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Psycho: dal romanzo di Bloch

al lato oscuro del genio di


Hitchcock

ANNALISA ROVEDA

Scuole Civiche di Milano


Fondazione di Partecipazione
Dipartimento di Lingue

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici


Via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore: professor Andrew TANZI

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica


Dicembre 2009
PSYCHO: DAL ROMANZO DI BLOCH AL LATO OSCURO DEL GENIO
DI HITCHCOCK

PSYCHO: FROM BLOCH’S BOOK TO THE HITCHCOCK’S DARK SIDE


GENIUS

«ABSTRACT IN ITALIANO»

Tratto dal romanzo di Robert Bloch, Psycho divenne il capolavoro più celebre di
Alfred Hitchcock, dove l’ambiguità del doppio sentimento esistenziale,
l’innocenza e la colpevolezza, provoca la spaventosa tragedia dell’identità,
ovvero il trionfo della morte. L’ossessione e la morbosità sono temi ricorrenti
nel film e Hitchcock, maestro del genere a suspense, riuscì bene nel suo intento
di influenzare e controllare le reazioni del pubblico con la sua arte
cinematografica. Questa comprende non solo la scelta degli attori, ma soprattutto
le immagini e la colonna sonora che si dimostrano particolarmente adatte al tema
agghiacciante. Psycho istituisce un legame diretto con le nostre paure più
profonde ed è ciò che rende il film un’opera immortale.

«ENGLISH ABSTRACT»

Psycho is taken from Robert Bloch’s novel by the same name and later became
Hitchcock’s most famous masterpiece. Here the ambiguity of the two existential
feelings, innocence and guilt, causes the dreadful tragedy of identity, or the
triumph of death. Obsession and morbidity are recurrent themes in the film
and Hitchcock, the master of suspense, achieved his goal to affect and control
the public’s reactions with his cinematic art. His genius is not only linked to the
casting, but also to the shooting and to the soundtrack – all perfect features for
his spine-chilling theme. Psycho establishes a relationship with our deepest fears
– which is why it will remain an immortal work of art.

«RESUME EN FRANÇAIS»

Tiré du roman de Robert Bloch, Psycho est devenu le chef-d’œuvre le plus


célèbre d’Alfred Hitchcock. Dans ce film, l’ambiguïté du double sentiment
existentiel, l’innocence et la culpabilité, provoque l’effroyable tragédie de
l’identité, c’est-à-dire le triomphe de la mort. L’obsession et la morbidité
sont des thèmes qui reviennent dans l’œuvre et Hitchcock, maître du genre à
suspense, a bien réussi à contrôler les réactions du public grâce à son art
cinématographique. Celui-ci ne concerne pas seulement le choix des acteurs,
mais aussi les images et la bande sonore, qui se révèlent très appropriés pour
susciter la terreur. Psycho instaure un lien direct avec nos peurs les plus
profondes : c’est pour cette raison que ce film restera toujours une œuvre
immortelle.
SOMMARIO

PREFAZIONE………………………………………………………………………………………2

ALFRED HITCHCOCK (1899 – 1980)……………………………………………………....3

ROBERT BLOCH (1917 – 1994)……………………………………………………………..8

I FILM DI ALFRED HITCHCOCK………………………………………………………………..10

THE LODGER (A STORY OF THE LONDON FOG), 1926…………………………………..16

NOTORIOUS, 1946…………………………………………………………………………….18

REAR WINDOW, 1954…………………………………………………………………………21

PSYCHO, 1960………………………………………………………………………………….24

ANALISI DEI PERSONAGGI PRINCIPALI……………………………………………………….38

IL GENIO DI HITCHCOCK E LE APPARIZIONI NEI FILM……………………………………..42

TRADURRE PER IL CINEMA…………………………………………………………………….47

ANALISI NARRATOLOGICA DELL’OPERA – R. BLOCH, PSYCHO, 1959………………….58

METODO DI ANALISI PER UNA CRITICA DELLA TRADUZIONE……………………………..67

ANALISI TRADUTTOLOGICA……………………………………………………………………71

CONCLUSIONI…………………………………………………………………………………..79

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI………………………………………………………………….81

1
PREFAZIONE

Il motivo per cui ho scelto di analizzare Psycho nella mia tesi è


principalmente legato al fatto che si tratta di un’opera fondamentale per la
storia del cinema, un film caratterizzato da una grande forza innovatrice
soprattutto per quanto riguarda le riprese e le immagini.

Sin dal suo concepimento, Psycho è un film che gioca tutte le sue carte
sulle capacità del cinema di costruire e determinare le emozioni dello
spettatore attraverso la tecnica, il linguaggio e, soprattutto, attraverso lo
stile dell’autore. In questa particolare dimensione l’attore non è altro che
uno dei semplici strumenti di cui il regista dispone per determinare l’ordito
della sua trama. Il modo in cui Hitchcock tratta il volto dei suoi attori,
spesso fissati in espressioni univoche e sostanzialmente prive di
sfumature, ne è un’evidente dimostrazione.

Implicitamente il progetto di Psycho si configura come una sorta di


sfida all’establishment hollywoodiano attraverso un film con tutte le
caratteristiche di un prodotto di serie B – budget basso, tempi di
lavorazione stretti, troupe televisiva, paghe sindacali, uso del bianco e del
nero – diretto, però, da un regista di serie A. Questo significa che non
sono i soldi, bensì l’autore che dà vita a un grande film.

Dopo una breve presentazione di Robert Bloch, autore del romanzo


Psycho, di Alfred Hitchcock e di alcune delle sue opere più importanti, mi
concentrerò in modo particolare sulle caratteristiche del film, sia
narratologiche sia traduttologiche, svolgendo anche un confronto con il
romanzo per quanto riguarda alcune scene chiave, al fine di determinare
in che modo Hitchcock abbia tradotto nel linguaggio cinematografico il
romanzo di Bloch.

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ALFRED HITCHCOCK (1899 – 1980)

Biografia

Maestro del thrilling, il genere criminal-psicologico a suspense, nella sua


cinquantennale attività confortata quasi sempre dal successo commerciale
(estesosi dal 1955 alla televisione e ad antologie libresche del brivido e del
terrore) affermò un brillante e originale talento di narratore per immagini
e per suoni, dove il tipico humour inglese spesso si salda al macabro e
l’ironia attenua oppure impreziosisce l’artificiosa e cinica meccanica del
racconto noir.

Alfred Hichcock nacque a Leytonstone, nei pressi di Londra, il 13 agosto


1899. Terzogenito di William Hitchcock, da bambino era pauroso,
introverso e solitario; questi elementi, insieme alla sua avversione per la
polizia, saranno molto presenti nei suoi film.

Hitchcock riceve una rigida educazione religiosa frequentando il St.


Ignatius College di Stamford Hill, dove entrò in contatto con un ambiente
molto severo, in cui subì anche punizioni corporali. A questa esperienza
seguì l’iscrizione a una scuola di ingegneria e navigazione che però
dovette abbandonare alla morte del padre, avvenuta nel 1914, quando
Hitchcock aveva solo 15 anni.

Alfred Hitchcock manifestò un grande interesse per il mondo del crimine


e degli omicidi, collezionando saggi e articoli tratti dai giornali e visitando
spesso il museo del crimine di Scotland Yard. Sentendosi disorientato e
senza un progetto di vita coerente, nel 1915 trovò lavoro come
disegnatore presso la "Henley Telegraph and Cable Company".

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Il suo primo impiego nel ramo cinematografico arrivò nel 1920, quando
fu assunto come disegnatore di titoli in un nuovo studio londinese, il
Players-Lasky-Studios, dove disegnò i titoli di testa per film nel corso dei
due anni successivi. Fu proprio in quel periodo che Hitchcock conobbe la
regista e sceneggiatrice Alma Reville.

Nel 1922, durante le riprese del film Always Tell Your Wife, il regista
incaricato si ammalò; al suo posto subentrò Hitchcock, che terminò le
riprese, entrando così per la prima volta nel mondo della regia e
mettendosi immediatamente in luce per le sue ottime qualità. Fu proprio
sul set di questo film che Hitchcock approfondì la sua amicizia con Alma,
che il 2 dicembre 1926 diventò sua moglie. Dal matrimonio nacque
Patricia, il 7 luglio 1928.

Nel 1923 a Hitchcock fu affidata la regia del film Number 13, il quale
però rimase sfortunatamente incompleto a causa della chiusura della sede
londinese dello studio. Tuttavia, Hitchcock non si arrese e nello stesso
anno fu assunto dalla compagnia più tardi conosciuta come Gainsborough
Pictures dove, per tre anni, lavorò nell’ombra per numerosi film,
occupandosi di una quantità straordinaria di mansioni: dalla sceneggiatura
ai disegni, dai titoli alle scenografie, fino ad arrivare al montaggio e
all’aiuto regia.

Nel 1925 la compagnia gli affidò la regia del film The Pleasure Garden
(Il Giardino del piacere), una produzione tedesco-britannica che riscosse
successo. L’anno successivo, Hitchcock diresse il suo secondo film, The
Mountain Eagle (1926), andato perduto.

Ma il suo primo vero film di successo fu The Lodger, A Story of the


London Fog, (L’inquilino), 1926. Il film affrontava per la prima volta quella
che sarebbe diventata una delle tematiche hitchcockiane ricorrenti,

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l’innocente accusato ingiustamente di un crimine, inaugurando il
cosiddetto “periodo inglese” del regista.

Nel 1929 Hitchcock diresse Blackmail (Ricatto), il primo film inglese con
suono sincronizzato. Inizialmente fu girato come film muto, in cui solo
l’ultima bobina doveva essere sonora, ma il regista si oppose a questa
scelta e decise di rigirare alcune scene registrando anche il suono e i
dialoghi.

Hitchcock continuò a riscuotere successo girando film come The Lady


Vanishes (La signora scompare, 1938), e Jamaica Inn (La taverna della
Giamaica, 1939), alcuni dei quali divennero famosi anche negli Stati Uniti.
In quel periodo, il produttore statunitense di Gone with the Wind (Via col
vento, 1939) David O. Selznick propose a Hitchcock di trasferirsi negli Stati
Uniti con la famiglia offrendogli la regia di Rebecca (id., 1940),
adattamento cinematografico del romanzo omonimo scritto da Daphne du
Maurier. Rebecca è il suo primo film americano, seppure girato quasi
interamente con personale inglese.

La carriera di Hitchcock conobbe numerosi alti e bassi, ma il regista si


sforzò sempre di rimanere a un livello qualitativo impeccabile. I critici,
tuttavia, rilevano come gli anni ’40 siano – con l’eccezione di Notorious
(Notorious, L’amante perduta, 1946) - di scarsa rilevanza per la
produzione del maestro, mentre straordinariamente importanti risultano gli
anni ’50 e ’60, caratterizzati dai capolavori Rear Window (La finestra sul
cortile, 1954), Vertigo (id., 1958), North by Northwest (Intrigo
internazionale, 1959), Psycho (Psyco, 1960) e The Birds (Gli uccelli, 1963).

Nel 1972, durante le riprese del film Frenzy, la moglie Alma fu colpita
da un ictus che la paralizzò parzialmente e non le permise più di
camminare correttamente.

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Hitchcock si divertì anche a produrre film per la televisione, nei quali
poteva sfogare tutta la sua vena arguta e satirica. Leggendarie sono
rimaste le antologie del mistero per il piccolo schermo come Regali di
Hitchcock e L’Ora di Hitchcock, produzioni che contribuirono a diffondere il
suo nome fra la gente di ogni tipo.

Tecnico meticoloso e stilista sopraffino, i suoi film erano


scrupolosamente e puntigliosamente confezionati. Celebri anche le sue
immancabili apparizioni da cammeo, inserite praticamente in tutte le sue
pellicole. L’ultimo lungometraggio da maestro è stato Family Plot
(Complotto di famiglia, 1976), lontano dai precedenti film del grande
regista e sempre più vicino al livello dei suoi telefilm.

Il 7 marzo 1979 Hitchcock ricevette il premio Life Achievement Award


(AFI). In quell’occasione pronunciò il suo famoso discorso:

«I beg permission to mention by name only four people who have


given me the most affection, appreciation, and encouragement, and
constant collaboration. The first of the four is a film editor, the
second is a scriptwriter, the third is the mother of my daughter Pat,
and the fourth is as fine a cook as ever performed miracles in a
domestic kitchen and their names are Alma Reville». (Hitchcock
1979)

Nel 1979 il regista fu insignito del titolo di gran ufficiale dell’ordine


dell’impero britannico (KBE), con il quale entrò nella cavalleria potendo
usare il prefisso Sir.

Il 29 aprile 1980 Hitchcock muore stroncato da un infarto a Los


Angeles, mentre stava lavorando con il suo collaboratore Ernest Lehman a

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un’opera che avrebbe dovuto intitolarsi The Short Night e che rimase
incompleta.

I suoi funerali si svolsero a Beverly Hills; vi parteciparono 600 persone,


fra le quali Mel Brooks, Louis Jourdan, Karl Malden, Tippi Hedren, Janet
Leigh e François Truffaut.

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ROBERT BLOCH (1917-1994)

Robert Bloch nacque a Chicago nel 1917. A nove anni vide il suo primo
film dell’orrore, Il Fantasma dell’Opera, diretto da Rupert Julian nel 1925 e
ispirato al romanzo di Gaston Leroux del 1910. Dopo essersi diplomato
Bloch acquistò una macchina per scrivere usata e pubblicò il suo primo
racconto, The Feast in the Abbey, su «Weird Tales». È sulle pagine di
questa rivista, di cui diventò colonna portante insieme a E. Howard, C.A.
Smith e a H.P. Lovecraft, con il quale intrattenne anche una
corrispondenza epistolare, che Bloch nacque come scrittore. Su «Weird
Tales» furono pubblicati più di settanta racconti, per la maggior parte di
genere horror, nei quali era evidente l’influenza di E.A. Poe e di H.P.
Lovecraft.

Le opere degli anni ‘40 riflettevano il suo interesse per gli assassini
psicopatici: Yours Truly, Jack the Ripper (1943) è una delle più popolari
storie di Bloch circa il padre di tutti i serial killer. Nel 1942 Bloch iniziò a
lavorare in un’agenzia di pubblicità, in cui rimase per undici anni. Nel 1947
fu pubblicato il suo primo romanzo, The Scarf, storia di un giovane che
diventa uno strangolatore di professione in seguito a un trauma infantile. I
romanzi degli anni ’50 e ’60 serviranno a meglio definire e separare i
generi del crimine e dell’orrore. Con Psycho, scritto nel 1959, che fu
ripreso da Hitchcock per il suo film, Bloch si avvicinò a Hollywood, dove
collaborò a diversi progetti per il cinema e per la televisione.

Negli anni Ottanta inserisce il suo Psycho in una trilogia, assieme a


Psycho II (1982), in cui Norman Bates scappa dal manicomio nel quale era
stato rinchiuso, e Psycho House (1990), nel quale l’autore suggerisce che
è ormai il mondo esterno a essersi trasformato in un grande manicomio.

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Durante la sua carriera Bloch vinse numerosissimi premi nel campo del
fantasy (World Fantasy Convention Award nel 1975), dell’horror e della
fantascienza (Premio Hugo nel 1959), come pure un Edgar Award
dell’associazione Mystery Writers of America nel 1960. Nel 1990 ricevette il
Bram Stoker Award dall’associazione Horror Writers of America, e nel 1991
fu premiato con il World Horror Convention Grandmaster Award.

Robert Bloch morì il 23 settembre 1994 a Los Angeles, dopo aver


combattuto una lunga e dura battaglia contro il cancro.
Isaac Asimov scrisse di lui nella presentazione al racconto Diretto per
l’inferno: «Robert Bloch ama dire che egli ha un cuore di fanciullo...
conservato nell’alcool, sopra la scrivania. E io penso che sia vero, poiché
quest’anima mite e gentile, che contempla benevolo il mondo dalla sua
sparuta e affilata altezza, scrive i racconti più raccapriccianti che si
possano immaginare».

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I FILM DI ALFRED HITCHCOCK

1922
 NUMBER THIRTEEN (incompleto)
 ALWAYS TELL YOUR WIFE
 WOMAN TO WOMAN

1923
 THE WHITE SHADOW

1924
 THE PASSIONATE ADVENTURE

1925
 THE BLACKGUARD
 THE PRUDE’S FALL
 THE PLEASURE GARDEN

1926
 THE MOUNTAIN EAGLE

 il periodo inglese
 THE LODGER

1927
 DOWNHILL
 EASY VIRTUE
 THE RING

1928
 THE FARMER’S WIFE

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 CHAMPAGNE

1929

 HARMONY HEAVEN
 THE MANXMAN
 BLACKMAIL

1930
 ELSTREE CALLING
 JUNO AND THE PAYCOCK
 MURDER
 MARY

1931
 THE SKIN GAME

1932
 RICH AND STRANGE
 NUMBER SEVENTEEN
 LORD CHAMBER’S LADIES

1933
 WALTZES FROM VIENNA

1934
 THE MAN WHO KNEW TOO MUCH

1935
 THE THIRTY-NINE STEPS

1936
 THE SECRET AGENT

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 SABOTAGE

1937
 YOUNG AND INNOCENT

1938
 THE LADY VANISHES

1939
 JAMAICA INN

 fine periodo inglese

 il periodo americano

1940
 REBECCA
 FOREIGN CORRESPONDENT

1941
 MR. AND MRS. SMITH
 SUSPICION

1942
 SABOTEUR

1943

 SHADOW OF A DOUBT
 LIFEBOAT

1944
 BON VOYAGE

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 AVENTURE MALGACHE

1945
 SPELLBOUND

1946
 NOTORIOUS

1947
 THE PARADINE CASE

1948
 ROPE

1949

 UNDER CAPRICORN

1950

 STAGE FRIGHT

1951
 STRANGERS ON A TRAIN

1952
 I CONFESS

1954

 DIAL M FOR MURDER


 REAR WINDOW

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 fine periodo americano

1955
 TO CATCH A THIEF

1956
 THE TROUBLE WITH HARRY

1957
 THE WRONG MAN

1958

 VERTIGO

1959
 NORTH BY NORTHWEST

1960
 PSYCHO

1963
 THE BIRDS

1964
 MARNIE

1966
 TORN CURTAIN

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1969

 TOPAZ

1972
 FRENZY

1976
 FAMILY PLOT

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THE LODGER (A STORY OF THE LONDON
FOG), 1926

Produzione: Gainsborough Pictures (UK), Michael Balcon, 1926


Regia di: Alfred Hitchcock
Scritto da: Marie Belloc Lowndes (romanzo), Eliot Standard, Alfred
Hitchcock
Fotografia di: Baron Vintimiglia
Montaggio di: Ivor Montagu
Scenografia di: C. Wilfred Arnold, Bertram Evans
Aiuto regista: Alma Reville

Cast
Marie Ault (Mrs. Jackson, madre della ragazza)
Arthur Chesney (Mr. Jackson, padre della ragazza)
June Tripp (Daisy Jackson)
Malcom Keen (Joe Betts, il detective, fidanzato di Daisy)
Ivor Novello (l’inquilino)

Dettagli tecnici

Durata: 75 min. / USA: 83 min. / Spagna: 67 min. / Canada: 98 min.


Nazionalità: UK
Colore: bianco e nero
Sonoro: muto
Formato originale pellicola: 1.33 : 1
Riprese: Islington, Londra
Società: Carlyle Blackwell Productions

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Trama

Una tranquilla famiglia londinese ospita un giovane dal comportamento


misterioso, che presto si innamora della figlia Daisy. I genitori credono di
riconoscere nell'uomo il famigerato seviziatore di prostitute che uccide solo
donne bionde e solo di martedì, il serial killer noto come The Avenger, e il
detective Joe Betts, fidanzato della giovane, lo denuncia. Il sospetto tenta
la fuga, la polizia e la folla lo inseguono nella nebbia. All'ultimo momento
giunge la notizia che il vero criminale è stato arrestato.

Da un romanzo di Mrs Belloc Lowndes, The Lodger è il terzo film di


Hitchcock, il primo di cui si dichiarò soddisfatto e in cui compare 2 volte.
Nel film è presente già il suo inconfondibile tocco visivo e anticipa i temi
del falso colpevole, del sospetto e della minaccia che caratterizzeranno
tutte le sue opere.

Critica

«The Lodger è il primo film in cui ho messo in pratica ciò che avevo imparato in
Germania. Il mio rapporto con questo film è stato del tutto istintivo: per la prima
volta ho applicato il mio stile. In realtà, possiamo dire che The Lodger è il mio
primo film» (Alfred Hitchcock)

«Mi piace molto. È un bel film e testimonia una grande invenzione visiva»
(François Truffaut)

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NOTORIOUS, 1946

Produzione: Alfred Hitchcock, R.K.O., 1946


Regia di: Alfred Hitchcock
Scritto da: Ben Hecht
Fotografia di: Ted Tetzlaff
Montaggio di: Theron Warth
Scenografia di: Carrol Clark, Albert S. D’Agostino, Darrell Silvera,
Claude Carpenter
Costumi di: Edith Head
Aiuto regista: William Dorfman
Sonoro: Terry Kellum, John E. Tribby, Clem Portman
Effetti speciali: Paul Eagler, Vernon L. Walker

Cast
Ingrid Bergman (Alicia Huberman)
Cary Grant (Devlin)
Claude Rains (Alexander Sebastian)
Louis Calhern (Paul Prescott)
Leopoldine Konstantin (Mrs. Sebastian)
Reinhold Schünzel (Doctor Anderson)

Dettagli tecnici

Durata: 101 min.


Nazionalità: USA
Lingua: inglese / francese
Colore: bianco e nero
Sonoro: mono (RCA Sound System)
Formato originale pellicola: 1,37 : 1

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Riprese: Beverly Hills, California
Società: Vanguard Films

Trama

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, Alicia, figlia di una spia nazista
residente negli Stati Uniti, per riscattare il male compiuto dal padre
quando questi era ancora in vita, accetta di avvicinare Sebastian, suo
amico, capo di un gruppo di spie tedesche in America, per carpirne i
misteri e rivelarli ai servizi segreti americani. La missione le viene proposta
da Devlin (Cary Grant), membro di un’organizzazione che per il Governo
americano ha il compito di controllare e rendere inoffensivi, quando
possibile, tutti coloro che lavorano per il Terzo Reich. Per Devlin, Alicia
rappresenta la donna ideale cui affidare la delicata missione: ma ben
presto sopraggiunge un imprevisto a complicare l’intera faccenda. Alicia si
innamora di Devlin e quando Sebastian le chiede di sposarlo Devlin pensa
che sarebbe una grande occasione per avere libertà di movimento nella
casa della spia. Delusa per la mancata gelosia di Devlin, Alicia accetta e
inizia le indagini all'interno della casa fino a sottrarre al marito una chiave
che porta sempre con sé. Durante un ricevimento scende in cantina
usando la chiave dove trova alcune bottiglie contenenti uranio. Sebastian,
però si accorge di tutto e senza compiere gesti plateali inizia ad
avvelenare Alicia lentamente, giorno dopo giorno. Sebbene veda che la
ragazza non sta bene, Devlin attribuisce il tutto all'abuso di alcol e non se
ne preoccupa fino al giorno in cui Alicia manca ad un appuntamento. A
quel punto si accorge di essersene innamorato: fa irruzione in casa della
spia e preleva Alicia ormai vicina alla morte.

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Critica

«Donna di dubbia moralità, è costretta dai servizi segreti USA a sposare


a Rio de Janeiro il presunto capo di un'organizzazione neonazista. La salva
dalla morte un collega innamorato. Sulla base di un romantico e spudorato
melodramma d'amore (scritto benissimo da Ben Hecht che, con C. Rains,
fu "nominato" all'Oscar), è un thriller razionalista e crudele che trasmette
allo spettatore emozioni e malessere. Il suo leit-motiv è il bere. Bergman
iperluminosa. A differenza degli altri film hitchcockiani di spionaggio, non
c'è spazio per l'umorismo». (Il Morandini, Dizionario dei film,
Zanichelli)

«Notorious manca delle fondamentali qualità che hanno dato fama ai


migliori film di Hitchcock, pur avendo tuttavia notevoli meriti. Hitchcock è
sempre stato abile sia nei film gialli sia in quelli psicologici e spesso, come
in questo caso, si serve del suo ingegno per rendere insolitamente
avvincenti un momento di una festa, la discussione di due amanti o un
semplice interno. La sua grande sapienza nel dirigere le donne dà ancora
una volta ottimi risultati: penso che questa sia la migliore interpretazione
di Ingrid Bergman». (James Agee, The Nation)

«[…] La pignola precisione dei dettagli, il rigore dell'analisi psicologica


effettuata su personaggi non straordinari ma minuziosamente
conseguenti, devono aver richiesto anche da parte di un uomo abile e
scaltro come Hitchcock uno sforzo non indifferente, il cui risultato può, con
ragione, aver fatto contenti il regista e i tre principali interpreti. È
altrettanto certo però che, se il valore del film potesse essere pesato con
una bilancia, il piatto su cui fossero posti gli elementi artistici dei film
stesso sarebbe di gran lunga più leggero dell'altro, quello degli elementi
tecnici e formali. […] Superiore ad ogni elogio l'interpretazione della

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Bergman, efficacemente sostenuta da Claude Rains e da Cary Grant».
(Lorenzo Quaglietti, L'Unità, Roma, 1 novembre 1947)

REAR WINDOW, 1954

Produzione: Alfred Hitchcock, Paramount, 1954


Regia di: Alfred Hitchcock
Scritto da: Cornell Woolrich (Rear Window, romanzo del 1942)
Fotografia di: Robert Burks
Montaggio di: George Tomasini
Scenografia di: J. McMillan Johnson, Hal Pereira
Costumi di: Edith Head
Aiuto regista: Herbert Coleman
Sonoro: John Cope (sound recordist), Herry Lindgren (sound recordist),
Herry E. Snodgrass (sound editor, 1998 restauro), Richard LeGrand Jr.
(supervising sound editor, 1998 restauro), Samuel Webb (assistant sound
editor, 1998 restauro)
Effetti speciali: John P. Fulton

Cast

James Stewart (L.B. Jeffries, “Jeff”)


Grace Kelly (Lisa Fremont)
Wendel Corey (Thomas J. Doyle, il detective)
Thelma Ritter (Stella, l’infermiera)
Raymond Burr (Lars Thorwald)
Judith Evelyn (Miss Lonely Heart)
Ross Bagdasarian (il musicista)
Georgine Darcy (Miss Torse, la ballerina)

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Jesslyn Fax (la scultrice)

Dettagli tecnici

Durata: 112 min.


Nazionalità: USA
Lingua: inglese
Colore: colore (Technicolor)
Sonoro: mono (Western Electric Sound System)
Formato originale pellicola: 1,37 : 1 (negativo) / 1,66 : 1 (formato
progetto)
Riprese: Los Angeles, California
Società: Paramount Pictures

Trama

Oppresso dal caldo estivo, l'abile fotoreporter "Jeff" Jeffries si trova


relegato nel suo appartamento con una gamba ingessata. Negli intervalli
tra le visite della sua infermiera e le richieste di matrimonio
dell'affascinante Lisa, Jeff, per sfuggire alla noia, spia con un teleobiettivo
il vicinato dalla finestra che guarda sul cortile. Ha sotto gli occhi un
campionario di umanità: dalla coppia in luna di miele che non lascia mai la
stanza, al musicista in crisi di ispirazione, dal signor Thorvald che litiga con
la moglie, alla ballerina che fa esercizio seminuda. Collegando alcuni
dettagli, tra cui l'uccisione di un cagnolino, all'assenza prolungata della
signora Thorvald, Jeff si convince che il vicino abbia assassinato la moglie.
La polizia non gli crede, ma Lisa e l'infermiera sì. Con Jeff che sorveglia la
situazione dalla finestra, le due donne vanno alla ricerca di prove che
avvalorino la loro tesi. Rischiando di essere scoperta, Lisa entra di

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nascosto nell'appartamento di Thorvald. Riesce a cavarsela, ma a questo
punto l'uxoricida sa che Jeff lo ha scoperto e decide di fargli visita.

Critica

«Tratto da un racconto di Cornell Woolrich, sceneggiato da J..Michael


Hayes, è un film-sfida: in un’unica scenografia, tutto è osservato dal punto
di vista del protagonista (il che permette di leggere il film anche come una
riflessione sul voyeurismo dello spettatore e in più in generale del cinema).
Prediletto dal regista (tranne che per la colonna sonora di Franz Waxman),
è un calibratissimo mix di suspence, humor e acuta osservazione delle
debolezze umane». (Mereghetti, Dizionario dei film, Baldini &
Castaldi, Milano 2002)

«[…] James Stewart nel film...è un voyeur... Mi ricordo di una critica


a questo proposito. La signorina Lejeune, nel London Observer, ha scritto
che Rear Window era un film "orribile", perché c'era un tipo che guardava
costantemente dalla finestra. Penso che non avrebbe dovuto scrivere che
era orribile. Sì, l'uomo era un voyeur, ma non siamo tutti dei voyeur?»
(Alfred Hitchcock)

«[…] Siamo tutti dei voyeur, fosse solo quando guardiamo un film
intimista. Del resto, James Stewart dalla sua finestra si trova nella
situazione di uno spettatore che guarda il film». (François Truffaut)

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PSYCHO, 1960

Produzione: Alfred Hitchcock


Regia di: Alfred Hitchcock
Scritto da: Robert Bloch (Psycho, romanzo del 1959)
Fotografia di: John L. Russell
Montaggio di: George Tomasini
Scenografia di: Robert Clathworthy, Joseph Hurley
Costumi di: Helen Colvig, Rita Riggs
Aiuto regista: Hilton A. Green
Sonoro: William Russell, Waldon O. Watson
Effetti speciali: Clarence Champagne

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Cast

Anthony Perkins (Norman Bates)


Janet Leigh (Marion Crane)
Vera Miles (Lila Crane, sorella di Marion)
John Gavin (Sam Loomis, fidanziato di Marion)
Martin Balsam (detective Milton Arbogast)
John McIntire (sceriffo Al Chambers)
Simon Oakland (Dr. Fred Richmond)
Vaughn Taylor (George Lowery, datore di lavoro di Marion)
Frank Albertson (Tom Cassidy)
Lurene Tuttle (Eliza Chambers)
Patricia Hitchcock (Caroline)
John Anderson (Charlie)
Mort Mills (poliziotto)

Alias

Wimpy (1960) (USA) (titolo provvisorio di copertura)


Psicosis (1961) (Argentina) (Spagna)
Psycho (1960) (Austria) (Repubblica Federale Tedesca)
Psychose (1960) (Belgio: titolo francese) (Francia)
оЯХУ (1960) (Unione Sovietica: titolo russo)
Psico (1960) (Portogallo)
Psicose (1960) (Brasile)
Psicosi (1961) (Spagna: titolo catalano)
Psycho (1960) (Danimarca)
Psychoza (1960) (Polonia)

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Psyco (1960) (Italia)
Psyko (1960) (Finlandia)

Dettagli tecnici

Durata: 109 min. / Germania: 108 min.


Nazionalità: USA
Lingua: inglese
Colore: bianco e nero
Sonoro: mono (Westrex Recording System)
Formato originale pellicola: 1,37 : 1 (negativo) / 1,85 : 1 (formato
proiezione)
Riprese: 42701 Lankershim Boulevard, North Hollywood, Los Angeles,
California, USA
Società: Shamley Productions

Trama

Marion (Janet Leigh) e il suo fidanzato Sam (John Gavin) vorrebbero


sposarsi, ma non hanno abbastanza soldi per farlo. Sam lavora a Fairvale,
nel negozio di ferramenta che ha ereditato dal padre alla sua morte, ha
molti debiti da pagare e in più è costretto a vivere nel retro del negozio. In
uno dei tanti pomeriggi in cui i due amanti si incontrano per stare insieme,
Sam chiede a Marion di avere pazienza e le promette che entro due anni si
sposeranno, sicuro di riuscire a estinguere tutti i debiti. Marion intanto
continua il suo lavoro di impiegata immobiliare presso l’agenzia di George
Lowery. Un venerdì pomeriggio il suo datore di lavoro le consegna
quarantamila dollari da depositare in banca: un’occasione da non perdere
per Marion che, attratta da quella ingente somma, decide di rubare i soldi

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e lasciare Phoenix. Mentre è al volante, sentendosi stanca, decide di
fermarsi e passare la notte in un motel. Marion viene accolta da Norman
Bates, il giovane proprietario, che vive nella casa accanto al motel con sua
madre, una donna malata con la quale ha un rapporto complesso e
morboso.

Prima di andare a letto, Marion decide di fare una doccia, ma in quel


momento la madre di Norman appare davanti a lei, la aggredisce e la
uccide a coltellate. Qualche minuto dopo Norman, insospettito dal
continuo rumore dell’acqua nel bagno della stanza della donna, decide di
entrare: si trova così davanti a un orribile spettacolo. Norman pulisce tutto
e occulta ogni prova, compreso il corpo di Marion, che viene nascosto nel
baule della sua macchina. In seguito, porta la macchina nei pressi di una
palude sul retro del motel e aspetta che il fango inghiotta la prova del
delitto.

Intanto, preoccupata per la scomparsa della sorella, Lila si reca a


Fairvale da Sam, convinta che Marion si trovi da lui. I due cominciano le
ricerche aiutati da Arbogast, un investigatore ingaggiato dall’agenzia
immobiliare di Lowery per ritrovare i soldi. Le ricerche di Arbogast lo
portano al motel di Bates; qui l’investigatore parla con il proprietario, ma
quando gli chiede di poter interrogare anche la madre, Norman si rifiuta. Il
detective allora esprime i suoi dubbi a Lila e Sam e decide di entrare nella
casa di nascosto per parlare con la donna. Arbogast sale le scale fino al
primo piano, ma quando si ritrova sul pianerottolo viene accoltellato dalla
donna e ucciso.

Intanto, Lila e Sam si recano dallo sceriffo per spiegare la situazione ed


esprimere la loro preoccupazione per la scomparsa improvvisa di Arbogast,
che si voleva recare dalla madre di Norman per porle alcune domande.
Tuttavia, lo sceriffo rivela loro che la madre di Norman è morta otto anni

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prima e che il suo corpo è stato sepolto nel vicino cimitero. I dubbi
crescono e Lila e Sam si recano al motel per indagare, ma Lila rischia la
vita: Norman, che indossa gli abiti di sua madre e una parrucca da donna,
cerca di ucciderla quando la ragazza scopre che la madre di Norman è
stata imbalsamata e nascosta in casa.

Norman viene arrestato e uno psicologo cerca di spiegare la situazione:


l’uomo è schizofrenico e soffre di uno sdoppiamento di personalità fino al
punto di travestirsi da donna e compiere delitti.

«It wasn’t a message that stirred the audiences, nor was it a

great performance or their enjoyment of the novel. They

where aroused by pure film». (Hitchcock 1985)

Così Alfred Hitchcock spiegava al regista francese François Truffaut che


cos’era per lui Psycho, e aggiungeva: «It belongs to filmmakers, to
you and me». Hitchcock non era interessato alla creazione di un
capolavoro né intendeva girare un film costoso, infatti il denaro speso per
il film ammontava a ottocentomila dollari, una somma bassa perfino per gli

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standard del 1960. Inoltre, in Psycho, il regista non ingaggiò gli attori del
calibro di North by Northwest (Intrigo Internazionale), ma gli attori che
utilizzava per i suoi show televisivi. Inoltre, il film è in bianco e nero,
moltissime scene del film non contengono dialoghi e il motel e la casa di
Norman Bates furono costruiti su un terreno sul retro degli studi della
Universal.

Eppure, nessun altro film di Hitchcock ebbe un impatto sul pubblico più
forte di quello che ha avuto Psycho. Come lui stesso spiegava a Truffaut,
lo scopo del film era di controllare le reazioni e le emozioni degli
spettatori.

«Psycho has a very interesting construction and that game


with the audience was fascinating. I was directing the
viewers. You might say I was playing them, like an organ».

«My main satisfaction is that the film had an effect on the


audiences, and I consider that very important. I don’t care
about the subject matter; I don’t care about the acting; but I

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do care about the pieces of film and the photography and
the soundtrack and all of the technical ingredients that
made the audience scream. I feel tremendously satisfying
for us to be able to use the cinematic art to achieve
something of a mass emotion. And with Psycho we most
definitely achieved this».

Il risultato? Fu il film più scioccante che il suo pubblico avesse mai visto.
Le pubblicità dell’epoca chiedevano alla gente di non rivelare le sorprese
che Hitchcock aveva in serbo per loro, come il brutale assassinio di
Marion, l’apparente eroina, che di fatto figura soltanto in un terzo del film,
e i segreti della madre di Norman. Dunque, era necessario vedere il film
sin dall’inizio, come affermava Hitchcock stesso:

«It is required that you see Psycho from the very beginning!
The late-comers would have been waiting to see Janet Leigh
after she had disappeared from the screen action».

Oggi le sorprese che il film ci riserva sono ormai conosciute, tuttavia


Psycho continua a essere considerato un thriller spaventoso ed esercita
una grande influenza sul pubblico. Questo è dovuto soprattutto alla
maestria di Hitchcock in due aree che non sono poi così ovvie: la storia di
Marion Crane e il suo rapporto con Norman. Entrambi gli elementi
funzionano proprio perché Hitchcock concentrò la sua attenzione e utilizzò
le sue abilità per far sì che questi venissero sviluppati lungo tutto il corso
del film.

Il film si basa su un tema molto amato da Hitchcock e sempre presente


nelle sue opere: il presunto reato di una persona qualunque intrappolata
in un contesto criminale. È vero che Marion Crane ruba quarantamila
dollari, tuttavia secondo Hitchcock la donna incarna il modello di

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un’innocente. La vediamo per la prima volta un venerdì pomeriggio in una
stanza trasandata di un hotel con Sam, il suo fidanzato, il quale le spiega
di non poterla sposare a causa dei debiti e della sua ex moglie: per questo
motivo, Marion e Sam sono costretti a incontrarsi di nascosto, in orari
sconvenienti per entrambi. Ma quando Tom Cassidy, un cliente
dell’agenzia Lowery, le consegna quarantamila dollari insinuando che, con
quella somma, potrebbe comprarsi la stessa Marion la donna non ci pensa
due volte e, anziché depositare in banca il denaro, scappa da Phoenix per
raggiungere Sam a Fairvale, in California. Quindi il movente di Marion è
l’amore per Sam e la sua vittima è una persona sgradevole.

Durante il viaggio, Hitchcock inserisce un altro tema tipico, un marchio


di fabbrica del cinema hitchcockiano: l’ostilità verso la polizia.

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Marion, stanca di guidare, accosta l’auto e si addormenta. Un poliziotto
(Mort Mills) la sveglia e le pone delle domande riguardo al suo viaggio e al
perché si trova in quella zona. Marion risponde lasciando trapelare
insicurezza e preoccupazione, tuttavia il poliziotto la lascia andare. Più
tardi la donna decide di vendere la sua auto e comprarne un'altra usata,
targata California, ma si accorge che dall’altra parte della strada c’è lo
stesso poliziotto, appoggiato alla sua auto, con le braccia conserte e lo
sguardo fisso su di lei. Tuttavia, così com’è iniziato, l’inseguimento del
poliziotto giunge alla conclusione. Questa è una particolarità di Hitchcock:
ogni volta che lo spettatore crede di aver individuato un particolare
importante per lo svolgimento della storia capisce poi di essere stato
fuorviato dal regista, che volontariamente ha inserito dei particolari senza
importanza, capaci di distogliere l’attenzione del pubblico dal fatto
principale (accade lo stesso all’inizio del film, quando il regista mostra
Marion e Sam nella stanza dell’hotel: l’inizio “erotico” di Psycho ha il chiaro
scopo di portare il pubblico fuori strada, per poi sorprenderlo in seguito).

«I noticed that throughout the whole picture you tried to


throw out red herrings to the viewers, and it occurred to me
that the reason for that erotic opening was to mislead them
again». (François Truffaut)

Spaventata, stanca e forse pentita per il furto, Marion arriva a pochi


chilometri da Fairvale quando un violento temporale si abbatte sulla zona.
La donna è costretta a passare la notte al motel più vicino, il Bates motel.
Qui inizia il suo breve e fatidico rapporto con Norman, il proprietario, e
anche qui, Hitchcock sembra far capire al pubblico che Marion e Norman
saranno i protagonisti del film.

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I due iniziano una lunga conversazione nella sala di ricevimento del
motel, sovrastati da uccelli imbalsamati che sembrano sul punto di
piombare sulle loro teste e catturarli come se fossero le loro prede.
Marion, che un attimo prima aveva sentito Norman discutere con una
donna anziana, consiglia all’uomo di evadere dal motel e costruirsi una
vita propria, lontano dalla madre padrona. Marion si dimostra così
affettuosa e gentile con Norman che egli si sente minacciato dai
sentimenti che inizia a provare per lei. Ecco perché sente il bisogno di
ucciderla.

Quando Norman spia Marion attraverso un buco nel muro, Hitchcock


sostiene che il pubblico abbia visto in lui un comportamento da guardone,
già anticipato all’inizio del film, come osserva giustamente Truffaut,
quando Marion si trova seminuda sul letto con il fidanzato. Il pubblico non
immagina neanche che il film abbia in serbo un cruento omicidio.

«(…) The sex angle was raised so that later on the audience

would think that Anthony Perkins is merely a voyeur. If I’m

not mistaken, out of your fifty works, this is the only one

film showing a woman in brassière». (François Truffaut)

Osservando la famosa scena della doccia oggi, molti sono gli elementi
che spiccano. Innanzitutto, diversamente dai moderni film horror, Psycho
non mostra mai il coltello che entra nella carne; il sangue c’è, anche se
non è molto; Hitchocock ha girato il film in bianco e nero perché secondo
lui il pubblico non avrebbe sopportato la visione di così tanto sangue nel
suo colore reale (anche se il remake di Gus Van Sant del 1998 ripudia
questa teoria). In particolare, le note taglienti della colonna sonora di

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Bernard Herrmann sostituiscono visioni raccapriccianti. La scena finale è
simbolica: il sangue e l’acqua scendono nello scarico e la telecamera
riprende il tutto in primo piano, creando un’immagine che ha la stessa
grandezza dell’occhio immobile di Marion. Questa è una delle scene più
efficaci della storia del cinema, in cui l’arte e la maestria contano di più dei
dettagli grafici.

Anthony Perkins interpreta il carattere complesso e inquietante di


Norman con una performance che rappresenta una pietra miliare nella
storia del cinema. Perkins ci mostra come ci sia qualcosa di
fondamentalmente sbagliato in Norman, anche se sotto certi aspetti risulta
un personaggio modesto, ingenuo e, dunque, piacevole. Ma quando la
conversazione si sposta sulla sua vita, Norman comincia a balbettare e
cerca in ogni modo di evadere, conquistando anche la simpatia di Marion.

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La morte dell’eroina è seguita dal lavoro meticoloso di Norman per
cercare di eliminare ogni traccia del delitto. Hitchcock continua a sostituire
i protagonisti; Marion è morta tuttavia noi, in modo totalmente inconscio,
cominciamo a identificarci con Norman, non perché apprezziamo il gesto
omicida, ma perché, in una simile situazione, verremmo assaliti anche noi
dalla paura. La sequenza si conclude con la scena capolavoro di Bates che
spinge l’auto di Marion (nel cui baule Norman aveva nascosto il suo
cadavere) in una palude. L’auto affonda, ma a un certo punto si ferma:
Norman osserva la scena molto attentamente, fino a quando l’auto
scompare del tutto sommersa dal fango.

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Se analizzassimo le nostre emozioni in quel momento preciso del film, ci
renderemmo conto che noi vorremmo davvero che quella macchina
affondasse, così come lo vuole Norman.

«(…) When Perkins is looking at the car sinking in the pond,

even though he’s burying a body, when the car stops sinking

for a moment, the public is thinking, “I hope it goes all the

way down!” It’s a natural instinct». (Alfred Hitchcock)

Prima dell’arrivo al motel di Sam Loomis e Lila Crane (Vera Miles),


Psycho ha un nuovo protagonista: Norman Bates, una delle più audaci
sostituzioni di personaggi della lunga carriera di Hitchcock, guidatore e
manipolatore del suo pubblico. Il resto del film è un efficace melodramma,
caratterizzato da due momenti traumatici: l’assassinio di Arbogast, ripreso
con la telecamera che segue la sua caduta dalle scale, e il segreto della
madre di Norman.

«[…] I used a single shot of Arbogast coming up the stairs,

and when he got to the top steps, I deliberately placed the

camera very high for two reasons. The first was so that I

could shoot down on top of the mother, because if I’d shown

her back, it might have looked as if I was deliberately

concealing her face and the audience would have been leery.

I used that high angle in order not to give the impression

that I was trying to avoid showing her. But the main reason

for raising the camera so high was to get the contrast

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between the long shot and the close-up of the big head as

the knife came down at him». (Alfred Hitchcock)

Ciò che rende Psycho immortale, al contrario di molti film horror che
presto vengono dimenticati, è il legame diretto con le nostre paure: la
paura di commettere un crimine in modo impulsivo, la paura della polizia,
la paura di diventare vittima di uno psicopatico e, naturalmente, quella di
deludere nostra madre.

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ANALISI DEI PERSONAGGI PRINCIPALI

NORMAN BATES: è il proprietario del motel, un uomo


solitario e inquietante. Norman instaurò con la madre un
rapporto viscerale e morboso. La madre era stata abbandonata
dal marito quando Norman era ancora bambino, motivo per il
quale la donna inizierà a sviluppare un odio profondo nei
confronti di tutto il genere maschile, nel quale era compreso,
naturalmente, anche il figlio. La madre impedì a Norman di
ragionare da solo, di vivere la sua vita quando diventò un
adolescente, di lasciare la casa natale e costruirsi una vita come
tutti i suoi coetanei. Gli impedì, quindi, di crescere, in tutti i
sensi. Per lei, Norman era un ragazzo stupido, un bamboccio
che non era in grado di ragionare da solo e dipendeva solo da
sua madre. Norman iniziò a cambiare e ad avere gravi disturbi

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della personalità quando nella sua vita subentrò Joe Considine,
un uomo affascinante di circa quarant’anni che cominciò a
corteggiare la madre. L’uomo le propose di vendere la casa e
con i soldi ricavati avrebbero costruito un motel. Norman non si
oppose all’idea, anzi, per i primi tre mesi lui e la madre
gestirono il motel insieme. I problemi nacquero quando la
madre disse a Norman che presto avrebbe sposato Joe
Considine. Fu così che Norman impazzì e decise di avvelenare la
coppia usando del veleno per topi. Norman divenne instabile di
mente, per questo motivo passò un periodo in ospedale; in
seguito, non riuscendo a sopportare la perdita della madre,
decise di profanare la sua tomba e, mettendo in pratica le sue
profonde conoscenze sulla tassidermia, la imbalsamò. Allo
stesso tempo, Norman assunse una personalità multipla
caratterizzata da almeno tre sfaccettature: Norman, il
ragazzino che aveva sempre bisogno della madre e che odiava
tutto ciò che si interponeva fra lui e lei; Norma, la madre, la
persona a cui non era permesso si morire; infine, il terzo
aspetto, che si potrebbe chiamare Normal, l’adulto Norman
Bates, che affronta la routine quotidiana e cerca di nascondere
l’esistenza delle altre due personalità.

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MARION CRANE: fidanzata di Sam Loomis, lavora presso
l’agenzia immobiliare Lowery di Phoenix. È una ragazza
innamorata il cui desiderio più grande è quello di sposare il più
presto possibile Sam e per questo è disposta a tutto. Anche a
rubare quarantamila dollari e a fuggire da Phoenix per
raggiungere il suo fidanzato a Fairvale, in California. Marion
fugge in automobile e viene anche fermata da un poliziotto, con
il quale di mostra preoccupata e ansiosa. Giunta al motel,
instaura una relazione amichevole con Norman, per il quale
prova simpatia e forse compassione; spinta da un istinto quasi
materno, Marion cerca di dare qualche consiglio a Norman

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riguardo sua madre, spiegandogli che è importante che lui
faccia le sue scelte e viva la sua vita indipendentemente da lei.
Tutto questo fa scattare in Norman una grande rabbia: nessuno
si può permettere di giudicare sua madre. Giunta nella sua
camera, Marion ripensa a ciò che ha fatto e si pente: l’indomani
mattina avrebbe parlato con la sorella, Lila, e avrebbe
riconsegnato i soldi. Ma i piani di Norman erano diversi…

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IL GENIO DI HITCHCOCK E LE APPARIZIONI NEI
FILM

«Era stato un uomo timido che nella vita aveva finto per intimidire, un
uomo che si era esercitato fin dall'adolescenza a controllare la situazione».
Così François Truffaut definisce Alfred Hitchcock nel libro a lui dedicato dal
titolo Il cinema secondo Hitchcock.

A ventinove anni dalla scomparsa di uno dei maggiori cineasti di


sempre, cerchiamo di rispondere a uno dei più singolari interrogativi che i
critici di tutto il mondo si sono posti a proposito del gusto del regista di
apparire in brevi cammei all'inizio dei suoi film.

La prima apparizione risale al 1926, all'interno di The Lodger - A Story


Of London Fog, giunto in Italia con il titolo L'inquilino, in cui era necessaria
una figura che riempisse lo schermo. Con il tempo la cosa divenne per lui
una simpatica abitudine -o forse scaramanzia- fino al punto di usarla per
tenere da subito il pubblico incollato alla poltrona.

Come non riconoscerlo, quindi, nella fotografia all'interno


dell'appartamento in cui si svolge per intero l'azione di Dial M for Murder
(Delitto Perfetto, 1954), interpretato da due attori del calibro di Ray
Milland e Grace Kelly? Come non scorgere il volto paffuto nel trafiletto di
un giornale sulla scialuppa di salvataggio che ospita i protagonisti di
Lifeboat (I prigionieri dell'oceano, 1943)?

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Dalla pellicola Rebecca (id., 1940) in poi il vezzo, o quel che fosse,
divenne irrinunciabile. E così lo intravediamo in una stazione in The
Paradine Case (Il caso Paradine, 1947) oppure mentre attraversa la strada
in Suspicion (Il sospetto, 1941) o ancora con una gabbia di uccelli sulle
ginocchia mentre è seduto di fianco a Cary Grant su un mezzo pubblico in
To catch a Thief (Caccia al ladro, 1955).

Il perché di ciò è in quelle poche righe, poste all'inizio di questo testo,


che Truffaut ha dedicato al regista inglese nel suo libro. In esso il cineasta
francese ripercorre tutte le vicende che hanno fatto di Alfred Hitchcock il
maestro indiscusso del giallo e spiega al lettore che l'unico modo per un
ex adolescente di sconfiggere la timidezza è quello di usare la volontà di
stupire, sia mediante il ricorso ai cammei, sia attraverso l'uso magistrale di
quell’elemento imprevedibile, indefinibile e spesso subdolo, che si chiama
suspense.

La suspense non è solo sospensione del fiato né solo incertezza per la


sorte del protagonista, ma è anche e soprattutto un’ansia tremenda,
veloce e palpitante. Tiene con il fiato sospeso, induce un riso nervoso, fa
lacrimare, fa sudare le mani e si fa timore incontrollato che tutto sta per
andare a finire male per il protagonista. Hitchcock in ciò fu un vero
maestro. Non importa che la sceneggiatura risultasse scarna e neppure
che, per precedere una scena di grande paura, venisse introdotto un
elemento di contorno -si pensi al denaro di cui si impossessa la

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protagonista di Psycho (Psyco, 1960), che serve al regista per condurla
fino al motel in cui verrà uccisa, non alla fine e neppure a metà film, ma
addirittura all'inizio.

La suspense, ben distinta dalla sorpresa tipica del genere horror, è


ottenuta grazie a un distacco tra ciò di cui è a conoscenza lo spettatore e
ciò di cui è a conoscenza il personaggio sulla scena. Lo spettatore, quindi,
si trova in uno stato di attesa e di ansia, spesso rafforzata da temi musicali
accentuati, giochi di luci e ombre.

Mentre nel cinema horror l’effetto sorpresa consiste nel fare apparire
improvvisamente qualcosa o qualcuno che lo spettatore non si aspetta, nei
film di Hitchcock le sensazioni di ansia e paura provate dal pubblico sono
commisurate al grado di consapevolezza o di incoscienza del pericolo che
grava sul personaggio. Un esempio tipico di suspense è presente nel film
Rear Window (La Finestra sul Cortile, 1954), in cui solo chi guarda il film
può vedere il vicino di casa sospetto uscire di notte con una donna,
mentre Jeff in quel momento sta dormendo. Lo stesso avviene in Psycho
(Psyco, 1960); mentre Arbogast sale le scale della casa di Norman, lo
spettatore vede la porta aprirsi, riuscendo quasi a prevedere l’omicidio del
detective.

Un’altra importante caratteristica del cinema hitchcockiano è il


MacGuffin. Si tratta di artificio introdotto nello svolgimento della trama del
film di scarsa rilevanza per il significato della storia in sé, ma che risulta
necessario per sviluppare alcuni punti fondamentali della storia. È un
concetto peculiare nel cinema di Hitchcock, che il regista ha descritto in
una piccola storiella riportata all’interno del libro-intervista Il Cinema
secondo Hitchcock:

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Due viaggiatori si trovano in un treno in Inghilterra. L’uno dice
all’altro:
«Mi scusi signore, che cos’è quel bizzarro pacchetto che ha
messo sul portabagagli?».
«Beh, è un MacGuffin».
«E cos’è un MacGuffin?».
«È un marchingegno che serve a catturare i leoni sulle
montagne scozzesi».
«Ma sulle montagne scozzesi non ci sono leoni!».
«Allora non esiste neppure il MacGuffin!».

Dato che i film sono uno spettacolo di per sé e non una copia conforme
e verosimile della realtà, Hitchcock decise di servirsi di questo espediente
per manipolare lo spettatore e per fare sì che si immedesimasse nella
stessa paura provata dall’eroe/eroina del film.

Il MacGuffin, vale a dire una scappatoia, un trucco, un espediente,


come lo definisce il regista, è dunque un elemento della storia che non ha
grande importanza per lo sviluppo della trama del film.

In particolare, in Psycho il MacGuffin è rappresentato dal denaro


sottratto da Marion al suo datore di lavoro all’inizio del film. L’episodio
rappresenta un pretesto narrativo per condurre Marion al motel di Norman
Bates. L’omicidio della donna non risulta legato alla somma di denaro,
anzi, quando Norman decide di pulire il bagno ed eliminare ogni traccia
della donna e le macchie di sangue dalla camera, non è nemmeno a
conoscenza dell’esistenza dei quarantamila dollari.

Ogni minimo dettaglio doveva essere sacrificato a quello stato di apnea


del cuore che gli ha fatto guadagnare il titolo di maestro del brivido. In ciò
il regista si discostò non poco da quel modo classico di fare cinema, nato

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negli Stati Uniti, che sottostava alla regola in base alla quale al centro
della storia narrata doveva esserci sempre lo spettatore, senza
trasgressioni o colpi di scena.

Cineasti come Wilhelm Murnau in Europa e Orson Welles o lo stesso


Hitchcock in America, fecero quindi scuola in quanto autori trasgressivi e
originali che si discostarono ben presto da una tradizione nata all'epoca
del muto. Viene in mente, a tal proposito, l'uso che il regista fece, in Rope
(Il Nodo alla Gola, 1948) della tecnica del piano sequenza, in cui l'obiettivo
della macchina da presa segue di continuo i personaggi senza stacchi.
Alfred Hitchcock diceva che «la tecnica deve arricchire l'azione». Non
importa se a soffrirne è il canovaccio su cui si snoda la storia e non
importa se il continuum si sgretola. Tutto ciò che può contribuire a
rendere lo spettatore sempre più attaccato alla vicenda è ben accetto.

E la memoria va infine al ricorso frequente che il regista fece di attrici e


attori minori scelti proprio in quanto dotati di visi particolari, capaci di
imprimersi nella mente con facilità. Come non ricordare infatti il ghigno
sadico del killer che, al momento della nota più potente suonata durante
un concerto di musica classica, sta per sparare un colpo di pistola nel film
The Man who knew too much (L'uomo che sapeva troppo, 1934)?

Il genio sta tutto in pochi e semplici accorgimenti che hanno reso le


pellicole di Alfred Hitchcock dei capolavori ineguagliabili.

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TRADURRE PER IL CINEMA

La traduzione per il cinema può assumere diverse modalità che vanno


dal doppiaggio/adattamento dei dialoghi, al sottotitolaggio, alla voice over,
alla traduzione simultanea. In Italia la maggior parte dei prodotti
audiovisivi viene doppiata, mentre il sottotitolaggio, e talvolta anche la
traduzione simultanea, sono per lo più riservati alle prime visioni
presentate ai festival del cinema o a programmi specializzati. La voice over
è una pratica usata principalmente per i documentari, o per la traduzione
delle interviste e dei collegamenti con cronisti stranieri dei notiziari
televisivi.

Il linguaggio cinematografico si basa sull’interrelazione fra diversi codici,


quello visivo, quello verbale e quello sonoro: intervenire, come si fa con il
doppiaggio, su una componente di questo prodotto multimediale
complesso innesca una catena di “effetti collaterali” di cui si deve tener
conto. Il doppiaggio implica una traduzione totale, in quanto si devono
affrontare non solo i valori semantici e pragmatici delle battute, ma anche
quelli fonologici, come l’intonazione, la lunghezza delle parole, la prosodia
e il sincronismo labiale. Tuttavia, come sostiene Maria Pavesi, «il
doppiaggio andrebbe definito non tanto come traduzione totale, quanto
traduzione vincolata, proprio per la sua schiavitù nei confronti di codici
non verbali predeterminati […]» (M. Pavesi 1994).

Questa traduzione vincolata per il cinema, chiamata anche traduzione


multimediale, induce a una riflessione sull’atto del tradurre in genere, in
quanto evidenzia problemi che sono tipici del passaggio di testi e prodotti
da un sistema linguistico-culturale a un altro.

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CENNI STORICI

I seguaci del regista Jean Renoir, che nel 1939 si era opposto con
fermezza alla tecnica del doppiaggio e all’assurdità di far parlare in italiano
le attrici e gli attori stranieri, non tengono conto del fatto che la traduzione
è alla base del linguaggio cinematografico fin dalle origini e prima ancora
del passaggio dal muto al sonoro, quando si pose il problema di come
mantenere e favorire la circolazioni dei film su scala internazionale.
L’interrelazione fra il codice verbale e quello visivo implica, infatti, che il
dialogo sia tradotto in immagine e viceversa.

Quando si parla di doppiaggio, non ci si riferisce solo al passaggio da


una lingua all’altra, ma anche alla post-sincronizzazione, vale a dire a quel
che avviene quando un attore doppia se stesso in sala di registrazione
dopo che il film è stato girato, a meno che non si tratti di un film in presa
diretta; oppure al procedimento per cui un attore o un’attrice incapaci di
recitare o con una voce non adatta al ruolo vengono doppiati da un
professionista.

Non c’è da stupirsi se allora le grandi case produttrici non esitarono ad


adottare il doppiaggio quando il mito dell’universalità del linguaggio del
cinema cadde con l’introduzione del sonoro e si pose il problema di poter
continuare a distribuire i film di Hollywood sul mercato internazionale. In
un primo momento si ricorse ai sottotitoli, ma essi furono presto sostituiti
dal doppiaggio per timore che le parole scritte allontanassero dalle sale i
lettori lenti o addirittura analfabeti.

Va anche ricordato che in Italia, tra la fine del 1929 e l’inizio del 1931, a
causa di una legge fascista che vietava l’uso delle parole straniere, quindi
anche di quelle che venivano dallo schermo, si verificò una sorta di
controrivoluzione per cui i primi film sonori vennero ammutoliti di nuovo e

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proiettati con qualche didascalia e con l’accompagnamento delle
orchestrine da sala, tipiche dei film muti.

LE FASI DEL DOPPIAGGIO

Il doppiaggio è un processo che si articola in varie fasi. La prima


consiste nella traduzione della lista dialoghi, una specie di canovaccio
che consenta di capire le battute originali che poi verranno adattate,
tenendo presenti i movimenti delle labbra, lo spazio-tempo delle battute
e soprattutto la sincronia espressiva, oltre a quella labiale (lip-sync). Chi
traduce il copione originale è spesso una figura diversa dal dialoghista,
che, nella maggior parte dei casi, non conosce la lingua di partenza.

Condizione fondamentale per un buon doppiaggio è che il


dialoghista-adattatore abbia una buona padronanza della lingua
d’arrivo, che adatterà ai vincoli posti dal codice visivo e sonoro. I
dialoghi adattati saranno poi recitati dagli attori-doppiatori in sala di
doppiaggio sotto la guida del direttore di doppiaggio. La banda con la
registrazione dei dialoghi è infine affidata al tecnico del suono che in
fase di missaggio ricostruisce la nuova colonna sonora, adattando la
musica e i rumori alla mutata sostanza sonora dei dialoghi doppiati.

Il problema del sincronismo labiale (creare battute che coincidano


con il movimento delle labbra degli attori originali) non è l’aspetto più
ostico, anche se quello più noto. Ci sono alcune convenzioni largamente
praticate, come la resa dell’inglese «I mean» con «insomma», ma il più
delle volte il dialoghista deve essere creativo, anche a scapito di una
resa semantica fedele. Il problema principale è piuttosto il sincronismo

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espressivo, vale a dire far coincidere il momento cruciale della battuta
con il gesto e la mimica facciale.

Nel doppiaggio diventa così essenziale la traduzione per il pubblico


d’arrivo, il processo detto target-oriented, una strategia che privilegia
scorrevolezza, accettabilità e adattamento alle norme della cultura
d’arrivo, anche a scapito della fedeltà al testo di partenza. Nella
terminologia corrente dei translation studies, una traduzione può essere
source-oriented (orientata al testo di partenza) o target-oriented. Un
atteggiamento source-oriented implica una scelta di straniamento
(foreignization) del testo tradotto che mantiene le caratteristiche della
cultura originaria, e così arricchisce la cultura d’arrivo, in quanto è
portatore di innovazioni stilistiche. Nel secondo caso, il traduttore si
rende invisibile, mettendo in atto un processo di addomesticamento
(domestication) del testo che viene completamente adattato alle
convenzioni della cultura d’arrivo, perdendo così la sua forza innovativa.

PRINCIPALI AREE PROBLEMATICHE


Fra i problemi che il traduttore per il cinema deve affrontare, oltre al
sincronismo labiale ed espressivo, esistono alcune aree problematiche
che dipendono da diversi fattori:

 scarsa conoscenza della lingua di partenza;


 formule fisse e/o convenzionali, appellativi, titoli
professionali;
 riferimenti culturali, accenti, registri e varietà dell’inglese;
 umorismo, giochi di parole e plurilinguismo.

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SCARSA CONOSCENZA DELLA LINGUA DI PARTENZA

Quello che infastidisce di più in certi doppiaggi è la presenza del


testo di partenza che traspare da rese linguistiche affrettate.

In una recente ritrasmissione del film “Crocodile” Dundee (Peer


Fairman, Australia, 1986, Mr. Crocodile Dundee), l’ascoltatore attento
poteva notare un clamoroso errore dovuto a scarsa conoscenza della
lingua inglese in una scena in cui la protagonista femminile, una
giornalista americana, si reca nella foresta sotto la guida del cacciatore
Crocodile Dundee. La macchina da presa inquadra una natura selvaggia
e si sente la protagonista esclamare «che bella campagna!», derivato
certamente da un originale «what a nice country!». Anche il traduttore
più distratto avrebbe notato che nulla c’era di campestre e rurale nelle
immagini e avrebbe potuto consultare un dizionario per scoprire che
country significa anche paese/nazione e che quindi la resa doveva
essere «che bel paesaggio!». Ma questo è un film di quindici anni fa e
oggi certi errori sono meno frequenti.

FORMULE FISSE E/O CONVENZIONALI, APPELLATIVI,


TITOLI PROFESSIONALI

Certe formule fisse, come i saluti, le forme di cortesia, le interiezioni di


assenso o di dissenso sono entrate a far parte della lingua del
doppiaggio. Essa ci ha abituato ad accettare come naturali una serie di
espressioni come «ok», «Vostro Onore», rivolto ai giudici in tribunale,
«obiezione accolta» e «obiezione respinta» (objection sustained,

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objection overruled), formule che non esistono nel nostro sistema
giuridico.

Si tratta di mancati adattamenti alla cultura d’arrivo, come quando si


rende la formula «May I help you?» detta in un negozio, con il letterale
«Posso aiutarla?» invece del più appropriato, se pur fuori moda, «Cosa
desidera?», o il più formale «In che cosa posso servirla?».

Rendere le formule fisse con calchi letterali dall’inglese corrisponde a


quello che nei translation studies si chiamerebbe atteggiamento source-
oriented, o foreignization (di straniamento), nel senso che si è adottata
una strategia traduttiva che preserva e importa la cultura d’origine.

RIFERIMENTI CULTURALI, ACCENTI, REGISTRI E


VARIETÀ DELL’INGLESE

L’atteggiamento più diffuso nella resa di riferimenti culturali specifici,


che sarebbero incomprensibili a un pubblico italiano, è di adattamento
alla cultura d’arrivo.

Fra i riferimenti culturali sono da includere i toponimi, le unità di


misura, i cibi e le bevande, i giochi e le istituzioni, per citare solo alcune
aree. Qui si assiste a un’evoluzione delle tecniche di trasposizione
rispetto agli anni Cinquanta e Sessanta, quando l’invasione della cultura
americana era meno massiccia e l’hamburger poteva diventare
un’improbabile pizza. Se nel doppiaggio degli anni Cinquanta peanut
butter diventava «formaggio e salame», come nella versione italiana di

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Some like it Hot (A Qualcuno piace caldo, di Billy Wilder, 1959), oggi gli
hot-dogs, i Kelloggs, i MacDonald, i Burger King, lo scotch e così via
rimangono per lo più inalterati.

UMORISMO, GIOCHI DI PAROLE E PLURILINGUISMO

Per quanto irta di insidie sia la resa dell’umorismo e dei giochi di


parole, la storia del doppiaggio ci mostra come anche i casi più difficili
possano trovare soluzioni adeguate e talvolta geniali.

A proposito della traduzione dei giochi di parole, un capolavoro di


comicità come Young Frankenstein (Frankenstein Junior di Mel Brooks,
1974), mantiene la sua forza umoristica grazie alla bravura di Mario
Maldesi, il dialoghista-adattatore e direttore di doppiaggio di tutti i film
di Stanley Kubrick. È famosa la scena iniziale in cui il giovane Dr
Frankenstein, interpretato da Gene Wilder, arriva in Transilvania e
incontra alla stazione il gobbo Igor (Marty Feldman). Questi lo porta al
castello in un carro su cui lo accoglie la provocante assistente Inge (Teri
Garr), sdraiata sul fieno. Il dialogo che segue è un susseguirsi di gag e
giochi di parole:

Dr F.: I’m sure we’ll get along splendidly. (puts his hand on
Igor’s hump) Oh sorry. I…you know, I don’t mean to embarrass
you, but I’m a rather brilliant surgeon. Perhaps I could help you
with that hump.

Igor: What hump?

Dr F. Let’s go!

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Igor: Allow me, master.

Dr. F.: Oh, thank you very much!

Igor: Walk this way. …This way…I think you’ll be more


comfortable in the rear.

Voice: Augh!

Dr F.: What was that?

Igor: Oh, that will be Inge. Herr Frankenstein thought you


might need a laboratory assistant, temporarily.

Dr. F.: Oh!

Inge: Oh, hello. Would you like to have a roll in the hay?
(sings) All roll…

[thunder]

Inge: Oh, sometimes I’m afraid of the lightening!

Dr F.: Just an atmospheric discharge. Nothing to be afraid of.

[howling sound]

Inge: Werewolf!

Dr F.: Werewolf?

Igor: There!

Dr F.: What?

Igor: There wolf, there castle.

Dr F.: Why are you talking that way?

Igor: I thought you wanted to.

Dr F.: No, I don’t want to.

Igor: Please yourself. I’m easy…Well, there it is. Home.

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Dr. F.: Naturalmente, naturalmente. Sono certo che andremo
molto d’accordo…Scusa. Non volevo metterti in imbarazzo, ma
sono un chirurgo di una certa bravura. Potrei aiutarti con quella
gobba.

Igor: Quale gobba?

Dr. F.: Si va?

Igor: Lasci fare a me, padrone. [Igor fa il gesto di prendere


la grossa valigia]

Dr F.: Oh, grazie infinite! [Igor prende la valigia più piccola,


mentre il dottor Frankenstein è costretto ad arrancargli dietro
con la valigia grande]

Igor: Segua i miei passi…Si aiuti con questo…Penso che starà


più comodo se sale dietro.

Voce: Ahi!

Dr F.: Cos’è stato?

Igor: Oh, è certamente Inge. Herr Rosenthal ha detto che lei


avrebbe avuto bisogno di una assistente di laboratorio.

Dr. F.: Oh!

Inge: Oh, lei vuole venire il giro con me? Prego di montare
subito, io intanto aspettare…(canta) Dai, dai, vieni con me…

[tuono]

Inge: Certe volte io molta paura dei lampi!

Dr F.: È una scarica atmosferica, nient’altro…Niente di cui


impaurirsi.

[ululato]

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Inge: Lupo ulula!

Dr F.: ……

Igor: Là!

Dr F.: Cosa ?

Igor: Lupo ululà e castello ululì.

Dr F.: Ma come diavolo parli!

Igor: È lei che ha cominciato.

Dr F.: No, non è vero.

Igor: Non insisto, è lei il padrone…Ecco ululà. Casa.

A parte la sostituzione di Herr Frankenstein con Herr Rosenthal, di


cui non si vede la ragione, è necessario sottolineare la difficoltà di
rendere l’ambiguità di «walk this way», detto da Igor, allo scopo non
tanto di indicare la strada, quanto di prendere il giro il Dottor
Frankenstein. L’immagine mostra il gobbo che si avvia per una scala e
lo spettatore, come lo sprovveduto Gene Wilder, intende la battuta nel
senso di «venga da questa parte»; ma che fare quando Igor ripete
«this way» porgendo il suo bastone all’interlocutore? Qui l’espressione
cambia senso e «walk this way» viene a significare «cammini in questo
modo», cioè un invito a imitare la camminata zoppicante di Igor. Gene
Wilder cade nella trappola e scende le scale zoppicando. La soluzione
trovata, con l’aggiunta di «si aiuti con questo» (possibile perché la
bocca di Igor che porge il bastone al Dottor Frankenstein non è in
primo piano) è davvero buona.

L’ambiguità di «would you like to have a roll in the hay?» è un altro


esempio di doppiaggio abbastanza riuscito. Inge sta letteralmente

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rotolandosi nel fieno con fare provocante nel carro su cui deve salire lo
stupito Dottor Frankenstein. «To have a roll in the hay» è un
eufemismo per dire «fare l’amore». Quello che si perde nella prima
parte della battuta («Oh, lei venire in giro con me?») viene in parte
recuperato dall’ambiguità del verbo «montare» («Prego di montare
subito») e dalle parole, anch’esse ambigue, inventate per la canzone
(«dai…dai, vieni con me»).

Dunque, non esistono traduzioni impossibili, nonostante i vincoli


imposti dall’immagine e dal suono. Si tratta di ostacoli che si possono
superare, sia pure con delle perdite. In ogni caso, tali perdite sono
certamente inferiori a quelle imposte dal sottotitolaggio, che costringe a
sintetizzare al massimo e che sottrae tempo alla visione. I sottotitoli
dovrebbero essere accettabili come fase propedeutica alla fruizione del
film in lingua originale, a condizione che se ne conosca la lingua. Nei
casi in cui la lingua originale del film sia totalmente sconosciuta, un
buon doppiaggio resta la soluzione migliore.

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ANALISI NARRATOLOGICA DELL’OPERA

Robert Bloch, Psycho, 1959

Secondo la classificazione del critico letterario Gérard Genette, il


romanzo è caratterizzato dalla presenza di un narratore etero-
intradiegetico, vale a dire onnisciente. Si tratta, dunque, di un personaggio
esterno alla storia che analizza gli eventi dall’interno e che conosce alla
perfezione tutti i fatti, talvolta anche meglio dei personaggi stessi.

Il narratore di Psycho descrive in modo dettagliato e minuzioso tutti i


pensieri dei personaggi, indagando in modo approfondito nella loro psiche.
Questo avviene in modo particolare per Norman e Mary, i cui pensieri e le
cui emozioni sono espressi attraverso l’uso del corsivo, come se il
narratore volesse analizzare la loro coscienza e i loro sentimenti più
nascosti che i personaggi stessi cercano di reprimere. Per esempio, ciò
avviene all’inizio del romanzo, quando Norman lascia parlare la sua
coscienza, facendo in questo modo capire ai lettori che, nonostante il
legame forte, desideri la morte della madre con tutto se stesso per potersi
finalmente emancipare:

«She’s an old woman, and not quite right in the head. If you keep on listening to her
this way, you’ll end up not quite right in the head either. Tell her to go back to her
room and lie down. That’s where she belongs. And she’s better go there fast,
because if she doesn’t, this time you’re going to strangle her with her own Silver
Cord…».

Oppure quando Mary riflette sul furto dei quarantamila dollari:

«Get a grip on yourself, now. You can’t afford to be panicky. The worst part of it is
over».

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Si tratta quindi di un narratore che si muove con disinvoltura nello
spazio e nel tempo, dotato di una grande capacità di introspezione.

Nel romanzo sono presenti due forme particolari di discorso diretto, vale
a dire il pensiero diretto libero e il flusso di coscienza. Si tratta di due
tecniche narrative che si sono diffuse nella narrativa moderna e
contemporanea e costituiscono una forma di rappresentazione del
pensiero del personaggio più adatta a esprimere l’accumularsi
imprevedibile e spesso caotico di pensieri e impressioni che caratterizzano
la vita psichica dell’individuo. Questo significa che nel romanzo vengono
inseriti alcuni pensieri senza che le virgolette o un verbo lo indichino al
lettore. Si parla di flusso di coscienza quando la rappresentazione del
pensiero del personaggio appare nella forma di trascrizione immediata del
libero fluire del pensiero, con associazioni impreviste, salti, omissioni e
accumulo di impressioni.

Per quanto riguarda il punto di vista, in Psycho la focalizzazione è


esterna, vale a dire che i fatti sono raccontati dall’esterno, ma con una
prospettiva calata negli eventi, ai quali si guarda in modo diretto. Spesso
questo punto di vista coincide con quello dei personaggi stessi.

Il titolo dell’opera è metaforico: si può comprendere il suo significato


soltanto proseguendo nella lettura del romanzo. Quando il lettore entra in
contatto con il romanzo senza conoscerne la storia, al primo impatto prova
inquietudine e capisce che la storia che si cela dietro la copertina sarà
raccapricciante.

Nel romanzo sono presenti sia mimesi (discorso diretto) sia diegesi
(discorso indiretto) ed entrambe le tipologie di discorso sono in equilibrio
tra loro. L’autore ha anche inserito descrizioni molto dettagliate dei luoghi

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e degli eventi, dimostrando una grande abilità e un particolare gusto per il
macabro. All’inizio del romanzo, ritengo molto efficace la descrizione del
salotto in cui Norman è solito passare le sue giornate, un luogo
caratterizzato da un ordine perfetto, maniacale e morboso contrapposto,
invece, all’esterno, al caos della città e all’aria aperta.

La sua casa rappresenta un luogo sicuro e familiare per il quale lui


prova un grande affetto. È il luogo in cui è cresciuto, in cui una
moltitudine di oggetti a lui familiari lo circondano, in particolare i suoi libri,
unico strumento che Norman ha a disposizione per evadere virtualmente e
viaggiare con la mente in posti remoti.

La vita a contatto con altre persone lo spaventa e Norman non può


pensare di trovarsi lontano dalla sua casa, dai suoi oggetti e dalle sue
abitudini. Il disordine costituisce una minaccia per Norman e per il suo
equilibrio interiore (se così, paradossalmente, si può chiamare):

«[…] Here everything was orderly and ordained; it was only there, outside, that the
changes took place. And most of those changes held a potential threat».

In particolare, mi hanno colpito molto le parole e le metafore che,


volutamente, sono state inserite dall’autore per fare riferimento alla morte
e a eventi che accadranno più avanti nella narrazione. Questi elementi
sono delle vere e proprie prolessi, delle anticipazioni che creano nel lettore
una sensazione di crescente ansia perché svelano, seppure implicitamente,
che accadrà qualcosa di terribile.

Un esempio di questo tipo lo troviamo proprio all’inizio del romanzo,


quando l’autore descrive la soddisfazione e il piacere che Norman prova
mentre legge il libro The Realm of the Incas, di Victor W. Von Hagen.
Durante la lettura l’uomo trova alcuni particolari molto interessanti dal suo

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punto di vista che riguardano l’antica tradizione inca di scuoiare i nemici e
trasformare il loro corpo in un tamburo, dopo averlo precedentemente
imbalsamato per preservarlo e conservarlo nel tempo:

«Norman smiled, then allowed himself the luxury of a comfortable shiver. Grotesque
but effective – it certainly must have been! Imagine flaying a man – alive, probably –
and stretching his belly to use it as a drum! How did they actually go about doing
that, curing and preserving the flesh of the corpse to prevent decay? For that matter,
what kind of a mentality did it take to conceive of such an idea in the first place?».

Questo suo interesse piuttosto macabro per la tassidermia ricorre più


volte nel romanzo. Per esempio, quando Norman e Mary mangiano
insieme nella cucina del motel (nel film cenano in salotto), i due
intraprendono una conversazione sul rapporto che l’uomo ha con la madre
e Mary capisce che si tratta di una presenza opprimente che incombe sulla
vita di Norman e che non gli permette di emanciparsi. L’uomo le spiega
quali sono gli hobby che gli piace coltivare e che rendono la sua vita meno
monotona, ed ecco che proprio in questo momento cita la tassidermia,
mostrandole uno scoiattolo imbalsamato su una mensola (vorrei
sottolineare come Hitchcock nel film abbia modificato questo passo del
libro, sostituendo lo scoiattolo con degli uccelli appesi al muro in una
posizione tale che sembra che stiano per piombare sulle teste dei due
protagonisti, trasformati abilmente in preda dal regista).

Un altro elemento di anticipazione, in particolare dell’omicidio, lo


troviamo nel momento in cui Mary, dopo la conversazione con Norman,
decide di andare a riposare in camera. Prima di andare a letto la donna
pensa all’abito che avrebbe indossato l’indomani per andare da Sam e
sistema la sua valigia, affermando «Nothing must be out of place».
Questo è un chiaro riferimento all’ordine maniacale di Norman e
all’attenzione con cui l’uomo pulisce la scena del delitto, facendo sparire
ogni traccia di sangue. La frase viene ripetuta una seconda volta, ma

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l’autore decide di riscriverla a capo utilizzando lo stile corsivo e in essa è
come se si scorgesse il punto di vista di Norman, come se si percepisse
all’improvviso la sua voce sovrapposta a quella di Mary. Senza contare poi
le continue ripetizioni dell’aggettivo crazy («I think perhaps all of us go a
little crazy at times»; «It had all seemed like a dream come true, and
that’s what it was. A dream. A crazy dream»), che si riferisce alla pazzia e
alla schizofrenia di Norman, nonché al titolo stesso del romanzo, Psycho.

Di grande importanza è anche il momento in cui Mary arriva al motel,


spegne il motore e inizia a riflettere sul furto, sentendosi terribilmente in
colpa. In quel momento i suoi pensieri vanno alla morte di sua madre e
alla solitudine in cui si trova. Mary ha sbagliato strada e ora si trova in una
zona sconosciuta, sola senza nessuno che la possa aiutare, e pensa al
letto del motel in cui dormirà come se fosse la sua tomba. Ovviamente
questo è un chiaro riferimento all’omicidio, come se la donna già
prevedesse ciò che succederà quella notte:

«She switched off the ignition and waited. […] And now the darkness was here,
rising all around Mary. She was alone in the dark. The money wouldn’t help her and
Sam wouldn’t help her, because she’d taken the wrong turn back there and she was
on a strange road. But no help for it – she’d made her grave and now she must lie
in it. Why did she think that? It wasn’t grave, it was bed».

Nel romanzo prevale la decisione dell’autore di raccontare la vicenda


secondo un ordine temporale più libero, passando dalla sfera di Norman
Bates a quella degli sfortunati visitatori del motel (intreccio), mentre
invece Hitchcock nel film preferisce raccontare la storia secondo una
classica continuità cronologica, quindi facendo prevalere la fabula.

Dal punto di vista semantico, nel romanzo sono presenti delle parole
che hanno un significato particolare. Innanzitutto, è necessario
sottolineare l’importanza della parola CASA, che ricorre in tutta la storia,

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luogo chiuso caratterizzato da un’atmosfera claustrofobica e opprimente.
La casa e i suoi oggetti, per i quali Norman prova un grande affetto, in
realtà sono per lui una prigione, ma l’uomo non è prigioniero solo di un
luogo fisico, ma soprattutto della sua mente, della sua schizofrenia e della
figura della madre creata dalla sua mente malata.

Un’altra parola importante nel testo è MADRE, l’unica persona che


Norman ama e cerca di proteggere in ogni modo e l’unica donna cui gli sia
permesso di dare il suo amore senza commettere peccato. Nel romanzo la
madre è onnipresente, Norman infatti non fa niente senza prima chiedere
il permesso a lei, proprio come fanno i bambini. Vorrei anche sottolineare
come all’inizio del testo Mother (l’autore sceglie di scrivere questa parola
con la lettera maiuscola per conferire al termine l’importanza di una
persona superiore alle altre e soprattutto a Norman) parla al figlio
chiamandolo «boy» e ripetendo la parola GUMPTION, altra parola chiave
dal punto di vista semantico.

«[…] Do I boy?» she repeated, even more softly. «I make you sick, eh? Well, I think
not. No, boy, I don’t make you sick. You make yourself sick. That’s the real reason
you’re still sitting over here on this side road, isn’t it, Norman? Because the truth is
that you haven’t any gumption. Never had any gumption, did you, boy? Never
had any gumption to leave home. Never had the gumption to go out and get
yourself a job, or join the army, or even find yourself a girl...».

Gumption significa coraggio, determinazione, volontà, ma per Norman


questa parola assume un valore del tutto particolare. Norman in fondo è
ancora un bambino che si sente indifeso e perso senza la madre, unica
figura femminile che la sua mente malata ammette nella sua vita. Ed è
proprio questa sua mancanza di determinazione che l’ha reso succube di
sua madre e prigioniero di una vita monotona che odia con tutto se
stesso. Norman infatti non ha mai amato il lavoro al motel, come non ha
mai amato stare a contatto con la gente. In una prigione senza via di
scampo, sia fisica, la sua casa, sia mentale, la sua mente, l’unica salvezza

63
per lui sono i libri. A questo proposito, ritengo opportuno citare alcune
parole della madre:

«You hate people. Because, really, you’re afraid of them, aren’t you? Always have
been, ever since you were a little tyke. Rather snuggle up in a chair under the lamp
and read. You did it thirty years ago, and you’re still doing it now. Hiding away under
the covers of a book».

Un’altro concetto interessante dal punto di vista semantico è la palude,


in inglese SWAMP. Dopo l’omicidio di Mary, dovendo far sparire le prove e
il corpus delicti, Norman decide di utilizzare la palude sul retro del motel
per occultare il cadavere e tutti gli oggetti personali della ragazza, nonché
i vestiti macchiati di sangue della madre assassina. La palude inghiotte
gradualmente l’auto di Mary facendo così sparire ogni traccia dell’omicidio,
mentre Norman attende impaziente, gustandosi la scena con un sorriso
abbozzato sul volto.

La palude ricorre un’altra volta nel romanzo, quando Norman si trova a


riflettere sull’accaduto e si chiede per quanto dovrà ancora proteggere la
madre assassina; in quel momento, si addormenta e sogna di vedere la

64
madre che sta per essere inghiottita dalla palude insieme al cadavere di
Mary. Norman si sente felice perché sa che lei meriterebbe quella fine, ma
all’improvviso la situazione si ribalta e ora è Norman che si trova
invischiato nel fango, mentre Mother lo osserva senza aiutarlo. Norman
allora si sveglia spaventato e scopre di avere la madre accanto a sé che lo
accarezza e lo protegge e pensa che, nonostante sia un’assassina, lei sia
l’unica persona che gli vuole veramente bene.

La narrazione è una forma di comunicazione che ha quindi un emittente


e un destinatario. Emittente è naturalmente l’autore reale, al quale
corrisponde, nel ruolo di destinatario, il lettore reale. I lettori reali sono
quelli che effettivamente leggono l’opera: il loro numero è potenzialmente
infinito, non ha limiti né di spazio né di tempo, ma è anche vero che
nessuno scrittore può ipotizzare caratteristiche e cultura del suo lettore
reale. In particolare, dopo la trasposizione cinematografica di Hitchcock, il
romanzo di Bloch ha riscosso un successo di pubblico ancora più grande
rispetto a prima.

Per lettore implicito si intende invece l’idea di pubblico che l’autore ha


nel momento della scrittura dell’opera. Egli si rivolge a un certo tipo di
pubblico, di cui ipotizza le competenze culturali, i gusti e magari anche gli
orientamenti ideologici. Bloch, in quanto autore di un thriller, ha orientato
le scelte di lingua e contenuto in modo da essere accessibile a un pubblico
il più possibile indifferenziato, che comprende lettori di limitata cultura, o
che comunque rendano fruibile il romanzo per una lettura disimpegnata.

Per quanto riguarda il livello sintattico, nel romanzo prevale uno stile
paratattico, vale a dire una forma basata sulla coordinazione fra enunciati.
Le frasi sono brevi e collegate fra loro da virgole, punti, punti e virgole e
due punti, tuttavia non è da sottovalutare l’uso frequente dei punti di
sospensione, usati abilmente da Bloch per creare attesa e ansia nel

65
lettore. Particolarmente interessante è l’uso dei punti di sospensione
proprio alla fine del romanzo, quando il punto di vista si sposta nella sfera
della madre rinchiusa in carcere, tecnica che permette di alimentare nei
lettori una sensazione di angoscia:

«If she sat there without moving, they wouldn’t punish her. If she sat there without
moving, they’d know that she was sane, sane, sane. She sat there for quite a long
time, and then a fly came buzzing through the bars. It lighted on her hand. If she
wanted to, she could reach out and swat the fly. But she didn’t swat it. She didn’t
swat it, and she hoped they were watching, because that proved what sort of a
person she really was. Why, she wouldn’t even harm a fly…».

L’uso delle congiunzioni, tipico dello stile ipotattico, è piuttosto limitato.


In questo modo l’autore velocizza il ritmo della storia e soddisfa il suo
desiderio di rendere il suo pubblico ansioso di andare avanti nella lettura.

Infine, per quanto riguarda la dominante del romanzo vorrei citare il


rapporto fra Norman e la madre, un rapporto morboso e oppressivo che
caratterizza tutta la storia. Questo rapporto, insieme alla figura distorta
della donna creata dalla mente di Norman, si riflette nel rapporto da lui
instaurato con Mary, che costituisce la sottodominante del romanzo. Al
contrario, il furto dei quarantamila dollari, cui Bloch non conferisce molta
importanza poiché preferisce incentrarsi sulla doppia personalità di
Norman, è un elemento che serve all’autore solo per analizzare Mary dal
punto di vista psicologico e condurla al motel dove troverà la morte.
Hitchcock per il suo film decide di riprendere l’elemento del furto e di
svilupparlo aggiungendo altri particolari (l’inseguimento dell’agente di
polizia, l’acquisto di un’altra macchina) in modo da farlo sembrare
l’elemento essenziale attorno al quale ruota la storia. Si tratta del celebre
artificio hitchcockiano che il regista ha soprannominato MacGuffin, un
elemento pressoché insignificante che però funge da pretesto per
sviluppare la trama.

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Metodo di analisi per una critica della traduzione

L’analisi e la critica della traduzione Einaudi avverrà sulla base di una


ricostruzione abduttiva: un percorso a ritroso, dunque, con cui si cercherà
di individuare la strategia traduttiva che, dal prototesto, ha dato come
risultato il metatesto. Si tratta di una critica della traduzione in cui il
raffronto non avviene soltanto tra metatesto e cultura ricevente bensì
tenendo conto anche della cultura in cui nasce il prototesto: diversamente,
la critica risulterebbe unidimensionale, poiché il punto di vista sarebbe
sbilanciato a favore di uno dei due poli della coppia traduttiva.

Tra le diverse congetture che scandiranno il lavoro di analisi si cercherà


di dedurre se nella strategia traduttiva abbia prevalso una traduzione
culturale o linguistica (Delabastita): nel primo caso, sarebbe stata
perseguita una strategia di «analogia culturale», ovvero di un enunciato
del prototesto si sarebbe fatto ricorso a un enunciato con lo stesso
significato culturale anche nella cultura ricevente (che, nella cultura
ricevente, avesse un significato culturale analogo): nel codice culturale
ricevente la traduzione scelta è quindi un’approssimazione ottimale del
valore relazionale dell’enunciato originale all’interno del codice culturale
del prototesto (Delabastita 1993: 17 in Osimo 2004: 45). Nel secondo
caso, la strategia perseguita sarebbe quella dell’«omologia culturale», che
lascia al lettore il compito di colmare la distanza culturale tra sé e il testo.

La conseguenza di questa strategia traduttiva è di inserire nel


metatesto esotismi, non vissuti come tali dal lettore del prototesto
contemporaneo all’autore, e di lasciare che il lettore entri a contatto con
una cultura diversa dalla propria. A questo concetto si lega inevitabilmente
quello di accettabilità/adeguatezza. Può essere il lettore ad avvicinarsi al
prototesto come a un elemento della cultura altrui e a sobbarcarsi la fatica

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di tale avvicinamento, apprendendo, nel processo, nuovi elementi di
cultura altra, oppure può avvenire l’esatto contrario: è il prototesto a
essere avvicinato al lettore, trasformando gli elementi di cultura altra che
contiene e traducendoli in cultura propria (del lettore). Una traduzione è
detta «adeguata» quando prevede che il prototesto sia conservato come
espressione di una cultura diversa: il traduttore conserva il più possibile le
caratteristiche di cultura altra del prototesto, costringendo il lettore a uno
sforzo per recepire il testo come altro; la lettura risulta quindi più
impegnativa ma arricchisce di più il fruitore. Il concetto di «adeguatezza»
è visto pertanto in funzione del prototesto, mentre quando un testo è
«accettabile», il punto di vista è quello del lettore del metatesto. Nella
traduzione accettabile, infatti, il metatesto conserva un numero limitato di
caratteristiche prototestuali: avviene un processo di addomesticamento
culturale con cui il traduttore avvicina il prototesto alla metacultura. Ne
risulta una lettura del metatesto più facile, ma che arricchisce di meno: il
lettore si trova di fronte a un testo “comodo” (scorrevole), ma privo di
stimolo per la reciproca fecondazione tra culture. Alla luce di queste
nozioni si cercherà di comprendere se abbia prevalso un processo
traduttivo target-oriented (accettabile) o source-oriented (adeguato): nel
primo caso viene perseguita una strategia che privilegia scorrevolezza,
accettabilità e adattamento alle norme della cultura d’arrivo, anche se a
scapito della “fedeltà” al testo di partenza. In questo caso il traduttore si
rende “invisibile”, mettendo in atto un processo di “addomesticamento”
(domestication) del testo, che viene del tutto o in gran parte adattato alle
convenzioni della cultura d’arrivo, perdendo così però la sua forza
innovatrice. Una strategia source-oriented implica invece una scelta di
“straniamento” (foreignization) del testo tradotto, che mantiene le
caratteristiche della cultura originaria e così arricchisce la cultura d’arrivo,
in quanto portatore di innovazioni stilistiche e deviazioni dalla norma
creative e originali (Osimo 2006: 81, 83).

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La strategia traduttiva sarà stata vincolata, con tutta probabilità, anche
da altri fattori, quali lettore modello e dominante: per lettore modello si
intende il prototipo di lettore, o lettore immaginario, cui la strategia
narrativa si rivolge; esso può coincidere più o meno con il cosiddetto
lettore empirico, cioè il lettore che effettivamente legge il testo.

Quanto invece alla dominante, essa non è altro che la componente


intorno a cui si focalizza il testo (Osimo 2006: 67) prototesto considerato
fondamentale per una determinata traduzione. In realtà all’interno della
maggior parte dei testi si possono trovare varie dominanti, che possono
essere collocate in ordine gerarchico a seconda della loro importanza
strutturale: una dominante e varie sottodominanti.

«Labor on the letter in translation is more originary than


restitution of meaning. It is through this labor that translation, on
the one hand, restores the particular signifying process of works
(which is more than their meaning) and, on the other hand,
transforms the translating language».1

L’intuizione di Berman si rivela fondamentale soprattutto in chiave


traduttiva, giacché il traduttore sarà chiamato a compiere scelte che
implicano minuziose analisi delle singole parole in chiave non solo culturale
ma anche semantica, fonetica, intertestuale, intratestuale, ecc.

Data l’imprescindibilità del rimando intratestuale, del dettaglio e della


coesione interna – tra le altre cose – in Psycho: dal romanzo di Bloch al
lato oscuro del genio di Hitchcock la strategia traduttiva che sarà adottata
si rifà a un preciso modello di analisi, ovvero il modello top-down (Osimo

1 Berman, in Venuti (2000: 288-289).

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2004: 91). Si tratta di un modello dall’alto verso il basso, che parte
dall’analisi traduttologica del testo specifico e, individuate le caratteristiche
salienti degli elementi in senso sistemico, controlla le alterazioni della
poetica del testo introdotte dai cambiamenti traduttivi; tutto ciò in
funzione di una dominante specifica e di eventuali sottodominanti.

Questo modello si contrappone al modello bottom-up (Osimo 2004: 91),


che procede invece dal basso verso l’alto, nel senso che non è prevista
un’analisi preventiva della poetica globale del testo da cui si ricavino le
categorie da sottoporre ad analisi comparativa. Questo modello analizza
quindi le caratteristiche dei cambiamenti del testo a priori e,
successivamente, prova a individuarne le conseguenze globali.

Il modello top-down analizza i dettagli solo dopo averne individuato


l’importanza sistemica: le categorie di cambiamento, infatti, non sono
assolute come avviene per il modello bottom-up, bensì specifiche, relative
al contesto culturologico del testo in questione e derivanti direttamente
dalla sua analisi traduttologica. Questo perché i singoli testi, per quanto
possano avere alcune caratteristiche in comune con altri testi, devono
parte della loro individualità a caratteristiche idiomorfe ad hoc non
standardizzabili a priori; quando si usa un formato prestabilito per l’analisi
del testo (come avverrebbe con il modello bottom-up), queste
caratteristiche si perdono (Gerzymisch-Arbogast 2001: 237 in Osimo 2004:
91).

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ANALISI TRADUTTOLOGICA

Per quanto riguarda l’analisi traduttologica del film, ho scelto di


analizzare due scene che dal mio punto di vista sono significative.

SCENA 18 – oggettiva (visione non filtrata da Hitchcock)

La prima scena che sarà oggetto della mia analisi è quella in cui
Norman invita Marion a cenare insieme nel salottino del motel. Si tratta di
una scena chiave; Hitchcock, infatti, mette in atto il processo di
identificazione, una traslazione di identità che rende uguali Marion e
Norman, e che in seguito permetterà a Norman di assumere il ruolo di
protagonista assoluto. Entrambi scoprono di essere simili sotto molti punti
di vista, di sentirsi intrappolati in una situazione dalla quale non hanno
scampo, come se fossero degli uccelli in gabbia. Proprio gli uccelli sono

71
protagonisti in questa scena: sono uccelli notturni impagliati, creature
della notte, appesi al muro del salotto. Hitchcock era affascinato dagli
uccelli e, come accade nel film successivo a Psycho, The Birds (1963),
sono proprio questi animali che si ribellano all’uomo.

I due entrano nel salottino e Marion osserva gli uccelli, rimanendone


subito colpita. La macchina da presa inquadra il gufo e il corvo che
maestosamente sovrastano la stanza. Quando Norman inizia a parlare del
suo hobby, la tassidermia, la macchina da presa inquadra raramente
Marion: Hitchcock è completamente concentrato su questo strano
personaggio dal volto infantile che a tratti si fa inquietante. Le
inquadrature non sono corrispondenti e non sono girate con la stessa
focale. Marion è infatti inquadrata dal basso e siamo inoltre abbastanza
distanti da lei, mentre Norman, nonostante la stessa inquadratura del
basso, è ripreso a mezza figura e molto più da vicino. E poi, inconfondibili
segni connotativi, in alto nell’inquadratura spiccano a sinistra il gufo e a
destra il corvo e Norman è collocato al centro dei due uccelli impagliati,
quasi come se fosse il re della notte affiancato dai suoi due fidi scudieri.

Quando Marion chiede a Norman se ha degli amici, l’uomo risponde: «Il


migliore amico di un uomo è la propria madre». Questo è un nettissimo
segno connotativo che ci fa capire la stranezza di Norman. Se la madre
vuole che nessuna donna si avvicini al figlio perché solo lei può, anche il
figlio, così assoggettato, può provare nei confronti della madre un

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ossessivo desiderio di possessione. Nessun uomo può avere sua madre
(complesso di Edipo) e se nessuno le si avvicina ecco che la nevrosi
diventa psicosi; il figlio può anche uccidere per impedire che un altro
uomo possieda sua madre. Ed ecco Norman: la madre è libera di
concedersi a un amante, mentre impedisce al figlio, con morbosa
possessione, qualsiasi rapporto con una donna. Tuttavia Norman non
tollera che la madre abbia un altro uomo all’infuori di lui e così ucciderà
l’amante, ma, in un eccesso di psicosi, anche la madre perché lo ha
tradito. In un meccanismo di andata/ritorno la madre si prenderà la sua
rivincita e attraverso il corpo di Norman ucciderà Marion, la donna che al
motel ha osato instaurare un rapporto con il figlio.

È da notare in tutto ciò come spesso nei film di Hitchcock sia totalmente
assente la figura paterna, questo perché con una moglie/madre così la
persona del padre verrebbe inevitabilmente negata o, comunque, non
potrebbe esistere. Non solo: senza la madre, il figlio non avrebbe dovuto
lottare con il padre per emergere, ma si sarebbe solo dovuto avvicendare
in un mondo già fatto. La madre, se le cose andassero così, non avrebbe
nemmeno quel ruolo destabilizzante che minaccia l’uomo nel suo processo
di successione da padre a figlio.

Tornando a Psycho, il dialogo nel salottino pone Norman e Marion sullo


stesso piano. Entrambi sono infelici e hanno una vita vuota, senza identità.
Sono speculari, l’uno si identifica nell’altra e viceversa. Si tratta quindi di
uno sdoppiamento, ma allo stesso tempo anche di un raddoppiamento.
Norman è lucido, si potrebbe dire dissociato, e parla di sé come se la cosa
non lo riguardasse, dimostrandosi freddo e distaccato (sdoppiamento). Ma
rafforza l’idea di sé (raddoppiamento) affermando che ognuno di noi è
stretto nella propria trappola.

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Norman parla della madre che si è risposata dopo la morte del padre.
Egli è Edipo che si è accecato dopo aver scoperto le proprie colpe («un
figlio non si può sostituire a un amante»). Ed ecco poi un altro
confronto/scontro: la madre e la donna. In Norman il confronto/contro ha
effetti devastanti perché le due figure incarnano la stessa persona. Marion
chiede a Norman se non ha mai pensato di far curare la madre in qualche
ospedale psichiatrico. A questo punto c’è uno scarto visivo nel racconto:
Hitchcock sterza decisamente verso Norman mettendolo in primo piano,
tanto che lo spettatore ha la sensazione di sentirsi addosso a lui. In questo
modo il regista vuole metterci in contatto con lo stato d’animo dell’uomo.
Marion è spaventata dalla reazione di Norman alle sue parole e Hitchcock
la riprende in primo piano, mostrandoci il suo volto inquieto.

Norman cerca in ogni modo di difendere la madre:

«She’s as harmless as one of those stuffed birds».

Il pubblico scoprirà in seguito che, effettivamente, è proprio così. La


macchina da presa rimane fissa sul primo piano di Norman, non si muove
mai e noi rimaniamo lì ad ascoltarlo come se fossimo catturati dalle sue
parole. Infatti, non è la macchina da presa che si allontana dall’uomo, ma
lui stesso che va indietro con il busto dopo essersi accorto di essere stato
aggressivo nei confronti di Marion.

Le parole di Norman creano in Marion l’effetto del pentimento e questo


la porta a fare una rivelazione (le stesse parole sono usate nel romanzo):

«I think all of us go a little crazy at times».

Marion in questo modo annuncia la sua uscita di scena e Hitchcock la


farà uscire con una sequenza memorabile. Marion si alza, vuole andare a
letto e dice a Norman (ma anche al pubblico) che è pentita di quello che

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ha fatto e che l’indomani sarebbe tornata a Phoenix (non a Los Angeles,
come aveva detto a Norman) per trovare il modo di uscire dalla trappola in
cui lei stessa si era messa. In realtà la donna non può neanche
immaginare in che trappola si trovi in quel momento e che ormai è
davvero troppo tardi.

Norman, prima di congedarla, vuole avere una conferma della loro


uguaglianza, vuole capire se anche lei è senza identità:

Norman: «Goodnight Miss…»


Marion: «Crane».

E così Marion si tradisce, rivelando il suo vero cognome. Curioso: crane


in inglese significa gru, un uccello appunto.

Nel romanzo di Bloch Norman e Mary non cenano nel salottino, ma


nella piccola cucina del motel. Hitchcock ha ripreso quasi fedelmente la
loro conversazione originale modificando solo qualche battuta. Inoltre, se
nel film Norman risponde alla domanda poco cortese di Mary riguardo alla
malattia della madre usando una voce pacata ma molto inquietante, nel
romanzo invece Norman (che viene descritto come un uomo grasso, con
gli occhiali e dai capelli color sabbia) si alza in piedi, trema, urla e getta sul
pavimento una tazza di porcellana:

«[…] ”She’s not crazy!” The voice wasn’t soft and apologetic any longer; it was high
and shrill. And the pudgy man was on his feet, his hands sweeping a cup from the
table. It shattered on the floor, but Mary didn’t look at it; she could only stare into
the shattered face. […] He stopped, not because he was out of words but because
he was out of breath. His face was vey red, and the puckered lips were beginning to
tremble».

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SCENA 32 – soggettiva stilistica (scena filtrata dalla sguardo di
Hitchcock)

La seconda scena del film che vorrei analizzare è quella dell’assassinio


del detective Arbogast.

Nel film, l’’uomo, dopo aver interrogato Norman sulla scomparsa di


Marion, chiede di poter avere un colloquio anche con la madre. A questo
punto Norman, visibilmente nervoso, vieta al detective di vederla perché si
tratta di una donna vecchia e malata. Arbogast allora decide di salire in
casa per cercare la madre e porle alcune domande. Appena inizia a salire
le scale Hitchcock irrompe con il suo sguardo e invece di farci vedere il
volto del detective, il regista sposta la macchina da presa e ci mostra la
scala dal basso e i piedi dell’uomo che iniziano a salire le scale. In seguito,
Hitchcock decide di mostrare il campo totale dall’alto. Ecco come il regista
stesso spiega le sue scelte a Truffaut nel celebre libro-intervista:

«C’era un’inquadratura della mano che scorre sul corrimano e una carrellata
attraverso la ringhiera delle scale che fa vedere i piedi di Arbogast di fianco. Quando
ho visto i giornalieri della scena mi sono accorto che non andava bene […]. Queste
inquadrature sarebbero state adatte se si fosse trattato di un assassino che saliva le
scale. Quindi mi sono servito di una sola ripresa di Arbogast che sale le scale e,
quando sta per arrivare all’ultimo scalino, ho deliberatamente messo la macchina da
presa in alto per due ragioni: la prima, per poter filmare la madre verticalmente
perché, se l’avessi mostrata di spalle, poteva sembrare che non avessi voluto apposta
far vedere il suo volto e il pubblico non si sarebbe fidato. Dall’angolo dove mi ero
messo invece non davo l’impressione di voler evitare di far vedere la madre. La
seconda e più importante ragione per salire così in alto con la macchina da presa era
di ottenere un forte contrasto tra il campo totale della scala e il primo piano di
Arbogast quando il coltello si abbatte su di lui» (Hitchcock 1985).

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Grazie anche alla musica, alle note agghiaccianti e stridenti dei violini, il
momento si fa ancora più raccapricciante. Hitchcock ha compiuto molti
sforzi per preparare il pubblico a questa scena: prima ha stabilito la
presenza di una donna misteriosa nella casa, poi ha fatto uscire di casa
questa donna e le ha fatto pugnalare Marion sotto la doccia. Tutto quello
che poteva dare suspense a questa scena era contenuto in quegli
elementi.

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Nel romanzo di Bloch l’episodio differisce dal film per alcuni elementi.

Norman dice al detective che non può assolutamente incontrare sua


madre perché è una donna malata e molto fragile che non sarebbe in
grado di sopportare tutte quelle domande. Tuttavia Arbogast insiste e
Norman alla fine gli concede di incontrare la madre, a patto di avvisarla
prima dell’arrivo dell’uomo sconosciuto. Arbogast approva e attende
all’interno del motel. Intanto Norman corre ad avvisare la madre dell’arrivo
del detective, ma con sua grande sorpresa, scopre che lei è già al corrente
di tutto. Norman è spaventato e teme che la madre possa avere una
reazione troppo forte all’evento, come è già successo con Mary (Marion
nel film). Norman prova a calmare la madre, ma lei si sta già vestendo e
truccando per incontrare il visitatore…

Intanto Arbogast, stanco dell’attesa, decide di salire in casa. Giunto


davanti alla porta, il detective bussa e la madre gli apre...l’uomo dapprima
entra a testa bassa, ma quando qualche istante dopo la alza non ha
neanche il tempo di capire cosa sta accadendo che un rasoio gli taglierà la
gola.

«[…] Before she was halfway down, the knocking came. It was happening, Mr.
Arbogast was here; he wanted to call out and warn him, but something was stuck in
his throat. He could only listen as Mother cried gaily, “I’m coming! I’m coming! Just a
moment, now!” And it was just a moment. Mother opened the door and Mr. Arbogast
walked in. He looked at her and then opened his mouth to say something. As he did
so he raised his head, and that was all Mother had been waiting for. Her arm went
out and something bright and glittering flashed back and forth, back and forth… It
hurt Norman’s eyes and he didn’t want to look. He didn’t have to look, either,
because he already knew. Mother has found his razor…».

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CONCLUSIONI

Il lavoro da me svolto su Psycho è stato molto interessante e stimolante


innanzitutto perché mi ha permesso di conoscere meglio e analizzare la
fonte primaria cui Hitchcock attinse per realizzare il suo capolavoro, vale a
dire il romanzo di Robert Bloch, caratterizzato da uno stile del tutto
particolare e da una trama agghiacciante. Hitchcock ha ripreso questo
romanzo e lo ha tradotto in immagini, suoni, gesti e parole dando vita,
anche se quasi inconsapevolmente, a uno dei capolavori più celebri della
storia del cinema internazionale.

Tuttavia, il regista decise di operare modificando alcune parti del


romanzo per lasciare spazio al suo genio. Fu così che in Psycho furono
utilizzate tecniche di ripresa innovatrici, diverse da quelle tradizionali, con
le quali Hitchcock ha potuto avvicinarsi allo sguardo e al punto di vista del
suo pubblico.

Hitchcock operò alcuni “slittamenti traduttivi” a livello dell’intreccio. Per


esempio occorre sottolineare come, nella scena della conversazione tra
Marion e Norman nel salottino del motel, il regista abbia voluto sostituire
lo scoiattolo imbalsamato descritto da Bloch nel suo romanzo con degli
uccelli anch’essi imbalsamati, ma appesi al muro in una posizione tale che
sembra che stiano per piombare sulle teste dei due protagonisti. Ma
Hitchcock voleva rendere la scena ancora più inquietante e così decise di
riprendere i due personaggi dal basso, concentrando la macchina da presa
soprattutto sullo sguardo di Norman.

Un altro importante cambiamento che Hitchcock ha operato rispetto al


romanzo riguarda l’atroce omicidio di Arbogast. Mentre nel romanzo il
detective arriva davanti alla porta della casa dove vive la madre, bussa, la
madre gli apre la porta e lo uccide con un rasoio, nel film Hitchcock rende

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la scena ancora più inquietante. Il detective sale le scale, ma Hitchcock
decide di riprendere la scala dal basso e i piedi dell’uomo che salgono i
gradini.

Infine vorrei sottolineare l’importanza del punto di vista, elemento


molto caro a Hitchcock. Il regista infatti decise di modificare la scena
dell’omicidio di Arbogast riprendendo tutto dall’alto, scelta che gli permise
di filmare la madre verticalmente senza dare l’impressione al pubblico di
voler deliberatamente nascondere il volto dell’assassina.

Tutti questi interventi hanno permesso al regista di apportare grandi


innovazioni nel campo del cinema, eliminando le parti più crude del
romanzo e sostituendole con altre meno raccapriccianti, anche se più
inquietanti dal punto di vista della suspense.

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BIBLIOGRAFIA

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Roma, Carocci, 2003.

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SITOGRAFIA

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disponibile in internet all’indirizzo www.rogerebert.com, consultato
nel mese di settembre 2009.

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