).

1.2 I concetti hanno una storia?

Seguendo alcuni lavori di Koselleck e di Brunner si può tentare di


precisare il senso della Begriffsgeschichte in una direzione che mo-
stra ad essa estranei alcuni modi oggi correnti di fare storia dei con-
cetti. Una prima indicazione che può sembrare paradossale, ma che
risulta essenziale per l'impostazione del problema, è quella, più vol-
te espressa da Koselleck, che i concetti non hanno storia6. Tale af-

5 Si pensi ad esempio alla distinzione, corrente nella «filosofia politica» discipli-


narmente intesa, della coppia di aggettivi opposti «descrittivo» e «prescrittivo»,
che è tipica di un tale modo di intendere la filosofia politica, e allude a un piano
della realtà, storicamente o scientificamente descrivibile, e ad uno delle idee, filo-
sofico appunto, nel quale si avanzano norme, indicazioni sul che fare. Tale distin-
zione pretende poi di essere valida per classificare le opere e il pensiero del passa-
to, decidendo appunto il piano in cui si collocano. A questo proposito è da rilevare
che tale distinzione ha alla sua base un modo «moderno» di intendere la scissione
di idea e realtà, di fatto e valore, e non appare applicabile ai Greci (ci si provi a
porre la domanda se il pensiero politico di Aristotele ha un carattere descrittivo o
prescrittivo), ma nemmeno a filosofi moderni quali Hegel (anche qui: è descrittiva
o prescrittiva la Filosofia del diritto?). Non solo, ma in questa distinzione, ciò che
va perduto è proprio il filosofico, un’interrogazione radicale sulla realtà e sul senso
del rapporto tra gli uomini, che non è riducibile né a una realtà empirica oggetti-
vamente determinabile, né a una serie di norme costruite dal pensiero in un preteso
spazio di autonomia e di coerenza. Alla pratica di una riflessione filosofica sulla
realtà umana si sostituisce una costruzione teorica, che è appunto il «risultato» di
un modo moderno di intendere la politica.
6 «Begriffe als solche haben keine Geschichte. Sie enthalten Geschichte, haben
aber keine»: così R. Koselleck, Begriffsgeschichtliche Probleme der Verfassungs-
geschichtsschreibung, in Theorie der Geschichtswissenschaft und Praxis des Ge-
schichtsunterrichts, hrsg. Werner Conze, Klett, Stuttgart 1972, p.14.

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1. Storia concettuale come filosofia politica 21

fermazione non si appoggia solo sull’idea filosofica, espressa da


Nietzsche e spesso da Koselleck richiamata, che "definibile è solo
ciò che non ha storia"7, ma anche sulla consapevolezza che sono
proprio i concetti a permettere di raccogliere in un contesto la mol-
teplicità di un'esperienza storica. E' proprio questa funzione del
concetto, assieme a quella che si chiarirà essere la sua storicità, il
fatto cioè che esso viene a prendere un significato determinato in
relazione a un determinato contesto, ad impedire che ci sia storia
del concetto. I lavori che si muovono nell'orizzonte in cui la storia
dei concetti è descrizione dei mutamenti storici che i concetti a-
vrebbero avuto nel tempo, implicano da una parte il tempo storico,
con il suo mutare, e dall'altra, paradossalmente, una identità del
concetto che muta. Storico è il mutamento, razionale l'identità del
concetto, o di quel suo substrato che permette il mutare delle diver-
se declinazioni storiche. In tal modo si avrebbe un concetto univer-
sale, valido in sé, e dunque non determinato secondo un contesto:
tale impostazione è radicalmente altra dalla storia concettuale8.
Spesso, quando si attribuiscono mutamenti storici ai concetti, ci
si trova di fronte, in realtà, alla nascita di nuovi concetti che usano
per veicolarsi vecchie parole. Questo avviene, ad esempio, per pa-
role che sono significative per il modo moderno di intendere la poli-
tica. Parole come «società», «sovranità», «popolo», «economia» – e
l'elenco potrebbe continuare – si possono trovare in contesti lingui-
stici precedenti la scienza politica moderna, dove indicano realtà
diverse. Ad esempio, il termine societas, che per una lunga tradi-
zione di pensiero ha indicato la comunità tra gli uomini fondata sul-
la politicità della natura umana, viene ad essere usato nel moderno
giusnaturalismo per indicare una realtà che ha come presupposto
l’individuo e il suo ruolo fondamentale nella costruzione del corpo
politico, il quale, una volta costituito, rende possibile il rapporto tra

7 Cfr. Storia dei concetti e storia sociale, in Futuro passato, Marietti, Genova
1986, p.102 (ed. or. Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtlicher Zeiten,
Suhrkamp, Frankfurt a. Main 1979).
8 Non è l’identità del concetto ciò che permette l’unificazione di passato e presen-
te, di moderno e di ciò che ad esso è precedente. Il problema della comunicazione
con le esperienze passate, soprattutto quelle che sono in contesto altro dal moderno
è problema che Koselleck stesso pone, spesso contro Brunner: su tale problema si
veda oltre.

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gli uomini solo grazie all’instaurazione del potere politico e del suo
esercizio, solo grazie dunque ad una concezione che intende come
agire politico l'agire pubblico di chi esercita per tutti il potere9. Qui
non si assiste tanto alla modificazione storica di un concetto – quel-
lo di «società» – eterno e connotante una realtà oggettiva, quanto
piuttosto alla nascita di un concetto che prende il suo significato de-
terminato in relazione all'epoca moderna e a un complessivo conte-
sto concettuale10. La stessa cosa vale per gli altri termini sopra indi-
cati: popolo, economia, sovranità, Stato. Essi sono ancora usati co-
me parole, ma i concetti che le parole veicolano nel contesto giu-
snaturalistico sono nuovi: essi si possono porre solo azzerando un
modo millenario di pensare l'uomo e la politica.
Da ciò si può dedurre che storia dei concetti è una espressione
equivoca, che può portare fuori strada, e solo una pigrizia intellet-
tuale si acquieta sul termine che è ormai entrato nell'uso: ciò rende
pertanto sempre di nuovo necessario il suo chiarimento11. Una delle
caratteristiche della Begriffsgeschichte, che deriva da quanto si è
detto, consiste nel fatto che la storia concettuale non è storia delle
parole, storia dei termini. A volte parole diverse indicano uno stes-
so contenuto, mentre, come si è visto, le stesse parole indicano real-
tà diverse, non inseribili in un comune orizzonte concettuale. Kosel-
leck esclude addirittura una possibilità, che qualcuno potrebbe a-
scrivere alla storia concettuale, cioè che la Begriffsgeschichte sia
storia del linguaggio: essa non lo è, nemmeno come parte di una
storia sociale complessiva12. Piuttosto essa si occupa «della termi-

9 Rimando, per il chiarimento di questo esempio, al cap. III del presente lavoro.
10 Di tipo diverso è il mutamento che il termine «società civile» assume tra Sette e
Ottocento, quando, in contrapposizione a quello di Stato, intende indicare la realtà
pre-politica e a-politica dei rapporti tra gli uomini. Mentre infatti il concetto giu-
snaturalistico di societas civilis in tanto si può porre in quanto destituisce di validi-
tà un modo precedente di intendere l’uomo e la società, questa nuova accezione di
società civile contrapposta allo Stato ha alla sua base proprio quella costruzione
della societas civilis che nasce con il giusnaturalismo.
11 Cfr. Koselleck, Begriffsgeschichtliche Probleme cit., p. 14.
12 Ciò è, a mio avviso, importante per un dibattito sulla storia concettuale e sul suo
rapporto con la storia costituzionale. Al di là del modo in cui tale rapporto può es-
sere determinato, la storia concettuale non è una parte da sintetizzare con le altre in
una storia sociale complessiva, che si estende alla totalità. Se vale lo stretto rappor-
to che cercherò di dimostrare tra storia concettuale e filosofia politica, quest’ultima

Giuseppe Duso – La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica
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1. Storia concettuale come filosofia politica 23

nologia politico-sociale, rilevante per l'esperienza che sta alla base


della storia sociale»13. Resta allora assodato che i lavori che si ri-
solvono in storia delle parole (a volte anche i saggi contenuti nei
GG sembrano correre questo rischio) non sono storia concettuale,
per il modo di intendere la Begriffsgeschichte dei suoi stessi fonda-
tori 14.
La storia concettuale può perfino nutrire un certo disinteresse
per la parola: ciò che importa è intendere il concetto che con quella
parola si esprime. È singolare che tale disinteresse si possa rintrac-
ciare proprio in Brunner, che è stato accusato, anche dallo stesso
Koselleck, di voler rimanere rigidamente troppo fedele al linguag-
gio delle fonti come linguaggio altro dal nostro, in modo da rendere
quasi impossibile il lavoro dello storico15. Come si può vedere in
molti suoi saggi, spesso siamo costretti ad usare parole in cui si so-
no sedimentati significati concettuali moderni: questo succede per
molte parole adottabili nel lavoro storico. Ciò che importa allora è
avere consapevolezza della specificità dei concetti moderni che
connotano la parola e della loro irrelatività ad altri contesti a cui ci
si rivolga. Il problema non è terminologico, ma concettuale: per in-
tendere quei contesti dobbiamo avere consapevolezza della non ap-
plicabilità ad essi della concettualità moderna16. Non è ad esempio
rilevante usare per la situazione precedente lo Stato moderno l'e-
spressione «stato per ceti» o «società per ceti», purché si intenda
che non possono valere le nozioni di Stato e società che siamo abi-

non è allora una parte delle scienze dello spirito, da mettere accanto alle altre di-
scipline e ai processi economici e sociali per una ricostruzione globale della storia,
ma incontra il problema della storia sociale nel punto alto della coscienza critica
dei concetti che rendono la storia sociale significante e permettono il suo formarsi.
13 Koselleck, Storia dei concetti e storia sociale cit., p. 92.
14 Intendo qui limitarmi solo ad alcuni elementi, a mio avviso fondamentali, che
stanno alla base dei GG.
15 Koselleck è continuamente tornato su questa critica: si veda come esempio Be-
griffsgeschichtliche Probleme cit., p. 13, e lo stesso saggio tradotto in «Filosofia
politica» (1997), n.3. La critica di Koselleck a Brunner è legata al problema della
possibilità e del significato del nostro rapporto con le fonti: su di essa torneremo in
seguito.
16 Cfr. ad esempio O. Brunner, Land und Herrschaft, Wien 1939, trad. it. Terra e
potere, a cura di G. Nobili, P. Schiera e C.Tommasi, Giuffré, Milano 1983, il capi-
tolo su Stato, diritto, costituzione.

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24 Giuseppe Duso – La logica del potere

tuati ad usare, connotanti realtà contrapposte e tuttavia tra loro rela-


zionate, quali l’insieme delle istituzioni politiche da una parte, e dei
molteplici rapporti non politici dall'altra. Brunner opportunamente
ricorda che la realtà che si indica con «stato dei ceti» si trova ancora
all'interno di un contesto concettuale in cui alla societas civilis, o
civitas o respublica, che traduce la koinonia politiké – e dunque è
politica – si contrappone non lo Stato, ma la sfera dell’oikos, o so-
cietà domestica; e le discipline che si riferiscono a queste realtà, la
politica e l’economica, sono ambedue discipline etiche e costitui-
scono la scienza pratica (a volte insieme alla monastica)17. Ed è an-
cora da aggiungere che tutte queste sfere su cui riflette l’etica, quel-
la individuale, quella della casa e quella della respublica, sono se-
gnate da una dottrina della signoria (Herrschaft), del re nella respu-
blica, del padrone di casa nella casa e della ragione sopra gli istin-
ti18. In questo contesto non può allora valere né un concetto di so-
cietà come priva di imperium, né un concetto di Stato connotato dal
potere moderno o dalla sovranità, con la conseguente nozione di
monopolio della forza. Una volta acquisita coscienza dei contenuti
che si sono sedimentati nelle parole che si adoperano, nonché
dell’area specifica della loro applicabilità, l’uso del termine per in-
dicare la diversa realtà della società pre-moderna perde di rilevanza.
Occorre, a questo punto, riferirsi alla nota definizione koselle-
ckiana di concetto e del suo rapporto con la parola: «una parola di-
viene concetto quando tutta la ricchezza di un contesto politico-
sociale di significati e di esperienze, in cui e per cui si usa un parti-
colare termine, entra, nel suo insieme, in quella stessa e unica paro-
la». I concetti sono allora «concentrati» di molti contenuti semantici
e in essi i significati e ciò che significano si identificano, in quanto
la molteplicità dell'esperienza storica viene espressa proprio attra-

17 Cfr. Brunner, I diritti di libertà nell’antica società per ceti, in Per una nuova
storia costituzionale e sociale, a cura di P. Schiera. Vita e pensiero, Milano 1968,
p. 202; tale testo traduce molti dei saggi apparsi in Neue Wege der Verfassung- und
Sozialgeschichte, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 19682.
18 Come avrò modo di indicare in seguito, questo contesto è contrassegnato da una
teoria del governo, che non solo non può essere identificato con il potere, ma im-
pedisce proprio di pensare a un rapporto come quello moderno di potere.

Giuseppe Duso – La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica
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1. Storia concettuale come filosofia politica 25

verso il significato del concetto19. Il concetto dunque ha a che fare


con la realtà storica, con la realtà dei rapporti umani, con la storia
sociale. L’affermazione che i concetti non hanno storia non implica
che le parole, come portatrici di concetti, producano in modo auto-
nomo, mediante una semplice prestazione intellettuale, nuovi signi-
ficati. La storia concettuale nasce nel seno della storia sociale o del-
la storia costituzionale ed è attenta alle strutture dei raggruppamenti
umani, alla loro costituzione.

1.3 Storia concettuale e storia sociale

Nella lezione della Begriffsgeschichte, almeno in una prima appros-


simazione, i concetti risultano legati ad una determinata epoca sto-
rica: emergono in un contesto storico e sono nello stesso tempo ne-
cessari alla comprensione di quest'ultimo. Essi sono indicatori dei
mutamenti e delle trasformazioni sociali e vengono intesi corretta-
mente in quanto sono inseriti nelle strutture sociali in cui agisco-
no20. Storia concettuale e storia sociale appaiono così complemen-
tari. Ma nell'indicazione degli apporti che la storia concettuale ha
offerto alla storia sociale e dei vantaggi raggiunti dalla prima, Ko-
selleck mette in luce l'aspetto della storia concettuale già emerso
nell'atteggiamento sopra riportato di Brunner in rapporto alle fonti.
Una prima valenza specifica della Begriffsgeschichte – dice Kosel-
leck – è rintracciabile nella critica alla inavvertita applicazione al
passato di espressioni della vita costituzionale21. Il rimando diretto
è a un saggio del 1961 di Böckenförde22, ma certo non si può non
ricordare alla base di tale consapevolezza il lavoro di Brunner, qua-
le era emerso in Land und Herrschaft, e nel saggio metodologico

19 Koselleck, Storia dei concetti e storia sociale, p. 102. A causa di questo signifi-
cato del concetto e della relativa omogeneità dei processi sociali e dei modi di pen-
sare che si hanno nella tradizione europea, si può comprendere come, pur essendo-
ci compiti specifici nell’analisi delle lingua sociale e politica delle singole aeree
linguistiche, ci siano anche storie comuni e comunicabili: perciò ha anche per noi
rilevanza l’impresa dei GG.
20 Ivi, p.95.
21 Ivi, p. 98.
22 E.-W. Böckenförde, Die deutsche verfassungsgeschichtliche Forschung im 19.
Jahrhundert. Zeitgebundene Fragestellungen und Leitbilder, Berlin 1961.

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26 Giuseppe Duso – La logica del potere

che ne riassume i risultati, Il moderno concetto di costituzione e la


storia costituzionale del medioevo23. Qui risulta evidente che la
comprensione del medioevo consiste da una parte
nell’interpretazione corretta e penetrante delle fonti e dall'altra nella
conoscenza della situazione scientifica contemporanea: più preci-
samente nella consapevolezza di quanto la problematica scientifica
che si rivolge al passato sia formata da una serie di nessi e da un
modo di intendere la costituzione che sono tipici dell’età moderna.
L’apparato concettuale degli studiosi della costituzione medievale,
in quanto pregno di concetti quali «sovranità», «potere statale»,
«limiti del potere», «popolo dello Stato», «distinzione di pubblico e
privato», ha prodotto pseudoproblemi e ha reso impossibile la com-
prensione del medioevo.
Se si riflette su questo saggio di Brunner, si può dire non solo
che, per accostare un contesto altro dal nostro, è necessario intende-
re bene le fonti e conoscere il nostro apparato scientifico, ma anche
che l’analisi corretta delle fonti è possibile solo in quanto abbiamo
coscienza della determinatezza e della epocalità che caratterizza le
parole che usiamo: è questa coscienza che ci può portare al di là dei
significati sedimentati nel termine – nel caso specifico quello di
«costituzione» – per poter intendere una realtà che si struttura in
modo diverso da quella moderna. Ciò porta ad una conclusione che
può sembrare paradossale, ma in cui mi sembra consistere il nucleo
più essenziale della storia concettuale: non è possibile intendere il
pensiero e la realtà medievale, come quella greca, senza compiere
un’analisi critica dei concetti moderni, senza averli compresi nella
loro peculiarità. In caso contrario succede che la più scaltrita filolo-
gia, non potendo non usare termini moderni, si porta acriticamente
appresso la loro concettualità, in modo surrettizio, producendo un
fraintendimento radicale delle fonti – pur filologicamente analizza-
te. Si pensi, ad esempio, all’uso di termini come Stato, sovranità,
potere, comando, legge, che sono usati nelle traduzioni delle opere
di Aristotele, o si pensi a quanto pesi il significato moderno di po-
polo e democrazia nell’accostare il problema della democrazia in
Aristotele e nella Grecia.

23 Cfr. Brunner, Per una nuova storia costituzionale e sociale cit., pp. 1-20.

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1. Storia concettuale come filosofia politica 27

Il rapporto dell'analisi concettuale con la storia sociale comples-


siva ha comportato per Koselleck un secondo vantaggio: quello di
una critica alla «storia delle idee» e alla sua tendenza a presentare
queste ultime come grandezze costanti, atte ad articolarsi in figure
storiche diverse, senza modificare il loro nucleo. È la storia delle
idee a costituirsi nel modo che qualcuno tende ad attribuire alla sto-
ria dei concetti: i concetti cioè appaiono come universali, eterni, i-
dentici a se stessi, e poi si declinano in figure storiche diverse. Per
esemplificare potremmo riferirci a un uso, ancora diffuso, che rav-
visa nel concetto di Stato, in quanto dimensione politica universale
degli uomini, diverse configurazioni storiche, quali la polis,
l’impero medievale, le città stato, lo stato dei ceti, lo stato moderno.
Non solo in questo modo il concetto universale rischia di essere to-
talmente indeterminato, e dunque non tanto concetto, quanto piutto-
sto immagine confusa, ma, ancor più, una tale storia delle idee in-
tende in realtà, consapevolmente o no, il concetto secondo le de-
terminazioni che esso ha nel moderno, e poi lo proietta in contesti
del passato, travisandoli totalmente24.
La critica a una storia dello spirito e della cultura astratta da una
storia sociale complessiva si trova molto esplicitamente anche in
Brunner, il quale indica come l’autonomia di una tale storia può es-
sere intesa solo sulla base della separazione di spirito e realtà, esse-
re e dover essere, idee e società, fattori ideali e fattori reali. Ma tale
separazione è ancora una volta il prodotto di concetti relativamente
recenti e ha alla sua base la distinzione di idea e realtà che è propria
di alcune posizioni inaugurali della filosofia moderna. In questo
contesto sono declinabili tesi idealistiche, che pongono la realtà
come espressione dell'idea, o tesi materialistiche, che leggono l’idea
come espressione della realtà25, ma ambedue i tipi di tesi sono im-
proponibili se si ha consapevolezza della loro origine e del fatto che

24 Nell’esempio fatto nel testo, che riguarda sia l’uso comune del linguaggio, sia
lavori «scientifici» o storici, il concetto universale di Stato porta con sé il concetto
di potere, come rapporto formale di comando-ubbidienza, tipico del modo moder-
no di intendere la politica, e con questo si pretende di intendere realtà come quelle
della polis o del medioevo, nelle quali il contesto di pensiero è, come ricordato so-
pra, tale da rendere impensabile questo concetto di potere.
25 Cfr. Brunner, Il problema di una storia sociale europea, in Per una nuova sto-
ria costituzionale cit., p. 24.

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28 Giuseppe Duso – La logica del potere

realtà e spirito sono qui astrazioni. Questo è da tener presente quan-


do si dice che i concetti hanno il loro significato all’interno della
realtà storico-sociale. Non si intende in tal modo dare il primato a
una realtà sociale, quale vera realtà che le idee e le ideologie rispec-
chierebbero: tale «realtà sociale» è di fatto un’astrazione intellettua-
le, e cioè il risultato di un oggetto ritagliato dalla realtà complessi-
va, di un’operazione che è possibile mediante un procedimento ide-
ologico; altra e più complessa e la storia sociale a cui Brunner mi-
ra26.
Inoltre, se è vero che i concetti hanno un loro significato in rela-
zione alla realtà storico-sociale, e la storia concettuale non si occu-
pa dei sistemi politici prodotti dagli intellettuali, ma dei concetti che
hanno un loro terreno nella vita politico-sociale, è anche vero che
tra concetto e realtà storica ci può essere non immediata pertinenza,
ma piuttosto tensione27 e che la ricaduta e la rilevanza per la storia
costituzionale vanno misurate in tempi lunghi28. Ma prima di riflet-
tere sul rapporto tra concetto e storia, ci si deve chiedere cosa signi-
fichi storia dei concetti, se i concetti non hanno storia. Insomma,
bisogna determinare il nucleo della storia concettuale, con la consa-
pevolezza che nel far questo sarà ancora più evidente un modo pe-
culiare di intendere e di interrogare questi autori tedeschi, legata ad
una specifica pratica del lavoro storico-concettuale.

1.4 Storia e critica dei concetti moderni

Se oggetto della Begriffsgeschichte non sono i concetti e la loro sto-


ria e se i contesti passati, come si è visto dalle indicazioni di Brun-
ner, si possono intendere solo avendo consapevolezza della deter-

26 Per l’intreccio tra espressione del pensiero e processi sociali è significativo il


lavoro di Pierangelo Schiera, che ha introdotto in Italia i lavori di Brunner: per la
formazione e la trasmissione delle discipline scientifiche viste come «fattori costi-
tuzionali» e per il loro intreccio con la storia sociale e politica, si veda P. Schiera,
Scienza e politica nella Germania dell’Ottocento, Il Mulino, Bologna 1987.
27 Cfr. Koselleck, Storia concettuale e storia sociale cit., p.103.
28 È questo il caso, come si vedrà, del giusnaturalismo, in cui non è da ravvisare
un semplice contesto teorico tra gli altri, ma il luogo di formazione dei concetti
moderni.

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1. Storia concettuale come filosofia politica 29

minazione e della parzialità (cioè, a questo livello del nostro discor-


so, della non universale applicabilità) dei concetti moderni, si può
allora forse affermare che vero centro focale della storia concettuale
sono i concetti politico-sociali moderni. Il problema è determinare
quando nascono i concetti politici che noi usiamo, come siano giun-
ti fino a noi, quale contesto epocale e quali presupposti richiedano,
e infine quale reciprocità si sviluppi tra essi. Ciò che caratterizza un
approccio storico-concettuale ai problemi politici è la consapevo-
lezza, espressa iterativamente da Brunner, che vero ostacolo alla
comprensione di contesti passati diversi dal nostro è il fatto che
l’apparato concettuale che adoperiamo non è universale, ma è
condizionato dalla nascita del mondo moderno: «il linguaggio, il
mondo concettuale con il quale oggi operiamo deriva da una precisa
situazione storica, quella della nascita del mondo moderno e ne è
ancor oggi sostanzialmente condizionato»29. Qui mi sembra risiede-
re l’identificazione del problema da parte della storia concettuale,
ciò che ne costituisce la forza e ne delinea compito.
Tale consapevolezza della necessità di comprendere i concetti
moderni si ritrova nell’Introduzione alla monumentale opera costi-
tuita dai Geschichtliche Grundbegriffe, in cui si pongono al centro
dell’indagine i concetti che dal Settecento giungono fino alla nostra
contemporaneità. In questi ci sono trasformazioni, mutamenti, dif-
ferenze, ma si rimane sostanzialmente all’intero dello stesso oriz-
zonte concettuale. Il problema centrale del Lexikon è costituito dalla
«Auflösung der alten und die Entstehung der modernen Welt»30, e
il tentativo è quello di ricostruire il significato e la logica dei con-
cetti che giungono fino a noi. Vi è la consapevolezza delle trasfor-
mazioni che in essi si danno, e anche della particolarità della situa-
zione della nostra contemporaneità, che richiederebbe un lavoro ul-
teriore, per il quale la storia dei concetti moderni è solo un lavoro
preliminare. Il contesto che si delinea è per altro quello dei concetti
che giungono alla nostra contemporaneità, e partono dalla dissolu-
zione del mondo antico. Quando – avverte Koselleck – nel Lexikon
si seguono le parole nel mondo antico e medievale, ciò non è fatto

29 Cfr. Brunner, Città e borghesia nella storia europea, in Per una nuova storia
costituzionale cit., p. 117.
30 Koselleck, Einleitung, GG, Bd. I p. XIV.

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30 Giuseppe Duso – La logica del potere

nella logica della ricostruzione della lunga storia del concetto, che
attraverserebbe epoche diverse caratterizzandosi in modo diverso,
ma nell’intento di seguire nel mondo pre-moderno31 quella parola
che veicola il concetto moderno, e ciò per mostrare che essa si rife-
risce ad un altro contesto di pensiero e di realtà. La vera determina-
zione del concetto – quale giunge fino a noi – inizia con l’età mo-
derna, nella quale cambia il rapporto dell’uomo con la natura, con
la scienza, con la storia32.
Non vi sono dunque concetti politici che si connotano nelle di-
verse epoche in modo diverso, ma vi è piuttosto l’epoca dei concetti
moderni, in cui i concetti hanno una specifica costruzione e vengo-
no a collegarsi tra loro in un sistema di relazioni. Fuori di
quest’epoca vi è un modo diverso di pensare l’uomo e la società. È
singolare che per lo storico Brunner vi sia un modo di intendere i
rapporti umani, che, pur nelle evidenti trasformazioni della realtà,
tuttavia è determinato da un quadro di riferimento omogeneo, un
quadro che dura per duemila anni33. Le cose cambiano radicalmente
con «lo scoppio del mondo moderno»34, in cui si instaura un diver-
so modo di intendere l’uomo, il sapere e, conseguentemente, la po-
litica. Anche per Brunner questo contesto deve essere inteso nella
sua specificità come nella sua unilateralità, per poter correttamente
capire realtà diverse, ma anche per capire una realtà che continua

31 Si tenga presente che qui la parola pre-moderno non si riferisce a un modo di


considerare il passato proprio delle scienze storiche moderne, che considerano,
sulla base della determinazione astratta e moderna di un ambito disciplinare la sto-
ria precedente come una preistoria (cfr. su ciò le pp. sgg.), non implica cioè un
giudizio di valore e un itinerario prefigurato, ma piuttosto vuole indicare l’alterità
di quel contesto che non è comprensibile sulla base ermeneutica dei concetti mo-
derni.
32 Koselleck, Einleitung cit., p. XV.
33 Cfr. il fondamentale saggio di Brunner, La «casa come complesso» e l’antica
«economica» europea, in Per una nuova storia costituzionale cit., spec. p.146.
Certo, all’interno di questo quadro molte sono le differenze, che richiedono, per
essere intese, uno studio attento delle fonti, ma in ogni caso, proprio questo studio
è fruttuoso solo grazie alla comprensione dell’alterità del quadro complessivo in
cui si collocano nei confronti del nostro modo di pensare.
34 Di questa irruzione spesso parla Brunner, che identifica l’epoca moderna come
l’epoca delle ideologie, grazie alla frattura posta tra idea e realtà (cfr. L’epoca delle
ideologie. Inizio e fine, in Per una nuova storia costituzionale cit., p. 217-240).

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1. Storia concettuale come filosofia politica 31

nel mondo moderno senza poter essere colta con gli occhi riduttivi
dei concetti moderni.
La storia concettuale coincide con la comprensione storico-
epocale dei concetti moderni: essa rende evidente lo stretto legame
tra il senso specifico dei concetti che adoperiamo e le condizioni e i
presupposti dell’epoca moderna. Se ciò è vero, allora il punto cen-
trale dell’indagine è la determinazione della rottura, la Trennung,
con il modo di pensare della tradizione, a cui deve seguire l’analisi
delle condizioni nelle quali si sono verificate la Auflösung der alten
Welt e la Entstehung der modernen Welt. Il momento di rottura è
identificato dal Koselleck (e ciò è ripetuto anche nell'Introduzione
del Lexikon) nella famosa Sattelzeit, in quel momento di trapasso e
di mutamento, che, a buona ragione, anche nel passato abbiamo re-
so con l'espressione «soglia epocale»35. Questa si determina nella
seconda metà del Settecento, quando si manifesta diffuso un nuovo
mondo concettuale, si assiste alla nascita di nuove parole, mentre le
vecchie acquisiscono un significato totalmente nuovo, diventano
cioè portatrici di nuovi concetti36. Sarà utile, per il ragionamento
che faremo, riferirsi agli esempi indicati da Koselleck: Demokratie,
Revolution, Republik, e, oltre a questi termini, quello di Geschichte;
ciò perché si tratterà di capire in che cosa si possano ravvisare gli
elementi fondamentali dei nuovi concetti che in queste parole si
manifestano, quali ne siano i presupposti e dove facciano la loro
comparsa per la prima volta. A questo proposito si può esprimere
una proposta in direzione della tedesca Begriffsgeschichte, che pro-
blematizza la soglia epocale individuata da Koselleck. Ma prima è
necessario porsi la questione di come si debba intendere
l’affermazione secondo cui il mondo moderno costituisce l’ambito
in cui nascono questi concetti. La risposta immediata, avanzata
nell’alveo della Begriffsgeschichte, è che si tratti dei processi costi-
tutivi dello stato moderno, del processo storico di cui i concetti sa-
rebbero un riflesso. Tale risposta non mi sembra però consona

35 Ci conforta in ciò Koselleck, che, recentemente, propone di parlare di Schwel-


lenzeit, anziché di Sattelzeit (cfr. Una risposta ai commenti sui «Geschichtliche
Grundbegriffe», nel già indicato numero 3 di «Filosofia politica» del 1997).
36 Cfr. Koselleck, Einleitung cit., p. XV.

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32 Giuseppe Duso – La logica del potere

all’orizzonte della storia concettuale, almeno nella forma in cui essa


è praticata da Brunner37.

1.5 Il concetto di storia è un concetto moderno

Mi sembra significativo a questo proposito tentare un itinerario,


forse parziale e rischioso, attraverso alcuni saggi brunneriani, per
intendere come venga problematizzato il concetto di storia e come
possa essere riduttiva una soluzione della questione che faccia di-
pendere, in modo semplice e immediato, i nuovi concetti dalla nuo-
va realtà economica e sociale del mondo moderno. Nel saggio del
1958 – mirabile per intendere in cosa consista il lavoro storico con-
cettuale di Brunner – Das «ganze Haus» und die alteuropäische
«Ökonomik», dove si mostra l’inadeguatezza della moderna scienza
economica per intendere il mondo dell’antica economica, viene in-
dicato come presupposto storico della nascita delle moderne scienze
dell’economia il «profondo mutamento strutturale verificatosi at-
torno alla metà del secolo XVIII»38; e si aggiunge: «si tratta di un
processo che risale molto indietro e che conduce alla costruzione
dello Stato moderno e della società industriale». Precedentemente
egli aveva indicato come causa del mutamento di significato del
termine di economia, avvenuto nel corso del XVIII secolo, come
pure della nuova scienza economica, la nascita dell’economia na-
zionale nello Stato moderno39. Non solo è qui identificata quella
soglia epocale della metà del XVIII secolo, di cui si è sopra detto,
anche se è vista come prodotto di un lungo processo, ma può sem-
brare che il nuovo concetto di economia sia considerato come un
prodotto della realtà economica moderna storicamente descrivibile.
Tale soluzione sarebbe tuttavia propria di un punto di vista «mate-

37 Non si intende qui né dare una interpretazione dell’autore più «corretta» di al-
tre, né tematizzare e giudicare il suo lavoro complessivo o le intenzioni culturali e
politiche che lo possono avere accompagnato, ma piuttosto sottolineare alcuni e-
lementi critici della sua impostazione, che mi sembrano fondamentali per un ap-
proccio ai concetti politici.
38 Brunner, La «casa come complesso» , in Per una nuova storia costituzionale
cit., p. 152.
39 Ivi, p. 138.

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1. Storia concettuale come filosofia politica 33

rialistico», che, come quello «idealistico», ha la sua radice


nell’epoca moderna delle ideologie che Brunner critica.
Bisogna infatti tenere presente che Brunner, quando parla di
modificazioni strutturali, non si riferisce ad una realtà economica o
sociale che si ottiene mediante una astrazione dalla realtà, ma piut-
tosto a una trasformazione complessiva, in cui si intrecciano ele-
menti economici, sociali e spirituali; in tal modo viene escluso che
il mutamento del termine economia sia «un semplice “riflesso” nel
pensiero economico di una mutata struttura economica»40. I muta-
menti strutturali sono complessi e implicano orizzonti di pensiero
comuni e diffusi, che permettono ai termini di avere il loro signifi-
cato. Come si nota nel saggio, e come si è sopra ricordato, l’antica
economica è comprensibile solo se si intende l’orizzonte in cui si
pensano la sfera dell'oikos – economica appunto – e quella della po-
lis come parti di un sapere pratico, dell'etica, secondo il pensiero di
Aristotele, che rimane a lungo punto di riferimento per pensare la
sfera pratica, come testimonia l'esempio, caro a Brunner, rappresen-
tato dall'opera di Wolf Helmard von Hohberg, Georgica curiosa
oder Adeliges Land und Feldleben, del 1682. I processi economici e
sociali, che caratterizzano il tempo in cui è scritta l’opera, sono ben
diversi da quelli della polis aristotelica, e tuttavia l’economica è
pensata ancora in riferimento alla sfera dell'oikos e comprende la
totalità dei rapporti umani e delle attività della casa. Non si ha qui
un modo ancora confuso e non specifico, non scientifico, di inten-
dere l’economia, come può recitare una moderna storia
dell’economia, ma questo termine ha piuttosto una valenza diversa
e non comprensibile con i mezzi concettuali della moderna econo-
mia.
Tale approccio di Brunner al mondo moderno attraverso il tema
dell'economia, o, per essere più esatti, il suo approccio all’antica
economica mediante la consapevolezza critica e la problematizza-
zione dei presupposti della scienza economica moderna, e dunque
mediante la liberazione dalla loro ipoteca nell’attingere il significa-
to del mondo antico, comporta un duplice ordine di problemi. Il
primo riguarda il concetto di storia e il suo rapporto con la scienza;

40 Ivi, p. 152.

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34 Giuseppe Duso – La logica del potere

il secondo l’orizzonte complessivo di riferimento che fa sì che i


termini siano significanti.
È sempre a partire dal tardo XVIII secolo, questo tempo di so-
glia epocale, che, come ha riconosciuto Theodor Litt, si afferma il
senso della storicità dell’esistenza umana41. Da qui in poi
l’elemento della storicità diviene un dogma, un assoluto che perva-
de non solo la scienza storica in senso stretto, ma anche le scienze
dello spirito, le scienze della lingua, della letteratura, dell’arte, della
musica, della religione, della filosofia: queste diventano in buona
parte “scienze storiche”, cercano cioè nella storia la loro legittima-
zione. Si tratta di una vera e propria fede nella storia, di una sua as-
solutizzazione, che si manifesta nel cortocircuito tra un concetto as-
soluto di storia, la storia al singolare (Geschichte), senza determina-
zioni, e la filosofia della storia42, con la sua idea di progresso, di
sviluppo necessario, o anche di declino. A questo orizzonte, inoltre,
è collegato il proliferare delle scienze storiche speciali. Tutto questo
processo (e dunque la storia in senso moderno) è condizionato con-
cettualmente e legato alle trasformazioni del mondo moderno: è un
suo prodotto.
La condizionatezza della storia moderna appare evidente a pro-
posito delle storie speciali, che si sono sviluppate a partire dal
XVIII secolo. Esse partono dalla determinazione di una nuova
scienza e del loro oggetto mediante un processo di astrazione dalla
realtà complessiva. A partire da tale atto di astrazione esse rico-
struiscono la storia del proprio oggetto. Ad esempio, la storia eco-
nomica è frutto degli economisti e la storia del diritto costituzionale
dei giuristi. Tali storie speciali, prodotti tipici del moderno concetto
di scienza, non sono da Brunner semplicemente negate o rifiutate,
ma nei loro confronti viene rivolta una duplice considerazione. La
prima consiste nella consapevolezza che la storia, originata dalle
scienze moderne dello spirito, è condizionata dai concetti che esse

41 Cfr. Brunner, Il pensiero storico occidentale, in Per una nuova storia costitu-
zionale cit., pp. 51 sgg.
42 Questo rapporto è per Brunner ben più complesso e importante di quel che si sia
solitamente inteso. Su questo tema meriterebbe una riflessione a sé il saggio su Il
pensiero storico occidentale, in Per una nuova storia costituzionale cit., pp. 51
sgg..

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1. Storia concettuale come filosofia politica 35

hanno elaborato e che portano a considerare le complesse situazioni


del passato – in cui tali concetti non sono ancora emersi, e diverse
sono sia la realtà dei rapporti umani, sia il linguaggio che li esprime
– come mera preistoria, come fasi ancora incomplete e non scienti-
fiche di uno sviluppo che si è poi venuto determinando. In tal modo
però, come si è visto per la storia dell’economia, non si riesce ad
intendere la realtà del passato. La moderna scienza storica, come le
scienze sociali, in quanto nate in stretta connessione con la forma-
zione del mondo moderno, «parlano la lingua di quest'ultimo, che
non può essere applicata in modo indifferenziato all’Europa più an-
tica»43.
La seconda considerazione consiste nell’intendere queste storie
specialistiche come «storie non sufficienti» e nell’inserirle in un
tempo che è caratterizzato dallo storicismo44. Dunque storia moder-
na, storie specialistiche e lo storicismo come loro alveo, per Brun-
ner perdono quella realtà che una storia complessiva deve tendere a
cogliere. Anche se non vi è un atteggiamento di totale rifiuto nei
confronti di tali storie, i cui risultati vanno utilizzati, ma non senza
adattamenti, e per ciò che può servire45, ciò che è chiaro in ogni ca-
so è che la storia sociale a cui Brunner tende non è certo la somma
di tutte le storie speciali: la somma di più storie insufficienti, di più
processi di astrazione, non porta a un risultato sufficiente, al cogli-
mento del concreto. Il tentativo di riunire insieme tali storie specia-
listiche in una storia della cultura complessiva può dare notizie cul-
turali di stampo antiquario, in sé utili, ma certamente non è la storia
sociale che Brunner cerca di praticare46. Questa appare piuttosto
costituirsi come critica della storia moderna, in quanto problema-
tizza la scienza moderna, e dunque il modo di intendere l’uomo, la
natura e la società che soppianta l’antica scienza pratica47.

43 Brunner, Il problema di una storia sociale europea cit., p. 29.


44 Ivi, p. 25.
45 Ivi, p. 26.
46 Ivi, p. 25.
47 Che problematizzare la storia significhi problematizzare la scienza moderna, e
in particolare la scienza inaugurata da Hobbes, il quale sostituisce il problema etico
del ben agire e della virtù con una scienza delle relazioni sociali – esterne dunque –
è tesi sostenuta da Biral, che intende il lavoro di Brunner come tipico di una storia
concettuale. Tale problematizzazione non si avrebbe invece in Koselleck, che, pur

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36 Giuseppe Duso – La logica del potere

Tali considerazioni acquistano ancora più rilevanza se incrocia-


no la storia delle istituzioni e la storia politica. Anche queste infatti
patiscono dei limiti di astrazione e parzialità che sono stati prece-
dentemente rilevati48. Seguendo la Entstehung des Historismus di
Friedrich Meinecke, Brunner ravvisa alla base del fenomeno dello
storicismo e del modo moderno di fare storia politica un nuovo con-
cetto di politica, inteso come tecnica della lotta per il potere, come
si è sviluppata a partire da Machiavelli, cioè come «idea della ra-
gion di stato»49. Ciò deve essere integrato con il concetto di Stato
sovrano proprio dell’età moderna. Se il nuovo concetto di politica si
collochi qui, tra Machiavelli e lo Stato moderno, può essere tema di
discussione50, ma ciò che ora importa è indicare che la storia politi-
ca nasce dal nuovo – moderno – concetto di politica e appare perciò
anch’essa parziale e incapace di intendere la complessa realtà dei
rapporti umani del tempo pre-moderno.
Ma questo punto, su cui finora ci siamo soffermati, cioè
l’incapacità dei concetti moderni di intendere il passato, è solo un
aspetto della Begriffsgeschichte: se viene isolato, si rischia di non
intendere tutta la portata critica e nello stesso tempo produttiva di
questo modo di operare sulla concettualità politica. Koselleck rico-
nosce alla Begriffsgeschichte, come è praticata da Brunner, il risul-
tato di una corretta comprensione delle fonti, in quanto le libera dai
pre-giudizi moderni. Questa posizione si risolverebbe in un conse-
guente storicismo, in cui le fonti sono rese alla realtà e al linguaggio

contrapponendo l’antica Historia e la storia moderna, rischia, proprio sulla base


del moderno concetto di storia, di collocarle ambedue in un continuum, scandito
dalle categorie formalizzate del tempo storico, quali passato e futuro, esperienza e
aspettativa; cfr. la recensione a Futuro passato, "Filosofia politica", I (1987), n. 2,
pp. 431-436, ora anche in A. Biral, Storia e critica della filosofia politica moderna,
Franco Angeli, Milano 1999, che raccoglie la maggior parte dei saggi di Biral sulla
filosofia politica moderna.
48 Cfr. Brunner, Il pensiero storico occidentale cit., pp. 54-55.
49 Ibid.
50 Si può forse sostenere che Machiavelli non apre un mondo concettuale nuovo e
un modo totalmente altro dal precedente di intendere la politica. Come si vedrà più
avanti – anche sulla base dei lavori di ricerca compiuti – può risultare più convin-
cente ravvisare questa soglia nella nascita della scienza politica moderna, in Hob-
bes dunque, piuttosto che in Machiavelli.

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1. Storia concettuale come filosofia politica 37

del loro tempo51. Tuttavia tale risultato, se assolutizzato, è pericolo-


so, e deve essere, secondo il Koselleck, superato. Infatti può sem-
brare che, da una parte esso inserisca semplicemente e a-problema-
ticamente i concetti nella loro epoca e dall’altra che esso sia privo
dell’elemento che permette un rapporto tra il nostro presente e il
passato che è ricostruito. Lasciando ancora da parte quest’ultimo
problema, che sarà da affrontare alla fine, ci si può ora soffermare
sul primo punto, cioè sul pacifico inserimento dei concetti nella loro
epoca. Se accolto acriticamente, un tale assunto porterebbe ad af-
fermare che la filosofia pratica e la disciplina etica sono proprie e
adeguate alla realtà antica, medievale, feudale o anche cetuale, e
che i concetti moderni sono adeguati alla realtà del mondo moder-
no.
Koselleck intende uscire da questo "storicismo" cercando di in-
dividuare un piano unitario tra i vari contesti e, ai fini di una seria
Verfassungsgeschichte che colga la complessità anche della realtà
presente, indica la necessità di superare lo iato tra la storia premo-
derna del diritto e la moderna storia costituzionale52. Ma a maggior
ragione Brunner è al di là di tale storicismo, per una via che mi ap-
pare assai diversa: la storia sociale a cui tende va al di là di una pos-
sibile autosufficienza dei concetti moderni in relazione alla com-
prensione della realtà del mondo moderno. Infatti, se appaiono in-
sufficienti il concetto moderno di storia (e la relativa pratica), le
storie specialistiche e la storia politica per intendere la storia sociale
del passato, ciò vale anche per il mondo moderno e il nostro presen-
te. La storia sociale che Brunner pratica e che non appare limitata
al medioevo o allo stato dei ceti, è possibile solo mediante la consa-
pevolezza della riduttività del modo sopraindicato di fare storia e in
particolare della storia politica. La storia sociale è interessata «alla
costruzione interna, alla struttura delle associazioni umane, mentre
la storia politica ha per oggetto l’agire politico, l'autoconservazio-

51 Cfr. Koselleck, Begriffsgeschichtliche Probleme cit., pp. 12-13.


52 Ivi, p. 11

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ne»53. La storia sociale è storia strutturale che non nega quella poli-
tica, casomai la integra54.
Tuttavia, non si tratta qui di una giustapposizione o una semplice
integrazione: più ampia è la portata critica e produttiva, nel fare sto-
ria, che la posizione di Brunner suggerisce. Significativa è
l’aggiunta che egli fa seguire alla precedente affermazione: «in en-
trambi i casi tuttavia oggetto di osservazione resta l'uomo e si tratta
sempre di “politica”, se è concesso per una volta impiegare il ter-
mine non solo nel significato proprio dell’età moderna, di lotta per
il potere, ma in senso più ampio, vagamente aristotelico» (corsivo
mio). Un lavoro di storia sociale, dunque, implica un modo di in-
tendere la politica diverso e più ampio di quello moderno incentrato
sul potere. E ciò riguarda non solo la storia del passato, ma anche
quella della realtà moderna. Ciò significa che quel modo diverso di
intendere la politica complica e supera la riduttività della moderna
politica incentrata sul potere e la storia unilaterale che da questa si
costruisce. Si pone qui il problema di come si ponga il nostro rap-
porto sia con i concetti politici moderni, sia con il modo in cui la
tradizione precedente ha pensato i rapporti tra gli uomini, se è vero
che le due modalità sono da distinguere radicalmente. Prima però
bisogna chiarire quale sia l’orizzonte complessivo di riferimento nel
quale i concetti moderni si formano e sono significanti.

1.6 La nascita dei concetti moderni nella nuova scienza


politica

Nell’ambito delle trasformazioni strutturali Brunner ritiene rilevan-


te quella del modo di considerare la realtà e i rapporti tra gli uomi-
ni: tale modo di pensare si traduce in dottrina, in formazione cultu-

53 Brunner, Il problema di una storia sociale europea cit., p 23.


54 Non si può non notare la rilevanza che ha in Brunner il concetto schmittiano di
costituzione (cfr. Verfassungslehre, Duncker & Humblot Berlin 1928, trad. it.,
Dottrina della costituzione, a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1984, spe-
cialmente la prima parte), come concreto insieme di elementi sociali e politici. Al
concetto schmittiano, che permette di superare la separazione astratta e unilaterale
di sociale e politico, Brunner si collega per altro esplicitamente (cfr. Il problema di
una storia sociale europea, pp. 5-7).

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1. Storia concettuale come filosofia politica 39

rale, ed è legato alla costituzione complessiva della società, non so-


lo, ma è esso stesso fattore costituzionale. La trasformazione del
pensiero, che esprime la realtà sociale e politica, si intreccia con la
trasformazione di alcuni processi materiali, ma non coincide con
questa in modo semplice e immediato, non ne è «riflesso». L'antica
«economica», per esempio, ha determinato la considerazione della
realtà per due millenni, anche quando non mancava una economia
di mercato altamente sviluppata, e, allo stesso modo, la nuova
scienza economica nasce quando una serie di processi «capitalisti-
ci» è appena agli inizi55. Per intendere la trasformazione dei concet-
ti non è allora sufficiente guardare ad alcune trasformazioni econo-
miche o sociali, ma bisogna intendere l’orizzonte teorico generale,
il principio organizzatore all’interno del quale i concetti hanno un
loro preciso e determinato significato. Quando muta questo orizzon-
te complessivo si assiste alla nascita dei nuovi concetti, anche se
persistono le vecchie parole. Allora si intende cosa sia determina-
zione storica dei concetti. Ricondurre i concetti all’epoca significa
inserirli nel processo storico che li avrebbe generati (che non può
essere inteso riduttivamente come mondo dei fatti e della realtà em-
pirica) e soprattutto al loro orizzonte concettuale complessivo e al
loro principio organizzatore: senza di ciò i concetti sono inevita-
bilmente travisati nel loro significato.
Come si è detto, nel mondo che dall’età della polis arriva alle
soglie del moderno si ha una concezione dell’ambito pratico im-
prontata sull’etica aristotelica, dove la sfera dell’oikos e quella della
polis sono distinte, ma all’interno di un’etica complessiva, al cui
centro sta la virtù, che, per quanto riguarda il governo della città, si
identifica con la phronesis. Il principio organizzatore è qui una dot-
trina della signoria o del governo, che si estende ad ogni realtà pra-
tica: dalla vita del singolo uomo a quella della città. Questo princi-
pio organizzatore è legato al concetto aristotelico di organismo, as-
sai diverso da quello moderno, e ha come retroterra l’ontologia gre-
ca e l’idea di un kosmos, con una sua realtà e un suo ordine56.

55 Cfr. Brunner, La «casa come complesso» cit., p. 146.


56 Cfr. Ivi, pp. 146-149.

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40 Giuseppe Duso – La logica del potere

Tutto ciò si infrange con la nascita del mondo moderno. Un e-


sempio, che risulta particolarmente illuminante per mostrare il mu-
tamento radicale del quadro complessivo, consiste in quanto avvie-
ne alla classica distinzione delle forme di governo. Monarchia e ari-
stocrazia a noi oggi non dicono più nulla, e la democrazia ha un si-
gnificato completamente diverso rispetto a tutto il pensiero antico.
In quest’ultimo infatti il termine indica la signoria del demos, che è
una parte della polis e perciò può governare le altre: siamo dunque
all’interno di una dottrina complessiva del governo. Quando invece
il popolo viene a prendere il senso del concetto moderno, indicando
la totalità di tutti gli individui, la forma di governo democratica di-
viene un non senso logico: tutti infatti non possono governare tutti.
In questo caso, dice Brunner, non abbiamo più come principio or-
ganizzatore quello della signoria (o meglio si potrebbe dire del go-
verno), ma qualcosa di radicalmente nuovo, il principio di ugua-
glianza tra gli uomini57, che toglie quel complesso di differenze, le
quali, assieme all’esistenza di un reale kosmos complessivo, stanno
alla base del principio del governo. Si può dire che il nuovo oriz-
zonte è caratterizzato dall’intendere la Herrschaft non più nel senso
del principio di signoria o di governo, ma in quello di potere, nel
senso moderno del termine, di monopolio della forza legittima, co-
me dirà Weber. Si tratta di quel concetto di potere che condiziona
tutta la teoria politica moderna, conferendo al termine di politica un
significato radicalmente altro da quello che aveva avuto per un pe-
riodo lungo due millenni58: esso è determinato innanzitutto dalla

57 Cfr. Ivi, p. 145. Brunner si riferisce a Rousseau, ma, come si vedrà più avanti,
tale nuovo modo di intendere l’uomo e la politica comincia ben prima di Rousseau,
con Hobbes e la nascita della scienza politica moderna.
58 Cfr. sulla trasformazione della Herrschaft il saggio di Brunner, Bemerkungen zu
den Begriffen "Herrschaft" und "Legitimität", del 1962, poi in Neue Wege cit., pp.
64-79; tr. it. a cura di M. Piccinini e G. Rametta, "Filosofia politica", 1987, n. 1,
pp. 101-120. Propongo di intendere il mutamento che si ha nella parola tedesca
Herrschaft conferendo ad essa il significato di governo, per il lungo periodo della
tradizione della filosofia pratica, e quello di potere, nel senso che si espliciterà nel-
la definizione weberiana, per il contesto che inizia con la moderna scienza politica
(è da ricordare che lo stesso Brunner, in Neue Wege, p. 113, parla di herrschaftli-
ches Prinzip e subito dopo intende come consona a questo principio la tradizionale
distinzione delle forme di governo, che chiama Herrschaftsformen o Regierun-
gsformen). Tale mutamento non può certo essere inteso come un mutamento del

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1. Storia concettuale come filosofia politica 41

costituzione e dall’esercizio del potere, inteso come forza legittima


di tutto il corpo politico, e successivamente si estende alla «lotta per
il potere».
Se ci si chiede quando inizi il nuovo modo di intendere l’uomo e
la politica che viene da Brunner e da Koselleck indicato come mo-
derno59, si può forse avanzare – come ho già, in altra occasione, a-
vuto modo, sia pure brevemente, di fare60 – una proposta di integra-
zione alla indicazione che da questi autori proviene, proposta che è
legata a un modo specifico di praticare la storia concettuale e ai ri-
sultati a cui questo ha portato. Koselleck ha ragione a porre la Sat-
telzeit per l’epoca moderna nella seconda metà del Settecento (pe-
riodo che abbiamo visto essere anche indicato da Brunner), se egli

concetto di Herrschaft, che porterebbe per esempio a dire che il potere è fondato
dagli individui, mediante una costruzione artificiale, nelle filosofie moderne del
contratto sociale, mentre sarebbe «per natura» presso i Greci (se è in realtà pensa-
bile che sia naturale il principio del governo, è impensabile che lo possa essere il
potere, come rapporto formale di comando-obbedienza); si tratta piuttosto di oriz-
zonti di pensiero radicalmente diversi, che attraversano la stessa parola (mi chiedo
se non scivoli nella direzione di un mutamento del concetto invece la trattazione
della voce Herrschaft che si ha nei GG, Bd. 3, pp. 1-102). Per quanto riguarda un
approfondimento della proposta concernente la radicale diversità tra il principio del
governo, con il modo di pensare la politica ad esso legato, e il nuovo concetto di
potere politico, che in tanto può essere pensato in quanto si destituisce di validità
quell’antico pensiero del governo, rimando al cap. III del presente volume. Partico-
larmente incisivo nel mostrare la differenza tra un mondo in cui si pone il proble-
ma del buon governo, e quello moderno basato sul potere, è il lavoro di Hasso Ho-
fmann dedicato all’iconografia, Bilder des Friedens oder Die vergessene Gerechti-
gkeit. Drei anschauliche Kapitel der Staatsphilosophie, Siemens Stiftung, Mün-
chen 1997, nel quale si analizza la famosa allegoria senese del buon e del cattivo
governo di Ambrogio Lorenzetti e, di contro, la nota immagine del frontespizio del
Leviatano di Hobbes, dove è evidente come l’immagine del potere (Herrschaft),
comporti la scomparsa del mondo basato sulla giustizia e sul problema delle virtù,
nel quale si poneva il problema del «buon governo» (cfr. spec. il cap. II).
59 Chiarisco una volta per tutte che, nel contesto della nostra discussione, il pro-
blema non è quello della sempre dibattuta questione di quando inizi l’età moderna,
e di cosa sia veramente moderno. Qui la questione è assai diversa, e molto più de-
terminata, ed è una questione che si impone: si tratta cioè di comprendere quando e
con che presupposti teorici nascano quei concetti fondamentali che condizionano
il nostro modo di intendere la politica, si incardinano nelle costituzioni moderne e
giungono, sia pur con molte modificazioni, fino alla nostra contemporaneità: quale
sia, in fondo, l’origine e la logica dei nostri concetti.
60 Cfr. Historisches Lexikon e storia dei concetti cit., dove sono anche anticipate
alcune delle osservazioni qui sviluppate.

Giuseppe Duso. La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica
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42 Giuseppe Duso – La logica del potere

si riferisce ai concetti in relazione alla loro diffusione nella vita so-


ciale, culturale e politica. Tuttavia, se si porta l'attenzione sulla ge-
nesi di quei concetti, tenendo conto della relativa autonomia propria
della storia concettuale e del fatto che ci può essere sfasatura tra na-
scita dei concetti e immediata realtà storica, si deve concludere che
la Trennung nei confronti di un millenario modo di intendere il
mondo, l’uomo e la politica nasce prima della seconda metà del
XVIII secolo. Tutti i concetti che alla fine di questo secolo si dif-
fondono e diventano comuni, sono già elaborati e determinati nella
nuova scienza politica che nasce con Hobbes a partire dalla metà
del Seicento. È in questo contesto che l’ambito tematico dell’antica
politica (il vivere bene, il buon governo, la virtù a questo necessa-
ria), nella perdita di un mondo oggettivo che serve come orienta-
mento, viene sostituito dal problema dell’ordine – di un ordine da
costituire, perché nella realtà non c’è – e dalla nuova scienza che
rigorosamente può giungere a ciò: il diritto naturale. L’insegna-
mento della politica, spesso sulla base della dottrina aristotelica,
continuerà nel periodo successivo, anche nelle Università61, ma il
nuovo modo di intendere il problema della convivenza tra gli uomi-
ni, una convivenza che è possibile solo mediante un potere da tutti
creato e voluto, è assunto appunto dalla nuova scienza del diritto
naturale. Per l’arco dell’epoca moderna il politico sarà inteso nel
senso della forma politica, dunque giuridicamente. Con le dottrine
moderne del diritto naturale ha inizio quel processo che porterà
all’identificazione di politico e statuale, su cui ha riflettuto, in anni
critici e di trapasso epocale del Novecento, Carl Schmitt62.

61 Cfr. su ciò il classico lavoro di H. Maier, Die Lehre der Politik an den älteren
deutschen Universitäten, ora in Politische Wissenschaft in Deutschland, Piper,
München-Zürich 1985, pp. 31-67, e dello stesso, Die ältere deutsche Staats- und
Verwaltungslehre, Beck, München 19802, sp. pp. 164 sgg.; si veda inoltre
l’analitico e ponderoso lavoro di M. Scattola, Dalla virtù alla scienza. La fonda-
zione e la trasformazione della disciplina politica nell’età moderna, FrancoAngeli,
Milano 2003.
62 Per l’imprescindibilità e anche per i limiti della riflessione schmittiana sui con-
cetti moderni si veda il VI capitolo del presente volume e il completo lavoro di
Carlo Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico
moderno, Il Mulino, Bologna 1996.

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1. Storia concettuale come filosofia politica 43

Se è vero che il «mondo nobiliare», di cui parla Brunner, si fran-


tuma con la nascita del mondo moderno, e che la prova di ciò si ha
nella nascita delle nuove scienze e nel completo mutamento del lin-
guaggio concettuale scientifico, che si verificherebbe nella seconda
metà del Settecento, bisogna aggiungere che in questo periodo si
conclude e si diffonde un processo che ha il suo inizio con la scien-
za politica moderna quale appare con Hobbes. Insomma, la nuova
scienza politica e la concettualità che stanno alla base dello Stato e
della società moderna trovano nel diritto naturale e nella dottrina
del contratto il nuovo «principio organizzatore» e l’orizzonte che
determina il loro significato63. Ciò si esprime incrociandosi con i
processi di formazione dello Stato moderno, ma certo prima che la
realtà dello Stato abbia preso quella dimensione e quella struttura
che si concentra nel concetto di Stato quale emerge nel periodo del-
la rivoluzione francese, e che permette di indicare la differenza di
tale forma politica dal rapportarsi politico degli uomini nel periodo
precedente, che viene espresso mediante termini quali «antico re-
gime» o «stato dei ceti».
Con Hobbes si assiste esplicitamente al tentativo di azzerare il
modo di pensare la politica proprio dell’antica scienza pratica: que-
sta è considerata priva di rigore scientifico e, proprio perciò, non
sufficiente a raggiungere il fine della vita comune degli uomini,
cioè quell’autoconservazione dei singoli che è possibile solo me-
diante la pace. L’azzeramento del pensiero della filosofia pratica è
accompagnato dalla negazione del ruolo che l’esperienza rivestiva
nel modo antico di pensare la politica. La realtà delle associazioni
umane non è più significativa e queste sono considerate come irre-
golari e ingiuste. È lo stato di natura, inteso non certo come stato
originario dell’uomo, ma come situazione in cui l’uomo si trove-
rebbe fuori della società, a costituire lo stratagemma teorico utile a
questa operazione, con la quale si viene a creare uno spazio libero,
una tabula rasa, su cui una nuova scienza, che si ispira al rigore ge-

63 Quanto viene qui detto si basa sui risultati del lavoro collettaneo Il contratto
sociale nella filosofia politica moderna, a cura di G. Duso, Il Mulino, Bologna
1987 (ora FrancoAngeli, Milano 19983).

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44 Giuseppe Duso – La logica del potere

ometrico, può tracciare le sue linee per garantire finalmente pace e


ordine tra gli uomini64.
In tal modo viene negato un kosmos oggettivo necessario per
pensare al principio del governo65; infatti Hobbes si muove esplici-
tamente contro tale principio: pensare, come fa Aristotele nella sua
Politica, a una differenza tra gli uomini, sulla base della quale qual-
cuno è atto a governare e altri ad essere governati, è segno di super-
bia, ed è contro ragione ed esperienza. Contro questa superbia è di-
retta la nona legge di natura, che riprende un elemento fondamenta-
le dell’antropologia hobbesiana e basilare per la scienza politica:
«ognuno deve riconoscere l’altro come uguale a sé per natura»66. Il
principio dell’uguaglianza degli uomini, che implica il considerarli
non in relazione al loro diverso status, ma piuttosto tutti come indi-
vidui, sta alla base di questa costruzione, e determina il nuovo prin-
cipio organizzatore in base al quale si deve intendere la vita in co-
mune degli uomini e dunque la società. Sul fondamento
dell’uguaglianza degli individui, e solo su di esso, è possibile una
costruzione teorica che porta al concetto moderno di sovranità con
l’assolutezza che comporta: e ciò si ha non solo in Rousseau, ma
già nel pensiero politico di Hobbes.
Per delineare schematicamente gli elementi caratterizzanti que-
sto nuovo modo di intendere la politica e il nuovo principio, che po-
tremmo chiamare della Herrschaft nel suo significato nuovo, mo-
derno, di potere politico o sovranità del popolo, dobbiamo aggiun-
gere alcuni elementi essenziali. Se nello «stato di natura» si pensa a
una situazione non sociale dell’uomo, e dunque a un mondo di in-
dividui uguali, si pensa insieme un concetto nuovo, quello di liber-
tà. Questa non ha più a che fare con il modo antico di pensare le di-
verse libertates, ma, sulla base della nozione di individuo uguale e

64 Cfr., per l’interpretazione di Hobbes, soprattutto A. Biral, Hobbes: la società


senza governo, in Il contratto sociale cit., pp. 51-108 (ora anche in Storia e critica
cit.).
65 Come è evidente nella metafora antica del gubernare navem rei publicae,
l’azione di governo è possibile in relazione all’esserci di un mondo in cui ci si o-
rienta; cfr. su ciò il cap. III.
66 Cfr. Hobbes, Leviatano, trad. it. A. Pacchi, Laterza, Bari 1989, cap. XV, p. 125.

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1. Storia concettuale come filosofia politica 45

della concezione meccanicistica dell’uomo67, essa è pensata come


mancanza di ostacoli in relazione all’estrinsecazione da parte di o-
gnuno della propria forza e del proprio ingegno – del proprio potere
dunque – e conseguentemente come dipendenza di ognuno esclusi-
vamente dalla propria volontà68. Uguaglianza e libertà come indi-
pendenza stanno allora alla base della costruzione della società civi-
le, che deve impedire la guerra reciproca e garantire l’ordine e la
pace: esse si sostituiscono all’antica idea di giustizia, che, a partire
da Platone, stava al centro della riflessione politica69.
Proprio sulla base dell'uguaglianza e della libertà così concepite
si deve pensare ad un potere immane del corpo politico che non tol-
lera nessuna opposizione: solo esso può mantenere tutti
nell’uguaglianza, evitando che qualcuno possa utilizzare la sua for-
za e il suo potere contro gli altri, per sottometterli. A un tale potere
bisogna pensare necessariamente sulla base del nuovo concetto di
libertà, inteso come mancanza di ostacoli e indipendenza. Esso in-
fatti non è pensabile se ci si riferisce ad uno stato di natura in cui la
forza di ognuno si estende in tutte le direzioni: la molteplicità degli
individui comporta che in ogni dove ognuno trovi ostacoli e dunque
sia impedito di estrinsecare liberamente forza e iniziativa. Per pen-
sare fino in fondo alla libertà di tutti gli individui, bisogna creare
degli argini, delle corsie, che permettano ad ognuno di estrinsecare
liberamente tutta la propria potenza, senza incrociare gli altri. E
queste corsie da altro non sono tracciate che dalle leggi, le quali so-
no bensì vincoli, ma tali da permettere la realizzazione della libertà
civile, quella in cui la libertà di ognuno è compatibile con quella di
tutti gli altri. Questi vincoli sono cogenti e risolutivi, in quanto pro-
vengono dal comando che il corpo politico esprime attraverso colui
o coloro che lo incorporano, che lo rappresentano. Ora finalmente
tutti sono liberi, grazie alla sottomissione nei confronti del potere

67 È per altro singolare che anche in autori nei quali non si ha una concezione
meccanicistica dell’uomo, si ritrovi un concetto di libertà che sostanzialmente ri-
prende questo hobbesiano, che si rivela allora fondamentale per lo sviluppo dei
concetti moderni.
68 Cfr. Leviatano, cap. XXI, p. 175.
69 Cfr. anche su ciò Hofmann, Bilder des Friedens cit., spec. p. 49.

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46 Giuseppe Duso – La logica del potere

del corpo politico70. Non c’è allora contraddizione se la costruzione


che parte dalla negazione del principio aristotelico del governo
conduce, mediante il contratto, e dunque l’espressione della volontà
di tutti, ad una forma politica in cui tutti sono sudditi nei confronti
di un sovrano, che altro non è che rappresentante di tutto il corpo
politico71. Ciò che caratterizza il significato radicalmente nuovo del

70 Su ciò si veda il saggio di A. Biral, Per una storia della sovranità, «Filosofia
politica», 1991, n. 1, pp. 5-50, (ora anche in Storia e critica) fondamentale per in-
tendere nel pensiero hobbesiano questo mutamento complessivo del principio or-
ganizzatore che conferisce senso ai concetti.
71 L’affermare che non c’è contraddizione a questo livello, non coincide con un
giudizio di accettazione della costruzione hobbesiana: in essa si manifesta
un’aporia fondamentale, ma questa può essere colta solo se si intende lo specifico
significato dei concetti e della costruzione, e dunque non si equivoca tra la natura
del governo, del principio che Hobbes nega, e quella del potere politico che egli
inaugura. Si può qui ricordare il processo che Brunner indica nel suo saggio
sull’intreccio tra potere moderno e legittimità: egli ravvisa nel XVIII secolo la tra-
sformazione sociale che si coniuga con il nuovo modo di intendere la Herrschaft,
la quale non è più un dominio complessivo e personale, ma diviene impersonale e
oggettiva, tale da ridurre al minimo l’elemento del dominio. «Così la compagine di
dominio vetero-europea poté venire intesa come “feudalesimo” da superare. Poté
sembrare che la scomparsa del dominio vecchio stile potesse condurre alla fine del
dominio in generale» (in questa traduzione il termine «dominio» traduce quello
tedesco di Herrschaft). Dietro ai processi del XIX secolo egli vede la dottrina di
Saint Simon, secondo cui l’associazione scaturisce dalla decisione volontaria dei
singoli (cfr. Osservazioni sui concetti di «dominio» e di «legittimità» cit., pp. 108-
109). Sulla linea del contributo a cui si fa riferimento nel presente volume, si po-
trebbe dire che tale idea della fine del dominio ha una sua coerenza se si attua la
distinzione proposta tra «governo» e «potere», distinzione che mi sembra per altro
consona all’impianto logico di Brunner e al mutamento di significato del termine
Herrschaft da lui indicato. Inoltre è da osservare che la concezione che vede nasce-
re l’associazione dalla libera volontà dei singoli è ben antecedente alla diffusione
che ha nel XIX secolo e anche alla dottrina di Saint Simon, avendo le sue radici
nelle teorie moderne del contratto sociale. Brunner del resto lascia aperta la possi-
bilità di una tale considerazione: nel suo tentativo di mostrare come il concetto di
legittimità, che caratterizza il potere politico o Herrschaft, quale Weber la defini-
sce – con i suoi tre tipi, del potere legale, tradizionale e carismatico –, sia legata
alla situazione post-rivoluzionaria del XIX secolo, egli aggiunge che questo è «ri-
sultato provvisorio», che richiede un approfondimento sui presupposti che rendono
possibile il trapasso al mondo moderno, ritornando in tal modo a quanto Weber
stesso indica come processo di «razionalizzazione», o altri come processo di seco-
larizzazione (ivi, p. 120). Mi sembra che nell’irruzione della teoria hobbesiana e-
merga quel principio organizzatore scientifico che fa intendere il mutamento radi-
cale del termine Herrschaft a cui Brunner si riferisce, e che in esso dunque si possa

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1. Storia concettuale come filosofia politica 47

potere nel senso della moderna sovranità è l’aspetto formale, che


compare solo con Hobbes: secondo esso alla base del potere sta la
volontà di tutti gli individui, e l’espressione del potere è
l’espressione del soggetto collettivo, e non l’agire personale di cui
una persona è responsabile.
È in questo quadro complessivo che si possono pensare quelle
distinzioni di «diritto privato» e «diritto pubblico», di «potere dello
Stato» e «società dei privati», che stanno alla base del concetto mo-
derno di costituzione e che sono spesso scorrettamente usati nei
confronti della realtà medievale da quei costituzionalisti che non
sono consapevoli del mutamento radicale del principio organizzato-
re che nel moderno vede nascere concetti nuovi, conferendo un di-
verso significato alle parole antiche. In base al quadro qui delineato,
si può intendere come non abbia più senso l’antica distinzione delle
forme di governo, e la democrazia (termine usato come traccia della
Sattelzeit sia da Brunner, sia da Koselleck) abbia ora un significato
nuovo, che ha alla sua base uguaglianza e libertà degli individui e
potere del popolo, cioè la sua sovranità e l’espressione della sua as-
soluta volontà e non una sua presunta possibilità di governare: il
popolo, così, inteso non può più essere un reale soggetto del gover-
no72.

ravvisare uno dei presupposti della nascita del mondo moderno: un presupposto
per altro fondamentale per intendere il significato stesso dei nuovi concetti. Tale
conclusione costituisce, a mio parere, uno dei notevoli risultati della lettura del
pensiero hobbesiano da parte del saggi sopra citati di Biral su Hobbes e sulla storia
della sovranità.
72 Anche Koselleck, chiarendo i significati del termine democrazia, nota la novità,
che secondo lui avverrebbe nel XVIII secolo, dovuta «all’appello alla sovranità
delle leggi , o al principio di uguaglianza» (Storia dei concetti e storia sociale cit.,
p. 100): in tal modo vecchi significati verrebbero «ripresi e modificati». Ma pro-
prio l’esempio della democrazia mostra la diversa pratica della storia concettuale
tra Brunner e Koselleck: mentre il primo coglie il cambiamento del principio orga-
nizzatore e dell’orizzonte complessivo, lasciando, a mio avviso, spazio al contribu-
to sulla nuova scienza politica di cui si è qui parlato, il secondo tende a inserire i
cambiamenti in un continuum, nel quale è possibile riferirsi ancora al senso greco
di «democrazia», che pur nella sua diversità, indicando una delle forme di costitu-
zione della polis («date una volta per sempre» si dice, usando ancora le categorie
formali che servono ad intendere l’antica Historia e la moderna Geschichte) fissa
«determinazioni, metodo o regolarità che si possono incontrare anche nella demo-
crazie attuali» (ibid.). Il rischio è che si venga così ad abbandonare l’idea iniziale

Giuseppe Duso. La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica
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48 Giuseppe Duso – La logica del potere

Ciò vale anche per gli altri esempi indicati da Koselleck come
sintomi della Sattelzeit. Il termine di «rivoluzione» emerge nel pe-
riodo della rivoluzione francese con un significato nuovo, che non è
più collegabile a ciò che la parola prima indicava sulla base del suo
stesso etimo – cioè moto circolare, che ritorna su se stesso – ma è
comprensibile in relazione all’instaurazione di un ordine nuovo, e
dunque in relazione ad una filosofia della storia con la sua idea di
evoluzione e di emancipazione73. Tale mutamento è tuttavia frutto
di un lungo processo, che è impensabile senza i concetti elaborati
dalla nuova scienza politica moderna. Si ricordi il ruolo che hanno
nella rivoluzione i due concetti di eguaglianza e di libertà, che
stanno alla base della forma politica moderna e del modo in cui si
pensa la societas civilis, ma si pensi anche al concetto di popolo e
alla sua dimensione costituente, a quello di sovranità, a quello nuo-
vo di rappresentanza come rappresentanza di tutta la nazione, cioè
non di ceti, di stati, di parti, ma dell’unità politica. Si pensi poi a
come sia diffusa nell’opinione comune e nel dibattito politico l’idea
che alla base della costituzione del corpo politico stanno i diritti de-
gli individui uguali: che gli uomini abbiano diritti in quanto tali e
che la forma politica si possa costruire solo sulla base di questi di-
ritti è appunto divenuto senso comune, concettualità diffusa. Anche
il nuovo significato di rivoluzione è pensabile dunque solo sulla ba-
se della nuova scienza, apparsa ben prima la fine del XVIII secolo.
Lo stesso si può dire per il nuovo concetto di repubblica. Anche
qui ci si può riferire alla fine del XVIII secolo, al modo kantiano di
intendere il termine, in cui si riscontra uno scarto in relazione ad un
pensiero più antico della respublica come ciò che unisce associa-
zioni, gruppi, ceti diversi, ciò che li accomuna e che costituisce
l’ambito del loro rapporto. In questo caso si ha unificazione di parti
diverse come mostra tutta un’antica iconografia, nella quale il corpo

della storia concettuale come coglimento della determinatezza dei concetti moderni
e si postuli un nucleo sostanzialmente identico del concetto che si declina in modi
diversi nelle mutate situazioni storiche.
73 Cfr. Koselleck, Criteri storici del moderno concetto di rivoluzione, in Futuro
passato cit., spec. p. 63. Su ciò si veda anche la voce Revolution nei GG e K.
Griewank, Der neuzeitliche Revolutionsbegriff. Entstehung und Entwicklung,
Weimar 1955, Frankfurt a. M. 19692, tr. it. a cura di C. Cesa, La Nuova Italia, Fi-
renze 1979.

Giuseppe Duso – La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica
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1. Storia concettuale come filosofia politica 49

della repubblica è formato appunto da parti, che, nella loro collabo-


razione e sotto la guida della testa, si ritrovano in un tutto. Il princi-
pio organizzatore è ancora quello del governo, che, già nell’antichi-
tà, con Cicerone, si esprime unificando repubblica e governo nella
metafora del navem rei publicae gubernare. Il concetto kantiano è
invece pensabile solo grazie alla eliminazione delle parti nel corpo
comune, all’uguaglianza degli individui e all’intreccio fondamenta-
le di sovranità e rappresentanza: è infatti il principio rappresentativo
in senso moderno, come rappresentanza dell’unità politica, a costi-
tuire il centro e a determinare il significato della forma di governo
repubblicana, la quale non è comprensibile dunque se non sulla ba-
se del concetto moderno di sovranità74.
Se quanto qui indicato è motivato, o meglio se lo è il lavoro che
porta a queste conclusioni, allora si può dire che, come nella filoso-
fia aristotelica (ma in senso più ampio, per alcuni aspetti, quella
greca) è rintracciabile il principio organizzatore che riconduce per
un tempo assai lungo ad unità le diverse dottrine e che conferisce
un significato ai termini usati relativi alla sfera pratica, così nel giu-
snaturalismo moderno, e, in primis nella costruzione politica di
Hobbes, si possono rintracciare principio organizzatore e orizzonte
complessivo, in relazione ai quali, solamente, i nuovi concetti poli-
tici vengono ad assumere un determinato significato. In questo mo-
do compare in una prima approssimazione il rapporto tra storia
concettuale e filosofia politica; non aprioristicamente, ma come ri-
sultato di un lavoro di ricerca storico-concettuale. I concetti moder-
ni risultano cioè nascere nella filosofia politica moderna, che si pre-
senta come la nuova scienza politica.
Ciò non significa ritornare alla dimensione di una storia delle i-
dee; tutt’altro, in quanto ci si riferisce a uno specifico insieme con-
cettuale e al suo legame con le strutture sociali dei rapporti umani
(storia sociale o costituzionale dunque). Il riferimento non è qui a
tutto ciò che è comparso nel moderno come pensiero politico o co-
me filosofia, ma piuttosto a quei concetti del giusnaturalismo che si
sono intrecciati con i processi costituzionali e sono diventati pre-
supposti della concettualità dello Stato moderno e del modo di pen-

74 Rimando per l’esplicitazione di ciò al cap. III, § 5.

Giuseppe Duso. La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica
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50 Giuseppe Duso – La logica del potere

sare la politica e il rapporto tra gli uomini75. Non si tratta poi solo
del modo di pensare, o di un processo teorico di legittimazione, ma
anche di organizzazione degli stessi rapporti. Si pensi infatti alle
costituzioni moderne, all’aspetto legittimante proprio dei concetti in
esse contenuti, ma anche ai processi reali da essi innescati, quali il
sistema legislativo, l’unità dell’esercito, la formazione dell'organo
rappresentativo della sovranità popolare, ecc. Si potrebbero indicare
riassuntivamente i due elementi fondamentali del pensiero giusnatu-
ralistico che si incardinano nelle moderne costituzioni: il concetto
rousseauiano di popolo sovrano, inteso come grandezza costituente,
e quello determinante la forma politica, con cui il primo parados-

75 Si veda, anche a questo proposito, come Brunner indichi il legame tra il muta-
mento linguistico a cui si assiste a proposito del termine Herrschaft e il mutamento
di struttura sociale, che comporta, a partire dal tardo XVIII secolo la demolizione
delle vecchie forme di dominio: il suo riferimento va alla modificazione della sfera
dell’altes Haus, alla nascita della più ristretta famiglia moderna, alla emancipazio-
ne della donna, alla fine della schiavitù, alle strutture della nuova economia, al mu-
tamento dei servizi, che prendono carattere oggettivo perdendo un significato este-
so alla persona, alla fine dell’autonomia delle corporazioni, che passano
dall’«autogoverno» all’autoamministrazione sotto le leggi dello Stato (cfr. Osser-
vazioni cit., p. 108). Se si ravvisa per altro la nascita del concetto di Herrschaft,
come potere, nella nuova scienza politica, esso non appare come una semplice ri-
caduta delle trasformazioni sociali: il rapporto è più complesso e in molti casi ab-
biamo una anticipazione della teoria in relazione alle modificazioni sociali e costi-
tuzionali. L’unità e omogeneità che caratterizzano i concetti della forma politica
moderna difficilmente possono essere collegate alla complessità e pluralità che
caratterizzano la situazione del secondo Seicento o della prima metà del Settecen-
to. Non è un caso che nei GG, per definire la sfera concettuale dello Stato – che è
naturalmente stato moderno –, ci si debba riferire al periodo della rivoluzione fran-
cese: è qui che la parola appare trasmettere un Grundbegriff (cfr. la voce Staat-
Souveränität nel vol. VI e in particolare la parte della trattazione di Koselleck: su
ciò le mie annotazioni in Historisches Lexikon e storia dei concetti cit., spec. pp.
116-118). Si pensi anche al concetto moderno di rappresentanza politica, come
rappresentanza dell’unità del corpo politico o del popolo, concetto inventato nel
Leviatano di Hobbes, che ha la sua comparsa da un punto di vista dei processi «co-
stituzionali», riguardanti in questo caso anche la carta costituzionale, solo con il
passaggio dal 1789 alla costituzione francese del 1791, dove la rappresentanza dei
deputati del popolo sostituisce un mondo diverso che si riassumeva nella rappre-
sentanza per stati.

Giuseppe Duso – La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica
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1. Storia concettuale come filosofia politica 51

salmente si intreccia76, cioè il principio rappresentativo di origine


hobbesiana, senza di cui non si dà agire politico.

1.7 Un piano più radicale per il rapporto tra storia


concettuale e filosofia politica

Il rapporto tra filosofia politica e concetti verrebbe per altro frainte-


so se fosse visto esaurirsi nella insopprimibilità di un orizzonte filo-
sofico generale, nel quale i concetti prendono il loro significato e
nascono: questo potrebbe essere ravvisato nella filosofia greca per
la politica antica, nella filosofia moderna per i concetti politici
dell’epoca moderna. Non solo in tal caso ci sarebbe un presupposto
storicistico a viziare il processo logico – ad ogni epoca la sua filo-
sofia – ma si determinerebbe anche un procedimento da «storia del-
le idee», che la storia concettuale nel suo significato più critico e
radicale, esplicitamente esclude. Infatti emergerebbe un atteggia-
mento tipico della storia della filosofia come disciplina, la quale,
sulla base dell’unità del concetto di filosofia, ne esamina tutte le di-
verse declinazioni che si sono date nella storia. Come si vede qui è
presupposta l’identità del concetto di filosofia e egualmente un con-
cetto di storia, che niente ha a che fare con lo sviluppo della cosid-
detta «filosofia» per l’arco di millenni. La storia della filosofia che
viene implicata nel momento in cui si legano i concetti, in ogni e-
poca, alla loro filosofia, è un prodotto tipico di «storia delle idee»
che risente dei pregiudizi propri del modo di fare storia specialisti-
ca, che, come abbiamo visto, è tipica del moderno77.

76 La paradossalità consiste nel fatto che la sovranità del popolo si pone in Rous-
seau come negazione del principio rappresentativo.
77 Si può facilmente intuire come sia possibile per questa strada l’esame della na-
scita delle storie della filosofia che si ha – anche in questo caso – nella seconda
metà del Settecento: disciplina moderna dunque che pretende di cogliere le struttu-
re del pensare che si è dato fuori dai suoi presupposti. È interessante notare
l’intreccio che si ha tra il procedimento storico concettuale e la problematica filo-
sofica: si potrebbe sviluppare il discorso nella direzione del modo aristotelico di
fare Historia delle posizioni dei filosofi a lui precedenti, e mettere a tema il signi-
ficato che ha la filosofia nel caso di questa Historia e quello che viene ad assumere
nella moderna storia della filosofia (a questo proposito è da ricordare M. Gentile,
Se e come è possibile la storia della filosofia, Liviana, Padova 1964). Il procedi-

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52 Giuseppe Duso – La logica del potere

Già Brunner ci spinge a superare una tale impostazione, nel


momento in cui problematizza il concetto moderno di scienza, che
appare inadeguato non solo alla comprensione della realtà del pas-
sato, ma anche riduttivo nei confronti della stessa realtà dell’epoca
moderna. Se egli tende a una storia sociale, che può essere detta po-
litica nel momento in cui si superi il concetto di politica che sta alla
base della storia moderna – ed è costretto a riferirsi a un concetto di
politica «più ampio, vagamente aristotelico»78–, allora si compren-
de che il suo lavoro storico-concettuale ha una valenza critica nei
confronti dei concetti moderni, che non sono equiparati e giustap-
posti a quelli antichi, e che sono visti nella loro parzialità e ridutti-
vità anche per la comprensione della realtà moderna. Questa, per
essere colta, richiede non la negazione della concettualità moderna,
ma il superamento del suo aspetto di presupposto necessario e non
discusso del rigore del nostro procedimento. In questo modo però ci
avviamo per una strada – per la quale bisogna assumersi tutta la re-
sponsabilità – che tende a fare emergere ciò che caratterizza il filo-
sofico: allora non ci sorregge più il riferimento a Brunner, ma piut-
tosto a quel modo di intendere e praticare la filosofia che permette
di accostarlo in modo fruttuoso e di apprendere molto dalla sua pra-
tica del lavoro storico.
Bisogna allora tematizzare cos’è filosofia, non identificando sot-
to questo termine due pratiche del pensiero differenti, quali sono

mento storico-concettuale, come lo abbiamo inteso, appare allora avere una valen-
za teoretica, così come il problema filosofico appare incrociare necessariamente la
problematica posta dalla storia concettuale, nel momento in cui filosofia, e più spe-
cificamente filosofia politica, si fa oggi, in una situazione che forse è alla fine di
un’epoca, ma ne porta ancora tutto il peso.
78 È interessante qui notare in modo determinato l’espressione di Brunner: da una
parte il concetto di politica a cui si ispira è detto «più ampio», dunque più com-
prensivo (e certo tale può essere solo se è anche critico di quello moderno), non
«radicalmente altro», che non si colloca cioè da un’altra parte, in un’altra epoca;
dall’altra la mancanza di determinazione che si potrebbe ravvisare nell’espressione
«vagamente aristotelico» viene corretta se si ravvisa in essa la volontà di esprimere
qualcosa che è pensabile solo in quanto si superano i confini e la struttura del con-
cetto moderno, aprendosi ad una dimensione in cui è comprensibile il concetto di
politica aristotelico, ma nello stesso tempo non si vuole semplicemente negare la
concettualità moderna, né riproporre in modo immediato il concetto aristotelico di
politica per la storia sociale e l’analisi anche della realtà moderna.

Giuseppe Duso – La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica
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1. Storia concettuale come filosofia politica 53

quelle della scienza o filosofia politica moderna e quella della ri-


flessione filosofica sull’ambito pratico che si è sviluppata presso i
Greci. Ma per giungere, sia pure in forma di schematica approssi-
mazione, ad affrontare questo tema, è utile tornare per un'ultima
volta alla già citata critica di Koselleck a Brunner. Secondo essa
Brunner, nonostante i suoi meriti, rischierebbe di cadere in uno sto-
ricismo estremo, che vuole contraddittoriamente cogliere le fonti
per quello che sono state, oggettivamente e autonomamente dalla
concettualità moderna e dal riferimento al presente. Non si può ren-
dere le fonti del passato come se il rapporto tra la nostra resa del te-
sto e il testo fosse di 1 a 1: non si può non usare in una storia con-
cettuale una qualche forma di traduzione e riscrittura dei concetti
passati79. Una tale necessità si può per Koselleck riscontrare negli
stessi lavori di Brunner, come mostra, per esempio, l’uso del termi-
ne Verfassung ; tuttavia la critica rimane ed è ripetuta: essa può
perciò forse essere uno spiraglio per intendere come si siano propo-
ste direzioni diverse nella pratica del lavoro storico-concettuale.
Tale critica può sorprendere se si tiene presente la consapevo-
lezza espressa da Brunner che «la storia non è possibile senza rife-
rimento al presente»80: infatti «è dal presente che le problematiche
sorgono, si rafforzano e si riducono ad espressioni convenzionali:
esse continuano a vivere a lungo in un presente che è diverso da
quello in cui hanno avuto origine». E anche là dove si afferma la
necessità per una storia sociale di non trarre i propri concetti da uno
stadio qualsiasi della sociologia per applicarli ai temi passati, ma
piuttosto di elaborarli, basandosi sul materiale originario e partendo
dalle fonti, egli aggiunge che «ciò non è possibile, per ogni lavoro
storico che non voglia essere semplice raccolta di materiale, senza
alcun riferimento con il presente, un presente descritto scientifica-
mente»81. Allora il rapporto con il presente è imprescindibile, se-
condo Brunner, per il lavoro dello «storico» sociale come lui lo in-
tende: non si può che partire dal presente e dalla sua concettualità,
dai suoi problemi, e anche dalla sua scienza, così come non si pos-

79 Cfr. Koselleck, Begriffsgeschichtliche Probleme cit., spec. p.13.


80 Brunner, Feudalesimo. Un contributo alla storia del concetto, in Per una nuova
storia costituzionale cit. p.115.
81 Cfr. Brunner, Il problema di una storia sociale europea cit., p. 49.

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sono che usare le parole in cui inevitabilmente si sono sedimentati i


concetti moderni, come si è visto per il termine costituzione riferito
al medioevo, o società o stato nell’espressione «società per ceti» o
«stato per ceti».
Ciò che è essenziale nel procedimento di Brunner emerge nella
conclusione del discorso che riguarda il necessario rapporto con il
presente: «così resta aperta solo la via di analizzare le problemati-
che che ci provengono dalla vita stessa, riconoscendone però i con-
dizionamenti». Due sono gli elementi che qui si devono cogliere: da
una parte il rapporto con la concretezza della vita stessa e della si-
tuazione in cui ci troviamo noi che guardiamo al passato; dall’altra
la consapevolezza dei condizionamenti propri della nostra ottica,
che sono anche condizionamenti del significato che hanno i termini
da noi usati: condizionatezza dunque dei concetti moderni, senza la
cui consapevolezza non comprendiamo ciò che è altro dal nostro
presente. Anche qui il lavoro dello «storico» sociale mostra una pa-
rentela con il movimento di pensiero proprio della filosofia: infatti
la consapevolezza dei condizionamenti non può essere risolta una
volta per tutte, né in chiave metodologica, né in quella di una solu-
zione formale, ma si tratta di un «procedimento che deve essere
sempre ricominciato da capo»82.
Ma se il rapporto con il presente, come pure l’uso necessario dei
termini che veicolano concetti moderni, sono elementi di cui Brun-
ner ha piena coscienza, ci si può chiedere quale sia il vero obiettivo
della critica di Koselleck. Mi pare che questo consista nel fatto che
Brunner ravvisa non una semplice trasformazione o passaggio, ma
una radicale rottura tra concetti moderni e la realtà del mondo pre-
cedente, quello che lui chiama «nobiliare», che ha necessità, per es-
sere compreso, di riferirsi a quel principio organizzatore del sapere
che si può rintracciare nella filosofia greca. Tra questo modo di
pensare e quello implicato dai concetti moderni non c’è un piano
omogeneo ed unitario nel quale si possano porre sia il pensiero del-
la scienza pratica antica, sia la scienza politica moderna. Allora

82 Brunner, Feudalesimo cit., p. 115.

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1. Storia concettuale come filosofia politica 55

sembra a Koselleck che venga a mancare la possibilità di intendere i


mutamenti avvenuti, cioè «la dinamica storica»83.
Koselleck cerca infatti un piano unitario in cui collocare, sia pur
nella loro diversità, concetti del passato e concetti ancora presenti, e
perciò intende la storia concettuale come mediazione tra linguaggio
delle fonti e linguaggio scientifico84. La storia concettuale si por-
rebbe dunque come comprendente insieme il piano dei concetti del
passato e dei concetti moderni: «la storia concettuale abbraccia
quella zona di convergenza in cui il passato e i suoi concetti entrano
nei concetti moderni. Essa necessita dunque di una teoria, senza la
quale non è possibile capire che cosa divide e che cosa invece uni-
sce nel tempo». Il problema è quello di rintracciare una misura uni-
taria, delle categorie teoriche – scientifiche – capaci di intendere
cambiamento e durata. Allora, nell’uso di concetti moderni per il
passato (ad esempio di «Stato» per l’alto medioevo) o di concetti
antecedenti per fenomeni successivi (come avviene per l'uso lingui-
stico oggi del termine «feudalesimo»), si ravvisa affermata «almeno
ipoteticamente, l’esistenza di caratteristiche comuni minime nella
sfera oggettuale»85.
Significativo, per comprendere la posizione di Koselleck e la sua
diversità dall’approccio di Brunner, è il modo in cui egli intende
l’uso weberiano del concetto di legittimità. Weber è infatti visto an-
dar oltre i vari livelli semantici espressi dal termine ed elaborare un
«concetto scientifico abbastanza formale e generale da poter descri-
vere possibilità costituzionali durevoli, ma anche mutevoli e intrec-
ciate, tali da rivelare le strutture in esse delle “individualità” stori-
che»86. È così legittimato l'uso weberiano dei tipi ideali per intende-
re realtà diverse, moderne e premoderne, e ciò grazie all’astrazione
e alla generalità del concetto. Assai diverso è a questo proposito
l’atteggiamento di Brunner, per il quale l’ampia utilizzabilità di un
concetto (ad esempio quello di «feudalesimo») è ottenuta mediante
il raggiungimento di una validità generale che fa sì che esso finisca
con il «non dire più nulla», non abbia cioè più un senso determina-

83 Cfr. Chignola, Storia concettuale e filosofia politica cit., pp. 22 sgg..


84 Cfr. Koselleck, Storia dei concetti e storia sociale cit., p. 108.
85 Ivi, p. 109.
86 Ibid.

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56 Giuseppe Duso – La logica del potere

to, perdendo pertanto qualsiasi efficacia ai fini della ricostruzione


interna e della dinamica delle strutture a cui si riferisce87. Ciò av-
viene per il modo in cui Weber intende il feudalesimo come una
«forma di signoria (Herrschaft) di tipo feudale». In realtà i tipi del
potere (Herrschaft) weberiani e il suo concetto di legittimità pon-
gono distinzioni che hanno senso solo nel processo di formazione
del mondo moderno: ciò vale anche per il tipo «tradizionale» del
potere, che è significativo solo in relazione alla mancanza di razio-
nalità. I secoli più antichi non conoscevano la tradizione o la storia
come fonte di legittimità, e l’ordinamento antico era considerato
durare per la sua bontà: cioè, come detto in altro contesto, il buon
diritto antico non era buono perché antico, ma antico perché buo-
no88. Si può concludere che per Brunner i tipi weberiani del potere
non sono concetti atti a comprendere fenomeni diversi che si sono
dati nella storia. Questo tipo di analisi è posto in crisi da un approc-
cio storico-concettuale. Weber infatti usa concetti che si formano
sulla base di presupposti moderni per intendere realtà diverse, non
catturabili con quei concetti. I tipi del potere e la legittimità, di cui
Weber parla, sono elementi propri del potere moderno e non indivi-
duano un piano concettuale unitario che permetta di intendere i rap-
porti politici moderni e quelli che si avevano precedentemente89.
Questa critica del pensiero weberiano ci mostra ancora che il vero

87 Brunner, Feudalesimo cit., pp. 115-116.


88 Ivi, pp. 110-111 e Osservazioni sul concetto di «dominio» e «legittimità» cit.,
spec. pp. 115-116. Si tenga presente, affinché non avvengano confusioni, che
quando nelle diverse traduzioni italiane di Brunner si parla di «dominio», di «si-
gnoria» e, in rapporto ai tipi weberiani, di «potere», ci si riferisce al termine tede-
sco Herrschaft. Come già ho avuto modo di dire, mi sembra che si possa parlare di
potere quando ci si riferisce al mutamento radicale del termine che si ha con il mo-
derno. Sulla traduzione del termine Herrschaft, ma anche, in generale, sull’uso dei
concetti da parte di Brunner, si veda G. Nobili Schiera, A proposito della traduzio-
ne recente di un’opera di Otto Brunner, «Annali dell’Istituto storico italo-
germanico in Trento», IX (1983), pp. 391-410.
89 Basti pensare alla definizione weberiana della Herrschaft, come rapporto co-
mando-obbedienza, basato dunque sull’assolutizzazione della volontà, rapporto
che non è pensabile in quell’orizzonte in cui il principio organizzatore del sapere
della sfera pratica è quello che sopra è stato indicato come il principio del governo.
Su ciò rimando al cap. Tipi del potere e forma politica moderna in Max Weber del
mio volume, La rappresentanza: un concetto di filosofia politica, FrancoAngeli,
Milano 1988, pp. 55-82.

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1. Storia concettuale come filosofia politica 57

problema di Brunner è la coscienza critica dell’irruzione del mondo


moderno e del concetto di scienza, ragione per cui la sua storia so-
ciale non si pone su un piano ricompositivo e si basa sulla proble-
matizzazione della storia moderna. Di contro Koselleck sembra e-
ludere il problema della storia come scienza e tendere ad una ri-
composizione storica, che comprenda e superi insieme le particola-
rità che in essa sono sedimentate90.
Il rifiuto di un piano unitario, quale si presenta sia nel caso delle
storie del pensiero politico, sia in quello di una teoria pura
nell’ambito della quale confrontarsi con i classici della politica, non
comporta incomunicabilità con il passato, o la insignificanza di
quest’ultimo per il nostro presente. Comunicazione e significato si
trovano in quanto, per cogliere l’esperienza di ciò che precede il si-
stema di concetti moderni, si va alle fonti operando contemporane-
amente sui concetti moderni e sul lessico che è a nostra disposizio-
ne. Questo appare attraversato e criticato: non è più il metro e il
presupposto della nostra scienza, e perciò si apre la possibilità sia di
comprendere un significato diverso di politica e del vivere in co-
mune degli uomini, quale si è dato prima dell’epoca moderna, sia di
confrontarsi criticamente con quest’ultima e con il suo apparato
concettuale.
Resta un’ultima considerazione da fare, tenendo presente che il
nostro tema non è la storia sociale, ma il rapporto tra storia concet-
tuale e filosofia politica. Si è detto che un approccio storico-
concettuale ci porta fuori da una concezione unitaria e omogenea
della filosofia che si svolgerebbe nella storia, come avviene nella
«storia della filosofia» in quanto disciplina. Con la premessa che
non si vuole qui esprimere un giudizio generale, che intenda esten-
dersi a tutto ciò che nel moderno si presenta come filosofia politica,
ma piuttosto riferirsi a quel significato determinato che la politica e
i suoi concetti hanno nell’ambito della nuova scienza politica che
caratterizza il procedimento razionale del diritto naturale o giusna-
turalismo moderno, mi pare si possa identificare in questa filosofia
politica, o scienza, la dimensione costruttiva di una forma, di un

90 Cfr. Chignola, Storia concettuale e filosofia politica cit., p. 23 e, ancor prima, la


citata recensione di Biral a Futuro passato.

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58 Giuseppe Duso – La logica del potere

modello, da cui dipende una dimensione normativa, poiché per la


pace e l’ordine è questo modello che bisogna applicare. Potremmo
definire teorica tale forma del pensiero, che opera una rottura con la
filosofia pratica precedente, la quale è considerata incapace di ri-
solvere il problema del vivere in comune degli uomini, a causa del
suo riferirsi all’esperienza e alla virtù e dunque della mancanza del-
la chiarezza e della universalità propria della scienza. Con il termi-
ne di teoria si può dunque indicare l’aspetto costruttivo e normativo
della scienza o filosofia politica moderna. La problematzzazione
della struttura propria di tale costruzione teorica fa emergere
un’altra dimensione del pensiero, che può essere intesa come più
propriamente filosofica91. Radicalizzando il discorso si può dire
che, se è filosofico il gesto di pensiero dei Greci, la filosofia politica
moderna a cui ci riferiamo non è filosofia, ma piuttosto costruzione
teorica.
La coscienza critica, in cui riemerge ciò che è più specificamen-
te filosofico, consiste nell’intendere come la ferrea costruzione in
cui sono significanti i concetti moderni mostri alcune aporie fon-
damentali, alcune contraddizioni, che non permettono di acquietarsi
nella soluzione che tale scienza offre92. Essa nasce sulla base del
problema del bene e del giusto che aveva occupato il pensiero per
due millenni, ma nello stesso tempo offre una soluzione che tende a
far tacere questo problema, a esorcizzarlo, perché considerato peri-
coloso e causa di conflitto e di guerra. Al problema della giustizia
viene offerta una soluzione formale, quella della forma politica mo-
derna, nella quale è giusto obbedire a chi esprime quel comando
che è legge, in quanto costui è da tutti autorizzato, è loro rappresen-

91 Mi pare che questo sia il modo di intendere la filosofia politica che è criticata
nei lavori di Roberto Esposito (cfr. soprattutto, Categorie dell’impolitico, Il Muli-
no, Bologna 1988 e Nove pensieri sulla politica, Il Mulino, Bologna 1993) e dagli
autori da lui attraversati, in primis Hannah Arendt: filosofia come teoria, costru-
zione teorica appunto, sapere normativo. La critica condivisibile a una tale forma
del sapere politico, o di ciò che con Socrate si potrebbe definire «pretesa di sape-
re», in cui consiste la filosofia politica moderna, non risolve però il problema della
filosofia politica, ma al contrario contribuisce a porlo.
92 Sulle aporie fondamentali della teoria giusnaturalistica e del contrattualismo
moderno, cfr. l’Introduzione a Il contratto sociale nella filosofia politica moderna
cit. e il cap. II del presente lavoro.

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1. Storia concettuale come filosofia politica 59

tante: la sua volontà è perciò la volontà di tutti. Il problema della


giustizia appare esorcizzato dal nesso libertà-potere, che ha senso
nel momento in cui, in un mondo relativizzato, ciò che ha significa-
to vincolante è solamente la volontà.
Avere coscienza della specificità e delle aporie di questa costru-
zione, dunque il suo pensarla filosoficamente, radicalizzandola,
mettendola in questione, non accettandola come presupposto, com-
porta il riaprirsi del problema che compariva, in modi diversi,
all’interno del mondo pre-moderno. Ciò che consente la comunica-
zione dei diversi contesti di pensiero non è dunque un piano che tut-
ti li comprenda, ma l’attingimento di un problema originario, che –
proprio in quanto originario – compare entro gli stessi concetti mo-
derni e le loro contraddizioni, e ci permette nello stesso tempo il
rapporto con la filosofia antica. Tale elemento filosofico si pone so-
lo problematizzando la filosofia politica moderna (sempre intesa nei
limiti e nel senso preciso che qui è stato indicato, come la logica dei
concetti del giusnaturalismo moderno), criticando il suo non essere
filosofia, ravvisando in essa un problema innegabile, ma anche la
sua esorcizzazione, la sua messa tra parentesi. Ciò non significa che
venga riconquistato un modello antico, né che il pensiero e la realtà
del mondo vetero-europeo siano intesi come la vera realtà, che i
concetti moderni non coglierebbero. Non si può intendere il presen-
te usando come modello (ciò sarebbe ancora un atteggiamento tipi-
co del moderno) la riflessione su realtà assai diverse dalla nostra
quali erano quelle della polis o del mondo medievale. Si tratta piut-
tosto di pensare radicalmente i concetti moderni (diritti, uguaglian-
za, libertà, popolo, potere, democrazia) riattivando così un gesto del
pensiero che era anche dei classici greci, e rapportandosi nel con-
tempo alla nostra realtà, al di là della pretesa soluzione offerta dagli
schemi della teoria.
Il lavoro di storia concettuale, se visto in quest’ottica e con que-
sta radicalità, mi sembra esprimere un senso della filosofia politica
che ne evidenzia tutto l’impegno teoretico, impegno che mi sembra
invece tradito quando si propone una riflessione su concetti consi-
derati eterni, i quali rivestono una loro universalità proprio in quan-
to sono insieme generici e tuttavia tali da comportare una surrettizia
accettazione della parzialità e dei presupporti della concettualità

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moderna. Tale pratica della filosofia politica come storia concettua-


le mi pare possa consentire da una parte un lavoro sui filosofi clas-
sici e sui concetti politici, dall’altra, contemporaneamente, la riaper-
tura del problema della giustizia e di un rapporto con la realtà che
vada al di là della riduttività di quei concetti politici moderni che
appaiono anche epocalmente in crisi. Riemergere del problema filo-
sofico e rapporto con la complessità non modellizzabile della realtà
(ancora intreccio con una storia sociale e costituzionale?) appaiono
legati in questo nesso di storia concettuale e filosofia politica.

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2. Politica e filosofia

2.1 Politica e scienza politica

Un approccio storico-concettuale ai concetti fondamentali della po-


litica non può non porre a tema quello che appare forse, più che un
concetto, il quadro complessivo nel quale appunto i concetti vengo-
no indicati come «politici». Si tratta cioè di comprendere se c’è un
piano unitario dei concetti che debbono essere considerati come po-
litici nello sviluppo storico, oppure se lo stesso termine di politica
non venga a prendere un significato peculiare e non generalizzabile
nell’epoca moderna. In relazione al termine di «politica» emerge
chiaramente l’impossibilità di analizzare i concetti isolatamente: es-
si prendono infatti il loro preciso significato in relazione al modo in
cui funzionano reciprocamente in una costellazione complessiva.
La stessa politica da una parte denota i concetti che sono detti «po-
litici» e dall’altra riceve da essi, dal modo in cui si relazionano tra
loro, il suo significato.
Nei confronti di tale termine si può verificare quale sia il modo
usuale, non solo nel linguaggio diffuso, ma anche nei trattati scien-
tifici, di usare i concetti. Più ancora di altri termini, infatti, quello di
politica tende ad indicare una sfera universale e a-temporale, in cui
si manifesta l’agire dell’uomo. «Politica» è infatti parola che occu-
pa il linguaggio odierno, ma è anche parola che ha una matrice anti-
ca, dal momento che il suo etimo ci riporta all’esperienza greca,
considerata la base dello sviluppo della civiltà occidentale. Si è al-
lora tentati, a causa di questa continuità della parola, di conferirle
un significato unitario e utilizzabile in relazione a diverse epoche

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storiche, di pensare di aver rintracciato una sfera perenne dell’agire


dell’uomo. Se ci si chiede quale siano le connotazioni che determi-
nano il concetto, usato per intendere sia la realtà odierna, sia quella
di un lontano passato, si può facilmente riscontrare che emergono
una serie di elementi quali quello di una sfera pubblica distinta e
opposta ad una privata, della forma politica, del potere che in tale
forma si esercita: tutti elementi che sono tipici della concettualità
moderna. Con maggiore precisione mi pare si possano rintracciare
due significati fondamentali del termine. Innanzitutto quello che si
riferisce alla forma politica, al rapporto sociale tra gli uomini garan-
tito da un potere legittimo: è l’aspetto per cui il politico si identifica
con lo statuale e con il suo nucleo centrale, cioè il potere inteso co-
me sovranità. Il secondo significato riguarda l’agire relativo alla
conquista e all’uso di quel potere. In termini weberiani si potrebbe
dire che nel primo caso si tratta del potere politico (Herrschaft),
connotato dal rapporto formale di comando obbedienza, nel secon-
do della lotta per il potere, o della forza di coazione e di influenza
(Macht) sull’agire degli altri uomini che si esercita nella conquista
del potere legittimo1. Insomma l’ambito della politica viene ad es-
sere determinato, per quanto riguarda il suo significato, da quello
del potere, inteso innanzitutto nel senso del potere politico proprio
della scienza politica moderna, e in secondo luogo in quello di un
agire che si determina socialmente, dunque un agire che è inteso
come oggettivo e da descrivere da parte della scienza.
Con questi significati si tende spesso a descrivere le forme in cui
si sarebbe determinata la politica e si sarebbe manifestato il potere
nel mondo greco o nel medioevo, in quanto politica e potere sono
intesi come concetti universali, che possono trovare diverse manife-
stazioni storiche. In tal modo però non si fa che estendere al passato
una tematica tipica della concettualità moderna, fraintendendo il si-
gnificato che ha in altri contesti il rapporto sociale tra gli uomini e il
sapere che lo esprime. In realtà l’apparato che si usa è determinato,

1 Si veda su ciò M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, hrsg. J. Winkelmann,


Mohr, Tübingen 19763, trad. It. Economia e società, a cura di P. Rossi, edizioni di
Comunità, Milano, 1981, le parti dedicate al potere: soprattutto il cap. III e il cap.
IX (si tenga presente che l'edizione italiana traduce Herrschaft con «potere» e
Macht con «potenza»).

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2. Politica e filosofia 63

a un primo livello, come già si è indicato, dalla scienza politica mo-


derna, o scienza del diritto naturale, e a un secondo dallo scarto epi-
stemologico che viene in luce con la riflessione weberiana, nella
quale il nuovo concetto di scienza come scienza di realtà e la sepa-
razione dell’ambito etico dei valori e delle scelte e quello oggettivo
dei fatti, al quale si riferisce il sapere, fanno sì che il potere non
coincida più con la sovranità come centro della costruzione raziona-
le della forma politica, ma diventi qualcosa di oggettivo, di reale,
che si tratta allora di analizzare, mediante una scienza dei compor-
tamenti sociali2.
Leggere il passato con questi occhiali moderni ha un duplice esi-
to: da una parte risultano fraintese la realtà e le fonti a cui si riferi-
sce e dall’altra i concetti usati sono intesi come oggettivi e assolu-
tamente validi, senza alcuna problematizzazione, cosicché non sono
colte le aporie che il concetto di politica pone. Inoltre manca in tale
lettura la consapevolezza dello stretto rapporto esistente tra
l’oggetto che il termine «politica» indica, e il sapere che permette di
porlo, di parlarne, di dargli un senso. Tale rapporto traspare nell’uso
greco del termine politikós, il quale, come aggettivo, connota tutto
ciò che riguarda la polis, e politiké che, sostantivato, assorbe in sé il
termine di epistéme o di téchne, per indicare la scienza politica.
«Politica» viene così ad indicare la sfera dell’agire nella polis e in-
sieme il sapere di questo agire e della stessa polis. Riflettendo su
questo rapporto, si può comprendere quanto sia ingannevole la ten-
denza sopra indicata a denotare la politica come sfera universale ed
eterna, caratterizzandola tuttavia mediante determinazioni concet-
tuali che sono proprie di quel «modo» di intendere la scienza politi-

2 Tale scarto epistemologico non comporta tuttavia una totale alterità dell’impianto
concettuale weberiano nei confronti di quello che nasce con la filosofia politica
moderna: il suo concetto di Herrschaft non è pensabile senza il processo di razio-
nalizzazione al cui centro sta la nascita e la diffusione dei concetti moderni (cfr. su
ciò il mio Tipi del potere e forma politica moderna in Weber cit., e il volume col-
lettaneo, Duso (a cura), Il concetto di potere. Per la storia della filosofia politica
moderna, Carocci, Roma 1999, in particolare l'introduzione alla VI sezione e i due
saggi di L. Manfrin e A. Scalone dedicati rispettivamente a Weber e a Schmitt). È
evidente come i due livelli, quello della forma politica e quello di un significato di
politico che non coincide con lo statuale, ma ne costituisce piuttosto l’elemento
genetico, richiamino la riflessione di Carl Schmitt.

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ca che si è affermato nell’epoca moderna. Infatti solo in questa ha


senso determinare l’agire politico come uso del potere o lotta per il
potere e la sfera della politica come segnata dal rapporto esclusivo
di comando-obbedienza.
Poiché una riflessione che va in questa direzione tende inevita-
bilmente a porre in luce il terreno epistemico della filosofia politica,
per quanto riguarda sia il momento in cui il termine di politiké fa la
sua comparsa, sia quello della nascita seicentesca della moderna
scienza politica, sia infine il contesto weberiano che dà inizio ad
uno spostamento in direzione sociologica della scienza politica con-
temporanea, è utile cercare di sgombrare il terreno dalle difficoltà
che a questo proposito sembrano venire dalla distinzione general-
mente accettata di «scienza politica» e «filosofia politica». Tale di-
stinzione, infatti, attribuendo alla scienza lo statuto di un sapere ri-
goroso, «scientifico» appunto, tende a relegare la filosofia in un
ambito in cui il pensare si attua o come scelta di valori o come co-
struzione di modelli perfetti in quanto utopici, oppure come prescri-
zione di ricette per i mali del mondo. Non è questo il luogo per ri-
cercare la genesi di tale dicotomia e per saggiarne la validità. Si può
solo ricordare che essa è assai recente e ricorre nelle determinazioni
disciplinari e accademiche novecentesche, e inoltre che essa appare
condizionata dalla contrapposizione weberiana tra «giudizi di fatto»
e «giudizi di valore» e, ancor prima, dal dibattito neokantiano di fi-
ne Ottocento, in cui emerge con insistenza il termine di «valore», e
dall’atmosfera culturale positivistica, che attribuisce a un processo
veramente «scientifico» il compito dell’analisi della realtà fattuale.
Tale contrapposizione di scienza e filosofia, anche se diffusamente
accettata, appare nella sua precarietà non appena ci si chieda in qua-
le ambito di discorso e in base a quale tipo di rigore venga formula-
ta. Non potendo essere quello scientifico, caratterizzato dall’analisi
dei fatti, tale ambito non può che occupare lo spazio che era proprio
della filosofia, o quello di una riflessione epistemologica, che accet-
ta una struttura del discorso scientifico come suo presupposto3.

3 La filosofia, in questa distinzione di scienza politica e filosofia politica, è risulta-


to di una operazione di pensiero che deve essere interrogata: in ogni caso in essa la
filosofia può assumere più significati, ma viene a mancare del rigore che caratte-

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2. Politica e filosofia 65

Questo modo di intendere scienza e filosofia viene usato non so-


lo per distinguere due forme del pensiero che si esprimono nel pre-
sente, ma spesso anche in riferimento al passato, come categorie u-
niversali, proprie del pensiero in quanto tale. È per altro difficile ri-
scontrare in siffatta distinzione una valenza ermeneutica in rapporto
ai momenti alti della storia del pensiero, nei quali la politica si vie-
ne a determinare in relazione al sapere in cui è pensata, sapere che
si intende rigoroso e adeguato al proprio oggetto e nei confronti del
quale la contrapposizione di scienza e filosofia non appare possibi-
le. Si pensi ad esempio alla politiké epistéme di Aristotele, che vuo-
le indicare un tipo di scienza pratica adeguata all’oggetto dell’agire
umano. Le caratteristiche diverse che tale sapere pratico ha nei con-
fronti di quello contemplativo non lo annulla come sapere: sarebbe
piuttosto un sapere matematico ad essere, se applicato alla sfera
dell’agire, non adeguato all’oggetto e perciò per niente rigoroso. Si
pensi anche al sapere che Hobbes tenta di erigere nel campo della
pratica: questo nel Leviatano viene delineato come rigoroso e viene
connotato indifferentemente con il termine di «scienza» o di «filo-
sofia». Si pensi infine ai Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel,
che nel sottotitolo si propongono anche come scienza dello Stato. Il
disegno hegeliano di elevare la filosofia al livello del sapere non
comporta la distinzione di un piano scientifico da uno filosofico; è
quello filosofico o speculativo a mostrarsi il vero sapere, e dunque
Wissenschaft, in rapporto alle scienze che si pongono sul piano
dell’intelletto invece che su quello della ragione. Anche qui vera
filosofia è vera scienza.
Il fatto che nei tre esempi indicati non sia produttiva e nemmeno
applicabile la distinzione di scienza e filosofia, non significa che si
tratti dello stesso tipo di sapere. Assai diverso è il sapere politico a

rizza il sapere scientifico. Nell’ambito della riflessione che stiamo seguendo, non è
una tale filosofia, intesa come Weltanschauung, o come costruzione di una forma
politica razionale e utopica, o come rimedio ai mali del mondo, che interessa. È
piuttosto il problema che nasce all’interno della determinazione della scienza poli-
tica a caratterizzare tale filosofia politica e a mostrare anche il suo possibile rigore,
quello di una domanda che si impone, che non si può non porre. Sul legame della
distinzione in questione e una «certa» dottrina filosofica, all’interno della quale
sola ha significato, cfr. D. Zolo, La «tragedia» della scienza politica, in «Demo-
crazia e diritto», 1988, n.6.

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66 Giuseppe Duso – La logica del potere

cui si riferisce Aristotele, che ha a che fare con il mondo mutevole


dell’agire e pensa filosoficamente i rapporti tra gli uomini come
rapporti politici, implicanti cioè la polis, dalla scienza che Hobbes
intende inaugurare: questa si muove proprio contro l’insufficienza
che è ravvisata in un sapere pratico quale quello di Aristotele, in di-
rezione di una costruzione in cui la coerenza razionale sia perfetta,
in quanto lega tra loro nomi e definizioni e non si riferisce al mondo
caotico dell’esperienza. Proprio per questo tale scienza si pretende
rigorosa e capace di costruire un modello che non ha riscontri nella
realtà, ma che intende essere utile nella realtà grazie al suo carattere
normativo rivolto all’azione e alla costruzione della società. È qui
che inizia quel processo di deduzione della prassi dalla teoria che
sarà emblematica per tutto l’arco della moderna teoria politica. Al-
tro ancora è il sapere che si manifesta nella Rechtsphilosophie di
Hegel: proprio in quanto supera le determinazioni dell’intelletto e si
pone sul piano speculativo essa è scienza in cui emerge la realtà
(Wirklichkeit): essa non ha un carattere normativo, ma si pone sul
piano della comprensione4. Si presentano in questo modo, più che
semplici esempi, delle vere e proprie scansioni fondamentali nella
determinazione del significato della politica. Per arrivare alla nostra
contemporaneità, un’altra scansione fondamentale è costituita dalla
svolta epistemologica weberiana che è stata sopra ricordata. Con
essa la scienza diviene scienza di realtà, in un senso assai diverso
da quello della filosofia hegeliana, nel quale l’idea esprime il mas-
simo di realtà – solo ora, infatti, scienza e filosofia si contrappon-
gono. La scienza weberiana ipostatizza l’agire umano e la dimen-
sione del potere in una realtà oggettiva, fattuale e richiede,
nell’astrazione scientifica, processi idealtipici adatti a comprender-
la.
Ciò che qui si propone non è tanto un’analisi del concetto di po-
litica o un esame delle diverse accezioni che il termine ha avuto,
quanto piuttosto una riflessione sulla radicale alterità di ciò che è
politica per i Greci nei confronti dei concetti che connotano la poli-
tica nella scienza moderna; di evidenziare la via della problematiz-

4 Per il chiarimento di questo rapporto tra filosofia e realtà, tra Vernunft e Wirkli-
chkeit, rimando a Crisi e compimento del diritto naturale nella filosofia classica
tedesca (di prossima pubblicazione).

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2. Politica e filosofia 67

zazione della filosofia o scienza politica moderna, e infine di mo-


strare come possa presentarsi in questa problematizzazione un gesto
filosofico che, denunciando la crisi del rapporto moderno di teoria e
prassi, apre lo spazio di un agire non garantito né deducibile da mo-
delli e norme. La filosofia politica classica non risulta allora collo-
cata in una dimensione arcaica, ma opera nella critica dei concetti
moderni. La presente riflessione accompagna in tal modo un lavoro
di ricerca che ha tentato di ricostruire la genesi e la logica della con-
cettualità politica moderna e di mostrare l’utilità strategica di autori
quali Schmitt e coloro che, in modo diverso, dopo di lui hanno rein-
trodotto nella critica della scienza politica moderna il riferimento
alla filosofia greca: mi riferisco a Eric Voegelin, Leo Strauss e
Hannah Arendt.

2.2 Politica antica e politica moderna

Se la dimensione del potere sembra connaturata al politico – al pun-


to che la teoria politica appare riguardare la genesi del potere, la sua
legittimazione, i modi del suo esercizio, le garanzie contro gli abusi,
e infine la lotta per la sua conquista –, ciò riguarda una dimensione
storica e teorica determinata, che da Weber si estende all’indietro
per circa tre secoli. Si tratta della vicenda della moderna teoria poli-
tica, che ha inizio nel momento in cui si intende mettere in crisi tut-
ta una tradizione di riflessione sulla pratica dichiarandola destituita
di validità e si tenta di dar luogo ad una forma razionale della socie-
tà che da tutti debba essere accettata.
Questa scienza inaugurata da Hobbes, nell’ambito della quale si
danno certo differenziazioni anche notevoli, copre sostanzialmente
un arco temporale assai vasto. Quando Weber parla della Her-
rschaft come rapporto formale di comando-obbedienza e della poli-
tica come lotta per il potere, appare ancora debitore a questa tradi-
zione, nonostante lo scarto epistemologico proprio del suo modo di
intendere la scienza e la razionalità. Anche lo spazio della lotta per
il potere, che non è il bellum omnium contra omnes, si apre infatti
nel momento in cui si pensa da una parte al potere come rapporto
comando-obbedienza, alla luce del moderno concetto di sovranità, e
alla rappresentanza come unico modo del suo esercizio, e dall’altra
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68 Giuseppe Duso – La logica del potere

alla determinazione particolare che appunto la volontà generale di


tutto il popolo viene a prendere mediante la stessa rappresentanza:
assolutezza del potere dunque e particolarità della sua determina-
zione.
Certo non è risolvibile in questa linea tutto ciò che si è prodotto
nel sapere politico dell’epoca moderna, ed appare lavoro importante
quello di ripercorrere le diverse tradizioni di pensiero che sono di
altro segno e risultano irriducibili alla formalità del nesso Stato-
diritto, come pure le esperienze che in tanto possono essere consi-
derate nel loro significato «politico», in quanto la politica non è ri-
dotta all’ambito determinato dalla forma Stato e dal concetto di po-
tere come monopolio della forza legittima. La linea di pensiero a
cui mi riferisco parlando della moderna scienza politica, tenendo
presente la rottura epistemologica costituita dal giusnaturalismo (a
partire da Hobbes) e la sua pretesa di una costruzione scientifica
della politica, non pretende dunque di esprimere un modello che è
comprensivo ed esplicativo di un cosiddetto Moderno. Tuttavia tale
insieme concettuale sembra segnare in modo profondo la logica del-
la dottrina politica come dottrina dello Stato, anche nell’accezione
di Stato di diritto, che, più che una modalità particolare, appare co-
me uno sviluppo essenzialmente inscritto nella stessa determinazio-
ne dello Stato come forma e dunque nel tentativo di pensare il poli-
tico mediante la razionalità giuridica. Tale modo di pensare la poli-
tica sembra poi costituire la base legittimante di una serie di proces-
si storici, quali quello del monopolio della forza, della rappresen-
tanza politica, della moderna codificazione, del darsi delle costitu-
zioni, e appare dunque rilevante per ciò che è «politica» nell’epoca
moderna.
Se con queste categorie di forma, sovranità, rappresentanza, e in
definitiva potere politico, si va ad accostare la lezione dei Greci, si
rischia di perderla totalmente. Se ad esempio si dice che in Aristote-
le riscontriamo un insufficiente sforzo di «legittimazione del pote-
re»5, non ci si accorge che il nesso di legittimazione-potere – con il

5 Su tale tema e sulla differenza della politica classica da quella che nasce con la
scienza politica moderna, cfr. l’importante volume di M. Riedel, Metaphysik und
Metapolitik, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1975, p.102; trad. it. Di F. Longato, Il Mu-
lino, Bologna 1990.

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2. Politica e filosofia 69

significato che più o meno esplicitamente a questi termini è conferi-


to – non è pensabile in relazione alla politica antica, cioè in un as-
setto epistemico di riflessione sulla pratica e sulla sfera dell’agire in
cui l’agire politico è parte essenziale e culmine dell’agire
dell’uomo. Ugualmente non si può dire che il potere è artificiale per
i moderni mentre è naturale per i Greci: il potere, inteso come rap-
porto formale di comando-obbedienza, non può essere naturale, ma
può solo basarsi sulla volontà degli individui. Piuttosto è da ricono-
scere che il potere non è elemento che connoti la politica quale Pla-
tone e Aristotele la pensano. Se lo stretto legame di etica e politica
e la considerazione della polis come spazio in cui si realizza nella
sua pienezza l’agire virtuoso dell’uomo possono portare alla con-
vinzione che in Aristotele lo zoón politikón definisca piuttosto
l’uomo che la politica6, ciò non sembra poter avere il significato
che in tal modo non sia approssimato quell’oggetto specifico del
sapere che è la politica, quanto piuttosto che non si ha qui quella
specifica «politica» propria della scienza (o filosofia) moderna, ma
si ha piuttosto un’altra politica.
Nel momento in cui l’oggetto del sapere pratico è lo eu zen,
l’agire bene, e la polis è «secondo natura» – costituisce cioè la di-
mensione in cui l’uomo è quello che è ed estrinseca le sue virtù, in
particolare la virtù della giustizia –, è lo stesso senso di «politica»
ad essere diverso e a non lasciare il posto a quelle determinazioni
legate al concetto di potere, che si danno nella filosofia politica
moderna. In relazione a ciò si può avanzare l’ipotesi che la stessa
centralità nella Politica di Aristotele dei termini di archein e arche-
sthai, così come la loro «naturalità», non sia traducibile nel lin-
guaggio moderno del potere politico e del rapporto comando obbe-
dienza7, che deve appunto essere legittimato secondo una razionali-
tà formale, ma abbia piuttosto a che fare con un diverso concetto di
natura e di essere vivente, secondo cui ogni parte ha un diverso ruo-
lo, e secondo cui è bene per l’essere vivente, e dunque per tutte le
parti, che la parte superiore guidi quella inferiore.

6 Cfr. G. Sartori, Politica, in Elementi di teoria politica, Il Mulino, Bologna 1987,


p. 241.
7 In tale direzione sembra invece andare Carl Schmitt, Dottrina della costituzione
cit., p. 285.

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70 Giuseppe Duso – La logica del potere

Il rapporto posto da Leo Strauss tra filosofia politica e problema


del «buon governo», di cui lamenta l’obsolescenza nel moderno8,
viene a prendere un suo senso preciso se si intende come la scom-
parsa dal campo di attenzione del problema del buon governo non
sia casuale, ma risulti legata alla logica della nuova scienza che na-
sce con il giusnaturalismo, e alla razionalità formale che caratteriz-
za la «società» e il «potere politico», il quale, per sua essenza, non
può non essere il potere di tutto il corpo politico, e dunque il potere
di tutti. È la razionalità propria della società in senso moderno, e la
fondazione della legittimità su questa razionalità a rendere obsoleto
il problema del buon governo. Il «buon governo», come problema
dei Greci, non si risolve con la traduzione nella prassi di un modello
razionale o scientifico, ma dipende piuttosto dalla virtù dell’uomo
politico. L’impossibilità di pensare alla realtà pratica a partire da un
modello teorico può essere ravvisata anche in Platone, se si intende
la sua Politeia, non tanto come la descrizione dell’«ottimo Stato»,
quanto come un tentativo di porre in modo rigoroso il problema del
bene per l’agire politico, e nello stesso tempo di arrischiare una pro-
posta di organizzazione della polis, in cui tale problema non sia e-
sorcizzato, ma si ponga con tutta la sua necessità. Su ciò si dovrà
per altro ritornare più avanti, in quanto una «lettura» di Platone si
può rivelare emblematica per il modo di intendere l’atto filosofico e
il suo rapporto con lo spazio dell’agire.
Tali aspetti della politica antica dovevano qui essere almeno ac-
cennati9, per mostrare come si presentino grosse difficoltà ad un
punto di vista che omologhi all’interno di una cornice omogenea la
concezione politica dei Greci e quella moderna dello Stato. Tale
consapevolezza storico-concettuale non vuole essere una ennesima
proposta della differenza tra il modello antico e quello moderno (e
non solo per la incapacità del modello di rendere conto di ciò che
nell’antico e nel moderno si manifesta), né intende portare ad un
esito storicistico, secondo il quale ogni teoria è legata alla sua epoca

8 Cfr. L. Strauss, Che cos'è la filosofia politica, trad. it., Argalia, Urbino 1977,
spec. pp. 33 e sgg. e 299 e sgg.
9 Si veda in particolare su Aristotele il primo paragrafo del III capitolo; cfr. anche
A. Cavarero, Il bene nella filosofia politica di Platone e Aristotele, in «Filosofia
politica», 1989, n. 2, pp. 289-321.

Giuseppe Duso – La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica
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2. Politica e filosofia 71

e per questa avrebbe valore. Piuttosto essa comporta un atteggia-


mento critico nei confronti della pretesa della scienza moderna di
avere attinto una dimensione logica universale e a-temporale, dalla
quale analizzare e verificare le posizioni passate. Non solo, ma que-
sta consapevolezza mette anche in luce l’effetto di riduttività pro-
prio della razionalità formale, che consente una rigorosità di tipo
geometrico-matematico solo attraverso una forte riduzione e astra-
zione in rapporto alla sfera dell’agire.
E’ nella chiave di questa riduttività che il politico si identifica
con la forma giuridica dello Stato e che si perde la possibilità di in-
tendere la politicità di altre dimensioni dell’agire. Con la nascita
della «persona civile» infatti l’agire dei singoli diviene un agire pri-
vato, con il senso negativo e privativo che caratterizza il termine.
Tale scissione, nonostante i grandi mutamenti che si hanno dal Sei-
cento ad oggi, appare ancora interna alla logica della rappresentan-
za politica, che si manifesta nelle moderne democrazie di massa.

2.3 Problematizzare la politica moderna?

Il fatto che l’apparato concettuale della politica moderna sia ridutti-


vo in relazione alla realtà concreta non significa che esso sia una
semplice astrazione dell’intelletto di fronte a una realtà fattuale, che
permarrebbe immutabile nella sua struttura. Questa è l’indicazione
che viene da alcune tesi continuistiche, che tendono a considerare i
concetti moderni segnati dall’unità politica (sovranità, rappresen-
tanza, popolo) come mera finzione, sotto a cui scorre la realtà com-
plessa e plurale che era propria di una situazione cetuale. Si avrebbe
dunque un procrastinato ancien régime, con la sua più complessa
distinzione di ordini e ceti, di interessi particolari, di aggregazioni
di gruppo: tutto ciò innerverebbe fantasmi astratti quali popolo, so-
vranità, rappresentanza della nazione, volontà generale. Tali propo-
ste non sono prive di interesse in quanto mettono in questione il ca-
rattere fondante e la proiezione oggettivante dei concetti moderni.
Tuttavia esse non tengono adeguatamente conto del legame che tale
concettualità ha con i processi costituzionali che si hanno nei secoli
della cosiddetta epoca dello Ius publicum europaeum. La dimensio-
ne artificiale del corpo politico non comporta la sua non realtà: non
Giuseppe Duso. La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica
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72 Giuseppe Duso – La logica del potere

si può pensare che la costellazione di concetti che determinano la


forma politica moderna (sovranità, monopolio della forza legittima,
rappresentanza dell’unità politica) non sia intrecciata a processi rea-
li, e non sia stata anche forza di modificazione di un assetto politi-
co, come si può vedere nella stagione della rivoluzione francese,
che apre la nostra epoca di costituzioni.
Può succedere che restino prigionieri di questi concetti anche
modi di pensiero più avvertiti e smaliziati, rintracciabili sia nel
campo scientifico che in quello pubblicistico e politico che si riferi-
scono ad un senso più complessivo di «costituzione» o Verfassung,
secondo il suo significato etimologico, o ad una cosiddetta «costitu-
zione materiale»10. Infatti, qualora vadano nella direzione di una
più complessiva comprensione storica dello Stato e della società
moderni, e non comportino invece una problematizzazione di quello
spazio concettuale in cui società e Stato si presentano come realtà
che divengono oggetto della scienza politica e della storia, secondo
la proiezione tipica della scienza moderna, essi rischiano di non fare
totalmente i conti con quelle categorie «riduttive» e di procrastinare
un atteggiamento di oggettivazione della totalità che è proprio della
moderna forma politica: rischiano dunque, in ultima analisi, di non
uscire dai presupposti della moderna politica. Diverso e più felice è
il caso in cui ci si viene a trovare quando tale concetto di costitu-
zione e l’analisi delle forme associative tendono a rompere la gab-
bia costituita dalla forma politica e perciò, con maggiore o minore
lucidità, ricercano, come fondamento della ricerca, un diverso e più
comprensivo significato di politica11.

10 Punti di riferimento per una più concreta comprensione della Verfassung sono
la tedesca Verfassungsgeschichte (cfr. cap. I), come la concezione schmittiana,
quale appare in Verfassungslehre cit. Per il concetto di «costituzione materiale» è
fondamentale in Italia il pensiero di Costantino Mortati: cfr. su ciò e anche sul rap-
porto di Mortati con Schmitt, il denso saggio di M. Fioravanti, Dottrina dello Sta-
to-persona e dottrina della costituzione. Costantino Mortati e la tradizione giu-
spubblicistica italiana, in Il pensiero politico di Costantino Mortati, a cura di M
Galizia e P. Grossi, Giuffrè, Milano 1990, pp. 45-185, spec. pp. 142 sgg. Questi
materiali di una storia costituzionale complessiva possono tuttavia essere intesi
nella direzione di una più ampia e pacificata comprensione della realtà politico-
sociale, oppure di una radicalizzazione filosofica della concettualità moderna.
11 In questa direzione sono stati qui letti alcuni spunti offerti dalla riflessione di
Brunner (cfr. cap. precedente).

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2. Politica e filosofia 73

Non si tratta allora soltanto di evidenziare la particolarità della


forma politica moderna e della scienza che la pensa, ma anche di
intenderne le interne aporie, la crisi non solo epocale, ma costituti-
va, propria cioè della sua stessa logica. In questa ottica si possono
schematicamente ricordare alcuni aspetti che appaiono paradossali,
anche se, all’interno di questa scienza, si pongono come coerenti e
si implicano vicendevolmente in modo necessitante12. Il primo ri-
guarda la scissione costitutiva in cui si viene a trovare la soggettivi-
tà – è da ricordare che il principio di soggettività costituisce la con-
quista dell’epoca moderna secondo Hegel – dal punto di vista
dell’agire politico. Se ci si chiede infatti chi siano i soggetti della
politica, ci si trova in una strana situazione. A causa della assolutiz-
zazione della volontà che, nella nuova scienza politica, accompagna
la negazione di un kosmos oggettivo a cui si riferiva la filosofia pra-
tica precedente, tutti gli individui diventano soggetti nel momento
che esprimono una loro volontà efficace e produttiva in relazione
alla nascita del corpo politico. Tuttavia tale processo, che si eviden-
zia nello scenario contrattualistico, consiste nella diretta (in Hob-
bes) o indiretta (in coloro che pensano a diversi momenti nel com-
pimento del contratto sociale) formazione del potere politico: dun-
que nella costituzione dell’autorità, o nel processo di autorizzazio-
ne, magistralmente descritto da Hobbes. In base a questo tutti si di-
chiarano autori di azioni che non compiranno mai, e altri, coloro
che sono scelti per esercitare il potere, i rappresentanti cioè, com-
piono azioni la cui responsabilità ricade su coloro che li hanno auto-
rizzati, cioè sugli autori. Scissione radicale dell’azione, questa, che
è propria del moderno concetto di rappresentanza13.
Dal momento che tale dialettica dell’agire ha a suo fondamento
la genesi del potere nei diritti degli individui, troviamo strettamente
congiunte – in un modo che presenta un altro paradosso –
l’affermazione dei diritti dei singoli e la posizione di un potere as-
soluto come unica possibilità della loro attuazione. Questo, in quan-
to superiore ai singoli tutti, lascia loro lo spazio per la ricerca priva-

12 Per intendere tali paradossi è da tenere presente il risultato del lavoro Il contrat-
to sociale nella filosofia politica moderna cit., spec. L’Introduzione: Patto sociale
e forma politica.
13 Sulla rappresentanza cfr. il cap. V.

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74 Giuseppe Duso – La logica del potere

ta del loro bene, evitando il reciproco incrocio e disturbo e cioè cre-


ando le condizioni per il loro isolamento. Ciò indica un terzo para-
dosso: il termine «società», che durante una millenaria tradizione di
pensiero era usato ad indicare la dimensione propria della natura
dell’uomo e la naturale comunanza degli uomini in rapporto
all’agire e al problema del bene, a partire dalla costruzione giusna-
turalistica viene ad indicare una situazione in cui si realizza la liber-
tà come indipendenza dei singoli e dunque la possibilità del loro i-
solamento.

2.4 Il riemergere di una struttura originaria

Se tali paradossi scuotono la coerenza e l’incontraddittorietà con cui


si vuole caratterizzare la scienza e la forma politica, tuttavia al cuo-
re di quest’ultima, e cioè proprio nella struttura dell’agire rappre-
sentativo, si può vedere affiorare una più fondamentale e problema-
tica dimensione, di cui quella scienza non sembra rendere ragione.
Essa è ancora legata alla struttura della rappresentanza, che appare
fondamentale per il porsi della sovranità moderna14. Dal momento
in cui non sono i singoli ad essere rappresentati, ma tutto il corpo
politico, e cioè qualcosa che non ha una dimensione empirica e non
si presenta con una volontà determinata che debba essere rispec-
chiata, allora l’agire rappresentativo stesso appare possibile in
quanto correlato ad una dimensione ideale: in riferimento dunque
ad un’idea. Anche se l’unità politica, nel processo di immanentiz-
zazione tipico della scienza politica moderna, viene identificata con
la totalità del corpo politico (popolo, nazione), nel tentativo di de-
terminazione di un soggetto perfetto della politica, tuttavia essa non
è mai riconducibile ad una realtà empirica, pena la perdita della
possibilità e contemporaneamente della necessità della stessa rap-
presentazione. In tal modo emerge all’interno della forma politica
una domanda su questo riferirsi dell’agire a qualcosa che è oltre la
sua attualità e anche oltre la dimensione delle cose empiricamente

14 Rimando soprattutto al mio La rappresentazione e l'arcano dell'idea. Introdu-


zione a un problema di filosofia politica, in La rappresentanza: un problema di
filosofia politica cit., pp. 13 sgg.

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2. Politica e filosofia 75

presenti. Tale domanda appare inevitabile e nello stesso tempo non


formulabile con l’armamentario concettuale con cui quella scienza
politica viene a costituirsi.
In questa domanda, che problematizza la forma politica e che è
tuttavia da quest’ultima richiesta per la comprensione della sua stes-
sa possibilità, si può ravvisare un nucleo filosofico: qui però il ter-
mine filosofia, in quanto ritrovamento, in una situazione determina-
ta (quella della forma politica) del problema dell’origine o
dell’idea, viene a prendere un senso diverso da quello che in quel
processo teorico che si è rintracciato nella moderna filosofia politi-
ca, la quale, come si è detto, è tesa alla costruzione di un modello
formale, che cerca, in quanto tale, di esorcizzare quella domanda
radicale. Pensare la politica alla luce di tale domanda che riguarda
l’idea della giustizia e l’idea del Bene, entro e al di là della soluzio-
ne fornita dal modello della politica moderna, comporta da una par-
te la consapevolezza del fallimento della pretesa autosufficienza
della razionalità fondativa dell’ordine propria della politica moder-
na, e dall’altra, mediante la riapertura della pretesa razionalità della
politica a ciò che è ad essa irriducibile, una nuova dimensione di ciò
che può essere inteso come politico e un diverso rapporto tra pen-
siero e prassi, o, per meglio dire, un diverso modo di pensare la pra-
tica e di pensare nella pratica.
Per un tale esito filosofico dell’attraversamento dei concetti della
scienza politica moderna è particolarmente fecondo un itinerario
attraverso quel momento di radicalizzazione e di comprensione del-
le categorie politiche moderne quale si è avuto in Germania negli
anni Venti e Trenta, e quale è rappresentato in modo emblematico
dalla riflessione di Carl Schmitt. Egli infatti focalizza il grande edi-
ficio del diritto moderno in cui si produce la forma politica, ma in-
terroga nello stesso tempo i presupposti di tale produzione. Da una
parte allora emerge il concreto della decisione, come elemento non
formale che rende possibile la forma stessa, dall’altra il rapporto
amico-nemico come connotante un politico che non si identifica
con la forma-Stato, ma la rende possibile; infine la rappresentanza
appare in tutta la sua necessità nella costellazione dei concetti poli-
tici moderni, e nello stesso tempo si rivela come struttura non auto-
sufficiente, in quanto appare possibile proprio in quanto si riferisce

Giuseppe Duso. La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica
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76 Giuseppe Duso – La logica del potere

ad una idea che è per sua natura eccedente il piano empirico in cui
la rappresentanza si dà15.
Se la via schmittiana può essere percorsa per un primo momento
di problematizzazione della teoria moderna, in quanto lo svelamen-
to della logica dei concetti moderni mette in crisi la loro oggettività
e la loro funzione legittimante, tuttavia, come Voegelin rileva16, in
Schmitt l’affondo non è ancora radicale, la problematizzazione è
ancora parziale e il politico come conflitto che si è qui raggiunto,
lungi dall’essere l’attingimento di una dimensione originaria, ri-
schia di essere ancora solo il presupposto che la moderna forma po-
litica richiede per il suo porsi. Infatti lo stesso Schmitt ricorda come
il conflitto non sia il risultato di una concezione pessimistica della
natura dell’uomo, ma ciò che un pensiero giuridico deve necessa-
riamente presupporre per dedurre la necessità della costruzione
dell’ordine e perciò della forma Stato. Ma nella stessa riflessione
schmittiana, sia a proposito della struttura della decisione, che del
movimento di trascendenza che emerge aporeticamente nella stessa
rappresentazione (o rappresentanza politica) moderna si possono
trovare gli elementi per una più radicale domanda sul politico,
sull’ordine e sull’agire dell’uomo.
Tale domanda mostra la sua legittimità e innegabilità
nell’impossibilità di riduzione della politica, «laicamente», al lin-
guaggio delle cose e al loro autogoverno, e dunque nella non tenuta
del processo moderno di immanentizzazione, che tende a trasforma-
re l’idea in un soggetto reale, (il popolo, la nazione) senza peraltro
riuscire a mostrare i modi immediati del suo esprimersi. Non riesce
ad evitare tale domanda nemmeno il tentativo di sostituire al vuoto
di quella finzione di unità la presunta realtà concreta dei singoli che

15 Cfr. cap. VI.


16 Cfr. in modo particolare la recensione voegeliniana del 1931 alla Verfassun-
gslehre di Schmitt, ora in trad. it. di G. Zanetti, in G. Duso (a cura), Filosofia poli-
tica e pratica del pensiero. Eric Voegelin, Leo Strauss, Hannah Arendt, Franco
Angeli, Milano 1988, pp. 291-314; nello stesso volume si vedano anche i saggi su
Voegelin; per il rapporto del primo Voegelin con Schmitt cfr. il mio Die Krise des
Staates als Rechtsform und die politische Philosophie: Eric Voegelin und Carl
Schmitt, relazione al convegno organizzato dal Voegelin-Archiv a Monaco nel
1993 (di prossima pubblicazione). Si veda ora anche S. Chignola, Pratica del limi-
te. Saggio sulla filosofia politica di Eric Voegelin, UNIPRESS, Padova 1998.

Giuseppe Duso – La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica
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2. Politica e filosofia 77

occupano lo spazio politico, poiché la garanzia dell’esprimersi di


tali soggetti individuali, in maniera tale da non generare un conflitto
distruttivo, appare pur sempre costituita da quello spazio dell’unità
politica a cui il concetto di individuo è legato fin dalla nascita del
modo moderno di concepire la politica.
In tale direzione sembra emblematico il gesto di pensiero che, in
forma diversa, ha caratterizzato personaggi quali Voegelin, Strauss
e Arendt, al di là dello stesso rigore e dell’assetto complessivo del
loro sforzo logico. La loro critica alla politica moderna si accompa-
gna ad un tentativo di ripensare i Greci, in una direzione che è pro-
duttivo leggere non tanto come ritorno all’antico, o proposta di un
modello diverso e antitetico a quello moderno, ma piuttosto un ten-
tativo di recuperare, come strutturale per l’oggi e per la stessa for-
ma politica moderna, quella domanda sull’origine che appare indi-
cibile se si rimane all’interno dei presupposti della moderna scien-
za.
Se la filosofia coincide con il movimento di pensiero che mostra
l’impossibilità di evitare questo problema, ben si intende che non si
ha più qui «filosofia politica» nel senso di produzione di dottrine o
di modelli da applicare nella pratica, né la fondazione di un ordine
«finalmente giusto», ma piuttosto una riflessione in cui il rigore
dell’imporsi del problema coincide con l’impossibilità di una fon-
dazione dell’ordine mediante una ragione autosufficiente. Ciò non
equivale ad una affermazione di dis-ordine, in quanto il rapporto
con l’idea e il superamento del preteso sapere riguardante cosa è
giusto, apre proprio – come mostra il Platone a cui si riferisce Voe-
gelin – al problema dell’ordine della polis, che a sua volta richiede
il porsi della domanda sull’ordine dell’anima. Non si tratta tuttavia
di un ordine garantito da una struttura formale, dall’applicazione di
un modello, ma piuttosto di un ordine che deve essere sempre cer-
cato nel concreto dell’azione. E’ piuttosto l’ordine formale, che si
basa sull’annullamento di un ordine delle cose, a pagare il prezzo
della perdita della domanda sull’idea di giustizia, perdita che appare

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78 Giuseppe Duso – La logica del potere

contraddittoria con la stessa struttura dell’agire politico necessario


ad instaurare quell’ordine artificiale17.
Per intendere in forma gestalticamente più evidente la struttura
di un pensiero che pone la domanda radicale sul bene come ecce-
dente ogni nostra possibile risposta e lascia con ciò libero lo spazio
dell’agire da ogni pretesa deduzione dalla teoria, può essere utile
rivolgersi alla lezione platonica, qualora essa non sia letta, con gli
occhiali moderni, come il tentativo di delineare una forma politica
perfetta, ma piuttosto con l’attenzione rivolta alla critica delle pre-
tese sofistiche di conoscere cosa sia la giustizia e contemporanea-
mente alla aporetica consapevolezza che non si può pensare al bene
della polis e dell’uomo se non guardando all’idea del bene, e con-
temporaneamente che tale idea eccede ogni visibilità umana, e dun-
que non è mai archetipo visibile e rispecchiabile. Ciò non significa
che venga posto qualcosa in un al di là, né tanto meno che il bene
sia raggiungibile in un’estasi mistica: l’unico piano in cui è possibi-
le porre (e cioè «pensare», «dire») il bene è quello del logos, perché
anche affermare la sua indicibilità è appunto un «dire»: di tale apo-
ria il logos deve necessariamente farsi carico. Se il bene non è og-
gettivabile dal pensiero, è sul piano del pensiero che si dà tale sua
impossibile riduzione ad oggetto pensabile. È infatti nella rigorosa
struttura dell’implicazione dell’idea e della contraddittorietà della
sua oggettivazione e visibilità (pena il trasformarsi in una delle «co-
se» che richiedono appunto la spiegazione che non racchiudono in
sé) che di volta in volta viene riconquistata la sua radicale ecceden-
za.
Tutto ciò mi sembra consono al modo in cui Platone si riferisce
all’idea, che appare necessaria all’esperienza, ma nello stesso tem-
po non è mai possesso di una nostra esperienza. Dicendo ciò però
non si dà ancora ragione, all’interno del discorso della Repubblica,
del piano dell’agire politico dell’uomo, ma solo dell’atto noetico,
che necessariamente il pensiero della pratica, come pensiero della
struttura dell’agire, sembra comportare. Per intendere il piano della
politica bisogna forse innanzitutto comprendere che, coerentemente

17 Intendo riferirmi alla sopra ricordata struttura della rappresentazione come im-
plicazione dell’idea, come pure alle contraddizioni che appaiono insite nei concetti
che nascono con il giusnaturalismo.

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2. Politica e filosofia 79

con l’impossibilità che il bene sia contenuto del nostro dire od og-
getto del nostro vedere, il piano dell’agire comporta necessariamen-
te il taglio della scelta, la quale non può essere razionalmente fon-
data in modo incontrovertibile, ma è esposta al rischio. Se la scelta
è imprescindibile per agire, e per condurre la vita della comunità,
ciò significa che non si può non riferirsi all’idea – e l’idea, per
quanto riguarda lo spazio della politica, emerge nella forma della
giustizia –, ma che l’immagine che se ne dà è sempre arrischiata,
non è «scientificamente» fondata, e non ci mette al sicuro una volte
per tutte.
In questa direzione, come ho tentato di proporre in altra sede18,
si può forse intendere il lavorio del filosofo platonico, il quale,
guardando al bene, che eccede ogni visione, cerca di dipingere,
cancellare, ridipingere in innumerevoli tentativi la polis, e si può
ancora intendere la ragione della trasformazione anche formale che
si ha nella parte centrale del la rappresentazione platonica, che di-
venta a lungo monologo, proprio per opera di quel Socrate che
normalmente interviene per spezzare il monologo altrui, mostrando
l’imporsi della struttura del dialogo. Mediante il discorso di propo-
sta di una organizzazione della polis, che si ha al centro della Re-
pubblica, il Socrate di Platone prende in proprio la responsabilità e
il rischio della proposta; non con la pretesa di aver finalmente pos-
sesso del bene mediante il sapere, ma con la consapevolezza della
sua eccedenza e della sua intraducibilità in oggetto della dottrina.
La polis si configura guardando da una parte all’ordine dell’anima e
dall’altra ai materiali offerti dalla cultura del tempo. Ambedue gli
aspetti sono rilevanti, sia la problematizzazione filosofica che guar-
da all’idea, sia la necessità, nel rischio della proposta, di muoversi
all’interno dell’eticità propria del proprio tempo. La proposta sulla
organizzazione della polis non ha allora lo stesso rigore che caratte-
rizza la confutazione della pretesa scienza relativa alla giustizia che
avanzano i Sofisti; ma tale situazione è quella propria della prassi
dell’uomo. La stessa indicazione di intendere la giustizia nel signi-
ficato del ta eautou prattein non costituisce l’esposizione di un sa-

18 Cfr. il cit. capitolo introduttivo a La rappresentanza: un problema di filosofia


politica, spec. p. 48.

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pere normativo, perché è nel concreto dell’azione che ognuno deve


arrischiare cos è il suo proprio e cosa gli spetta di fare. In ogni caso
in questa lettura dei Dialoghi emerge la consapevolezza del rischio
dell’agire, non deducibile dalla dottrina. Il pensiero platonico è allo-
ra ben altro da quello che appare nelle interpretazioni che ravvisano
nel filosofo colui che deve esercitare il potere in quanto possiede la
scienza del bene, inaugurando così una concezione politica di tipo
totalitario. Risultano allora non appropriate quelle interpretazioni
che, travisando il significato che ha il sapere filosofico e quello che
ha il governo della città (travisamento che dipende in tutti e due i
casi dall’adottare concetti moderni di scienza e potere per intendere
il testo platonico) intendono Platone come un precursore della
scienza politica moderna alla maniera di Hobbes19.
La costruzione della politica moderna, invece, mediante la ridu-
zione della giustizia ad un ordine formale, la dimensione imperso-
nale del potere, il concetto di rappresentanza e l’armamentario del
diritto formale, pretende la costituzione di uno spazio di normalità e
di sicurezza, perdendo contemporaneamente la consapevolezza del-
la stessa decisione che ha prodotto quella forma, ed esorcizzando il
rischio del rapporto con l’idea di giustizia, che risulta determinata
mediante una ragione appunto formale. Tale pretesa verità della
forma politica appare propria anche delle versioni che sembrano
implicare una ragione debole, accontentandosi di regole, di proce-
dure, in cui è «democraticamente» possibile il gioco tra gli uomini.
Anche qui, in favore di un determinato assetto, viene negato, me-
diante un lavorio di non neutrale neutralizzazione, il rapporto arri-
schiato con l’idea di giustizia.

19 Una lettura di Platone nel senso della subordinazione della pratica e della politi-
ca alla filosofia, intesa come esposizione della verità è quella che propone Hannah
Arendt (The Human Condicion, The University of Chicago, 1958, trad. it. Vita ac-
tiva, Bompiani, Milano 1964, sp. p. 123); cfr. su ciò S. Forti. Vita della mente e
tempo della polis, Hannah Arendt tra filosofia e politica, FrancoAngeli, Milano
1994, p. 130 sgg. Su questa base il concetto di governo viene interpretato come
dominio determinato dal rapporto comando-obbedienza.

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2. Politica e filosofia 81

2.5 Filosofia politica e rischio della prassi

Il riemergere di una riflessione filosofica all’interno della politi-


ca moderna non viene ad avere il significato della proposta di altri
modelli vecchi o nuovi, antichi o «post-moderni», né quello della
proposta di una «crisi» della ragione o di una ragione debole o
frammentata, ma piuttosto comporta un’analisi della scienza e della
realtà tesa a comprendere il concreto movimento che nel sapere e
nella realtà si danno al di là dell’astrazione formale. Da questo pun-
to di vista può emergere nella moderna politica ciò che non è dicibi-
le con le sue categorie scientifiche, mediante cioè la dimensione del
potere, della legittimazione, della forma. Può emergere ciò che non
rientra nella logica dell’unità politica che caratterizza tutti i concetti
politici moderni.
La comprensione della radicale differenza della politica antica e
quella moderna e dunque l’inapplicabilità della concettualità che è
propria del nostro linguaggio alla filosofia antica non comporta la
posizione di due epoche del pensiero incomunicanti tra loro, ma
piuttosto un movimento di pensiero circolare, che attinge un senso
più autentico del pensiero antico in quanto relativizza mediante un
approccio storico concettuale i concetti moderni, comprendendo la
loro inapplicabilità al contesto antico, e d’altra parte, proprio guar-
dando alla filosofia dei Greci, illumina la costruzione teorica mo-
derna, evidenziandone le contraddizioni.
In questo movimento di pensiero emerge una domanda origina-
ria che non coincide tanto con la dottrina dei Greci, né con la com-
plessiva riflessione sulla polis che essi fanno (che non può certo es-
sere riproposta come un modello) ma che si ritrova nella loro filoso-
fia pratica. L’elemento filosofico che emerge in tale lavoro non è
interpretabile e comprensibile mediante le categorie di «descrittivo»
e «prescrittivo», che nel dibattito odierno sembrano inevitabilmente
dover connotare ogni forma di pensiero che riguardi il mondo della
pratica, in modo tale che a una mera descrittività dello stato delle
cose si può sfuggire solo mediante una fondazione di valori che in-
dichino con sicurezza la via da percorrere e risolvano il problema
del «che fare?». La riflessione filosofica sulla pratica infatti non è
«prescrittiva», in quanto non può tradurre la necessità di riferirsi al

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82 Giuseppe Duso – La logica del potere

bene e alla giustizia in un sapere che possegga l’idea come suo og-
getto, in una dottrina dunque che formuli le norme che devono re-
golare il comportamento collettivo degli uomini. Ma tuttavia non
può essere considerata nemmeno semplicemente «descrittiva», poi-
ché la descrittività implica l’oggettività e autosufficienza di ciò che
è descritto, cioè una realtà altrettanto chiusa e autosufficiente di
quella conoscenza che alla realtà si rivolge. La domanda non lascia
l’agire o il mondo delle cose nello stato in cui appare quando essa
non è emersa, cioè nell’autosufficienza di ciò che si presenterebbe
come «realtà» in contrapposizione all’atto del pensiero. Se il pro-
blema della giustizia appare come necessariamente implicato dal-
l’agire degli uomini e dal darsi della collettività ciò è costitutivo
della realtà e non permette di ridurre il sapere alla mera descrizione
delle cose e dei comportamenti.
Il rigore del pensiero così inteso, nel momento in cui è rivolto al-
la politica, comporta l’impossibilità di dedurre l’azione da una teo-
ria o dottrina, e dunque il passaggio alla prassi giusta dalla teoria
giusta, e riporta perciò al rischio connaturato all’agire e
all’insopprimibile tentativo di dare forma alla giustizia (la critica
alla riduzione formalistica non è rifiuto del mondo delle forme). Ciò
non è irrazionalità o equivalenza delle decisioni, poiché in ogni
momento è implicato l’atto noetico, che mette alla prova le pretese
soluzioni del problema della giustizia e nello stesso tempo riattiva
la tensione verso l’idea. Non è dunque disorientamento, ma certo
mancanza di quella sicurezza che deriva dalla pretesa della riduzio-
ne della giustizia al contenuto della dottrina, sia quando questa si
presenta nella veste della «fondazione», sia quando assume i panni
apparentemente depotenziati e dimessi di una indicazione procedu-
rale e funzionale. Il pensiero si apre così in modo arrischiato ad una
prassi che non è deducibile da esso non per la sua debolezza, ma a
causa della sua forza e del suo rigore.

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83

3. Fine del governo e nascita del potere

Non solo nel dibattito politico attuale, ma anche nelle trattazioni


scientifiche e negli schemi di orientamento delle ricostruzioni stori-
che del pensiero politico, può spesso sembrare che il concetto di
governo sia coestensivo a quello di politica, in quanto indica
l’azione di direzione, di guida, di comando del corpo politico e i
problemi relativi alla fonte e alla legittimazione di questo comando.
Un esempio di ciò sta nell’uso della locuzione «forme di governo»,
e nel fatto che tale uso viene esteso alle diverse epoche storiche.
Così, nel momento in cui si intende riferirsi al modo in cui è dete-
nuto il potere di governo, nonché al numero dei detentori, si usano i
termini classici, già propri della politica aristotelica, di monarchia,
aristocrazia e democrazia, a seconda che uno, i pochi migliori, o
tutti (o la maggior parte... e qui già molti sono i problemi) detenga-
no l’imperium 1.
Può sembrare ad esempio che la democrazia, come governo di
tutti, sia concetto che noi troviamo appaesato sia nella polis greca,
sia nell’epoca moderna; e tale univocità concettuale non è posta in
crisi dalla considerazione che la democrazia degli antichi era una
democrazia diretta, mentre quella moderna, nei grandi stati, non
può essere che democrazia rappresentativa. Ma ci si può chiedere se
l’affermazione secondo cui il governo è nelle mani del popolo abbia
nei due contesti lo stesso senso, oppure abbia significati così diversi

1 Il termine imperium è usato sia nella tradizione del pensiero politico, a cui si ri-
chiama Althusius, sia in autori che si inseriscono nel cammino della moderna filo-
sofia politica come Kant. Tuttavia, il significato da esso espresso appare mutare, in
relazione al diverso contesto teorico in cui è inserito.

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84 Giuseppe Duso – La logica del potere

da richiedere modi di ragionamento e costellazioni concettuali in-


compatibili tra loro. Si tratta cioè di comprendere se nell’ambito
della concettualità moderna sia popolo che governo non vengano a
prendere un significato, solo in quanto si pretende destituito di ogni
validità e rigore il significato che gli stessi termini avevano nella
tradizione di pensiero precedente.
Per determinare e giustificare la distinzione sopra indicata tra il
principio antico del governo e il concetto moderno del potere – nato
nella scienza politica moderna – , che conferisce un significato nuo-
vo alla politica ed è incompatibile con l’orizzonte di pensiero pre-
cedente, risulta utile saggiare alcuni nodi rilevanti e particolarmente
espressivi nella storia del pensiero politico. Si potrà notare come lo
stesso termine di governo, che continuerà ad essere usato, venga a
prendere un significato non rapportabile a quello che aveva in pre-
cedenza. Se è nella filosofia pratica antica che nasce la tematica del-
le forme di governo, il persistere del riferimento ad essa nel conte-
sto moderno, senza la consapevolezza della radicale differenza che
la separa dal significato antico, risulta improprio e fonte di equivo-
ci.

3.1. L’arché e le parti della polis

Quando nell’epoca moderna ci si riferisce alla tradizionale distin-


zione tra le forme di governo, che trova la sua radice in Aristotele, e
si intende con ciò descrivere forme diverse in cui si configura la co-
stituzione politica, in realtà si rischia di equivocare sui termini. In-
fatti, parlare di governo e delle diverse forme in cui esso si dà, è
possibile solo all’interno di un contesto concettuale quale quello
che possiamo trovare nella Politica di Aristotele, e in un lungo e se-
colare cammino che da questa è condizionato. A proposito di tale
contesto non è forse sufficiente riconoscere che non c’è distinzione
tra potere e governo, o tra governo e comando2, ma si può arrischia-
re una proposta di chiarimento, che consiste nell’intendere il termi-

2 Cfr. ad esempio Ch. Meier, Die Entstehung des Politischen bei den Griechen,
Suhrkamp, Frankfurt am Main 1980, trad. it. di C. De Pascale, La nascita della
categoria del politico in Grecia, Il Mulino, Bologna 1988, p.307.

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3. Fine del governo e nascita del potere 85

ne archein non come comando, o come potere, ma decisamente


come governo, in un senso che non è consonante con il concetto di
potere, bensì al contrario con esso assolutamente incompatibile.
Alcuni elementi appaiono fondamentali per comprendere il si-
gnificato di questo termine, e come vedremo sono elementi che gio-
cano contrastivamente con quel comune modo di pensare la politica
che è condizionato dalla concettualità moderna. Innanzitutto è da
ricordare che la comunità politica, la polis, è per natura, ed è natura
dell’uomo, il quale è animale politico (zóon politikón)3. Ciò signifi-
ca che non si può intendere e definire l'uomo prima e al di fuori del-
la comunità politica, che è un dato originario, nello stesso senso in
cui la totalità è anteriore alle singole parti, o in cui non si può con-
siderare una parte se non nel tutto in cui è inserita4. Si può allora
comprendere come non vi sia una determinazione della politica co-
me realtà specifica, con un suo ambito nettamente distinto, così che,
con ottica moderna, ci si può meravigliare del fatto che nella politi-
ca di Aristotele è dell’uomo che si parla, piuttosto che del problema
politico, quando con esso si intenda – così come siamo abituati a
fare in epoca moderna – tutto ciò che ha a che fare con il tema del
potere5.
Ciò che caratterizza la comunità politica, che ha appunto nella
polis la sua dimensione propria, è il fatto di essere non unità in sen-
so stretto ma unificazione di parti differenti: «la polis è per sua na-
tura una pluralità»6. Questa dimensione plurale della polis è spesso
ribadita da Aristotele, ed è il perno della sua critica alla concezione
platonica. La pluralità che qui interessa mettere in rilievo non è tan-

3 Cfr. Aristotele, Politica, I, 2, 1253 a 3 e III, 6. 1278 b 19.


4 Ivi, a 18-20 e 25-26.
5 Cfr. Cap. II, n. 6. Una distinzione tra etica e politica in Aristotele è tentata da G.
Bien, Die Grundlegung der politischen Philosophie bei Aristoteles, Verlag Karl
Alber, Freiburg-München 1973, trad. it. La filosofia politica di Aristotele, Il Muli-
no, Bologna 1985, pp. 189-217, che indica in ogni caso come tale distinzione abbia
un significato assai diverso della separazione e relativa autonomia di morale e poli-
tica che si è affermata all’interno delle categorie moderne. Per l’unità di politica ed
etica cfr. J. Ritter, Politik und Etik in der praktischen Philosophie des Aristoteles,
in Metaphysik und Politik. Studien zu Aristoteles und Hegel, Suhrkamp, Frankfurt
a.M. 1969, pp. 106-132, trad. it. a cura di G. Cunico, Marietti, Casale Monferrato
1983, pp. 94-118.
6 Aristotele, Politica, II, 2, 1261 a 18.

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86 Giuseppe Duso – La logica del potere

to quella da Aristotele contrapposta alla maggior unità della polis


platonica7, quell’unità che tende a ridurre la polis alla struttura della
famiglia, «che è più una della polis»8. La dimensione plurale è più
originaria, e sta alla base della polis in Platone così come in Aristo-
tele; infatti, come si vedrà subito, anche la famiglia comporta quella
differenza e molteplicità di parti che rende necessario e possibile
parlare di governo. In effetti, si può ricordare come anche la poli-
teia di Platone sia costituita da parti, in similitudine con quanto av-
viene per l’anima, ed è proprio la differenza tra le varie parti che
rende proponibili la guida ed il governo dei filosofi – che non sono
gli scienziati o i tecnici della politica, ma coloro che si aprono al
problema del bene e del giusto – , così come, nel singolo uomo, del-
la parte razionale dell’anima.
La molteplicità e pluralità delle parti introduce il tema della dif-
ferenza. Non è concepibile comunità politica senza differenza: se
alla comunità è necessaria la dimensione plurale degli uomini biso-
gna dire che tali uomini sono «specificamente differenti, perché non
si costituisce una polis di elementi uguali»9. Tale diversità esiste tra
i singoli uomini, e tra le diverse parti della polis, ed ha un carattere
qualitativo. I termini di paragone che Aristotele usa nell’affermare
che la «polis risulta di elementi differenti» sono quelli del vivente,
composto di anima e di corpo, dell'anima, composta di ragione e di
appetito, della famiglia, composta di uomo e di donna, e della pro-
prietà, composta di padrone e di schiavo10. È proprio tale differenza
qualitativa che permette di pensare all’agire tipico di ogni comunità
che consiste nell’archein e nell’archesthai; infatti, in tutti questi
composti di parti si ha una buona vita dell’insieme se, a seconda
dell’ordine naturale, le parti svolgono il loro ruolo e dunque il cor-
po non prende il sopravvento sull’anima, ma viceversa è l’anima a
guidare il corpo, così come è la ragione a guidare l’appetito, l’uomo
la donna, il padrone lo schiavo. Ciò è naturale e giovevole

7 Si veda nel secondo libro della Politica la polemica contro l’eccessiva unità im-
plicata nella Repubblica di Platone.
8 Aristotele, Politica, II, 2, 1261 a 20.
9 Ivi, b 22-24.
10 Ivi, III, 4, 1277 a 5 sg.

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3. Fine del governo e nascita del potere 87

all’insieme e a tutte le parti, mentre una condizione di parità o di


inversione della guida è nociva e comporta disgregazione11.
L’arché è dunque necessariamente da pensare – per natura –
come un insieme composto di parti, le quali sono diverse tra loro e
svolgono ruoli diversi: «governare ed essere governati non solo so-
no tra le cose necessarie, ma anzi tra le giovevoli»; e ancora: «in
realtà in tutte le cose che risultano di una pluralità di parti e forma-
no un’unica entità comune [...] si vede governare ed essere governa-
ti»12. Dunque così come la comunità politica è per natura, è altret-
tanto naturale che ci sia nella comunità, anzi, in ogni gruppo e in-
sieme di uomini, chi esercita una funzione di guida e direzione, e
chi è diretto e guidato. Ciò non ha bisogno di legittimazione, perché
è costitutivo dello stesso modo razionale di intendere un insieme,
una comunità, ed essendo l’uomo animale politico, anche di inten-
dere l’uomo. A questa logica corrisponde la constatazione che «o-
gni comunità politica risulta da chi governa e da chi è governato»13.
All’interno di questo schema generale Aristotele determina lo spe-
cifico del governo politico (politiké arché), che è distinto da quello
padronale e dunque dal tipo di dominio che si ha sugli schiavi per i
lavori necessari nell’ambito dell’oikos14. La differenza del governo
nei due casi è legata alla differenza di natura che c’è tra uomini li-
beri e schiavi15. È dunque la natura dell’uomo libero che richiede
un diverso tipo di governo, di diversa qualità, quella politica appun-
to.
Tuttavia il fatto che la politiké arché si eserciti su uomini della
stessa stirpe, liberi e uguali, non comporta che ci sia uguaglianza tra
tutti i liberi. I liberi sono infatti tutti ugualmente liberi, ma non tutti
assolutamente uguali, secondo l’idea che sta invece alla base della
democrazia16. In più luoghi della Politica viene infatti ribadita la
necessità della differenza perché ci sia governo (arché). Altrimenti
esso sarebbe logicamente impensabile, perché non ci può essere di-

11 Ivi, I, 5, 1254 b 4-9.


12 Ivi, I, 5, 1254 a 21-31.
13 Ivi, VII, 14, 1332 b 12-13.
14 Ivi, III, 4, 1277 a 33 -b 9.
15 Ivi, VII, 3, 1315 a 27-30; cfr. I, 7, 1255 b 16-22.
16 Ivi, V, 1, 1301 a 28-30.

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88 Giuseppe Duso – La logica del potere

rezione e guida tra chi è perfettamente uguale: «è fuori discussione


che chi governa ha da differire da chi è governato»17. Ciò è tanto
vero da riguardare anche quelle costituzioni in cui si pensa che i cit-
tadini siano uguali. Infatti, se da una parte è bene che, nel caso di
differenza tra i liberi, siano i migliori e i più virtuosi a governare, e
dunque sempre gli stessi, nel caso in cui i cittadini vogliano essere
tutti uguali per natura e non avere nessuna differenza (situazione
che è ipotizzata nelle costituzioni democratiche, ma che non è certo
indicata da Aristotele come preferibile) allora non resta altro che il
turno delle cariche, e dunque della funzione di governo18. A questo
proposito è innanzitutto da sottolineare il fatto che la parità e
l’uguaglianza dei cittadini nelle costituzioni democratiche non
comporta l’uguaglianza di governanti e governati, giacché essi di-
vengono governanti a turno «e una parte dei cittadini governa e
l’altra ubbidisce, come se entrambe fossero diventate diverse»: que-
sto turno è allora, in qualche modo, una imitazione della situazione
in cui sono i migliori a governare19. Dunque anche in questo caso
non è eliminata la differenza, che è costitutiva del governo, come si
è visto, ma i cittadini si pongono alternativamente in una situazione
di differenza. Il turno delle cariche indica anche che l’archein non è
certo una funzione impersonale di comando, ma implica le capacità,
le doti e le virtù di colui che governa; non è indifferente che governi
uno o l'altro: i migliori devono governare, e perciò, in caso di parità,
i cittadini a turno si alternano al governo.
Per intendere ancor meglio in che cosa consista l’azione di go-
verno, bisogna ricordare che essa non solo è rivolta al bene della
comunità e non all’interesse dei governanti, ma ancor più si esprime

17 Ivi, VII, 14, 1332 b 33-34. Preferisco tradurre arché normalmente con governo
anziché con comando, perché, pur essendo vero che alla direzione e alla guida è
connaturata una certa supremazia che si esprime nel comando, a quest’ultimo ter-
mine è oggi connaturato un aspetto formale, che deriva dalle trasformazioni che i
rapporti di dominio, o Herrschaft, hanno avuto mediante il moderno concetto di
potere.
18 Cfr. ad esempio Aristotele, Politica, I, 12, III, 6, 1279 a 8-13, III, 16, 1287 a 12-
18, VII, 14, 1332 b 16-35, II, 2, 1261 a 37 -b 6.
19 Ivi, II, 2, 1261 b 1-6. Tale passo è infatti inserito nel contesto in cui Aristotele
sostiene la pluralità come caratteristica della polis, e afferma che essa è costituita
da uomini specificamente diversi.

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3. Fine del governo e nascita del potere 89

nell’ambito delle leggi, dei nomoi, e non in modo arbitrario. Queste


non sono mera espressione di volontà o statuizione, non sono il pro-
dotto della volontà dei governanti, ma costituiscono piuttosto il
contesto in cui questi esercitano il governo. Né la polis e la sua co-
stituzione, né i nomoi (che Aristotele ben distingue dalle delibera-
zioni – psephismata – di coloro che hanno nella polis la suprema-
zia) sono mero prodotto di volontà, e perciò anche il governo che al
loro interno si esercita non consiste in una volontà sovrana, ma
piuttosto in una guida e direzione che è possibile all’interno del
contesto della costituzione20.
Si può allora comprendere la metafora usata da Aristotele, come
pure da Platone e ripresa anche da Cicerone nella celebre locuzione
– emblematica per il concetto di governo – «navem rei publicae gu-
bernare»21. Ciò che è rilevante è non solo il fatto che il pilota guida
la nave per il bene della nave e di tutti coloro che si trovano in essa,
e accidentalmente per il suo vantaggio, in quanto imbarcato – come
dice Aristotele – ; ma ancor più il fatto che per guidare una nave c’è
bisogno di tutto un contesto in cui si è inseriti e della sua conoscen-
za. Bisogna conoscere il mare, i venti, le correnti, avere punti di ri-
ferimento nelle stelle. Da una parte c’è questa oggettività di riferi-
mento, e dall’altra la conoscenza e l’esperienza, la capacità e la vir-
tù, il senso del kairos, del nocchiero: non tutti possono essere piloti.
Fuori di metafora, governo può esservi solo all’interno del proble-
ma del bene e del vivere bene, del criterio del giusto, dell’ordine
dell’anima, del contesto della costituzione e dei nomoi. All’interno
di tutto ciò bisogna orientarsi e rischiare di navigare: la navigazione
non è di per sé garantita da norme; la conoscenza aiuta, così come
l’esperienza, ma importanti sono la capacità e la virtù del pilota. La

20 Sulla supremazia dei nomoi cfr. ivi, III, 16, 1287 a 19 sgg., IV, 4, 1292 a 4 sgg.,
dove si distingue a proposito della democrazia, la situazione in cui kyrios è il no-
mos, e quella in cui invece domina il plethos: in questo caso le decisioni
dell’assemblea – psephismata – sono ben altro dai nomoi. A proposito del governo
o meno della legge cfr. anche IV, 6, 1293 a 20 sgg. Cfr. su tutto ciò e sul significa-
to e la trasformazione dei nomoi in Grecia, Meier, La nascita della categoria del
politico cit., spec. Il mutamento del mondo dei concetti politico-sociale nel V seco-
lo a. C., pp. 283-333.
21 Cfr. V. Sellin, Regierung, Regime, Obrigkeit, in GG cit., Bd.V, p. 363. Per
l’immagine del kybernetes in Aristotele cfr. Politica, III, 6, 1279 a 4 sgg.

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90 Giuseppe Duso – La logica del potere

concezione dell’agire che è qui sottesa è tale per cui l’azione non è
mai garantita da conoscenze scientifiche o da norme che si tratti di
applicare ai casi particolari – e non è perciò riducibile ad una razio-
nalità formale (tipica non solo della politica, ma anche della morale
in epoca moderna) – , bensì è solo nella situazione concreta che
l’atto noetico e la virtù indicano la direzione da percorrere. La fun-
zione di guida e di governo, che si pone in questo contesto, non e-
quivale né ad una espressione di volontà e di comando, né ad una
subordinazione dei governati alla volontà dei governanti. È infatti
da ricordare che è agire politico tanto il governare, quanto l’essere
governati.
L’affermazione della differenza come elemento indispensabile
della polis e del governo e la concezione per cui la polis è composta
di parti svolgono un ruolo fondamentale nella descrizione aristoteli-
ca delle forme di governo, che si distinguono a seconda che il poli-
teuma, o il governo della polis, sia detenuto da uno solo, da pochi o
da molti22. Pur non potendo qui entrare nel merito dell’analisi delle
diverse forme sia buone (monarchia, aristocrazia, politia), sia dege-
nerate (tirannide, oligarchia, democrazia) di costituzione, né dei
modi diversi, non sempre omogenei, in cui Aristotele parla di de-
mocrazia, né delle diverse forme di democrazia, ci pare tuttavia uti-
le ricordare che il termine democrazia può avere significato nel
contesto aristotelico come forma di governo solo in quanto il popo-
lo non è la totalità degli individui della polis, e nemmeno la totalità
dei cittadini, bensì solo una parte.
Infatti, se la polis è composta di parti, le costituzioni si differen-
ziano tra loro a seconda del modo in cui si rapportano le parti e a
seconda della parte a cui è affidato il governo; perciò «è necessario
che le costituzioni siano proprio tante quanti sono i modi di ordina-
re le magistrature in rapporto alla superiorità e alla differenza delle
varie parti»23. Il demos non indica allora la totalità dei singoli com-
presi in una città, e nemmeno di tutti i liberi, ma piuttosto quella
parte dei liberi che sono poveri: perciò «si ha democrazia quando
stanno al governo uomini liberi e poveri, che sono in maggioran-

22 Si ha uno schema riassuntivo in ivi, III, 7, 1279 a 23 sgg.; cfr. su ciò Bien, La
filosofia politica di Aristotele cit., pp. 276 sgg..
23 Cfr. Aristotele, Politica, IV, 3, 1289 b 27 sgg. e 1290 a 11-13.

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3. Fine del governo e nascita del potere 91

za»24. Non mi pare allora si possa ravvisare in Aristotele una ten-


denza ad identificare il demos con la totalità25. Infatti anche quando
egli parla di quella forma di democrazia che è basata
sull’uguaglianza e non stabilisce una supremazia dei poveri sui ric-
chi, ma una parità tra i due gruppi, anche in questo caso egli non
intende il popolo come totalità, ma sempre come parte: infatti af-
ferma che, pur partecipando tutti senza esclusione al governo – e
dunque anche i ricchi –, «poiché il popolo è numericamente supe-
riore, e la decisione dei più è dominatrice, è necessario che questa
sia una democrazia»26. Democrazia comporta dunque ancora su-
premazia di quella parte che è costituita dal popolo o demos. Anche
se si pensa ad una uguaglianza tra le varie parti e tutti partecipano al
governo non si giunge a negare le parti per una totalità indifferen-
ziata, e il termine di democrazia come forma di governo implica la
sovraordinazione di una parte all’interno della polis.

3.2. Naturalità della consociatio e naturalità dell’imperium

L’idea del governo, che è formulata nella Politica aristotelica, e si


esprime nella metafora, usata anche da Cicerone, del nocchiero che
guida la nave della repubblica, ha una grande durata e viene ad ave-
re significato centrale per una lunga tradizione di filosofia pratica.
Pur essendo di molto mutate le condizioni storiche complessive e le
forme di organizzazione politica, noi ritroviamo ancora nel Seicento
questo modo di riferirsi al governo. È proprio di una storia concet-
tuale di contro ad una storia delle idee, o ad una concezione storica
del pensiero, riconoscere la continuità degli assetti teorici di riferi-
mento pur in mutate condizioni storiche, come pure riconoscere
nelle stesse condizioni storiche il mutare radicale di significato dei
concetti.

24 Ivi, IV, 4, 1290 b 17-20. Cfr. su ciò Meier, La nascita della categoria cit., p.
280. Tale significato di democrazia in Aristotele è ricordato in un dibattito sulla
democrazia moderna anche da N. Bobbio, Le regole di maggioranza, limiti e apo-
rie, in N. Bobbio, K. Offe, S. Lombardini, Democrazie, maggioranze e minoranze,
Il Mulino, Bologna 1981, p. 34.
25 Così invece Meier, La nascita della categoria cit., p.317, n. 75.
26 Aristotele, Politica, IV, 4, 1291 b 30-38.

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92 Giuseppe Duso – La logica del potere

Certo, ritrovare questo concetto di governo, almeno in parte, in


Althusius, non significa non riconoscere il mutamento anche teorico
della sua Politica nei confronti di quella aristotelica – mutamento
che anche qui sarà segnalato, almeno in relazione al concetto di po-
polo, delle forme di governo e del modo dualistico (legato ad un
contesto cetuale) in cui questo viene esercitato – ma comporta il ri-
conoscimento del permanere di alcuni punti di riferimento che sa-
ranno invece negati dal pensiero immediatamente successivo, che
intende dar luogo in senso nuovo alla scienza della politica.
Ciò che è proprio del pensiero di Althusius – e viene spesso di-
menticato nelle interpretazioni che segnano il rinato interesse per
questo pensatore27 – emerge in modo chiaro fin dal primo capitolo
della Politica, ed è la contemporanea affermazione della naturalità
della societas e delle varie forme in cui si dà il rapporto comunita-
rio, e della naturalità dell’imperium, cioè del fatto che nella comu-
nità è naturale che alcuni comandino e altri obbediscano. Tra le due
affermazioni c’è uno stretto legame logico, ed è quello che fa inten-
dere l’imperium fondamentalmente nel senso del governo.
Il primo significato del concetto di politica è determinato dalla
comunicazione dei diritti nella repubblica28: sul senso primario del-

27 Due importanti seminari internazionali di studio si sono svolti a Herborn nel


1984 e nel 1988. Risultato del primo è il volume Politische Theorie des Johannes
Althusius, hrsg. K. W. Dahm, W. Krawietz, D. Wyduckel, Duncker & Humblot,
Berlin 1988 (una nota su questo volume è apparsa in «Filosofia politica», IV
(1989), n.1, pp. 163-175) con contributi tra gli altri di H. Hofmann, W. Krawietz,
P. L. Weinacht, H. U. Scupin, D. Wyduckel). Il secondo è stato dedicato alla tema-
tica federalistica: Konsoziation und Konsens. Grundlage des modernen Föderalis-
mus in der politischen Theorie, hrsg G. Duso, W. Krawietz, D. Wyduckel, Dun-
cker & Humblot, Berlin 1996. Cfr. sul tema del federalismo, Th. O. Hüglin, Sozie-
taler Föderalismus. Die politische Theorie des Johannes Althusius, De Gruyter,
Berlin-New York 1991.
28 Cfr. J. Althusius, Politica Methodice Digesta atque exemplis sacris & profanis
illustrata, III ed., Herborn 1614 (rist. anast., Scientia Verlag, Aalen 1981; di alcune
parti esiste la trad. it. a cura di D. Neri, Napoli 1980) I, 5. La linea di approccio
storico concettuale proposta non permette di usare nel contesto althusiano il termi-
ne Stato. Quando questo viene usato (come accade nella antologia italiana, opera
per altro assai utile e anticipatrice della rinascita di interesse per Althusius), per
tradurre respublica, o regnum, o consociatio universalis, dal momento che non può
non trascinare con sé la concettualità legata alla sua genesi moderna, porta inevita-
bilmente ad equivocare il pensiero che la Politica ci presenta.

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3. Fine del governo e nascita del potere 93

la consociatio e della communicatio si fondano gli altri due signifi-


cati del termine, che sono il modo di governare e amministrare la
comunità politica, e infine – con riferimento ad Aristotele – l’ordine
e la costituzione della repubblica. Al centro sta dunque l’elemento
della comunità, che ricorre continuamente sia nella forma della na-
tura simbiotica dell’uomo, sia nella determinazione dell’aspetto ca-
ratterizzante la vita in comune, e cioè la communicatio – che, sin
dalla ripresa tomistica di Aristotele, rende bene il termine greco di
koinonia –, sia nella tematica del consensus, che esprime il signifi-
cato diffuso e plurale dell’agire politico.
E tuttavia, proprio per questa naturalità della vita sociale, Althu-
sius afferma che «l’eterna legge comune consiste nel fatto che in
qualsiasi specie di associazione alcuni sono governanti o superiori
(imperantes […] seu superiores), altri sudditi o inferiori (obsequen-
tes seu inferiores)»29. Tale rapporto è un rapporto di subordinazione
che implica anche l’elemento del comando e della obbedienza; ma
tale aspetto è condizionato dalla funzione di direzione e guida ne-
cessaria a «qualsiasi forma di associazione». Ciò si chiarisce nel
momento in cui sono in qualche modo distinti i due termini così
strettamente legati di imperium e gubernatio: «nam omnis guberna-
tio imperio et subjectione continetur»30. Perché un’associazione di
uomini possa esistere è necessario che sia tenuta insieme e guidata.
Se essa è per natura, sono per lo stesso aspetto azioni naturali anche
imperare, regere, subjici, regi et gubernari 31; e naturali significa
che sono proprie della natura dell’uomo, cioè, insieme, che è sem-
pre stato così e che così è voluto da Dio fin dalla creazione, come le
Sacre Scritture ci insegnano32. Tale naturalità significa poi raziona-
lità, come si può vedere dall’immagine organica che è invocata,
quella del corpo. Infatti, intendere il governo come innaturale – e
potremmo dire bisognoso di legittimazione – sarebbe irrazionale, in
quanto tale concezione presupporrebbe la configurazione di una

29 Althusius, Politica, I, 11.


30 Ivi, I, 12.
31 Ivi, I, 34.
32 Ivi, I, 12

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mostruosità, quale è un corpo senza testa, o senza membra, o con


membra non giustamente e funzionalmente organizzate33.
Tale metafora comporta necessariamente differenza (al contrario
di ciò che vedremo accadere nella costruzione giusnaturalistica), in
quanto il corpo può funzionare proprio perché le parti sono diverse,
ed ognuna svolge la sua funzione. Le funzioni sono legate le une
alle altre in modo organico e insieme gerarchico, per cui è la testa a
dirigere e a coordinare i movimenti del corpo. Dunque è proprio in
quanto il corpo è composto di parti che c’è una funzione di direzio-
ne e di governo. Questa funzione della testa non implica una azione
di tipo totalmente diverso da quello delle altre membra, in quanto la
funzione di guidare e governare le membra è la funzione propria se-
condo la quale la testa partecipa alla vita dell’insieme. In altri ter-
mini quella del governo non è una direzione diversa e opposta a
quella che è espressa dalla comunicazione e dal legame sociale
(qualcuno, con un linguaggio in realtà consono alla scienza politica
moderna, potrebbe chiamare verticale la prima e orizzontale la se-
conda). Infatti, non solo comandare e governare hanno la funzione
di provvedere alla utilità dei membri della consociazione, ma, ancor
più precisamente, lo stesso modo di estrinsecarsi della superioritas,
e cioè il governare e il dirigere, altro non è che una forma di comu-
nicazione, quella appunto di coloro che riescono a comunicare il
bene a coloro che non possono bastare a se stessi e sono bisognosi
di aiuto34.
L’imperium non consiste dunque nell’espressione di una volontà
a cui gli altri sono sottomessi, in quanto la stessa volontà di chi ha
funzioni di comando è sottoposta ad un contesto che non è solo ide-
ale, ma comprende anche momenti di controllo istituzionali e orga-
nizzati. Il governante è cioè sottoposto alla legge di Dio, al diritto
simbiotico e alla tradizione del buon diritto antico, al compito di re-
alizzare il bene della comunità, e perciò anche al problema del be-
ne, tanto più arduo in quanto è proprio del governo non solo badare
al bene materiale della comunità, ma anche alla salute dell'anima35.
L’azione di governo non è unidirezionale e svincolata da ogni con-

33 Ivi, I, 34.
34 «Quo magis bonum communicatum, eo melius praestantiusque est» (ibid.).
35 Ivi, I, 14 sgg.

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3. Fine del governo e nascita del potere 95

trollo: bisogna infatti ricordare che, a tutti i livelli, chi governa,


l’amministratore, è condizionato e controllato dall’istanza colletti-
va, costituita dagli organi collegiali, che Althusius prevede ad ogni
grado della organizzazione del regno e che appaiono legati ad un
orizzonte di tipo ständisch36.
In questo quadro dunque il fatto che ci sia imperium, e che ad
esercitarlo siano i più potenti e coloro che sono maggiormente dota-
ti della virtù della prudenza – che anche per Aristotele è la virtù di
coloro che hanno la funzione di governo della polis37 – è un fatto
naturale, che non è da giustificare, in quanto non dipende dalla vo-
lontà e dalla decisione degli uomini. Non c’è perciò in tale contesto
nessuno spazio per un problema di legittimazione38; e ciò perché al
fondo della costruzione sta l’idea della diversità degli uomini. È
proprio la diversità delle parti che rende ricco e articolato l’intero,
ma proprio per la molteplicità e la varietà delle parti è necessaria
un’opera di coordinamento e un ordine di subordinazione, subordi-
nazione che come è chiaro, non è alla volontà sovrana di qualcuno,
ma è nei confronti di chi ha la funzione di coordinare e guidare le
diverse funzioni.

36 Cfr. H. Hofmann, Repräsentation in der Staatslehre der frühen Neuzeit. Zur


Frage des Repräsentationsprinzips in der «Politik» des Johannes Althusius, in Po-
litische Theorie des Johannes Althusius cit., spec. Organisation der Herrschaft, p.
518 sgg. (questo saggio è contenuto anche in H. Hofmann, Recht - Politik - Verfas-
sung. Studien zur Geschichte der politischen Philosophie, Metzner, Frankfurt a.M.
1986, pp. 1-30). Non è qui possibile, nemmeno schematicamente, dare un quadro
della struttura della Politica. Per una più ampia trattazione rimando, oltre che
all’ottimo saggio di Hofmann, al mio Patto sociale e forma politica, in Il contratto
sociale nella filosofia politica moderna cit., spec. § 2. Utile per una ricostruzione
complessiva del pensiero di Althusius in rapporto al contesto storico è il volume di
L. Calderini, La «Politica» di Althusius tra rappresentanza e diritto di resistenza,
Franco Angeli, Milano 1995.
37 Cfr. Althusius, Politica, I, 38.
38 Che la legittimazione sia problema dell’epoca moderna a causa
dell’assolutizzazione della volontà risulta chiaro in H. Hofmann, Legitimatio und
Rechtsgeltung, Berlin 1977, spec. pp. 11-31. Cfr. a questo proposito F. Jonas, Sozi-
alphilosophie der industriellen Arbeitswelt, Stuttgart 1960, pp. 69 sgg. Per quanto
riguarda Althusius, cfr. Th. Würtenberger, Zur Legitimation der Staatsgewalt in
der politischen Theorie des Johannes Althusius, in Politische Theorie des Johan-
nes Althusius cit., pp. 557-576.

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96 Giuseppe Duso – La logica del potere

È ben vero che Althusius, proprio nel capitolo riguardante gli


Efori, e dunque l’istanza rappresentativa del popolo nei confronti
del Sommo magistrato, afferma che «jure naturali omnes homines
sunt equales»39; ma tale affermazione è inserita in un contesto che
tende a mostrare come l’imperium sia administratio, e dunque il
comando non sia proprio di qualcuno in modo assoluto, ma piutto-
sto sia condizionato dal popolo nella sua totalità e complessità, al
quale solo spetta la proprietà del diritto supremo e la majestas. In
questo modo, cioè, Althusius intende contrapporsi al concetto di
sovranità proprio di Bodin e, contro il suo modo unitario di conce-
pire il potere, proporre una concezione in cui coloro che governano
debbano rispondere al popolo – cioè alle istanze collegiali – del loro
operato. Ma ciò non significa certo che tutti gli individui siano u-
guali tra loro. L’uguaglianza renderebbe infatti impossibile il go-
verno: se tutti fossero uguali, in luogo di concordia e armonia tra
parti diverse si avrebbe la pretesa di tutti a governare a proprio arbi-
trio, e perciò il rifiuto ad essere governati, e con ciò la dissoluzione
della società40. Società e governo si basano ambedue sulla differen-
za tra gli uomini.
Alcuni elementi strutturali del pensiero aristotelico sono ancora
a fondamento di tale dottrina politica del primo Seicento41. Ma si

39 Althusius, Politica, XVIII, 18.


40 Ivi, I, 37 Anche per Aristotele la democrazia e l’uguaglianza che in essa si af-
ferma rischiano di andare nella direzione della disgregazione del governo. Infatti in
Politica, VI, 2, un carattere distintivo della democrazia consiste nel fatto che o-
gnuno pretende di vivere come vuole, essendo appunto «libero» e non schiavo, e
perciò di non essere sottomesso a nessun governo, oppure di governare ed essere
governato a turno. In questa accezione il turno delle cariche non esprime il senso
positivo della necessità della direzione e del governo, ma piuttosto quello negativo
della liberazione dal governo, in quanto ha il suo fondamento nella volontà di non
essere sottomessi.
41 Cfr. Hofmann, Repräsentation in der Staatslehre der frühen Neuzeit cit., pp.
521-522, che non considera l’influenza di Ramo su Althusius, molto importante a
questo proposito, dal momento che la critica ramistica sarebbe rivolta alla dottrina
aristotelica della natura e della conoscenza piuttosto che alla teoria politica. Sulla
continuità dell’influenza della politica aristotelica nella cultura tedesca fino al
XVIII secolo, cfr. i lavori, ormai classici di H. Maier, Die Lehre der Politik an den
älteren deutschen Universitäten, e Ältere deutsche Staatslehre und westlische poli-
tische Tradition, ora in Politische Wissenschaft in Deutschland, Piper, München-
Zürich 1985 (dello stesso autore si veda anche Die ältere deutsche Staats- und

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3. Fine del governo e nascita del potere 97

possono anche riscontrare notevoli differenze. Alcune di queste


possono essere verificate a proposito delle forme di governo, e si
concentrano sul modo in cui è inteso il popolo. Questo non è più
una parte, ma è l’intero dei cittadini costituenti il regno42. Perciò ad
esso compete la majestas, proprio in quanto costituisce l’intero. Ta-
le sovranità del popolo ha tuttavia un carattere assai diverso da
quella che si presenta nella concezione rousseauiana, che si iscrive
nella dottrina della sovranità moderna, a causa della natura compo-
sita del popolo come realtà costituita43.
Contrapponendosi a Bodin, che distingue la forma della repub-
blica dalla struttura del governo, Althusius afferma che, per quanto
riguarda la forma della repubblica, questa non può che prevedere la
sovranità del popolo, qualunque sia il tipo di governo44. Se a ciò si
aggiunge che il governo non può essere costituito che da poche per-
sone, altrimenti non ci può essere amministrazione, e che non può

Verwaltungslehre, C.H. Beck’sche Verlagsbuchandlung, München 1980). Cfr. an-


che P. L. Weinacht, Althusius – ein Aristoteliker? Über Funktionen praktischer
Philosophie im politischen Calvinismus, in Politische Theorie des Johannes Althu-
sius cit., pp. 443-464, che riconosce, nella Politica, da una parte la registrazione
della società cetuale, e dall’altra pezzi di dottrina che sono spesso propri della tra-
dizione aristotelica (un ruolo di mediazione gioca a questo proposito Theodor
Zwinger). Pur considerando Althusius assai più vicino ad Aristotele che al giusna-
turalismo moderno, Weinacht indica il peso della teologia calvinista e mostra come
Althusius si distacchi da Aristotele in punti centrali, quali quello della supremazia
del bios theoretikos, che egli invece esclude in favore della vita attiva, proprio
mentre tenta di appoggiarsi all’autorità di Aristotele (cfr. Althusius, Politica, I, 24).
42 A questo proposito, anche quando si cita Aristotele, se ne forza il testo. Si veda
ad esempio Althusius, Politica, XXXIX, 1, dove si attribuisce ad Aristotele la con-
cezione che «la repubblica è cosa del popolo se è ben governata, sia che governi un
re, sia pochi ottimati, sia il popolo nella sua collettività (universo populo)». Nel
contesto aristotelico bisognerebbe forse distinguere tra quel primo «popolo» indi-
cato da Althusius, che è forse la politeia nella sua totalità, e quel secondo «popo-
lo», o demos, che in quanto parte forse non può avere i caratteri dell’universus po-
pulus.
43 Sulla sovranità del popolo cfr. Hofmann, Repräsentation in der Staatslehre cit.,
p.541; cfr. ancora H.U. Scupin, Gemeinsamkeiten und Unterschiede der Theorien
von Gesellschaft und Staat des Johannes Althusius und Jean Bodin, e R. Hoke,
Althusius und die Souveränitätstheorie der realen und der personalen Majestät, in
Politiche Theorie des Johannes Althusius cit., rispettivamente pp. 301-312 e 235-
254. Sulla differenza tra questa majestas e la moderna sovranità popolare, cfr. il
capitolo IV.
44 Althusius, Politica, XXXIX, 3.

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98 Giuseppe Duso – La logica del potere

certo essere il popolo nella sua totalità a governare, si può ben


comprendere che, nel delineare le forme di governo, Althusius in-
contri difficoltà, perché non ci possono essere forme distinte di go-
verno, in quanto l’elemento unitario rappresentato dal Sommo ma-
gistrato, quello aristocratico delle magistrature intermedie, e
l’elemento popolare che si esprime nelle istanze collegiali e nei
comizi del regno sono tutti elementi necessari per la forma della re-
pubblica: la forma reale di governo non può dunque essere altro che
mista45. Si possono distinguere allora le forme di governo in rela-
zione al prevalere e all’essere più accentuato di uno di questi ele-
menti, ma non si possono affermare vere e proprie differenziate
forme di repubblica.
La difficoltà del procedimento althusiano nel momento in cui
l’oggetto di analisi è costituito dalla democrazia deriva dal fatto che
non è pensabile che il popolo governi e dunque si identifichi con il
Sommo magistrato. La forma di governo democratica è sempre co-
stituita da pochi: è dunque per questo aspetto oligarchica e consiste
pur sempre nell’amministrare in nome del popolo i diritti di sovra-
nità e la summa potestas, così come fa anche il re nella monar-
chia46. La differenza consiste nel fatto che, nel caso della democra-
zia, si ha una elezione a tempo determinato, e dunque anche un tur-
no della funzione, e nel fatto che i magistrati intermedi non dipen-
dono dal re, ma dal popolo; ma è da ricordare che in ogni caso il
Sommo magistrato è legato al popolo da un patto di mandato e
dunque è sempre controllato dai rappresentanti del popolo.
Non solo dunque non appare pensabile una forma di governo in
cui il popolo intero costituisce il Sommo magistrato47, ma nella co-
struzione di Althusius – una volta che per natura c’è imperium e
governo e che dunque il popolo è necessitato ad affidare il governo
a dei ministri – la sovranità del popolo è salvaguardata non tanto

45 Cfr. ivi, XXXIX, 13-15.


46 Ivi, 57. È forse l’unico caso in cui si parla di una forma di amministrazione di
tipo non monocratico, ma poliarchico.
47 Il governo di tutto il popolo sembra invece ipotizzato in ivi, 12, quando si di-
stinguono le tre forme di governo. È sempre tuttavia da tener presente il significato
che ha in Althusius l’espressione populus universus, come realtà complessa costi-
tuita di parti, irriducibile alla totalità indifferenziata dei singoli.

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3. Fine del governo e nascita del potere 99

dalla forma democratica del governo, quanto piuttosto dalle varie


forme di organizzazione collegiale presenti in tutta la costruzione
del regno, ai diversi livelli, in cui la forma di governo e ammini-
strazione viene controllata e istruita. Tale funzione, al livello più
alto, è quella espletata dagli Efori nei confronti del Sommo magi-
strato. È qui che emerge il senso rappresentativo dell’azione di go-
verno, come pure il senso rappresentativo degli organi collegiali
che bilanciano il potere degli amministratori48. La democrazia al
contrario mostra un pericoloso piano inclinato, nel quale, a causa
dell’uguaglianza, nessuno vuole più essere diretto e obbedire, e tutti
vogliono governare, andando così nella direzione di una anarchia,
che, proprio in quanto mancanza di arché – di governo – comporta
la dissoluzione della vita consociativa49.
Che la garanzia per i cittadini della repubblica sia costituita non
dalla forma democratica del governo, ma dal controllo degli organi
collegiali, bene illumina il nucleo centrale del pensiero del governo.
L’azione di governo è necessariamente di pochi e sono proprio co-
storo, o costui nel caso della monarchia, a portarne la responsabili-
tà. E’ impensabile che tutti governino, o che l’azione di governo
abbia la totalità dei cittadini come soggetto. Il problema è piuttosto
quello della organizzazione e dell’espressione dei cittadini di fronte
al governo, della partecipazione, non dell’autogoverno. Anche in
Althusius ciò che appare importante non è tanto la forma di gover-
no, ma il fatto che si dia un buon governo.

3.3. Il moderno concetto di sovranità e la dimensione del


potere

A distanza di pochi anni dalla stesura della Politica di Althusius, lo


scenario teorico cambia radicalmente, e noi assistiamo alla nascita
di quella che si è soliti chiamare la scienza politica moderna, e-

48 Sulla doppia rappresentazione, oltre al saggio di Hofmann, Repräsentation in


der Staatslehre cit., cfr. anche, dello stesso autore, il testo fondamentale per la sto-
ria della rappresentanza politica: Repräsentation. Studien zur Wort- und Begriffs-
geschichte von der Antike bis in 19. Jahrhundert, Duncker & Humblot, Berlin
19902, pp. 281 sgg.
49 Althusius, Politica, XXXIX, 81.

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spressione che emblematicamente lega insieme i termini moderno e


scienza: infatti, un nuovo significato di scienza investe l’ambito
della pratica e dunque della politica, in contrapposizione con
l’antica praktiké epistéme. Ora l’intento di base è quello di farla fi-
nita con il governo dell’uomo sull’uomo, che risulta ingiusto in re-
lazione al duplice assunto che tutti gli uomini sono uguali, e che
non è più riconoscibile alcun ordine naturale, cosmico, teologico o
giuridico che serva ad orientarsi. L’azzeramento della tradizione di
filosofia pratica va di pari passo con l’azzeramento della realtà poli-
tica che ci circonda, nella quale non è ravvisabile alcun criterio di
giustizia. Nella realtà storica come nella tradizione filosofica ci si
imbatte in una molteplicità di modi, tra loro contrapposti, di impo-
stare e risolvere il problema della giustizia, e il risultato di ciò è una
situazione di perenne conflitto in cui sicurezza e pace sono perdute.
Il problema della giustizia deve essere risolto da una razionalità
formale che ha a suo modello la geometria, e che, con la sua ogget-
tività, elimini ogni disputa e ogni conflitto. La questione non è più
quella di riconoscere un bene e un nomos comuni, né di guidare su
questa base la comunità, ma piuttosto quella di lasciare che ognuno
persegua il suo bene e la sua fede per suo conto, privatamente, evi-
tando che ciò sia causa di conflitto. Qui non c’è più spazio per il
governo, nel senso antico del termine, ma ciò che è necessario è un
potere costituito dalla forza di tutti, che renda irrilevanti le eventuali
differenze di forza tra gli individui ed eviti perciò la supremazia de-
gli uni sugli altri ed ogni pretesa di governo. Le diversità di opinio-
ne e di fede in relazione al bene e al giusto vengono così neutraliz-
zate e si crea uno spazio privato per gli individui che possono per-
seguire i loro scopi e ricercare il loro bene a patto di non ledere lo
spazio e la libertà altrui. Si potrebbe dire che il potere tende a ga-
rantire lo spazio nel quale ognuno si governi da sé; ma anche per
quanto riguarda l’autodirezione del singolo, una volta scomparso un
quadro di orientamento e di riferimento50, non si può più con rigore

50 Si badi bene che per tale quadro non intendo qui un sistema di verità, ma piutto-
sto un problema che a tutti si impone, come avviene nei Dialoghi di Platone. Come
si è infatti detto, niente è più lontano dal modo in cui Aristotele e Platone pongono
il problema dell’agire e del vivere bene di un sistema di norme e di verità (quale si
può invece ravvisare in molte interpretazioni del pensiero classico, che sono guida-

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3. Fine del governo e nascita del potere 101

parlare di governo. L’estensione del concetto di governo a tutti gli


uomini comporta la perdita del nucleo che lo determina e permette
di identificarlo: con essa infatti si perdono sia la meta comune, sia
la pluralità e la differenza, che abbiamo viste indispensabili per
l’esserci del governo. L’apparente estensione del concetto coincide
in realtà con la sua fine: l’autogoverno degli uomini diviene la dire-
zione di se stessi a partire dalla propria volontà. È allora il nuovo
concetto di libertà che soppianta il pensiero del governo.
Il termine popolo viene qui ad assumere un significato del tutto
nuovo: non è più una realtà costituita e composta di parti, o una par-
te della polis, ma la totalità e l’unità di tutti gli individui uguali. Se
il punto di partenza viene ad essere uno stato di natura che prevede
solo individui – questa è la mossa teorica strategica che caratterizza
il contrattualismo giusnaturalistico moderno e che condiziona la
successiva teoria dello Stato – non si dà nessun popolo prima del
contratto, cioè della artificiale costruzione della società. In questo
popolo dovrà risiedere il potere politico, che comporta i caratteri
dell’unicità e dell’assolutezza proprio per il fatto che si basa sui di-
ritti degli individui – innanzitutto uguaglianza e libertà – ed ha la
funzione di realizzare questi diritti nella realtà storica. Ci troviamo
così di fronte al concetto moderno di sovranità, dell’unico potere
del corpo politico, concetto che condiziona ormai il modo di inten-
dere il rapporto sociale e il significato che viene ad assumere
l’imperium, o il rapporto di subordinazione tra gli uomini51.
Così inteso, il concetto di potere, nel suo significato politico, è
nuovo e non esistente nella tradizione precedente. Muta infatti radi-
calmente il significato del dominio e della subordinazione, e si ren-
de impensabile il concetto di governo proprio della tradizione poli-
tica premoderna. In essa infatti la subordinazione non era nei con-

te da uno schema normativistico tipicamente moderno). Cfr. su ciò il saggio di S.


Biral, Platone: governo e potere, in «Filosofia politica» VI (1992), n. 3, pp. 399-
428 (ora anche in Storia e critica della filosofia politica moderna cit.), e anche
Platone e la conoscenza di sé, Laterza, Roma-Bari 1997.
51 Per il senso diverso che viene ad avere l’imperium a seconda che sia inserito nel
contesto delle politiche che si rifanno ancora alla tradizione aristotelica oppure a
quello della scienza moderna del diritto naturale, cfr. il cap. seguente e la parte
prima del volume Duso (a cura), Il potere cit. (anche per quanto riguarda la biblio-
grafia essenziale sul tema).

Giuseppe Duso. La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica
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102 Giuseppe Duso – La logica del potere

fronti della volontà di colui che esercitava il governo, ed esisteva la


possibilità per i governati di appellarsi a quel contesto che serviva
da guida anche a colui che governava. È significativo che, in Althu-
sius, proprio il contratto di mandato che istituisce la potestas del
Sommo magistrato, e dunque che impone al popolo obbedienza, sia
anche il fondamento del controllo e della possibile destituzione del-
la somma autorità, cioè del diritto di resistenza. Ora invece, di fron-
te all’istanza del potere del corpo comune, non è più possibile resi-
stenza, che sarebbe solo sopruso di singoli che rivendicano una loro
differenza ed una loro forza contro il corpo comune, forza di cui
possono abusare contro i loro simili. È solo il potere comune, cioè
quello politico, che rende realizzabile l’uguaglianza degli individui,
e unica legge è l’espressione della sua volontà52.
La subordinazione al potere comune è ora totale e richiede per-
ciò di essere legittimata53. La legittimazione consiste nella costru-
zione razionale, scientifica, in cui risulta non solo che tale potere è
l’unica costruzione che permette la conservazione della fonte di tut-
ti i beni per l’individuo, cioè la vita, ma anche che la volontà pro-
pria di quel potere è non la volontà di una persona che domina sugli
individui divenuti tutti sudditi, bensì la volontà di tutti in quanto
membri del corpo politico, la loro vera volontà contro la loro volon-
tà privata. In questo medesimo ambito si trovano le due posizioni
teoriche considerate più radicali, quella di Hobbes e quella di Rous-
seau, anche se si diversifica il modo della legittimazione e dunque
anche il senso specifico che viene a prendere il termine di governo.
Tale diversificazione è ciononostante all’interno di un sostanziale
terreno comune, che separa ormai questi due autori dal pensiero po-

52 Per il mutamento del significato del dominio e dunque per la caratterizzazione


della Herrschaft in senso moderno, si ricordi il già citato saggio di Otto Brunner,
Osservazioni sui concetti di «dominio» e di «legittimità». Per la traduzione di Her-
rschaft con «potere», cfr. supra, cap. I, n. 88.
53 La questione della legittimazione è una questione moderna e si presenta con
l’emergere, nel pensiero hobbesiano, della persona statale rappresentativa: cfr. Ho-
fmann, Legitimation und Rechtsgeltung cit., p.13, Repräsentation. Studien zur
Wort- und Begriffsgeschichte cit., p 382; cfr. anche R. Polin, Analyse philosophi-
que de l’idée de legitimité, in L’idée de legitimité, «Annales de philosophie politi-
que», Paris 1967.

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3. Fine del governo e nascita del potere 103

litico della tradizione, anche nella forma che esso assume con Al-
thusius54.

3.4. Governo come esercizio del potere sovrano

Con Hobbes l’artificio strategico consistente nello stato di natura,


caratterizzato solo dalla nozione degli individui e del loro diritto a
tutto, permette di non riconoscere nessuna dimensione collettiva
come naturale e originaria. E ciononostante bisogna trovare con un
artificio umano una dimensione sociale per impedire che le forze
contrastanti degli individui comportino la reciproca negazione e
morte. L’unica soluzione è – come emerge dalla celebre costruzione
che si ha con il contratto – un accordo che sia garantito da una forza
immane, costituita da tutti. A questa forza comune tutti volontaria-
mente e razionalmente si assoggettano, proprio perché non ci sia
sopraffazione dell’uno sull’altro55. Dunque anche per Hobbes, e
non solo per Rousseau, la subordinazione è al corpo politico nella
sua totalità; e proprio in ciò consiste la legittimazione della suddi-
tanza. Essa infatti non è più sottomissione nei confronti di un singo-
lo uomo, in ragione delle sue qualità o della sua forza, ma del corpo
che tutti hanno voluto costruire.
Ciò che caratterizza la posizione di Hobbes, ma poi la stessa di-
mensione moderna del potere politico, è l’idea che la volontà di
questa persona civile non può essere quella di nessun individuo par-
ticolare (tutti gli individui sono infatti uguali), né la somma delle
volontà diverse dei singoli, perché si tratta – come Hobbes sottoli-
nea – non di un mero accordo, ma proprio di una persona. Tale cor-
po non può avere allora volontà o movimento se non emerge una

54 Naturalmente questa linea risulta critica nei confronti della celebre interpreta-
zione di O. von Gierke (Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtli-
chen Staatstheorien, Koebner, Breslau 1880: trad. it., G. Althusius e lo sviluppo
storico delle teorie politiche giusnaturalistiche, Einaudi, Torino 19742), che consi-
dera Althusius all’origine del moderno giusnaturalismo. Per una discussione della
tesi del Gierke rimando a Patto sociale e forma politica cit., e alla bibliografia cita-
ta in questo paragrafo. Il confronto con il testo di Gierke è costante nella gran parte
dei saggi contenuti in Politische Theorie des Johannes Althusius cit.
55 Ricordo il saggio di A. Biral, dal titolo significativo per il presente ragionamen-
to, Hobbes: la società senza governo cit. .

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104 Giuseppe Duso – La logica del potere

nuova teoria dell’agire, quella secondo la quale una persona (e il


termine ha qui un preciso significato legato al suo etimo) non agisce
per se stessa, ma per l’intero corpo politico. Qui cessa di essere si-
gnificativa l’immagine di un corpo in cui le singole parti hanno
funzioni diverse nell’insieme, mentre acquista significato la raffigu-
razione, che troviamo nel frontespizio del Leviatano, in cui un uo-
mo – il sovrano-rappresentante – è costituito da tanti piccoli uomini
tutti uguali, che si ravvisano in tutte le parti del suo corpo. Non solo
non ci sono parti diverse, ma colui che esercita il potere del corpo
politico non è più la testa, la guida, nei confronti delle altre parti,
ma è solo la maschera, l’attore che agisce per tutto il corpo politico.
Non compie azioni sue proprie in funzione del bene degli altri, o
magari anche sfavorevoli al bene degli altri, bensì compie azioni di
cui tutti gli altri sono responsabili in quanto autori.
Se prima della volontaria costruzione del patto non c’è comuni-
tà, e le forme sociali esistenti non sono legittime, perché comporta-
no subordinazione tra gli uomini, di conseguenza il popolo esiste
solo dopo il contratto ed ha come suo unico modo di esprimersi
quello rappresentativo. Perciò non c’è istanza collettiva di fronte a
colui che esercita il potere, come avveniva invece in Althusius: il
popolo con la sua volontà emerge solo attraverso la voce del rap-
presentante56: le altre volontà appartengono solo a singoli, a privati,
a sudditi. Non solo allora non è possibile che sia il popolo a rivol-
tarsi contro il sovrano rappresentante, ma piuttosto sono i sudditi ad
avere, nella figura del sovrano-rappresentante, di fronte a loro il
popolo, cioè l’istanza collettiva. Conseguentemente allora Hobbes
si oppone alla concezione che intende i re – considerati sovrani –
come singulis majores, ma universis minores, cioè superiori ai sin-
goli presi separatamente, ma soggetti nei confronti dei sudditi presi
nella loro totalità57. E lo può fare in base al modo di concepire la

56 Così si può ad esempio dire che, qualora il sovrano sia un monarca, «(per quan-
to sia un paradosso) il re è il popolo», in quanto il re esprime la volontà del sogget-
to collettivo di fronte a quella che è una mera moltitudine di sudditi (Th. Hobbes,
De cive. Elementi filosofici sul cittadino, trad. it. a cura di T. Magri, Editori Riuni-
ti, Roma 19822, p.188).
57 Hobbes, Leviatano cit., cap. XVIII, pp. 152-153. Di Althusius invece è la con-
cezione che il Sommo magistrato è superiore ai singoli sudditi, ma inferiore al po-

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3. Fine del governo e nascita del potere 105

totalità: infatti, se l’espressione «tutti insieme» non ha lo stesso sen-


so di «ciascuno», ma vuole indicare il corpo collettivo come una
persona, dire «tutti insieme» significa indicare il potere sovrano, u-
nica istanza unitaria.
Con il concetto di sovranità – in Hobbes immediatamente legato
a quello di rappresentanza58 – o di unico potere del corpo politico,
scompare l’idea di un agire che rapporti i cittadini tra loro, quale era
l’agire di governo, così come la responsabilità e la guida che erano
proprie di tale agire. Si determina un rapporto di comando-
obbedienza, che ha carattere formale: e tale aspetto appare fonda-
mentale, perché la pace non può essere frutto di un qualche accordo
temporaneo, esposto al rischio della sua dissoluzione, ma deve dar
luogo ad una struttura stabile, che elimini la fonte di conflitto consi-
stente nel fatto che ognuno esercita la sua forza. Perciò è necessaria
una forma, che stabilmente produca ordine, e tale forma (in quanto
tale oggetto di scienza) è appunto la sottomissione alla forza comu-
ne, cioè a quella autorità che è il frutto del processo di autorizzazio-
ne. Anche la legge ha un carattere formale: è comando del sovrano,
e l’obbedienza non è legata ai singoli contenuti giusti o meno, per-
ché è la forma di legge a rendere la legge giusta, o determinante
cos’è giusto59. Ma tale situazione è nello stesso tempo liberazione
dalla sottomissione sempre possibile nei confronti di un altro uomo.
È la soggezione all’unità politica ciò che rende tutti uguali ed u-
gualmente liberi.
L’uguaglianza è nello stesso tempo principio alla base della rap-
presentanza e risultato della sua azione. Non si pensa più ora che se
si è tutti uguali bisogna a turno governare, perché in tale indicazio-
ne è implicata sia la diversità tra governante e governato, sia la per-
sonale azione di guida che il governante, a seconda delle sue capa-

polo nella sua totalità, al quale spetta lo jus majestatis (cfr. ad esempio Politica,
IX, 18).
58 Si ricordi infatti che il cap. XVII del Leviatano, che riguarda il contratto e la
formazione del corpo politico, è preceduto da quello sulle «persone, autori», nel
quale Hobbes espone la sua teoria della rappresentanza.
59 Fino a Weber arriva l’onda lunga di questa formalità del potere, come si è ri-
cordato sopra: si veda la definizione della Herrschaft come rapporto di comando-
obbedienza in Wirtschaft und Gesellschaft cit., I, 28; trad. it. Economia e società
cit., I, p. 52).

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106 Giuseppe Duso – La logica del potere

cità, esprime. Ora invece l’uguaglianza è garantita dal fatto che chi
esercita il potere non lo fa per sue qualità o per la sua diversità, ma
solo in quanto attore della volontà comune60. Questa è in Hobbes
immediatamente il risultato della rappresentanza, mentre poi si apri-
rà una divaricazione e uno scarto continuo tra l’azione rappresenta-
tiva e quella sfera di razionalità espressa nella opinione pubblica, da
cui il rappresentante dovrà essere idealmente condizionato.
L’antica idea del governo secondo le leggi perde di significato,
perché il vero problema è ora la determinazione della legge come
comando per tutti valevole: governare viene ad essere termine che
indica l’esercizio del potere sovrano61, che è innanzitutto creazione
della legge. Le diverse tradizionali forme di governo indicano infat-
ti, in rapporto al numero, colui o coloro che esercitano il potere so-
vrano62 e dunque che esprimono comandi che sono leggi, ed hanno
il senso della volontà di tutti, qualora questo tutti sia inteso nel sen-
so unitario dell’insieme del corpo politico. Il sovrano rappresentan-
te può allora essere o un re, o un’assemblea di pochi, o
un’assemblea di tutti i cittadini.
In particolare la trattazione della democrazia comporta una dif-
ficoltà di sistemazione logica all’interno dell’itinerario di pensiero
di Hobbes. Infatti, se il termine popolo significa il corpo unitario
nella sua totalità, allora in ogni forma di governo è il popolo il fon-
damento. Nel De Cive, dopo aver inteso per democrazia
l’assemblea degli individui costituenti la società63, Hobbes non può

60 Per un approccio diverso al concetto di uguaglianza cfr. M. Reale, La difficile


uguaglianza. Hobbes e gli animali politici: passioni, morale, socialità, Editori
Riuniti, Roma 1991.
61 Cfr. come esempio, accanto ad un uso più generico di civil governement (Levia-
tano cit., cap. XVI, p. 133) l’uso di governo (Governement) nel senso
dell’esercizio del potere sovrano (ivi, cap. XIX, p. 161), e ancora nel senso di so-
vrano-rappresentante (ivi, cap. XXX, pp. 276 sgg.).
62 Cfr. ivi, cap. XIX. È significativo che per Hobbes le cosiddette forme degenera-
te di governo altro non siano che denominazioni delle tre forme fondamentali da
parte dei sudditi che le trovano sgradite (ivi, p. 155): non sono dunque altre forme,
ma diversi pareri dei sudditi su chi detiene il potere (De cive cit., p. 145).
63 «Quelli che si riuniscono per erigere uno stato sono, quasi per il fatto stesso di
essere riuniti, una democrazia» (ivi, p. 147): così la traduzione di Magri; mi pare
tuttavia che anche per Hobbes sia da evitare il termine «Stato», che è in effetti pra-
ticamente inesistente, almeno in un senso specifico, nelle sue opere (cfr. la n. 2 del

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3. Fine del governo e nascita del potere 107

più considerare la democrazia una forma particolare di governo, ma


deve considerarla la forma originaria, da cui le altre dipendono e a
cui sono successive. In tal modo però il patto non consisterebbe in
un unico atto, ma sarebbe sdoppiato in una prima fase in cui si co-
stituisce il popolo, e in un secondo atto in cui il popolo costituito
trasferisce ad un’assemblea di pochi o al re il suo diritto.
Tale concezione del contratto non è certo coerente con la logica
espressa nel Leviatano, in quanto consente di intendere l’unità sulla
base della semplice riunione di tutti gli individui. Nel Leviatano in-
vece lo stesso atto con cui gli uomini si riuniscono è quello con cui
cedono il loro diritto a colui che sarà il sovrano. Il sovrano cioè na-
sce nello stesso momento in cui la moltitudine diventa unità, e pro-
prio per rendere possibile questa unità. Ciò è dovuto alla scoperta di
un nuovo senso della rappresentanza, secondo il quale non è con-
cepibile unitariamente una moltitudine se non mediante l’unità del
rappresentante64. Il sovrano è per sua natura rappresentante, e non
può coincidere con la totalità degli individui che si uniscono. Certo,
può ben consistere in una assemblea che, a maggioranza, rappresen-
ta il popolo, ma ciò non dà luogo al popolo che immediatamente è
presente ed esprime la sua volontà, in quanto l’assemblea è pur
sempre l’attore che agisce per il popolo, che ne fa le veci. Allora
l’assemblea popolare non è immediatamente il popolo, inteso come
l’unità di tutti gli individui, ma piuttosto ciò che lo rappresenta. Il
popolo, come la totalità degli individui, è fondamento di ogni forma
di governo – e in tal senso il pensiero di Hobbes sta già alla base di
uno dei significati fondamentali che nell’epoca moderna ha la de-
mocrazia –, ma si esprime solo rappresentativamente.
Ora l’espressione di tale potere non può essere che unitaria, e
non c’è spazio per una divisione di poteri che sia anche bilancia-
mento e reciproco controllo, come poteva avvenire nell’orizzonte di
una società cetuale. Come si è detto, governo è allora insieme la
creazione della legge e l’esercizio del potere per la sua applicazio-
ne, perché sarebbe inefficace dar luogo ad un comando senza avere

cap. IV). Cfr., sulla posizione di Hobbes a proposito della democrazia nel De cive,
l’introduzione di Magri alla edizione italiana, pp. 39-40; di Magri si veda anche
Saggio su Thomas Hobbes. Gli elementi della politica, Il Saggiatore, Milano 1982.
64 Cfr. Leviatano cit., cap. XVI, p. 134.

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la forza per rendere il comando operante65: si tratta dell’esercizio


indivisibile del potere sovrano.
Tuttavia, come abbiamo già detto, l’esercizio di tale potere non
consiste in una direzione, in una guida, nel senso che precedente-
mente aveva il governo, ma piuttosto consiste nella creazione dello
spazio in cui i singoli possono muoversi per procurarsi i beni che
credono indispensabili o desiderabili. Ciò risulta dall’intreccio che
si ha tra il concetto nuovo di libertà e quello di legge. Se infatti la
libertà altro non è che mancanza di impedimenti66, e la mancanza
assoluta di vincoli dà luogo al conflitto e alla guerra civile, l’unica
possibile soluzione è lo spazio di movimento e la libertà relativa
che è propria dei singoli sotto il dominio della legge e negli spazi
lasciati vuoti dalla legge67.
La legge non ha un compito di direzione e di guida al bene co-
mune, ma crea quelle siepi che separano la corsa degli uomini e im-
pediscono il loro scontro. In fondo anche in Kant possiamo ritrova-
re paradossalmente il permanere, pur nelle notevoli differenze, di
un tale concetto di libertà68. Questo quadro risulta più nitido, se si
affronta il problema costituito da quel masso erratico che è la que-
stione della bonitas legis69. In un primo momento può sembrare
strano che Hobbes si ponga tale domanda, ed infatti egli si affretta a
precisare che con buona legge non intende legge giusta, perché, co-
erentemente con la sua costruzione, la legge è giusta solo per il fatto
che è creata dal potere sovrano, e dal momento che ciò che è fatto
dal sovrano è riconosciuto come proprio dal suddito, nessuno può
ritenere ingiusto ciò che egli stesso ha voluto70. Nel rispondere al
quesito sulla buona legge Hobbes afferma il necessario legame che
ci deve essere tra bene del sovrano e bene del popolo, inteso come
l’insieme dei sudditi; ma ciò che maggiormente importa è

65 Cfr. ivi, cap. XVIII, pp.151-152.


66 Ivi, cap. XX, p.175.
67 Ivi, p.177.
68 Cfr. N. Bobbio, Diritto e Stato nel pensiero di E. Kant, Giappichelli, Torino
1957.
69 Cfr. H. Welzel, Naturrecht und materiale Gerechtigkeit, Vandenhoecek & Ru-
precht, Göttingen 19624, trad. it. di G. De Stefano, Diritto naturale e giustizia ma-
teriale, Giuffrè, Milano 1965, pp.180 sgg.
70 Cfr. Leviatano cit., cap. XXX, p. 282.

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3. Fine del governo e nascita del potere 109

l’indicazione della caratteristica della indispensabilità. Cioè la leg-


ge è buona quando si limita al suo compito, che è quello, per rima-
nere nella metafora, di creare le siepi, di impedire cioè che gli uo-
mini si nuocciano vicendevolmente71. E infatti, all’inizio del capito-
lo in cui ci si pone tale interrogativo, quello riguardante la funzione
del rappresentante sovrano, è precisato che il compito del sovrano
è quello della sicurezza dei sudditi, non con una cura che si ingeri-
sca negli affari dei singoli, ma con leggi generali in cui essi possano
muoversi liberamente e fare i propri affari72. Insomma, il potere in
Hobbes non ha, nella sua assolutezza, un aspetto totalitario, e nello
stesso tempo non intende più essere una guida in direzione del pro-
blema del bene, che riguardi corpo e anima dei governati, ma piut-
tosto la neutralizzazione del conflitto e la realizzazione dello spazio
in cui ognuno, tutelato nella sua sicurezza, che è contemporanea-
mente quella degli altri, possa cercare il suo bene e badare ai propri
affari. A questo deve tendere la legge e cioè il comando del sovra-
no.

3.5. Il governo come potere esecutivo e la sovranità del


popolo

La posizione di Rousseau è contrapposta a quella di Hobbes, ma in


realtà proprio per questo si colloca sullo stesso piano da un punto di
vista teorico. Come orientamento può servire la riflessione sul tema
della democrazia. Infatti Rousseau è inteso come il fondatore della
democrazia nella sua forma più radicale, e nello stesso tempo, pro-
prio per questa sua concezione della democrazia diretta, è visto in
rapporto stretto con l’antica repubblica, con l’immagine del cittadi-
no attivo e deliberante nella piazza. Già nella cultura tedesca di fine
Settecento Rousseau è inteso nella direzione della politica antica;
ma ciò si rivela fuorviante per la comprensione concettuale del suo
pensiero politico.
È infatti assai interessante chiedersi quale sia il modo in cui
Rousseau, questo padre della democrazia moderna, tratta la demo-

71 Ibid.
72 Ivi, p.273.

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crazia come forma di governo, e la stessa domanda può estendersi


anche a Kant, che spesso è considerato, con il suo concetto di re-
pubblica, il padre di un’altra versione della moderna democrazia,
quella di tipo liberale e rappresentativo. In ambedue i casi ci si può
meravigliare di trovarsi di fronte ad una critica radicale, che è indi-
cativa del mutamento complessivo di pensiero che si è determinato.
Nel Contratto sociale di Rousseau si afferma che la democrazia
«nel senso stretto del termine» non è mai esistita né mai esisterà73.
Tale impossibilità, come si precisa di seguito, ha carattere logico, in
quanto è «contro l’ordine naturale» – si potrebbe dire che è anche
contraddittorio in quest’ottica – che sia la maggioranza a governare
la minoranza: a maggior ragione se il termine è preso rigorosamente
e indica la totalità del popolo. Inoltre non c’è governo così soggetto
alle guerre e alle sommosse come quello democratico. Completa la
misura l’affermazione che se ci fosse un popolo di dei si governe-
rebbe democraticamente, perché un governo così perfetto non è fat-
to per gli uomini. Infatti tale affermazione non indica tanto la trop-
pa perfezione della democrazia, quanto piuttosto la sua non politici-
tà (beninteso, nel senso tutto moderno, e rousseauiano, legato alla
nozione di potere). Infatti un popolo di esseri perfetti non avrebbe
nessun bisogno di un potere che realizzasse l’ordine, e il governo di
tutti sarebbe la negazione dell’esistenza dell’obbligazione politica e
dell’esercizio del potere.
Questa critica radicale di Rousseau alla democrazia perde la sua
paradossalità e risulta pienamente coerente con la logica del suo
pensiero se ci si accorge che qui Rousseau sta trattando della demo-
crazia come forma di governo, il che non ha niente a che vedere con
il suo vero problema che è quello della sovranità del popolo, e dun-
que quello del moderno concetto di sovranità. Egli infatti priva di
importanza la questione della miglior forma di governo, non solo
perché le forme di governo sono nella realtà miste, ma anche perché
paesi e tempi diversi richiedono come più adatte forme diverse74.

73 Cfr. J.-J. Rousseau, Du contrat social, in Oevres Complètes, Gallimard, Paris


1964, vol. III; trad. it. di J. Bertolazzi, Il contratto sociale, in Scritti politici, a cura
di P. Alatri, Utet, Torino 1970, L. III, cap. 4, dedicato alla democrazia come forma
di governo.
74 Il contratto sociale cit., L. III, capp. 3 e 8.

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3. Fine del governo e nascita del potere 111

La questione fondamentale consiste nel fatto che il governo per-


de di importanza in quanto non c’è più niente e nessuno da guidare
e dirigere, e il governo diviene semplicemente potere esecutivo, e
dunque istanza secondaria, dipendente totalmente dalla volontà ge-
nerale. È qui che si gioca il valore del concetto di popolo, sul piano
della sovranità in senso moderno e dunque dell’unico potere del
corpo politico e del monopolio della forza. Anche se in Rousseau lo
stato di natura evidenzia maggiormente che in Hobbes i suoi aspetti
positivi e i principi da realizzare nella società, e la fonte di conflitti
tra gli uomini non va ricercata in esso, ma piuttosto nella civilizza-
zione, tuttavia anche per lui non c’è ritorno allo stato di natura, che
è uno stato di individui isolati, e, per eliminare il conflitto, è neces-
saria la costituzione di una forza così immane da essere inattaccabi-
le nei confronti di ogni tentativo di resistenza: è tale forza del corpo
politico che deve difendere le persone e i beni di ogni associato75.
Come si vede non è in questo che Rousseau si differenzia da
Hobbes, ma piuttosto nell’indicazione che la libertà dei singoli è ga-
rantita dal fatto che la totale alienazione dei diritti non viene fatta in
favore di una persona, ma dell’intero corpo politico, e dunque i sin-
goli sono insieme sudditi, ma anche cittadini e cioè membri del
corpo sovrano. Il che equivale alla negazione del concetto hobbe-
siano di rappresentanza: la volontà generale è quella del corpo so-
vrano e non può essere delegata a nessuno. Questo è il popolo nella
sua qualità di soggetto politico, mentre l’altro suo aspetto è quello
per cui gli associati sono individualmente sudditi e sottoposti al
corpo sovrano. Non è questo il luogo per soffermarsi sulle difficoltà
intrinseche a tale costruzione teorica, difficoltà che si possono im-
mediatamente intravedere nel momento in cui si scopre in questo
monismo il dualismo di volontà generale, che è la volontà vera di
ognuno in quanto cittadino, e di volontà privata, che è pure propria
dei singoli in quanto sudditi; oppure nel momento in cui ci si chiede
come venga alla luce la volontà generale, una volta accertato che
essa non è espressa da nessun singolo e nemmeno dalla somma dei
singoli, e compare così nella costruzione la figura del «grande legi-

75 Ivi, L I, cap. 6.

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112 Giuseppe Duso – La logica del potere

slatore»76. Ciò che importa, al fine della presente riflessione, è sot-


tolineare il fatto che lo Stato è l’aspetto passivo del corpo politico, è
cioè il prodotto della volontà sovrana, la quale non può essere mai
ridotta ad una realtà costituita.
Da questo punto di vista il corpo sovrano è ormai il soggetto
perfetto della politica, e la sua volontà è sempre buona per defini-
zione, in quanto è la volontà della totalità del corpo politico. Sono
ormai scomparsi tutti i punti di riferimento necessari alla guberna-
tio rei publicae: la volontà è ormai assoluta e la legge non è altro
che il suo prodotto: «le leggi sono atti della volontà generale»77. Ma
la conduzione dello stato abbisogna di tutta una serie di atti partico-
lari, abbisogna di uno spazio istituzionale, dell’uso della forza che
si è costituita. Perciò è necessario il governo, il quale non ha una
sua volontà sovrana, ma è la forza che deve portare a compimento
la volontà emersa nella legge: è potere esecutivo78.
È allora comprensibile che, se il popolo, nel suo aspetto attivo, è
il corpo sovrano cui spetta l’espressione della volontà generale e
della legge, a lui non può spettare il governo, che è dedito a scelte e
decisioni particolari: la logica del discorso sembra più forte e co-
gente di quanto emerga dalle stesse parole di Rousseau, il quale af-
ferma che «non è bene che chi fa le leggi le applichi, né che il corpo
del popolo distolga la sua attenzione dai problemi generali per indi-
rizzarla a scopi particolari»79. Proprio in quanto il popolo è la totali-
tà di tutti i consociati ed è connotato dall’universalità, esso non può
mai istituzionalizzarsi ed essere racchiuso nello spazio del governo,
pena la perdita della sua natura. Esso non è realtà costituita, ma
sempre potere costituente80, almeno nel senso della sua attività, non
certo nel senso passivo secondo cui esso è l’insieme dei sudditi.
Perciò si può dire che, a rigore, una volta inteso così il popolo, non

76 Anche su ciò rimando a S. Biral, Rousseau, la società senza sovrano, in Il con-


tratto sociale cit., pp. 191-236 ora anche in Storia e critica cit.
77 Il contratto sociale cit.,L. II, cap. 7.
78 Ivi, L. III, cap. 1.
79 Ivi, cap. 4.
80 Per la ricaduta di questo concetto di popolo nella costituzione del 1791 e nelle
costituzioni moderne, nella forma del problema del potere costituente, cfr. il cap. V
del presente volume.

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3. Fine del governo e nascita del potere 113

solo la democrazia come forma di governo è una questione poco


importante, ma è piuttosto una questione improponibile.
In Rousseau si evidenzia lo scarto esistente tra la moderna scien-
za politica e la filosofia politica ad essa precedente. Infatti, nella
tradizione antica il buon governo non può che dipendere dalla virtù
di colui che governa, dalla sua phronesis, e il governo, come si è
visto, riguarda il corpo e l’anima degli associati. Qui invece il pro-
blema è quello della conservazione della vita e dei beni, e, al di là
delle qualità morali, che «mancano di misure precise», è in rapporto
a questo problema, quantitativamente inteso, che la scienza politica
è chiamata a misurare. Essa, come in Hobbes, raggiunge la scienti-
fica dimensione che è propria della matematica e della geometria:
«matematici, adesso tocca a voi: contate, misurate, confrontate»81.
Il problema del buon governo è passato ormai dalla dimensione del-
la virtù a quello della razionalità formale e a quello scientifico della
misurazione.

3.6. Governo e principio rappresentativo

Anche in Kant, come si è detto, abbiamo la critica al concetto di


democrazia, e ciò proprio in ragione di quegli elementi repubblica-
ni, che costituiscono dei valori per la moderna democrazia. Anche
qui la democrazia, «nel senso proprio della parola», da una parte
può essere detta dispotismo, dall’altra addirittura non pensabile,
contraddizione: infatti essa stabilisce «un potere esecutivo in cui
tutti deliberano sopra uno, ed eventualmente anche contro uno (che
non è d’accordo con loro), e dunque tutti deliberano anche se non
sono tutti, il che è una contraddizione della volontà generale con se

81 Il contratto sociale cit., L III, cap. 9. Non mi pare che giochi a questo proposito
un grande ruolo il fatto che Rousseau si difende dicendo che prende solo a prestito
la matematica, ben consapevole che la precisione matematica non ha corso nelle
quantità morali (ivi, cap. 1). Egli è infatti all’interno della dimensione scientifica
inaugurata da Hobbes, il quale afferma che l’arte (lat. scientia) politica consiste in
certe regole, come la matematica e la geometria, e non nella pratica (Leviatano cit.,
cap. XX, p.174), quella pratica che era invece importante nel contesto aristotelico.

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stessa e con la libertà»82. Potrebbe sembrare che la posizione sia


coincidente con quella di Rousseau, in quanto Kant distingue due
forme di esercizio del governo (regiminis), una repubblicana, in cui
si applica il principio della separazione del potere esecutivo (il go-
verno) dal potere legislativo, e l’altra dispotica, secondo cui il Reg-
gente usa la volontà pubblica come sua propria volontà privata83.
Questa forma dispotica in cui il legislatore è anche esecutore del
proprio volere è chiamata non rappresentativa, e in quanto tale è
informe.
Ora anche Rousseau indica la necessità che colui che governa
sia altri da colui che legifera, e mentre il primo è una persona o un
insieme di persone particolari, il secondo è lo stesso corpo sovrano
nella sua totalità. In Kant però il principio rappresentativo, che è
principio di forma, non riguarda solo il governo di fronte alla vo-
lontà generale, cioè colui o coloro che dispongono della forza
all’interno dello Stato. Così potrebbe sembrare in un primo momen-
to, considerando l’affermazione appena citata, che direttamente si
riferisce al potere esecutivo; ma in tal caso non ci sarebbe alcuna
differenza tra Kant e Rousseau, in quanto anche Rousseau accetta la
forma rappresentativa in relazione al governo, dal momento che il
principe o il magistrato ha il mandato e l’incarico di eseguire la
legge; ma ben si intende che qui l’aspetto rappresentativo ha un si-

82 I. Kant, Zum ewigen Frieden, in Werke, hrsg. von der königlichen Preussischen
Akademie der Wissenschaften (Ak. Aus.), de Gruyter, Berlin u. Leipzig 1923, Bd.
VIII, p.352; trad. it. di G. Solari e G. Vidari, Per la pace perpetua, in Scritti politi-
ci, Utet, Torino 1965, p. 295.
83 Ibid., trad. it. cit., p. 294. I problemi relativi alla terminologia kantiana sono
sempre assai ardui, anche perché i termini non sempre sono usati in senso rigoroso
nel significato che Kant puntigliosamente determina. I problemi aumentano poi
nelle traduzioni, in cui si ha spesso un uso poco oculato dei termini, che rende dif-
ficile o fa deviare la comprensione concettuale. Qui, per esempio, troviamo il ter-
mine «sovrano» al posto di «reggente» (Regent), e tale mutamento di termini non
tiene conto che nella Rechtslehre Kant distingue lo spazio in cui si manifesta la
sovranità, che è quello legislativo, da quello del Regent o Agent des Staates, che è
quello del potere esecutivo o del governo. Anche il riferimento alle «tre forme di
governo» (che troviamo nell’ultima riga di p.294) in realtà suona nel testo tedesco
come riferimento alle tre Staatsformen. Infatti Kant aveva appena distinto le forme
della Beherrschung, o imperii, dal modo del governo (der Regierung o regiminis),
ed ora vuole giudicare come le tre forme in cui si esprime la sovranità dello Stato
si rapportano, o si possono rapportare, al modo di governo.

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3. Fine del governo e nascita del potere 115

gnificato diverso rispetto a quello inaugurato da Hobbes e da Rous-


seau rifiutato, quello secondo cui l’unità del popolo non è se non in
quanto è rappresentata. È su questa linea invece che si muove il ra-
gionamento kantiano. Infatti la democrazia è, in quanto tale, una
forma di Stato, o una forma imperii, come Kant chiarisce sia nel
contesto dello scritto Sulla pace perpetua, in cui si ha la critica del-
la democrazia come forma dispotica di governo, sia nella Rechtsle-
hre, dove distingue le diverse forme in cui si può incarnare il potere
sovrano e in cui questo potere si rapporta con il popolo84. In altri
termini il potere sovrano dello Stato (che Kant chiama Beher-
rschung, Herrschaft, o Souveränität), può avere come depositario o
una sola persona, e allora si ha autocrazia, o alcune persone, e allora
si ha aristocrazia, o la totalità del popolo, e allora si ha democrazia.
In quanto queste tre forme incarnano il potere sovrano, e
quest’ultimo si esprime nella formazione della legge, le tre forme
imperii costituiscono tre maniere di intendere il potere legislativo e
dunque il modo di esprimersi della volontà comune o del comando
che costituisce la legge85.
Nella democrazia abbiamo allora non solo l’identità di reggitore
e legislatore, se noi la esaminiamo come sistema di governo, ma –
ciò che maggiormente conta e la distingue dalle altre due forme –
anche un modo di intendere la sovranità che esclude il principio
rappresentativo, in quanto tutti insieme esprimono la volontà gene-
rale e dunque ognuno vuole essere sovrano (Herr sein will)86. An-
che le altre due forme di esercizio del potere sovrano sono per Kant
difettose (fehlerhaft) in rapporto ad un modo repubblicano di eser-
cizio del governo, inteso come potere esecutivo87; tuttavia in esse è

84 Cfr. I. Kant, Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre, Ak. Aus., Bd. VI,
§ 51, p.338; trad. it. Principi metafisici della dottrina del diritto, in Scritti politici
cit., p. 529.
85 Per questa distinzione e per la terminologia usata da Kant cfr., oltre al passo cit.
di Zum ewigen Frieden, e al § 51 della Rechtslehre cit., anche i §§ 45 e 49.
86 Zum ewigen Frieden cit., p. 353; trad. it. cit., p.295.
87 E ciò probabilmente perché anche la monarchia e l’aristocrazia, come forme
storiche di costituzione, comportano l’esercizio del potere legislativo da parte di
colui o coloro che reggono lo Stato. Infatti in tutte e tre le forme di Stato, che a
volte (Rechtslehre cit., §§ 51-52) secondo l’uso tradizionale ( e non quello inaugu-
rato dalla sua distinzione di forma repubblicana e dispotica) Kant chiama anche

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116 Giuseppe Duso – La logica del potere

perlomeno possibile avvicinarsi allo spirito (dem Geiste) di un tale


sistema rappresentativo, come mostra l’esempio di Federico II, che
si dichiarava «primo servitore dello Stato», e con ciò indicava di
non intendere l’uso del potere dispoticamente come cosa propria ma
come cosa comune. Ma allora la maggior possibilità di avvicinarsi
allo spirito del governo repubblicano da parte della autocrazia e del-
la aristocrazia (specialmente della prima), è dovuto al fatto che es-
sendo poche le persone che sono depositarie della Herrschaft, e non
tutte come nella democrazia, è più facile che si riesca ad intendere il
carattere rappresentativo dell’esercizio della stessa. Infatti, quanto
più diminuiscono i depositari della Herrschaft, tanto più grande è la
loro rappresentatività, e dunque la possibilità di accordarsi con il
sistema di potere repubblicano88.
Il principio rappresentativo riguarda perciò in primo luogo la so-
vranità, che si esprime nel potere legislativo. E dunque è proprio la
centralità assegnata al principio rappresentativo che distingue Kant
da Rousseau. Anche Kant indica nel popolo nella sua totalità la vera
sede della sovranità, e perciò può parlare di un allgemeines Ober-
haupt, che è il popolo riunito89, perché a nessun altro che
all’unitaria volontà del popolo può spettare il più alto potere, il po-
tere legislativo, nel quale si esprime la volontà generale e dunque la
sovranità90. In ciò si manifesta la lezione rousseauiana, che ormai
nessuno vorrà smentire, in quanto il popolo, come totalità del corpo
politico, è in rapporto all’espressione della volontà – come si è det-
to – il soggetto perfetto della politica. Ma per Kant tale verità viene
congiunta con il principio proposto da Hobbes. Cioè la volontà uni-
ca del popolo come volontà sovrana non può venire alla luce se non
attraverso la funzione espressiva e formativa di qualcuno che la rap-
presenti, altrimenti tale volontà non ha forma, e dunque non è nes-
suna realtà determinata. Perciò Kant, accanto all’affermazione della

forme di governo, la legge è di fatto promulgata da chi esercita anche il potere ese-
cutivo (il re, gli aristocratici).
88 Cfr. sempre Zum ewigen Frieden cit., p. 353; trad. it. cit., p. 295. Per la rappre-
sentazione in Kant cfr. anche il mio Logica e aporie della rappresentanza tra Kant
e Fichte, in «Filosofia politica», I (1987), n.1, pp. 31-56.
89 Cfr. Rechtslehre cit., § 47, p. 315; trad. it. cit., p.502.
90 Cfr. ivi, § 46, p. 313; trad. it. cit., p. 500.

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3. Fine del governo e nascita del potere 117

sovranità del popolo, può parlare anche del «sovrano del popolo»:
dopo aver detto che: «die gesetzgebende Gewalt kann nur dem ve-
reinigten Willen des Volkes zukommen»91, può anche riferirsi allo
Herrscher des Volkes come al Gesetzgeber92. Nel primo caso il po-
polo è la totalità sovrana del corpo politico, che tuttavia non può
esprimersi che attraverso un suo rappresentante; nel secondo caso il
popolo è l’insieme dei sudditi, che è la sola realtà esistente di fronte
al rappresentante, che giuridicamente esprime la volontà collettiva.
È proprio per il suo carattere rappresentativo della volontà collettiva
del popolo che il sovrano reale dello Stato è legittimato ad esprime-
re una funzione di comando nei confronti dei cittadini 93.
Per quanto riguarda la distinzione tra la persona del legislatore e
quella del reggitore, non solo si può dire che al tempo di Kant era
difficilmente pensabile nel senso di una costituzione reale94, ma an-
che che nello stesso Kant essa si inserisce in una dimensione ideale
e regolativa. Infatti non solo le due costituzioni autocratica e aristo-
cratica appaiono a questo proposito sempre difettose, ma appare
contraddittoria proprio quella democratica in cui, se non si tiene
conto del principio rappresentativo, potrebbe sembrare che si de-
termini la massima unità tra quella volontà collettiva del popolo, in
cui risiedono la sovranità e il potere legislativo, e la persona fisica –
l’assemblea di tutto il popolo – che esprime tale realtà. Ciò significa
che la volontà collettiva del popolo è una dimensione di per sé idea-
le, non reale, e quando pretende di essere reale (il popolo empiri-
camente presente) diventa contraddittoria e negazione di quella
forma che è al centro della dottrina giuridica kantiana. Il carattere
razionale e a-priori della sovranità e della volontà generale95 deve
essere tenuto fermo, proprio in quanto costituisce in Kant il cuore
del principio rappresentativo, a differenza che in Hobbes, in cui la
volontà del corpo comune è immediatamente la volontà del rappre-

91 Ibid.
92 Ivi, § 49, p.317; trad. it. cit., p.503.
93 Cfr. Über den Gemeinspruch: das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber
nicht für die Praxis, Ak. Aus., Bd. VIII, p.304; trad. it. Sopra il detto comune:
«questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica», in Scritti politici
cit., pp. 270-271.
94 Cfr. Sellin, Regierung cit., p. 373.
95 Cfr. Rechtslehre cit., § 51, p. 338; trad .it. cit., p. 529.

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sentante. Tale identificazione vale anche per Kant, nel senso che
non c’è possibile opposizione attiva alla volontà espressa dal rap-
presentante: la differenza tuttavia consiste nel fatto che per Kant il
rappresentante è sempre tenuto ad ispirarsi a quella idealità e razio-
nalità che caratterizza la volontà comune, e perciò la volontà del
popolo: in tal modo egli apre quella dialettica della pubblica opi-
nione che era in Hobbes negata alla radice.
L’idealità della distinzione tra legislativo ed esecutivo appare
consona alla stessa dottrina kantiana dello Stato, che è la descrizio-
ne dello Stato in der Idee – e dunque nella chiave dell’idea regola-
tiva –, cioè «tale come esso deve essere secondo i puri principi di
diritto e che deve servire (nell’interiorità) da filo conduttore (da
norma) per ogni associazione reale che tenda a costituirsi in
un’essenza comune»96. È proprio in questa direzione regolativa che
si deve intendere lo scarto tra la persona rappresentativa e il popolo
sovrano, così come lo stesso contratto sociale: secondo questo infat-
ti, come semplice idea della ragione, il legislatore deve sentirsi ob-
bligato a «fare le leggi come se esse dovessero derivare dalla volon-
tà comune di tutto il popolo»97. Come si è visto a sufficienza, ciò è
esattamente il contrario dell’affermazione secondo cui è tutto il po-
polo, empiricamente inteso, a legiferare, come il concetto di demo-
crazia in senso stretto implicherebbe.
In questo quadro in ogni caso la Regierung in senso proprio è
l’insieme del reggente e dei ministri che dipendono dai suoi decreti
e svolgono la funzione di amministrazione dello Stato (Staatsver-
waltung o gubernatio)98. Il potere, sostanzialmente unico, è legato
alla volontà del corpo comune espressa nel legislativo. Il potere e-
secutivo è, come il termine esprime, solo secondario e dipendente, è
solo concentrazione della forza per effettuare le volontà del sovra-
no: è appunto vollziehende, ausübende Gewalt. Non è più né ele-
mento di guida della comunità, né istanza che è da altre controllata
e bilanciata.
La concezione kantiana del potere è dunque, con una sua speci-
ficità, interna al processo di pensiero dominato dal problema della

96 Cfr. ancora il § 45 della Rechtslehre cit.


97 Über den Gemeinspruch cit., p. 297; trad. it. cit., p. 262.
98 Cfr. Rechtslehre cit., § 49, p. 316; trad. it. cit., p. 503.

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3. Fine del governo e nascita del potere 119

sovranità in senso moderno. Termine chiave è quello di sovranità,


che implica la dimensione collettiva del popolo, il quale, essendo
inteso come unità di individui uguali, ha un carattere ideale e non
può esprimersi se non attraverso il principio rappresentativo. Che
colui che detiene il potere abbia una funzione rappresentativa, si-
gnifica che non governa gli altri nel senso antico, ma piuttosto che
esprime una volontà universale, la volontà dell’intero popolo. Il go-
verno viene così a prendere un carattere meramente esecutivo: si
tratta di porre in atto quella volontà universale, che permette uno
spazio uguale a tutti i cittadini, e dunque uno spazio in cui essi e-
strinsecano la loro volontà privata e la loro libertà, che è appunto
quella libertà di movimento che è compossibile con la libertà degli
altri. Il carattere formale della costruzione giuridica è confermato
dalla separazione tra sfera interiore e sfera esterna, tra morale e po-
litica, tra pubblico e privato, tra la privata ricerca della felicità e la
pubblica difesa della sicurezza delle persone e della proprietà99.

3.7. Linee di tendenza e aporie

Lo sviluppo della scienza politica nella sua costruzione geometrica,


e cioè nel suo sforzo di legittimazione dell’obbligazione politica,
giunge con Rousseau e con Kant alla riduzione del governo a mero
potere esecutivo. C’è per altro da chiedersi fino a che punto tale
tentativo di sganciare il governo dall’aspetto di scelta e di direzione,
rendendolo subalterno alla volontà comune del corpo politico, mo-
stri una sua tenuta, sia dal punto di vista teorico, sia da quello della
realtà politica.
Una prima complicazione sopravviene già con il presentarsi del
pensiero politico hegeliano in tutto il corso del suo sviluppo. Hegel,
infatti, fin dagli anni giovanili – con l’attenzione rivolta significati-
vamente all’immagine della polis antica –, critica il concetto di po-

99 Tale rapporto tra rappresentanza e sovranità è peraltro problematizzata dallo


stesso Kant grazie alla funzione fondamentale che viene ad assumere l’idea: ciò
conferisce al concetto di rappresentanza una dimensione diversa da quella che
connota la logica della costruzione giusnaturalistica (su ciò si veda ora G. Duso,
Genesi e logica della rappresentanza politica moderna, in ID., La rappresentanza
politica. Genesi e crisi del concetto, FrancoAngeli, Milano 20032, sp. pp. 96-104.

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tere unitario costruito dalle teorie giusnaturalistiche, in quanto que-


ste danno luogo ad un concetto dimidiato dell’agire dell’uomo
(scisso tra sfera privata e sfera pubblica) e ad una concezione della
libertà ridotta all’ambito della sicurezza della vita e della società. In
questa costruzione, nonostante la formalizzazione e la neutralizza-
zione degli elementi personali, si ha pur sempre un rapporto di do-
minio e costrizione (Herrschaft und Zwang), in cui gli uomini sono
sottomessi, e contemporaneamente isolati tra loro, in quanto hanno
perso quel comune lavoro per l’idea che caratterizzava lo spirito
dell’antica repubblica100.
Fin dagli anni della formazione, emerge la necessità teorica di
coniugare insieme l’aspetto della socialità con quello della parteci-
pazione alle istanze di direzione e di governo dello Stato. Ciò porta
innanzitutto ad una critica della costruzione giusnaturalistica, che è
insieme anche critica all’idea di rappresentazione come espressione
della volontà comune101. La rappresentanza è intesa come parteci-
pazione delle cerchie della società, dunque delle parti, a quella i-
stanza unitaria e centrale che caratterizza lo Stato. Il potere gover-
nativo (Regierungsgewalt) rappresenta questo momento di centrali-
tà, anche se ha a che fare – in quanto comprende in sé i poteri giu-
diziari e di polizia – con l’elemento particolare della società civi-
le102. È ben vero che il potere governativo comporta un aspetto ese-
cutivo di ciò che si determina nella forma di legge, ma è anche vero
che esso richiede, come anche il potere legislativo, un’istanza deci-
siva, che è ravvisata nella fürstliche Gewalt. È in essa che la sovra-

100 Cfr., per la direzione della riflessione politica dello Hegel giovane, il mio Frei-
heit, politisches Handeln und Repräsentation beim jungen Hegel, in Rousseau, die
Revolution und der junge Hegel, Veröffentlinchungen der Internationalen Hegel-
Vereinigung, hrsg. H. F. Fulda u. P.Horstmann, Klett-Cotta, Stuttgart 1991, pp.
242-279.
101 Rimando a due miei saggi: per la critica hegeliana del giusnaturalismo, La cri-
tica hegeliana del giusnaturalismo nel periodo di Jena, in Il contratto sociale cit.,
pp. 311 sgg., e, per il significato che viene a prendere la rappresentanza, a La rap-
presentanza politica e la sua struttura speculativa nel pensiero hegeliano, in
«Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 18 (1989), pp.
43-75.
102 Cfr. G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, ed. Hoffmeister
19554; trad. it. ora a cura di G. Marini, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza,
Roma-Bari 1987, p. 287

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3. Fine del governo e nascita del potere 121

nità dello Stato si esprime, attraverso un individuo, che è il monar-


ca.
Nella concezione hegeliana l’agire del monarca non porta a
compimento azioni di cui tutti sono autori, ma esprime un’istanza di
decisione, che non può essere il semplice risultato oggettivo ed au-
tomatico della volontà comune103. Perciò le parti della società sono
in rapporto di partecipazione nei confronti di questa istanza centra-
le, che appare decisiva. In questo modo Hegel configura il proble-
ma dello Stato moderno, consistente nella difficile e non scontata
mediazione della decisione che mantiene l’unità dello Stato, e delle
istanze plurali di aggregazione, nelle quali i singoli individui sono
realtà concrete.
Il pensiero hegeliano non è certo riducibile ai problemi di inge-
gneria costituzionale e alle aporie tipiche che caratterizzano la mo-
narchia costituzionale – il cui fondamento è cercato da una parte nel
vincolare il monarca alla costituzione e dall’altra nell’indicare la
costituzione come prodotto del monarca104 – tuttavia alcuni elemen-
ti dello Stato da lui descritto sono propri della struttura della mo-
narchia costituzionale. In questa infatti il Monarca appare a capo
del governo così come del potere legislativo, e la rappresentanza
cetuale appare come una collaborazione alla produzione della legge,
e come un controllo delle parti sociali su alcuni aspetti
dell’amministrazione. In questo quadro l’unità statale non risiede
nella volontà sovrana espressa dal legislativo, né questo è riducibile
alla volontà popolare.
All’interno della vicenda della monarchia costituzionale, quale
si concretizza nella situazione tedesca, è possibile che si tenti un
rapporto tra un uso ampio del termine di Regierung, inteso come

103 Cfr., sul ruolo sistematico del monarca, C. Cesa, Entscheidung und Schicksal:
die fürstliche Gewalt, in Hegels Philosophie des Rechts, hrsg. D. Henrich u. P.
Horstmann, Stuttgart 1982, pp.185 sgg.; B. Bourgeois, Le prince hégelien, ora in
Id., Etudes hégéliennes. Raison et decision, PUF, Paris 1992, pp. 207-238; il mio
La rappresentanza politica e la sua struttura speculativa cit., e M. Alessio, Azione
ed eticità in Hegel. Saggio sulla «Filosofia del diritto», Guerini, Milano 1996, pp.
175 sgg.
104 Cfr. E.-W. Böckenförde, Der deutsche Typ der konstitutionellen Monarchie im
19.Jahrhundert, in Staat, Gesellschaft, Freiheit, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1972,
pp. 112-145.

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122 Giuseppe Duso – La logica del potere

esercizio del potere complessivo dello Stato, e un uso più ristretto,


in cui la Regierungsgewalt è intesa come il potere esecutivo: aven-
do la legge un carattere teorico e universale, il potere statale appare
concentrarsi nell’uso della forza e nell’applicazione della legge:
perciò questo senso più ristretto del potere esecutivo prenderebbe a
sua volta la denominazione di Regierung, che è solitamente usata
nel senso più ampio105. Ma è anche d’altra parte concepibile
un’accentuazione della posizione del monarca e un’indicazione
dell’attività di governo come eccedente la funzione meramente ese-
cutiva della legge e richiedente un’attività creatrice e produttiva106.
In ogni caso il governo viene a prendere una caratteristica irriduci-
bile alla mera funzione positiva e implica scelta e decisione. In ciò
riemerge l’elemento politico che rende l’azione di governo irriduci-
bile alla semplice amministrazione107.
Tuttavia il quadro teorico delle moderne costituzioni tende a ri-
presentare lo schema secondo cui nella legge si manifesta la volontà
del popolo, mediante i suoi rappresentanti, e il governo ha un com-
pito solo esecutivo di questa volontà. Ciò a maggior ragione dal
momento che nelle democrazie di massa si è estesa la forma del go-
verno parlamentare e dunque di un governo che dipende dalla vo-
lontà e dagli equilibri del parlamento, al quale deve rispondere.
In ogni caso, in un quadro teorico che non ha ancora abbandona-
to le categorie legittimanti della filosofia politica moderna che ruo-
tano attorno al concetto di sovranità, la non riducibilità del governo
al potere esecutivo è pur sempre all’interno della concezione mo-
derna della rappresentanza. Basti, a verifica di ciò, rendersi conto
del ruolo della rappresentanza all’interno delle costituzioni contem-
poranee. Il problema riguarda ancora il modo e il luogo in cui la
rappresentazione si manifesta: quello del legislativo o insieme an-

105 Cfr., a proposito della posizione sullo Stato di Karl Salomo Zachariä, Sellin,
Regierung cit., p. 376.
106 Cfr. J. Stahl, Die Philosophie des Rechts nach geschichtlicher Ansicht, Bd II,
2, Heidelberg 1837 (cfr. Sellin, Regierung cit., pp.378-379). Sul principio monar-
chico in Stahl cfr. C. De Pascale, Sovranità e ceti in Friedrich Julius Stahl, in
«Quaderni fiorentini», 13 (1984), pp. 407-430.
107 Si pensi al rapporto tra politico e amministrativo nel pensiero weberiano.

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3. Fine del governo e nascita del potere 123

che quello del governo108. Il tema del potere e dell’unità politica


mette da parte l’antico concetto di governo109, e la legittimazione
rimane centrale e sempre legata al problema di una volontà ormai
assolutizzata, e al gioco del rapporto tra volontà generale e volontà
individuali, o a una volontà media, come mediazione tra le parti,
che si esprime pur sempre nell’unicità della legge.
Ci si può tuttavia chiedere se tale quadro legittimante non sia di
ostacolo per la comprensione di una realtà politica in cui ci sono
pur sempre parti che esercitano dominio e guida e in cui ci sono
molteplici modi di interpretare l’idea di giustizia. Tuttavia
l’emergere di tali elementi appare come perturbante l’assetto legit-
timante della teoria moderna, e richiede non tanto di riattualizzare
l’antico concetto di governo, quanto piuttosto di riaprire la forma
politica a quel problema del giusto, che questa forma ha esorcizzato
non solo alle origini della filosofia politica moderna, ma anche in
quella fase ulteriore in cui la razionalità formale ha trovato il suo
contraltare nell’affermazione del politeismo dei valori.

108 Cfr., a questo proposito, la posizione di Carl Schmitt, uno dei teorici che mag-
giormente hanno contribuito a mettere in luce la struttura e la centralità del concet-
to di rappresentazione. Egli tende ad identificare la rappresentazione con la Regie-
rung, intesa nel senso ampio della direzione e del comando, e vede la democrazia
come espressione del principio della diretta presenza del popolo, e dunque del
principio di identità, come tendente ad una riduzione di rappresentazione e perciò
anche di Regierung. Si veda su ciò il § 16 della Dottrina della costituzione cit.,
spec. p. 284; ma si vedano, a complicazione di ciò, i paragrafi successivi dedicati
alla democrazia e all’elemento politico in essa racchiuso. Di Schmitt si veda anche
Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus, Duncker & Hum-
blot, Berlin 1923, dove, quanto più la legge si carica del senso dell’universale e
quanto più, nel dibattito liberale, diventa mediazione delle diverse ragioni delle
parti, tanto più l’esecutivo perde il carattere di mera esecuzione per rivelarsi anche
azione e decisione.
109 Far rivivere questo concetto all’interno dello Stato moderno (si prenda ad e-
sempio D. Sternberger in alcuni suoi saggi: cfr. ora in trad. it. Immagini enigmati-
che dell’uomo, Il Mulino, Bologna 1991, spec. pp. 161-172) appare un’operazione
concettualmente spuria, come pure quella di alcune posizioni interne alla cosiddet-
ta riabilitazione della filosofia pratica.

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4. Alle origini del moderno concetto di società


civile

4.1. La societas civilis nella prima età moderna

Nella direzione di un lavoro teso a ricostruire la storia dei concetti


politici fondamentali, ben si intende che il concetto di «società» ri-
veste una particolare rilevanza, in quanto costituisce l’ambito in cui
i rapporti tra gli uomini vengono a prendere un loro significato de-
terminato. Quando oggi si usa comunemente il termine società, o
società civile, si intende riferirsi ad una realtà oggettiva che com-
prenderebbe i molteplici rapporti tra gli uomini, di vario tipo, eco-
nomico, culturale, religioso, rapporti nei quali i singoli individui si
muoverebbero liberamente al di là dei vincoli di un precostituito
status. In ogni caso, si intende indicare una rete di relazioni che non
sono politiche: per società civile si intende dunque una realtà ogget-
tiva, che si distingue e si contrappone a quella dello Stato, di cui co-
stituisce il fondamento e il fine. Un tale concetto non è certo uni-
versale e valido per tutti i tempi, ma è un tipico prodotto del pensie-
ro moderno: più precisamente viene ad articolarsi tra la fine del Set-
tecento e l’inizio dell’Ottocento1.
Presupposto per un tale significato dei termini e per la loro di-
stinzione è il concetto di società, come forma regolare e razionale
dei rapporti umani, che è elaborato nelle origini della scienza politi-
ca moderna. In questa, e cioè nell’ambito del diritto naturale, non è

1 Cfr. il classico saggio di O. Brunner, Il problema di una storia costituzionale eu-


ropea, in Per una nuova storia costituzionale e sociale cit., pp. 21-50 e la voce Ge-
sellschaft (bürgerliche), di M. Riedel, nei GG, Bd. II, pp.719-800.

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conveniente parlare di «società» come contrapposta al politico, e


neppure di «Stato» in senso proprio2, nozione che richiede il rap-
porto con una realtà altra, che sta alla sua base, e alla quale essa è
relativa: ragione per cui i due termini, nell’accezione sopra ricorda-
ta, sono di necessità vicendevolmente collegati. Societas civilis ha
qui piuttosto il senso dell’insieme dei rapporti tra gli uomini che
sono resi possibili da quell’elemento dell’obbligazione politica,
dell’imperium o della sovranità in senso moderno, che è il prodotto
di una costruzione razionale e che rende la convivenza tra gli uomi-
ni possibile e giusta.
In rapporto a questo concetto prodotto dalla scienza politica mo-
derna, ci si può interrogare su quali siano i modi della sua forma-
zione, gli elementi che sono in esso costitutivi, i presupposti teorici
che lo rendono possibile; infine ci si può chiedere se non si delinei
qui un contesto teorico così radicalmente diverso da quello della
tradizione di pensiero precedente da rendere gli strumenti concet-
tuali che in esso si formano – che stanno ancora alla base del nostro
modo di pensare – inadeguati alla comprensione del modo di inten-
dere la società e la politica che si sono avuti nel corso di molti seco-
li. All’interno di una tale problematica è significativo fermare la ri-
flessione su due figure del pensiero tedesco, Althusius e Pufendorf,
che appaiono particolarmente rilevanti non solo per la ricostruzione
della storia del pensiero politico europeo, ma anche per la compren-
sione della stessa logica che i concetti moderni vengono ad assume-
re, cioè del modo in cui essi funzionano nel loro rapporto reciproco
all’interno della teoria. A tema è dunque la concezione della socie-

2 L’uso, corrente nelle traduzioni e negli studi critici, del termine «Stato» a propo-
sito del Commonwealth di Hobbes (mentre il termine è nel Leviatano pressoché
inesistente), porta al rischio, facilmente verificabile, di affrontare il pensiero hob-
besiano mediante categorie come quelle di «statalismo» o di «totalitarismo», che
richiedono il passaggio attraverso processi teorici e reali che si avranno solo
nell’Ottocento e tradiscono la logica del ragionamento hobbesiano. È tuttavia da
ricordare che proprio nel pensiero hobbesiano sono state ravvisate le condizioni
teoriche per quella contrapposizione tra interno ed esterno, pubblico e privato, sul-
la base della quale si giungerà alla distinzione di società civile e Stato (mi riferisco
alla nota tesi di R. Koselleck, Kritik und Krise. Ein Beitrag zur Pathogenese der
bürgerlichen Welt, Karl Aber, Freiburg-München 1959, assai diffuso anche in Ita-
lia grazie alla tr. it. a cura di P. Schiera, Critica illuministica e crisi della società
borghese, Il Mulino, Bologna 1972).

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4. Alle origini del moderno concetto di società civile 127

tas civilis, in un momento delicato e importante di mutamento con-


cettuale, qual è quello che va dal primo ventennio del Seicento, in
cui si moltiplicano e si diffondono i trattati sistematici dedicati alla
politica, alla metà del secolo, in cui si assiste alla nascita della
scienza del «diritto naturale», che costituirà il nuovo modo di inten-
dere e fondare la pace e l’ordine tra gli uomini.
Molteplici sono i motivi dell’interesse per una tale riflessione.
Innanzitutto è da ricordare che la Politica di Althusius è un’opera
assai significativa all’interno di tutto un movimento di pensiero che
dedica alla definizione e alla trattazione della politica un particolare
interesse. C’è in questi anni la consapevolezza di trovarsi di fronte a
un’impresa nuova, che intende andare al di là delle precedenti trat-
tazioni della materia politica, che risultavano o legate all’intento
della formazione del principe o intrecciate con argomentazioni di
altro tipo, quali quelle giuridiche o teologiche3. La prima metà del
Seicento offre un ampio materiale, in buona parte ancora da sonda-
re, per la ricostruzione della dottrina politica e della trasformazione
del modo di intenderla che si ha nella prima età moderna. Quella di
Althusius è una delle diverse trattazioni che nascono nell’ambito
del calvinismo, e forse non è nemmeno quella che ha avuto maggio-
re diffusione e influenza. L’importanza ad essa dedicata, a partire
dal celebre lavoro di Otto von Gierke, potrebbe sembrare ingiustifi-
cata qualora si sia attenti solo al suo contesto storico; in realtà essa

3 Si veda la Prefatio alla prima edizione della Politica methodice digesta, et exem-
plis sacris et profanis illustrata, Herbornae Nassoviorum, ex officina Christophori
Corvini 1603, sul modo aforismatico e non sistematico delle trattazioni precedenti,
opera di filosofi, giuristi e teologi (p.2) e sull’impresa nuova e difficile a cui egli si
accinge nella trattazione della politica. Nella prefazione alla III edizione, più che la
convinzione della novità dell’impresa, emerge il problema della specificità della
sua trattazione della politica, evidentemente in rapporto alle diverse opere apparse
tra il 1603 e il 1614, tra le quali possiamo ricordare quelle di Casmann (del 1603),
Arnisaeus, von Hoen, Keckermann, Bornitz, Kirkner, Timpler, alcuni dei quali so-
no citati e criticati all’interno dell’opera (una vasta e approfondita presentazione
dei sistemi politici del primo Seicento in Germania si trova in M. Scattola, Impe-
rium virtutis. Idee della politica nell’età moderna, Franco Angeli, Milano 1999).
Questo significato hanno le precisazioni relative alle citazioni delle Scritture e dei
precetti del Decalogo, come alla necessità di tener conto nella trattazione della po-
litica dei capita majestatis (cfr. la Prefazione alla III della Politica, cit. alla nota 28
del III cap.).

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128 Giuseppe Duso – La logica del potere

emerge tra le altre non solo per la profondità e nitidezza del pensie-
ro, ma anche e sopratutto per il senso costituzionale che in essa si
ritrova, intendendo il termine non nel significato moderno, ma in
quello etimologico del complesso delle realtà associative che è og-
getto della politica.
Pufendorf, da parte sua, viene a costituire un importante punto di
passaggio e di diffusione del nuovo pensiero giusnaturalistico nel
mondo tedesco, e risulta alla base della stessa posizione di Thoma-
sius, che eserciterà una notevole influenza. Tanto più è significativa
la sua versione del pensiero giusnaturalistico e del fondamento del
potere politico nel contratto sociale, quanto più il pensiero di Hob-
bes, nella crudezza della sua formulazione, appare alla quasi totalità
dei pensatori come inaccettabile. La logica che nasce nello scenario
contrattualistico quale è concepito da Hobbes, soprattutto per quan-
to riguarda il nesso sovranità-rappresentanza, condiziona, al di là di
ogni intenzione e spesso della stessa consapevolezza, lo sviluppo
del pensiero successivo, il quale cerca affannosamente di staccarsi
da assolutismo, pessimismo e individualismo, che sembrano scelte
teoriche gratuite di Hobbes, di cui si cerca di negare
l’indispensabilità ai fini del compito – accettato invece come comu-
ne – di deduzione razionale della forma della società. Uno dei tra-
miti per la diffusione della nuova logica della politica è costituito
dal pensiero di Pufendorf, che è sembrato privo di quella radicalità
e di quegli elementi negativi che caratterizzano il pensiero del Le-
viatano4, e dunque più accettabile, a causa del quadro non conflit-
tuale che caratterizza lo stato di natura, della dottrina degli enti mo-
rali, della scansione relativa ai vari atti con cui si costituisce il pat-
to, scansione che tende a introdurre possibilità e modalità per risol-
vere quel problema, difficilissimo nell’ambito del giusnaturalismo,
che è costituito dal controllo del potere. Tuttavia, è attorno alla
questione della forma politica e dunque del moderno concetto di
sovranità che ruota anche il suo pensiero, che va perciò sostanzial-
mente nella direzione della diffusione e non della limitazione di
quel contesto di concetti politici che nasce con Hobbes.

4 Si veda, a proposito del rapporto di Pufendorf con Hobbes, la tesi di F. Palladini,


Samuel Pufendorf discepolo di Hobbes, Il Mulino, Bologna 1990.

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4. Alle origini del moderno concetto di società civile 129

Se si tenta di affrontare all’interno di una medesima riflessione


due pensatori quali Althusius e Pufendorf, e più specificatamente il
loro modo di intendere la societas civilis, ci si trova di fronte a po-
sizioni interpretative del significato e della collocazione di Althu-
sius nel crogiolo di formazione della concettualità politica moderna
che risultano assai stimolanti. Si pensi innanzitutto al già ricordato e
noto lavoro di Otto von Gierke5, che pone Althusius alla base del
moderno giusnaturalismo, offrendo con ciò sia un’interpretazione
del pensiero di Althusius, sia un modo di intendere il moderno giu-
snaturalismo e dunque il senso dei concetti politici moderni, tra cui
quello di «Stato», che compare anche nel titolo della sua celebre
opera. Ma è da tener presente anche la tesi di chi, giustamente at-
tento alla complessa costituzione della realtà politica, ravvisa nel
pensiero di Althusius quell’elemento associativo e cooperativo che
verrebbe a costituire uno dei pilastri della realtà politica moderna,
accanto a quello del potere, espresso con la massima chiarezza da
Hobbes6. Pur rendendomi conto dello spessore teorico di entrambe
queste posizioni interpretative, debbo tuttavia distanziarmi da esse
per quanto attiene la comprensione dei contesti concettuali determi-
nati in cui i due autori si muovono per pensare la politica.
Avanzo allora fin dall’inizio, in modo forse troppo netto, una te-
si7. Non solo i due autori in questione non sono complementari in
una linea di sviluppo di pensiero, ma rappresentano al contrario due
momenti assai emblematici per comprendere la svolta che si viene a
determinare con la nuova scienza politica inaugurata dal giusnatura-
lismo moderno. Ci troviamo cioè di fronte ad un passaggio epocale.
Mentre nel primo ventennio del Seicento si pensa la politica con
declinazioni diverse, ma sempre in riferimento a un quadro di ma-
trice aristotelica, che vede al centro la prudenza, e dunque il com-
portamento virtuoso del politico, e il problema del vivere bene, con

5 von Gierke, Johannes Althusius, cit.


6 Un tale atteggiamento può trovare il suo fondamento nel modo in cui Otto Hintze
legge la nascita della politica moderna: cfr.O. Hintze, Stato e società, Zanichelli,
Bologna 1980, e l’introduzione di P. Schiera.
7 Per un’analisi complessiva che fonda tale tesi, si veda sempre, oltre a quanto qui
esposto, Duso (a cura di), Il contratto sociale nella filosofia politica moderna cit.,
soprattutto l’Introduzione, e il saggio di O. Mancini, Diritto naturale e potere civi-
le in Samuel Pufendorf, pp. 109-148.

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130 Giuseppe Duso – La logica del potere

Pufendorf abbiamo non tanto una trasformazione di questo contesto


di pensiero, ma la nascita di un nuovo quadro, in cui la politica è
soppiantata da un ragionamento che tende a costruire ex novo, ra-
zionalmente, il potere politico. L’insegnamento della politica non
muore e continua ad essere impartito anche nelle Università, ma per
risolvere il problema dell’ordine e della pace è ora necessaria la
nuova scienza del diritto naturale8. In questo quadro i termini pre-
cedentemente usati vengono a mutare il loro significato, in quanto
si vengono a trovare all’interno di un diverso contesto concettuale.
Possiamo dire non tanto che assistiamo al mutamento all’interno di
un concetto, come quello di società, che mantiene una sua unità, ma
piuttosto alla nascita di una nuova costellazione concettuale9.
Il modo di concepire il nesso sociale permette di verificare la ra-
dicalità di tale passaggio. Qui intendo fermare l’attenzione soprat-
tutto sulle due nozioni centrali per i due autori, quella althusiana di
consociatio e quella pufendorfiana di socialitas; esse non sono o-
mogenee tra loro, non si pongono come simmetriche e sullo stesso
piano, ma, anche per questo, appaiono rilevanti per il diverso signi-
ficato che viene ad assumere la società. In Althusius, infatti, la con-
sociatio, l’associazione in tutte le sue declinazioni, è una struttura
oggettiva, che permette di intendere la natura sociale dell’uomo, nel
senso che solo nel rapporto sociale determinato l’uomo è quello che
è: non è pensabile come astratto individuo, ma solo nell’insieme dei
legami che costituiscono il suo status, e dunque nelle differenze che
lo connotano. Perciò la scienza politica si mette in rapporto con le
molteplici configurazioni del legame consociativo che si danno nel-
la complessa realtà della società cetuale. Si tratta cioè di compren-
dere la realtà esistente10, pensata filosoficamente e cioè in relazione
al problema del bene e della vita giusta.

8 Sull’insegnamento della politica nelle Università e sul diffondersi della nuova


disciplina del diritto naturale si tengano presenti i saggi di H. Maier citt. al cap. III,
n. 41.
9 Tale nascita non si ha per altro a partire da Pufendorf, ma da Hobbes, anche se
Pufendorf rappresenta una tappa dotata di una sua specificità all’interno del cam-
mino della scienza politica moderna.
10 Si ricordi l’importanza attribuita da Althusius già nella prima edizione della
Politica all’esperienza, che riguarda non solo la realtà dei rapporti in cui gli uomini
si trovano (come dimostrano i mutamenti radicali tra la prima edizione e quelle

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4. Alle origini del moderno concetto di società civile 131

Per quanto riguarda invece Pufendorf, è significativa l’importan-


za conferita ad un termine come quello di socialitas. Questa è ne-
cessaria per uscire dall’individualismo ossessivo che caratterizza la
costruzione hobbesiana, non solo nello stato di natura, ma anche, e
ancor più, in quello stato di natura realizzato che è la società, in
quanto quella di individuo nella sua autonomia è l’astrazione realiz-
zata dal potere politico11, che garantisce uno spazio in cui tutti sono
liberi in quanto isolati, in quanto cioè si muovono in una direzione
che non si incrocia pericolosamente con quella degli altri. Tuttavia
l’indicazione di Pufendorf non ci riporta ad un contesto in cui il
rapporto sociale è strutturale per natura. Al contrario: socialitas, in
qualsiasi modo la si voglia interpretare – legge naturale, dovere,
compito o necessità razionale –, in ogni caso non descrive una strut-
tura oggettiva in cui l’individuo è inserito, ma piuttosto è un ele-
mento soggettivo caratterizzante la natura umana in quanto natura
dell’individuo. Proprio in quanto tendenza a costituire la società, la
socialitas è qualcosa di individuale, che conferma il ruolo fondante
del concetto di individuo e il senso derivato della società, che è così
costruzione razionale, resa possibile solo mediante quell’accumulo
di forza che è richiesto dal moderno concetto di sovranità. Solo
mediante l’immane forza del potere politico la socialitas può trova-
re soddisfazione ed avere realtà. Ma se è così, a causa della ferrea
logica della sovranità e della moderna rappresentanza, non si ha una
struttura di rapporti tra gli uomini che sono riconosciuti nella loro
piena politicità: questi rapporti vengono piuttosto ad assumere il si-
gnificato negativo della privatezza, in quanto la scena pubblica è
riempita solo dall’esercizio del potere politico. In tal modo la no-
zione di socialitas, anche se sembra opporsi all’individualismo inte-
so come possibile opzione antropologica, finisce tuttavia con il con-
fermare l’individualismo nella sua portata concettuale-politica, con-
sistente cioè nel ruolo logico dell’individuo ai fini della costruzione
della forma politica. Paradossalmente si potrebbe allora parlare del-

successive legate all’attività di Althuisus come Syndicus di Emden), ma anche gli


insegnamenti dei maestri e le consuetudini del diritto, che costituiscono un mate-
riale fondamentale, anche se da elaborare mediante un pensiero critico («more so-
cratico» dice Althusius).
11 Cfr. A. Biral, Hobbes: la società senza governo cit. p. 86.

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la socialitas come negazione della originarietà della societas, alme-


no se a quest’ultima si conferisce il significato che ha nella prece-
dente tradizione di pensiero quale quella della Politica di Althu-
sius12.

4.2 La consociatio in Althusius e il significato politico


dell’agire degli uomini

Quando si affronta la Politica di Althusius bisogna tenere desta la


coscienza critica riguardo ai concetti che si usano
nell’interpretazione: altrimenti, come spesso accade, si può cedere
alla tentazione di affermare che, a causa della centralità attribuita
all’elemento associativo, egli pensa la società e il rapporto sociale
piuttosto che lo Stato e il rapporto di obbligazione politica, e dun-
que ciò che nel moderno si è soliti intendere come lo specifico della
politica. Bisogna in realtà comprendere che cosa è politica in Al-
thusius, perché dunque siano in essa temi centrali la consociazione
e la vita simbiotica, e come l’elemento dell’imperium non sia risol-
vibile nel rapporto formale di obbligazione politica, ma piuttosto
costituisca una dimensione intrinseca al modo di intendere appunto
la società e la consociazione13.
Nell’apertura di una Disputatio politica che anticipa i principali
temi del pensiero politico althusiano e precede di un anno la pubbli-
cazione della Politica methodice digesta14, troviamo subito, quasi a
costituire la porta di ingresso alla politica, l’affermazione «homo
est animal politicum», affermazione che è naturalmente accompa-
gnata dal rimando alla Politica di Aristotele. Ciò è assai significati-

12 Nella presente trattazione le posizioni risultano forse troppo radicalizzate, trala-


sciando anche fili di continuità, ma ciò permette di considerare con più chiarezza
sia la diversità degli assetti concettuali, sia i problemi teoretici che attraverso tale
differenza si pongono.
13 Cfr. sulla nozione di governo in Althusius il cap. precedente.
14 Mi riferisco alla Disputatio politica De regno recte instituendo et administran-
do, discussa sotto la presidenza di Althusius da Hugo Pelletarius Aquisgranensis,
Herbornae Nassoviorum, ex officina Christophori Corvini 1602; il testo della Di-
sputatio è riprodotto, con una ricognizione delle fonti da parte di M. Scattola e due
saggi di M. Stolleis e G. Duso, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero
giuridico moderno», 25 (1997).

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4. Alle origini del moderno concetto di società civile 133

vo per l’orizzonte in cui si muove il pensiero politico di Althu-


sius15. Ciò che qui importa è sottolineare che l’affermazione della
politicità dell’uomo che apre la Disputatio e che si ritrova, con
qualche variazione linguistica, nel primo capitolo della Politica,
nelle sue diverse edizioni16, offre una prima indicazione in relazio-
ne al campo complessivo di orientamento all’interno del quale Al-
thusius pensa la politica, se si tiene presente quella modificazione
radicale del modo di intenderla che è stata sopra ricordata. Pur nella
differenza delle situazioni storiche e dei contesti culturali, il riferi-
mento al pensiero aristotelico appare in Althusius ancora utile per
intendere il significato e il terreno propri della politica.

15 Non intendo sottovalutare le differenze tra il pensiero di Althusius e quello di


Aristotele già accennate precedentemente, né affrontare il complesso problema del
rapporto specifico di Althusius con Aristotele, nel quadro dei diversi aristotelismi
che caratterizzano le politiche del primo Seicento, e nemmeno affrontare la que-
stione se il metodo di Ramo, ben presente a Herborn, abbia rilevanza nella struttura
della Politica o influenzi solo lo schema politicae, essendo accettato come Darstel-
lungsform piuttosto che come philosophisches Erkenntnisprinzip (questa seconda è
l’ipotesi di P. J. Winters, Die «Politik» des Johannes Althusius und ihre zeitgenös-
sischen Quellen, Rombach, Freiburg 1963, pp.10 e 134). Quello che qui appare
utile è indicare come, in ogni caso, il quadro in cui Althusius pensa la politica sia
altro da quello proprio del diritto naturale di Pufendorf, il quale si trova sostan-
zialmente già nell’alveo del modo moderno di intendere i concetti politici.
16 È da ricordare la grande diversità tra la prima edizione della Politica, pubblicata
sempre dall’editore Corvinus a Herborn nel 1603, e le successive: la seconda, pub-
blicata a Groningae 1610 (e anche ad Arnheim) e la III del 1614 (cfr. n.28 del III
cap.; a questa edizione rimanderemo nel presente capitolo), che è quella in cui
l’opera prende la sua veste definitiva. La differenza riguarda non solo l’estensione
del testo, che viene a raddoppiarsi, a causa delle nuove parti inserite, come quelle
relative al governo della città e alla costituzione provinciale e territoriale, e la di-
slocazione e l’ampliamento della trattazione di alcuni temi come quelli degli Efori
e della tirannide, ma anche la struttura metodologica e il rapporto con campi disci-
plinari come quello della teologia e del diritto: perciò a buona ragione nella Prefa-
zione alla terza edizione Althusius mostra la consapevolezza di aver dato corpo ad
una nuova opera. Tutto ciò rende necessario un lavoro che confronti tra loro le di-
verse edizioni, in particolare la prima e la terza, anche per capire come e fino a che
punto la Politica di Althusius influenzi le opere che nascono immediatamente dopo
la prima edizione del 1603, e quanto la riflessione su queste ultime comporti preci-
sazioni e variazioni dell’assetto della Politica nelle edizioni successive.

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134 Giuseppe Duso – La logica del potere

La politicità della natura umana non vuole solo affermare la pre-


disposizione che l’uomo ha per la vita in comune17, ma piuttosto
indica un orizzonte di pensiero in cui l’uomo è quello che è solo
nelle strutture comunitarie in cui è inserito: solo in queste può vive-
re bene, esplicare la sua virtù e quindi realizzare se stesso: e proprio
ciò costituisce il fine della politica. Tutte le opere di politica di que-
sto periodo si impegnano con puntiglio a definire cosa sia la politi-
ca nel senso del trattato di politica, se sia cioè scienza, arte o pru-
denza, e così pure a determinare quale sia l’oggetto e il fine della
politica. Se si esaminano queste diverse trattazioni si può notare da
una parte che il riferimento alla definizione aristotelica dell’uomo
costituisce un elemento canonico che compare dovunque, dall’altra
tuttavia che la Politica di Althusius si caratterizza per la centralità
attribuita all’elemento associativo18. Althusius è forse l’unico che
con forza e decisione ponga come oggetto della politica
l’associazione in quanto tale, o, secondo il suo linguaggio, la con-
sociatio19. La vita associativa in tutte le sue forme è l’oggetto della
politica: non solo allora la più alta e completa comunità politica, il
regno o la repubblica, ma anche le forme minori, e anche quelle che
in rapporto alla repubblica sono definite come forme «private» di

17 Certo c’è anche questa indicazione, secondo la quale il singolo uomo, in quanto
animal politicum o civile, a causa della sua stessa natura tende alla consociazione
(cfr Politica, I, 34: cito dalla III ed.), ma il senso più forte dell’espressione consiste
nel fatto che l’uomo non è pensabile fuori della struttura associativa, come per Ari-
stotele non è concepibile fuori della polis, perché in tal modo è idion, e non realiz-
za la sua natura.
18 Ciò emerge anche dalla rassegna che fa Timpler sui modi di intendere la politi-
ca: delle dodici definizioni ricordate, l’elemento associativo è centrale solo in una,
che in realtà è quella che riprende la definizione che apre la Politica di Althusius:
essa consiste infatti nella «ars homines ad vitam socialem constituendam & con-
servandam consociandi» (cfr. Clemens Timpler, Philosophiae practicae pars tertia
et ultima complectens politicam integram, Hanoviae 1611: si tratta della terza parte
di Philosophiae practicae systema methodicum; in tres partes digestum).
19 Cfr. Politica, I, 2. Solitamente come oggetto della politica è indicata la respu-
blica o la civitas. Contro la proposta althusiana di intendere la respublica come
consociatio si esprime Arnisaeus (Henning Arnisaeus, De Republica seu relectio-
nis politicae libri duo, Frankfurt 1615; editio nova in H. Arnisaei operum politico-
rum, Argentorati, Sumptibus Haeredum Lazari Zetzneri, 1648; si veda in particola-
re il libro secondo, De republicis in genere et specie, p.293).

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4. Alle origini del moderno concetto di società civile 135

associazione: anche queste sono oggetto della politica20. Se il fine


dell’uomo politico è «sancta, justa, commoda & felix symbiosis, &
vita nullâ re necessariâ vel utili indigens»21, allora questo fine non è
raggiungibile se non nella vita comunitaria, in comunità con gli al-
tri, e perciò il termine di symbiosis, che è presente nella sua versio-
ne greca nella prima edizione, viene nelle edizioni successive ad es-
sere usato di continuo e a caratterizzare la trattazione della politica:
così il termine «simbiotico» è utilizzato spesso nei luoghi in cui nel-
la prima edizione si trova quello di «politico».
Anche quando, dopo il dibattito suscitato dalla prima edizione e
in presenza ormai di una ridda di definizioni della politica, Althu-
sius definisce – come si è già ricordato –, seguendo Plutarco, tre si-
gnificati del termine, il primo riguarda la communicatio juris.

20 Già qui si può notare la differenza da Aristotele, non solo perché è affermato il
significato politico di tutte le diverse associazioni, ma anche perché la famiglia è
trattata all’interno dell’opera dedicata alla politica. Se sia giusto considerare la fa-
miglia nella Politica o nella Oeconomica, o in ambedue le discipline, a seconda
che il tipo di considerazione riguardi aspetti privati o pubblici (così ad esempio
Arnisaeus, che si oppone a Keckermann in De Republica, libro primo, dedicato a
De civitate et familia, p.4) è per altro un argomento che rientra spesso nelle tratta-
zioni politiche del tempo. Ciò che in ogni caso è qui importante chiarire è che indi-
care come «private» l’associazione familiare e domestica e quella civile della cor-
porazione non comporta il loro non avere senso e rilevanza politica, come avviene
all’interno della dicotomia pubblico-privato che si ha con il moderno concetto di
sovranità. «Privato» non si oppone a «pubblico» nel senso di «politico», ma piutto-
sto indica la sfera dell’unione in cui i singoli entrano per scelte riguardanti persone
specifiche (come nella famiglia), oppure interessi particolari, non propri di tutti
(come nelle corporazioni). Tuttavia tali forme associative hanno significato politi-
co e sono oggetto della politica, in quanto è l’associazione in quanto tale l’oggetto
della Politica, com’è affermato nell’apertura dell’opera. È inoltre da ricordare che
le associazioni private sono necessarie e presupposte a quelle pubbliche, le quali
non sono caratterizzate da quell’unità e da quell’omogeneità che saranno proprie
della sfera pubblica-politica nel giusnaturalismo successivo: infatti, già nello
Schema politicae la distinzione tra associazioni private e pubbliche si specifica in
questo modo: da una parte si ha la consociatio simplex privata, e dall’altra quella
mista publica. Dunque la consociazione pubblica è caratterizzata dall’essere «mi-
sta», composta dunque di parti, che sono a loro volta associazioni: essa dunque
implica per la propria costituzione le associazioni «private», che sono dotate di
significato politico. La trattazione infatti dell’associazione civile pubblica porta al
suo inizio la definizione: «consociatio publica est, quâ plures consociationes priva-
tae, ad politeuma constituendum, consociantur» (Politica, V, 1).
21 Ivi, I, 3.

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136 Giuseppe Duso – La logica del potere

L’aspetto del vivere in comune e comunicare i beni è dunque fon-


damentae, ed ha un carattere di azione piena: la koinonia è collegata
al termine di koinopraxia e dunque all’azione in comune. Al centro
della politica sta dunque l’agire in comune: l’agire di tutti è politi-
co, sia quello di coloro che stanno alla guida della associazione, sia
quello di coloro che sono governati, ma non perciò sono semplice-
mente passivi, o individui privati. Questa dimensione comunitaria
caratterizza tutte le scansioni della politica, tutte necessarie per il
vivere e il vivere bene e, si potrebbe dire, tutte legate ad un ambito
reale, che è oggetto della riflessione, in quanto intendere la naturali-
tà dell’elemento sociale significa anche riflettere necessariamente
sulle forme associative che si presentano nella realtà: come Aristo-
tele riflette filosoficamente sulla polis che si dà nell’esperienza (il
che non significa certo che l’assume tale e quale dalla realtà empiri-
ca), così Althusius riflette sulla complessa e pluralistica realtà ce-
tuale che lo circonda22. È all’interno di queste forme associative, in
relazione cioè al loro status, che gli uomini hanno il loro significato
politico e partecipano alla vita politica, sia direttamente, a causa
della politicità della cerchia nella quale vivono, sia indirettamente,
attraverso la partecipazione alla vita della più alta e autosufficiente
forma di comunità politica, qual è la consociatio universalis, o re-
gno, o repubblica.
Non è tuttavia possibile intendere tale dimensione come solo so-
ciale, usando in tal modo il termine «sociale» nel modo in cui è se-
dimentato nel nostro linguaggio, con un significato che, come si è
detto, sorge tra Sette e Ottocento e non è riportabile a contesti quali
quello althusiano. Non solo infatti questo della «comunicazione» è
il primo senso della politica, ma la società è per natura proprio in

22 Questa importanza attribuita da Althusius all’esperienza (si veda n. 10) è signi-


ficativa per intendere il modo in cui è concepita la scienza, o l’arte della politica,
che non si può certo ridurre alla costruzione razionale del giusnaturalismo succes-
sivo, in cui ex novo si costruirà la forma politica: mediante il pensiero di uno stato
di natura, quest’ultimo tenderà ad astrarre proprio dalle condizioni reali in cui gli
uomini si trovano nella società, in quanto giudicate ingiuste e irregolari. Bisogna
riflettere sul significato specifico che viene ad avere in Althusius il sapere della
sfera pratica, quando si sente parlare, in rapporto alla Politica, di «trattazione
scientifica», quasi a volerne indicare la modernità a causa di una trattazione siste-
matica che sarebbe autonoma in rapporto alle verità morali e religiose.

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4. Alle origini del moderno concetto di società civile 137

quanto è per natura anche l’azione di governo, la quale è così poco


una dimensione diversa e opposta da quella ora considerata, da es-
sere essa stessa indicata come una forma di comunicazione del be-
ne23.
Inoltre bisogna tenere presente l’irriducibilità della convivenza
degli uomini e dell’imperium che si esercita nella realtà politica più
ampia, quella della respublica o del regnum, all’omogeneità di un
piano unitario: la società cioè non costituisce una unità. Con la Po-
litica di Althusius ci si trova di fronte a una realtà complessa, in cui
ogni manifestazione di un corpo politico – città, provincia, regno –
è costituita da varie parti ed associazioni. A ogni livello si assiste
cioè all’opera di accordo e di unificazione di realtà diverse tra loro,
che nell’unificazione mantengono la loro identità e la possibilità di
esprimere, mediante gli organi rappresentativi, la loro volontà. Que-
sta non viene assorbita dalla volontà unitaria del corpo di cui le as-
sociazioni sono membra, né viene per altro ridotta a volontà priva-
ta, che richieda un piano diverso e insieme si contrapponga ad esso,
quello cioè politico, da cui verrebbe difesa e garantita.
Per comprendere questo quadro nella sua specificità si devono
tenere presenti due aspetti, che risultano di difficile intendimento
per il nostro modo moderno di pensare: 1) il concetto di individuo
non svolge un ruolo determinante in relazione al funzionamento
complessivo della politica; 2) la volontà non è l’elemento fondante
il rapporto politico, né per quanto riguarda l’espressione della legge
come comando, né per quanto riguarda la subordinazione e
l’obbedienza. Per il primo aspetto è da ricordare innanzitutto che, ai
vari livelli della costruzione, Althusius ricorda che i vari membri
23 Cfr. Politica, I, 34. Sull’interpretazione dell’imperium nel significato del gover-
no cfr. il cap. precedente. Da quanto detto non appare condivisibile
un’interpretazione come quella avanzata da Dreitzel nel suo importante lavoro su
Arnisaeus, secondo la quale l’elemento dell’imperium, in quanto politico, va di-
stinto da quello sociale, cosa che intenderebbe Arnisaeus, il quale si innalzerebbe
al concetto di Stato, e non invece Althusius, che sarebbe piuttosto un pensatore
della società (cfr. H. Dreitzel, Protestantische Aristotelismus und absoluter Staat,
Franz Steiner Verlag, Wiesbaden 1970, ad esempio pp. 135 e 146). A prescindere
dall’uso delle categorie di «Stato» e «società», non pertinenti, nel significato ad
esse attribuito, all’epoca a cui ci riferisce, è lo stretto intreccio delle due dimensio-
ni in cui consiste la politica per Althusius che in tal modo rischia di venire frainte-
so.

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138 Giuseppe Duso – La logica del potere

del corpo politico non sono i singoli, ma, a loro volta, associazioni,
sia pubbliche che private24. Ciò significa che l’essere membri del
corpo politico da parte dei singoli non consiste in un loro essere po-
sti, in quanto singoli, di fronte alla volontà unitaria del corpo intero,
ma piuttosto nel loro essere parte di una cerchia che si esprime, in
quanto tale, all’interno del corpo complessivo, in cui è presente con
una propria dignità, una propria volontà e con specifici bisogni.
Non abbiamo cioè la contrapposizione-unità che si affermerà suc-
cessivamente di cittadini singoli-società civile (o politica), ma piut-
tosto la partecipazione dei singoli uomini alla vita politica comples-
siva mediante la vita, che ha significato politico, della cerchia o del-
le cerchie di cui essi fanno parte.
Nemmeno nelle più semplici forme di associazione, come quella
della famiglia, il concetto di individuo ha un ruolo fondante. Certo,
i singoli intervengono direttamente per la costituzione della conso-
ciatio semplice e privata, sia questa la famiglia, di cui causa effi-
ciente sono appunto i singoli uomini che entrano nell’unione con-
traendo un patto25, sia essa un’associazione civile (ma pur sempre
semplice e privata) come è la corporazione, che pure si basa sul
consenso e sulla convergenza delle persone che ad essa danno vita,
per unità di lavoro, professione e interessi. Da una parte si può dire
che la diversità delle persone, la quale risulta invece annullata
dall’astrazione del concetto di individuo, è caratterizzante l’entrata
nella associazione (come è evidente per coloro che danno luogo alla
famiglia diventando coniugi) e che la diversità delle funzioni e dei
doveri caratterizza i membri della stessa, e dall’altra che la forma
associativa, il diritto simbiotico che la caratterizza e la sua necessità
per la vita buona dei singoli non si fondano sull’espressione di vo-
lontà degli stessi. A maggior ragione bisogna poi ricordare che nel
caso della consociatio publica, che è appunto mista, i membri che la
costituiscono non sono individui, ma a loro volta associazioni, a
partire da quelle private. Si può allora dire che non è quello di indi-
viduo il concetto fondante, che sta alla base della costruzione politi-
ca, un concetto che si ottiene mediante l’astrazione da ogni diversità

24 Si veda ad esempio quanto detto a proposito della città in Politica, V, 10.


25 Ivi, II, 3.

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4. Alle origini del moderno concetto di società civile 139

e che porta immediatamente con sé il carattere dell’uguaglianza. La


ricchezza del corpo sociale per Althusius consiste, al contrario, pro-
prio nel fatto che la cooperazione avviene tra parti diverse26. La di-
versitas è elemento essenziale per la vita associativa, come si ri-
scontra anche nell’immagine musicale della melodia, che è appunto
composta di note diverse27.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, non si tratta di negare
che l’espressione di volontà sia un momento rilevante nel quadro
della Politica: infatti se ogni cerchia risulta dall’accordo e dal con-
senso di parti diverse, è necessario che queste si esprimano sia nella
direzione della convergenza in un corpo comune, sia in quella della
determinazione dei contenuti specifici che mettono in comune. In-
fatti il patto è atto rilevante e presente a tutti i livelli della vita so-
ciale. Tuttavia la volontà non è l’elemento assoluto e fondante, ma
piuttosto il tramite attraverso cui i singoli e le parti partecipano in
modo cosciente e libero alla vita comune. Quando, mediante un ac-
cordo volontario, si entra in una vita comune, questa non è creazio-
ne della volontà dei singoli, ma sta sotto le leggi divine, morali, del
buon diritto antico: la volontà è allora una forma di partecipazione
responsabile delle persone a un cosmo che ha una sua oggettività
indipendentemente dalla volontà dei singoli. È quando questo co-
smo sarà azzerato che la volontà dei singoli diverrà elemento essen-
ziale, l’unico a poter formare il corpo politico e a legittimare il rap-
porto non naturale di obbligazione politica.
L’espressione di volontà in cui consiste il patto non è allora mai
la creazione di qualcosa di nuovo, in cui i contraenti il patto scom-
paiono in quanto soggetti politici, come avviene nel contratto socia-
le del moderno giusnaturalismo28, ma piuttosto l’accordo di soggetti

26 La cooperazione non ha carattere «solo sociale», ma ha carattere politico: si


tratta cioè di associazioni che hanno una propria dimensione di governo e che si
esprimono in quanto soggetti nella vita politica.
27 Cfr. ivi, I, 35-36.
28 Cfr. su ciò anche W. Kersting, la voce Vertrag, Gesellschaftsvertrag, Herr-
schaftsvertrag, nei GG cit, Bd. VI, pp. 901-946, e il saggio La dottrina del duplice
contratto nel diritto naturale tedesco, in «Filosofia politica», VIII (1994), pp. 409-
437; dello stesso si veda anche Die politische Philosophie des Gesellschaftsver-
trags, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1994. Il patto in Althusius,
come pure nella complessa realtà storica in cui si parla di Herrschaftsvertraege,

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140 Giuseppe Duso – La logica del potere

che rimangono tali nella nuova e più ampia forma di collaborazio-


ne. Proprio in quanto non sono gli individui uguali il fondamento
della società, ma le parti diverse che, come si è detto, permangono
tali anche e proprio nel corpo comune (è infatti in questo che ap-
paiono come parti e dunque in rapporto tra loro), allora l’istanza di
unità propria di quest’ultimo non consiste nell’espressione di
un’unica volontà, che azzeri le molteplici e diverse volontà dei
membri. Se questi ultimi consistessero nell’infinita molteplicità de-
gli individui presenti nel regno, o nella provincia, o nella città, non
ci sarebbe altra possibilità che azzerare quelle volontà dal punto di
vista politico, ponendole su di un altro piano, quello privato, perché
solo in questo modo si può fare emergere una volontà unica del
corpo politico come volontà dell’unica persona civile. Qui invece ci
troviamo di fronte a volontà determinate delle cerchie non infinite e
ben individuabili nella loro realtà, che costituiscono, ai vari livelli,
il corpo unitario. L’istanza di unità allora è necessaria se di un cor-
po si tratta, ma sempre come tentativo di unificazione delle volontà
diverse: la volontà di colui che presiede l’associazione, a qualsiasi
livello questa si collochi, ha di fronte a sé le volontà delle parti al
cui accordo egli lavora. La volontà del corpo collettivo non è quella
di colui che lo presiede o lo governa, ma quella che risulta dal lavo-
ro di costui insieme a quello delle singole parti che sono insieme
riunite.

non annulla, in una unità politica a cui dà luogo, i soggetti contraenti, ma piuttosto
ne ribadisce la realtà e la soggettività politica. Inoltre la volontà, che certamente si
esprime nel patto, non è libera da vincoli, ma piuttosto non può non riconoscere
quel cosmos oggettivo, che va dagli insegnamenti dei libri sacri alle regole del di-
ritto e alle consuetudini. Su ciò e sulla funzione del patto con Dio nella direzione
del riconoscimento di questa realtà oggettiva, che impedisce una assolutizzazione
della volontà, cfr. G. Duso, Una prima esposizione del pensiero politico di Althu-
sius: la dottrina del patto e la costituzione del regno, in «Quaderni fiorentini per la
storia del pensiero giuridico moderno», 25 (1996), pp. 65-126.

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4. Alle origini del moderno concetto di società civile 141

4.3 La dimensione plurale del popolo e la concezione della


rappresentanza

In questa concezione pluralistica anche il popolo non ha il carattere


dell’unità, ma piuttosto quello dell’unificazione delle diverse parti
che lo costituiscono. La majestas, che Althusius gli attribuisce, a-
prendo da una parte la strada a una serie di trattazioni che in questo
lo seguiranno, come quelle di von Hoen (Hoenonius) e di Alsted,
ma attirandosi anche le critiche di molti teorici a lui contemporanei
e successivi29, non ha il significato della sovranità popolare a cui si
pensa nella filosofia politica moderna, ad esempio nel pensiero di
Rousseau. Questo significato è infatti possibile solo all’interno del
modo moderno di pensare la sovranità, nella dimensione del potere,
che non può appartenere che al corpo politico o popolo inteso come
totalità di tutti gli individui e dunque come unico soggetto politico.
In Althusius invece il popolo è anch’esso un insieme di parti diver-
se. Se nel regno si esprime allora un’azione unitaria di governo da
parte del Sommo magistrato, questa non si identifica con l’agire e il
volere del popolo, bensì piuttosto è necessaria proprio per la plurali-
tà di istanze che caratterizzano il popolo, con le quali appunto il go-
verno sempre continuamente si confronta. Ciò è possibile in quanto
il popolo non è inteso come la totalità di tutti gli individui che com-
pongono il corpo politico, ma piuttosto come una realtà costituita di
parti determinate, che hanno loro funzioni, diritti, forza e volontà.
Se nella scienza politica moderna la volontà del popolo è espressa
da colui che lo rappresenta come soggetto unitario e, dopo Rousse-
au, il popolo è inteso come il soggetto che, unico, ha diritto
all’azione politica, alla fondazione della costituzione, ed è perciò
una grandezza costituente, nel pensiero di Althusius esso è invece
una realtà costituita, e costituita da parti diverse.
Se si ricorda che in Althusius troviamo una funzione costituente
del popolo, in quanto è esso che istituisce imperi e regni, e che in-
sedia i governanti, ciò non smentisce il fatto che esso sia una realtà
costituita, ma al contrario lo conferma. Infatti, solo in quanto è real-

29 Classica la critica di Hermann Conring, ad esempio in Dissertatio de Autoribus


politicis, in Opera, ed J.W.Goebel, Braunschweig 1730, vol. I, p.31.

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tà costituita ha una forma e si può esprimere attraverso le proprie


assemblee; il popolo esiste prima e di fronte al principe, può stipu-
lare con lui un contratto di mandato, e può anche controllare il suo
operato, fino a giungere alla sua deposizione. Il popolo cioè può co-
stituire e delegare potere, in quanto è costituito, ed è realtà che può
esprimersi prima del patto, mediante il patto e dopo il patto. Nel
giusnaturalismo successivo si assiste invece a quello che sembra un
paradosso: il popolo si costituisce con il patto, e subito nel patto si
dissolve come realtà immediatamente percepibile; o meglio, esso,
come soggetto unitario, si esprime solo attraverso il suo rappresen-
tante; e ciò non solo in Hobbes, ma anche in Kant30. In questo con-
testo il popolo, in quanto è inteso come la totalità degli individui
uguali, che evidentemente non può compiere alcun atto concreto,
non si esprime che attraverso l’azione unitaria di chi rappresenta la
sua natura di unico soggetto politico: questa è la logica del principio
rappresentativo moderno. Ma, come si è visto, altro paradosso del
pensiero moderno consiste nella difficoltà, evidente in Rousseau, di
concepire un’attività costituente da parte di un soggetto che, in
quanto totalmente libero, non è costituito e dunque non ha una for-
ma.
La concezione althusiana della consociazione implica allora un
modo diverso di intendere la politicità degli uomini, a cui è collega-
to un modo diverso di intendere la rappresentanza. Nella comunità
politica o societas civilis si esprime un momento unitario, attraverso
chi è incaricato all’attività di presidenza o di governo – nella forma
più alta il Sommo magistrato –, e insieme l’istanza del popolo o
delle molteplici associazioni che lo costituiscono, che si esprime
attraverso i suoi rappresentanti – gli Efori nella consociatio univer-

30 Su tale paradosso si veda anche Kersting, Vertrag cit., p.925. Su Kant cfr. il
mio Logica e aporie della rappresentanza tra Kant e Fichte, in «Filosofia politi-
ca», I (1987), spec. pp. 34-39. Si può allora comprendere la radicale diversità della
funzione del patto per la costituzione del corpo politico. Mentre in Althusius esso
serve a confermare la presenza e la volontà delle parti contraenti, e perciò proprio
il contratto è la base per il diritto di resistenza, invece nel giusnaturalismo succes-
sivo la resistenza è impensabile in quanto con la costruzione contrattuale noi non
abbiamo più il popolo di fronte al suo rappresentante, ma il popolo, in quanto sog-
getto unitario, si può solo esprimere attraverso colui che lo rappresenta. Ciò è chia-
ro in Kant, ma è espresso con efficacia anche in Pufendorf (si veda più avanti).

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4. Alle origini del moderno concetto di società civile 143

salis. Abbiamo cioè un’istanza di guida e un’istanza collegiale di


espressione della volontà della comunità. Ciò vale non solo per il
regno, ma per ogni livello della vita sociale, e cioè della vita politi-
ca. Ad ogni livello si ripresenta una dualità di forme rappresentati-
ve, e tale dualità, come ha ben mostrato Hasso Hofmann, caratteriz-
za la società cetuale su cui riflette Althusius31. Come di fronte al
Sommo magistrato stanno gli Efori, così di fronte al rettore della
corporazione sta il collegio, di fronte al capo della città o console
sta il senato, di fronte a colui che presiede (praeses) la provincia
stanno gli ordini provinciali o ceti territoriali.
Mentre l’autorità del Sommo magistrato è regolata da un con-
tratto di mandato su cui si fonda e si basa la sua rappresentatività,
nella rappresentanza collegiale si ha una incorporazione del popolo
nelle sue parti, non tanto una delega o un mandato. Perciò non ha
molta importanza il modo dell’elezione o della scelta dei membri
del collegio, di qualsiasi tipo esso sia, e a volte Althusius ricorda
che la scelta può venire anche dall’alto, magari dopo una preventiva
elezione di un numero di membri maggiore del necessario, ad e-
sempio da parte del principe o conte della provincia32, o anche, per
quanto riguarda gli Efori, da parte del Sommo magistrato33. Ciò
mostra ancora una volta il carattere della scienza o arte politica di
cui si tratta nella Politica di Athusius, che non è creazione di un
modello che si fondi sulla sua razionalità e coerenza e che abbia
perciò carattere prescrittivo, richiedendo di essere attuato nella pra-
tica, ma piuttosto è una riflessione sulla realtà associativa esistente
nelle sue molteplici forme34. La poca importanza attribuita al modo

31 Cfr. Hofmann, Repräsentation in der Staatslehre der frühen Neuzeit cit., spec.
pp. 522 sgg. Diversa è invece l’opinione di Hüglin, Sozietaler Föderalismus cit.,
spec. pp. 194-195, che propone una struttura unitaria e omogenea di rappresentan-
za che determina il potere dal basso. L’inserimento di Althusius in un contesto che
è legato al principio del governo e non è dominato dal concetto di potere, mi sem-
bra impedisca questa soluzione: per una discussione delle tesi interpretative
dell’interessante volume di Hüglin si veda il mio Althusius e l’idea federalista, in
«Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico», 21 (1992), pp. 611-622.
32 Cfr. Politica, V, 60.
33 Cfr. ivi, XVIII, 59.
34 Ciò non significa che si tratti di un semplice atteggiamento descrittivo, poichè
non si tratta di riprodurre la realtà empirica, ma di pensarla secondo il suo concet-
to, e di vedere come in essa si imponga una direzione verso il bene e il buon go-

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144 Giuseppe Duso – La logica del potere

di elezione è rivelativa anche della natura della rappresentanza pro-


pria della forma collegiale: la sua autorità non deriva dalla volontà
empirica dei singoli, ma dal fatto che in essa vivono e si esprimono
le parti della società, che essa incorpora, mediante una rappresenta-
zione di tipo identitario35. Perciò, se è vero che in ogni livello
dell’ordine sociale ci sono istanze di unità, è tuttavia nella rappre-
sentanza collegiale che si esprime la collettività, e perciò
quest’ultima è l’istanza superiore, non solo in via di principio, ma
di fatto, poiché si tratta di una presenza determinata e organizzata
che si esprime concretamente. Dal momento che al livello più alto
della consociatio universalis si parla del popolo intero, è questo e
non il Sommo magistrato che detiene i diritti di maestà: sono cioè
gli Efori ad avere l’auctoritas e la potestas maggiore. Ciò è pensa-
bile, come si è detto, dal momento che il popolo è realtà costituita
di tutte le sue parti, che si manifestano mediante i loro rappresen-
tanti. La forma della collegialità esprime la collettività in quanto
esprime nel loro insieme le parti che la costituiscono36.

verno. Piuttosto, anche qui come per la Politica aristotelica, è da ricordare che ca-
tegorie epistemologiche come quelle di «descrittivo» o «prescrittivo» – che impli-
cano un contesto teorico che si presenta ben più tardi ed ha presupposti di ben altro
tipo – non hanno nessuna presa ed efficacia ermeneutica (cfr. pp. 52-53 del presen-
te volume).
35 Cfr. Hofmann, Repräsentation in der Staatslehre cit., p. 525. Sul difficile pro-
blema della rappresentazione di identità si veda, dello stesso autore, Repräsenta-
tion. Studien zur Wort- und Begriffsgeschichte cit., spec. pp.191-285.
36 Se non si vogliono dare giudizi storici basati su idee di valore, ma si intende
rimanere nell’ambito della comprensione delle strutture del pensiero, sulla base di
quanto si è sostenuto, non appare fondata l’immagine prodotta da Behnen che, ap-
poggiandosi al lavoro di Antholz, raffigura Althusius come un «dittatore di Em-
den» (cfr. M. Behnen, Herrscherbild und Herrschaftstechnik in der «Politica» des
Johannes Althusius, in «Zeitschrift für Historische Forschung», XI (1984), pp.
417-472). Anche se è vero che Althusius riprende Lipsius, per quanto riguarda psi-
cologia e virtù del principe e dei sudditi, non è possibile astrarre come fa il Behnen
gli elementi propri dell’autorità – che da lui è intesa come semplice capacità di rea-
lizzare ordine – dal significato di administratio, che riveste l’esercizio
dell’imperium, né appare giustificabile ridurre il senso complesso che ha il popolo
a quel «vulgus metu coercendum» di stampo lipsiano che emerge nei cap. XXIV e
XXV. Mi pare che in tal modo si confonda il problema dell’auctoritas del Sommo
magistrato, che riguarda la virtù del principe e il modo in cui la sua figura è vissuta
nell’opinione dei sudditi, con il significato strutturale che ha l’imperium nel com-
plesso quadro costituzionale che è stato indicato. Ugualmente si dimentica anche lo

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4. Alle origini del moderno concetto di società civile 145

In questa complessa società cetuale, allora, non si parla tanto di


un’unica volontà sovrana, che ha solo sudditi di fronte a sé, ma
piuttosto di uno stare insieme di potestates e realtà che ricercano
l’accordo e l’armonia. In questa struttura i singoli esistono concre-
tamente e hanno una loro intrinseca e differente influenza nella vita
comune: sono cioè dotati di una politicità, la quale non compete lo-
ro in quanto singoli individui, ma si manifesta nella partecipazione
che essi hanno alla vita collettiva mediante il loro status. In questo
contesto il termine consenso ha il suo autentico significato, e ciò
proprio in quanto non siamo in una situazione in cui la volontà di
tutto il corpo, espressa come legge, richiede soltanto obbedienza,
ma piuttosto in quella di un lavoro continuo di accordo e concordia,
che tiene insieme il regno come pure le altre forme associative. Il
problema che qui si presenta non è quello dell’unità politica, ma
piuttosto quello del lavorio continuo di unificazione, compatibilità e
solidarietà tra le diverse parti della collettività. Ugualmente è denso
di significato il termine partecipazione, perchè mediante la parteci-
pazione delle varie cerchie si ha la vita dell’intero. Si potrebbe dire
che consenso e partecipazione hanno un significato costituzionale,
se ci si distacca anche qui dal senso moderno di costituzione, legato
ad un ordinamento di leggi, e lo si intende nel senso etimologico di
struttura del corpo, costituito appunto da tutte le sue parti con le lo-
ro diverse funzioni.

4.4 La socialitas e il ruolo del concetto di individuo nella


dottrina di Pufendorf

Se ora ci rivolgiamo a Pufendorf e al suo modo di intendere la so-


cietas civilis, ci troviamo di fronte a un quadro teorico radicalmente

stretto nesso esistente tra le due dimensioni della politica, quella della comunica-
zione e quella del governo. La lettura di Behnen, che finisce con ripercorrere i pas-
si dedicati agli ebrei e alla censura in un quadro definito di «stato d’ordine polizie-
sco» (p. 466), è segno di una direzione interpretativa determinata dalla concettuali-
tà moderna, così come quella di coloro che ravvisano nel pensiero politico di Al-
thusius il concetto di sovranità popolare nel senso di Rousseau, o il modello di una
«vera democrazia» come organizzazione del potere dal basso.

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146 Giuseppe Duso – La logica del potere

diverso37. Certo anche per Pufendorf la società appare essere una


struttura fondamentale, nella quale i singoli hanno valore morale e
possono estrinsecare azioni adeguate a questa dignità. La categoria
che è basilare nel diritto naturale e che indica la necessità della co-
struzione della società civile è la socialitas: legge naturale fonda-
mentale, che corrisponde alla natura dell’uomo e mostra razional-
mente la via per uscire dall’insicurezza di uno stato di natura che,
pur connotato in modo diverso da quanto avviene nel contesto hob-
besiano, appare come condizione in cui non è pensabile restare. Ta-
le legge impone «cuilibet homini, quantum in se, colendam & con-
servandam esse pacificam adversus alios socialitatem»38. È subito
da notare che, nell’esprimere tale legge, Pufendorf avverte che essa
riguarda ogni uomo «per quanto dipende da lui (quantum in se)». Si
vedrà più avanti quanto tale indicazione o riserva sia rilevante per il
significato della costruzione teorica; infatti, sebbene la legge sia na-
turale, si mostrerà impossibile condurre una vera vita sociale nello
stato di natura, proprio perché in esso non c’è sicurezza che al pro-
prio comportamento di pace e di amicizia corrisponda un atteggia-
mento reciproco da parte degli altri: non si sa dunque cosa avverrà
per quanto dipende dagli altri, perciò sarà necessaria la costruzione
della civitas affinché tale pacifica vita sociale sia resa possibile e
attuale.
Se è vero che nel pensiero hobbesiano è proprio il modo indivi-
dualistico di concepire lo stato di natura ad avere un ruolo fonda-
mentale per giungere razionalmente alla costruzione della società
civile con l’assolutezza del potere che la connota, può allora sem-
brare che il principio della socialitas comporti una concezione del
rapporto politico tra gli uomini assai diverso da quello della scienza
politica hobbesiana. In realtà, non si possono non sottolineare le

37 Concordo con la linea interpretativa – che tengo particolarmente presente nella


seguente trattazione – avanzata con decisione ed equilibrio da O. Mancini, Diritto
naturale e potere civile in Samuel Pufendorf, in Il contratto sociale cit, pp. 109-
148.
38 S. Pufendorf, De iure naturae et gentium libri octo, Londini Scanorum 1672, II,
3, 15 (qualche brano dei testi di Pufendorf si trova tradotto nell’antologia curata da
N. Bobbio, S. Pufendorf, Principi di diritto naturale, Paravia, Torino-Milano-
Padova 1943, e in quella contenuta in A.L. Schino, Il pensiero politico di Pufen-
dorf, Laterza, Roma-Bari 1995).

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4. Alle origini del moderno concetto di società civile 147

differenze esistenti tra i due autori sul modo di intendere la natura


umana, differenze che, come si è ricordato, sono state alla base di
un diverso atteggiamento nella ricezione dei due autori, in quanto
all’influenza che ha avuto il pensiero di Pufendorf si oppone un at-
teggiamento di sospetto e rifiuto che è quasi sempre riscontrabile in
coloro che si sono messi in rapporto con la filosofia politica di Hob-
bes. Il concetto di enti morali e la dignità e ragionevolezza che ca-
ratterizzano gli uomini in Pufendorf offrono il quadro di una antro-
pologia che non si risolve in un meccanico scontro di forze. La stes-
sa importanza del ruolo della ragione nella natura umana porta Pu-
fendorf a negare che la socialitas possa essere considerata un sem-
plice appetitus. Tali differenze hanno spinto spesso gli interpreti a
considerare Pufendorf lontano dal radicale individualismo hobbe-
siano39 e ad avvicinarlo addirittura ad Althusius40.
La socialitas viene allora, secondo talune interpretazioni, a se-
gnare in senso sociale il giusnaturalismo di Pufendorf e ad indicare
l’unico spazio possibile per l’agire etico dei singoli41. Ben si com-
prende che per questa via il passo verso l’affermazione della natura
sociale e dunque politica dell’uomo può sembrare breve, e perciò il
rapporto con la concezione aristotelica dell’uomo come animale po-
litico conseguente e inevitabile42. Dobbiamo allora chiederci se la
concezione della politica di Pufendorf si situi ancora nello stesso
contesto di pensiero di Althusius e risulti comprensibile mediante il

39 Cfr. ad esempio H. Welzel, Die Naturrechtslehere Samuel Pufendorfs, Walter


de Gruyter, Berlin 1958, ora in tr. it., La dottrina giusnaturalistica di Samuel Pu-
fendorf, a cura di V. Fiorillo, Giappichelli, Torino 1993, p.71.
40 Si veda H. Denzer, Moralphilosophie und Naturrecht bei S. Pufendorf, Beck,
München 1972, p.106, che, pur consapevole del fatto che è proprio il punto di vista
individualistico a caratterizzare la svolta nei confronti del pensiero medievale, rav-
visa tuttavia nel concetto di socialitas il carattere che lega Pufendorf ad Althusius
nell’opposizione all’individualismo hobbesiano.
41 Così ivi, p.94; cfr. anche Welzel, La dottrina giusnaturalistica cit., p.71; sulla
socialitas come «ethos socialmente operante» cfr. V. Fiorillo, La socialitas
nell’antropologia giuridica pufendorfiana, in «Materiali per una storia della cultu-
ra giuridica», XX (1990), n. 2, pp. 479-495.
42 Si vedano su ciò i lavori della letteratura critica, che sono esaminati da Palladi-
ni, Samuel Pufendorf discepolo di Hobbes cit., p. 157 n. 14. Anche Hans Maier
ravvisa nella socialitas di Pufendorf una ripresa dell’aristotelico zóon politikón
(Ältere deutsche Staatslehre cit., p. 110).

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148 Giuseppe Duso – La logica del potere

riferimento all’orizzonte aristotelico, o se non trovi piuttosto il suo


significato nel contesto concettuale della scienza politica moderna,
dove il concetto di individuo, con il carattere dell’uguaglianza che
lo contraddistingue, porta a considerare irregolare e ingiusto il go-
verno dell’uomo sull’uomo e gioca un ruolo fondamentale nella de-
duzione del corpo politico. È qui da tenere presente che non si tratta
tanto di vedere se ci si trova di fronte a una maniera più o meno in-
dividualistica di intendere l’uomo, ma piuttosto di riconoscere la
funzione che il concetto di individuo ha per il processo logico di
deduzione-costruzione della sfera del potere politico.
Si deve innanzitutto notare la specificità del termine socialitas,
che sembra essere una creazione linguistica di Pufendorf43. Essa
non coincide con l’affermazione della natura politica dell’uomo,
quale si dà nella tradizione del pensiero filosofico a partire da Pla-
tone e Aristotele, nella quale l’uomo trova il proprio significato e il
proprio spazio di azione nella polis. La socialitas, in Pufendorf, è
piuttosto una necessità e un dovere per l’individuo, riguarda cioè la
natura di ogni singolo uomo e il rapporto che deve instaurare nei
confronti degli altri (adversus alios), nella direzione della costru-
zione della civitas. Il fatto che la socialitas sia finalizzata alla socie-
tà civile non è una prova del fatto che non sia fondamentale
l’elemento individualistico. Infatti tutta la dottrina giusnaturalistica
moderna – a partire da Hobbes – è un processo di pensiero che, con
un metodo analitico-genetico, tende alla costruzione della società
civile. Il vero punto focale – e di partenza, si potrebbe anche dire
tenendo presente l’inversione richiesta dal metodo genetico – è la
società civile, caratterizzata dal potere politico unico che è proprio
del moderno concetto di sovranità. In questo caso la centralità della
società non elimina il punto di vista individualistico, perchè proprio
di questo ha bisogno il processo di costruzione della società e di le-
gittimazione del potere politico.
È inoltre da ricordare che anche in Hobbes l’indicazione della
necessità e razionalità della vita sociale è presente già prima della
deduzione del corpo politico, e cioè già nell’ambito delle leggi di
natura, che impongono (per calcolo razionale) di vivere in pace e di

43 Cfr. Denzer, Moralphilosophie und Naturrecht cit, p.95.

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4. Alle origini del moderno concetto di società civile 149

cedere i diritti, cioè di accordarsi mediante patti. E ciò al punto che,


se tutti gli uomini usassero bene della ragione, avessero cioè un
procedimento scientifico, tali leggi naturali sarebbero sufficienti per
vivere in pace socialmente tra loro44. Ma questo purtroppo non av-
viene e dunque è necessario un unico e particolare patto che crei
una forza immane, il monopolio della forza coattiva, che una volta
per tutte possa garantire l’ordine e eliminare il conflitto. In tal modo
solo attraverso il potere politico diviene possibile la società. Allora
il fatto che la socialitas sia una legge di natura non è sufficiente per
pensare a una società naturale autonoma ed accettabile. Nello stato
di natura cioè la socialitas non è sufficiente per vivere in comunità
gli uni con gli altri: senza la civitas costruita mediante il patto (o i
diversi atti del patto sociale, o i diversi patti) una vita sociale non è
possibile, o per lo meno non è razionale e giusta45.
Si può certo dire che il concetto di individuo in Pufendorf è solo
un concetto analitico, e che la nascita dello Stato dalla decisione
concorde dei cittadini è solo una immagine del pensiero (eine Den-
kfigur)46, ma bisogna chiedersi quanto questa astrazione, nella qua-
le si pensa agli individui, sia necessaria per la costruzione razionale
dello Stato, o meglio della società civile (per mantenersi più aderen-
ti al linguaggio dei giusnaturalisti). La fondazione del potere politi-
co, che appartiene alla collettività intera, a partire dall’idea degli
individui uguali mi pare l’unica via possibile e di fatto praticata per
dedurre e legittimare la sovranità moderna. Se si parte dall’infinita
molteplicità degli individui uguali non ci può essere altro esito che
l’unico e immane potere del corpo politico; e viceversa, un unico

44 Su ciò richiama l’attenzione giustamente A. Biral, Hobbes: la società senza go-


verno cit., pp. 75 e 87.
45 Questo rimando ad Hobbes non ha qui il fine di esaminare e stabilire i rapporti
storici e teorici tra i due autori (si veda per questo il citato lavoro di F. Palladini), e
nemmeno di approdare alla convinzione di una identica concezione della politica;
esso si muove piuttosto all’interno del tentativo di mettere in evidenza alcuni ele-
menti essenziali per il movimento logico dei concetti nel processo di costruzione e
legittimazione della sovranità moderna. Da questo punto di vista la logica della
costruzione hobbesiana ha per tutto il giusnaturalismo una rilevanza ben maggiore
di quanto si sia di solito portati a credere e di quanto reputino esplicitamente gli
stessi pensatori, i quali spesso, proprio quando intendono opporsi a Hobbes, fini-
scono in realtà con il riprenderne elementi essenziali del pensiero.
46 Così Denzer, Moralphilosophie und Naturrecht cit, p.108.

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150 Giuseppe Duso – La logica del potere

potere che si esercita ugualmente su tutti i singoli non può avere al-
tro fondamento e altra legittimazione che l’uguaglianza degli indi-
vidui e l’espressione della loro volontà.
In realtà l’immaginazione dell’uguaglianza degli individui ha il
fine di superare le differenze tra gli uomini che si riscontrano nella
loro appartenenza ai diversi gruppi, ceti, corporazioni, o perlomeno
di far astrazione da esse. È proprio la differenza legata
all’appartenenza a diverse forme sociali che Pufendorf, come già
Hobbes, considera irregolare, irrazionale e causa di un ingiusto go-
verno dell’uomo sull’uomo. Certamente anche per Pufendorf
l’esistenza del singolo, nella sua realtà storica, è possibile solo nella
società. Ma non sta qui il problema! Esso consiste piuttosto nella
necessità di negare le differenze che gli uomini hanno in relazione
al loro diverso status, alla loro appartenenza ad associazioni diver-
se, per eliminare il governo dell’uomo sull’uomo e dar luogo a un
potere giusto e razionale; e ciò è possibile grazie al concetto degli
individui uguali, che toglie alla base della costruzione le differenze
che, una volta accettate, si connotano di politicità. Perciò nel pro-
cesso logico di deduzione della civitas le differenze ständisch non
giocano più in Pufendorf un ruolo determinante47.

4.5. Insicurezza dello stato di natura e necessità di una


«certa norma»

Anche in Pufendorf si possono dunque riscontrare gli aspetti essen-


ziali della logica del moderno giusnaturalismo, consistenti nel ruolo
fondativo del concetto di individuo, come pure nel dualismo che si
viene a creare tra coloro che diventano nella civitas persone private
e l’azione pubblica che caratterizza l’esercizio del potere politico.

47 Non è che manchi in Pufendorf la considerazione dell’elemento associativo-


corporativo, basti pensare al ruolo dei patres familias, ma non mi sembra che sia
questo elemento corporativo l’elemento determinante in funzione della costruzione
della civitas. Le differenze ständisch hanno invece luogo nella realtà della vita so-
ciale degli uomini che Pufendorf ha di fronte, e aver coscienza di ciò è assai signi-
ficativo per comprendere la diversità dell’atteggiamento teorico e «scientifico» di
Pufendorf e dei giusnaturalisti moderni nei confronti di una posizione come quella
propria della Politica di Althusius.

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4. Alle origini del moderno concetto di società civile 151

Egli afferma, certo, che vivere in pace è una legge di natura, che
non ha bisogno di nessuna conferma mediante un patto48; e anche
che lo stato di natura non è uno stato di guerra reciproca, ma piutto-
sto di pace e ognuno, «sul fondamento della somiglianza della natu-
ra degli uomini», può supporre che anche gli altri si comportino in
conformità con l’idea di pace che si fonda sulle leggi che dicono:
«nessuno deve recar danno agli altri», «a ciascuno deve essere pos-
sibile godere dei suoi beni», e «ognuno deve mantenere le promesse
fatte»49. Tuttavia il rapporto pacifico e amichevole tra gli uomini
nello stato di natura è sempre insicuro. Non si può mai esattamente
sapere cosa gli altri intendono fare e non si può costringerli a com-
portarsi amichevolmente. Bisogna ricordare che di socialitas si par-
la a partire da caratteristiche della natura umana quali l’amor sui, la
pravitas e l’imbecillitas. Se è naturale la tensione alla vita sociale, è
anche vero che l’uomo, così come può tendere al bene comune, può
anche recar danno agli altri. Nessuno può allora nello stato di natura
prevedere con sicurezza quale sarà il comportamento degli altri.
È questa insicurezza l’elemento che caratterizza essenzialmente
lo stato di natura e che costituisce la molla decisiva per il suo supe-
ramento. La socialità è legge di natura, ma nello stato di natura essa
non è realizzata, esprimendosi piuttosto nella forma del dovere e di
ciò che è razionale fare. Occorre uno scarto, qualche cosa di radi-
calmente nuovo, che sarà la costituzione del corpo politico. Tale
mancanza di sicurezza ci indica allora che il passaggio dallo stato di
natura alla società civile è richiesto non solo o non tanto da un con-
flitto perpetuo e reale tra gli uomini, ma piuttosto dalla sola possibi-
lità di esso. Non è cioè necessario pensare che gli uomini siano in
guerra tra loro per dedurre la necessità del poter politico, ma è suf-
ficiente ipotizzare che possano essere tra loro in conflitto, o, più
esattamente, è necessario pensare che manchi la sicurezza che il
conflitto sia evitato. In ogni caso è sempre il conflitto ad essere pre-
supposto per poter dedurre la necessità della società con l’imperium
che la caratterizza: tale deduzione risulterebbe, infatti, non solo inu-

48 De iure, II, 2, 11.


49 Ivi, 9.

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tile, ma anche improponibile, se si intendesse il rapporto tra gli uo-


mini come un rapporto pacifico50.
Il vero problema della scienza politica moderna è quello della
sicurezza, che può essere garantita solo attraverso una forma razio-
nale. Ciò che deve essere costruito è una forma politica, nella quale
un potere, nei confronti del quale i singoli non possano fare resi-
stenza, assicuri l’ordine e la pace tra gli uomini. Solo mediante que-
sta forma politica ci può essere una risposta certa alla domanda in-
trinseca alla clausola che si trova espressa nella legge naturale di
Pufendorf (che prescrive all’uomo il dovere di una pacifica socialità
«per quanto sta in lui»), ma anche nelle leggi naturali di Hobbes
(per il quale è razionale deporre le armi e cedere i diritti «se anche
gli altri lo fanno»). Nella forma politica l’interrogativo lacerante ri-
guardante quale sarà il comportamento degli altri, interrogativo che
non permette una pacifica vita sociale nello stato di natura, trova
finalmente una risposta. La promessa di non resistenza, che com-
porta la sottomissione di tutti all’immane forza che con la stessa
promessa, in cui consiste il patto sociale, si è costituita, crea una si-
tuazione nella quale tutti possono prevedere quello che gli altri e lui
stesso faranno. L’opposizione è possibile, ma sarà punita e, vista la
grandezza della forza comune, sarà spazzata via. Allora è possibile
una società fondata sulla razionalità e sulla certezza dei comporta-
menti. Alla base della vita pacifica tra gli uomini non sta più la mo-
rale, che si è mostrata insufficiente, ma la politica, o meglio il corpo
politico pensato come forma giuridica dalla nuova scienza che è il
diritto naturale51.

50 Da questo punto di vista il concetto della conflittualità tra gli uomini non è una
gratuita scelta antropologica di tipo pessimistico, ma un presupposto necessario
qualora si voglia dar luogo alla deduzione della forma politica moderna, e dunque
pensare il politico mediante la forma giuridica (cfr. cap. VI, nota 14).
51 Ancora una volta devo ribadire che la lettura del giusnaturalismo come via ra-
zionale per la limitazione del potere mi sembra insufficiente e fuorviante e non è
conseguente ad un’analisi dei testi dei giusnaturalisti. Infatti limitazione ci sarebbe
solo in quanto il potere sia inteso come una realtà fondata in modo diverso dal ra-
gionamento che tende a limitarlo. Ciò potrebbe valere per un potere empiricamente
esistente, e per questo il giusnaturalismo potrebbe costituire limite. Ma nella co-
struzione «scientifica» dei testi che prevedono il contratto sociale, è proprio la real-
tà presente ad essere azzerata mediante lo stato di natura, e il potere a cui si appro-
da è la sovranità, che si fonda appunto a partire dai diritti naturali degli individui.

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4. Alle origini del moderno concetto di società civile 153

Anche in Pufendorf è proprio la «dignitas humanae naturae» a


richiedere che l’agire degli uomini abbia luogo nel quadro di una
«certa norma»52. Sono necessarie norme certe e universali affinché
ciascuno, in modo stabile e duraturo, sappia cosa deve fare e cosa
deve evitare53: perché ci sia la sicurezza è necessaria una forma che
ci rassicuri sul fatto che gli uomini non si rivolgano gli uni contro
gli altri. Perciò è necessaria la forma della civitas con le sue leggi e
la forza sufficiente per garantirne l’osservanza; una forma che viene
chiamata regularis, nel senso in cui la regolarità consiste nell’unità
della sovranità, cioè nell’appartenenza di tutte le sue parti ad
un’unica persona54. La forma politica implica non solo l’esserci
della forza, ma il fatto che la forza si fonda sulla ragione, e che essa
appartiene a tutto il corpo politico e si fonda su un processo di co-
stituzione basato sulla volontà di tutti: la volontà del potere è allora
la volontà di tutti in quanto membri del corpo politico. Si compren-
de che questo è il quadro della genesi della sovranità moderna e
dell’obbligazione politica che essa comporta: in questa costruzione
genetica noi possiamo riscontrare una prestazione della ragione, ma
non tanto di una ragione che riconosce l’essenza della realtà, ma
piuttosto di una ragione costruttiva, che dà luogo a una forma, la
quale rende possibile quella socialità che in un primo tempo appari-
va solo come un dovere.

4.6. Solo il potere della civitas permette di realizzare la


socialitas

È mediante il patto che nasce un’obbligazione, quella politica ap-


punto, che non si ravvisa, e non si può ravvisare, nello stato di natu-
ra, perchè si tratta non tanto di un rapporto di superiorità o di guida
che si individua tra gli uomini, ma di un rapporto di comando-

La stessa assolutezza del potere ha questo fondamento: si basa sull’uguaglianza di


tutti e questa uguaglianza garantisce.
52 S. Pufendorf, De iure cit., II, 1, 5.
53 S. Pufendorf, De Officio hominis et civis iuxta legem naturalem libri duo, Lon-
dini Scanorum 1673, II, 7, 2.
54 «Respublica irregularis est, in qua non ita perfecta unio illa, in qua essentia civi-
tatis consistit, deprehenditur».(ivi, II, 8, 12 ).

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154 Giuseppe Duso – La logica del potere

obbedienza che è formale e non dipende dai contenuti del comando,


un rapporto dunque che si può riscontrare ed è giustificato solo
all’interno della forma che razionalmente si costruisce. Nello stato
di natura gli uomini non sono sottoposti a nessun dominio: esso, in
quanto lo si intenda nella forma pura, come cioè contrapposto alla
società civile, è connotato dal fatto che gli uomini sono «superio-
rem non riconoscentes». Perciò libertà e uguaglianza sono i caratte-
ri più importanti della natura umana55. In base alla natura un uomo
non può essere sottoposto ad un altro e a nessuno è concesso di go-
vernare gli altri. È sulla base di questa uguaglianza, accompagnata
dalla constatazione della insicurezza, che è necessario pensare
all’unione delle forze in un corpo comune, il cui potere deve essere
inteso in modo da escludere che qualcuno sia sottoposto ad un altro.
L’uguaglianza naturale degli individui si mostra elemento essenzia-
le per la deduzione del corpo politico.
Si può ben dire che in realtà la società è nella sua configurazione
reale composta di molte piccole comunità e associazioni esistenti56,
e in effetti Pufendorf è anche in rapporto con la realtà esistente, ma
non è la volontà delle piccole comunità a costituire il fondamento
logico per la nascita della civitas e per la legittimazione del potere
che in essa si esercita. Proprio per il fatto che il punto di partenza
sono gli individui uguali, il punto di arrivo del processo pattizio non
è l’unificazione sempre difficile e sempre da compiersi delle diver-
se volontà di comunità e associazioni costituite, ma è piuttosto
l’unità di una persona, che dovrà perciò esprimere un’unica volon-
tà, quella della persona civile. Il procedimento di pensiero contrat-
tualistico e la fondazione della civitas è anche in Pufendorf condi-
zionato dal problema dell’unità politica. Così l’unificazione delle
forze che si ha mediante il contratto può essere pensato come
un’unità. L’unificazione è allora perpetua, perchè il potere è uno e
non compete ai singoli o alle parti ma al popolo come totalità57.
Non potendo qui soffermarmi sulle diverse fasi della costruzione
contrattualistica di Pufendorf, cioè sui due contratti, tra i quali si in-

55 Cfr. ivi, 1, 8 e De iure cit., III, 2, 1-2.


56 Così Denzer, Moralphilosophie und Naturrecht cit, p. 107.
57 Cfr. De iure cit., VII, 2, 8.

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4. Alle origini del moderno concetto di società civile 155

terpone un decretum58, mi limito a ricordare che il problema di Pu-


fendorf è quello della sovranità intesa in senso moderno, come po-
tere cioè che è unico in quanto si basa non sulla esistente volontà di
diverse associazioni, ma sull’infinita molteplicità degli individui.
Con il contratto si ha non solo la costituzione del potere politico,
ma anche il suo titolo giuridico, che consiste nel consensus di tutti:
è questa caratteristica che distingue l’imperium dalla semplice vio-
lenza. Ma bisogna fare attenzione a quanto il concetto di «consen-
so» sia mutato: non si tratta cioè di qualcosa che deve sempre esse-
re ricercato e sempre essere espresso per consentire la vita in comu-
nione delle parti, ma di qualcosa che si manifesta una volta per tut-
te, in quanto dà luogo a una struttura di natura nuova, in cui non è
più concesso consentire o dissentire, perchè di fronte alla legge ci
può essere solo obbedienza. Unità della forza coattiva e suo titolo
giuridico (cioè legittimazione – e di legitime si parla nel testo del
De iure) sono i due elementi che permettono di intendere il sum-
mum imperium nel senso della sovranità moderna59.
Il cuore della costruzione teorica sta ancora una volta
nell’intrinseco nesso di sovranità e rappresentanza. Come nel Levia-
tano di Hobbes, dove da una moltitudine si forma una persona civi-
le, la domanda fondamentale è come possa, questa persona, che è
una di fronte alla moltitudine empirica degli individui, esprimere un
solo volere e un solo agire. Anche per Pufendorf, come per Hobbes,
quest’unica volontà non può consistere nelle volontà dei singoli, né
nella loro somma, perchè le volontà sono ipotizzate come diverse
(perciò è stato necessario il patto). La volontà del popolo come uni-
co soggetto è altra nei confronti di quella dei singoli: la civitas è
infatti «concepita come un’unica persona dotata di ragione e volon-
tà e capace di compiere azioni peculiari, diverse e separate (actio-
nes separatas) da quelle dei singoli»60. Per risolvere il problema

58 Si veda oltre al già citato saggio di Mancini, Diritto naturale e potere civile,
l’articolo di D. Wyduckel, La dottrina contrattualista di Pufendorf ed i suoi fon-
damenti giuridici e statuali, in «Filosofia politica», X (1996), n. 1, pp. 39-59.
59 Cfr. il significativo paragrafo in De iure, VII, 3, 1.
60 Ivi, 2, 13. Tale tema della separazione è espresso con estrema chiarezza. Si veda
ad esempio l’affermazione che singoli e concilio nella «Republica popolari» costi-
tuiscono in realtà personae diversae; e se non bastasse: «Quod enim singuli cives

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156 Giuseppe Duso – La logica del potere

non vi è che una possibilità: la volontà e le azioni della civitas de-


vono essere espresse da una persona – o da alcune che decidono
come un’unica persona – che lo fa come rappresentante di tutto il
corpo politico. L’alterità della volontà comune giunge ad espres-
sione attraverso la persona rappresentativa. Perciò, per la costitu-
zione della civitas nella sua compiutezza, non è sufficiente un pri-
mo patto associativo, ma ne occorre un altro, a partire dal quale è la
persona rappresentativa che agisce per la totalità del corpo politico,
mentre tutte le altre persone sono divenute persone private.
In relazione alla socialità sorge allora una situazione complessa
e paradossale. Da una parte cioè solo la civitas con il suo imperium
crea uno stato di sicurezza e di regole certe in cui la socialità si può
finalmente realizzare. Dall’altra proprio l’espressione di volontà e
azioni pubbliche crea uno iato tra rappresentante e rappresentati.
L’agire politico non compete più a tutti gli individui, e ciò proprio a
causa del patto, in cui ognuno ha ceduto il diritto alla propria opi-
nione e alla propria volontà in relazione a ciò che è bene per l’intera
società. Intendendo la triplicità di atti che porta alla civitas in senso
compiuto come un processo unitario, è come se ognuno esprimesse
la volontà di accettare la volontà del rappresentante come la propria
volontà in quanto membro del corpo comune. I rapporti che gli in-
dividui avranno d’ora in poi tra di loro si situeranno nella società,
ma avranno un significato privato.
Si può allora comprendere che il contesto concettuale in cui Pu-
fendorf pensa la comunità politica è assai lontano dalla concezione
di Althusius, nella quale gli uomini partecipano alla vita politica
non nell’astrazione del loro essere individui uguali, ma attraverso la
loro appartenenza alle consociationes. Se si è consapevoli che il
problema centrale di Pufendorf è quello della moderna sovranità, si
può superare la meraviglia di chi si accorge che, nonostante la co-
struzione contrattuale della persona moralis composita, Pufendorf
scambia la volontà della civitas, in quanto volontà di una persona
sopraindividuale, con la volontà dell’organo sovrano: così il popolo
è identificato con il concilium populi nella democrazia e con il re

volunt, id non statim vult populus. Et quod singuli cives agunt, non statim habetur
pro actione populi, & vice versa» (ivi, 8).

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4. Alle origini del moderno concetto di società civile 157

nella monarchia61. Ciò non desta meraviglia, perché si tratta di un


procedimento logico assai coerente, anche se al suo interno emerge
un’aporia fondamentale. Infatti si deve dire non tanto che, nono-
stante la concezione della personalità della civitas come personalità
sopraindividuale fondata contrattualmente sul concetto di individuo,
si ha lo iato della rappresentanza, che comporta l’identificazione
della volontà della persona moralis composita con quella
dell’organo rappresentativo, ma che ciò avviene proprio a causa di
quella concezione dell’unità della persona della civitas, fondata sul-
la molteplicità degli individui.
Pufendorf esprime tale consequenzialità logica molto chiara-
mente. Infatti la civitas è «persona moralis composita [...] cuius vo-
luntas pro voluntate omnium habetur»62. E come è pensabile la vo-
lontà di questa persona composita? Così risponde Pufendorf: «Sed
hoc demum modo multae voluntates unitae intelliguntur, si unu-
squisque voluntatem suam voluntati unius hominis aut unius conci-

61 Tale meraviglia è espressa in Wenzel, La dottrina giusnaturalistica di Samuel


Pufendorf cit., p.93. L’identificazione della volontà del popolo con quella del rap-
presentante è da Pufendorf chiaramente evidenziata come essenziale alla logica
della costruzione teorica. Egli infatti, in una pagina assai illuminante del De iure
(VII, 2, 14), accetta e spiega il paradosso hobbesiano, secondo cui nella monarchia
«il re è il popolo». Per tale necessaria accettazione bisogna intendere l’unità che
caratterizza il popolo, e perciò riuscire a comprendere la distinzione tra il popolo
nel senso dell’intera civitas, e la moltitudine dei sudditi («nam populus vel notat
totam civitatem, vel multitudinem subditorum»). È la mancanza di questa distin-
zione che comporta i fraintendimenti in relazione al modo in cui viene pensato
l’agire del popolo, ed è sempre tale mancanza che impedisce di comprendere in
cosa consista la logica della rappresentanza moderna. Questo modo di intendere il
popolo permette anche a Pufendorf di criticare quelle posizioni che intendono il
popolo come il soggetto che «in omni civitate regnat». Infatti, se si intende il popo-
lo nel primo senso, come coincidente con la civitas, l’affermazione è inutile e tau-
tologica; se lo si intende nel secondo senso, cioè come l’insieme dei sudditi distinti
e contrapposti al re, è falsa. Tenendo invece presente tale distinzione, si può per
Pufendorf spiegare il paradosso hobbesiano, in quanto si comprende come la mani-
festazione del popolo non passi attraverso la volontà dei molti individui empirici,
che sono sudditi e non «il popolo», e dunque come nella monarchia sia il popolo a
esprimere l’imperium e la volontà, naturalmente «per voluntatem unius hominis».
Da ciò deriva anche l’impossibilità che il popolo si ribelli al re, visto che è attra-
verso il re che esso si esprime: ribellarsi possono solo i sudditi – ma in questo caso
contro la collettività giuridicamente formata, espressa dal rappresentante.
62 Ivi, 13.

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158 Giuseppe Duso – La logica del potere

lii subjciat, ut pro voluntate omnium et singulorum habendum sit,


quicquid de rebus ad securitatem communem necessariis ille volue-
rit»63. La logica della rappresentanza politica moderna non potrebbe
essere espressa più chiaramente: ognuno esprime un unico atto di
volontà, che non è politico, ma fonda lo spazio politico, nel quale
egli non agirà – politicamente – più: con questo atto ognuno intende
la volontà di un singolo uomo o di una assemblea di uomini come
volontà di tutto il corpo politico, e dunque anche come la sua volon-
tà in quanto membro del corpo politico. Dopo di che non ci sarà più
bisogno di nessun consenso.
Ciò che è assente in Althusius è questo logico e aporetico pas-
saggio dalla molteplicità degli individui all’unità della sovranità che
si esprime rappresentativamente. Perciò la socialità e la politicità –
che nel suo caso fanno tutt’uno – dei rapporti tra gli uomini hanno
un significato assai diverso che in Pufendorf, e non si determina lo
iato tra privato e pubblico. Forse nello stesso Pufendorf la moltipli-
cazione degli atti contrattuali si può leggere nella direzione del ten-
tativo di superare tale iato e di rendere pensabile il problema del
controllo, che nel Leviatano di Hobbes è escluso radicalmente. La
contraddizione da superare (su cui sembra radicarsi l’aspetto asso-
lutistico della teoria hobbesiana) consiste nel fatto che gli individui
costituiscono il fondamento del potere, ma questo potere, pur es-
sendo costruito sulla base della loro volontà, una volta formato, non
dipende più dalla loro volontà, che in quanto privata si muove or-
mai su di un altro livello, che non incontra più quello pubblico del
potere. Le azioni pubbliche sono le azioni politiche di ognuno, ma
solo attraverso l’azione reale della persona rappresentativa. Questa
contraddizione non appare qui risolta, e sembra in ogni caso di dif-
ficile o impossibile risoluzione qualora si rimanga all’interno di
questo modo giusnaturalistico di pensare la politica.
In un tale contesto vanno perse alcune caratteristiche dell’agire
politico, quali quelle del consenso e della partecipazione, di cui si è
sopra parlato a proposito di Althusius, ma che potrebbero riferirsi,
con alcune differenze, anche a pensatori come Marsilio da Padova e
Niccolò Cusano. Innanzitutto il consenso, così importante per una

63 Ivi, 5.

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4. Alle origini del moderno concetto di società civile 159

concezione centrata sulla politica come koinonia, in Pufendorf, co-


me negli altri pensatori del moderno giusnaturalismo, perde il suo
senso autentico. Infatti non è ciò per cui ai vari livelli politici si la-
vora, non consiste nel confluire continuo delle diverse volontà in un
agire di concerto, ma si esprime piuttosto in un unico atto, che dà
luogo ad una forma in cui al comando – naturalmente di chi è auto-
rizzato, del rappresentante – deve corrispondere l’obbedienza dei
cittadini, e ciò non in relazione ai contenuti del comando, ma per la
forma che esso ha come espressione della legge da parte di chi è au-
torizzato a farla. Poco senso ha, all’interno di questo ambito politi-
co, parlare di consenso da parte dei sudditi, che, in quanto sotto-
messi, non possono né consentire né dissentire, ma piuttosto devono
obbedire.
Anche di quella partecipazione politica, che caratterizza il con-
testo plurale di Althusius, è qui difficile palare. Infatti le parti non
hanno senso politico e manca quella pluralità di istanze che permet-
te di avere di fronte qualcuno con cui si può collaborare. Mediante
la costruzione giusnaturalistica c’è insieme iato radicale tra potere
politico e individui, ma anche, grazie alla stessa logica rappresenta-
tiva, identificazione. La volontà del rappresentante, e dunque del
corpo politico, come abbiamo visto è intesa da tutti, mediante il pat-
to, come la volontà di tutti e di ciascuno. In quanto la volontà e-
spressa è allora di tutti, i singoli non possono partecipare a ciò che è
già loro e non si trovano più in uno spazio in cui la loro azione pos-
sa avere significato politico.

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5. Rappresentanza politica e costituzione

5.1 Opinioni diffuse e problema

Spesso il concetto di rappresentanza politica è considerato connota-


re quella serie di fenomeni politici – e la connessa concezione del
potere – che segnano la lunga via per la quale si abbandona
l’assolutismo regio, in quanto indica una concezione del potere se-
condo la quale esso non viene esercitato da una persona in base ai
suoi diritti e alle sue particolari prerogative, ma in virtù della volon-
tà dei rappresentati, nei quali risiede il fondamento del potere stesso
e la costante possibilità del suo controllo. In altri termini il suo pro-
prium consisterebbe nel fatto che chi esercita il potere non lo fa a
nome proprio, ma «al posto della» moltitudine di coloro che non lo
possono di fatto esercitare, pur avendo il diritto di esprimere un
mandato (il cosiddetto «mandato libero» delle moderne elezioni dei
rappresentanti in Parlamento) e di controllare i rappresentanti e il
loro operato. Questa diffusa concezione, secondo cui si parla di «i-
stituzioni rappresentative», e si distinguono i paesi basati sulla rap-
presentanza da quelli governati in modo autoritario, tende a identi-
ficare il concetto di rappresentanza con quello di democrazia rap-
presentativa e a collegarlo con il fenomeno delle elezioni proprio
delle democrazie di massa, ipotizzando una storia coerente del con-
cetto che riguarda la nostra contemporaneità, seguendo le vicende
dell’estensione del suffragio e spingendosi, per rintracciare alcuni
elementi teorici iniziali di essa, fino alla cesura costituita dalla rivo-
luzione francese.
In questo contesto sembra che ci si trovi di fronte a un rapporto
semplice di rappresentante e rappresentato, che ha alla sua base il
modo privatistico di intendere la forma rappresentativa, secondo cui

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162 Giuseppe Duso – La logica del potere

è il rappresentato a costituire l’elemento dominante, in quanto, es-


sendo il mandante, si trova in una situazione di superiorità nei con-
fronti del mandatario, che dipende appunto dalla sua volontà e dalle
sue istruzioni. Il rappresentante appare in questo caso non tanto co-
lui che decide ed esprime una volontà, quanto piuttosto colui che ne
è semplice esecutore, sia pure in base a una sua propria competenza
e in uno spazio specifico che è lo spazio politico. Rappresentare si-
gnificherebbe rifarsi ad una realtà esistente ed oggettiva, quella del-
la cosiddetta «società civile», che si tratta di trasferire e mediare
nella sfera politica.
Una siffatta concezione, diffusa come senso comune nelle socie-
tà democratiche e costituente un elemento indispensabile della loro
«autointerpretazione» e del rafforzamento del consenso, non per-
mette di intendere la natura della rappresentanza politica, i problemi
teoretici e le aporie che la caratterizzano. Per comprendere nelle sue
radici logiche questa natura bisogna abbandonare il piano di siffatte
opinioni per cercare di cogliere il moderno concetto di rappresen-
tanza politica nella sua genesi, che appare più intrinseca alla storia
teorica successiva del concetto di quanto normalmente non si sia
disposti a ritenere. Un argomento che spinge a prendere questa di-
rezione di riflessione è costituito dalla constatazione che nelle costi-
tuzioni contemporanee, a partire dall’epoca della rivoluzione fran-
cese, non è possibile intendere il tema della rappresentanza, e quasi
l’ovvietà della sua affermazione e diffusione, se non in stretta con-
nessione con il problema dell’unità politica e con la vicenda teorica
caratterizzante lo Stato moderno. Il rappresentante in Parlamento
infatti non rappresenta direttamente colui che lo ha eletto o un
gruppo particolare di pressione o di interesse, o una qualche orga-
nizzazione partitica, ma, come recitano appunto le Carte costituzio-
nali, la nazione, il popolo intero. Ben si comprende che il rappre-
sentante ha il compito di esprimere la volontà della nazione perché
questa non è di per sé già determinata, né può consistere nella
somma delle volontà private dei singoli cittadini, non solo perché
una somma di volontà particolari non costituisce una volontà unica,
ma anche perché, se la rappresentanza fosse legata alle forze e alle
volontà particolari, si resterebbe aperti a quella minaccia della so-
praffazione e del dominio del più forte che le teorie legittimanti il

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5. Rappresentanza politica e costituzione 163

potere hanno cercato di escludere fin dalle origini della moderna


scienza politica.

5.2 La genesi del concetto nell’ambito della questione della


sovranità

Queste considerazioni confermano il risultato dell’analisi storico-


concettuale, che ci ha mostrato la genesi del moderno concetto di
rappresentanza all’interno della nuova scienza politica di Hobbes.
Ciò può apparire paradossale se si tengono presenti le opinioni co-
muni sopra ricordate e contemporaneamente il fatto che il pensatore
politico in questione è assai spesso interpretato nella chiave di
quell’assolutismo contro cui si ritiene abbia combattuto una conce-
zione del potere di tipo rappresentativo. Ancor più è paradossale il
fatto che, nel contesto del pensiero hobbesiano, è proprio sulla natu-
ra rappresentativa che si basa nello stesso tempo la legittimità
dell’agire del sovrano, ma anche la sua assolutezza e l’impossibilità
(in Hobbes), o in ogni caso la difficoltà estrema (nei pensatori suc-
cessivi che si ispirano al diritto naturale) di pensare a un suo con-
trollo.
Ricordiamo come emerge nel Leviatano il concetto di rappresen-
tanza, necessario per pensare la sovranità in senso moderno e la
stessa possibilità del costituirsi del corpo politico. Un primo ragio-
namento può essere fatto in relazione al risultato del patto: questo
non consiste in un accordo temporaneo tra soggetti diversi, che
mantengono la loro capacità di volere e di decidere: tale accordo
sarebbe ben labile e non risolverebbe il problema della reciproca
conflittualità degli uomini legata alle diversi opinioni su cosa sia
giusto per il vivere in comune. Ciò che è stato prodotto è una per-
sona, la persona civile, che d’ora in poi dovrà esprimere il proprio
giudizio e il proprio volere su ciò che è bene per la vita comune:
dovrà cioè agire come soggetto politico. Se si tiene presente che nel
patto è la molteplicità indefinita dei singoli che è confluita per supe-
rare la diversità delle opinioni, ci si può chiedere quale debba essere
la volontà della persona civile (che non può essere che una dal
momento che una è la persona) che è stata costituita. Evidentemen-
te essa non può identificarsi con quelle diverse dei singoli individui
né risultare dalla somma di queste ultime, perché nel contratto gli

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164 Giuseppe Duso – La logica del potere

individui hanno trovato un punto di coincidenza formale sulla ne-


cessità che uno sia il giudizio e una sia la forza, proprio in quanto
tra le diverse opinioni non c’è accordo sui contenuti di volta in vol-
ta da decidere. Né ci può essere, a causa del presupposto
dell’uguaglianza tra gli uomini, nessuno che abbia tali qualità da
permettergli di essere a capo del corpo politico che è stato fondato.
Non c’è che una possibilità, che qualcuno rappresenti, prenda le
parti della persona civile, cioè esprima una volontà ed un agire che
non sono considerati suoi, ma di tutto il corpo politico. Costui è il
sovrano nei confronti del quale tutti con il patto si rendono sudditi1.
L’obbedienza al sovrano è direttamente legata alla sua natura di
rappresentante, al fatto cioè che attraverso di lui si esprime la vo-
lontà del soggetto collettivo, del popolo: è allora a quest’ultimo che
in fondo si obbedisce. Questa è la caratteristica essenziale del pote-
re moderno: che esso appartiene a tutto il corpo politico, e che è la
volontà del soggetto collettivo che nel potere politico si esprime,
anche se il suo esercizio è affidato ad una persona o ad
un’assemblea2. Tale carattere è evidenziato dal modo stesso in cui è
pensato il processo costitutivo dell’autorità, che appare necessario
in un orizzonte determinato dal postulato dell’uguaglianza tra gli
uomini. L’autorità è tale non per caratteristiche o virtù personali,
innate o acquisite, ma sulla base di un processo di autorizzazione,
mediante il quale tutti si fanno autori delle azioni di colui che è au-
torizzato ad agire in vece loro. La persona autorizzata, il rappresen-
tante appunto, non compirà, in quanto tale, azioni di cui è autore,
ma sarà solo maschera (persona nel senso etimologico del termine),
attore delle azioni di cui tutti coloro che costituiscono il corpo co-
mune sono autori. Questo è il nucleo logico della moderna rappre-
sentanza, e in ciò sta la base della legittimità della forma politica
moderna e nello stesso tempo anche l’origine delle aporie che in es-
sa si manifestano.

1 Cfr. il cap. XVII del Leviatano.


2 È da ricordare l’affermazione paradossale di Hobbes, secondo cui, nel caso della
monarchia, «il re è il popolo», in quanto il re esprime la volontà del soggetto col-
lettivo di fronte a quella che è una mera moltitudine di sudditi (cfr. cap. III, n. 56);
il fatto che tale paradosso sia ripreso e spiegato da Pufendorf (cfr. cap. IV, n. 61) è
indice dell’espandersi della logica della nuova scienza politica.

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5. Rappresentanza politica e costituzione 165

La consapevolezza del fatto che il capitolo del Leviatano dedica-


to alla rappresentanza, il XVI, precede quello del contratto fondante
il commonwealth, ci suggerisce una riflessione ulteriore. Infatti la
questione in Hobbes non è semplicemente quella di dare voce e vo-
lontà alla persona civile che è stata costituita, ma, ancor prima, di
riuscire a pensare un corpo collettivo che abbia il carattere
dell’unità, in un contesto nel quale il punto di partenza è costituito
dall’infinita molteplicità degli individui. È infatti nel capitolo dedi-
cato alla rappresentanza che emerge l’argomentazione centrale della
moderna forma politica, che condizionerà il pensiero politico suc-
cessivo: c’è un unico modo per pensare come una una molteplicità
di individui, che uno ne sia il rappresentante, e dunque che qualcu-
no, o alcune persone esprimenti un’unica volontà, agiscano rappre-
sentativamente per quei molti che si fanno uno3.
Questa centralità del concetto di rappresentanza in Hobbes può
essere sfuggito a chi si riferisce alla situazione plurale e cetuale del-
la società precedente e al concetto di rappresentanza che in tale con-
testo si era affermato, e pensa alla continuazione di questa realtà
anche all’interno dell’epoca moderna4. In tale contesto infatti il po-
polo è considerato come rappresentabile non in quanto insieme di

3 Cfr. Hobbes, Leviatano, cit., XVI, p. 134: «Una moltitudine diviene una sola
persona, quando gli uomini [che la costituiscono] vengono rappresentati da un solo
uomo o da una sola persona, e ciò avviene con il consenso di ogni singolo apparte-
nente alla moltitudine. Infatti è l’unità di colui che rappresenta non quella di chi è
rappresentato, che rende una la persona; ed è colui che rappresenta che dà corpo
alla persona, e ad una persona soltanto. Né l’unità di una moltitudine si può inten-
dere in altro modo». L’unità non può consistere nel rappresentato, cioè la moltitu-
dine, poiché questa è realmente composta da molti singoli, che, se si esprimono in
quanto tali, saranno sempre molti. Solo l’espressione di una volontà unica median-
te il rappresentante permette di avere il popolo come soggetto politico unitario. Se
il popolo come uno fosse già tale e reale prima della rappresentazione e a prescin-
dere da essa, non sarebbe necessario, e nemmeno possibile, rappresentarlo. Questa
non è una necessità logica che riguardi l’impossibilità di unificazione e di accodo
tra soggetti diversi, ma riguarda il problema dell’unità e della forma che si pone
nel momento in cui il ragionamento, nell’ambito astratto della scienza, prende le
mosse dal concetto di individuo e dunque da una moltitudine di individui, nella
quale le differenze non sono più determinate e vengono perciò azzerate: in tale
modo di concepire la razionalità in rapporto alla sfera pratica non ci si riferisce più
alla società e alle molteplici aggregazioni testimoniate dall’esperienza, ma si in-
tende costruire la società con un esperimento del pensiero.
4 Cfr. ad es. von Gierke, Althusius cit., cap. IV: Il principio rappresentativo.

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166 Giuseppe Duso – La logica del potere

tutti gli individui, ma in quanto composto di ceti e organizzazioni


diverse, con una loro forza, loro diritti e diverse libertates. Questo
popolo poteva essere rappresentato di fronte all’istanza altra del si-
gnore, di colui che governava in una realtà plurale, nella quale si
esprimevano una serie di altre potestates5. È tale quadro che si in-
tende azzerare nel momento in cui si vuole fondare razionalmente
un potere politico unitario, che non è più un’istanza estranea nei
confronti del popolo molteplice, ma costituisce lo stesso potere del
popolo, il suo modo di agire, il modo di agire di ogni cittadino in
quanto parte del corpo politico. È significativo il fatto che in un
contesto cetuale la rappresentanza sia legata al mandato imperativo,
perché si riferisce a realtà esprimenti una volontà determinata che
deve essere rappresentata6. Invece nella moderna teoria non c’è una
realtà o una volontà precedente che sia semplicemente da rispec-
chiare: la volontà del corpo politico è quella che prende forma me-
diante l’agire rappresentativo. Qui sta il fondamento
dell’assolutezza della sovranità e della difficoltà di rintracciare la
via per un controllo dei rappresentanti. Perciò con il giusnaturali-
smo si assiste sostanzialmente alla caduta dell’antico diritto di resi-
stenza: perché quello del sovrano, o in seguito dei rappresentanti
della sovranità del popolo, è l’unico modo di espressione del volere
del soggetto collettivo e non è ad esso contrapposto.
Tale necessità logica è ben presente anche nel pensiero tedesco
che prende l’avvio dalla scienza del diritto naturale. Non solo infatti
Pufendorf si colloca, come si è visto, sulla scia di Hobbes e della
sua concezione nuova della rappresentanza, ma in questa linea si
trova anche Kant, che ravvisa nel principio rappresentativo ciò che
caratterizza la forma razionale, repubblicana dello Stato, e che nega
il diritto di resistenza con un’argomentazione che ripresenta la fer-
rea logica della rappresentanza. Se il popolo è inteso non come una
massa informe, ma come «una associazione stabilita sotto una vo-
lontà legislatrice generale» (forma politica appunto) la sua volontà

5 Sulla storia del concetto di rappresentanza si tenga sempre presente il testo fon-
damentale di Hofmann, Repräsentation cit.; è da tener presente anche G. Miglio,
Le trasformazioni del concetto di rappresentanza, in Le regolarità della politica,
Giuffré, Milano 1988, vol. II, pp. 971-998.
6 Cfr. per la rappresentanza in Althusius, il cap. IV, § 3, con la relativa bibliogra-
fia.

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5. Rappresentanza politica e costituzione 167

si esprime mediante colui che è autorizzato a farlo: di fronte a co-


stui (il summus imperans), cioè il rappresentante, non c’è il popolo,
ma l’insieme dei sudditi7. In Kant tuttavia la consapevolezza del
piano ideale in cui si colloca la volontà generale e la stessa figura
del contratto sociale comporta l’indicazione del senso di responsa-
bilità che caratterizza il rappresentante, che deve essere illuminato
da quella ragione che viene alla luce nella sfera pubblica, la sfera
che lega il filosofo al suo pubblico8.
Assai istruttivo sulla difficoltà di pensare in modo costituzionale
il problema del controllo di chi esercita il potere comune è
l’atteggiamento di Fichte, il quale dopo aver affermato la necessità
logica della rappresentanza per la forma politica9 mette in moto un
incalzante ragionamento nel tentativo far emergere nella realtà quel
popolo, o quella comunità, che è il solo soggetto superiore ai rap-
presentanti e dunque legittimato a giudicarli. La difficoltà consiste
nel fatto che la logica della rappresentanza richiede che sia proprio
attraverso il rappresentante che si manifesta il soggetto collettivo, e
cioè il popolo, e che non sia possibile la manifestazione diretta di
esso, altrimenti, come si è detto, non sarebbe né necessaria né pen-
sabile la rappresentanza. Il tentativo fichtiano di tenere aperto lo
spazio per l’espressione diretta della volontà del popolo, cioè per la

7 È illuminante la celebre «Nota generale sugli effetti giuridici derivanti dalla natu-
ra della società civile» (I. Kant, Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre,
Ak. Aus., VI, pp. 318 ss. , trad. it., La metafisica dei costumi, trad. it. G. Vidari, a
cura di N. Merker, Bari 1983, pp. 148 ss.); cfr. su ciò il mio, Logica e aporie della
rappresentanza tra Kant e Fichte cit., sp. pp. 34-40.
8 Cfr. sul ruolo della critica e dell’opinione pubblica i noti saggi di Koselleck, Cri-
tica illuministica e crisi della società borghese cit., e J. Habermas,
2
Storia e critica
dell’opinione pubblica, trad. it. A. Illuminati, Laterza, Bari 1974 , pp. 127 ss. È sul
significato della razionalità e della filosofia e sulla funzione dell’idea e del dovere
che lo spirito repubblicano manifesta in Kant una radicale novità in rapporto a
Hobbes e al diritto naturale: ciò non sembra tuttavia comportare un modo radical-
mente altro di intendere la costituzione della societas civilis o dello Stato.
9 Egli afferma che tutto il suo procedimento consiste in una «strenge Deduktion
der absoluten Notwendigkeit einer Repräsentation aus reiner Vernunft»
(J.G.Fichte, Grundlage des Naturrechts nach den Prinzipien der Wissenschaftsleh-
re (1796-97), Gesamtsausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften,
hrsg R. Lauth u. H. Jakob (Mitwirkung R. Schottky), Frommann, Stuttgart - Bad
Cannstatt 1966, I,3, p. 439 GA. I, 3, p. 439; Fondamento del diritto naturale se-
condo i principi della dottrina della scienza, a cura di L. Fonnesu, Laterza, Bari
1994, p. 143.

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168 Giuseppe Duso – La logica del potere

rivoluzione, porta alla sua aporia la costruzione della forma politica


e cioè della concezione giuridica del politico10.
Contrariamente a quanto immaginato dalle opinioni considerate
all’inizio, il concetto di rappresentanza non solo non viene inventa-
to dalle moderne democrazie, ma, nella scienza del diritto naturale
moderno, in cui trova la sua genesi, appare addirittura opposto alla
democrazia intesa come il diretto esercizio del potere da parte del
popolo, ossia di tutti i cittadini. Ciò è evidente nell’opposizione alla
democrazia come governo di tutto il popolo che si può rintracciare
in Kant come in Fichte, proprio sulla base del principio rappresenta-
tivo e della responsabilità che esso comporta. Il principio rappre-
sentativo si diffonde con il propagarsi della scienza del diritto natu-
rale. Il più deciso suo oppositore è Rousseau, che ravvisa nella for-
ma della rappresentanza il tradimento di quella sovranità che il po-
polo non può che esercitare direttamente, nella sua presenza e nella
sua attualità. È in Rousseau che, in opposizione alla rappresentanza,
emerge il principio del popolo come una forza costituente, che è al
di là di ogni forma e all’origine di ogni costituzione possibile.
I concetti di rappresentanza e di democrazia sono però destinati
a incrociarsi ben presto, dando luogo a quella che sembra la tipica
forma politica contemporanea della democrazia rappresentativa.
Tale incrocio inizia già nel crogiolo della rivoluzione francese, che
costituisce un momento privilegiato per intendere l’intreccio della
moderna scienza politica con i processi costituzionali dello Stato
moderno.

5.3 La rivoluzione e i concetti del diritto naturale

Con la rivoluzione francese può sembrare finita la stagione del di-


ritto naturale e delle dottrine del contratto sociale: non si tratta più
di immaginare razionalmente la giusta forma della società, ma con-
cretamente di dar luogo alla giusta costituzione: inizia l’era delle
costituzioni. Il termine costituzione viene a prendere il significato,
che ne determinerà l’uso nell’età contemporanea, di carta costitu-
zionale, che ha il compito di delineare l’organizzazione dello Stato

10 Cfr. il mio Libertà e Stato in Fichte: la teoria del contratto sociale, in Il con-
tratto sociale cit. sp. pp. 292-301.

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5. Rappresentanza politica e costituzione 169

e di stabilire i principi che delimitano il potere e tutelano i diritti dei


cittadini. Come nel caso del giusnaturalismo, tuttavia, anche qui ta-
le definizione risulta parziale, perché l’indicazione dei limiti del po-
tere politico va di pari passo con l’opera della sua fondazione, della
sua legittimazione. Si può allora notare come tutto lo strumentario
del diritto naturale moderno venga ad essere utilizzato per la forma
costituzionale dello Stato. Non solo, ma nel periodo della rivoluzio-
ne si assiste anche al diffondersi e al divenire linguaggio comune di
tutti quei concetti fondamentali che si erano formati nel laboratorio
teorico della scienza del diritto naturale. Ciò non significa che la
teoria abbia prodotto il movimento rivoluzionario e lo Stato con-
temporaneo; ma senza i concetti politici in essa elaborati non sareb-
be comprensibile il passaggio da quella realtà che si comincia ad
indicare come ancien régime alla moderna costituzione dello Stato.
I concetti risultano qui indicatori dei processi costituzionali e nello
stesso tempo anche forze propulsive degli stessi. All’altezza del
compito di fare la costituzione dello Stato, una costituzione che è
legittima in quanto individua nella totalità del popolo il soggetto
della sovranità, si può verificare la logica della costruzione del dirit-
to naturale e si può comprendere come in essa sostanzialmente ven-
ga a sparire l’antico diritto di resistenza. L’apparato concettuale del
giusnaturalismo può esercitare una opposizione ad un potere stori-
camente esistente considerato irregolare e illegittimo, ma, qualora
costituisca l’armamentario per la giusta costituzione dello Stato, to-
glie la possibilità della resistenza dei singoli cittadini, proprio per-
ché il potere costituito è il legittimo potere di tutto il corpo politico
e dunque di tutti in quanto parte di esso.
Questo ricadere dei concetti della filosofia politica moderna nel-
la realtà costituzionale e, ancor prima, nel senso e nel linguaggio
comune è ben evidenziato da Sieyès11, che, anticipando le critiche
al razionalismo e all’astrattezza filosofica che caratterizzerebbe la
Rivoluzione francese, nell’89 già indica come stavano diventando
insieme patrimonio comune e realtà una serie di idee che al loro ap-
parire erano state liquidate come «metafisica»: che fosse da dare
una costituzione alla Francia; che il potere legislativo appartenesse
alla nazione e non al re; che i deputati degli stati fossero veri rap-

11 Riprendo qui alcune considerazioni svolte in Rivoluzione e costituzione del po-


tere, in Il concetto di potere cit.

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170 Giuseppe Duso – La logica del potere

presentanti; che si distinguesse un potere costituente da uno costi-


tuito; che i cittadini fossero uguali e depositari di uguali diritti. Ciò
accade, dice Sieyès, per tutte le verità razionali che si affermano
nell’ambito pratico: prima sono avversate come astratte e rifiutate, e
poi finiscono per alimentare l’insieme delle idee comuni e diventa-
no semplicemente «il buon senso»12.
Ciò vale a buon diritto per i principi che vengono espressi nella
famosa Dichiarazione dei diritti dell’uomo13. Essa è un indicatore
di quanto si sia diffusa l’idea che gli uomini siano uguali ed abbia-
no uguali diritti e di come sulla base di tali diritti si debba organiz-
zare la convivenza politica degli uomini. La dichiarazione dei dirit-
ti, pur intendendo essere un proclama universale per tutti valido, in
realtà è la premessa alla costituzione, cioè al formarsi di una società
politica specifica, con un suo potere14. Nella stessa Dichiarazione è
presente l’elemento del potere, poiché il diritto fondamentale della
libertà sta alla base della proclamazione della legge e di una forza
pubblica che sola appare garantire i diritti.
La centralità del concetto di libertà conferisce anche un signifi-
cato nuovo allo stesso termine di «rivoluzione», che non è più col-
legabile a ciò che la parola prima indicava sulla base del suo stesso
etimo – cioè moto circolare, che ritorna su se stesso –, ma è com-
prensibile in relazione all’instaurazione di un ordine nuovo, e dun-
que in relazione ad una filosofia della storia, con la sua idea di evo-
luzione e di emancipazione15. La parola non è più semplice descri-
zione di avvenimenti, ma indica un compito da realizzare e un in-
sieme di idee e principi, nei confronti dei quali decidere la propria
collocazione culturale e politica. Concetto centrale e determinante il

12 E.-J. Sieyès, Preliminari della costituzione. Riconoscimento ed esposizione ra-


gionata dei diritti dell’uomo e del cittadino. Letto il 20 e 21 luglio 1789 al comita-
to di costituzione all’abate Sieyès, in Opere e testimonianze politiche, trad. it. a
cura di G. Troisi Spagnoli, Giuffré, Milano 1993, vol. I, pp. 377 ss.
13 Cfr. Les Déclarations des droits de l’homme, a cura di Lucien Jaume, Flamma-
rion, Paris 1989.
14 Cfr. Su ciò H. Hofmann, Il contenuto politico delle dichiarazioni dei diritti
dell’uomo, «Filosofia politica», V (1991), n. 2, pp. 373-397.
15 Cfr. Criteri storici del moderno concetto di rivoluzione, in Futuro passato cit.,
sp. p. 63. Su ciò si veda anche la voce Revolution nei GG e K. Griewank, Der neu-
zeitliche Revolutionsbegriff. Entstehung und Entwicklung, Weimar 1955, Frankfurt
a. M. 19692, trad. it. a cura di C. Cesa, La Nuova Italia, Firenze 1979.

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5. Rappresentanza politica e costituzione 171

senso della rivoluzione è quello di libertà: la rivoluzione è il pro-


cesso di liberazione dalle pastoie del potere esistente e dalla cristal-
lizzazione dei diversi diritti e privilegi.
La libertà costituisce infatti la base della Dichiarazione dei dirit-
ti. Non si tratta più delle diverse libertà che erano continuamente
invocate nelle lotte politiche del XVIII secolo contro la minaccia
dell’assolutismo, cioè le franchigie, le immunità e i privilegi propri
di comuni, ordini, università e corpi. È da tenere presente che, sino
alla Rivoluzione, sia la realtà politica, sia il modo diffuso di pensare
la politica, non sono caratterizzati dai concetti unitari e omogenei
della scienza del diritto naturale, ma sono segnati da una realtà
complessa, che riguarda diversi diritti e autorità. È nel periodo della
Rivoluzione che si diffonde quell’idea di libertà che aveva fatto la
sua comparsa già nella filosofia politica del Seicento e che compor-
ta la sua attribuzione a tutti gli individui ugualmente, al di là della
millenaria dottrina che pensava come liberi alcuni uomini, grazie
alla non libertà di tutti coloro che, con il loro lavoro, liberavano i
primi dai bisogni e dalle occupazioni a questi connesse, rendendoli
così disponibili alla vita politica. Ma se la legge, con l’obbligazione
politica che da essa deriva, si basa sulla libertà ed è ad essa funzio-
nale, la sua produzione deve essere segnata dall’autonomia della
volontà: per essere libero cioè il popolo deve obbedire solo alla leg-
ge che esso stesso si è dato. Questa, d’ora in avanti, diventa una ve-
rità indiscussa, e il problema riguarda solo il modo in cui il popolo
può dare a se stesso la legge: determinare questo modo è appunto
compito della costituzione dello Stato.
Se tale principio della libertà sta alla base della nuova organiz-
zazione della società, ben si comprende come cambino tutti i con-
cetti che denotano la sfera politica. La convocazione degli Stati ge-
nerali del 1789 sta a ricordare che lo Stato è organizzato per stati, la
partecipazione politica dei quali è legata alle loro specificità e diffe-
renze: accanto ai nobili e al clero vi è il terzo stato, organizzato nei
comuni, nei borghi e nelle città, a seconda dei corpi e delle associa-
zioni che lo costituiscono. Questo mondo viene ad infrangersi
nell’89, nel momento in cui emerge un modo totalmente nuovo di
intendere la politica: nel celebre proclama delle nuove idee, che è il

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172 Giuseppe Duso – La logica del potere

discorso sul terzo stato di Sieyès16, l’ordine politico che sta alla ba-
se della proclamazione degli Stati generali mostra di essere destitui-
to di razionalità e legittimità. Uguaglianza e libertà, le idee che si
stanno affermando, non possono che determinare un popolo omo-
geneo, una nazione, in cui non ci sono più privilegi, né differenze,
se non quelle sociali, legate alla divisione del lavoro, che sono fun-
zionali all’utilità comune. Non ci sono più allora ceti, stati diversi,
ma la rivendicazione del terzo stato diviene l’affermazione di un
unico Stato in cui tutti sono uguali. Il terzo stato, che coincide con
la nazione intera, si fa Stato, ma in questo modo perde totalmente di
senso politico l’antica parola di stato, perdono di significato ordini,
ceti e tutto ciò che caratterizzava le diversità nella convivenza poli-
tica degli uomini.

5.4 La costituzione tra rappresentanza e potere costituente

La società politica francese appare allora costituita in modo ingiu-


sto e non ci si può basare sui diritti e i privilegi che caratterizzavano
l’ancien régime, come pure sull’attribuzione al monarca del potere
di fare le leggi. Lo Stato deve essere fondato su una base razionale
e su princìpi giusti, deve essere costituito, e per questo compito e-
merge un soggetto costituente, per il quale risulta naturale trovare
un riferimento nel pensiero di Rousseau. È la società che risulta dal-
la eliminazione degli ordini, una società in cui tutti sono uguali e le
differenze hanno solo significato nella dimensione della produzione
o delle varie funzioni – dunque l’intera nazione – che ha questo
compito costituente, quello in cui emerge il popolo come vero so-
vrano, dotato del potere assoluto: «essa preesiste a tutto, è l’origine
di tutto». Solo il popolo può dettare leggi a se stesso, può costituire
lo Stato. Il potere, di cui la nazione è dotata, non è limitato né limi-
tabile da chicchessia. Non c’è costituzione, non c’è forma civile che
vincoli tale realtà della nazione: essa è all’origine di ogni forma «e
basta che la sua volontà si manifesti perché ogni diritto positivo
venga meno di fronte ad essa che è fonte ed arbitro supremo di ogni
diritto positivo»17. Lo Stato, fondato secondo i principi razionali e

16 E.-J. Sieyès, Che cos’è il terzo stato, in Opere e testimonianze politiche cit.,
vol. I, 207-298.
17 Cfr. ivi, pp. 255-258.

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5. Rappresentanza politica e costituzione 173

legittimato dalla volontà di tutti, diviene la fonte unica del diritto al


suo interno18.
Se il compito nuovo è dunque per la Francia quello di darsi una
costituzione, emerge il soggetto che unico può assolvere a questo
compito, la nazione come totalità di individui uguali, come realtà
che, presupponendo solo il diritto di natura, elimina tutte le diffe-
renze esistenti e cristallizzate nel tempo. La situazione non è più so-
lo quella teorica propria dello scenario del contratto sociale: si tratta
di dare costituzione ad una società politica nella realtà storica; e con
il problema della costituzione si presenta anche il problema del po-
tere costituente. Sieyès distingue il potere costituente da quello co-
stituito: c’è organizzazione politica in quanto c’è un potere, che
come si vedrà, è articolato o diviso, ma tale potere costituito non
può essere costituente. Il depositario di quest’ultimo può essere solo
la nazione, il popolo intero. Viene in tal modo ripresa l’idea del po-
polo sovrano di Rousseau, che, come si è detto, dopo la sua com-
parsa costituisce l’indiscusso soggetto legittimo della politica. Le
costituzioni moderne sono segnate dal destino di questo concetto di
popolo come grandezza costituente.
Tuttavia, come già si è notato, l’aporia che sembra propria di ta-
le concetto consiste nel fatto che, per compiere l’opera determinata
del dar forma allo stato, di dare una costituzione, si presuppone un
soggetto che non è costituito, non ha una forma, e dunque non ha
nessuna determinazione. È la difficoltà che si mostra nella necessità
che Rousseau ha di evocare la figura del Legislatore nel momento
in cui intende mostrare nell’accezione più alta l’opera di produzione
di forma e dunque di costituzione. In Sieyès questa difficoltà viene
evitata delineando un contesto in cui si parla di «volontà generale
rappresentativa» e si intende la rappresentanza come necessaria non
solo al livello del potere costituito, ma anche al livello più alto del
potere costituente, dal momento che il popolo per esprimersi ha bi-
sogno pur sempre di un nucleo di persone, dell’Assemblea costi-
tuente appunto.

18 Sui problemi concettuali relativi alla tematica della costituzione anche nel loro
spessore storico, si veda il lavoro di M. Fioravanti, Stato e costituzione. Materiali
per una storia delle dottrine costituzionali, Giappichelli, Torino 1993: si tratta di
uno strumento importante anche in relazione alla bibliografia fondamentale indica-
ta.

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174 Giuseppe Duso – La logica del potere

Che cambi radicalmente il modo di intendere la politica lo si può


verificare attraverso il mutamento della rappresentanza come modo
di organizzazione dello Stato. La convocazione degli Stati generali
avviene in un contesto in cui il monarca ha sue prerogative, la sua
funzione di governo, il potere di fare le leggi, mentre la società è
divisa in ordini, che si rappresentano di fronte a lui, che esprimono
esigenze e bisogni, sulla base di un preciso mandato, cioè su una
volontà determinata ed espressa dalla cerchia di cui il rappresentan-
te è tale. L’unità dello Stato è incarnata dal re, che resta una supe-
riore istanza di fronte ai rappresentanti degli ordini. La prima ri-
chiesta avanzata dal terzo stato, di avere aumentata la sua rappre-
sentanza, affinché essa non sia numericamente inferiore a quella
degli altri due stati uniti, risulta subito insufficiente e inadeguata in
rapporto alla considerazione che il terzo stato fa riferimento alla
quasi totalità della nazione (venticinque milioni di cittadini di fronte
ai duecentomila membri di nobiltà e clero, dice Sieyès), e che la
rappresentanza dei primi due stati si basa sui privilegi. La rappre-
sentanza del terzo stato diventa allora l’unica rappresentanza nello e
dello Stato; ma in tal modo cambia radicalmente la natura e la fun-
zione della rappresentanza.
I concetti ormai diffusi di uguaglianza e libertà, che è propria di
tutti gli uomini e non è più legata ai privilegi, comportano la caduta
del riferimento agli stati e alla loro rappresentanza, così come del
riferimento alla superiorità dell’istanza del re, a cui si rivolgeva un
tipo di rappresentanza di origine feudale. Se scompaiono gli stati
privilegiati scompaiono gli stati come tali, e la rappresentanza, su
base egualitaria (anche se con l’elemento discriminante del censo
per l’elettorato attivo) diviene il modo di espressione dell’unica vo-
lontà della nazione. Non si tratta più di rappresentare parti della so-
cietà o bisogni particolari di fronte all’istanza di governo, ma piut-
tosto di dare forma alla volontà sovrana della nazione, cioè all’unità
politica. La funzione fondamentale che ha la legge come espressio-
ne della sovranità della nazione, richiede che il popolo sia soggetto
alla legge che egli stesso si è dato: egli è dunque depositario del po-
tere legislativo e la rappresentazione è il meccanismo che permette
di intendere sia il modo di espressione della volontà generale, sia la
fonte di legittimazione del comando, che sta nell’espressione della
volontà di tutti, nell’atto di elezione dei rappresentanti. Non c’è più

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5. Rappresentanza politica e costituzione 175

una pluralità di istanze, ma il potere, attraverso la rappresentanza,


diviene il potere di tutti, in quanto tutti costituiscono il corpo politi-
co.
Si manifesta in tal modo la differenza radicale tra la rappresen-
tanza che si sta affermando e la precedente rappresentanza per stati,
ordini o ceti. Mentre in quest’ultima è ancora presente la figura del
mandato imperativo, cioè di una volontà determinata ed espressa a
cui i rappresentanti sono vincolati, a partire dalla costituzione del
1791, quando cioè, attraverso il parlamento, si rappresenta la volon-
tà unitaria di tutta la nazione, non c’è più un mandato vincolante, in
quanto non è espressa una volontà determinata che il deputato deve
rappresentare presso un’istanza superiore, ma la volontà generale
piuttosto prende forma, viene cioè prodotta dall’assemblea dei rap-
presentanti. L’elezione allora, non esprime contenuti della volontà
propria degli elettori, ma solo l’indicazione di colui o coloro che
esprimeranno per loro la volontà di tutta la nazione: ha dunque il
senso del vincolarsi da parte di tutti alle future deliberazioni
dell’assemblea legislativa. Emerge qui quel concetto di rappresen-
tanza dell’unità politica che aveva fatto la sua comparsa nel Levia-
tano di Hobbes, secondo cui tutti si dichiarano autori delle azioni
che l’attore (il sovrano rappresentante in Hobbes, ora i rappresen-
tanti del popolo sovrano) compirà19. D’ora in poi, nelle costituzioni,
il potere sarà sempre fondato dal basso, in quanto non c’è rappre-
sentanza se non attraverso l’elezione, un suffragio che si estenderà
fino a divenire suffragio universale; ma tuttavia, essendo la volontà
comune, che diviene legge, prodotta dai rappresentanti, la legge
come comando determinato, viene dall’alto, e richiede ubbidienza,
in ragione della forma politica che per volontà di tutti si è costituita.
La logica che sorregge la costituzione dello Stato richiede anche
che non ci siano più ordini, associazioni, aggregazioni e gruppi do-
tati di significato politico, perché ciò contrasterebbe con
l’espressione dell’unica volontà del popolo, permetterebbe a volon-
tà private di costituire forze pericolose per l’uguaglianza dei citta-
dini, facendo passare per volontà generale quella che è solo volontà

19 Sul rapporto tra la rappresentanza che si instaura con la rivoluzione francese e il


concetto hobbesiano di rappresentanza cfr. L. Jaume, Hobbes et l’état représentatif
moderne, PUF, Paris 1986.

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176 Giuseppe Duso – La logica del potere

di un gruppo, per interesse generale l’interesse particolare di alcuni.


Affinché ci sia giusta costituzione, che realizzi uguaglianza e liber-
tà, è necessario impedire la rappresentanza di interessi di gruppi e
di associazioni; bisogna cioè vietare il costituirsi di forze che pos-
sano avere il sopravvento esercitando dominio sui cittadini. Solo la
forza immane e senza resistenza di tutta la nazione può mantenere i
cittadini liberi e uguali: allora, entrando nella società politica,
l’individuo non sacrifica una parte della libertà che ha per natura,
ma al contrario, solo in essa – grazie alla sottomissione che essa
comporta – può godere di quella libertà che risulta assai precaria
quando, in assenza del potere politico, è garantita solo dalla forza
limitata dei singoli individui20.
La natura della rappresentanza è ben espressa da Sieyès, quando
afferma che solo l’interesse comune e quello individuale, personale,
possono essere rappresentati21. Non solo infatti si può dire che
l’interesse personale, a causa del quale ciascuno si isola, curandosi
di se stesso, non è pericoloso per l’interesse comune – come l’abate
francese dice, esprimendo l’aspetto di isolamento e
l’individualismo propri della società moderna –, ma, con maggiore
radicalità, è da riconoscere che, nella logica dei concetti moderni,
interesse comune e interesse individuale sono due lati della stessa
costruzione, in quanto l’interesse comune altro non è che la difesa
dello spazio privato, che consente ad ognuno di perseguire il pro-
prio interesse e ciò che intende come proprio bene. Non è invece
rappresentabile l’interesse di corpo, che unifica le forze di più indi-
vidui rendendoli pericolosi per la comunità. Si cala così nella tem-
perie che dà luogo alla costituzione quella logica dell’unità politica
già emersa con Hobbes e con Rousseau, i quali, in modo diverso,
vengono a riconoscere nei corpi e nelle associazioni un pericolo e
un elemento di corruzione dell’unità, della razionalità e della rego-
larità del corpo politico22.

20 Cfr. Sieyès, Preliminari della costituzione cit., p. 385.


21 Cfr. Sieyès, Che cos’è il terzo stato cit., pp. 277-278.
22 In direzione diversa va la valorizzazione politica della tematica dei corpi e dei
sistemi subordinati che si può rintracciare nei saggi, per altro interessanti, di N.
Bobbio, Hobbes e le società parziali, in Tomas Hobbes, Einaudi, Torino 1989, pp.
169-191, e soprattutto di P. Pasqualucci, Thomas Hobbes e Santi Romano, ovvero
la teoria hobbesiana dei corpi subordinati, «Quaderni fiorentini», 15 (1986), pp.

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5. Rappresentanza politica e costituzione 177

Nei primi anni della Rivoluzione si affermerà questa logica della


rappresentanza, destino del moderno significato della democrazia,
anche se non senza tensioni e lotte, soprattutto da parte di coloro
che, come i Giacobini, intendono far rivivere la volontà vera del
popolo al di là della mediazione rappresentativa. Tale dialettica si
riproporrà anche in seguito nella vita politica e nella storia delle co-
stituzioni, ogni qualvolta si cercherà la via per fare emergere, in
forma quanto più possibile immediata, la volontà sovrana del popo-
lo, intesa come superiore alla costituzione, in quanto il popolo è il
soggetto costituente. Ma anche un’altra dialettica comincerà a parti-
re dalla Rivoluzione, quella cioè dello scarto tra la volontà prodotta
dai rappresentanti e la volontà del popolo, che, avendo carattere i-
deale, può sempre essere evocata contro il potere esistente. Ciò por-
terà non solo al movimento critico dell’opinione pubblica nei con-
fronti del potere costituito, ma anche al tentativo di dominare e
formare l’opinione pubblica e alla lotta moderna dei partiti per oc-
cupare lo spazio della determinazione della volontà generale. In o-
gni caso le moderne costituzioni custodiranno in sé i due principi
elaborati nel giusnaturalismo in contrapposizione, e tuttavia
all’interno dello stesso problema dell’unità politica e perciò del po-
tere sovrano: non c’è infatti costituzione senza forma, e il principio
formante è quello della rappresentazione, e d’altra parte non c’è co-
stituzione che non implichi l’idea del popolo come soggetto costi-
tuente.
È solo nella Rechtsphilosophie di Hegel che tale assetto concet-
tuale della scienza del diritto naturale che si cala nelle costituzioni,
viene messo in questione e superato. Nel sua speculazione, che ten-
de a comprendere il concreto movimento di pensiero messo in atto
dalla costruzione dell’intelletto, come pure la realtà che è propria
dell’epoca storica e non è riducibile alle categorie dell’apparato teo-
rico, vengono a mutare i concetti fondamentali elaborati dalla
scienza del diritto naturale, che sono visti sfociare in una serie di

167-306. Che non si possa dare senso politico ai corpi mi sembra risulti chiaramen-
te se si fa attenzione al rapporto di dipendenza che i rappresentanti dei corpi hanno,
per la loro funzione rappresentativa, nei confronti del rappresentante assoluto che è
il sovrano (cfr. Hobbes, Leviatano, cit., cap. XXII). Corpi e sistemi non riescono a
portare un’istanza effettivamente plurale nella forma politica così come è da Hob-
bes pensata.

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178 Giuseppe Duso – La logica del potere

contraddizioni causate dalla mancanza di mediazione tra la molte-


plicità degli individui e l’unità politica, la quale si manifesta perciò
nella forma della coazione e del dominio23. In questo contesto muta
il concetto di rappresentanza, perdendo la sua funzione di modo ne-
cessario di espressione dell’unità politica. Nella complessità della
costituzione, intesa come totalità articolata, non è infatti la rappre-
sentanza a permettere il determinarsi dell’unità propria dello Stato,
ma piuttosto l’azione decisiva del sovrano. La rappresentanza non è
costretta all’espressione dell’unità proprio e solo in quanto Hegel
supera la concezione dei singoli individui come fondamento della
società: gli individui sono reali solo all’interno dei rapporti che li
costituiscono, da quelli della famiglia a quelli di una società civile
che non è intesa come spazio omogeneo e unitario, ma come insie-
me di cerchie diverse, di Stände e di corporazioni. Sono allora que-
ste cerchie e i loro interessi ad esprimersi nell’azione rappresentati-
va, che è dunque rappresentanza delle parti nella totalità della co-
stituzione. Essa non è allora più ciò che permette l’esserci dello Sta-
to, ma piuttosto la sua articolazione, il suo completamento, la mani-
festazione della libertà formale e dunque del sentirsi partecipi dei
cittadini della vita politica dell’intero24. Tale concezione della rap-
presentanza da parte di Hegel pone il problema moderno del rap-
porto concreto tra unità dello stato e pluralità degli interessi, e quel-
lo, di assai difficile soluzione nelle moderne costituzioni della par-
tecipazione politica dei cittadini, e dunque può apparire come com-
prensione della realtà dello Stato moderno25. Tuttavia essa non di-
viene modello costituzionale né si diffonde nel modo comune di
23 Cfr. il mio saggio La critica hegeliana del giusnaturalismo cit.
24 Rimando per l’approfondimento di questo punto al mio La rappresentanza poli-
tica e la sua struttura speculativa cit., e ad Alessio, Azione ed eticità in Hegel cit.,
sp. pp. 209 e sgg.
25 È emblematico del coglimento hegeliano del problema che si pone con lo Stato
moderno il fatto che un giurista che riflette con competenza e acutezza su problemi
costituzionali quali Böckenförde, nel momento in cui analizza le contraddizioni
della rappresentanza nella moderna democrazia si chieda se, per intendere un di-
mensione pluralistica, non si debba ritornare a pensare alla rappresentanza in chia-
ve hegeliana (W. Böckenförde, Demokratie und Repräsentation. Zur Kritik der
heutigen Diskussion, ora in Staat, Verfassung, Demokratie. Studien zur Verfas-
sungstheorie und Verfassungsrecht, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1991, pp. 379-401,
trad. it. Democrazia e rappresentanza, «Quaderni costituzionali», 1985, n. 2, pp.
227-63.

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5. Rappresentanza politica e costituzione 179

pensare e nel linguaggio politico. È piuttosto la concettualità elabo-


rata dalla scienza politica moderna che si cala nelle moderne costi-
tuzioni, a partire, come si è visto, dal periodo della rivoluzione
francese.

5.5 La struttura teoretica della rappresentazione

Singolarmente, proprio nel periodo in cui l’apparato teorico che si è


consolidato nella dottrina dello stato moderno sembra andare in cri-
si, si assiste a un momento alto di riflessione sulla struttura e sulla
logica dei concetti politici moderni. Alla fine degli anni Venti di
questo secolo il concetto di rappresentanza politica è al centro della
riflessione di giuristi quali Carl Schmitt e Gerard Leibholz, che ne
illuminano la struttura logica, distinguendo il concetto politico di
rappresentanza (Repräsentation) da quello privatistico (Vertre-
tung)26. Mentre questo consiste in un semplice stare al posto di
qualcuno, un agire mediante delega, un rispecchiare e portare a
compimento una volontà espressa, la rappresentanza politica ha un
carattere produttivo, formativo, che è evidente quando si usa il ter-
mine rappresentare nell’ambito teatrale (che come si è visto per la
dialettica autore-attore costituisce più che un semplice esempio) o
in quello pittorico27.

26 Cfr. Schmitt, Dottrina della costituzione cit., sp. § 16 e G. Leibholz, Das Wesen
der Repräsentation unter besonderer Berücksichtigung des Repräsentativsystems,
Duncker & Humblot, Leipzig u. Berlin 1929, ed ampliata, de Gruyter Berlin 1973;
trad. it. La rappresentanza nella democrazia, a cura di S. Forti, Giuffré, Milano
1989. Ma diffusa è in questi anni la riflessione sul tema della rappresentanza poli-
tica: cfr. F. Glum, Der deutsche und französische Reichwirtschaftsrat. Ein Beitrag
zu dem Problem der Repräsentation der Wirtschaft im Staat, de Gruyter, Berlin u.
Leipzig 1929; E. Gerber, Der Staatstheoretische Begriff der Repräsentation in
Deutschland zwischen Wiener Kongress und Märzrevolution, Neunkierchen 1929;
ma anche R. Smend, Verfassung und Verfassungsrecht, Duncker & Humblot,
München u. Leipzig 1928 (trad. it. a cura di G. Zagrebelsky, Giuffré, Milano 1988)
e H. Heller, Die Souveränität. Ein Beitrag zur Theorie des Staats und Volkerrechts,
de Gruyter, Berlin u. Leipzig 1927 , trad. it. La sovranità e altri scritti sulla dottri-
na del diritto e dello Stato, a cura di P. Pasquino, Giuffrè, Milano 1987.
27 Tale aspetto formativo è più evidente nel termine rappresentazione piuttosto
che in quello normalmente usato di rappresentanza, che suscita, nel linguaggio
comune, un’immagine di passività, di dipendenza, di rispecchiamento nei confronti
di una presunta volontà esistente che deve essere rappresentata. Per quanto riguar-
da la struttura della rappresentanza e i problemi teoretici che pone, rimando al mio

Giuseppe Duso. La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica
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180 Giuseppe Duso – La logica del potere

Se, come si è visto, ciò che il rappresentante rappresenta, anche


nei parlamenti moderni, non sono i singoli, o le parti della società, o
gruppi di interessi, ma la nazione, il popolo intero, allora bisogna
riconoscere che ciò che si deve rappresentare non c’è nella realtà
empirica, non può essere rispecchiato, ma emerge proprio attraver-
so l’azione rappresentativa: ha dunque un carattere ideale. A ben
vedere allora la definizione di sapore metafisico che Schmitt forni-
sce (e anche Leibholz) della rappresentanza politica, che consiste
nel rendere presente ciò che è assente – che è per sua natura assente
e rimane tale anche quando è reso presente – non è una oscurità
senza senso in quanto contraddittoria, ma esprime la struttura pro-
pria della rappresentanza moderna. Il popolo infatti non è realtà
presente empiricamente e per questo si deve e si può rappresentarlo.
A causa di questa struttura del concetto, nella teoria giuridica del
XIX e XX secolo da una parte si definisce come «sovrano» il popo-
lo, ma dall’altra si intende come organo che esprime la volontà so-
vrana il Parlamento. È la natura ideale del popolo che porta alla
consapevolezza che la rappresentanza moderna viene sempre
dall’alto: come si è visto infatti essa è bensì fondata dal basso – dal-
la volontà degli individui nello scenario del contratto sociale; dal
voto dei cittadini nelle moderne elezioni –, tuttavia, proprio perché
non sono le volontà particolari a dover essere rispecchiate, ma deve
essere prodotta la volontà del popolo, ciò che prende forma
nell’attività rappresentativa è frutto dell’azione dei rappresentanti e
per i rappresentati proviene dall’alto.
Tuttavia, se è vero che il rappresentare consiste in un’attività
formatrice, che non si limita a rendere esecutiva una volontà già de-
terminata, è anche vero che non c’è fenomeno rappresentativo se
non è pubblico, se non implica cioè il giudizio da parte di tutti colo-
ro che riconoscono il prodotto della rappresentazione, sentendosi in
tal modo rappresentati. A ciò non è ritenuta sufficiente
un’autorizzazione data una volta per tutte, così come l’iniziale filo-
sofia del contratto sociale sembrava ipotizzare, e lo sforzo teorico
successivo si è applicato allo studio delle forme di un continuo con-
trollo e verifica. Uno dei fondamentali problemi delle democrazie

La rappresentanza: un problema cit., soprattutto a La rappresentazione e l’arcano


dell’idea: introduzione a un problema di filosofia politica, pp. 13-54.

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5. Rappresentanza politica e costituzione 181

rappresentative riguarda appunto le procedure di questo controllo e


della verifica che la volontà rappresentata sia l’effettiva volontà del
popolo. La natura ideale di questa volontà e il suo non ridursi
all’immagine di volta in volta prodotta dall’organo rappresentativo
mette in atto una dialettica che si rivela nella lotta di chi pretende
sempre meglio di interpretare l’autentica volontà del popolo e nel
ricorso a dirette consultazioni popolari per riconoscere la volontà
del popolo su singoli problemi e su determinati contenuti28.

5.6 Rappresentanza politica e rappresentanza degli


interessi

Si può dire che il concetto di rappresentanza che è stato fin qui e-


saminato ha un carattere formale, e sembra ossessivamente deter-
minato dalla categoria dell’unità. Ciò non è un caso, poiché è pro-
prio sull’elemento formale che la riflessione della scienza politica
moderna fonda la possibilità di realizzare l’ordine sociale e di eli-
minare il conflitto. Si può contrapporre o accostare a questo concet-
to formale di rappresentanza, legato all’autorizzazione degli organi
dirigenti da parte dei cittadini, un concetto più sostanziale, cioè una
rappresentanza di contenuto, secondo cui si immagina la volontà
del popolo effettivamente attuata dall’agire rappresentativo, di mo-
do che i singoli cittadini si sentano effettivamente rappresentati nei
loro interessi e nei loro bisogni. Tuttavia, anche in questa distinzio-
ne emergono difficoltà teoriche, non appena ci si chieda quale con-
tenuto di volontà debba essere realizzato. Se infatti questo riguarda
la totalità della comunità, è da ricordare che, come si è visto, questa
non appare realtà oggettiva e realmente esistente fuori della rappre-
sentazione; se invece si tratta delle idee e dei bisogni diversi dei
singoli, di gruppi, di classi, di organizzazioni, tale proposta pone di
fronte a un complicato intreccio tra il nucleo centrale della rappre-
sentanza politica, che riguarda l’unità, e l’esigenza di rappresenta-
zione di quelle che solitamente si indicano come «parti sociali».

28 Sugli elementi di rappresentatività contenuti nel referendum cfr. il cap. VII del
presente libro.

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182 Giuseppe Duso – La logica del potere

Ci si imbatte così nel problema più delicato che riguarda la ri-


flessione odierna sulla rappresentanza politica. Il rapporto tra rap-
presentanza e unità politica può infatti sembrare del tutto obsoleto.
Può cioè apparire fuori della realtà, così come delle intenzioni con-
temporanee, la concezione che considera il deputato come rappre-
sentante di tutta la nazione, teso al bene comune e alla realizzazione
dell’interesse generale. Già la storia, nel passaggio tra Otto e No-
vecento ha presentato una situazione assai complessa nella quale le
diverse organizzazioni economiche, industriali e sindacali hanno
preso una dimensione sempre maggiore e un peso politico sempre
più rilevante, e la competizione per il potere e l’occupazione della
dimensione istituzionale dello Stato da parte dei partiti sembrano
rendere sempre più chimerico tutto ciò che al bene comune e
all’interesse generale si richiama. Ma anche la dimensione scientifi-
ca si è mostrata attenta a questi elementi ed ha aperto un’analisi che
sembra segnare uno scarto nei confronti della tradizione legata alla
forma classica dello Stato moderno. Si pensi alle stesse analisi poli-
tiche di Weber, a quelle del primo Kelsen, alla riflessione sulla crisi
e trasformazione dello Stato di Santi Romano in Italia, e a tutto il
dibattito riguardante il corporativismo.
La letteratura critica recente tende a contrapporre a un modello
liberale di Stato, di tipo classico, un modello post-liberale, caratte-
rizzato dal pluralismo, dai problemi della democrazia di massa, dal-
le preoccupazioni dello «Stato sociale» in contrapposizione a quelle
proprie dello «Stato di diritto». In questo quadro sono innanzitutto
da considerare le molteplici organizzazioni sociali ed economiche
che tendono ad imporre i loro interessi e bisogni e premono per
un’adeguata rappresentanza. La rappresentanza politica viene così
ad incontrarsi e a intrecciarsi con la rappresentanza degli interessi,
e ciò in una duplicità di piani: il primo è quello in cui organizzazio-
ni che si intendono come non politiche, appunto forze sociali, rap-
presentano i propri interessi di fronte agli organi dello Stato intesi
nella loro autonomia; l’altro riguarda l’organizzazione degli interes-
si e delle parti nello stesso luogo della rappresentanza politica, per
cui questo diventa un terreno di scambio e di lotta tra le parti. Tale
intreccio di rappresentanza e interessi sembrava escluso nella rifles-
sione sulla rappresentanza che si era manifestata in Germania negli
anni Venti, in quanto gli interessi sembravano dover essere legati a

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5. Rappresentanza politica e costituzione 183

una rappresentanza sociale privata piuttosto che politica, alla Ver-


tretung e non alla Repräsentation Tuttavia il fatto che successiva-
mente il dibattito su questo tema abbia conquistato il centro
dell’attenzione, anche in Germania29, pone la questione se si pre-
senti in tal modo un modo nuovo di intendere la costituzione e la
legittimazione dell’obbligazione politica.
Si possono a questo proposito avanzare alcune osservazioni. È
innanzitutto da ricordare che l’uso politico del termine «interesse»
appare connaturato allo svuotamento operato dalla moderna rifles-
sione politica nei confronti di un mondo basato su un ordine natura-
le e di un agire politico che ha il suo asse centrale in un concetto di
bene che trova nella metafisica, nell’etica e nella teologia gli ambiti
della sua dicibilità. È dunque nella scena moderna che il termine ha
la sua pregnanza politica. Inoltre lo stesso etimo del termine, come
inter-esse, e cioè «essere tra», o «prendere parte», richiede uno spa-
zio unitario in cui i vari interessi, diversi, ma uguagliati nella misu-
ra in cui tutti sono interessi, si possano porre30. In altri termini un
interesse non si pone nell’autosufficienza della sua pretesa oggetti-
vità bensì su di un piano comune in cui è compossibile con altri in-
teressi. Senza questo piano unitario di compossibilità, che proprio la
forma politica viene a costituire, non si può nemmeno parlare di in-
teressi. Da questo punto di vista è significativa l’accezione econo-
mica che viene a connotare il termine indicando una comune unità
di misura.
Ciò che è da mettere in questione è il modo usuale di impostare
il problema del rapporto tra rappresentanza e interessi, secondo cui
gli interessi sono una realtà oggettiva, di per sé sussistente, e la rap-
presentanza è il semplice e neutrale riflesso di questa realtà al livel-
lo politico. In realtà l’interesse, come elemento che pretende di esi-
stere e di farsi valere in un piano comune, non riesce nemmeno a

29 Ciò soprattutto a partire dal libro del 1956 di J. H. Kaiser, Die Repräsentation
organisierter Interessen, Duncker & Humblot, Berlin, trad. it. La rappresentanza
degli interessi organizzati, a cura di S. Mangiameli, Giuffré, Milano 1993. Per
un’analisi delle posizioni teoriche sviluppatesi in Germania, si veda A. Scalone,
Rappresentanza politica e rappresentanza degli interessi, FrancoAngeli, Milano
1996.
30 Si veda l’Introduzione di L. Ornaghi a Il concetto di «interesse», Giuffrè, Mila-
no 1984.

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184 Giuseppe Duso – La logica del potere

costituirsi se non in quanto è rappresentato: la rappresentazione


connota allora la scena e la modalità della sua costituzione e della
sua pretesa di valere. Ciò accade già nella prima delle forme che il
termine rappresentazione degli interessi viene ad assumere nella
realtà contemporanea, cioè quella della costituzione di associazioni
e organizzazioni che tendono a pesare sull’attività politica comples-
siva: esempi ne sono le organizzazioni sindacali, operaie e indu-
striali.
Una difficoltà ancora maggiore nella coniugazione dell’unità
politica propria della rappresentanza politica con la pluralità degli
interessi si presenta nella figura del moderno partito politico. È que-
sto che intende porsi come elemento di mediazione tra il punto di
vista dell’unità e della totalità del corpo politico e quello degli inte-
ressi particolari. Infatti i suoi obiettivi sono quelli che riguardano
tutta la società e l’interesse generale, anche quando il suo fine stia
nella modificazione dei rapporti di forza tra le classi o i gruppi so-
ciali. Sotto questo aspetto il partito si inserisce nel gioco della mo-
derna rappresentanza, tendendo ad essere un fattore di coagulo delle
opinioni in direzione della determinazione della volontà generale:
esso presuppone perciò il concetto di potere e quello di società in
un’accezione tipicamente moderna (e perciò unitaria).
Contemporaneamente il partito si riferisce anche a interessi par-
ticolari di cui chiede la soddisfazione, e proprio su questo riferi-
mento cerca di ampliare la sua base e intensificare la sua forza. Qui
il problema non consiste tanto nella scollatura o nella contrapposi-
zione tra i fini generali enunciati e gli interessi particolari che si vo-
gliono soddisfare. A questo proposito è significativo notare che i
fini e i progetti enunciati da tutti i partiti tendono ad avvicinarsi e ad
identificarsi, divenendo irrilevanti per l’identificazione della natura
dei diversi partiti, e gli stessi interessi di cui si chiede il soddisfaci-
mento sono destinati ad ampliarsi coinvolgendo ambiti sociali sem-
pre più vasti; anche per questo aspetto la differenza tra i partiti di-
viene sempre minore. Il problema consiste piuttosto nel fatto che
ciò che sembra contare è non tanto l’oggettività dell’interesse che il
partito nomina e afferma di voler rappresentare, ma invece il fatto
che a tale interesse si dia forma, che esso cioè operi politicamente
proprio in quanto emerge nella forma rappresentativa e nella scena
della rappresentazione. E tale rappresentazione è sempre fuori dagli

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5. Rappresentanza politica e costituzione 185

schemi del rispecchiamento e del mandato, presentandosi piuttosto


nel modo secondo cui ciò che è rappresentato è ciò che prende for-
ma mediante la rappresentazione.
Se si guarda alla funzione rappresentativa degli interessi da par-
te del partito, ciò che emerge in primo piano non è la presunta og-
gettività dell’interesse che deve essere rappresentato, e nemmeno la
specificità dell’interesse che è prodotto dalla rappresentazione, ma
lo stesso interesse che caratterizza questa rappresentazione,
l’interesse cioè del partito che orienta e controlla la rappresentanza
parlamentare. Ciò può essere inteso in un primo significato sempli-
ce, quello cioè dello stesso interesse che il partito ha per la sua af-
fermazione, per l’allargamento della sua base e l’occupazione degli
spazi istituzionali dello Stato. Tuttavia questa constatazione può di-
venire deviante, in quanto può portare alla convinzione che vi sia
un’autonomia del partito come soggetto che decide il suo compor-
tamento, il che non sembra corrispondere alla realtà. Ciò che è più
importante sottolineare è invece che la stessa tensione alla rappre-
sentazione da parte dei partiti avviene come un inter-esse, qualcosa
cioè che si costituisce all’interno di una serie di nessi, di intrecci, di
forze e di contrattazioni, che non trovano un modo per essere nomi-
nati e chiariti attraverso il linguaggio «politico» delle dichiarazioni
di fini e di programmi da parte dei partiti e nemmeno in quello
dell’indicazione degli interessi sociali da soddisfare.
Si può forse, con maggiore radicalità, dire che questa realtà
complessa, che caratterizza la scena politica contemporanea e che
qualcuno usa chiamare «costituzione materiale», risulta indicibile
attraverso le categorie che sono proprie delle costituzioni formali e
che stanno alla base della loro legittimità. Certo tutto ciò forse non
accade solo oggi, ma è connaturato ai caratteri di riduttività e di
pretesa autosufficienza teorica propri dei concetti di quella scienza
politica che nasce con Hobbes. Il riconoscimento dell’incapacità di
comprensione della realtà da parte dei concetti politici moderni ci
riporta non solo all’atteggiamento storiografico di Brunner, ma an-
che a quelle tesi continuistiche31, che vedono la stessa rappresen-

31 Penso soprattutto ai lavori di O. Hintze Staat und Verfassung, Vandenhoeck &


Ruprecht, Göttingen 1962 e Soziologie und Geschichte, Vandenhoeck & Ruprecht,
Göttingen 1964; trad. it. di alcuni saggi in Stato e società, a cura di P. Schiera, Za-

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186 Giuseppe Duso – La logica del potere

tanza moderna come prosecuzione di fenomeni rappresentativi pro-


pri del periodo medievale o di un contesto cetuale. Al di là della
finzione di concetti quali quello di totalità del popolo o di bene co-
mune o di interesse generale, ciò che si continua a rappresentare sa-
rebbero pur sempre interessi, culture, idee e bisogni particolari di
gruppi associativi che non verrebbero cancellati dal formarsi dello
Stato moderno. I parlamenti sono in tal modo intesi come una pro-
secuzione in altre forme di un tipo di rappresentanza già esistente
nella società cetuale e nell’ancien régime. Tali analisi sono di gran-
de interesse per la comprensione della realtà storica; tuttavia in que-
sto modo si rischia di non cogliere lo specifico del moderno concet-
to di rappresentanza e il modo in cui con questo si intende legitti-
mare il monopolio della forza e la giustificazione razionale
dell’obbligazione politica, e dunque anche di non riconoscere il
ruolo materiale e organizzativo svolto da tale concettualità moderna
nella costituzione dello Stato moderno.
In ogni caso l’emergere del problema di una complessità irridu-
cibile alle categorie formali che costituiscono il nesso sovranità-
rappresentazione non riesce a comportare il semplice abbandono di
queste in favore di un nuovo quadro teorico in sé sufficiente. Il co-
siddetto «pluralismo» infatti, da una parte richiede l’elemento
dell’unità politica proprio dello Stato moderno, dall’altra costituisce
all’interno di quest’ultimo un motivo di forte contraddizione. È si-
gnificativo che chi cerca di descrivere sociologicamente un sistema
pluralistico32, sia portato ad ammettere che «paradossalmente, ma
non tanto, si può dire che un sistema pluralistico conseguirebbe
l’armonia se fosse l’espressione di una società di ceti (Stände), cioè
di formazioni sociali relativamente stabili». Ma questo non è il no-
stro caso, e non solo a causa della mobilità che caratterizza le ag-
gregazioni di interessi, a causa della esclusione di diverse compo-

nichelli, Bologna 1980, sp. Condizioni storiche generali della costituzione rappre-
sentativa, pp. 102-137, ma anche a Miglio, Le regolarità della politica, cit., sp. Le
trasformazioni del concetto di rappresentanza.
32 Cfr. A. Pizzorno, Il sistema pluralistico di rappresentanza, in Organizing Inte-
rests and Western Europe. Pluralism, Corporatism and the Transformation of
Politics, ed. by S. Berger, Cambridge University Press, Cambridge 1981, trad. it.
L’organizzazione degli interessi nell’Europa occidentale, trad. it. Il Mulino, Bolo-
gna 1983, spec. pp. 406 sgg.

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5. Rappresentanza politica e costituzione 187

nenti della popolazione dalle grandi organizzazioni degli interessi e


a causa della difficoltà di pensare, in un quadro dominato dalla mol-
teplicità degli interessi, al problema della riproduzione politica; ma
ancor più per l’impossibilità oggi, a differenza di quanto può essere
avvenuto in una «società per ceti», di pensare in una chiave legitti-
mante a una qualche istanza di potere che non abbia alla sua base la
totalità del corpo politico, e con ciò il volere di tutti i cittadini. In
altri termini la scena politica implica pur sempre l’unità;
l’affermazione del pluralismo e della rappresentanza degli interessi
non intende rinunciare alla sicurezza e ai diritti degli individui che
stanno a fondamento della moderna forma politica.
Le costituzioni moderne sembrano non poter fare a meno della
logica dell’unità che segna la rappresentanza, e ora come a Weimar,
in un periodo di totale contrattazione politica, continuano a recitare
che il rappresentante non lo è di interessi particolari o di particolari
gruppi, ma di tutta la nazione. Ciò appare legato allo sforzo proprio
delle carte costituzionali di legittimare il monopolio della forza e
l’obbligazione politica. Tuttavia appare improrogabile riuscire a
comprendere e dirigere i processi che si danno nella realtà e a pen-
sare perciò a quella differenza e pluralità che non sembrano com-
prese nel moderno concetto di rappresentanza33.

33 Sembra utile dare qui alcune indicazioni bibliografiche iniziali per affrontare il
tema della rappresentanza politica. Böckenförde, Democrazia e rappresentanza
cit.; K. Bosl (a cura di), Der moderne Parlamentarismus und seine Grundlage in
der ständischen Repräsentation, Duncker e Humblot, Berlino 1977; M. Cotta, Par-
lamenti e rappresentanza, in G. Pasquino (a cura di), Manuale di scienza politica,
Il Mulino, Bologna 1986, pp. 281-328; Duso, La rappresentanza: un problema cit.;
D. Fisichella (a cura di), La rappresentanza politica, Giuffrè, Milano, 1983; C.
Galli, Immagine e rappresentanza politica, «Filosofia politica», I (1987), n. 1, pp.
9-29; von Gierke, Giovanni Althusius e lo sviluppo storico delle teorie giusnatura-
listiche cit.; Hintze, Condizioni storiche generali della costituzione rappresentativa
cit.; Hofmann, Repräsentation. Studien zur Wort und Begriffsgeschichte cit.; Lei-
bholz, La rappresentanza nella democrazia, trad. it. cit.; Kaiser, La rappresentan-
za degli interessi organizzati trad. it. cit.; Miglio, Le trasformazioni del concetto di
rappresentanza cit.; P. Pasquino, La rappresentanza politica. Progetto per una
ricerca, «Quaderni piacentini», n. 12, 1984, pp. 69-86; H. F. Pitkin, The Concept
of Representation, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1987; A.
Pizzorno, Il sistema pluralistico di rappresentanza, in S. Berger (a cura di),
L’organizzazione degli interessi nell’Europa occidentale, Il Mulino, Bologna
1983; H. Rausch (a cura di), Zur Theorie und Geschichte der Repräsentation und
Repraesentativverfassung, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1968;

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188 Giuseppe Duso – La logica del potere

G. Sartori, Rappresentanza, in Elementi di teoria politica, Il Mulino, Bologna


1987, pp. 269-310; Schmitt, Dottrina della costituzione cit.; E. Voegelin, La nuova
scienza politica, (1952), trad. it. Borla, Torino 1968.

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189

6. Teologia politica e logica dei concetti politici


moderni in Carl Schmitt

6.1 Schmitt pensatore epocale

Il pensiero di Carl Schmitt è divenuto un punto centrale di riflessio-


ne e di un dibattito in cui si possono ravvisare atteggiamenti inter-
pretativi assai diversi: da quello liquidatorio, che presume di giudi-
care la sua prestazione intellettuale in base alle vicende politiche
che lo hanno visto coinvolto, a quelle che lo considerano utile per
una comprensione realistica della politica, a quelle che ravvisano in
esso il coglimento di elementi costanti del comportamento umano
in modo tale da costituire la base per una teoria scientifica della po-
litica. Al di là di queste linee interpretative, che appaiono prigionie-
re di alcuni pre-giudizi teorici1 ciò che rende per noi necessario
l’attraversamento del pensiero schmittiano e il riferimento ad esso
nel contesto di questo lavoro dedicato alla storia concettuale e alla
filosofia politica, è il suo collocarsi a un livello alto di comprensio-
ne della concettualità politica moderna. Tale comprensione mostra
quella logica e quei presupposti dei concetti che non sono manifesti
nell’uso legittimante di essi che è stato proprio della teoria politica
moderna. Non si può negare che nell’itinerario intellettuale di
Schmitt si possa ravvisare anche una proposta teorica e politica, ma
non è questo l’aspetto rilevante, quello che ancor oggi è da pensa-
re. Ciò che è da pensare non è la sua proposta, bensì la capacità da

1 Per una breve discussione di tali modi di rapportarsi al pensiero schmittiano ri-
mando alla prima parte del saggio su Schmitt che qui per buona parte ripresento,
pubblicato in « Revista de filosofia», n. 13, 1996, sp. pp. 77-80.

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190 Giuseppe Duso – La logica del potere

lui mostrata di comprendere nella sua genesi e nella sua crisi


l’assetto concettuale dell’età dello jus publicum europaeum2.
Non può non venire qui alla mente l’immagine hegeliana della
nottola di Minerva, che spicca il suo volo sul far del crepuscolo,
quando il giorno volge alla fine. Il richiamo dell’immagine hegelia-
na non è casuale, ma serve a intendere in modo pregnante il senso
di quella «comprensione». Comprendere i concetti politici moderni
significa infatti non esserne semplicemente all’interno, ma riuscire
a interrogarli, a intenderne la genesi, il movimento concreto, le ne-
cessarie implicazioni e le eventuali aporie. Significa dunque essere
al di là del loro semplice detto, e anche al di là della loro funzione
di legittimazione dell’obbligazione politica. La comprensione dei
concetti richiede dunque uno scarto nei confronti di ciò che essi
immediatamente ed esplicitamente esprimono, non per spostarsi in
un altro ambito, ma per intendere la loro verità, il loro concreto
movimento, così come avviene per la Vernunft nei confronti dei
concetti dell’intelletto nella speculazione hegeliana. Così inteso
l’atteggiamento di comprensione ci permette di individuare la natu-
ra della prestazione di pensiero schmittiana. Se la scienza politica
moderna è consistita nell’intendere il politico giuridicamente, se-
condo la forma, a buona ragione Schmitt si è sempre sentito giuri-
sta, perché i concetti giuridici – del diritto pubblico, della costitu-
zione – sono l’oggetto della sua riflessione. Tuttavia egli non man-
tiene questi concetti come presupposti, non pensa semplicemente al
loro interno, ma li interroga, ne individua i presupposti, la genesi e
le implicazioni che essi hanno nel loro concreto funzionamento.
Questo suo pensare i concetti giuridici si può a buon diritto definire
filosofico, se con tale termine non si intende una speculazione a-
stratta, guidata dalla scissione tra essere e dover essere, o una Wel-
tanschauung, una concezione del mondo, né tantomeno una propo-
sta di soluzione dei mali del mondo, ma piuttosto un pensiero radi-
cale del politico e dei concetti giuridici che nel moderno lo deter-
minano.

2 In questa direzione va l’approfondita analisi del pensiero schmittiano e del suo


rapporto con l’epoca moderna che si ha nell’importante lavoro di Carlo Galli, Ge-
nealogia della politica cit.

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6. Teologia politica e logica dei concetti politici moderni in Schmitt 191

In tal modo si può comprendere come il suo essere e definirsi


«giurista» non sia in contraddizione con la direzione del suo pensie-
ro, che con forza sin dal primo ventennio della sua produzione si
spinge sino alla metafisica e alla teologia, e ciò proprio per com-
prendere la verità di quei concetti giuridici. Si può, proprio median-
te la chiave filosofica qui avanzata, comprendere come mai la co-
stellazione dei concetti politici moderni, incentrati nel binomio so-
vranità-rappresentazione, si apra al concetto non formalmente strut-
turato di decisione così come al quadro della teologia politica, che
sola permette di intendere cosa quei concetti implichino nel loro
stesso porsi, mentre essi, nella semplice formulazione di ciò che e-
splicitamente dicono, non riescono ad evidenziare queste implica-
zioni né a mostrare il loro concreto movimento.
L’immagine della nottola di Minerva appare opportuna anche
perché ci può offrire un’altra suggestione. Non solo infatti essa in-
dica un atteggiamento di comprensione, ma ci ricorda anche che
questa comprensione arriva nell’ora del crepuscolo, quando cioè
un’epoca si sta chiudendo. Ne viene allora anche un’indicazione in
relazione alla domanda sull’attualità del pensiero di Schmitt. Po-
tremmo dire non tanto che è attuale per il fatto che ci offre un appa-
rato categoriale rigoroso che ci fa scientificamente intendere le co-
stanti dell’agire umano o i movimenti politici del presente, ma piut-
tosto che è attuale come è attuale l’epoca che sta morendo… o che
forse è già finita. Ciò non significa certo che la prestazione intellet-
tuale fornita dal suo pensiero sia esaurita, proprio perché essa non è
appiattita sull’epoca ma ne è comprensione, come si è detto, e an-
che perché, se si assiste ad un’epoca che sta morendo, non è tuttavia
ancora chiaro di fronte a noi il nuovo che è nato; e infine perché so-
no sempre i concetti della tradizione moderna quelli che sono anco-
ra oggi radicati nel nostro modo di ragionare e sono utilizzati, sia
per intendere la realtà che ci circonda, sia ai fini di legittimare il
rapporto di obbligazione politica. E la lezione che Schmitt ci ha da-
to è di non intendere nuove realtà con vecchi concetti3.

3 Cfr. l’ Introduzione di Schmitt all’edizione italiana, Le categorie del politico a


cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, p. 22.

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192 Giuseppe Duso – La logica del potere

6.2 La forma e l’origine

Seguendo il titolo di un volume collettaneo, che Schmitt ha ritenuto


una «echte Diskussion» del suo pensiero4, si può presentare il pro-
blema sopra indicato della comprensione della concettualità politica
moderna nei termini del «politico oltre lo Stato». Se il grande tenta-
tivo moderno è di intendere il politico mediante il diritto, che è allo-
ra diritto pubblico, e in questo quadro il politico coincide con lo sta-
tuale, l’atteggiamento schmittiano è quello dell’interrogazione della
forma-Stato, per andare a un concetto di politico che spieghi
l’origine di quella forma, e che perciò con quella forma non si iden-
tifichi. Tale itinerario di ricerca non comporta una dislocazione in
un altro ambito da quello statale, ma è nello Stato, nella forma, che
si ritrova la sua origine. Ci si può tuttavia chiedere se tale movi-
mento di pensiero, in cui consiste la radicalità del filosofico, sia da
Schmitt portato fino in fondo, o se in questo tentativo di cogliere il
politico come origine egli non rimanga troppo all’interno del modo
moderno di intendere la forma politica, cosicché politico e statuale
si vengono a situare su di un piano di omogeneità e il loro legame è
più stretto di quello che lo stesso Schmitt non pensi.
Per intendere il significato e il modo in cui emerge nella storia
del pensiero ciò che è qui indicato come forma politica5, bisogna
riferirsi all’ambito teorico del giusnaturalismo moderno, o di quella
scienza politica moderna che nasce con Hobbes e all’interno della
quale si formano i concetti politici moderni che hanno al loro centro
quello di sovranità o di potere. La logica di questi concetti emerge

4 Mi riferisco alla lettera da Schmitt inviatami in data 4 agosto 1981 (su questa
lettera, per altro aspetto, si veda la Presentazione di C. Galli all’edizione italiana di
Cattolicesimo romano e forma politica, Giuffré, Milano 1986, p. 3), nella quale si
riferisce al volume La politica oltre lo Stato: Carl Schmitt, a cura di G. Duso, Ar-
senale, Venezia 1980. Il seguito della presente riflessione chiarirà per altro come
l’interpretazione qui proposta di Schmitt, come pensatore radicale dei concetti po-
litici moderni, richieda uno spostamento nei confronti dell’ottica di discussione
emersa in quel volume, che ha come punto di avvio un seminario tenuto nel 1980
presso l’Università di Padova.
5 Tale significato della forma politica, tipico del pensiero moderno, non coincide
immediatamente con quello che si ha nella fondamentale opera schmittiana Römi-
scher Katholizismus und politische Form. Quest’ultimo infatti si pone all’altezza
della teologia politica, che, come cercherò di argomentare, è comprensione di ciò
che la forma politica moderna implica e tuttavia nega.

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6. Teologia politica e logica dei concetti politici moderni in Schmitt 193

con chiarezza alla fine del ciclo dello Jus publicum europaeum. Si
veda a questo proposito la definizione della Herrschaft che fornisce
Weber, come appunto rapporto formale di comando-obbedienza, e
si veda pure la sua definizione della disciplina, come disposizione
ad obbedire al comando di chi esercita il potere6. Weber indica con
determinazione la formalità del rapporto: l’obbedienza non dipende
dai contenuti particolari del comando, perché sarebbe allora instabi-
le e sempre da parte dei cittadini ci potrebbe essere un giudizio ne-
gativo sul comando che determina la rottura dell’ordine; essa di-
pende piuttosto dal fatto che stabilmente e formalmente il comando
di chi è preposto al potere è accettato da coloro che sono disposti
all’obbedienza come massima del loro comportamento. Ma,
nell’articolare la modalità con cui l’obbedienza si attua, Weber in-
dica anche qual è il vero fondamento di legittimazione di questo
rapporto di obbligazione politica nel moderno: chi obbedisce lo fa
in quanto intende il comando di chi è autorizzato ad esprimerlo – a
fare cioè la legge – come se fosse prodotto della propria volontà7. E
cos’è questo intendere la volontà di chi esercita il potere politico
come propria volontà se non intendere quella prima volontà come
una volontà rappresentativa? Colui che detiene il potere lo esercita
infatti legittimamente in quanto è – a priori e cioè formalmente –
ritenuto come colui che non esprime una sua propria volontà ed
una propria azione, ma piuttosto volontà e azione di tutto il corpo
politico. È questa appunto la struttura dell’agire rappresentativo, nel
quale tutti sono autori delle azioni che l’attore, il rappresentante,
compie8.
Solo in questo quadro dello Jus publicum europaeum si può par-
lare in senso proprio di Stato, nel senso della forma-Stato, e al cen-
tro di questa costruzione sta il legame di due concetti quali sovrani-
tà e rappresentazione9, che si chiariscono nel reciproco rapporto e

6 Cfr. M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, trad. it. cit., pp. 52, 207.
7 Ivi, p. 123.
8 Cfr. al riguardo il mio, Tipi del potere e forma politica moderna in Max Weber
cit., sp. pp. 72 sgg.
9 Si tenga presente che con il termine di rappresentazione intendo indicare la rap-
presentanza politica. Non essendoci nella lingua italiana la distinzione tra la rap-
presentanza che si dà sul piano del diritto privato e la rappresentanza politica (tale
distinzione nella riflessione tedesca tra Schmitt e Leibholz emerge nei diversi ter-

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194 Giuseppe Duso – La logica del potere

non risultano comprensibili nella loro specificità e determinatezza


senza il riferimento all’unità politica. Schmitt evidenzia ciò e com-
prende, nei suoi saggi su Hobbes, la portata del pensiero del Levia-
tano per tutta la teoria politica moderna e la dottrina dello Stato. La
grande prestazione intellettuale di Schmitt consiste nel comprendere
la logica della costruzione teorica moderna e la centralità che in
questa ha l’unità politica. Sottolineare questa centralità non è frutto
di una scelta teorico-pratica, ma piuttosto della comprensione del
significato determinato e della funzione logica di quei concetti mo-
derni che stanno alla base della forma-Stato. Quanto più scompare
un orizzonte in cui gli uomini si collocano con le loro differenze, e
quanto più in uno scenario iniziale si pongono gli individui eguali
tra loro e dotati di eguali diritti, tanto più l’unico possibile esito del-
la costruzione teorica della società politica è non l’unificazione di
parti differenti, ma la creazione di una persona civile, di un corpo
politico unico, la cui vita, con gli atti di volontà e azione che la ca-
ratterizzano, è altra da quella dei singoli ormai divenuti individui
privati.
Allora se si dà una rilevanza particolare alla concezione della
rappresentanza propria di Schmitt, ciò non è dovuto a una scelta di-
pendente da una concezione globale del mondo, da una Weltan-
schauung o da un’ideologia, ma dalla constatazione che solo questo
rapporto tra sovranità-rappresentazione e l’unità politica coglie la
logica che connota la genesi e lo sviluppo dei concetti politici mo-
derni10. La centralità dedicata alla riflessione sull’unità politica non
vuole allora fornire armi per una vera comprensione della realtà po-
litica, ma piuttosto intendere il modo in cui funzionano quei concet-
ti che stanno alla base anche della dottrina dello Stato. Solo com-
prendendo quanto questa logica sia ferrea si può avere consapevo-
lezza della difficoltà insita nel tentativo di pensare qualcosa di di-

mini di Vertretung e Repräsentation), uso spesso il termine di «rappresentazione»,


che non solo riproduce per calco il termine tedesco di Repräsentation, ma ha anche
il vantaggio di fare meglio intuire l’aspetto attivo e formativo della rappresentanza
politica.
10 Il pur interessante e informato lavoro di I. Staff, Staatsdenken im Italien des 20.
Jahrhunderts – Ein Beitrag zur Carl Schmitt-Rezeption, Nomos Verlagsgesel-
lschaft, Baden-Baden 1991, tende tuttavia a rispondere alla domanda
sull’importanza accordata al giurista tedesco da studiosi italiani, con l’indicazione
di presunte intenzioni politiche e pratiche proprie di costoro.

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6. Teologia politica e logica dei concetti politici moderni in Schmitt 195

verso: le vie di fuga sono altrimenti troppo facili e spesso le propo-


ste pluralistiche non presentano tanto un nuovo quadro in cui si rie-
sca a pensare le differenze e la molteplicità di soggetti politici, ma
piuttosto sono indice di quella confusione concettuale che si deter-
mina quando si vuole legittimare la pluralità delle istanze tenendo
tuttavia fermo come presupposto il prodotto di quello sviluppo di
pensiero che ha portato alla dottrina dello Stato e dello Stato di di-
ritto11.
Schmitt comprende lo specifico del moderno concetto di rappre-
sentanza politica, così come la sua indispensabilità per intendere la
sovranità come unico potere in senso politico. Solo in seguito alla
riflessione schmittiana assumono pieno significato le ricerche sulle
modificazioni del concetto di rappresentanza e sulla centralità di es-
so in rapporto alla costruzione del corpo politico. Sull’onda della
riflessione schmittiana si può più facilmente intendere la rilevanza
del concetto hobbesiano di rappresentanza per la moderna conce-
zione della forma politica nella sua totalità, anche in relazione a po-
sizioni e a pensatori che si considerano – e sono in genere conside-
rati – assai lontani o addirittura opposti al pensiero hobbesiano.
Ma, come si è detto, l’atteggiamento di comprensione schmittia-
no non comporta la semplice evidenziazione di ciò che la teoria po-
litica moderna ha detto, ma piuttosto il ritrovamento di ciò che la
forma implica per la sua produzione e per il suo funzionamento
concreto. Il problema che allora si pone è innanzitutto quello della
produzione della forma. La forma necessita cioè, proprio per il suo
stesso costituirsi e per la sua funzione formante, di qualcosa che la
eccede, che non è pensabile in modo formale. Ciò riguarda sia la
costituzione come forma dello Stato, la quale richiede un momento
costituente non risolvibile nella costituzione stessa, sia la legge co-
me norma, che esige, per la sua produzione, ciò che non è pensabile
secondo la norma stessa. Nella costruzione del politico come forma,

11 Il tentativo di intrecciare la rappresentanza politica con la tematica del plurali-


smo presenta una difficoltà teorica, dovuta al fatto che intendere in senso piena-
mente politico le parti e i gruppi comporta mettere in discussione il quadro teorico
dello Stato moderno e il concetto di rappresentanza da questo implicato, che si de-
termina in funzione dell’unità politica; si veda ora su questo tema A. Scalone,
Rappresentanza politica e rappresentanza degli interessi, FrancoAngeli, Milano
1995.

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196 Giuseppe Duso – La logica del potere

secondo la razionalità giuridica, emerge allora un concetto di porta-


ta diversa, qual è quello di decisione, che non fa parte dei contenuti
che la teoria moderna trasmette, cioè del suo apparato di legittima-
zione. La stessa sovranità mostra una sua anima che eccede
l’aspetto formale secondo cui essa è il potere impersonale di tutto il
corpo politico e richiede una persona (o un gruppo) da tutti accetta-
ta e deputata al suo esercizio. Sovrano è chi decide sullo stato di
eccezione – dice Schmitt – e lo stato di eccezione è decisivo per la
stessa norma, per lo stato normale. Tutta la costruzione formale e
oggettiva del potere rivela allora, per la sua genesi e per il suo fun-
zionamento, un’anima di soggettività e decisione, che non è imme-
diatamente ravvisata in quella razionalità formale, ma che è ciò che
rende quella razionalità possibile, ciò che rende possibile parlare di
norma e di normalità.
Anche il concetto di rappresentazione, una volta compreso, fa
emergere una natura a prima vista insospettata. Infatti, se da una
parte l’agire rappresentativo del potere serve a togliere le differenze
soggettive e a intendere il potere come ciò che appartiene al corpo
politico intero, che è impersonale, dall’altra esso non è mera dipen-
denza dai rappresentati e dalla loro volontà, ma comporta
un’attività formante che viene dall’alto. Ancora una volta appare
decisiva la comprensione del proprium della rappresentanza mo-
derna, che non è rappresentanza di parti o di individui privati, ma
rappresentanza dell’unità politica. La volontà unica del popolo in
quanto volontà determinata non è precedente l’agire rappresentati-
vo (che non sarebbe allora più necessario), ma è il prodotto della
rappresentazione. Allora l’agire rappresentativo mostra anch’esso
un elemento di decisionalità non risolvibile in una razionalità for-
male, e una sua funzione concretamente formante. Non è cioè un
agire che dipenda, che si deduca dalla forma, ma piuttosto un agire
che produce forma.
Si può certo cercare di intendere in altro modo la rappresentan-
za, in rapporto ad un altro modo di intendere il corpo politico, come
insieme di parti diverse e diseguali, di soggetti diversi, che hanno
rilevanza e personalità politica, ma con la consapevolezza che ci si
colloca in tal modo in un diverso ambito concettuale, in cui si ri-
nuncia a quella costruzione che, partendo dagli individui uguali,
deduce il monopolio del diritto e della forza nello Stato e giunge

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6. Teologia politica e logica dei concetti politici moderni in Schmitt 197

alla costruzione dello Stato di diritto. Ci si pone cioè – se il pensare


i diversi soggetti politici è radicale – su di un piano diverso da quel-
la della concettualità dello Stato moderno, all’interno della quale la
rappresentanza, in quanto rappresentanza dell’unità, non è rispec-
chiamento di una volontà già data, ma è appunto attività formante.
Paradossalmente anche la riflessione schmittiana sulla tematica
della democrazia plebiscitaria fa emergere l’indispensabilità della
rappresentazione in funzione dell’unità politica. La concezione mo-
derna di popolo, inteso non come una realtà costituita di parti, ma
come la totalità di individui uguali o come soggetto costituente, ciò
che sta sopra la costituzione, comporta che esso si dia sempre e solo
attraverso l’attività formante della rappresentazione, come risulta
dalla constatazione – che ben esprime la logica della moderna unità
politica – che il popolo non può domandare, ma può solo rispondere
(«Volk kann antworten, aber nicht fragen»)12. Infatti il popolo come
soggetto unico, come volontà unitaria, non si dà nelle diverse vo-
lontà di milioni di persone, ma solo come risposta maggioritaria a
una messa in forma che avviene attraverso una domanda, che non
sono tutti gli individui insieme a porre. Questa è una necessità logi-
ca derivante dalla caratteristica dell’unità che è propria del soggetto
politico e si presenta perciò anche, come si è visto, nella problema-
tica del potere costituente13.
Da tale riflessione viene un contraccolpo allo sforzo legittimante
che, come si è ricordato, caratterizza la teoria politica moderna. Ba-
sti pensare a quel fondamento del potere che caratterizza le moder-
ne costituzioni quando recitano il ritornello secondo cui il rappre-
sentante rappresenta la nazione intera; il fatto cioè che il potere, at-
traverso l’agire rappresentativo, è il potere di tutti. Nella compren-
sione del suo concreto movimento tale legittimazione viene messa

12 Cfr. C. Schmitt, Volksentscheid und Volksbegehren, Walter de Gruyter, Berlin-


Leipzig 1927, p. 31.
13 Cfr. Schmitt, Dottrina della costituzione cit., pp. 109 e sgg.; su ciò il mio Rap-
presentazione e unità politica nel dibattito degli anni Venti: Schmitt e Leibholz, in
La rappresentanza cit. p. 102. Ben si comprende che la rappresentazione di cui si
parla nel testo non è riducibile alla rappresentanza istituzionale e dunque alla ne-
cessità che si determina a valle della forma-politica, ma è esistenzialmente neces-
saria per la produzione stessa della forma politica.

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198 Giuseppe Duso – La logica del potere

in crisi: quanto più è compresa la logica dei concetti moderni, tanto


più perde di efficacia la loro funzione legittimante.
Un’altra implicazione della concettualità relativa allo Stato che
la riflessione schmittiana mette in luce consiste nell’elemento della
conflittualità. E si badi bene, non perché Schmitt sia pensatore del
conflitto, ma al contrario, proprio perché è un pensatore dell’ordine,
perché cioè pensa l’ordine moderno. La cosiddetta antropologia
pessimistica non è una scelta «filosofica» o ideologica, ma è il pre-
supposto fondamentale per operare concettualmente la deduzione
dello Stato. Si tratta cioè non di una vaga concezione antropologica
sostituibile con un’altra, ma del necessario presupposto del pensiero
del politico come forma, secondo la razionalità giuridica14. Per
convincersi di ciò si può provare a ripercorrere i testi di pensatori
che sono accomunati nell’alveo giusnaturalistico: non solo Hobbes,
ma anche Locke, Rousseau e Kant. Si vedrà che tutti sono costretti
a pensare al conflitto, per esorcizzare il quale è necessario il mono-
polio della forza, anche quando il conflitto non sia inteso come rea-
le, ma come solo possibile. Lo stesso Fichte, che critica la posizione
pessimistica hobbesiana nello scritto sulla Rivoluzione francese, è
costretto a pensare a una caduta «di lealtà e fiducia» tra gli uomini
quando, nel suo scritto sul Naturrecht, si accinge a dedurre razio-
nalmente il diritto di coazione e lo Stato15. Un’ulteriore verifica può
essere fatta tentando, direttamente con una propria riflessione, di
compiere una deduzione concettuale del monopolio della forza a
partire dalla bontà del rapporto tra gli individui e dalla loro amici-
zia. Si potrà allora riscontrare che, sulla base del fondamento costi-
tuito dall’amicizia tra gli uomini, non è necessaria, ma nemmeno
giustificata – e dunque non deducibile – la costruzione del monopo-
lio della forza coattiva. L’ordine tipico del moderno, basato
sull’azzeramento di un ordine interno alla natura delle cose, com-

14 Cfr. C. Schmitt, Der Begriff des Politischen, Text von 1932 mit einem Vorwort
3
und drei Corollarien, ora Duncker & Humblot 1991 (si tratta della versione del
1963), p. 61; trad. it. Le categorie del politico cit, p. 146; Schmitt parla qui preci-
samente di «tutte le teorie politiche in senso proprio (alle echten politischen Theo-
rien)».
15 Cfr. su ciò il mio Libertà e Stato in Fichte cit., p. 285. e R. Schottky, La
«Grundlage des Naturrechts» de Fichte et la philosophie politique de
l’Aufklärung, «Archives de philosophie», XXV (1962), pp. 441-485.

Giuseppe Duso – La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica
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6. Teologia politica e logica dei concetti politici moderni in Schmitt 199

porta necessariamente il concetto di conflitto, innanzitutto a monte,


per dedurre appunto la forma-Stato, e poi a valle di questa costru-
zione, sia nel senso della conflittualità tra gli Stati sovrani non ri-
solvibile con un ulteriore monopolio mondiale della forza, sia in
quello della violenza necessaria all’eliminazione dell’oppositore in-
terno.
Mediante il problema dell’origine della forma e del modo con-
creto in cui quest’ultima opera, si può chiarire il senso di quella
comprensione dei concetti politici moderni, di cui si è qui fin
dall’inizio parlato. Egualmente può essere chiarito il senso della
Wirklichkeit a cui Schmitt tende, che è insieme la realtà del politico
e il concreto movimento che i concetti moderni implicano per esse-
re quello che sono, al di là di ciò che in essi è espressamente detto,
delle intenzioni da cui muove la costruzione della scienza politica
moderna. Ma per intendere più compiutamente il senso del pensiero
radicale di Schmitt, bisogna ulteriormente riflettere sulla struttura
teoretica a cui il problema della forma e della sua origine conduce.
Bisogna cioè riflettere su cosa sia la sua teologia politica16.
L’interpretazione della teologia politica che riprendo17 si inserisce

16 Una breve sintesi critica sulla letteratura critica riguardante la teologia politica
di Schmitt si ha nelle Vorbemerkungen alla recente edizione di H. Hofmann, Legi-
mität gegen Legalität. Der Weg 3
der politischen Philosophie Carl Schmitts, Dun-
cker & Humblot, Berlin 1995 , che è ancor oggi una delle migliori monografie
sull’autore. Una proposta critica sulla teologia politica, intesa sul piano di una ri-
sposta politica, è stata recentemente espressa da J. F. Kervégan, L’enjeu d’une
«théologie politique»: Carl Schmitt, «Revue de métaphysique et de morale», 1995,
n. 2, pp. 201-220; dello stesso autore si veda anche Hegel, Carl Schmitt. Le politi-
que entre spéculation et positivité, PUF, Paris 1992.
17 Cfr. il cap. La rappresentazione come radice della teologia politica in Carl
Schmitt, in La rappresentanza cit., pp. 115-138; ad esso rimando per una trattazio-
ne più analitica e per la motivazione della difficoltà insita nell’accettare immedia-
tamente e senza riserve l’affermazione schmittiana dell’analogia tra i concetti teo-
logici e quelli politici. Tale analogia porta a fraintendimenti quando è intesa come
semplice identità di struttura (si pensi alla natura rappresentativa del sovrano di
Hobbes, la quale non coincide con la trascendenza, ma implica qualcosa di tra-
scendente per costituirsi appunto come rappresentazione) e richiede una più pro-
fonda comprensione di cosa sia teologia politica (cfr. pp. 117-121). Una trattazione
della teologia politica nella direzione di una storia dei concetti si ha in H. Ottmann,
Politische Theologie als Begriffsgeschichte. Oder: Wie man die politischen Begrif-
fe der Neuzeit politisch-theologisch erklären kann, in Der Begriff der Politik, hrsg.
V. Gehrard, Metzler Verlag, Stuttgart 1990, pp.169-188.

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200 Giuseppe Duso – La logica del potere

nella proposta qui avanzata, secondo cui l’importanza del pensiero


schmittiano consiste in una riflessione radicale sui concetti politici
moderni, non solo in quanto la teologia politica è ravvisata proprio
all’interno del concetto fondamentale di rappresentazione, che co-
stituisce il cuore della forma politica moderna, ma anche perché,
con la consapevolezza della struttura teoretica che emerge nella teo-
logia politica, il modo moderno di configurarsi della forma politica
mostra la sua aporeticità.

6.3 La teologia politica come struttura teoretica: l’idea e la


sua visibilità

Non è difficile – e non solo per quanto si è fin qui detto – individua-
re nell’opera fondamentale e sistematica di Schmitt, la Dottrina del-
la costituzione, la centralità del concetto di rappresentazione per in-
tendere la moderna concettualità dello Stato. Essa evidenzia infatti
il movimento formante della forma politica: ciò che permette il suo
darsi: «non c’è – dice Schmitt – nessuno Stato senza rappresentan-
za, poiché non c’è nessuno Stato senza forma di Stato e alla forma
spetta essenzialmente la rappresentazione dell’unità politica»18. Di-
stanziandosi da quanto egli dice nel famoso § 16 della Verfassun-
gslehre, ma rimanendo fedeli, così io credo, al movimento di pen-
siero che proprio lì è espresso19, si può ritenere che la rappresenta-
zione non sia semplicemente uno dei due principi della forma poli-

18 Schmitt, Dottrina della costituzione cit., p. 273.


19 Si veda al riguardo il mio tentativo di mostrare che in realtà non siano due,
quello di identità e quello di rappresentazione, i principi dello Stato moderno, ma
che ci sia piuttosto un’unica struttura, quella della rappresentazione, in Rappresen-
tazione e unità politica nel dibattito degli anni venti: Schmitt e Leibholz, in La
rappresentanza: un problema di filosofia politica cit., pp. 83-114. Il tentativo si
basa da una parte sull’indicazione schmittiana della natura ideale dell’unità politica
e sull’impossibilità, non solo pratico-empirica ma anche teorica, di pensare
l’identità come presenza immediata del popolo che esprime volontà e azione, e
dall’altra sulla necessaria implicazione del popolo nella rappresentazione mediante
l’elemento della pubblicità, che permette il darsi del popolo mediante un processo
di identificazione nell’unità rappresentata. A riprova di tale interpretazione sta il
riconoscimento di elementi esistenzialmente rappresentativi nei fenomeni del ple-
biscito e del referendum, che costituiscono i modi di più diretta espressione
dell’identità del popolo. Inoltre, come si indica nel testo, lo stesso popolo come
potere costituente agisce sempre e solo attraverso forme rappresentative.

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6. Teologia politica e logica dei concetti politici moderni in Schmitt 201

tica, ma piuttosto costituisca la struttura del politico, così come


questo si dà nello Stato moderno. Tale essenziale concetto che sta al
centro della costituzione politica e dunque della realtà concreta è
definito – e la citazione è assai nota – in un modo che può sembrare
strano, astratto, metafisico: «rappresentare significa rendere visibile
e temporalmente presente un essere invisibile mediante un essere
che è pubblicamente presente»20. E ancora: «la dialettica del con-
cetto consiste nel fatto che l’invisibile è presupposto come assente
ed è al tempo stesso reso presente».
Nelle critiche rivolte a Schmitt dopo la pubblicazione dell’opera
emergono emblematicamente due aspetti importanti, anche se sono
stati utilizzati come obiezione. Da una parte la sua definizione è
parsa manifestare una struttura tipica del pensiero teologico,
dall’altra l’affermazione della presenza di ciò che è assente ha de-
stato meraviglia, in quanto contiene in sé una contraddizione: una
volta reso presente – è stato detto –, ciò che è reso presente non è
più assente, non comprendendo il significato forte dell’aporia pre-
sentata dalla definizione. Tali elementi critici, al di là delle inten-
zioni con cui sono stati formulati, sono particolarmente felici in
quanto indicano un problema, anche se non riescono a comprender-
lo. La struttura della rappresentanza moderna infatti contiene a mio
avviso l’elemento teologico proprio del politico, e nello stesso tem-
po rivela una struttura teoretica, che manifesta un’aporia fondamen-
tale della prassi umana. Penso che proprio nella struttura della rap-
presentazione consista il nucleo forte della teologia politica schmit-
tiana, e allora proprio in essa è da comprendere cosa sia in Schmitt
quella teologia politica, la cui diversa interpretazione è causa di
modi diversi di intendere il suo pensiero.
Non credo che per teologia politica si debba intendere una fon-
dazione teologica del politico, e penso che anche il suggerimento
che ci viene dai testi schmittiani di concepirla come un processo di
secolarizzazione, di passaggio cioè dai concetti teologici a quelli
politici non sia di per sé sufficiente e possa facilmente indurre a in-
terpretazioni che non colgono il senso profondo di quanto emerge
nei testi schmittiani. Mi sembra piuttosto che per teologia politica si
debba intendere la presenza nel politico, per il suo stesso costituirsi,

20 Schmitt, Dottrina della costituzione cit., p. 277.

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di una trascendenza, o meglio un movimento di trascendimento del-


la realtà empirica che è necessario e nello stesso tempo irrisolto, o
mai risolto una volta per tutte21. Il politico non si può nemmeno co-
stituire se si resta sul piano del presente empirico. Infatti l’agire
rappresentativo comporta il rapporto con ciò che non è empirica-
mente presente. Tale affermazione è tutt’altro che strana se si pensa
allo specifico della rappresentanza moderna, che è rappresentanza
non di parti e di volontà costituite, ma dell’unità del popolo e della
sua volontà: questa non è presente, altrimenti non sarebbe necessa-
rio e nemmeno possibile rappresentarla. Se la volontà del popolo
fosse immediatamente presente e si determinasse di per se stessa,
non ci sarebbe rap-presentazione, ma semplice presenza. L’unità
politica – il popolo – è idea, ciò che è da rappresentare, proprio per-
ché non è empiricamente presente, ed è ciò in cui i singoli rappre-
sentati si identificano. La natura ideale del popolo rimane sempre
tale: quando, mediante la rappresentanza, viene reso presente, esso
non è semplicemente presente, ma resta per sua natura assente: la
sua presenza è nella forma dell’assenza e ciò che è presente e de-
terminato è l’immagine che ha preso forma mediante la rappresen-
tanza. È proprio la distanza dell’idea del popolo dalla sua presenti-
ficazione a lasciare aperto continuamente lo spazio della critica e
del mutamento.
È per questo rimanere assente dell’idea del popolo, sebbene una
volontà determinata sia per altro resa presente attraverso la rappre-
sentanza politica, che si ha il processo tipico del controllo e del mu-
tamento del corpo rappresentativo nelle democrazie parlamentari
moderne; si può cioè sempre dire che la volontà del popolo non è
stata rettamente intesa o rispettata, e che si è compiuto il misfatto
tipico, che emerge in quanto tale fin dall’origine, della concettualità
moderna relativa allo Stato: che cioè i rappresentanti fanno passare
interessi privati e volontà particolari per interesse comune e volontà
generale. In rapporto a ciò il richiamo schmittiano alla natura ideale
dell’unità politica ci avverte del fatto che la pretesa della verifica
che sta alla base del controllo si basa sulla presunzione di imma-

21 Sul significato della trascendenza e sul ruolo imprescindibile della fede nel poli-
tico cfr. H. Meier, Die Lehre Carl Schmitts. Vier Kapitel zur Unterscheidung Poli-
tischer Theologie und Politischer Philosophie, Metzler, Stuttgart-Weimar 1994.

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6. Teologia politica e logica dei concetti politici moderni in Schmitt 203

nenza implicita nell’opinione che la volontà del popolo, che si di-


chiara tradita, sia empiricamente reale, determinabile, visibile.
L’indicazione della sua natura ideale ci aiuta invece a vedere facil-
mente come, anche nella critica e nel mutamento o capovolgimento
della rappresentanza, la volontà del popolo resti sempre qualcosa di
ideale, che non esiste di per sé e non può venire alla luce al di fuori
della mediazione e della responsabilità propria dell’agire rappresen-
tativo, nei prodotti del quale esiste tuttavia sempre scarto nei con-
fronti di quell’idea che si intende rendere presente.
Per meglio comprendere il senso di questa struttura «teologica»
della rappresentazione e la sua rilevanza per il significato determi-
nato delle categorie fondamentali del pensiero schmittiano, innanzi-
tutto quella di decisione, così spesso causa di fraintendimenti, è ne-
cessario ripercorrere le prime opere di Schmitt. In esse infatti emer-
ge progressivamente questa struttura teoretica che esprime il signi-
ficato della teologia politica e che trova successivamente la sua e-
spressione mediante il concetto di Repräsentation. Lo stesso
Schmitt nel periodo più tardo ha sottolineato l’importanza delle
prime opere22 per intendere l’autentico significato della decisione,
che, appaesata nella struttura della teologia politica, mostra di esse-
re ben altro da ciò che si muove sul piano della fattualità e della
mera forza, come la gran parte delle interpretazioni del «decisioni-
smo» schmittiano vogliono far credere. Al contrario, è proprio nella
confutazione della possibilità di intendere il piano fattuale ed empi-
rico come effettivamente reale (wirklich), e dunque nella compren-
sione della necessaria implicazione dell’idea per poter parlare di re-
altà, che emerge come indispensabile il concetto di decisione.
La critica alla concezione del politico come mera forza (Ma-
chttheorie) è una costante nell’opera schmittiana, fin dalle prime
opere. La realtà dello Stato e la presenza della forza che esso impli-
ca mostrano – nella prima riflessione organica di Schmitt sullo Sta-
to23 – il loro significato, in quanto lo Stato implica un diritto da rea-
lizzare, e dunque un’istanza che lo trascende, istanza che non è ri-

22 Cfr. la Premessa alla seconda edizione di Gesetz und Urteil, München 1969, p.
V.
23 C. Schmitt, Der Wert des Staates und die Bedeutung des Einzelnen, Mohr, Tü-
bingen 1914.

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204 Giuseppe Duso – La logica del potere

solvibile in una serie di norme codificate, di leggi che debbano


semplicemente essere applicate. Il riferimento alla definizione ago-
stiniana del diritto come origo, informatio, beatitudo24, mostra co-
me in esso si riveli un’istanza di giustizia originaria, nei confronti
della quale lo Stato si presenta come tensione e sforzo continuo di
realizzazione. A questo stadio, per delineare il piano reale in cui lo
Stato si pone, compare il movimento consistente nella tensione al
Sichtbarmachen, a rendere cioè visibile l’idea del diritto, a rendere
presente sul piano della visibilità e anche attraverso la forza ciò che
è per sua natura altro, che è idea, pensiero. Solo in questo sforzo lo
Stato è reale in quanto Stato: il che significa che non è realmente
Stato se non nell’implicazione dell’idea, nel tentativo di renderla
visibile, presente.
In questo contesto, in concomitanza con l’attività del Sichtbar-
machen, emerge un concetto di secolarizzazione che appare, per il
significato di questa struttura teoretica della teologia politica, assai
più rilevante di quello che è stato spesso ravvisato nel conosciutis-
simo saggio schmittiano dedicato alla Politische Theologie. Secola-
rizzazione non è qui un passaggio epocale dal teologico al politico,
dal trascendente al mondano. Al contrario è proprio questo passag-
gio ad essere realmente impossibile, per il carattere strutturale che
ha qui il concetto di secolarizzazione, che è illuminato da quello di
Sichtbarmachung: esso consiste cioè nel tentativo proprio del poli-
tico, ma si potrebbe dire della stessa prassi dell’uomo, di rendere
visibile e dunque di far entrare nel saeculum, ciò che è trascendente,
che è ideale25. La secolarizzazione, qualora sia intesa come passag-
gio dal trascendente al mondano, risulta allora impossibile, in quan-
to è strutturale per il reale l’implicazione di ciò che lo trascende, e
d’altra parte il trascendente è dicibile solo in questo piano monda-
no: non c’è dunque nessun passaggio. Se l’idea in quanto trascen-
dente è invisibile, tale invisibilità diviene percepibile, e dunque solo
per noi reale, sul piano della visibilità.

24 Ivi, p. 53.
25 Questo significato strutturale di secolarizzazione è stato bene messo in luce da
M. Nicoletti, Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl Schmitt, Morcel-
liana, Brescia 1990, sp. p. 53.

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6. Teologia politica e logica dei concetti politici moderni in Schmitt 205

La tensione, strutturale per la politica, consistente nel tentativo


di rendere presente un elemento trascendente, conferisce al concetto
di secolarizzazione che si ha nella Teologia politica I un significato
più pregnante e determinato: esso non comporta tanto il passaggio
dal trascendente al mondano, quanto piuttosto indica il fatto che il
piano mondano della politica non può risolversi in se stesso, ma
implica concetti di origine teologica proprio in quanto non può, no-
nostante tutte le pretese, risolversi sul piano dell’immanenza e della
mondanità, ma implica l’idea in un costante movimento di trascen-
dimento della realtà empirica: senza tale movimento la politica non
si riesce a costituire, nemmeno nella sua forma più laica e terrena. È
utile riflettere su questo punto a proposito di tutti quei modi di in-
tendere la politica che, pur non potendo non implicare l’idea, pre-
tendono o di escluderla dalla propria considerazione a causa di una
concezione laica della politica guidata dalla massima che le cose si
governano da sole, oppure di renderla proprio sicuro possesso in
una direzione totalitaria, implicando in tal modo e insieme contrad-
dittoriamente negando la trascendenza dell’idea.
La teologia politica esprime allora una struttura teoretica, in re-
lazione alla quale risulta densa di significato la metafora goethiana
da Schmitt ripresa: Die Idee tritt immer als ein fremder Gast in die
Erscheinung26. Il piano della realtà è dunque quello in cui si danno
l’empirico impiego della forza tipico dello Stato e contemporanea-
mente anche l’implicazione dell’idea, che solo su questo piano della
realtà appare e opera rimanendo tuttavia, per la sua stessa essenza,
non visibile27. È nel contesto di questa struttura che compare la de-
26 Schmitt, Der Wert des Staates cit., p. 75.
27 Se effettivamente una tale struttura teoretica compare nelle prime opere schmit-
tiane, mi sembra siano da correggere le interpretazioni che leggono queste ultime
alla luce di un dualismo metafisico: da una parte l’idea o il mondo delle norme, e
dall’altra il piano della realtà e della forza. Come ho cercato di indicare, nessuno
dei due termini del cosiddetto dualismo riesce infatti a presentarsi di per sè, indi-
pendentemente dall’altro: la mediazione non costituisce allora il legame tra due
termini separati, ma piuttosto il terreno in cui si danno sia l’idea che la realtà empi-
rica dello Stato. Ciò comporta una messa a punto teoretica della stessa affermazio-
ne della trascendenza: se infatti questa si risolve nell’affermazione di qualcosa di
trascendente, ben si intende che la struttura qui delineata è tradita e si dà luogo a
una contraddizione, in quanto, come oggetto del nostro pensiero e del nostro dire,
il trascendente è perso in quanto tale ed è reso immanente. Non l’idea come ogget-
to trascendente è dunque reale, ma è reale quel movimento di trascendimento pro-

Giuseppe Duso. La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica
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206 Giuseppe Duso – La logica del potere

cisione, e solo in questo contesto essa prende il suo autentico signi-


ficato, non certo sul piano della mera forza o della fattualità empiri-
ca. Infatti a causa dell’aporetica invisibilità (aporetica in quanto so-
lo nello sforzo di renderla visibile e dunque sul piano della visibilità
essa appare invisibile ed è produttiva) l’idea non può essere vista,
detta, presentata e dunque rispecchiata, copiata, come un modello
presente. Non è possibile da essa dedurre una prassi e dunque non è
possibile una mera esecuzione del diritto: è allora necessario l’atto
soggettivo e arrischiato, non garantito, della decisione28.
La decisione compare dunque come necessario agire in una sfera
di politicità che si determina in relazione all’idea. Proprio perciò la
pretesa di avere un rapporto garantito tra il diritto e la forza che lo

prio della politica che implica aporeticamente l’idea. Un discorso analogo si po-
trebbe fare per l’immanenza, la quale può porsi ( si pensi all’affermazione del po-
polo come ciò che è realmente a fondamento della funzione rappresentativa) solo
mediante un movimento di trascendimento che implica l’idea o l’unità politica (in
tal caso il popolo), che non è empiricamente presente (non corrisponde cioè alla
somma dei singoli individui empiricamente presenti).
28 È singolare che in tutto l’affannarsi delle interpretazioni schmittiane che metto-
no in primo piano il concetto di decisione non si tenga conto del modo in cui que-
sto concetto viene alla luce e della relazione, assai esplicitamente indicata da
Schmitt, che l’origine di questo concetto ha con la struttura teoretica del rendere
visibile ciò che è invisibile. Si veda un passo significativo di Der Wert des Staates
cit., p. 81: «Sobald irgendwo das Bestreben einer Verwirklichung von Gedanke,
einer Sichtbarmachung und Säkularisierung auftritt, erhebt sich gleich neben dem
Bedürfnis nach einer konkreten Entscheidung, die vor allem, und sei es auch auf
Kosten des Gedankens, bestimmt sein muß, das Bestreben nach einer in derselben
Weise bestimmten und unfehlbaren Instanz, die diese Formulierung gibt». La tesi
che vado esprimendo non può trovare un riscontro più palese: il presentarsi del
movimento tendente a rendere visibile l’idea richiede necessariamente il concetto
di decisione. I discorsi che si fanno sulla decisione schmittiana non possono sradi-
carla da questa origine logica, che lo stesso Schmitt, anche nella maturità, ricorda.
In rapporto alla struttura teoretica del Sichtbarmachen viene a prendere significato
anche quella istanza di infallibilità a cui Schmitt si riferisce parlando del Papa e
indicando le aporie fichtiane. Essa non comporta la fondazione della decisione in
un’assoluta verità, ma piuttosto indica l’imprescindibile aspetto di fede che emerge
nell’ambito politico. Certo la fede positiva che caratterizza la religione, e in modo
determinato i fedeli attorno alla figura del Papa, non è immediatamente riportabile
alla struttura della politica, ma l’elemento che accomuna i due ambiti è la consape-
volezza dell’essere nella fede. Da questo punto di vista l’infallibilità non è fondata
sul possesso sicuro della verità, ma piuttosto, data l’invisibilità di ciò che è tra-
scendente, indica l’impossibilità di una vera ed esatta verifica, e comporta perciò
l’inevitabile rischio della decisione.

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6. Teologia politica e logica dei concetti politici moderni in Schmitt 207

realizza è destinato al fallimento, come si può riscontrare nelle con-


traddizioni in cui si involve Fichte nel tentativo di preservare il di-
ritto da un uso distorto della forza attraverso quella figura del cu-
stode del custode in cui consiste l’eforato29. Elementi imprescindi-
bilmente legati alla decisione sono dunque insieme il rapporto
all’idea e il rischio dell’azione, della pratica. Se l’idea fosse visibi-
le, non fosse cioè ospite straniero, sarebbe possibile una sua copia,
una sua semplice esecuzione, e ci si troverebbe su di un piano di
oggettività perfettamente controllabile: la sua invisibilità invece
comporta il rischio e l’insopprimibilità di un atteggiamento di fede,
di fiducia. L’assolutezza che sembra caratterizzare il concetto di
decisione, non comporta il suo porsi sul piano dell’assoluto, ma al
contrario il suo implicare l’assoluto sul piano della finitezza. In ciò
si chiarisce il senso teologico politico della decisione, che non è as-
similabile alla creatività di tipo divino30.
Quando Schmitt dice che la decisione non si fonda su nulla di
normativo, ciò non significa che essa si basi sul nulla o che sia me-
ro arbitrio, ma piuttosto che essa si riferisce appunto a un’idea che
non è oggettivabile in una norma. Allora la decisione non si libra
sul vuoto, ma da una parte implica l’idea, dall’altra è decisione rea-
le, e non mera velleità, in quanto si colloca nella costituzione, in
quanto cioè è efficace e riesce a mettere in forma una realtà com-
plessa31. Solo allora nel concreto della Verfassung e nell’ambito
della teologia politica la decisione prende in Schmitt il suo signifi-
cato: il concetto di decisione emerge dunque dalla struttura stessa
della rappresentazione. Infatti è nella rappresentazione che si coa-
gula la struttura teoretica del movimento di trascendenza che ab-
biamo fin qui delineata e che è approfondita nel saggio riguardante

29 Ivi, pp. 82-83: sulle aporie relative all’eforato in Fichte ricordo il saggio su Fi-
chte sopra citato in Il contratto sociale cit., sp. pp. 292-301.
30 Ecco perchè la figura dell’analogia tra i concetti teologici e quelli politici può
essere fonte di fraintendimento se non è intesa come un rapporto che implica il ri-
ferimento allo stesso termine – il trascendente –, ma in modo diverso.
31 Al riguardo si veda P. Schiera, Dalla decisone alla politica: la decisione in Carl
Schmitt, in La politica oltre lo Stato cit., pp. 15-24. Il riconoscere che la decisione
è tale in quanto è efficace e riesce a mettere in forma una realtà complessa, non
significa che essa si giustifichi con il mero fatto di aver prodotto ordine.

Giuseppe Duso. La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica
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208 Giuseppe Duso – La logica del potere

la visibilità della Chiesa32, struttura che è felicemente e platonica-


mente legata alla metafora del vedere sulla base della radice etimo-
logica del termine «idea».

6.4 Rappresentazione e forma politica

È in Cattolicesimo romano e forma politica che il concetto di rap-


presentazione mostra di esprimere questa struttura della visibilità di
ciò che è invisibile. Tale opera mi sembra fondamentale nel percor-
so intellettuale di Schmitt e la sua portata teorica non riducibile al
problema del rapporto con il cattolicesimo o alle contingenze della
vita dell’autore che connotano il periodo in cui essa è stata scritta.
Essa va collocata, a mio avviso, a fianco dell’opera weberiana
L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, non solo per
l’importanza che riveste, ma anche per l’analogia e le differenze e-
sistenti nelle due diverse relazioni poste tra capitalismo e protestan-
tesimo da una parte, e tra lo specifico della forma politica e il catto-
licesimo dall’altra. La collocazione temporale di quest’opera appare
strategica nell’itinerario schmittiano, perché la prima edizione è
immediatamente successiva alla celebre definizione della sovranità
come decisione nello stato di eccezione, mentre la seconda edizio-
ne, che lo stesso Schmitt sembra prediligere e che sta alla base della
terza, è del ‘25, e precede dunque di poco la Verfassungslehre e il
Begriff des Politischen.
È significativo che qui l’elemento della decisione, che caratte-
rizza la forza della Chiesa, sia coniugato con la mediazione, in
quanto la Chiesa è una delle più significative manifestazioni di
complexio oppositorum, di capacità di tenere insieme elementi di-
versi e contrastanti, di dare loro una forma. È proprio la dimensione
formale a costituire la forza e l’efficacia della Chiesa e a determina-
re il suo operare, e tale dimensione formale si manifesta nel Prinzip
der Repräsentation. Per questo essa appare non solo un esempio di
forma politica, ma, nello specifico momento del Cattolicesimo ro-
mano, come autentica Trägerin della forma politica, soprattutto in
un periodo di trionfo della tecnica e del pensiero economico. La
forza rappresentativa della Chiesa è tanto maggiore in quanto non è
32 Die Sichtbarkeit der Kirche. Eine scholastische Erwägung, «Summa», 1917-18,
n. 2, pp. 71-80, trad. it. in Cattolicesimo romano cit., pp. 73 sgg..

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6. Teologia politica e logica dei concetti politici moderni in Schmitt 209

l’idea della giustizia ad essere rappresentata, ma la persona di Cri-


sto: più grande è allora la sua capacità di presa, la sua autorità, la
capacità di convincimento33. E questi sono elementi necessari al po-
litico, perché senza rapporto con l’idea, senza autorità e senza ethos
della convinzione non c’è destino né durata per un sistema politico:
ancora si ha il rifiuto di una teoria della mera forza, in quanto inca-
pace di intendere il modo in cui la potenza politica si esplica34.
Qui, nella trattazione della forza politica della Chiesa, appaiono
tutti gli elementi fondamentali che caratterizzeranno nella Verfas-
sungslehre il concetto della rappresentazione come principio della
forma politica: superamento del piano empirico, implicazione
dell’idea, trascendenza, dimensione pubblica, carattere istituzionale,
produttività del formieren, indeducibilità della rappresentanza «dal
basso», carattere «personale». Tale aspetto di trascendenza, o, per
meglio dire, un movimento di trascendimento dell’empirico è pre-
sente anche nelle forma parlamentare, che in quest’opera è intesa
come la più laicizzata e illanguidita in relazione a quella rappresen-
tatività che si manifesta nella Chiesa. Infatti: «il popolo come intero
è solo un’idea»35 e perciò può essere rappresentato, perché è solo
l’idea, che non è empiricamente presente, a poter essere rappresen-
tata. Nella rappresentazione si ha uno scarto costante nei confronti
della Realpresenz der Dinge e anche di quel rispecchiamento di vo-
lontà determinate ed espresse che caratterizzano un semplice rap-
porto privatistico di Vertretung, nei confronti del quale la Reprä-
sentation, e dunque la rappresentanza nel suo senso politico, si dif-
ferenzia radicalmente.
Tuttavia il riferimento alla Chiesa, indicata nostalgicamente co-
me la vera Trägerin della forma politica in un tempo dominato dalla
tecnica e dal pensiero economico e in rapporto ad uno Stato che ap-
pare mancare proprio della capacità politica e formante della rap-
presentazione, ci deve far riflettere ulteriormente sulla rappresen-
tanza come concetto centrale della teoria politica moderna. Sembra
quasi che in Cattolicesimo romano tra la Chiesa e lo Stato ci debba

33 Cfr. C. Schmitt, Römischer Katholizismus und politische Form cit., p. 41; trad.
it. cit., p. 59.
34 Ivi, p. 25; trad. it. cit., p. 45.
35 Ivi, p. 36; trad. it. cit., p. 56.

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210 Giuseppe Duso – La logica del potere

essere, per quanto riguarda la funzione rappresentativa, mera conti-


nuità, e che la meta proposta per uno Stato ormai in crisi sia quella
di riuscire ad elevarsi alla capacità rappresentativa della Chiesa. In
realtà se così fosse si perderebbe lo specifico della concettualità
moderna, che è – secondo la proposta che qui cerco di avanzare – lo
specifico oggetto della riflessione radicale di Schmitt. Un esame più
complessivo del pensiero schmittiano non mi pare tuttavia porti a
confermare questa semplice continuità, se è vero che la costruzione
politica moderna appare sospesa su un vuoto36 e che Schmitt espri-
me, in un periodo più tardo, la consapevolezza che solo un’immane
disperazione ha potuto dare luogo a questa forma37.
Il filo logico del ragionamento schmittiano mi pare essere il ri-
trovamento, al cuore della forma politica moderna, di una struttura
originaria, che comporta un movimento di trascendenza, ma con-
temporaneamente il tentativo di sottrarsi a questo movimento, me-
diante una soluzione di immanenza. È vero che la costruzione hob-
besiana pur – o meglio proprio – nel tentativo di dar luogo ad una
costruzione oggettiva e formale (lo Stato come manifestazione e in-
sieme neutralizzazione del politico), esprime già nella modalità
fondativa di questa costruzione l’elemento non razionale e oggetti-
vo della fede. La fondazione del corpo politico non avviene infatti
mediante un contratto, che implica scambio, ma un patto, che im-
plica fiducia, scommessa sul futuro38. Non solo, ma risultato della
costruzione razionale è pur sempre la fede in una persona, il sovra-
no rappresentante, o, nelle elaborazioni successive ad Hobbes, il
rappresentante del popolo sovrano, insomma colui o coloro che di-
cono «lo Stato sono io», senza il quale o i quali non c’è forma-
Stato. Ciò perché è la stessa rappresentazione a comportare fede,
fiducia, come si può notare nel tentativo rousseauiano, tanto radica-
le quanto vano, di opporsi alla rappresentanza politica proponendo

36 È merito di C. Galli aver messo in luce la differenza fra la moderna rappresen-


tazione dello Stato , sospesa nel vuoto, e la rappresentazione della Chiesa (cfr. la
Presentazione cit. all’edizione italiana di Cattolicesimo romano, p. 18; cfr. ora Ge-
nealogia della politica cit., spec. cap. VI).
37 Cfr. C. Schmitt, Ex captivitate salus, Greven Verlag, Köln 1950, p. 66 (trad. it.
di C Mainoldi, con un saggio di F. Mercadante, Adelphi, Milano 1987, p. 68).
38 Cfr. La mia Introduzione, Patto sociale e forma politica, a Il contratto sociale
cit., pp. 7-49.

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6. Teologia politica e logica dei concetti politici moderni in Schmitt 211

l’inalienabilità della sovranità e la manifestazione sempre in atto


della volontà generale39. La stessa costruzione hobbesiana risulta
poi nell’interpretazione schmittiana ulteriormente aperta alla tra-
scendenza, come si può notare nel famoso «cristallo di Hobbes».
Ugualmente è vero che il politico nel moderno non si costituisce
se non in rapporto all’idea. L’immagine secondo cui l’ideale della
politica è una situazione totalmente oggettiva e non conflittuale e in
cui le cose si governano da sole è smentita dal fatto che con il mero
riferimento alle cose la sfera politica in senso moderno non si può
nemmeno costituire. Ciò riguarda non solo la forma politica nel suo
significato istituzionale, che è resa possibile attraverso l’azione for-
mante della rappresentazione, la quale, come si è visto implica ne-
cessariamente l’idea; ma riguarda anche ciò che sta a monte e si re-
alizza mediante questa forma, cioè il rapporto amico-nemico. Infatti
anche le cose o le realtà indicate da un pensiero economico diven-
tano politiche quando si fanno elemento di coagulo e simbolo che
segna il discrimine tra amici e nemici, quando cioè diventano ideali
e bandiere per cui combattere. Come si è sopra ricordato, anche nel-
la situazione in cui l’elemento rappresentativo sembra più illangui-
dito, cioè nei moderni parlamenti, che pur hanno a che fare con co-
se e interessi, ciò che si rappresenta è la totalità del popolo, che, in
rapporto agli individui particolari esistenti, è appunto idea.
Tuttavia questo movimento di trascendimento, che viene alla lu-
ce nella comprensione di Schmitt, pur essendo il movimento che
permette il costituirsi del politico moderno, è dalla stessa teoria
moderna anche negato. Infatti quest’ultima si viene a formare solo
nel momento in cui è destituito di valore un ragionamento metafisi-
co e un modo di intendere l’ambito della pratica e della politica che
aveva costituito un punto di riferimento per un lunga tradizione di
pensiero. Se è vero che l’esperienza politica è possibile solo me-
diante il riferimento all’idea, e ciò permette di tornare con il pensie-
ro alla Repubblica platonica40, tuttavia è proprio il problema

39 Cfr. S. Biral, Rappresentazione e governo nel ‘700 francese (un capitolo di teo-
logia politica), «Il Centauro», 1981, n. 2, pp. 23-28.
40 Si badi bene: «il riferimento all’idea», non il suo possesso, non il suo uso come
modello razionale che possiamo avere davanti agli occhi e dunque «vedere»:
un’idea dunque che permette di mettere in crisi qualsiasi preteso sapere e qualsiasi
risposta definitiva in relazione al problema della giustizia.

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dell’idea che viene contraddittoriamente posto tra parentesi nella


teoria moderna, e che alla fine viene negato. Bisogna rinunciare alla
ricerca di cos’è bene e giusto; su questo i filosofi morali hanno for-
nito soluzioni diverse, causa di conflitto – dice Hobbes –: bisogna
allora trovare una soluzione formale (monopolio della forza e ob-
bligazione politica) che garantisca l’ordine. L’orizzonte metafisico
e quello teologico sono tolti di mezzo e il tentativo è quello di una
costruzione che si risolve nell’immanenza.
Schmitt ha consapevolezza di questa ambivalenza dei concetti
politici moderni. Se è vero che le entità che sono poste al luogo di
Dio, cioè «umanità», «nazione», «individuo», «sviluppo storico», e
anche la «vita» in quanto tale, sono ancora metafisica e comportano
sempre un’istanza suprema e radicale, così che la metafisica appare
come qualcosa di inevitabile41, è anche vero che questi sono fattori
mondani e terreni, che pur non potendosi identificare con la datità
delle cose, sono tuttavia funzionali a una soluzione di tipo imma-
nente. Insomma, se la rappresentanza moderna è rappresentanza del
popolo, della nazione intera, ciò che con questa forma si intende
mettere in atto è una garanzia totale e immanente, che neghi
l’elemento della trascendenza proprio della rappresentazione. Difat-
ti è riportando l’azione di coloro che esercitano il potere alla sua na-
tura rappresentativa che si intende disinnescare le possibilità di di-
storsione dell’uso del potere e dunque riportarlo al suo fondamento
che è il popolo. Il popolo cioè costituisce quel fondamento imma-
nente e non problematico che garantirebbe l’uso corretto del potere.
Certo, si è visto che in realtà il popolo come intero, come soggetto
politico, è solo idea, e proprio perciò può essere rappresentato, ma
il tentativo della costruzione moderna è di farne invece non ciò che
nella rappresentazione trascende e rimane sostanzialmente assente
nel momento in cui è rappresentato, ma piuttosto il fondamento
immanente della politica. Non solo la rappresentazione dovrebbe
fare emergere questo soggetto immanente, ma l’eventuale uso di-
storto di quest’ultima dovrebbe essere corretto con l’emergere della
volontà diretta del popolo.

41 Cfr. la Premessa del 1924 a Politische Romantik, Duncker & Humblot, Mün-
2
chen u. Leipzig, 1925 p. 23 (Romanticismo politico, trad. it. a cura di C. Galli,
Giuffrè, Milano 1981, p. 21).

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6. Teologia politica e logica dei concetti politici moderni in Schmitt 213

Tale immanenza è più evidente nel filosofo politico che, per e-


liminare ogni trascendenza e il sempre possibile inganno del popolo
da parte di coloro che lo rappresentano, nega decisamente il concet-
to di rappresentazione, cioè Rousseau. Nel suo pensiero emerge con
maggior chiarezza ciò che in realtà sta alla base anche delle conce-
zioni rappresentative successive. Il popolo, inteso come la totalità di
tutti gli individui, è il soggetto perfetto e assoluto della politica, in
quanto non avrebbe nessuna istanza superiore o estranea che lo
condizioni. La sua volontà è sempre buona: è quella che è. Chi può
agire politicamente se non la totalità di tutti i cittadini? Ben si com-
prende che anche nelle democrazie rappresentative è questo il fon-
damento, e dunque un fondamento che pur ponendosi mediante uno
scarto ideale, tende ad essere immanente, un fondamento esistente.
Non è questo il luogo per mostrare come in realtà non sia risolutiva
la negazione rousseauiana della rappresentazione, proprio perché il
suo problema è quello della sovranità moderna. Ciò che ha qui im-
portanza è mostrare come nella negazione della rappresentanza, ma
anche attraverso la rappresentanza, si tenti di negare ogni movimen-
to di trascendenza.
Allora la situazione aporetica – che solo in un pensiero com-
prendente e radicale viene in luce – in cui si trovano i concetti poli-
tici moderni, è quella di richiedere per il loro stesso porsi una strut-
tura di trascendenza e di implicazione che tuttavia tendono a nega-
re. Essi cioè in tanto possono porsi in quanto implicano un’istanza
radicale e trascendente, ma tuttavia negano questa trascendenza e il
rischio della prassi che questa comporta, e intendono l’istanza radi-
cale e trascendente in modo immanente. Il bene e il giusto non sono
più un problema, non sono più l’idea necessaria, che bisogna ri-
schiare di rappresentare, come avviene per il filosofo della Repub-
blica di Platone, che disegna e cancella e ritocca il proprio disegno,
dando forma a una polis che non può essere la copia di un modello,
dal momento che l’archetipo non è visibile42 (altro che delineazione
scientifica della polis perfetta!). Si dà luogo invece a una soluzione
formale e oggettiva, perfettamente disegnabile e geometrizzabile
della giustizia, che pretende di non comportare alcuna eccedenza e

42 Cfr. al riguardo il mio La rappresentazione e l’arcano dell’idea, in La rappre-


sentanza cit., sp. pp. 45 sgg.

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trascendenza, e dunque nemmeno nessun rischio. In questa forma le


idee che sono rappresentate (popolo, nazione ecc.) sono intese come
realtà presenti, dunque in modo immanentistico. Proprio
nell’immanenza del movimento e nel circolo di volontà individuale
e volontà generale, consiste la legittimazione che i concetti moderni
tendono a dare dell’obbligazione politica. Perciò si può anche com-
prendere che questa stessa legittimazione sia posta in crisi nel mo-
mento in cui tale complesso movimento – di implicazione della tra-
scendenza e di sua negazione – proprio della concettualità politica
moderna viene compreso.
La teologia politica è dunque il cuore pulsante della teoria poli-
tica moderna e tuttavia da questa negato. Ma ci si può chiedere a
questo punto se Schmitt sia effettivamente fedele a questa struttura
teoretica che emerge nel suo itinerario di pensiero, cioè a questa te-
ologia politica intesa non come fondazione, ma come struttura sem-
pre aperta verso l’alto. Se si guarda alla contemporanea e assai vi-
cina riflessione di Benjamin, sembra di dover rispondere negativa-
mente43, perché proprio il modo in cui la stessa struttura è vissuta,
come aperta, da Benjamin ci fa riflettere sull’attaccamento schmit-
tiano all’ordine positivamente prodotto che caratterizza lo Stato
moderno. Così come nella Chiesa Schmitt accentua l’aspetto istitu-
zionale e formante a cui dà luogo la rappresentazione, così per lo
Stato tiene fermo l’aspetto ordinante, e dunque il calarsi dell’idea
della giustizia in diritto positivo. Perciò, nonostante il politico sia
«nello Stato oltre lo Stato» ed egli comprenda che l’epoca degli
Stati è ormai al tramonto, tuttavia è riluttante a intendere fino in
fondo questa forma come transeunte44.

43 cfr. S. Ganis, L’ordine della redenzione. Benjamin e il politico, «Trimestre», 24


(1991), n. 1-2, pp. 45-86.
44 Sulla riluttanza di Schmitt ad intendere lo Stato come forma contingente e tran-
seunte, nonostante l’ulteriorità del politico nei confronti dello Stato, si veda il testo
redatto da S. Biral, che raccoglie la relazione orale di G. Miglio, Oltre lo Stato, in
Il politico oltre lo Stato cit., pp. 41 e 47, e L. Ornaghi, Lo Stato e il politico nell’età
moderna, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico», 1986, pp. 721-
741.

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6. Teologia politica e logica dei concetti politici moderni in Schmitt 215

6.5 Oltre Schmitt e la scienza politica moderna

L’indicazione della nostalgia di Schmitt per la forma-Stato, ci in-


troduce all’ultima fase di questa riflessione sul significato e sulla
rilevanza del suo pensiero. Si tratta cioè di chiedersi se egli, nono-
stante la sua comprensione dei concetti politici moderni, non ri-
manga tuttavia prigioniero della scienza politica moderna, come ha
indicato Voegelin45. Si tratta cioè di capire se il ritenersi giurista da
parte di Schmitt, accanto all’aspetto felice e produttivo fin qui mes-
so in rilievo, consistente nell’intendere il filosofico non come ciò
che ha un suo luogo altro, ma come un pensiero radicale degli stessi
concetti giuridici, non mostri anche un diverso aspetto, quello
dell’incapacità di andare oltre quella concettualità. Tale incapacità
avrebbe un duplice esito: da una parte quello schmittiano non sa-
rebbe un pensiero radicale dell’origine, e dall’altro non fornirebbe
un’attrezzatura di pensiero atta a pensare un presente che non è più
comprensibile mediante la concettualità dello Stato, se è vero che
l’epoca della statualità è dallo stesso Schmitt considerata come
un’epoca che da tempo sta volgendo alla fine46.
Schmitt ha forse avuto la pretesa, evidenziando la dialettica tra
politico e Stato, di cogliere al di là della forma propria dello Stato,
una dimensione originaria del politico, costituita dal rapporto ami-
co-nemico, una dimensione che permetterebbe di intendere il modo
in cui il politico si configura anche in altre esperienze estranee alla
forma-Stato. Da ciò il tentativo di intendere con questa chiave an-
che la concettualità politica greca e di interpretare il significato
dell’ aristotelico. In questa direzione si sono dati tentati-
vi come quello di Christian Meier di interpretare il pensiero politico
greco, e sempre in questa direzione si è cercato di indicare la via
per una scienza politica rigorosa, basata sulle leggi e sulle costanti

45 Cfr. E. Voegelin, Die Verfassungslehre von Carl Schmitt. Versuch einer kon-
struktiven Analyse ihrer staatstheoretischen Prinzipien, «Zeitschrift für öffentli-
ches Recht», XI (1931), pp. 89-109, qui p. 107. Sul rapporto Voegelin – Schmitt
rimando alla mia relazione, Die Krise des Staates als Rechtsform und die politische
Philosophie: Eric Voegelin und Carl Schmitt cit., e a Chignola Pratica del limite
cit., sp. pp. 79-89.
46 Bisogna per altro fare attenzione a parlare troppo affrettatamente di «postmo-
derno», in quanto il nuovo appare molto spesso come sintomo di crisi del quadro
moderno, piuttosto che come un altro quadro con una sua coerenza propria.

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216 Giuseppe Duso – La logica del potere

del comportamento umano. In realtà il politico inteso come rappor-


to amico-nemico più che una struttura originaria per intendere la
prassi dell’uomo e il significato del politico, è un presupposto del
politico moderno e del modo in cui in esso è inteso l’ordine.
Nell’indicazione schmittiana, come ho cercato di argomentare, ab-
biamo una prestazione di pensiero notevole, consistente nella com-
prensione dei concetti politici moderni, ma non il coglimento di una
dimensione quasi ontologica dell’agire umano.
Da questo punto di vista giustamente Brunner ha inteso il con-
cetto schmittiano del politico come il punto finale di una dottrina
dello Stato47: potremmo dire finale in quanto ne comprende la radi-
ce, il presupposto, e anche la crisi. Non mi sembra tanto forte la cri-
tica al fatto che Schmitt avrebbe dato maggiore o esclusivo rilievo
al rapporto con il nemico piuttosto che ai legami che stanno alla ba-
se dell’amicizia. Qui ha ragione Schmitt: nel vuoto operato dalla
teoria moderna è proprio il rapporto con il nemico, assieme alla de-
terminazione dell’ordine interno, l’elemento discriminante e decisi-
vo del legame che si ha nella forma Stato48. Ciò che determina il
legame e che raggruppa la comunità politica è certo rilevante in al-
tro contesto concettuale, in modo diverso forse nelle diverse tradi-
zioni e modi di pensare il politico prima e fuori della scienza politi-
ca moderna. Il politico come rapporto amico-nemico è allora non
qualcosa di originario, ma la condizione che permette di pensare e
di dedurre la forma politica moderna, e dunque è un presupposto
del pensiero giuridico riguardante lo Stato.
Nel presente volume l’attraverso schmittiano non viene dunque
a costituire un’operazione isolata, ma va congiunta al confronto cri-
tico con la Begriffsgeschichte tedesca e dunque fa parte di un lavoro
che confluisce nella proposta di un lavoro di storia concettuale inte-
so in tutta la sua pregnanza filosofica. La radicalizzazione schmit-
tiana è assai rilevante per un pensiero filosofico sulla teoria politica

47 Cfr. la Premessa del 1963 alla seconda edizione di Der Begriff des Politischen
cit., p. 14. (trad. it. in Le categorie del politico cit., p. 95).
48 È possibile verificare questo punto esaminando le motivazioni che portano alla
fondazione del monopolio della forza nei filosofi politici moderni a partire da
Hobbes: alla base della costruzione dello Stato stanno la necessità di garantire
l’ordine nella società, e la difesa nei confronti delle minacce che vengono
dall’esterno.

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6. Teologia politica e logica dei concetti politici moderni in Schmitt 217

moderna, ma di fronte a tale movimento di pensiero si blocca: e il


blocco è costituito dal fatto che la forma politica moderna costitui-
sce l’orizzonte in cui egli permane e condiziona il suo tentativo di
cogliere l’originario politico dell’agire umano. Una prospettiva co-
me quella indicata fin dall’inizio di questo volume tende invece a
superare l’inevitabilità di questo orizzonte, per poter intendere in
modo più appropriato forme di pensiero della politica non riducibili
alle categorie moderne e per attingere a una domanda originaria
sull’agire e sull’agire in comune degli uomini.
L’epoca della statualità è giunta alla sua fine per lo stesso
Schmitt, e la sua stessa comprensione della concettualità politica
moderna ha contribuito – suo malgrado – a metterne in evidenza la
crisi. I concetti di individuo, uguaglianza, sovranità, rappresentan-
za, che caratterizzano le stesse costituzioni formali, cioè le carte co-
stituzionali, non sembrano più essere in grado da una parte di capire
l’effettivo costituirsi della realtà politica, e dall’altra di legittimare
l’obbligazione politica. Anche nei confronti di Schmitt bisogna al-
lora tener presente la sua lezione di non parlare di cose nuove con
concetti vecchi. Ma sempre la sua lezione risulta indispensabile per
intendere quei concetti, la loro genesi, la loro logica e le loro aporie,
e per non correre il rischio, come oggi si fa quasi sempre, di usare
una parte di quella concettualità contro l’altra (ad esempio i diritti
degli individui contro la forza e la centralità dello Stato), non com-
prendendo come i diversi lati della teoria siano legati tra loro da una
ferrea logica, e come, se si intende ancora una volta partire dai dirit-
ti e dalla uguaglianza degli individui, non ci sia altro esito che
l’immane forza dello Stato.
L’ossessione schmittiana per l’unità politica è da riportare pro-
prio alla comprensione di questa logica. Non è in questo criticabile.
Ma se ciò che è oggi da capire è la differenza, il raccordo delle di-
verse volontà e forme di raggruppamento, la dimensione politica
degli uomini al di là della scissione di privato e pubblico operata
dalla rappresentanza moderna, il senso reale e costituzionale di ter-
mini come consenso e partecipazione, allora bisogna andare oltre
Schmitt, ma solo tenendo ben presente la sua lezione, senza aggiu-
stamenti interni alla dottrina dello Stato, che sono confusioni con-
cettuali. Per intendere tutto ciò bisogna affinare nuovi strumenti,
senza usare come valori e bandiere concetti che sono stati alla base

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218 Giuseppe Duso – La logica del potere

di quella dottrina, quali individuo, uguaglianza, diritti, avendo la


forza di superare la costruzione teorica che porta allo Stato e allo
Stato di diritto. È ancora attraversando la strada indicata da Schmitt,
nella direzione di un suo superamento, che si può tentare di intende-
re insieme il senso radicale del problema dell’originario – dell’idea
del giusto e del bene – che emerge nell’agire degli uomini,
l’esistenza di significati della politica diversi da quello moderno in-
centrato sulla forma, sul potere e sul conflitto, e infine la possibilità
di realtà ulteriori a quella, non eterna, dello Stato.

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219

7. Considerazioni preliminari su democrazia e


federalismo

7.1 Istanze contraddittorie nell’uso del termine di


democrazia

Il tema della democrazia è già emerso nel nostro percorso, soprat-


tutto in relazione alla distinzione tra l’antica concezione del gover-
no e il moderno concetto di potere politico. Appare tuttavia utile ri-
pensare questo concetto, o meglio i concetti che sono implicati dalla
nozione di democrazia, perché questa si pone nell’epoca contempo-
ranea come comprensiva di un modo di intendere i valori della poli-
tica e come indicativa del carattere legittimante proprio della teoria
politica moderna, e perché i chiarimenti che possono derivare
dall’analisi critica appaiono caratteristici di un approccio storico-
concettuale. Naturalmente la questione non è quella di schierarsi in
favore o contro la democrazia, ma piuttosto quella di cercare di di-
rimere gli equivoci che si presentano e di individuare il problema
che si pone tra le intenzioni e le istanze che con il concetto di de-
mocrazia si vogliono esprimere e i concetti che sono usati per de-
terminarne il significato.
Difficilmente si può rintracciare una parola che, al pari di quella
di «democrazia», sia espressiva del modo che si ha nel dibattito po-
litico, nella vita comune e anche nei trattati scientifici, di riferirsi ai
concetti politici o, ancora più in generale ai concetti della vita prati-
ca. Così come accadeva nello scenario del dialogo di Socrate con i
suoi concittadini, sulle questioni pratiche1 tutti pretendono di sape-

1 A buon diritto la vita pratica coincide con quella politica in un mondo come
quello greco, in cui non abbiamo la moderna scissione di interiore ed esteriore, di

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220 Giuseppe Duso – La logica del potere

re: hanno le loro certezze e «verità». Tale atteggiamento ha una sua


ragione nella struttura propria dell’ambito dell’agire: non si tratta
infatti di un ambito particolare, che, pur essendo utile magari per
tutti (come quello tecnico produttivo), può tuttavia rimanere fuori
della propria attività e della propria competenza. L’azione è struttu-
rale per l’uomo: si può decidere come agire, ma non di agire. Tutti
sono allora portati a pensare di sapere come comportarsi, e a darsi
una propria identità e collocazione nei rapporti con gli altri in base
a tale presunto «sapere»2. L’interrogazione socratica tuttavia mostra
la contraddizione di questo preteso sapere e apre la ricerca su ciò
che è giusto e buono, una ricerca che è non occasionale e transito-
ria, che non si conclude con il conseguimento di una verità che gui-
di infallibilmente l’agire, ma che determina piuttosto il significato
del pensiero nell’ambito pratico, non risolvibile nella deduzione da
una teoria giusta, ma aperto piuttosto al rischio della scelta.
L’uso della parola «democrazia» mostra come i concetti siano
spesso usati come bandiere, come segnali per indicare la propria
posizione, la propria collocazione culturale e politica, e non siano
invece esaminati in ragione del senso determinato che hanno, della
loro logica, dei loro presupposti. Questo uso del concetto come
bandiera è per la democrazia tanto più vistoso, quanto più esso è
venuto ad assumere un significato incontestabilmente positivo, pro-
gressista, emancipatorio. Come ha ricordato Sartori3, in
un’inchiesta sul tema della democrazia svolta nel 1948 nell’ambito
dell’Unesco, rivolta a filosofi, politologi, sociologi, e economisti,
risultò che nessuna dottrina si presentava come antidemocratica,

morale e politica, e l’etica determina l’ambito dell’agire che è dell’uomo, e proprio


perciò dell’uomo in quella polis che è fine e ambito dell’espressione della sua atti-
vità e della sua virtù.
2 Tale sapere non viene, dagli interlocutori di Socrate, distinto dal sapere tecnico,
in quanto intende risolversi in un sapere oggettivisticamente inteso e determinabile
in norme vere a cui adeguare la prassi. Allo stesso Platone viene spesso attribuito
un tale atteggiamento, che fa coincidere il pensiero filosofico con il preteso posses-
so della verità, con una sua esposizione. Ciò fa ad esempio la Arendt nella sua in-
terpretazione di Platone, e Klaus Held (Stato, interessi e mondi vitali, tr. it. a cura
di A. Ponsetto, Morcelliana, Brescia 1981, cap. V, sp. pp. 168 sgg.), il quale, nella
stessa direzione, fa di Platone un anticipatore della scienza politica moderna di
stampo hobbesiano. In tal modo va perso non solo il senso della filosofia di Plato-
ne, ma il significato e il ruolo che il pensiero filosofico ha nell’ambito della prassi.
3 Cfr. G. Sartori, Democrazia e definizioni, Il Mulino, Bologna 19744, p. 10.

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7. Considerazioni preliminari su democrazia e federalismo 221

mentre antidemocratici erano piuttosto indicati coloro che propu-


gnavano altre idee: insomma gli avversari. Con il concetto di demo-
crazia si ha dunque l’impressione di aver attinto un valore universa-
le, da tutti condiviso. Tale situazione sembra confermata in modo
ancor più forte oggi, nel momento in cui, caduti i muri e le ideolo-
gie contrapposte sull’ordine della società, sembra che il modello
denominato, con non poco bisticcio concettuale, come «liberalde-
mocratico», abbinato al riconoscimento più o meno assoluto della
dimensione del mercato, costituisca l’idea vera a cui tutti si rifanno,
e che tutti vogliono interpretare nel modo migliore e più autentico4.
In realtà sotto il termine di «democrazia» si possono rintracciare
opinioni e istanze spesso non facilmente compatibili tra loro, o, nel
loro fondamento logico, addirittura contrapposte. Per esprimere due
di queste istanze difficilmente compatibili, si può ricordare, da una
parte, il concetto moderno di «popolo», inteso come soggetto unita-
rio autentico e perfetto della politica, concetto che ha alla sua base
le grandi idee di «uguaglianza» e di «libertà», diffuse ed egemoni
dall’epoca della Rivoluzione francese. Dall’altra, ci si può riferire
alle istanze, che emergono spesso nei dibattiti politici e nel discorso
comune, e che sembrano proprie dell’ambito concettuale della de-
mocrazia, di una reale partecipazione degli uomini alla vita politica,
del riconoscimento della differenza e della pluralità dei diversi sog-
getti che di volta in volta si presentano nella sfera pubblica, metten-
do in discussione un assetto consolidato della vita sociale, dell’ac-
cettazione infine delle minoranze, a cui si intende attribuire dignità
politica.
Se ci si interroga sul significato e sulla logica dei concetti che
emergono in questi due gruppi di istanze, quello determinato dal
popolo sovrano e dall’uguaglianza e libertà degli individui, e quello
esprimente il pluralismo e la partecipazione, si può riscontrare che
ci si trova di fronte ad esigenze non immediatamente compatibili tra
loro, e tali da rendere contraddittoria l’area di opinioni che si con-
densano nel termine di democrazia. Ciò a maggior ragione se ci si
riferisce al senso determinato dei concetti e al loro risvolto costitu-

4 Sulla progressiva identificazione di liberalismo e democrazia, cfr. N. Bobbio,


Democrazia, in Lessico della politica, a cura di G. Zaccaria, Edizioni lavoro, Ro-
ma 1987, sp. 163 sgg.

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222 Giuseppe Duso – La logica del potere

zionale. Appare allora un utile compito preliminare ad una tratta-


zione della democrazia quello di esaminare se i concetti che stanno
alla sua base costituiscano un ambito indiscusso di verità, o non ab-
biano piuttosto conseguenze paradossali, quali ad esempio il fatto
che sono proprio essi ad implicare, nella loro logica e nella loro ri-
caduta costituzionale, l’espropriazione della dimensione politica
dell’agire degli uomini e a rendere privo di significato pregnante il
termine di partecipazione.

7.2 Identità concettuale della «democrazia»?

Se ci rivolge ai Lessici filosofici contemporanei, per controllare il


modo in cui si intende la democrazia, si può notare come
l’assunzione di fondo sia quella di un significato unitario del termi-
ne, che poi viene esaminato nelle sue differenze, caratterizzanti
l’antichità, il medioevo e l’epoca moderna. Persino la recente opera
prodotta nell’ambito della Begriffsgeschichte tedesca, cioè i Ge-
schichtliche Grundbegriffe, che nasce dalla critica ad un tale modo
di intendere la storia dei concetti, non si sottrae all’impressione di
trattare il concetto di democrazia come qualcosa di sostanzialmente
unitario, anche se dedica un paragrafo alla «Dissoluzione della tra-
dizione nella prima età moderna»5. Ciò non sorprende, in quanto
all’interno della trattazione si hanno i contributi di Christian Meier,
noto per i lavori sulla nascita della democrazia e del Politico in Gre-
cia6, e di Reinhart Koselleck, il quale, pur contrapponendo la storia
dei concetti alla storia delle idee e al contenuto identitario che que-
ste vengono ad assumere, è tuttavia preoccupato di trovare un piano
di omogeneità o di traducibilità tra i concetti antichi e i concetti
moderni7. Pur notando come, nella frattura da lui individuata nel
XVIII secolo, il termine di democrazia sia connotato in modo nuo-
vo, grazie «all'appello alla sovranità delle leggi, o al principio di
uguaglianza», tuttavia egli considera ancora oggi possibile riferirsi

5 Cfr. GG, Bd. 1, pp. 821-899; trad. it., W. Conze, R. Koselleck, H. Maier, Ch.
Meier, H.L. Reimann, Democrazia , a cura di E. Parsi, Marsilio, Venezia 1993.
6 Cfr. Ch. Meier, Die Entstehung der Demokratie. Vier Prolegomena zur einer
historischen Theorie, Suhrkamp, Frankfurt 1970, e Die Entstehung des Politischen
bei den Griechen, Suhrkamp, Frankfurt a. Main, 1980, trad. it. di C. De Pascale, La
nascita della categoria del politico in Grecia, Il Mulino, Bologna 1988.
7 Su ciò cfr. cap. I, sp. pp. 30 sgg.

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7. Considerazioni preliminari su democrazia e federalismo 223

al senso greco di «democrazia», che, pur nella sua diversità, in


quanto indica una delle forme di costituzione della polis, fissa «de-
terminazioni, metodo o regolarità che si possono incontrare anche
nella democrazie attuali»8.
Uno degli elementi che mostrerebbero il contenuto identico del
concetto è fornito dal significato che il termine ha assunto a partire
dai Greci, secondo il quale esso determina una forma di governo. Il
nucleo identico sarebbe allora contenuto nell’etimo del termine, che
viene inteso come esprimente il popolo quale soggetto del potere: il
kratos del demos, appunto. Su questa base identica si darebbero le
differenze, delle quali una delle più rilevanti consisterebbe nel fatto
che il potere del popolo sarebbe esercitato direttamente nell’agora
dei Greci, nei comitia dei romani, e nell’arengo degli antichi comu-
ni medievali, mentre tale esercizio sarebbe indiretto nello Stato
moderno, in quanto avverrebbe mediante rappresentanti9; modalità
di esercizio che di solito viene attribuita agli Stati moderni in rela-
zione alla dimensione che li caratterizza, tale da rendere impensabi-
le un esercizio diretto del potere da parte di tutto il popolo.
Per un approccio critico al tema si tratta tuttavia di comprendere
se in una tale accezione noi non determiniamo il concetto in un mo-
do che non è pensabile prima della nascita della concettualità mo-
derna, rischiando di fraintendere il riferirsi alla «democrazia» da
parte di una lunga tradizione di pensiero. Il problema non riguarda
solamente la corretta interpretazione del passato, ma anche la vali-
dità e pretesa universalità della concettualità moderna. Infatti
l’operazione con la quale si intende il passato proiettando su di esso
il significato concettuale che si è sedimentato nelle nostre parole è
densa di conseguenze, perché rende universale ed eterno un conte-
nuto di pensiero che è invece possibile solo all’interno di una serie
di condizioni e di presupposti che non hanno il carattere di
un’astorica, necessaria e universale razionalità. Ma ciò che più con-
ta è intendere se tale concetto, accettato non solo come ovvio, ma
anche come valore, non contenga difficoltà e contraddizioni.

8 Cfr. Koselleck, Storia dei concetti e storia sociale, cit., p. 100.


9 Si veda ad esempio la voce Democrazia di Norberto Bobbio in Lessico della po-
litica cit. p. 160, come pure la voce dello stesso autore, contenuta in Dizionario di
politica, a cura di N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Utet, Torino 1983, p. 308
sgg.

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224 Giuseppe Duso – La logica del potere

Se riflettiamo sull’espressione «potere del popolo» ci possiamo


rendere conto che tra la democrazia degli antichi e quella dei mo-
derni la differenza non consiste tanto nel modo di esercitare il pote-
re, ma nel modo complessivo di pensare la politica e i suoi termini
fondamentali. Sono i due concetti di popolo e di potere – come so-
pra si è mostrato – che risultano fuorvianti per intendere la politica
dei Greci. Il moderno pensiero della democrazia non è più legato
alla tradizionale distinzione delle forme di governo, ma si basa piut-
tosto su una serie di concetti, quali quello di uguaglianza e quello di
libertà, che non solo non compaiono nei Greci, secondo il significa-
to che noi inevitabilmente conferiamo ad essi, ma che nascono pro-
prio sulla base della negazione di quel contesto di filosofia pratica,
che trova il suo principio ordinatore nell’antico concetto di gover-
no, implicato nella stessa distinzione classica delle forme di gover-
no. Intendere i concetti di popolo e di potere omogeneamente nei
due contesti di pensiero, come se si trattasse delle stesse cose, è al-
lora una fonte di equivoci alla cui base sta l’opinione, oggi assai
diffusa nei molteplici tentativi di fare storia dei concetti politici,
dell’unità del concetto nello sviluppo storico.

7.3 Democrazia come forma di governo

La distinzione spesso usata per distinguere la democrazia antica da


quella moderna, cioè quella fra democrazia diretta e democrazia
rappresentativa, appare fonte di equivoci. Innanzitutto, infatti, fa
pensare al popolo come soggetto costituito dalla totalità degli indi-
vidui che agisce senza alcuna mediazione e sottomissione, ma un
tale concetto di popolo non è consono alla lunga tradizione della fi-
losofia pratica. Inoltre, implica l’immagine di un’indipendenza del-
la volontà, della mancanza di alcun tipo di sottomissione di questo
popolo di cittadini che esprimerebbe la sua volontà, che non è pen-
sabile in un ambito di riflessione che trova il suo orientamento in
quello che abbiamo chiamato il principio del governo.
La democrazia intesa come forma di governo, secondo la celebre
partizione rintracciabile già in Aristotele, implica un orizzonte di
pensiero che è scomparso dal modo moderno di pensare la demo-
crazia. Più dell’identificazione della democrazia come forma dege-
nerata di governo, in quanto dedita all’interesse della massa dei po-

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7. Considerazioni preliminari su democrazia e federalismo 225

veri piuttosto che a quella della comunità e non rispettosa


dell’ordine e dunque del nomos, è utile qui ricordare che il principio
del governo è legato da una parte al modo di pensare la polis e
l’anima come realtà plurali, e dall’altra al problema del bene e del
giusto.
Il demos, in questo contesto, è una parte della polis, quella com-
posta dai cittadini liberi e poveri e non ha certo il significato della
totalità degli individui, così come «governo» non ha il senso del
dominio e del comando. C’è un ordine a cui l’azione di governo è
sottoposta, e da cui dipende per essere espressione di buon governo;
non c’è l’autonomia di un soggetto politico che, in quanto tale, è
autorizzato ad esprimere il suo dominio, ad esprimere la sua volontà
sotto forma di comando a cui debba corrispondere l’obbedienza dei
cittadini10. Anche quando Aristotele, nel caso della politia, esprime
una valutazione positiva sul plethos e sulla sua capacità di vedere,
in quanto nei molti vi sono anche molte virtù e capacità di giudizio,
in tal modo non intende affermare un principio di legittimazione
che ravviserebbe nella massa del popolo, in quanto totalità dei cit-
tadini, il vero soggetto della politica e dunque la fonte della giusta
volontà. Non è la decisione dell’assemblea del popolo ad essere di
per sé buona, ma lo è la deliberazione che si ispira ai nomoi ed è
conseguente alla virtù della phronesis.
Se si tiene presente questo contesto complessivo di riferimento,
che ha una durata plurisecolare, in quanto costituisce ancora il qua-
dro di orientamento nelle politiche calviniste del primo Seicento, si
può comprendere quanto possa essere fuorviante la proposta, ben
presente nella storiografia politica, che ravvisa in Marsilio da Pado-
va un padre della moderna democrazia, in quanto sottoporrebbe il
governo (la pars principans) alle leggi e dunque al legislativo e at-
tribuirebbe questo potere legislativo al popolo. Anche qui bisogna
chiedersi cos’è popolo e cosa è governo. È ben vero che Marsilio
considera buono il governo che è sottoposto alle leggi: con Aristo-
tele ravvisa esserci politia, e dunque governo temperato, là dove i

10 Per una trattazione più articolata vedi il cap. III, § 1.

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226 Giuseppe Duso – La logica del potere

governanti governano secondo le leggi11; ma ciò non ha il significa-


to della dipendenza del potere esecutivo da quello legislativo, se-
condo la partizione che discende dal moderno concetto di sovranità;
piuttosto è da ricondurre al principio antico del «governo secondo
le leggi». Pur essendo accentuato, nella concezione della legge, il
momento deliberativo e del comando, tuttavia essa non è ridotta al
comando del soggetto autorizzato. Per intendere il significato della
legge bisogna tener presente non solo che sotto il termine di «leggi»
stanno molte cose diverse, quali consuetudini, statuti, decretali, ple-
bisciti12, ma anche che per una buona legge occorre la virtù della
prudentia, che non è acquisibile senza esperienza, elemento tipico
della filosofia pratica che precede la moderna scienza politica.
È da notare che per Marsilio il termine di democrazia caratteriz-
za non tanto la funzione legislatrice attribuita al popolo, ma piutto-
sto una forma di governo, e per di più, aristotelicamente, una forma
degenerata, in quanto persegue l’interesse di una parte della città,
cioè dei poveri: il motivo fondamentale di ciò sta nel fatto che un
tale governo si muove nella direzione del vantaggio di una parte
piuttosto che in quella dell’attuazione del giusto e del bene; dunque
rende autonoma l’azione e la fa dipendere solo dalla decisione del
soggetto del governo. In tutte le forme buone di governo l’azione di
governo è sottoposta alle leggi, e in tutte è meglio che il legislatore,
o la causa efficiente della legge, sia il popolo13; tuttavia tale affer-
mazione da una parte non identifica la legge buona con la delibera-
zione del popolo, e dall’altra, pur intendendo il popolo come
l’insieme dei cittadini, non lo intende come un soggetto unitario che
si basa sulla totalità indifferenziata dei singoli individui, ma piutto-
sto come universitas civium, come una realtà corporata. Non solo
cittadini non sono tutti, ma anche non sono tutti uguali, pur essendo

11 Cfr. Marsilio da Padova, Defensor pacis, Prima diccio, XI, 5; trad. it. Il difen-
sore della pace. Primo discorso, a cura di C. Vasoli, Marsilio, Venezia 1991, p.
183.
12 Cfr. Defensor pacis, X, 5; trad. it. cit., p. 167. Sui diversi significati di legge nel
medioevo e sulla loro irriducibilità al concetto, a cui inevitabilmente si tende a ri-
correre, di manifestazione formale della sovranità, si veda il bel testo di P. Grossi,
L’ordine giuridico medievale, Laterza, Bari 1995, che è, per il suo contenuto e per
le indicazioni metodologiche iniziali, uno strumento assai utile per un lavoro stori-
co-concettuale, quale qui si cerca di proporre.
13 Cfr. Defensor pacis, XII, 3; trad. it. cit., p. 193.

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7. Considerazioni preliminari su democrazia e federalismo 227

tutti cittadini: la città è composta di parti e i cittadini partecipano


alla vita politica in relazione alle diverse realtà di cui fanno parte,
come pure del diverso rango (secundum gradum) che li caratterizza.
Allora l’identificazione del popolo come depositario dell’attività
legislatrice serve ad indicare la necessità dell’accordo, del consenso
e della partecipazione delle parti della città, che si esprimono attra-
verso quella pars valencior che rappresenta identitariamente la tota-
lità del popolo nelle sue diverse manifestazioni14. Il quadro che si
presenta ha ben altre implicazioni che l’assolutizzazione della vo-
lontà di un soggetto collettivo, il quale, in quanto totalità di tutti gli
individui, sarebbe l’unico legittimato ad esprimere il suo comando
come legge. Un tale concetto di potere del popolo appare qui im-
pensabile.
La differenza del contesto di pensiero di Marsilio da quello dei
concetti che nel moderno si usano in riferimento alla democrazia
non è in questa sede tanto richiamata ai fini della correttezza di un
lavoro storiografico, quanto piuttosto per una critica nei confronti
della universalizzazione dei concetti (che rischiano così di divenire
vaghe opinioni, perdendo determinazione e capacità di comprensio-
ne) con i quali si pensa la democrazia nel moderno e per il rileva-
mento degli elementi contraddittori che in tale universalizzazione si
manifestano.
Una posizione più accorta e interessante, in relazione
all’indicazione dei padri nobili della democrazia, è quella che si ri-
ferisce ad Althusius, ma solo in quanto essa è legata alla consape-
volezza che non si trova tanto, nel suo pensiero, la base della demo-
crazia moderna, quanto piuttosto un’altra democrazia, diversa da
quella che si forma a partire dai concetti moderni di Hobbes e di
Rousseau15. Prima di riprendere questo tema del rapporto tra il pro-

14 Tale rappresentanza è qualcosa di radicalmente diverso dalla rappresentanza


della democrazia moderna che ha la sua base nell’elezione come espressione di
volontà da parte di tutti gli individui (su ciò si veda oltre); non è qui possibile sof-
fermarsi sui grossi problemi relativi all’interpretazione di Marsilio: per il significa-
to della rappresentanza d’identità che caratterizza la parte che sta per un tutto cor-
porato, rimando a Hofmann, Repräsentation. Studien zur Wort- und Begriffsge-
schichte cit., sp. pp. 209 sgg.
15 Mi riferisco ad alcune riprese americane e soprattutto alla posizione di Th. Hü-
glin, che, in contrapposizione alla democrazia che nasce dai concetti omogenei,
unificanti e monopolizzanti dello Stato moderno, ravvisa nel federalismo di Althu-

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228 Giuseppe Duso – La logica del potere

blema o le intenzioni della democrazia e il federalismo, bisogna pe-


rò ricordare che, nonostante tutte le differenze sia di pensiero, sia
«costituzionali» – proprie queste ultime di una società organizzata
cetualmente – che caratterizzano il pensiero di Althusius in relazio-
ne a quello di Aristotele, ci troviamo ancora in un contesto di pen-
siero in cui quello del governo rimane il principio organizzatore
della sfera della vita pratica16. Ancora nella Politica di Althusius
del 1603, la pluralità caratterizzante la comunità politica, naturale in
quanto l’uomo è animale politico, la differenza tra gli uomini e tra i
membri della repubblica e il ruolo della virtù stanno alla base del
modo di intendere il governo non solo della comunità politica, della
repubblica o del regno, ma di ogni tipo di associazione. L’azione di
governo non esprime la volontà e l’azione di tutto il corpo politico,
ma è imputabile alla persona che governa, di fronte a cui stanno i
governati con possibilità di giudizio e di azione politica. Il governo
è necessario al coordinamento della vita dell’associazione, della re-
pubblica o del regno nella sua dimensione più ampia e autosuffi-
ciente; dunque è un’azione di unificazione delle differenze che ca-
ratterizzano i membri dell’associazione, ma non esprime un’unità
che dissolva la molteplicità dei membri. La necessità del governo
indica la necessaria relazione ad unum che è propria di una conce-
zione plurale del corpo politico, non esprime la volontà unitaria del
corpo politico di contro ai molti ridotti a sudditi. La totalità del cor-
po politico implica sia l’azione di governo, sia l’azione di coopera-
zione propria delle parti che formano la respublica o il regnum, do-
tate di una possibilità e capacità di espressione politica. L’unum co-
stituito dall’azione del governo (propria del sommo magistrato) è
necessario proprio perché c’è una pluralità di parti che si esprimono
politicamente e che devono essere, in quanto differenti, coordinate e
guidate. Il popolo, in questo contesto, è una realtà costituita da par-

sius un assetto del potere più consono all’idea democratica (si veda il volume So-
zietaler Föderalismus cit. e la mia discussione, Althusius e l’idea federalista cit.:
cfr. cap. IV, n. 31). Per il rapporto tra federalismo e problema della democrazia, si
veda la parte finale del presente capitolo.
16 Questa consapevolezza del principio di governo come principio organizzatore
delle discipline fino al mutamento radicale che si determina con la Herrschaft mo-
derna, è espressa con lucidità, come si è indicato, da Brunner, La ‘casa come com-
plesso’ cit., sp. pp. 144 sgg.

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7. Considerazioni preliminari su democrazia e federalismo 229

ti diverse, cioè da associazioni che si differenziano qualitativamente


tra loro e si esprimono nell’organo collegiale, che, al livello del re-
gno, è quello degli Efori. Per intendere il modo in cui Althusius si
riporta al tema della democrazia, è significativa la sua convinzione
che strumento per la partecipazione dei cittadini alla vita politica
sono gli organi collegiali, che si confrontano continuamente con
l’istanza di governo, e non un ipotetico governo democratico (cfr.
cap. III, §2).

7.4 La scienza politica moderna e il potere del popolo

Quando si ravvisa nella democrazia l’attribuzione del potere al po-


polo si implica, in modo più o meno cosciente, un quadro radical-
mente diverso da quello in cui si inserisce la democrazia come for-
ma di governo. Sia «popolo» che «potere» hanno un significato non
rintracciabile in quel pensiero della sfera pratica che si ispira al
principio del governo, che non è dominio, né è risolvibile nel rap-
porto di comando e ubbidienza, come abbiamo visto. La genesi di
tali concetti ci riporta ad un punto di rottura epistemologico, quello
della nascita della scienza politica moderna, alla cui base sta la du-
plice convinzione che non è più ravvisabile un ordine che si tratti di
riconoscere, e che il governo tra gli uomini è uno scandalo da eli-
minare. Nessuno ha qualità così diverse dagli altri uomini da poterli
e doverli guidare e governare. Di contro ad una realtà segnata dai
conflitti bisogna costruire un ordine sociale, che certo implicherà
l’uso della forza, ma non di una forza che sia segnata dalla differen-
za tra gli uomini, quanto piuttosto che sia prodotta dall’uguaglianza
e sia a questa funzionale: una forza che sia propria del corpo politi-
co nella sua totalità.
Si badi bene che la nascita di tale teoria, che ravvisa nell’ugua-
glianza tra gli uomini la nota fondamentale che elimina il governo,
avviene con Hobbes. Se la democrazia ha alla sua base l’idea
dell’uguaglianza degli uomini, e la necessaria espressione della loro
volontà per costruire la società e l’autorità indispensabile per il vi-
vere pacifico da una parte, e dall’altra quella del potere politico
come forza propria di tutto il corpo politico, Hobbes è allora un au-
tore senza di cui non si comprende la svolta radicale all’interno del-
la quale si costituisce il moderno concetto di democrazia. Possiamo

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230 Giuseppe Duso – La logica del potere

dire che tra Hobbes e Rousseau – i pensatori della sovranità moder-


na – si costruisce il tessuto concettuale che è inevitabilmente adope-
rato per pensare nel moderno la democrazia.
Innanzitutto è il concetto di popolo ad essere nuovo. Non si trat-
ta più di una realtà costituita di parti, che può essere oggetto della
nostra esperienza, ma piuttosto di ciò che si pensa razionalmente a
partire dal presupposto dell’esistenza di un’infinita molteplicità di
individui. Esso è allora frutto di una costruzione che ha negli indi-
vidui il suo punto logico di partenza: il contratto sociale appunto, in
cui il soggetto collettivo si forma sulla base della volontà di tutti gli
individui. Non può essere altrimenti se la società razionale e
l’ordine devono essere costruiti in modo razionale e giusto: il punto
di partenza non può contemplare realtà associative, visto che quelle
che sono esperibili sono segnate dal governo dell’uomo sull’uomo,
ma deve essere ravvisato in una situazione contrassegnata solo da
realtà individuali. Non essendoci più un cosmos da riconoscere,
perché l’esperienza ci mostra solo conflitti, ed essendo azzerate le
differenze tra gli uomini, quelle differenze che mediavano, nella
tradizione della filosofia pratica, la partecipazione alla vita politica,
unico elemento fondamentale diviene la volontà degli individui ri-
conosciuti uguali. Sulla base di questa volontà si costruisce il sog-
getto collettivo, il popolo, dotato di una forza e di una volontà a cui
tutti devono essere sottomessi per evitare appunto che alcuni possa-
no usare la loro forza privata per sottomettere gli altri.
Il popolo nasce contemporaneamente al potere. La forza neces-
saria ad evitare il conflitto, forza che tutti hanno costruito, non è di
qualcuno in particolare, ma appartiene al corpo politico nella sua
totalità: questo, si badi bene, non solo in Rousseau, ma anche in
Hobbes17, nel quale l’esito del contratto è un soggetto unitario, la
persona civile, a cui bisogna dare un volto e una voce. Attraverso
questo volto e questa voce è il popolo che parla, e dunque indiret-
tamente è a lui che ci si sottomette. Il problema d’ora in poi non è
più quello di un bene comune da ricercare, di una meta verso cui
dirigersi, ma piuttosto quello dell’espressione della volontà politica

17 Una lettura contestuale dei due autori si ha nei saggi di A. Biral contenuti in Il
contratto sociale cit.(ora anche in Biral, Storia e critica della filosofia politica mo-
derna, cit.).

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7. Considerazioni preliminari su democrazia e federalismo 231

dell’unico soggetto legittimo, il popolo, e di quelle volontà indivi-


duali che da una parte stanno alla base della legittimazione del sog-
getto collettivo, e dall’altra si devono trovare in uno stato di con-
trollata libertà per la ricerca del bene personale. Il modo moderno di
intendere la democrazia ha alla base questa assolutizzazione della
volontà, anche se non è diffusa la coscienza critica dello scarto che
si viene a determinare necessariamente tra la politicità del soggetto
collettivo e l’ambito privato della libertà in cui i singoli esprimono
la loro volontà.
La differenza tra democrazia diretta e democrazia rappresenta-
tiva non fornisce categorie utili a far intendere la distinzione tra il
mondo antico e quello moderno, ma porta piuttosto a fraintenderla:
tale distinzione infatti si colloca tutta in questo nuovo contesto di
pensiero. Nei Greci il problema riguardava l’agire dei cittadini (po-
chi: gli uomini maturi e liberi), inteso immediatamente come l’agire
della polis, ma questo agire era pensato all’interno della problema-
tica del governo e non immaginava l’espressione di volontà di un
soggetto collettivo. È invece nel contesto dell’assolutizzazione della
volontà, in cui i nuovi concetti di popolo e potere nascono congiun-
tamente, che si pone il problema di un agire diretto e immediato del
soggetto collettivo, oppure di un suo agire attraverso persone che lo
rappresentano. Proprio in questo punto sta la differenza tra Hobbes
e Rousseau: tra due modi di rispondere alla questione
dell’espressione di volontà del popolo.
Quando ci si riferisce alla democrazia, specie nella sua ipotizza-
ta dimensione di democrazia diretta, quale concetto limite, punto di
approssimazione, si tende a concepire i singoli come sovrani; ma
ciò è assai lontano dal concetto della sovranità del popolo. Non so-
no certo i singoli ad essere sovrani in questa nuova costruzione teo-
rica, ma il corpo collettivo, un soggetto cioè unico. Il problema di
Rousseau non è quello dell’azione politica dei singoli, ma quello
della sovranità moderna. Anche se c’è una tendenza a coinvolgere i
singoli in una espressione collettiva, quest’ultima è sempre unitaria
e non cancella quel dualismo che il singolo sente in se stesso quan-
do la voce del suo interesse privato si oppone a quella volontà gene-
rale che non può che essere la sua vera volontà. Si può dire che il
popolo di Rousseau, nel suo carattere unitario, è divenuto il sogget-

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232 Giuseppe Duso – La logica del potere

to perfetto della politica, l’unico ad essere legittimato per l’azione


pubblica e per l’uso della forza: niente ha accanto a sé e sopra di sé.
Che nel moderno il problema non sia più costituito dalla demo-
crazia come forma del governo, ma piuttosto dalla volontà sovrana
del popolo, e dunque dal suo potere, lo si può verificare se si fa at-
tenzione all’atteggiamento che hanno nei confronti della democra-
zia due autori quali Rousseau e Kant, che solitamente sono intesi
come padri nobili della democrazia moderna nella forma della de-
mocrazia diretta del popolo o della democrazia rappresentativa. In
ambedue i casi ci si trova di fronte ad una critica radicale della de-
mocrazia, qualora sia intesa come forma di governo: non solo è
scomparsa la dimensione che emergeva con l’antico concetto di go-
verno, ma l’idea di un’azione di governo propria di un soggetto
composto dalla totalità degli individui risulta impensabile18.

7.5 Le costituzioni moderne e la morsa dell’unità politica

Ambedue le soluzioni che si contrappongono nell’ambito del pen-


siero giusnaturalista manifestano un’aporia fondamentale. Nella so-
luzione rappresentativa di Hobbes infatti l’emergere della dimen-
sione del soggetto collettivo è possibile solo grazie alla prestazione
dell’attore politico : il popolo dunque, nello stesso momento in cui
si forma, scompare come realtà collettiva effettivamente presente e
la sua espressione equivale alla negazione della politicità dell’agire
dei singoli individui. In quella rousseauiana, di contro,
l’affermazione della diretta espressione della volontà del popolo si
scontra con l’impossibilità di pensare l’azione unitaria di un corpo
costituito da un’infinita molteplicità, difficoltà che si rivela nella
necessità di ricorrere all’azione di una persona, il grande legislato-
re, proprio nel momento di massima espressione della sovranità del
popolo. Come può infatti un soggetto non costituito, che non ha una
forma, produrre qualcosa di reale, dare costituzione e forma? È
sempre necessario che qualcuno gli permetta di essere presente me-
diante la logica rappresentativa, anche quando ad esprimere la vo-
lontà sia una persona che non ha di per sé il potere, o non è autoriz-
zata ad agire pubblicamente.

18 Cfr. I §§ 5 e 6 del cap. III.

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7. Considerazioni preliminari su democrazia e federalismo 233

Le due istanze opposte ricadono tuttavia entrambe nella proble-


matica costituzionale, che implica un corpo rappresentativo per po-
ter avere una forma e compiere azioni determinate e, nello stesso
tempo, un soggetto che possa legittimamente essere fonte della co-
stituzione; tale soggetto altri non può essere che il popolo, come to-
talità di tutti gli individui. Nell’azzeramento di quel mondo che era
implicato dalla concezione del governo solo la volontà è fondante, e
più precisamente la volontà del corpo politico da tutti composto.
Questo è l’unico modo per far contare la volontà di tutti. Tuttavia la
forza della logica rappresentativa, legata all’ineliminabile dualismo
costituito dalla unità della volontà da esprimere e dalla molteplicità
delle reali volontà individuali, si manifesta nella necessità espressa
da Sieyes e ricordata da Schmitt, di pensare a modalità rappresenta-
tive di espressione del potere costituente del popolo quale
l’Assemblea costituente19.
La consapevolezza dello scarto che la logica rappresentativa
crea nei confronti della possibilità di manifestazione di volontà po-
litica determinata da parte dei cittadini porta al tentativo di superare
la mediazione rappresentativa attraverso il ricorso a strumenti di più
diretta manifestazione della volontà popolare, quali il plebiscito e il
referendum. Ciò può avvenire sia in relazione alla ratifica dei risul-
tati di un’assemblea costituente, sia nell’ambito della normale atti-
vità legislativa in relazione a temi in cui le differenziazioni tra i par-
titi, che organizzano negli Stati contemporanei la rappresentanza
politica, non sembrano risolutive per le scelte da prendere. Si inne-
sca in tal modo una dialettica tra l’espressione della volontà del po-
polo che emerge mediante gli organi rappresentativi, e una sua ma-
nifestazione più diretta e immediata. È attraverso gli strumenti di
consultazione ora ricordati che sembra potersi raggiungere una di-
mensione autentica e reale del popolo, al di là di un suo tradimento
sempre possibile da parte del corpo rappresentativo. Nemmeno qui,
tuttavia, si ha una concreta presenza diretta e immediata del popolo.
Anche nel plebiscito o nel referendum infatti non si può parlare del
«popolo» in relazione alla molteplicità delle persone dei cittadini
che votano: non è questo il popolo, ma piuttosto è quello che si può
identificare nella volontà maggioritaria che risulta dal conteggio

19 Cfr. C. Schmitt, Dottrina della costituzione cit., pp. 108 sgg.

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234 Giuseppe Duso – La logica del potere

delle risposte ad una domanda che non è il popolo a porre. Il cosid-


detto popolo è allora il risultato di un processo che vede
l’espressione di volontà da parte di milioni di persone, le quali si
riconoscono in una domanda ad esse rivolta, o creano in ogni caso
una maggioranza mediante una scelta affermativa o negativa. Tale
risultato non è possibile se ognuno esprimesse una sua propria vo-
lontà o un suo peculiare punto di vista, poiché le volontà possono
essere assai diverse; esso è possibile – e dunque il popolo è, si ma-
nifesta – solo se qualcuno, mediante la domanda, ne mette in forma
la volontà, permettendo che l’infinita molteplicità si trasformi in
un’unica volontà. Anche qui si ha un’espressione unitaria, come
avviene per la rappresentanza istituzionale, che decide la legge, la
volontà che diviene comando per tutti valido20.
Alla base di queste difficoltà sta la logica dell’unità politica, che
permea la concettualità sottesa al modo moderno di intendere la
democrazia. All’unità politica bisogna per altro necessariamente
approdare, se il punto di partenza della costruzione razionale della
società sta nel concetto di individuo e nella sua volontà. Non è più
pensabile, in questo contesto, una convivenza di parti diverse, tra le
quali le differenze siano determinabili. Le diversità di un numero
indefinito di individui si annullano nella volontà di questi ultimi di
costituire un’unica persona civile, che esprima un’unica volontà po-
litica: la legge, comando per tutti valido. L’unità caratterizza
l’unico potere che si esprime nella sovranità moderna, così come la
rappresentanza, che riguarda tutto il popolo, tutta la nazione. Anche
il popolo come grandezza costituente ha il carattere dell’unità: non
è più riportabile a una pluralità di parti e di gruppi che si accordano,
ma è un unico soggetto, con una propria volontà diversa da quella
dei singoli.
Paradossalmente, anche il rapporto di maggioranza e minoranza
non è segno del pluralismo, ma prodotto dell’idea di unità politica,
o dell’unità propria della forma politica. Anch’essa infatti è chiara-

20 Sugli aspetti di rappresentatività necessari al plebiscito e al referendum cfr. H.


Dreier, Il principio di democrazia della costituzione tedesca, in Democrazia, dirit-
ti, costituzione, a cura di G. Gozzi, Il Mulino, Bologna 1997, p. 28 (che rimanda a
H. Hofmann – H. Dreier, Repräsentation, Mehrheitsprinzip und Minderheiten-
schutz, in H. P. Schneider – W. Zeh (hrsg.), Parlamentsrecht und Parlamentspra-
xis, de Gruyter, Berlin – New York 1989 § 5, nr. 17, pp. 172-173).

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7. Considerazioni preliminari su democrazia e federalismo 235

mente espressa nel XVI capitolo del Leviatano, quando si pensa al


modo di esprimere la volontà di un’assemblea, che, naturalmente,
deve essere costituita da un numero dispari di membri. Essendo lo
Stato una persona, non può che esprimere una volontà, cioè una
legge, che vale per tutti, maggioranza e minoranza. La dialettica
democratica non consiste nell’attribuzione alla minoranza di una
diversa espressione di volontà pubblica, cioè nell’accettazione di
una pluralità di soggetti politici, ma piuttosto nella garanzia dello
spazio che può permettere alla minoranza di diventare, pacifica-
mente sulla base del voto, maggioranza. Non abbiamo soggetti poli-
tici diversi, ma un unico soggetto, che può, di volta in volta in mo-
do diverso, esprimere la sua volontà.
L’espressione di volontà di tutti i cittadini, che sta alla base della
rappresentanza, non riguarda poi – come spesso si tende a pensare,
riferendosi di fatto alla rappresentanza feudale piuttosto che a quel-
la moderna, fondata sul mandato libero – contenuti particolari che
devono essere rappresentati: l’elezione consiste piuttosto in un atto
di autorizzazione rivolto alle persone che contribuiranno,
nell’assemblea legislativa, a formare quell’unica volontà, costituita
dalla maggioranza delle volontà, che sarà intesa come la volontà del
popolo, e dunque la legge.
Si può obiettare che questo è un quadro solo formale, che viene
a cadere nello stesso momento in cui si è consapevoli dei contenuti
determinati e sempre particolari che riempiono lo spazio formale
della legge e l’azione del governo. Ma nell’assunto limitato di que-
sta riflessione – che riguarda la nascita e la logica di quei concetti
che sono ancora usati per parlare la politica e la democrazia – tutto
ciò appare rilevante, in quanto costituisce il quadro legittimante che
fonda l’obbligazione politica anche nelle moderne costituzioni.
Senza volere e potere qui seguire i complessi processi delle demo-
crazie moderne, si può riscontrare che anche nel periodo segnato
dall’esperienza della repubblica di Weimar, in cui la concezione
classica dello Stato sembra andare irrimediabilmente in crisi, in
quanto lo Stato non è più espressione di un potere di tutto il corpo
politico, superiore alle parti sociali, ma diventa insieme un luogo di
contrattazione e un polo della stessa, tuttavia ancora la rappresen-
tanza appare come rappresentanza di tutto il popolo e costituisce

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236 Giuseppe Duso – La logica del potere

insieme il modo dell’esercizio del potere e il fondamento (radican-


dosi sul voto popolare) della sua legittimità.
Anche la figura del moderno partito di massa non rompe questo
quadro nella direzione di una configurazione pluralistica della so-
cietà. I partiti politici sono piuttosto l’espressione prima di questo
modo unitario di intendere la politica, il popolo e il potere. Essi non
sono infatti soggetti politici che si riconoscono nella loro esistenza
e differenza, ma sono funzionali all’organizzazione del consenso
dei cittadini che si esprime mediante il voto, con il quale si scelgo-
no i rappresentanti a cui viene riconosciuto il compito classico di
formazione della volontà del soggetto politico unitario, cioè la leg-
ge. Come già ha mostrato Weber, questa rappresentanza classica,
che formalmente permane, perde la sua funzione originaria, in
quanto il rappresentante in parlamento non decide la volontà comu-
ne, ma è piuttosto controllato dai partiti e funzionale a decisioni
prese in altro contesto da quello parlamentare.
I partiti non costituiscono dunque parti della società intese come
soggetti politici, che permangono tali al di là del risultato del gioco
di volontà in cui consiste l’azione pubblica e la sua legittimazione
nel voto dei cittadini. Non sono cioè basati su differenze qualitative
e strutturali, su ciò che gli uomini sono concretamente, ma riguar-
dano piuttosto differenze ideologiche, concezioni globali della so-
cietà, e tendono a conquistare l’opinione pubblica per determinare
la volontà generale e l’esercizio dell’unico potere. Il fatto che i pro-
grammi dei partiti tendano sempre più a identificarsi e ad essere tra
loro intercambiabili, e che i settori della società a cui si rivolgono
siano tendenzialmente tutti o quasi tutti, non sono che segni esterio-
ri di tale vocazione all’unità e alla conquista del potere unitario e
centrale dello Stato21.
Nonostante, dunque, nella riflessione costituzionale sia stato
possibile intendere i partiti come una forma di autorganizzazione
dei cittadini, quasi una presenza del popolo nella sua identità, al di
là della mediazione rappresentativa22, in realtà i partiti, che negli

21 Cfr. il § 6 del cap. V.


22 Mi riferisco al pensiero di Leibholz, che in un lungo itinerario che parte dagli
anni Venti-Trenta, pensa in contrapposizione la rappresentanza moderna e i partiti
delle moderne democrazia di massa, i quali sono intesi, inizialmente, come modi di

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7. Considerazioni preliminari su democrazia e federalismo 237

Stati delle «moderne democrazia di massa» hanno bisogno di un


apparato burocratico e di mezzi sempre più potenti per indirizzare
l’opinione pubblica, procurare consenso e favorire i candidati alle
lezioni, hanno accentuato la distanza dei cittadini dalla politica. Ma
ciò che più conta nel ragionamento presente è il loro legame con
una logica unitaria e centralizzata dello Stato.

7.6 L’eccedenza del potere costituente

Le contraddizioni sopra indicate in relazione alla dimensione costi-


tuente del popolo riguardano sempre l’aspetto formale della que-
stione e dunque un modo di pensare il potere costituente all’interno
del quadro della forma politica, e in questo senso dunque, della co-
stituzione. Bisogna tuttavia ritornare a riflettere sul potere costi-
tuente, in quanto esso indica una via per pensare la democrazia che
va oltre l’effetto riduttivo della concettualità fino a qui esaminata.
Nell’aporia del potere costituente che abbiamo sopra segnalata
(«come può un essere non formato formare?») si nasconde una sol-
lecitazione più fortemente dirompente in relazione alla forma poli-
tica moderna. Il potere costituente appare implicato dal concetto di
costituzione, modernamente intesa come forma, e d’altra parte ri-
sulta impossibile da parte di quest’ultima pensarlo fino in fondo. La
capacità fagocitante del principio rappresentativo nei confronti del
potere costituente23 riguarda un quadro formale di espressione della
volontà e dipende dall’astrazione con cui è concepito il soggetto co-
stituente, cioè il popolo in quanto totalità degli individui.
In realtà il concetto di potere costituente, necessario per la costi-
tuzione, ma irriducibile ad essa, è lo spiraglio per intendere una esi-
genza innegabile per il costituirsi stesso della forma politica, che

espressione di una democrazia diretta (cfr. Leibholz, La rappresentanza nella de-


mocrazia cit., p. 171 sgg.).
23 Si veda la parte riguardante il potere costituente – che è segnata dal problema
della democrazia – nella Dottrina della costituzione di Carl Schmitt. Una portata
più ampia della rappresentazione emerge tuttavia se si pensa ad essa in maniera
esistenziale, come capacità di mettere in forma una volontà comune e un agire di
gruppi e masse (si veda ad esempio la funzione degli efori naturali nella riflessione
di Fichte che tende aporeticamente, nel quadro del diritto naturale, a tenere aperta
la possibilità o la necessità della rivoluzione: cfr. G. Duso, Libertà e Stato in Fi-
chte: la teoria del contratto sociale cit., pp. 299-300.

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238 Giuseppe Duso – La logica del potere

tuttavia la stessa forma tende necessariamente ad escludere dalla


propria ottica. Si tratta dell’eccedenza della produzione della forma
nei confronti della forma, o, in altri termini, dell’eccedenza del poli-
tico nei confronti della sua pensabilità da un punto di vista giuridi-
co24. Se la prestazione della scienza politica moderna consiste nel
pensare il politico come forma, come Stato, tuttavia tale prestazione
è possibile solo in quanto al cuore della forma emerge un elemento
formante, il potere costituente appunto, che, per la sua stessa natura
di soggetto produttivo di forma, non può essere inteso in modo
formale, e dunque sfugge sempre ai tentativi di catturarlo da parte
di un pensiero costituzionale e giuridico.
Tale aporia interna alla forma politica apre una strada ulteriore
per pensare alla democrazia. Con tale termine infatti si vuole inten-
dere la capacità soggettiva del popolo di creare le strutture per il
suo ordine. Dal momento che, nell’ambito della costituzione, il po-
polo si esprime mediante i suoi rappresentanti, la soggettività del
popolo non può che apparire nella capacità di porre e modificare
l’assetto costituzionale, nel suo essere potere costituente25. Al di là
dell’aporia formale e dell’astrattezza del concetto di popolo, si è pur
data nella storia una concreta azione, non tanto da parte di un sog-
getto coincidente con la totalità degli individui, ma di una serie rea-
le di forze, di uomini, di gruppi e di masse nell’opera di determina-
zione e di modificazione dei rapporti che si danno nella costituzio-
ne. Democrazia, intesa come coincidente con il problema del potere
costituente, indicherebbe tale concreto agire degli uomini che si e-
sprime nella capacità effettiva di modificare assetti sociali e di pote-
re esistenti e di determinare nuove strutturazioni sociali e politiche.
In tali movimenti si può ravvisare un venire alla luce della soggetti-
vità politica di masse estese di uomini che si trovavano nell’ordine
precedente bloccati in un’ineguale situazione di passività:
nell’azione costituente essi agiscono politicamente e lo fanno di
concerto. In questa direzione quella democratica è un’istanza politi-
ca irriducibile ad ogni sua sistemazione formale e giuridica.

24 Per la problematica del potere costituente tra politico e giuridico, si veda M.


Fioravanti, Potere costituente e diritto pubblico, in Stato e costituzione cit., pp.
217-235 e M. Dogliani, Potere costituente, Giappichelli, Torino 1986.
25 Per questa identità del problema della democrazia con quello del potere costi-
tuente, cfr. A. Negri, Il potere costituente, SugarCo, Carnago 1992.

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7. Considerazioni preliminari su democrazia e federalismo 239

Non è difficile ravvisare la relazione tra questo significato di


democrazia e quello di rivoluzione26, non tanto per l’immagine di
azione violenta che il termine evoca, ma per quello della capacità,
che sembra avvenire nei momenti rivoluzionari, di appropriarsi da
parte degli uomini dell’agire e di determinare le condizioni del pro-
prio vivere27. Non si può non ricordare che il problema del potere
costituente è al centro di quel processo rivoluzionario da cui nasce
la costituzione francese. Ci si può, a questo proposito, riferire al
modo in cui pensa la rivoluzione Hannah Arendt, nella direzione
appunto dell’idea di libertà intesa come capacità di iniziare l’azione
(secondo l’etimo del termine greco archein), del dare origine al
nuovo e della prassi politica concreta degli uomini, di contro
all’espropriazione che comporta il principio moderno della rappre-
sentanza politica e il radicarsi dell’agire politico nella realtà della
divisione del lavoro28.
Tutto ciò può aprire uno spazio di analisi sulla democrazia, sia al
livello del pensiero che ha avuto la capacità di pensare tale concreto
agire degli uomini al di là dei concetti formali e legittimanti della
scienza politica, sia al livello dell’analisi dei movimenti di demo-
cratizzazione e di liberazione, in cui masse sempre più estese di
uomini hanno avuto la capacità di agire per liberarsi dalla sottomis-
sione a realtà cristallizzate e prima solo subite. Questa può essere
una via di approccio al tema della democrazia successivo alle av-
vertenze solo preliminari che rappresentano la finalità della presen-
te riflessione. Bisogna tuttavia avere la consapevolezza dello scarto
esistente tra l’agire concreto di gruppi umani e i concetti astratti e
26 Sul carattere rivoluzionario del potere costituente, si veda E.-W. Böckenförde,
Die verfassungsgebende Gewalt des Volkes – Ein Grenzbegriff des Verfassungs-
recht, in Staat, Verfassung, Demokratie, Suhrkamp. Frankfurt am Main 1991, sp.
pp. 94 sgg..
27 Questo della riappropriazione dell’agire è il significato che Hegel sottolinea
della rivoluzione francese nel periodo giovanile, in cui lega la libertà come Selb-
ständigkeit all’espressione dell’azione in comune (Selbsttätigkeit): cfr. G. Duso,
Freiheit, politisches Handeln und Repräsentation beim jungen Hegel, in Rousseau,
die Revolution und der junge Hegel, Veröffentlichungen der Internationalen Hegel-
Vereinigung, hrsg. H. F. Fulda u. P. Horstmann, Klett-Cotta, Stuttgart 1991, pp.
242-279.
28 Cfr. H. Arendt, On Revolution, Wiking Press, New York 1963, trad. it. di M.
Magrini, Sulla rivoluzione, Edizioni di Comunità, Milano 1983, e Che cos’è la li-
bertà in trad. it. Tra passato e futuro, tr. it. Vallecchi, Firenze, 1970, p. 157-187.

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240 Giuseppe Duso – La logica del potere

legittimanti che sono usati nell’ambito di questo stesso agire. Non è


cioè quel popolo a cui ci si riferisce – e che è stato prodotto dalla
teoria politica – ad essere reale soggetto dell’agire politico; né sono
le parole usate come bandiere che ci fanno intendere il reale signifi-
cato e il risultato dell’azione.
È opportuno soffermarsi su alcuni problemi che sono interni a
quanto finora detto, per aprire la strada ad una seconda via di anali-
si29. La stessa indicazione che viene dalla Arendt ci pone la que-
stione relativa alla difficoltà di rintracciare nella forma fondata dal-
la rivoluzione quella stessa soggettività che si esprime nel momento
rivoluzionario; e tuttavia bisogna ricordare che è pur sempre nella
direzione della produzione di costituzione che il movimento rivolu-
zionario si dirige. È allora da chiedersi se lo stesso riconoscimento
dell’eccedenza del potere costituente non porti tanto
all’attingimento di qualcosa che connota in modo originario l’agire
dell’uomo, ma costituisca ancora un modo di vedere che è connota-
to dal punto di vista e dai limiti della teoria moderna della società e
del potere.
Un primo problema si può ravvisare a proposito del rapporto po-
tere costituente-costituzione. Si è detto che è la costituzione ad im-
plicare un potere costituente che essa non riesce a pensare. In altro
modo si può dire che è il processo rivoluzionario a portare alla co-
stituzione implicando la nozione di un soggetto superiore alla stessa
costituzione e tale da poterla produrre; d’altra parte la costituzione,
finalmente giusta e legittima, proprio in quanto tale, per la sua stes-
sa struttura e per la forza del principio rappresentativo, è riluttante a
prevedere in sé lo spazio per la rivoluzione. Lo stesso potere costi-
tuente, da parte sua, pur mostrandosi nel suo momento rivoluziona-
rio, sembra dissolversi nell’opera di produzione della forma costitu-
zionale: la rivoluzione francese medesima va nella direzione della
costituzione di forma. Perciò facilmente la Arendt può riscontrare
in tale forma tradita e persa quella concreta prassi politica che si
dava nel momento della rivoluzione. La difficoltà consiste cioè nel

29 La seconda via, quella del federalismo, si può per altro intrecciare con quella
qui proposta come compito, nel momento in cui si riconosce l’agire di gruppi de-
terminati di uomini, e dunque si supera l’ottica della concettualità moderna schiac-
ciata tra individualismo e unità, tra particolare e universale.

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7. Considerazioni preliminari su democrazia e federalismo 241

rapporto che si porrebbe tra potere costituente nel senso concreto ed


esistenziale del termine e l’ordine costituzionale, sia pure questo
inteso in un senso più concreto e non riducibile alla costituzione
formale, quale si può ravvisare in espressioni come quella di «costi-
tuzione materiale» di Mortati o quella di Verfassung come insieme
di elementi sociali e politici, di Schmitt e della Verfassungsgeschi-
chte. L’assolutezza che caratterizza il soggetto costituente appare
riluttante al pensiero di qualsiasi configurazione dell’ordine sociale
(si pensi allo stesso sovrano di Rousseau), implicando così l’aporia
di una realtà costantemente non costituita. Se si intende la democra-
zia come l’istanza eccedente continuamente la costituzione, il pro-
blema concettuale che si pone è quello di comprendere in modo non
reciprocamente escludente i due termini che si implicano vicende-
volmente.
Una più forte difficoltà mi pare sia insita nel segno di unità che
il potere costituente porta con sé. Proprio in quanto è costituente e
non si risolve in un multiforme e caotico movimento, un tale potere
non può esprimersi che in modo unitario, ripresentando i problemi
propri, da questo punto di vista, del prodotto della scienza politica
moderna, all’interno della quale, ricordiamolo, tale concetto di po-
tere costituente viene in luce. In questo senso il potere costituente
porta in sé il disegno di totale immanenza che si può riscontrare
nella posizione di Rousseau, in cui sta il compimento del tentativo
di secolarizzazione moderno: non è infatti nel sovrano rappresen-
tante di Hobbes e dunque nella figura della rappresentazione che si
può leggere una posizione di totale immanenza, ma nell’attualità
dell’agire del sovrano, eccedente ogni sua costituzionalizzazione. In
questa immanenza si perde il problema originario della giustizia e
del bene, come viene in luce con evidenza non appena si ponga la
domanda su chi agisca, e come agisca: il bene viene fatto coincidere
con la stessa manifestazione della volontà del soggetto agente, e
con l’azione di colui o coloro che di volta in volta permettono a for-
ze diverse (non a quelle di tutti gli uomini) di avere un esito unita-
rio, costituente appunto. Tale immanenza è segnata dalla categoria
dell’unità: il tentativo di rintracciare la differenza concreta tra gli
uomini viene vanificato dalla morsa che si determina tra l’idea di
un’infinità di «singolarità libere e creative» e un potere costituente

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o una moltitudine declinati sempre al singolare30. Tutto ciò rischia


di rimanere ancora nell’ottica di un concetto di libertà quale mera
indipendenza della volontà e della razionalità legittimante il potere
propria della scienza politica moderna.
Si può tuttavia pensare ai concreti movimenti di presa di co-
scienza e di liberazione da parte di gruppi e soggetti diversi al di là
dell’assoluta creatività propria della nozione di potere costituente e
nella direzione della comprensione delle differenze, che non si dan-
no tanto nella figura dell’infinita molteplicità degli individui (come
evidenzia il rapporto tra molteplicità degli individui e unità, tipico
della scienza politica moderna), ma in quella delle concrete forme
di raggruppamento tra gli uomini. A questo fine può essere utile ri-
flettere su modi di pensare la politica e i rapporti tra gli uomini che
relativizzano la costruzione della forma politica moderna, non nella
direzione di un’immediata attualizzazione di tale modalità di pen-
siero, ma piuttosto in quella della problematizzazione dei concetti
moderni, al fine di ripensare a ciò che con il termine di democrazia
si è voluto indicare.

7.7 Federalismo come «altro» modo di intendere la politica

I concetti di popolo, di sovranità, di rappresentanza e di potere co-


stituente sono così segnati dalla logica dell’unità da risultare intrin-
secamente inadatti ad esprimere quelle istanze di pluralismo, di ri-
conoscimento delle differenze e delle minoranze, di coinvolgimento
di tutti nella vita politica, che si vogliono anche esprimere con il
termine di democrazia, ma che risultano non compatibili con i con-
cetti fino a qui considerati. Per dare senso reale e costituzionale a
queste istanze di partecipazione31 e pluralismo sembra allora neces-

30 Cfr. ancora Negri, Il potere costituente cit., sp. p. 378.


31 Anche il tema della partecipazione non appare consono al senso della politica
che si esprime mediante i concetti moderni. La difficoltà è strutturale e non dipen-
de semplicemente dalla vischiosità e dalla globalità di processi nei quali i singoli
difficilmente si possono inserire avvertendo il peso e il valore della loro partecipa-
zione. Infatti, mediante il voto che determina la rappresentanza, da una parte si in-
veste il rappresentante dell’autorità di esprimere la volontà del popolo al posto
dell’elettore – mostrando in tal modo che la rappresentanza ha sempre la sua legit-
timazione dal basso, ma, in quanto ai contenuti della volontà, proviene dall’alto,
poiché la volontà del popolo non è formata prima dell’espressione del corpo rap-

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7. Considerazioni preliminari su democrazia e federalismo 243

sario ripensare all’assetto delle costituzioni moderne che su quei


concetti, nati nell’ambito del diritto naturale, fondano ancora la loro
legittimità. Viene allora spontaneo volgere lo sguardo a un contesto
di pensiero, quello federalistico, che era strutturalmente espressione
di problemi come quelli testé nominati. Tale mossa non intende qui
prendere posizione nei confronti di proposte politiche riguardanti la
nostra attualità, ma ha il suo significato all’interno di un tentativo di
comprensione storico-concettuale.
Pensare il federalismo è tanto più utile quanto più si ha la consa-
pevolezza che si è dato un pensiero del federalismo non tanto come
federazione di Stati, o Stato federale, ma come un modo di pensare
la politica radicalmente altro da quello proprio dei concetti che
stanno alla base della dottrina dello stato moderno32, e determinato-
si prima che dello Stato nel senso concettuale del termine si potesse
propriamente parlare. Mi riferisco in particolare al contesto althu-
siano sopra indicato, nel quale sono rintracciabili le parole chiave
del contrattualismo moderno, ma tutte con un significato assai di-
verso da quello che hanno nel moderno giusnaturalismo. È lo stesso
concetto di foedus, fin dall’inizio, ad avere una funzione diversa, in
quanto non serve a produrre qualcosa di nuovo, il potere del corpo
comune, ma piuttosto sottolinea la pluralità dei soggetti che entrano
mediante il patto in una dimensione comune, dimensione che non
dipende dalla loro sola volontà, ma deve rispettare un ordine delle
cose33. Tali soggetti non si annullano in una volontà comune pro-
pria della repubblica che è da essi costituita, ma agiscono conti-
nuamente in essa con le differenze che li caratterizzano.
Non è possibile qui delineare il quadro di pensiero di tale federa-
lismo, che si muove all’interno del principio del governo sopra in-

presentativo –, ma dall’altra si intende affermare che il potere è non del rappresen-


tante, ma di tutto il popolo: il potere è di tutti e non si può allora partecipare a ciò
che già si possiede.
32 È utile la consapevolezza della radicale alterità tra federalismo e forma dello
Stato che è espressa da B. Clavero, Diritto debole. Un manifesto moderatamente
federale, «Filosofia politica», 1994, n. 1, pp. 3-23; per la discussione di questo
saggio rimando al mio intervento contenuto nello stesso numero della rivista (pp.
50-57).
33 Si pensi alla presenza e alla funzione in Althusius e nei monarcomachi calvini-
sti del patto con Dio accanto a e solidale con il patto civile (rimando per
l’articolazione di questo punto al mio: Una prima esposizione del pensiero politico
di Althusius cit.).

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244 Giuseppe Duso – La logica del potere

dicato. Si può solo ricordare che in esso la società è intesa come un


complesso rapporto di associazioni e gruppi di uomini, i quali sono
– essi e non i singoli individui – i veri membri della collettività. Gli
individui partecipano all’azione politica, ma a seconda del loro sta-
tus e della concreta realtà delle cerchie in cui sono quello che sono.
Si determina allora un pensiero in cui il popolo non è inteso come la
totalità di tutti gli individui uguali: non è cioè, in quanto tale, una
idea costituente, ma piuttosto indica una realtà costituita delle parti
che la compongono. Queste parti hanno valenza politica e non
scompaiono nella determinazione di una volontà del tutto, ma con-
tribuiscono alla vita della società politica, che coincide con
l’insieme di quelle parti. Ciò avviene per il fatto che non è
l’individuo, con l’uguaglianza e la serialità che è propria del concet-
to, ad avere un ruolo fondante, e perciò il risultato della teoria non è
la sovranità, il potere politico, con l’unità e l’assolutezza che la ca-
ratterizzano34. Siamo ancora con Althusius all’interno di un pensie-
ro politico in cui la naturalità dell’essere politico dell’uomo va in-
sieme al principio del governo proprio di ogni essere composto di
parti differenti.
In tale pensiero, come si è detto, di fronte all’azione di governo
sta la partecipazione e il controllo dei governati attraverso le asso-
ciazioni che costituiscono il popolo. Anche qui abbiamo una nozio-
ne di rappresentanza, ma diversa da quella hobbesiana e da quella
che si instaura nelle costituzioni a partire dalla Rivoluzione france-
se: è una rappresentanza di istanze, bisogni, diritti e modi di parte-
cipazione diversi; insomma, di parti e non di un popolo unitario.
Perciò la rappresentanza si riferisce a volontà determinate, oggetti-
ve, e non è il modo di produzione della volontà del popolo come
totalità. La respublica è allora un insieme plurale di soggetti che
danno luogo alla cooperazione federale, e che non possono, dunque,
proprio in quanto soggetti del patto e della conseguente collabora-
zione, essere annullati da un’unica volontà maggioritaria. È da sot-
tolineare che in un tale federalismo, il foedus è segno insieme della

34 Per il chiarimento di ciò si veda Una prima esposizione cit., dove si cerca di
mostrare che ben altro è il senso della majestas del popolo di cui parla Althusius;
cfr. anche, per il dibattito sul federalismo di Althusius, Duso, Krawietz, Wyduckel
(Hrsg.), Konsoziation und Konsens. Grundlage des modernen Föderalismus in der
politischen Theorie cit..

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7. Considerazioni preliminari su democrazia e federalismo 245

pluralità dei soggetti e del loro stare insieme, della solidarietà che li
lega. Non si tratta qui della riduzione all’unità propria della forma
politica moderna, con la forza di coazione che la connota, ma piut-
tosto di un lavoro per una vita in comune e per la ricerca di un con-
senso che può anche correre il rischio dell’insuccesso.
In questo contesto la partecipazione ha un significato effettivo, e
si riferisce al fatto che ci sono parti con differenze qualitative,
all’interno delle quali i cittadini realmente vivono e operano. Essi
contano allora, tutti, con uguale dignità, ma la loro partecipazione è
legata alle differenze che caratterizzano le diverse forme associative
e non si manifesta in quella uguaglianza che si esprime nel voto, in
cui i contenuti particolari della volontà vengono azzerati. Ciò può
essere considerato come un limite all’espressione della dimensione
politica dei cittadini solo se non ci si rende conto dell’effetto di pri-
vazione di tale dimensione che è conseguente all’intreccio dei con-
cetti di uguaglianza, di sovranità del popolo e di rappresentanza e
alla loro ricaduta costituzionale. Nelle costituzioni odierne il rag-
giungimento del piano dell’uguaglianza, nel determinare
l’autorizzazione dei rappresentanti, si accompagna alla limitata ef-
ficacia di ogni voto e all’incapacità strutturale del voto di determi-
nare i contenuti della volontà pubblica che a partire da esso si deve
determinare. In ciò si può ravvisare, al di là di situazioni contingen-
ti, uno dei motivi della crescente astensione dal voto che si deter-
mina nelle cosiddette «democrazie avanzate».

7.8 Federalismo come vera democrazia?

Nel momento in cui si ha la consapevolezza della difficoltà di pen-


sare la pluralità e la partecipazione mediante i concetti di ugua-
glianza e libertà degli individui, di popolo, di sovranità e di rappre-
sentanza, che stanno alla base dello Stato moderno, e si intende co-
me essi servano ad una costruzione in cui si ha l’espropriazione di
politicità e la costituzione di un radicale dualismo di pubblico e pri-
vato35, si può essere tentati di ravvisare in quel federalismo pre-

35 Si è già detto che tale dualismo formale non è più utililizzabile per la compren-
sione della complessa realtà contemporanea, almeno dal tempo degli anni Venti e
Trenta, in cui si è cominciata a modificare la figura classica dello Stato. Tuttavia la
sua presenza formale non è irrilevante, perché lascia spesso nell’ombra la dialettica

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246 Giuseppe Duso – La logica del potere

statale la direzione di una vera democrazia36. Tale proposta è inte-


ressante, in quanto nasce dalla consapevolezza che la via indicata
dai concetti del giusnaturalismo non è una via universale e priva di
contraddizioni strutturali ed è per sua natura segnata dalle difficoltà
proprie all’unità politica e al centralismo37. In questa prospettiva il
problema non è quello di riuscire a far essere sempre più presente,
anche al di là della scena pubblica degli attori politici, ovvero dei
rappresentanti, quel popolo che continua ad essere inteso come la
totalità degli individui uguali. Quel popolo è infatti un’idea, che so-
lo mediante l’agire rappresentativo viene resa presente; e quel po-
polo è sempre un soggetto unitario, che, in quanto tale, fagocita una
reale presenza e partecipazione politica degli uomini. Anche l’idea
di una democrazia come raggiungimento della dimensione della so-
vranità da parte dei singoli, e cioè come liberazione da ogni sotto-
missione, non è che un’idea residuale e contraddittoria della sovra-
nità moderna e una conseguenza della sfera del potere. Si è del resto
visto come la nozione di libertà come indipendenza della volontà
dei singoli sia la condizione di base del moderno concetto di potere.
La proposta del federalismo come vera democrazia porta invece
a pensare ad una pluralità di soggetti, e ciò è possibile se non sono i
singoli individui in quanto tali alla base di quel soggetto politico
statale che non può essere che unitario e che relega i singoli ad una
dimensione privata, con il senso negativo che comporta appunto il
termine. Si tratta di intendere un diverso modo di essere politici de-
gli uomini dunque, attraverso le cerchie che li costituiscono: non
tanto di dare un senso politico-statale alla dimensione della società
civile, quanto di superare il dualismo moderno di società civile e
Stato.

delle forze che operano per determinare il quadro del potere pubblico e non per-
mette di intendere una effettiva presenza dei cittadini nei processi decisionali.
36 È questa la già citata proposta di Hüglin e dei suoi saggi su Althusius.
Dell’estesa bibliografia sul rapporto federalismo democrazia si veda almeno D. J.
Elazar, Idee e forme del federalismo, tr. it. a cura di L. M. Bassani, ed. di Comuni-
tà, Milano 1995, e C. J. Friedrich, Governo costituzionale e democrazia, tr. it. Neri
Pozza, Vicenza 1960; di natura e contenuto assai diverso è per altro la riflessione
qui condotta.
37 Naturalmente non si tratta qui di dare valutazioni e giudizi su processi storici,
ma solo di intendere il significato logico e costituzionale dei concetti che si impie-
gano.

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7. Considerazioni preliminari su democrazia e federalismo 247

Tale proposta presenta per altro delle difficoltà, sia in relazione


alla sua comprensione del federalismo precedente allo Stato moder-
no, sia in relazione alla maniera di pensare il federalismo oggi. In-
fatti se l’antico federalismo è inteso come un sistema di organizza-
zione del potere dal basso, si rischia in tal modo di fraintendere il
significato e il ruolo che ha in esso il governo e il mondo oggettivo,
ontologico, religioso, morale, giuridico e costituzionale che esso
implica. Si scambia la dimensione del governo con quella del pote-
re, neutrale, azzerante tutti gli elementi che non siano la volontà.
Perciò si può dire che il potere «viene dal basso», alludendo così ad
una sfera omogenea, in cui scompaiono le distinzioni qualitative e
permangono solo indicazioni geometriche, come quelle di «alto» e
di «basso», che si collocano in un unico piano. In tal modo si intro-
duce quella sfera del potere che serve solitamente per pensare la
democrazia moderna, anche se, certo, l’organizzazione del potere
federale sfuggirebbe alla contraddizione propria della democrazia a
cui solitamente si pensa, insita nel fatto che l’autorizzazione del po-
tere dal basso implica il suo esercizio e la determinazione dei con-
tenuti della volontà comune dall’alto. Questa vera democrazia ri-
schia allora di basarsi su un quadro che assolutizza la volontà e di
essere intesa nella direzione dell’immagine di liberazione da ogni
sottomissione e da ogni governo, il quale era invece connaturato al
modo di intendere le differenze e la partecipazione nell’antico fede-
ralismo.
Se si ha una tale consapevolezza, dell’alterità dell’antico federa-
lismo all’orizzonte dei concetti moderni e a quella realtà che su quei
concetti si è anche costituita, si possono nutrire legittimi dubbi an-
che sull’attualizzazione del federalismo althusiano per intendere la
democrazia oggi, in una situazione in cui non è più presente una so-
cietà cetuale, come quella a cui è legata la Politica di Althusius, e
neppure un quadro etico complessivo che trova un riferimento so-
stanziale nelle Sacre Scritture, nel buon diritto antico e negli exem-
pla sacri e profani.
Tuttavia il contesto della concettualità moderna non è il presup-
posto necessario del nostro pensare la politica. Come si è detto, la
stessa realtà contemporanea è al di là di quel quadro teorico.
L’antico federalismo non è strumento risolutivo, ma ci mostra un
contesto di pensiero politico nel quale hanno significato le differen-

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248 Giuseppe Duso – La logica del potere

ze, la pluralità delle associazioni, la partecipazione dei cittadini. Es-


so serve a problematizzare i concetti moderni e a porci di fronte al
compito di pensare oggi queste tematiche. Si possono tentare allora
alcune considerazioni riguardanti il nostro presente, ma con la con-
sapevolezza che queste non possono essere intese come un processo
di deduzione dalla comprensione concettuale che si è tentata, e
nemmeno come la determinazione di un modello che potrebbe o
dovrebbe seguire e sostituire quello dello Stato. Una tale maniera di
intendere il legame tra la dimensione di comprensione propria del
pensiero e la proposta pratica sarebbe ancora prigioniera di quel
rapporto di teoria e prassi che è nato con la concettualità moderna,
secondo la quale la buona prassi deriverebbe dalla teoria, dal giusto
modello razionale. Bisogna forse tornare alla concezione che la
buona prassi politica dipende dalla virtù, dall’esperienza, dalla ca-
pacità di intendere il contesto in cui si vive: la proposta politica non
dipende da un sapere che ha carattere normativo, ma è necessaria-
mente segnata dal rischio, dal senso del kairos, dalla virtù ed espe-
rienza degli uomini, e non ha lo stesso rigore della comprensione.
Tenendo ben presente questa avvertenza, per non incorrere in
fraintendimenti in relazione al significato di queste indicazioni fina-
li, si può tentare di intendere in modo federalista non tanto un nuo-
vo modello di costituzione, quanto piuttosto i problemi che il pre-
sente ci pone, nella duplice direzione di pensare in modo produttivo
i processi che sono in atto nella realtà contemporanea, e che non
sono comprensibili a partire dalla forma costituzionale, e contempo-
raneamente di rimettere in questione – e ciò non è compito facile – i
concetti fondamentali delle moderne costituzioni, quegli stessi che
stanno alla base dello stato di diritto e della rappresentanza moder-
na.
Se si volesse compiere una riflessione sulla situazione attuale in
questa direzione, sarebbe innanzitutto da osservare che appare assai
riduttivo, per un pensiero del federalismo, delimitare la discussione
alla federazione di stati. In tal modo infatti rimangono non solo le
contraddizioni e i dualismi propri del concetto di sovranità, ma ri-
schia di apparire debole e già pregiudicato il problema della pace e
dell’ordine mondiale, come si può notare già in Per la pace perpe-
tua di Kant. Federalismo non sarebbe in tal caso un altro modo di
pensare la politica, ma si risolverebbe nell’accettazione dei concetti

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7. Considerazioni preliminari su democrazia e federalismo 249

politici che stanno alla base dello Stato moderno. Il tipo di rapporti
politici che implica il federalismo non può non coinvolgere le strut-
ture interne delle società politiche, rendendo debole e forse con-
traddittorio il pensiero della semplice federazione di Stati sovrani.
Ciò mi sembra valere anche e soprattutto in relazione a quella realtà
politica che ora è all’ordine del giorno mediante i processi di costi-
tuzione dell’unità europea, che, invece di valorizzare la ricchezza
delle differenze, rischia di appiattirle mediante scelte omogeneiz-
zanti38.
Non appare consono a un pensare federalista nemmeno
l’indicazione del superamento della sovranità nazionale mediante la
divisione in più sovranità territoriali: in questo modo non si risol-
vono, ma si riproducono e si moltiplicano le difficoltà della forma-
Stato. In tal modo si avrebbe (ed è ciò che appare diffuso oggi in
Europa) non tanto un pensiero federalista, ma l’incrociarsi di mol-

38 È interessante la constatazione di alcuni costituzionalisti che riconoscono


nell’Unione europea la mancanza di legittimità democratica (senza che ciò costi-
tuisca un giudizio di valore, o un’indicazione di realtà antidemocratica): ciò per il
fatto che alla sua base non stanno le volontà di tutti i cittadini che si esprimono con
il voto, ma piuttosto realtà costituite, cioè gli stati che si uniscono. Se si pensa alla
possibile produttività politica di un tale quadro non si può non aprire la domanda
relativa alla fondazione dell’unità politica dei singoli Stati e al loro modo di inten-
dere la legittimazione da parte del popolo come soggetto costituente. Se anche le
diverse comunità statali che confluiscono nell’Unione fossero viste come relazione
solidale di soggetti costituiti, si aprirebbe una considerazione e un’analisi di tipo
federalistico anche all’interno degli Stati, per i quali allora la stessa connotazione
di Stati sovrani dovrebbe sembrare obsoleta. La sfida che i processi di unificazione
europea comportano per il pensiero consiste nella possibilità di ripensare la politica
in modo federale, superando gli schemi della concettualità propria dello Stato mo-
derno. Se non si fa questo resta la duplice possibilità prospettata da Schmitt: o il
legame tra gli Stati è debole in relazione alla sovranità degli Stati che si uniscono,
oppure nascerà una più forte sovranità e un più forte centro decisionale, nei con-
fronti del quale si annulleranno le capacità decisionali dei singoli Stati. Ben si in-
tende che in questa prospettiva verrebbe azzerata la possibilità di una partecipazio-
ne più intensa alla vita politica delle diverse realtà che intendono insieme coopera-
re, partecipazione che è invece al centro di un modo federalistico di pensare la
stessa Unione europea. Questa riflessione sulla realtà europea può essere una veri-
fica del significato che ha l’attraversamento concettuale del pensiero schmittiano.
In esso è colta con lucidità la logica dei concetti dello Stato moderno, al di là della
consapevolezza dei suoi critici; tuttavia non è questa concettualità che è produttiva
ed efficace per comprendere la nuova realtà che ci sta di fronte.

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teplici nazionalismi e la rivendicazione del requisito della sovranità,


con le difficoltà che ciò comporta. Non si può poi non osservare che
ciò andrebbe nella direzione opposta a un pensiero federalistico,
che ha al suo centro il foedus, e cioè l’accordo che si ha con il patto:
dunque ciò che unifica i soggetti diversi (non li riduce all’unità) e
non ciò che divide. La divisione delle sovranità lascerebbe intatte le
contraddizioni che sono emerse tra unità del potere e molteplicità
dei cittadini ridotti a dimensione privata e la difficoltà di intendere
la partecipazione. Non ci sarebbe un riconoscimento delle parti e
della loro intrinseca valenza politica, perché non ci sarebbero più
parti, ma unità diverse. Il problema del riconoscimento della plura-
lità da un punto di vista politico comporta il superamento del con-
cetto stesso di sovranità e non la sua suddivisione.
Anche identificare il federalismo con un semplice processo di
decentramento appare contraddittorio con il tentativo di pensare in
nuovo modo la costituzione. Infatti l’azione di decentramento im-
plica la logica del centro e la centralità del potere, che può delegare
alcune funzioni alla periferia: appare dunque presupposto come de-
terminante proprio ciò che si vuole superare. Federalismo indica
piuttosto il mettersi o l’essere insieme di realtà e parti diverse, con
capacità di autogoverno, che insieme decidono e richiedono un
momento di governo comune. Egualmente riduttiva, anche se par-
zialmente giustificata, appare la semplice declinazione del federali-
smo in chiave territoriale. Certo può essere efficace un ravvicina-
mento delle forme di governo ai cittadini in un più ristretto territo-
rio, così come possono essere identificati territori con problemi co-
muni; ma, per le interrelazioni che ci sono non solo a livello eco-
nomico ma anche geografico (si pensi ad esempio ai dissesti geolo-
gici, in cui problemi della montagna si riversano nella pianura, o ai
problemi della costa che unificano i territori litoranei, al di là di di-
visioni semplicemente geografiche quali «nord» e «sud»), le moda-
lità di espressione di bisogni e di soluzioni ai vari problemi non
possono non incrociare territori diversi, così come diverse aggrega-
zioni sociali.
Ciò che sembra più rilevante è che una organizzazione politica
in chiave propriamente federalista non può non riguardare il modo
in cui i cittadini vengono ad assumere valenza politica. Essa cioè
non appare aver luogo se non è pensato in modo diverso il rapporto

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7. Considerazioni preliminari su democrazia e federalismo 251

del singolo con la vita pubblica, se cioè non si pensa in modo diver-
so la rappresentanza politica. Si può forse intendere la concreta
partecipazione dei singoli mediante modalità diverse da quella uni-
formità che caratterizza il voto, modalità che riescano a coinvolgere
il modo di essere, di lavorare, le competenze, l’ambito in cui ognu-
no effettivamente opera. Le parti attraverso cui il cittadino può par-
tecipare non possono avere certo una dimensione sostanziale ed u-
nica quale si aveva in una società cetuale: diversi, plurali e com-
plessi sono gli ambiti in cui ognuno si trova ad operare, e forse tutti
questi dovrebbero essere coinvolti nella dimensione della politicità
e della conduzione degli affari comuni. Plurali dovrebbero perciò
anche essere le possibilità di partecipazione politica dei singoli, ma
tutte legate ai diversi piani in cui ognuno si trova concretamente a
vivere e operare.
In questa dimensione si dovrebbe forse pensare a momenti di au-
togoverno dei diversi raggruppamenti della società. Certo è difficile
pensare a ciò in una realtà complessa, in cui i processi hanno spesso
una dimensione globale, ma appunto questo appare il compito diffi-
cile: pensare a momenti di partecipazione e di governo in una realtà
in cui si danno fenomeni dalla dimensione internazionale e mondia-
le. Ciò naturalmente richiede che l’identificazione e la valorizza-
zione delle competenze e dei bisogni risulti dalla realtà della socie-
tà, in tutte le sue dimensioni, anche le più disagiate e quelle che
sembrano le più estranee ai modelli di buon funzionamento di una
macchina, perché anch’esse sono reali e in esse si esprimono sog-
getti con eguale dignità. La differenza e il superamento dell’ugua-
glianza astratta non comporta la negazione, ma l’affermazione
dell’uguale dignità dei differenti. Tale riduzione della partecipazio-
ne alle dimensioni reali in cui ognuno vive non è limitazione della
sua espressione politica: è stata piuttosto l’uguaglianza astratta ad
essere la base dell’uguale irrilevanza dei singoli nei confronti della
decisionalità politica all’interno della moderna concezione della so-
vranità del popolo.
Forse le due vie che sono state indicate per iniziare a pensare la
democrazia possono incrociarsi, qualora la tematica federalista, che
permette di valorizzare la differenza e la solidarietà tra le parti, di
dare un senso reale alla nozione di partecipazione, e di prendere co-
scienza di processi reali che si danno nella costituzione concreta,

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non venga vissuta staticamente, ma piuttosto come una reale di-


mensione per l’espressione e la creatività delle soggettività politi-
che, e qualora la comprensione dei reali movimenti di democratiz-
zazione e di assunzione di responsabilità e di soggettività politica
da parte di gruppi di uomini e di intere masse perdano i caratteri
dell’unità e dell’assolutezza.

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