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LIBERTÀ, FATO E GRAZIA


Libertà, fato e grazia. Dagli Stoici ad Agostino è una
Dagli Stoici ad Agostino
raccolta di testi sulla questione della libertà nello Stoi-

Libertà, fato e grazia – Dagli Stoici ad Agostino a cura di Francesco Verde


cismo antico (Zenone, Cleante e Crisippo)
e di età imperiale (Epitteto), nel primo Lithos Studi a cura di
Cristianesimo (Paolo) e in Agostino. Ven- Francesco Verde
gono qui antologizzati i brani più signifi-
cativi con la finalità di fornire un primo ma adeguato
orientamento su un problema complesso e non poco
controverso. Dall’Inno a Zeus di Cleante all’Ad Simpli-
cianum di Agostino, dalla diatriba Sulla libertà di Epit-
teto fino all’Epistola ai Romani di Paolo, si potranno
seguire le trame essenziali di una vicenda filosofica
e teologica che dal mondo antico al Cristianesimo (e
oltre) ha “informato” costitutivamente il pensiero della
tradizione occidentale. Il volume è corredato da un’In-
troduzione di Francesco Verde che tenta di raccordare
i contenuti delle opere antologizzate (sempre dotate del
testo originale a fronte in greco o in latino).

ISBN 978-88-89604-77-9

€ 13,00 9 788889 604779


Lithos
In copertina: Matthias Grünewald (ca. 1470/1480-1528), Altare di Issenheim,
Colmar, Musée d’Unterlinden, particolare

© 2010 Lithos Editrice


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ISBN 978-88-89604-77-9
LIBERTÀ, FATO E GRAZIA
Dagli Stoici ad Agostino

a cura di
Francesco Verde

Dispense del modulo


Libertà, fato, grazia: Stoici, Agostino...e fino a Jonas

Sapienza Università di Roma


Facoltà di Filosofia
Storia della Filosofia Antica II
(Prof. Emidio Spinelli)
Anno Accademico 2009-2010

Lithos
Indice

Introduzione:
Il mantello della grazia: di Francesco Verde 7

Testi
Cleante: Inno a Zeus (SVF I 537) 43
Gli Stoici antichi: Selezione di frammenti
(SVF II 945; 975; 976; 977; 981; 991; 998; 1000) 49
Epitteto: Diatribe, IV 1 Sulla libertà 61
Agostino: Le diverse questioni a Simpliciano
(I 2.2; 3; 4; 5; 6; 7; 9; 12; 16; 17; 21; 22) 99
Agostino: Contro le due lettere dei Pelagiani
(I 2.4; 5; 3.6; 8.14; II 5.9; 10; 6.11; 12; 8.17; III 8.24; 125
9.25)
Agostino: La grazia e il libero arbitrio
(2.2; 4; 4.6; 5.10; 11; 6.13; 10.22; 11.23; 12.24; 13.25; 143
26; 14.27; 28)
Appendice 169
Paolo: Epistola ai Romani
Abbreviazioni bibliche 205
Introduzione*
Il mantello della grazia

Che il mio mantello non vada in brandelli non dipende solo dal fato,
ma anche dalle cure che gli si prestano.

(Crisippo, De fato ap. Diogeniano


ap. Eusebio, praep. evang., VI p. 265d = SVF III 998, trad. Radice)

La grazia è un dono che bisogna accogliere,


non è un mantello che può ricoprire un individuo senza il suo concorso.
Accettare il dono significa attendere e valutare.
Resistere alla corsa, trasformare il correre in un accorrere verso la mèta,
significa dominare il ritmo al fine di tradurlo in armonia.

(E. Castelli, Il tempo esaurito, Milano-Roma 1954, p. 102)

Di certo non è un’impresa semplice fornire un quadro esaustivo della que-


stione della libertà dallo Stoicismo antico al Cristianesimo1 per la quantità dif-
ficilmente limitabile dei temi che si vanno a intrecciare reciprocamente, nonché
per la complessità dei molti problemi dovuta in prima istanza al drastico muta-
mento dei contesti storici di appartenenza che inequivocabilmente determina
– e non poco – i diversi contenuti dei dibattiti e delle polemiche sulla libertà, sul
fato o sulla predestinazione che si sono via via succeduti nel tempo. È per tale
ragione che in questa sede non si vuole affatto proporre un quadro completo ed
esaustivo della questione della libertà dallo Stoicismo antico al primo Cristia-
nesimo – del resto in poche pagine sarebbe impossibile non solo affrontare con
la debita perizia questo tema ma anche solamente dar conto in modo cursorio

*
Desidero ringraziare vivamente il Prof. Gaetano Lettieri, il Prof. Aldo Magris e il Prof.
Emidio Spinelli per aver generosamente letto una prima versione di questa Introduzio-
ne, fornendomi così suggerimenti interessanti e utili indicazioni.
1 
Oltre ai “classici” D. Amand, Fatalisme et liberté dans l’antiquité grecque. Re-
cherches sur la survivance de l’argumentation morale antifataliste de Carnéade chez
les philosophes grecs et le théologiens chrétiens des quatre premiers siècles, Louvain
1945 [rist. Amsterdam 1973], e M. Pohlenz, La libertà greca, tr. it. Brescia 1963, cfr.
in merito A. Magris, L’idea di destino nel pensiero antico, 2 voll., Udine 1984-1985;
Id., Destino, provvidenza, predestinazione. Dal mondo antico al cristianesimo, Brescia
2008 e, in particolare sul Cristianesimo, G. Lettieri, Il nodo cristiano. Grazia e libero
arbitrio dal Nuovo Testamento all’VIII secolo, Roma (in corso di pubblicazione).
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della letteratura secondaria in merito – ma, molto più semplicemente, fornire


alcune linee-guida, primarie ed essenziali, che possano risultare utili e vantag-
giose per leggere adeguatamente i testi che vengono di seguito antologizzati2.

Se dovessimo descrivere in una sola parola il carattere centrale della filosofia


dello Stoicismo antico3 diremmo senz’altro Logos, termine che tradurremmo,
non del tutto propriamente, però, con “Ragione”. Per Zenone di Cizio (334/333-
262/261 a.C.), il fondatore della Stoa, l’universo è un essere vivente, un essere
animato4 e razionale5, un intero (holon) in cui ogni cosa è strettamente con-
nessa con l’altra e, quindi, con l’ordine stesso dell’universo; tutto ciò che esi-
ste rimanda direttamente alla razionalità del cosmo in cui ogni cosa è inserita
secondo un piano provvidenziale (pronoia) e un disegno armonico ed equili-
brato. L’universo stoico coincide con Dio6, il principio attivo (e materiale) che
plasma il principio passivo, ovvero la materia, in maniera assolutamente ordi-
nata e razionale7; nell’universo stoico, dunque, non può esistere il disordine,

2 
La scelta dei passi qui antologizzati risulta senz’altro parziale e fondamentalmente
inadeguata rispetto alle colossali dimensioni del problema della libertà nel pensiero
antico e nel primo Cristianesimo. Malgrado ciò, la selezione di alcuni autori e la scelta
di un preciso numero di brani sono dettate tanto da esigenze meramente didattiche
quanto dal fatto che questa antologia intende presentarsi come un “supporto testuale”
al percorso storico-teorico tracciato da Hans Jonas in alcune sue “lezioni americane”
dall’accattivante titolo Problemi di libertà (a cura di E. Spinelli, con la collaborazione
di A. Michelis, Torino 2010), relativamente agli Stoici, a Paolo e ad Agostino.
3 
Per una prima panoramica, v. M. Isnardi Parente, Introduzione a Lo stoicismo elleni-
stico, Roma-Bari 1993; A.M. Ioppolo, Lo stoicismo antico, «Paradigmi» 62 (2003), pp.
299-311; R. Muller, Les stoïciens. La liberté et l’ordre du monde, Paris 2006; J. Sellars,
Stoicism, Chesham 2006; J.-B. Gourinat-J. Barnes (éd.), Lire les stoïciens, Paris 2009
nonché il monumentale studio di M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spiritua-
le, trad. it. Milano 2005.
4 
Cfr. perciò D.E. Hahm, The Origins of Stoic Cosmology, Columbus Ohio 1977, cap. V.
5 
V. in merito lo studio di A.A. Long, The Stoics on world-conflagration and everla-
sting recurrence, in Id., From Epicurus to Epictetus, Oxford 2006, pp. 256-282.
6 
Per un’analisi dettagliata delle argomentazioni formali usate dagli Stoici (da Zenone
a Marco Aurelio) a favore dell’esistenza degli dei e della provvidenza divina si veda la
monografia di M. Dragona-Monachou, The Stoic Arguments for the Existence and the
Providence of the Gods, Athens 1976.
7 
Cfr. quindi R.B. Todd, Monism and Immanence: The Foundations of Stoic Physics
e M. Lapidge, Stoic Cosmology, in J.M. Rist (ed.), The Stoics, Berkeley-Los Angeles-
London 1978, pp. 137-160 e 161-185; M.J. White, Stoic Natural Philosophy (Physics and
Cosmology), in B. Inwood (ed.), The Cambridge Companion to the Stoics, Cambridge
2003, pp. 124-152 e il recente contributo di J.-B. Gourinat, The Stoics on Matter and
Prime Matter. ‘Corporealism’ and the Imprint of Plato’s Timaeus, in R. Salles (ed.), God
and Cosmos in Stoicism, Oxford 2009, pp. 46-70, le cui ipotesi di fondo è utile confron-
tare con le conclusioni cui giunge D. Sedley, The Origins of Stoic God, in D. Frede-A.
Laks (eds.), Traditions of Theology. Studies in Hellenistic Theology, its background and
9

l’assenza di armonia, anzi, ciò che noi reputiamo “disordine” o “caso”, per via
del fatto che non siamo in grado di comprendere effettivamente l’ordine razio-
nale del tutto8, non può che essere assorbito e ricompreso nell’armonia simpa-
tetica che lega inscindibilmente ogni realtà, in Dio stesso, nel fuoco universale
che plasma e struttura l’universo e nel “soffio” (pneuma) che tiene strettamente
coeso il cosmo. L’ordine e la razionalità armonica e onnipresente dell’universo,
come è facile immaginare, comportano le necessarie implicazioni dell’etica
rigorista dello Stoicismo antico9: il compito dell’uomo è quello di sottomettersi
volontariamente e deliberatamente all’ordine del tutto, quel tutto armonico e
perfettamente simmetrico in cui la sua stessa esistenza è ricompresa. Da questo
punto di vista, il fato non è un ordine “altro” o “estraneo” rispetto al cosmo ma
è il cosmo stesso, la cui legge è fondamentalmente una, il rapporto di causalità
che lega tutti gli enti del reale; ma cosa significa che la legge sia causa?
La nozione di “causa” è uno dei concetti più difficili dello Stoicismo antico,
soprattutto per le sue implicazioni logiche e conseguentemente etiche10; se l’uni-
verso è un intero ordinato, pienamente razionale, dove ogni ente del reale è simpa-
tetico con l’armonia del tutto, questa razionalità capillare e onnipervasiva non può
che esplicarsi in termini di causalità. Il fato, pertanto, non è altro che quell’infinita
series causarum che governa, per così dire, dall’interno, il cosmo: nulla, quindi,
è senza causa ma tutto ciò che accade si situa necessariamente all’interno di que-
sta trama causale che non è possibile eludere o tantomeno aggirare. Se l’infinita
serie delle cause è l’autentica legge che governa l’universo stoico, saranno per-
messe tanto la divinazione quanto l’astrologia11; comprendere la legge della cau-

Aftermath, Brill, Leiden 2002, pp. 41-83.


8 
Si considerino perciò le testimonianze raccolte in SVF II 965-971; questa idea sembra
presente già in Democrito (v. infatti 68 B 119 DK).
9 
La letteratura secondaria sull’etica dello Stoicismo antico è molto vasta; in questa
sede ci si limita a rinviare al recente lavoro di C. Jedan, Stoic Virtues. Chrysippus and
the Religious Character of Stoic Ethics, London-New York 2009 che si concentra sulla
nozione stoica di virtù (in particolare in Crisippo), insistendo debitamente sulle sue
implicazioni teoriche all’interno del più ampio sistema filosofico stoico e soprattutto sui
suoi aspetti religiosi.
10 
In proposito v. J.-J. Duhot, La conception stoïcienne de la causalité, Paris 1989 non-
ché V. Goldschmidt, Le système stoïcien et l’idée de temps, Paris 1969, pp. 99-111; A.M.
Ioppolo, Il concetto di causa nella filosofia ellenistica e romana, «Aufstieg und Nie-
dergang der römischen Welt» II 36/7 (1994), pp. 4491-4545; si tengano presenti anche
le osservazioni di R. Salles, The Stoics on Determinism and Compatibilism, Aldershot
2005, sp. pp. 3-29 e di E. Spinelli, Ancient Stoicism, “Robust Epistemology,” and Mo-
ral Philosophy, in P. Machamer-G. Wolters (eds.) Thinking about Causes: From Greek
Philosophy to Modern Physics, Pittsburgh 2007, pp. 37-46.
11 
V. dunque A.M. Ioppolo, L’astrologia nello stoicismo antico, in G. Giannantoni-M.
Vegetti, La scienza ellenistica, Atti delle tre giornate di studio tenutesi a Pavia dal 14 al
16 aprile 1982, Napoli 1984, pp. 73-91 e R.J. Hankinson, Determinism and indetermi-
nism, in K. Algra-J. Barnes-J. Mansfeld-M. Schofield (eds.), The Cambridge History of
10

salità, infatti, significa non solo avere la coscienza di appartenere intrinsecamente


alla giusta e provvidenziale razionalità del tutto ma anche conoscere la relazione
necessaria che permette di stabilire l’effetto a partire da una causa (causa→effetto)
o risalire dall’effetto alla causa (causa←effetto). La relazione causa/effetto è l’au-
tentica legge del cosmo che, per l’appunto, risulta intrinsecamente razionale in
quanto è strutturato in termini causali completamente inaggirabili.

Cleante di Asso (331/330-230/229 a.C.), che nel primo Stoicismo accentua l’im-
portanza dello studio della natura (physis), con l’Inno a Zeus12 fornisce in termini
poetici un esempio indiscutibilmente lucido della struttura razionale dell’uni-
verso che obbedisce all’unica legge (nomos) che lo regola, Dio stesso. Al di là
della “metafora” poetica, Zeus rappresenta il Logos universale, il padre di tutto
ciò che esiste, l’ordine del tutto, il tonos, la forza che pervade ogni cosa, la legge,
l’unica legge sotto la quale ogni cosa raggiunge il suo scopo e ogni evento natu-
rale si compie. Senza Zeus non può avvenire alcunché così come senza la legge
della causa che dirige in maniera necessaria e assoluta l’ordine del tutto, nulla
potrebbe compiersi; Zeus è il re supremo del tutto, di quel tutto con cui Zeus
stesso si identifica. Senza il principio supremo, nulla avviene sulla terra, fuorché
i disegni dei malvagi: il male13 non appartiene a Dio ma alla follia di chi lo compie
e lo realizza. E che cosa è la follia se non il tentativo volontario, deliberato (ma
irresponsabile) di eludere la legge suprema dell’ordine che lega simmetricamente
ogni causa al suo effetto e viceversa? Ma anche i disegni dei malvagi sono ricom-
presi nell’armonica legge del tutto perché oltre al bene non vi è il male, così come
non vi è niente che, per l’appunto, possa dirsi “altro” oltre al tutto.
È per questo che Cleante, non senza ricordare alcune celebri pagine del Timeo
platonico o, ancor prima, alcuni aspetti “teleologici” del Socrate di Senofonte14,
afferma come Zeus sappia ridurre ogni eccesso a misura, ogni disordine all’or-
dine, realizzando in tal modo quell’“armonia dei contrari” già estesamente deli-

Hellenistic Philosophy, Cambridge 1999, pp. 513-541, ma sp. pp. 534-537.


12 
Sull’Inno cfr. il volume di J.C. Thom, Cleanthes’ Hymn to Zeus. Text, Translation,
and Commentary, Tübingen 2005. Sul significato e sul valore dell’“inno” e, dunque,
della preghiera in un sistema filosofico dove tutto è strutturalmente razionale e prede-
terminato come nello Stoicismo antico, si vedano le osservazioni di A. Magris, «A che
serve pregare se il destino è immutabile?». Un problema del pensiero antico, «Elen-
chos» XI (1990), pp. 51-76, sp. pp. 68-74 e le indicazioni di P.A. Meijer, Stoic Theology.
Proofs for the Existence of the Cosmic God and of the Traditional Gods. Including a
Commentary on Cleanthes’ Hymn to Zeus, Delft 2007, pp. 223-227.
13 
Per un primo orientamento sulla nozione stoica di “male” si vedano gli studi di A.A.
Long, The Stoic Concept of Evil, «Philosophical Quarterly» 18 (1968), pp. 329-343 e
di G.B. Kerferd, The origin of evil in Stoic thought, «Bulletin of the John Rylands Li-
brary» 60 (1978), pp. 482-494.
14 
Cfr. infatti D. Sedley, Creationism and Its Critics in Antiquity, Berkeley-Los Ange-
les-London 2007, capp. III e VII.
11

neata dal pensiero di Eraclito; si tratta, ancora una volta, della legge universale
che non contempla eccessi, non prevede disordine ma solo l’armonica e misurata
struttura causale che placa e annulla qualunque atto che inutilmente tenta di elu-
derla. Il punto essenziale risiede nel fatto che non si può comprendere la speci-
ficità del Logos stoico evitando le nozioni strettamente connesse di “ordine” e
“misura”. Ciò che evita l’ordine o trasgredisce la misura viene ridotto da Zeus ad
armonia ed equilibrio. Eppure, continua Cleante, i miseri mortali che fanno della
malvagità e, dunque, dell’eccesso smisurato (fama, gloria, guadagno, ricchezza,
piaceri vel similia) le ragioni della propria esistenza, non guardano a questa legge
ma fuggono il Logos, non ubbidendogli; la loro vita trascorre di male in male,
nella costante ignoranza della legge che regola ogni cosa. Questa è la loro colpa
e questa è la nozione di “malvagità” che Cleante, ancora memore di Socrate e
del socratismo15, intende affermare: l’ignoranza rovinosa (lygre apeirosyne) del
Logos universale. Cleante non usa il termine agnoia per definire l’ignoranza,
ovvero la parola solitamente usata dagli Stoici per indicare il carattere peculiare
del vizio (SVF III 262; 265; 604), ma parla di apeirosyne che, forse, potrebbe
tradursi più correttamente “mancanza di esperienza”. L’uomo dissoluto e mal-
vagio non ha fatto esperienza, potremmo aggiungere, “continuativa”, dell’ordine
universale; fare esperienza del Logos significa accettarlo continuamente con
benevolenza e inserirsi deliberatamente nella legge che regola ogni cosa. L’uomo
malvagio non conosce l’ordine in cui è immerso, ignora profondamente l’equi-
librio razionale che regola tutto e perciò agisce in conformità di un ordine che
stoltamente reputa “altro”, opposto alla volontà di Zeus, un “ordine” che, estraneo
al Logos, non può che declinarsi in termini di disordine, eccesso e dismisura.
L’invocazione di Cleante a Zeus, dispensatore di tutti i doni (pandoros), è quella
di rimuovere dalle anime umane l’ignoranza della legge universale, al fine di
incontrare quel pensiero (gnome), quella conoscenza, il retto discernimento che
le aiuti e le soccorra nella ricerca del loro ruolo all’interno dell’ordine cosmico
stabilito con giustizia da Dio. La gnome, dunque, è la conoscenza dell’armonia
universale, dono di Dio agli uomini, come già in Teognide (I 1171-1176), che si
contrappone all’ignoranza che è rovinosa (lygre) e distruttrice perché provoca
l’assenza di giustizia e di armonia nella vita degli uomini. La gnome è ciò che gli
uomini devono acquistare ed è la stessa sapienza di cui Zeus si serve per gover-
nare il tutto con giustizia (dike); la gnome è, dunque, legata alla dike, termini che,
come già nella più antica tradizione lirica, sembrano implicarsi a vicenda16. Non
può esserci giustizia senza il retto discernimento dell’ordine: senza gnome Zeus
non potrebbe governare il mondo con giustizia. E non si può non rilevare come

15 
In proposito v. F. Alesse, La Stoa e la tradizione socratica, Napoli 2000.
16 
Per un primo orientamento in merito può essere utile – soprattutto per i debiti rinvii
testuali – il volume di A. Jellamo, Il cammino di Dike. L’idea di giustizia da Omero a
Eschilo, Roma 2005.
12

il termine dike, la giustizia appunto, rimandi nuovamente alla legge (nomos),


la legge universale (koinos nomos) che guida e disciplina l’assetto armonico
dell’universo; Cleante ribadisce qui la stretta connessione fra la giustizia e l’or-
dine cosmico che si ritrova nella lunga tradizione precedente, da Esiodo17 (Theog.
901-903; Op. 256-262) a Eraclito (22 B 23; 28; 94 DK). Per intendere l’ordine a cui
si appella Cleante, occorre comprendere come il cosmo sia retto e governato dalla
giustizia che non è altro che la legge universale da cui è impossibile prescindere.
Ritorna uno dei “postulati” cruciali della filosofia stoica, ossia la coincidenza e
l’identità fra la regolarità armonica degli eventi della natura, il nomos, e l’ordine
morale del tutto, la dike. Ma per quale motivo si può parlare di identità, in propo-
sito? Perché sia il nomos che la dike si fondano sullo stesso Logos; nomos e dike
sono lo stesso Logos: la struttura della natura e l’ordine morale si riferiscono alla
stessa razionalità che sovrintende ogni evento e ogni azione, di modo che nulla
possa trasgredire questo assetto. In tale disposizione cosmica non è molto diffi-
cile intuire il ruolo assegnato all’uomo dalla provvidenza e, di conseguenza, il
modo per essere felici; non è un caso che le fonti (SVF II 184 e 554) attribuiscano
agli Stoici antichi la definizione di felicità (eudaimonia) come il buon scorrere
della vita (euroia biou)18. Il buon scorrere della vita e, quindi, la felicità sono pos-
sibili solo dopo aver conosciuto la legge intrinseca del tutto, averla fermamente
accolta e serenamente accettata; e lo stesso vale per la libertà.

Come già nel mondo antico così in quello contemporaneo, potrebbe risul-
tare piuttosto difficile parlare di “libertà” in riferimento a una filosofia di que-
sto genere; è per questo che nello Stoicismo antico fu soprattutto con Crisippo
di Soli (280/276-208/204 a.C.)19 che la necessità ineluttabile del fato venne fatta
convergere con la possibilità riconosciuta all’uomo di essere libero e responsa-
bile20. Come testimonia il De fato di Cicerone (ma non solo), il dibattito filosofico
fra Crisippo e i suoi avversari (in primis Carneade e l’Academia scettica)21 sul
17 
V. dunque M.M. Sassi, Gli inizi della filosofia: in Grecia, Torino 2009, p. 86.
18 
Su questa immagine cfr. E. Spinelli, Il buon scorrere della vita. La felicità come fine
etico supremo dentro il sistema dello stoicismo antico, in R. Ansani-M. Villani (a cura
di), Il concetto di felicità nel pensiero filosofico, Seminario ministeriale di formazione
per i docenti di filosofia, Ferrara 14-19 febbraio 2000, Ferrara-Roma 2001, pp. 129-149.
19 
Per un primo orientamento si rinvia a E. Brehier, Chrysippe et l’ancien stoïcisme,
Paris 1951.
20 
In generale su questo tema v. soprattutto S. Bobzien, Determinism and Freedom in Stoic
Philosophy, Oxford 1998; cfr. anche M.E. Reesor, Necessity and Fate in Stoic Philosophy
e C. Stough, Stoic Determinism and Moral Responsibility, in J.M. Rist (ed.), The Stoics,
cit., pp. 187-202 e 203-231 nonché le indicazioni di A.A. Long-D.N. Sedley, The Hellenistic
philosophers, vol. 1 Translations of the principal sources with philosophical commentary,
Cambridge 1987, pp. 392-394.
21 
Sul dibattito in ambito gnoseologico v. A.M. Ioppolo, Opinione e scienza. Il dibattito
fra Stoici e Accademici nel III e nel II secolo a.C., Napoli 1986.
13

problema del determinismo e della libertà è molto complesso (v. infatti SVF II
977); senza scendere eccessivamente nei dettagli di questo dibattito, la difficoltà
principale che Crisippo doveva tentare di risolvere era, per l’appunto, la conver-
genza della libertà umana e del determinismo causale, caposaldo imprescindibile
della filosofia stoica che, per motivi di coerenza, Crisippo non poteva ricusare22.
Nello Stoicismo antico, lo si ribadisce, nulla può eludere l’infinita trama causale
che regola ordinatamente e armonicamente la struttura del cosmo; come riferisce
Alessandro di Afrodisia (SVF II 945), affermare che una qualunque realtà possa
generarsi senza causa sarebbe come dire che qualcosa possa generarsi dal nulla. È
chiaro che le cause possono essere molte ma tutte, in ultima istanza, si ricollegano
all’unica causa razionale che è il Logos stesso; ciò, paradossalmente, significa che
anche gli effetti sono sullo stesso piano delle cause in quanto cause ed effetti si
reggono sulla medesima legge che regola e disciplina il tutto. Se questo è vero,
non può esserci un evento (o magari un’azione) che possa realizzarsi in un modo
o in un altro, perché è impossibile uscire dall’unico piano causale che organizza e
dispone ordinatamente e secondo un design fisso e provvidenziale la natura delle
cose23. Fato, natura e Logos universale sono la medesima realtà perché gli effetti
sono sullo stesso livello delle cause; il Logos è presente in maniera capillare in
tutto ciò che esiste in quanto si identifica con l’universo stesso. Ogni essere e
ogni realtà (che sono il Logos stesso), di conseguenza, operano al fine di realiz-
zare al meglio l’economia del tutto; ma cosa accadrebbe se questo non avvenisse?
Secondo Cleante i malvagi sono tali in quanto ignorano la legge suprema e univer-
sale, in breve, la giustizia con cui Zeus governa il cosmo; in realtà, dato che Zeus
riduce il disordine all’ordine e l’eccesso alla misura, anche i malvagi sono ricom-
presi nell’ordine del tutto: insomma, ducunt volentem fata, nolentem trahunt.

È stata molto discussa, anche in tempi recenti, l’originalità della metafora


del “cane” riportata da Ippolito (SVF II 975); c’è chi ha voluto vedere in essa
un contributo posteriore che in fin dei conti non appartiene al genuino pen-
siero degli Stoici antichi 24, chi, invece, ha creduto, a mio avviso in modo
condivisibile, che si tratta di un’analogia strettamente connessa alla filosofia
del primo Stoicismo25. Ippolito riferisce che l’idea che tutto avvenga secondo

22 
In riferimento a Crisippo, J. Vuillemin (Nécessité ou contingence. L’aporie de Dio-
dore et les systèmes philosophiques, Paris 1984, p. 129) parla significativamente di «li-
berté comme élément du destin».
23 
Cfr. le indicazioni di D. Frede, Stoic Determinism, in B. Inwood (ed.), The Cambridge
Companion to the Stoics, cit., pp. 179-205.
24 
S. Bobzien, Determinism and Freedom in Stoic Philosophy, cit., capp. 5 (sp. pp. 217
e sgg.) e 7 (sp. pp. 345 e sgg.).
25 
R. Sharples, Ducunt volentem fata, nolentem trahunt, in C. Natali-S. Maso (a cura
di), La catena delle cause. Determinismo e antideterminismo nel pensiero antico e
contemporaneo, Amsterdam 2005, pp. 197-214, nonché D. Sedley, Creationism and
14

il fato veniva esemplificata da Zenone e Crisippo con il ricorso all’analogia


del cane attaccato a un carretto: se il cane segue il carretto, nella sua azione
convergono sia la necessità (ovvero il suo destino), sia quanto è in suo potere,
se invece il cane non segue il carretto, volente o nolente verrà trascinato.
Quest’immagine ricorda la cosiddetta “preghiera” di Cleante (riportata da
Epitteto = SVF I 527) in cui Cleante prega Zeus di condurlo nel luogo che gli
è stato designato: Cleante seguirà senza esitare ma se sarà riluttante, essendo
divenuto malvagio (kakos), nondimeno seguirà. Al di dei molti problemi posti
da questa immagine, il contenuto sembra sufficientemente chiaro. Il cane può
o seguire il carretto o fare resistenza ma in ambedue i casi saranno pur sem-
pre il fato e la necessità ad avere la meglio; se il cane seguirà in maniera
deliberata e volontaria il carretto cui è attaccato, questo atto realizzerà quel
“buon scorrere della vita” con cui, secondo gli Stoici antichi, si identifica la
felicità, perché nella sua azione convergeranno senza soluzione di continuità
tanto ciò che è in suo potere quanto la necessità che è il suo destino. Cri-
sippo intendeva “salvare” il principio della libertà e quello del fato, sebbene
alla fine, secondo fonti piuttosto critiche del suo tentativo (SVF II 991), non
faccia altro che mostrare come tutto avvenga per opera del fato; secondo la
testimonianza di Alessandro (SVF II 981), Crisippo poneva la libertà nell’as-
senso (sygkatathesis) e nell’impulso (horme) ma, ancora una volta, rimane
quella difficoltà che appare la più insormontabile: se siamo liberi, dunque,
capaci di autodeterminarci, è chiaro che il fato non sarà più una causa tale da
determinare i nostri atti; se, invece, esiste il fato (l’ordine razionale del tutto),
sarà molto difficile ammettere l’esistenza di libertà, di responsabilità o della
stessa possibilità di muovere biasimi o ricevere lodi (SVF II 998). A questo
punto Crisippo, proprio a partire da una tale obiezione, è spinto a formulare
dottrine complesse e non poco sofisticate che se, per un verso, testimoniano
il suo notevole sforzo teorico, per un altro, non possono spingersi oltre dei
limiti ben determinati. Una prima dottrina per salvare tanto il principio della
necessità quanto quello della libertà è quella dei confatalia che, in opposi-
zione all’argomento della ignava ratio o argos logos (se tutto dipende dal fato
e dalla necessità, l’azione dell’uomo non può avere alcun valore)26, si fonda,
da un lato, sulla causalità del fato, dall’altro, sulla nostra “collaborazione”;
per esempio, che il mantello non vada in brandelli non deriva solo dal fato
ma anche dalle cure che gli si prestano (SVF II 998), così come la presenza di
un avversario è, per così dire, “confatale” al fatto che Milone possa lottare a
Olimpia (Cicerone, De fato, 30 = SVF II 956).
Ora, risulta forse abbastanza intuitivo scorgere i “pregi” ma anche i limiti
di questa argomentazione; per un verso, la teoria dei confatalia salva l’impe-

Its Critics in Antiquity, cit., p. 232 n. 66.


26 
Cfr. quindi S. Bobzien, Determinism and Freedom in Stoic Philosophy, cit., cap. 5.
15

gno dell’uomo e la sua collaborazione attiva, per un altro, tuttavia, nella infi-
nita series causarum ogni evento è da sempre predeterminato, pertanto, esso
accadrà sia che la nostra azione collabori, sia che non collabori: se è da sem-
pre predeterminato che il mantello si rovini, il mantello andrà in brandelli che
lo curiamo o no. Nel De fato (41-42 = SVF II 794) Cicerone riferisce un’altra
argomentazione crisippea; Crisippo avrebbe distinto due tipologie di cause,
quelle perfette e principali (interne) e quelle ausiliarie e prossime (esterne)27.
Mentre le prime sono le cause che pertengono al soggetto stesso (è sulla base
di queste cause che il soggetto concede o meno il proprio assenso alle rappre-
sentazioni, necessario per dare avvio all’azione), le seconde, invece, sono le
cause esterne e antecedenti, in breve, le circostanze stesse; l’esempio portato
da Crisippo è quello del cilindro. Chi ha spinto il cilindro ha dato inizio al
movimento (causa ausiliaria e prossima/esterna) ma certamente non ha con-
ferito al cilindro la modalità di rotolare proprio in quel modo (causa perfetta
e principale/interna), così come la rappresentazione dell’oggetto si imprimerà
nell’anima (come il sigillo nella cera) ma sarà in nostro potere dare l’assenso
o meno a questa rappresentazione e, così, dare avvio all’azione. Come il cilin-
dro si muove in quel modo in virtù della propria “natura”, sebbene sia stato
spinto, così, malgrado la rappresentazione si imprima nella nostra anima,
saremo noi a decidere se assentire o meno. Per non rendere il discorso troppo
complesso, rischiando di scendere eccessivamente nei dettagli dell’argomen-
tazione, questa dottrina conferma indubbiamente lo sforzo teorico tentato da
Crisippo per tenere insieme libertà e fato; ma, in ultima analisi, la difficoltà
menzionata sopra, sembra ancora rimanere. Se tutto è determinato dal fato,
difficilmente potranno sfuggire a esso anche le cause perfette e principali:
qualora, poi, sfuggissero, la causalità del fato sarebbe imperfetta, cosa che
uno Stoico difficilmente potrebbe ammettere28.
Sebbene nelle filosofie di età ellenistica molti siano stati i modi di giusti-
ficare la libertà dell’azione umana (si pensi ad esempio alle argomentazioni
di Epicuro svolte nel XXV libro del suo Peri physeos29 o alla stessa dottrina
27 
Su tale questione cfr. A.M. Ioppolo, Le cause antecedenti in Cic. De Fato 40, in J. Bar-
nes-M. Mignucci (eds.), Matter and Metaphysics, Napoli 1988, pp. 397-424; D. Sedley, Ch-
rysippus on Psychophysical Causality, in J. Brunschwig-M. Nussbaum (eds.), Passions and
Perceptions, Cambridge 1993, pp. 313-331; A.M. Ioppolo, Il concetto di causa nella filo-
sofia ellenistica e romana, cit.; R.J. Hankinson, Explanation and causation, in K. Algra-J.
Barnes-J. Mansfeld-M. Schofield (eds.), The Cambridge History of Hellenistic Philosophy,
cit., pp. 479-512, ma sp. pp. 487-491 e S. Bobzien, Chrysippus’ Theory of Causes, in K.
Ierodiakonou (ed.), Topics in Stoic Philosophy, Oxford 1999, pp. 196-242. Assai utile la pa-
noramica offerta da A.A. Long-D.N. Sedley, The Hellenistic philosophers, cit., pp. 340-343.
28 
V. dunque M. Vegetti, L’etica degli antichi, Roma-Bari 1989, pp. 251-265 e le osser-
vazioni di P.L. Donini, Fato e volontà umana in Crisippo, «Atti dell’Accademia delle
Scienze di Torino», cl. Sc. Mor., St. e Filol., 109 (1975), pp. 187-230.
29 
Cfr. perciò lo studio e l’edizione del papiro di F.G. Masi, Epicuro e la filosofia della
16

del clinamen riferita principalmente da Lucrezio, II 216-293)30, occorre evi-


denziare come l’impegno teorico di Crisippo e il suo specifico tentativo di
far convergere fato e libertà si segnalino per originalità e profondità. Nono-
stante la pletora di problemi che non trovano una soluzione chiara ed efficace,
occorre, però, tenere presente un elemento importante del pensiero crisippeo
che sembra costituire un aspetto piuttosto diverso rispetto agli Stoici che lo
precedettero; fermo restando il supremo potere del fato, della causalità neces-
saria e, quindi, del destino, Crisippo, in particolare con la distinzione fra le
due tipologie di causa, ha chiarito come il Logos universale si “particolarizzi”
in ogni uomo, individuando in ciascuno il proprio destino.
Ciò, naturalmente, non significa salvare in toto la libertà – pena il venire meno
dell’ordine universale e della legge che regola il tutto – ma rappresenta un ten-
tativo sì arduo ma certamente coerente con le premesse del proprio sistema filo-
sofico, di salvare per quanto possibile l’individuale “responsabilità morale” di
ciascuno: è forse per tale accentuazione del ruolo particolare e della collabora-
zione individuale di ognuno alla realizzazione dell’economia del tutto che, a dif-
ferenza di quella fornita da Zenone e da Cleante, la definizione di “fine” (telos)
di Crisippo è vivere secondo la natura singola e la natura dell’universo (Diogene
Laerzio, VII 88)31. Crisippo afferma che la finalità a cui tendere costantemente è
vivere concordemente con la natura razionale del cosmo e con quella individuale
che appartiene a ciascun essere umano; si nota, pertanto, come Crisippo accen-
tui in modo considerevole la centralità dell’individuo rispetto al tutto, senza
escludere, però, la profonda convergenza che lega la singolarità in cui il Logos si
“particolarizza” e il Logos stesso, la razionalità necessaria che ricomprende ma
non annulla la funzione dell’individuo nell’economia del cosmo32.

mente. Il XXV libro dell’opera Sulla Natura, Sankt Augustin 2006.


30 
Per un primo orientamento cfr. W. Englert, Epicurus on the Swerve and Voluntary
Action, Atlanta 1987; S. Bobzien, Did Epicurus Discover the Free Will Problem?, «Ox-
ford Studies in Ancient Philosophy» XIX (2000), pp. 287-337; T. O’Keefe, Epicurus on
Freedom, Cambridge 2005 e E.A. Schmidt, Clinamen. Eine Studie zum dynamischen
Atomismus der Antike, mit einem Beitrag von H. Günter Dosch, Spontaneität in der
Atomphysik des 20. Jahrhunderts, Heidelberg 2007.
31 
Cfr. in proposito A.A. Long, Stoic eudaimonism e The harmonics of Stoic virtue, in
Id., Stoic Studies, Cambridge 1996, pp. 179-201 e 202-223.
32 
V. infatti A.A. Long, Freedom and Determinism in the Stoic Theory of Human Action,
in Id. (ed.), Problems in Stoicism, London 1971, pp. 173-199, tenendo conto anche dei non
trascurabili caveat sollevati da J.B. Gould, The Philosophy of Chrysippus, Leiden 1970,
pp. 148-152. Per alcune considerazioni sulla teoria dell’azione in Aristotele e in Crisippo
si vedano anche gli studi di P.K. Sakezles, Aristotle and Chrysippus on the Psychology
of Human Action: Criteria for responsibility, «British Journal for the History of Philo-
sophy» 15 (2007), pp. 225-252 ed Ead., The Aristotelian Origins of Stoic Determinism,
«Proceedings of the Boston Area Colloquium in Ancient Philosophy» XXIV (2008), pp.
163-185 nonché la replica di J.A. Martinez, Commentary on Sakezles, ivi, pp. 186-196.
17

L’idea, centrale nello Stoicismo antico, per cui l’essere felici e liberi con-
siste sostanzialmente nell’accettazione del ruolo che il destino ha assegnato,
ritorna in Epitteto (50-125 d.C.)33, benché le condizioni storiche e sociali in cui
opera questo filosofo e il suo stesso status (Epitteto era, infatti, uno schiavo
liberato) siano ormai radicalmente mutate rispetto all’epoca di Zenone, Cle-
ante e Crisippo. Epitteto, tuttavia, non può rinunciare a uno dei nodi cruciali
dello Stoicismo antico e, per giunta, della tradizione cinica cui egli più volte
si richiama34, sebbene la Stoa nel suo secolare cammino da Atene a Roma,
abbia subito modificazioni teoriche notevoli, in particolare con Panezio e con
Posidonio. Le Diatribe, trascritte da Arriano in maniera verosimilmente fedele
alla genuinità del pensiero di Epitteto, insieme al Manuale e ai libri A se stesso
dell’imperatore Marco Aurelio35, sono lo specchio delle particolari sembianze
che lo Stoicismo andò ad assumere a Roma in piena età imperiale.
Per comprendere correttamente la diatriba Sulla libertà (IV 1) occorre tenere a
mente un punto che rappresenta, per così dire, la “chiave di volta” della filosofia
di Epitteto, come si legge lucidamente in apertura del Manuale (1), la distinzione
forte – già ampiamente tematizzata da Aristotele nel libro III dell’Etica Nicoma-
chea in termini di “volontario” (to hekousion) e di “involontario” (to akousion)36
– fra ciò che è in nostro potere (ta eph’hemin) e ciò che non è in nostro potere
(ta ouk eph’hemin)37. Ora, ciò che è in nostro potere coincide con le cose dipen-
denti dalla nostra “volontà” (ta proairetika) o, più precisamente, dalla proairesis38
(ancora un termine aristotelico), la “scelta di vita morale”39, la deliberata capacità
di determinare i propri giudizi (dogmata). Epitteto è convinto che tanto la felicità
quanto la libertà non dipendano affatto da ciò che non è in nostro potere e, quindi,
da ciò che la nostra proairesis non può controllare: felicità e libertà dipendono da
noi, pertengono all’individuo e si ottengono tramite una costante opera, per così

33 
Sulla vita di Epitteto e sul suo contesto storico e culturale, v. A.A. Long, Epictetus. A
Stoic and Socratic Guide to Life, Oxford 2002, cap. 1.
34 
Cfr. quindi M. Schofield, Epictetus on Cynicism, in T. Scaltsas-A.S. Mason (eds.),
The Philosophy of Epictetus, Oxford 2007, pp. 71-86.
35 
Cfr. P. Hadot, La cittadella interiore. Introduzione ai “Pensieri” di Marco Aurelio,
tr. it. Milano 1996 e A. Giavatto, Interlocutore di se stesso. La dialettica di Marco Au-
relio, Hildesheim-Zürich-New York 2008; sulla figura dell’imperatore-filosofo si consi-
deri anche l’immagine decisamente “cupa” ricostruita da A. Fraschetti, Marco Aurelio.
La miseria della filosofia, Roma-Bari 2008.
36 
Per approfondire la distinzione aristotelica e la sua ricomprensione nella filosofia
successiva, in particolare plotiniana, si rinvia senz’altro a E. Eliasson, The Notion of
That Which Depends on Us in Plotinus and Its Background, Leiden-Boston 2008.
37 
Su tale distinzione cfr. W.O. Stephens, Stoic Ethics. Epictetus and Happiness as
Freedom, London-New York 2007, cap. 1.
38 
Per una prima panoramica su tale nozione v. R. Sorabji, Epictetus on proairesis and
Self, in T. Scaltsas-A.S. Mason (eds.), The Philosophy of Epictetus, cit., pp. 87-98.
39 
V. infatti A.J. Voelke, L’idée de volonté dans le stoïcisme, Paris 1973, pp. 144-148.
18

dire, “pedagogica” di “autodeterminazione”. La proairesis, la propria scelta di vita


che dipende unicamente da noi (è per questo che siamo in grado di “controllarla”),
determina i giudizi (dogmata) che noi formuliamo, per esempio, su ciò che è buono
e su ciò che non è buono; è esattamente il corretto giudizio su ciò che è buono
– giudizio che ovviamente dipende solo da me e, dunque, dalla “preparazione”
(paraskeue) e dall’“esercizio” (askesis)40 che mi hanno portato a giudicare corret-
tamente ciò che è buono e ciò che non lo è – che determina il mio essere felice o
libero. Se il soggetto, tramite la preparazione e l’esercizio costanti, è in grado di
distinguere ciò che dipende da se stesso e ciò che non lo è, tale distinzione lo con-
durrà alla formulazione di giudizi corretti, per esempio, che la libertà e la felicità
dipendono da sé, dall’accettazione serena di quanto il destino gli riserva, piuttosto
che dalla gloria, da onori o da ricchezze, in breve, da ciò che, non dipendendo da
lui ovvero dalla sua proaireis, è del tutto estraneo al proprio controllo. Insomma,
la libertà, la felicità e, pertanto, la responsabilità morale dipendono dalla capacità
che la proairesis possiede di determinare i miei giudizi; tale capacità, che appar-
tiene costitutivamente all’individuo e, quindi, è lo stesso individuo che è in grado
di controllarla, necessita di preparazione ed esercizio costanti.
La diatriba Sulla libertà riflette chiaramente tutti questi elementi che
costituiscono il cuore della proposta filosofica di Epitteto; già l’incipit, in que-
sto senso, è molto significativo perché Epitteto definisce libero chi vive come
vuole e non è costretto, ostacolato o forzato da alcunché41. In questa definizione
non si può non notare la presenza forte – quasi inestirpabile dalla filosofia di
Epitteto – della tradizione cinica che fa capo ad Antistene e Diogene e anche
dell’immagine di Socrate42, come si vedrà nel seguito; ed è proprio a Diogene
che Epitteto si rivolge come exemplum, paradigma dell’uomo libero, di colui
che afferma che per raggiungere davvero la libertà c’è un solo modo, quello di
essere sempre pronti a morire contenti. La libertà non deriva né dalla ricchezza,
né dall’essere amico di Cesare e neppure dalla gloria a cui si aspira: tutto que-
sto non dipende da noi perché non siamo in grado di controllarlo e ciò che
non dipende da noi non può condurci né alla felicità né alla libertà. Da questo
punto di vista, richiamandosi al Socrate dei Memorabili di Senofonte (IV 6 1)
che esortava a conoscere la natura di ogni cosa, Epitteto individua la causa nel
modo sbagliato di adattare le prenozioni (prolepseis) ai casi particolari43. Senza

40 
Su questa nozione cfr. B. Lodewijk Hijmans, ΑΣΚΗΣΙΣ. Notes on Epictetus’ edu-
cational system, Assen 1959; I. Xenakis, Epictetus Philosopher-Therapist, The Hague
1969, sp. capp. V-VIII; J. Sellars, The Art of Living. The Stoics on the Nature and Fun-
ction of Philosophy, Aldershot 2003, pp. 107-146, nonché M. Pohlenz, La Stoa. Storia
di un movimento spirituale, cit., pp. 695-696.
41 
In generale cfr. J.C. Gretenkord, Der Freiheitsbegriff Epiktets, Bochum 1981.
42 
V. infatti A.A. Long, Epictetus. A Stoic and Socratic Guide to Life, cit., cap. 3.
43 
Epitteto affronterà estesamente tale questione nel capitolo XVII del libro II delle
Diatribe.
19

addentraci troppo nel concetto stoico di prolepsis44, Epitteto molto probabil-


mente si sta riferendo a quei “contenuti” ottenuti naturalmente senza elabora-
zione tecnica comuni a tutti gli uomini45. Il problema, secondo Epitteto, non
risiede nel possesso o meno delle prenozioni ma nella loro applicazione ai casi
particolari; per esempio, chi non possiede naturalmente la prenozione del male?
Chi non sa che cosa è il male e che il male è sempre da fuggirsi ed evitare? Se
noi pensiamo che “male” sia non essere amico di Cesare – perché, magari, cre-
diamo che dall’essere amico di Cesare derivino molti beni e vantaggi fra cui la
libertà e la felicità – non è perché non abbiamo una corretta prenozione (preno-
zione non contraddice a prenozione, dice, infatti, Epitteto) ma perché erriamo
nell’applicare la prenozione (in questo caso, quella del male) al caso particolare
(l’essere amico di Cesare). Applicare correttamente le prenozioni ai casi parti-
colari significa, in ultima analisi, ottenere la scienza del vivere46 (episteme tou
bioun), ossia quel sapere logico e pratico allo stesso tempo47 che ci permette di
vivere senza impedimenti, nella piena consapevolezza che ciò che dipende non
da noi ma da altro non può renderci né liberi né felici. E allora – si noti ancora
l’insistente sfondo cinico – il corpo, la salute, la bellezza, i possedimenti, i figli,
gli amici non dipendono da me, non sono soggetti al mio potere (autoexousion).
Ma, dunque, che cosa davvero dipende da noi ed è “volontario”? Epitteto è
molto chiaro in proposito: è l’assenso (sygkatathesis), il dare l’assenso o meno a
una rappresentazione dipende interamente da noi, come già sosteneva Zenone
(Cicerone, Acad. I 40 = SVF I 61)48. Nessuno ha il potere di costringerci ad
assentire a qualcosa di falso così come nessuno può costringerci a deside-
rare ciò che non vogliamo: il piano dell’assenso è il luogo dove siamo auten-
ticamente senza impedimenti o costrizioni. Ma, come si ribadiva poco sopra,
saper distinguere le cose che dipendono da noi e quelle che dipendono da altri,

44 
Si veda perciò Diogene Laerzio, VII 54 e SVF II 83 nonché F.H. Sandbach, Enno-
ia and Prolēpsis in the Stoic Theory of Knowledge, in A.A. Long (ed.), Problems in
Stoicism, cit., pp. 22-37; F. Alesse, La dottrina delle prolh /yeij nello Stoicismo antico,
«Rivista di storia della filosofia» LXIV (1989), pp. 629-645 e D. Obbink, What all men
believe – must be true: common conceptions and the consensio omnium in Aristotle and
Hellenistic Philosophy, «Oxford Studies in Ancient Philosophy» X (1992), pp. 193-231.
45 
Così J. Souilhé, Épictète. Entretiens. Livre IV, Paris 1965, p. 8 n. 2. Sul concetto di
prolepsis nella filosofia di Epitteto occorre, tuttavia, considerare l’ampia trattazione di
A. Bonhöffer, Epictet und die Stoa. Untersuchungen zur stoischen Philosophie, Stutt-
gart 1890, pp. 188-199.
46 
Per un’utile panoramica sulla nozione di “arte della vita” nel mondo antico, v. C.
Horn, L’arte della vita nell’antichità. Felicità e morale da Socrate ai neoplatonici, a
cura di E. Spinelli, Roma 2004.
47 
In proposito v. J. Barnes, Logic and the Imperial Stoa, Leiden-New York-Köln 1997,
pp. 62-70 e P. Crivelli, Epictetus and Logic, in T. Scaltsas-A.S. Mason (eds.), The Philo-
sophy of Epictetus, cit., pp. 20-31.
48 
Cfr. anche Cicerone, Acad., II 37-39.
20

desiderare le prime, rivolgendo loro il nostro impulso (horme), ed evitare le


seconde, comporta preparazione ed esercizio costanti che consistono nell’ab-
battimento dell’“acropoli” delle cose che non dipendono da noi (e che, quindi,
non ci rendono né liberi né felici) per mezzo di “armi” particolari: i giudizi
(dogmata). I giudizi corretti sono quelli determinati dalla mia proairesis; si
tratta di giudizi che, dipendendo da me, mi conducono ad accettare felicemente
quanto Dio49 ha voluto per me; e ciò che Dio vuole, io devo desiderarlo: in que-
sto consiste la felicità e la libertà50. Lottare con Dio (theomachein) o biasimare
la propria sorte non ha alcun senso: è per questo che Epitteto riporta due versi
della cosiddetta “preghiera” di Cleante (= SVF I 527), richiamata poco sopra.
Ha senso, invece, desiderare ciò che Dio vuole, osservare i suoi disegni e il suo
governo sul cosmo, nella piena consapevolezza che è stato Dio stesso a dare a
me ciò che dipende dalla mia “volontà” (ta proairetika) e a lasciare a se stesso
ciò che soggetto al suo volere: è inutile lamentarci della malattia del corpo o
della perdita della vita, queste cose, infatti, non dipendono da noi e, dunque,
neppure possono farci felici e renderci liberi. L’esercizio e la cura (melete) con-
tinui «da mattina a sera» devono essere finalizzati alla “purificazione” dei giu-
dizi; l’esempio di Epitteto, a questo proposito, è molto calzante: la grandezza
d’animo, la nobiltà, l’ardire e la stessa libertà sono doni che Dio concede perché
siano usati dall’uomo.
L’uomo, tuttavia, non deve attaccarsi morbosamente a loro perché può usare
questi doni fino a quando vuole Dio; l’uomo, per non soffrire quando questi
doni verranno meno, deve esercitarsi nel credere che queste cose non sono così
necessarie. «Non dire che ti sono necessarie e non lo saranno», afferma Epit-
teto; si tratta di un esempio piuttosto chiaro della purificazione dei giudizi a
cui Epitteto esorta. Il giudizio corretto, ovvero determinato dalla proairesis,
dipende esclusivamente da noi: essere liberi significa esercitarsi da mattina a
sera a “mettere in pratica” il giudizio determinato dalla proairesis per cui la
libertà non dipende da altro se non da noi stessi; non dagli averi, dalla celebrità,
dall’essere amico di Cesare o dalla nobiltà di nascita ma dall’essere consapevoli
che si ha potere solo su ciò che dipende da noi, il che, in ultima analisi, è la
serena accettazione del volere di Dio: Dio stesso ha voluto che avessimo potere
sulle cose che dipendono dalla nostra stessa volontà.
Paradigmi assoluti di questa posizione non possono che essere Diogene e
Socrate; Diogene era libero perché la sua libertà dipendeva da se stesso. Si
dovrebbe credere, allora, che agli occhi di Epitteto l’uomo libero sia sempre
49 
Sulla nozione di Dio nel pensiero di Epitteto cfr. R. Radice, La concezione di Dio e
del divino in Epitteto, Milano 1982; K. Algra, Epictetus and Stoic Theology e K. Iero-
diakonou, The Philosopher as God’s Messenger, in T. Scaltsas-A.S. Mason (eds.), The
Philosophy of Epictetus, cit., pp. 32-55 e 56-70 nonché I. Xenakis, Epictetus Philoso-
pher-Therapist, cit., cap. IV.
50 
Cfr. quindi A.A. Long, Epictetus. A Stoic and Socratic Guide to Life, cit., cap. 7.
21

solitario come Diogene? No di certo. Socrate aveva moglie e figli, eppure era
libero perché li considerava cose altrui; avrebbe potuto fuggire dal carcere e
seguire l’esortazione di Critone, ma questo per Socrate non sarebbe stato un
guadagno: infatti, perché fuggire? Per chi sarebbe dovuto fuggire? Per i figli, la
moglie o per salvare il corpo miserabile? Queste cose sono estranee alla proai-
resis interna che determina correttamente i giudizi; del resto, per Socrate vale
lo stesso che per Diogene: Socrate «morendo si salva, non fuggendo» in quanto
«il bravo attore si salva, se si arresta al momento giusto più che se recita fuori
tempo». Socrate, secondo Epitteto, incarna perfettamente la fortunata “meta-
fora dell’attore” esposta, prima che da Epitteto (Ench. 17), dallo stoico Aristone
di Chio (SVF I 351): il saggio è come un bravo attore che sa interpretare in
modo adeguato tanto Tersite quanto Agamennone, assumendone di volta in
volta la maschera51. Accettare serenamente il destino che ci è stato assegnato
è compito del saggio così come al bravo attore appartiene la facoltà di recitare
bene sia che debba interpretare Tersite o Agamennone; a decidere se interpre-
tare Agamennone o Tersite o a stabilire quanto debba durare il dramma è colui
che lo allestisce, il capocomico (didaskalos; Epitteto, Ench., 17): l’attore deve
impersonare il ruolo che gli è stato assegnato, non sceglierlo. E, continuando
nella scia della metafora dell’attore, se il capocomico vuole che il dramma si
interrompa a un certo punto, così deve essere: il bravo attore salva se stesso e
la sua “professionalità” quando esce di scena al momento giusto e non quando
recita fuori tempo, proprio come ha saputo fare Socrate. Se si vuole essere
liberi, conclude Epitteto, occorre attendere a questi giudizi (dogmata) e a questi
esempi (paradeigmata); se non verrà meno il desiderio (epithymia) ossessivo di
ciò che non è in nostro potere, «sarai, dunque schiavo tra schiavi, anche se die-
cimila volte console»: occorre invece esercitarsi perché la proairesis determini
i propri giudizi in quanto solo il giudizio è ciò che rende davvero liberi (dogma
[…] eleutheropoion).

Risulterebbe assai brusco procedere dallo Stoicismo ad Agostino, così come


sarebbe impossibile introdurre il pensiero del vescovo di Ippona, senza conside-
rare, per quanto sinteticamente, l’imponente figura di Paolo di Tarso (5/10-64/67
d.C.)52 e i nodi cruciali contenuti nell’Epistola ai Romani, uno dei testi più signi-
ficativi e decisivi non solo della teologia ma anche della filosofia occidentale fino

51 
Su questa metafora si vedano le indicazioni di M. Vegetti, L’etica degli antichi,
cit., pp. 282-290 oltre a A.M. Ioppolo, Aristone di Chio e lo stoicismo antico, Napoli
1980, pp. 188-192 e P.P. Fuentes Gonzàlez, Les diatribes de Télès, Paris 1998, sp. pp.
148 e sgg.
52 
Per una prima introduzione alla figura e al pensiero di Paolo si vedano J.C. Beker,
Paul the apostle. The Triumph of God in Life and Thought, Philadelphia 1984; R. Fabris,
Paolo. L’apostolo delle genti, Milano 1997; T. Wright, Che cosa ha veramente detto
Paolo, trad. it. Torino 1999 e N.T. Wright, L’apostolo Paolo, trad. it. Torino 2008.
22

a e ben oltre Nietzsche53. Accostarsi a un testo di capitale rilievo come l’Epistola


ai Romani per chi abbia in mente la disputa sul libero arbitrio fra Erasmo e
Lutero e prima ancora quella che interessò Agostino e Pelagio (e soprattutto i
Pelagiani) può risultare piuttosto complesso; sulla scorta ermeneutica fornita da
Taubes54, per leggere Paolo non bisognerebbe mai omettere due punti: il primo,
che Paolo è un ebreo legato alla tradizione farisaica, quindi, un profondo e finis-
simo conoscitore della Legge, il secondo, che, come tale, Paolo utilizza categorie
ebraiche che si ritrovano con una certa costanza in gran parte dei suoi scritti
autentici. Ciò, ovviamente, non significa affatto sminuire o mitigare l’originalità
di Paolo; la sua indiscussa genialità, come si comprende leggendo con la debita
attenzione l’Epistola, consiste fondamentalmente nel tentativo difficile e impe-
gnativo di far convergere, mantenendola dialetticamente, la tensione fra legge
e grazia, fra “vecchio” e “nuovo”, in termini agostiniani, fra natura e gratia,
littera e spiritus55. La questione centrale (ma, si badi bene, non è l’unica; si tenga
presente, per esempio, la “trattazione politica” del capitolo 13) dell’Epistola ai
Romani è la giustificazione e, dunque, la salvezza. Come si legge nel Capitolo 1,
il vangelo (eyaggelion), alla lettera, il “buon annuncio”, è potenza, forza di Dio
(dynamis theou) per la salvezza (soteria) di tutti coloro che credono, prima del
Giudeo, poi del Greco; si osserva subito come se, per un verso, il buon annuncio
della salvezza e della redenzione è per tutti coloro che credono, per un altro,
la precedenza è del Giudeo rispetto al Greco, il Pagano, il che viene ulterior-
mente confermato dalla metafora escatologica dell’oleastro (i Pagani) innestato
sull’olivo buono (i Giudei), esposta da Paolo nel Capitolo 11 dell’Epistola.
La tesi fondamentale su cui verteranno i capitoli centrali è che «Il giusto
vivrà mediante la fede (ek pisteos)» (1 17); la fede (pistis), essendo in con-
nessione con la “giustizia”, ovvero con l’“esser giusto dell’uomo”, assume
un ruolo determinante nel problema della giustificazione e della salvezza.

53 
Il sussidio esegetico principale per una prima comprensione dell’Epistola ai Romani
rimane C.E.B. Cranfield, A Critical and Exegetical Commentary on the Epistle to the
Romans, vol. I: Introduction and Commentary on Romans 1-8, Edinburgh 1975-vol. II:
Commentary on Romans 9-16 and Essays, Edinburgh 1989 [rist. 2004] (cfr. la riduzione
predisposta dallo stesso autore, Romans, a Shorter Commentary, Edinburgh 19862 , di-
sponibile in traduzione italiana, La lettera di Paolo ai Romani, vol. I: Capitoli 1-8, Tori-
no 1998-vol. II: Capitoli 9-16, Torino 2000). Per un primo orientamento sull’epistola, in
particolare sui capitoli centrali (6-11) cfr. R. Penna, Lettera ai Romani, II Rm 6-11, Ver-
sione e commento, Bologna 2006; per una esegesi già “orientata” dello scritto paolino v.
K. Barth, L’Epistola ai Romani, Milano 2002 (ed. or. 1919; II ed. completamente rivista
1922) e le riflessioni in merito di H. Küng, La giustificazione, Brescia 1979, pp. 19-108.
54 
Cfr. infatti J. Taubes, La teologia politica di san Paolo. Lezioni tenute dal 23 al 27
febbraio 1987 alla Forschungsstätte della Evangelische Studiengemeinschaft di Heidel-
berg, Milano 1997, sp. pp. 35-103.
55 
Si tenga presente, però, che la coppia littera/spiritus è paolina (2Cor 3) prima che
agostiniana.
23

Paolo è convinto che sia i Pagani sia i Giudei siano oggetto dell’ira di Dio, i
primi, perché non hanno creduto in ciò che Dio stesso ha manifestato loro,
anteponendo sapienza, superbia e orgoglio, i secondi, perché, pur vivendo
sotto la legge santa che Dio ha concesso loro, vivono ipocritamente come se
non esistesse, pur sentendosi luce e guida di coloro che sono nelle tenebre;
l’esempio più chiaro è quello della circoncisione: la circoncisione è utile solo
a chi osserva la legge mentre chi non la osserva, pur essendo circonciso, al
cospetto di Dio, vale quanto un non circonciso, così come il non circonciso
che osserva e non trasgredisce i comandamenti della legge vale quanto un
circonciso.
Se tutti sono oggetti dell’ira divina, prima il Giudeo, poi il Greco, tutti
sono nel peccato ma, nonostante la legge (nomos), si è manifestata la giu-
stizia di Dio (dikaiosyne theou) per mezzo della fede (dia pisteos) in Gesù
Cristo (3 21). Ritornano i termini incontrati poco sopra (1 17); nonostante
tutti abbiano peccato, sia i Pagani che non conoscono Dio, sia quanti vivono
sotto la legge, per tutti coloro che credono si è manifestata in Gesù Cristo la
giustizia di Dio. Paolo, pur continuando a usare categorie fondamentalmente
ebraiche (per esempio, pur mantenendo la debita prudenza, il fatto che tutti
indistintamente sono nel peccato, malgrado ciò non fosse così “scontato” nel
Giudaismo dell’epoca) introduce la figura di colui che rappresenta un vero e
proprio “scarto” rispetto alla tradizione giudaica: Gesù Cristo. Senza la fede
nel Cristo, senza comprendere che non in un “fatto” generico ma in una “per-
sona” si manifesta la giustizia di Dio, è del tutto impossibile comprendere il
discorso di Paolo sulla giustificazione e sulla salvezza. La passione, la croce,
la resurrezione di Gesù Cristo segnano agli occhi di Paolo la manifestazione
piena della giustizia indebita e gratuita da parte di Dio per tutti coloro che
credono.
Ma che cosa significa “giustizia” di Dio? Quando Paolo in conclusione del
Capitolo 3 afferma che tutti hanno peccato ma sono giustificati (dikaioumenoi)
gratuitamente per la sua grazia (dorean te autou chariti), ossia per la reden-
zione operata da Gesù Cristo, sta affermando che non è l’uomo a farsi giusto
al cospetto di Dio ma è Dio che in Gesù Cristo rende giusto l’uomo; per com-
prendere questa “dialettica”, occorre entrare nella difficile e, per certi versi,
controintuitiva “logica” del dono. È interessante notare come Paolo delinei il
concetto di giustificazione tramite la fede; in conclusione del Capitolo 3, Paolo
afferma che l’unico Dio giustifica tanto i circoncisi quanto i non circoncisi per
mezzo della fede. La salvezza non è solo per i circoncisi in quanto solo costoro
possono vantare dei meriti, ma anche per i non circoncisi: sia gli uni che gli altri
sono salvati per fede, o più precisamente, i circoncisi dalla fede (ek pisteos), i
non circoncisi per mezzo della fede (dia tes pisteos). La giustizia di Dio, il fatto
che Dio nel sangue di Gesù Cristo renda giusto l’uomo al suo cospetto, indebi-
tamente e gratuitamente, è un dono che, in quanto tale, sospende ogni tipo di
24

logica economica che ci spinge a pensare il dono in termini di ottenimento e


contraccambio56.
In questo senso «Il giusto vivrà per fede» significa che le opere dell’uomo
non possono “valere” come meriti di fronte a Dio per l’ottenimento della sal-
vezza ma è Dio stesso che, indipendentemente da qualunque opera o merito,
rende giusto l’uomo, secondo una “logica” della predestinazione che non può
che sfuggirci: di fronte a Dio, l’uomo è giusto non perché fa ma perché riceve.
In quest’ottica, dunque, la fede grazie alla quale è possibile credere in Gesù
Cristo, non è un quid che l’uomo ha ottenuto, un qualcosa che va ad aggiun-
gersi più o meno efficacemente agli sforzi da lui compiuti o un “bene” che
l’uomo può ottenere con i suoi meriti: la fede è un dono indebito di Dio in
quanto non è un qualcosa che possiamo meritare o guadagnarci, magari con le
nostre doti intellettuali o con le nostre virtù morali. È un punto molto impor-
tante che occorre tenere a mente: la fede è un dono indebito e gratuito di Dio,
di conseguenza, il giusto è tale perché Dio lo rende giusto tramite la fede che
Dio stesso gli dona. Ma questo significa che la Legge, quella stessa Legge
donata da Dio agli uomini, non ha alcun valore o, quanto meno, non rico-
pre alcuna importanza? Occorre seguire il complesso discorso di Paolo. Dopo
aver descritto nel Capitolo 4 l’esempio di Abramo, Paolo entra nel cuore della
questione della salvezza; il dono di grazia che, mediante Gesù Cristo, è stato
effuso, ci concede di essere in pace con Dio. Il carattere indebito di questo
dono è riscontrabile nel fatto che Gesù Cristo è morto per gli empi, quando
tutti erano peccatori: è la dimostrazione piena dell’amore (agape) di Dio per
noi; Gesù Cristo, infatti, muore per noi quando eravamo peccatori. Proprio
a quest’altezza, alla fine del Capitolo 5, Paolo tematizza il parallelismo fra
Adamo e Gesù Cristo, novello Adamo; come il peccato è entrato nel mondo
per mezzo di un solo uomo, Adamo, così la grazia, o meglio, il dono (dorea) di
grazia che dà vita (zoe) è stato effuso e riversato in abbondanza per mezzo di
un solo uomo, Gesù Cristo; la relazione fra Adamo e Gesù Cristo, fra peccato e
grazia, dunque, continua a essere “dialettica”. Si nota chiaramente come Paolo
intenda istituire una relazione, per l’appunto, dialettica, ossia di “manteni-
mento” e di “convergenza” piuttosto che di “esclusione” assoluta, fra Adamo
e Gesù Cristo. È in questa relazione che si intuiscono il valore e la funzione
della legge57: Paolo sottolinea che prima della legge il peccato era presente
nel mondo, sebbene sia solo dopo la legge che esso possa essere imputato
(5 13), poiché è la legge che ha dato piena coscienza del peccato: «laddove è
abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (5 20). Sembra quasi che il
56 
Per una ricostruzione della significativa influenza del tema del “dono” sul pensiero
del XX secolo v. S. Zanardo, Il legame del dono, Milano 2007.
57 
Su questo complesso argomento cfr. per un primo inquadramento delle problemati-
che lo studio di H. Hübner, La legge in Paolo. Contributo allo sviluppo della teologia
paolina, tr. it. Brescia 1995.
25

peccato sia la condizione necessaria del dono di grazia, tuttavia, la questione


sta in altri termini ed è molto più complessa.
La “funzionalità” e l’abbondanza del peccato nei confronti della sovrabbon-
danza della grazia non può costituire il motivo per rimanere nel peccato, come
Paolo chiarisce all’inizio del Capitolo 6. Ma l’abbondanza della legge non può
essere neppure la ragione che possa in qualche modo spingerci a pensare che
la legge sia peccato perché antitetica alla grazia; nel Capitolo 7 si riscontra il
grandioso sforzo teorico di Paolo di far convergere la funzione della legge con
la sovrabbondanza indebita della grazia, effusa su tutti coloro che credono, per
mezzo della croce di Gesù Cristo. Certamente non si può affermare che la legge
(nomos) sia peccato (hamartia), in quanto la legge è stata data da Dio all’uomo;
se la legge fosse peccato, non solo non avrebbe più senso la “precedenza” del
Giudeo sul Greco ma soprattutto il dono della legge non sarebbe altro che un
“inganno” da parte di Dio. In che modo, quindi, Paolo riesce a preservare la
bontà e la santità della legge con il dono gratuito della grazia? La legge, data da
Dio agli uomini, ha una funzione che potremmo definire “conoscitiva”; senza
la legge, infatti, non solo il peccato, ossia la trasgressione del comandamento,
non è imputabile, ma non è neppure riconoscibile. L’esempio portato da Paolo è
quello della concupiscenza (epithymia), del desiderio ossessivo e irrefrenabile;
la concupiscenza è di per sé un peccato, ma quando è davvero imputabile e
autenticamente riconoscibile come tale? Solo quando il comandamento della
legge la vieta, dicendo «Non desiderare» (7 7): l’uomo pecca quando trasgre-
disce il comandamento divino. Si badi bene, però, a un punto molto delicato;
Paolo non esclude che prima della legge non vi fosse il peccato ma afferma che
prima della legge il peccato non era imputabile (5 13). La mancata imputabilità
del peccato comporta l’assenza di riconoscimento del peccato stesso da parte
dell’uomo e se il peccato non è imputabile e non viene riconosciuto come tale,
come può l’uomo essere considerato peccatore? Ciò, come è intuibile, avrebbe
una conseguenza temibile per la stabilità del potente edificio teorico eretto da
Paolo: se l’uomo non fosse peccatore, perché per la sua salvezza dovrebbe aver
bisogno del dono di grazia? Il peccato, dunque, prese occasione (aphorme)
dalla legge (7 8 e 11) ma non fu da essa causato; non si deve commettere l’er-
rore di credere che secondo Paolo la legge sia causa del peccato: se così fosse,
difficilmente la legge potrebbe essere definita santa e giusta.
Il peccato, quanto alle sue imputabilità e riconoscibilità, si limitò a prendere
occasione dalla legge, «Senza la legge infatti il peccato è morto» (7 8) «Ma,
sopraggiunto quel comandamento, il peccato ha preso vita » (7 9); la “morte”
e la “vita” del peccato come dipendenti dalla legge non possono essere intesi
in termini di dipendenza causale dalla legge. Affermare che il peccato prese
occasione dalla legge e che «la legge, che doveva servire per la vita, è divenuta
per me motivo di morte» (7 10) significa, in qualche modo, “discolpare” la legge
dall’essere causa del peccato. La legge, il cui fine era la vita (zoe) – pertanto Dio
26

ha dato la legge per la vita e non per la morte – è diventata motivo di peccato
non perché la legge sia malvagia, ingannevole o illusoria – «la legge è santa
(hagios) e santo (hagia) e giusto (dikaia) e buono (agathe) è il comandamento
(entole)» (7 12) – ma perché l’uomo non riesce ad adempiere i suoi dettami.
In questo senso, si potrebbe ancora pensare che la legge rimanga comunque
ingannevole, in quanto Dio sarebbe colpevole di aver dato una legge la cui
osservanza risulta impossibile per l’uomo. Ma Paolo non solo afferma che la
legge è spirituale (pneumatikos) mentre l’uomo è di carne (sarkinos; 7 14) ma
è il peccato e non la legge a dare la morte; oltre al rapporto legge/grazia, Paolo
introduce un’ulteriore relazione fra legge e peccato.
La legge rimane santa e giusta, tuttavia, il peccato si è servito della legge
(dunque, di ciò che è bene) non solo per arrecare la morte ma per rivelarsi
ancora più peccaminoso (kath’hyperbolen hamartolos), avvalendosi di ciò che
è santo è giusto, ovvero la legge data da Dio per la vita. Di conseguenza, il pec-
cato che ha preso occasione dalla legge ha fatto sì che tutti fossero nel peccato,
perché tutti, senza vantare alcun merito, fossero in condizione di ricevere il
dono di grazia, secondo il piano non universale di salvezza stabilito con miste-
riosa giustizia da Dio. L’attività incontrollata del peccato si manifesta aperta-
mente nella lotta interiore vissuta dall’uomo, dilaniato fra la legge buona e spi-
rituale e la sua carnalità; l’uomo non compie il bene (che pure vuole) ma il male
che non vuole (7 19). In sostanza, Paolo mette in luce come l’uomo compia il
male pur riconoscendo la santità della legge; nella sua carne, di certo, non abita
il bene, in essa risiede solo la volontà (to thelein) del bene ma non la capacità di
compierlo (to katergazesthai; 7 18): questa è la prova evidente che il male non
viene operato dall’uomo ma dal peccato che abita nella sua carne, peccato che,
dunque, non si identifica affatto con il carattere spirituale della legge ma con
un’altra “specie” di legge (7 25: «Io dunque, con la mente (noi), servo la legge
di Dio, con la carne (sarki) invece la legge del peccato»). Ma se siamo sotto il
dominio dello spirito (en pneumati; 8 9), lo spirito di Dio abita in noi e noi non
possiamo più vivere secondo la carne ma secondo lo spirito che è in grado di
far morire le opere del corpo (praxeis tou somatos; 8 13) e, quindi, di donare
la vita. Vivendo in questo modo, non possiamo che attendere la redenzione
del nostro corpo (apolytrosis tou somatos; 8 23) ed essere destinati alla gloria
futura, la cui manifestazione, che la creazione stessa, gemendo e soffrendo,
attende con impazienza, è imminente; esiste, quindi, un piano, un disegno
(prothesis) stabilito da Dio da sempre e per sempre58: tutto è finalizzato al bene
(eis agathon; 8 28) per coloro che amano Dio. Ma l’uomo non può collaborare
Sulla possibile presenza di elementi del pensiero stoico in Paolo, oltre al “classico”
58 

M. Pohlenz, Paulus und die Stoa, Darmstadt 1964 si veda l’analisi condotta da T. Eng-
berg-Pedersen, Stoicism in the Apostle Paul, in S.K. Strange-J. Zupko (eds.), Stoicism.
Traditions and Trasformations, Cambridge 2004, pp. 52-75 (T. Engberg-Pedersen ha
dedicato a questo tema anche l’ampia monografia Paul and the Stoics, Edinburgh 2000).
27

per ottenere la salvezza poiché il piano della salvezza è opera di Dio: Dio ha
predestinato (proorisen; 8 29) alcuni a essere conformi all’immagine del Figlio
e solo costoro sono stati chiamati, resi giusti e dunque glorificati: da sempre
Dio ha amato Giacobbe e odiato Esaù (9 13) o ha indurito il cuore del Faraone.
La nozione di predestinazione si collega strettamente a quella di grazia; non
vi può essere, infatti, predestinazione senza l’opera, chenotica e rigenerante
allo stesso tempo, della grazia; solo alcuni sono stati chiamati a ricevere il
dono di grazia, ma non per i loro meriti che nulla valgono al cospetto di Dio,
ma per la misteriosa e misericordiosa sapienza di Dio. L’obiezione più intuitiva
che adesso come allora si potrebbe muovere a questo imperscrutabile piano di
salvezza sarebbe quella di accusare Dio di essere ingiusto (9 14), di non tenere
a mente le opere di bene che gli uomini compiono in vista della loro reden-
zione. Ma Paolo, come poi Agostino e successivamente Lutero59, sa bene che la
“logica” di Dio non coincide in nulla con quella dell’uomo e, forse, con quella
del maligno (Tu non pensavi ch’io loico fossi, dirà il Satana di Dante – Inf.
XXVII 123); come risponderebbe, dunque, Paolo all’accusa di ingiustizia nei
riguardi dell’opera di Dio? Paolo risponde esattamente come farà poi Agostino:
«O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto
sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!» (11 33). La logica
umana è razionale ed economica, si fonda sullo “scambio” giusto, armonico ed
equilibrato fra le parti; quella di Dio, invece, è la “logica” del dono misericor-
dioso, paradossale e carismatico, che svuota e sospende il rapporto simmetrico
fra i contraenti. Tutto ciò risulta profondamente incomprensibile e ancora una
volta insensato e paradossale se non si tiene conto della croce di Gesù Cristo60
dove l’opera di Dio, che agisce sub contraria specie come ribadirà insistente-
mente Lutero, si manifesta apertamente61.
È per questo motivo che le densissime pagine dell’Epistola ai Romani si col-
legano perfettamente alle righe di apertura della Prima Lettera ai Corinzi, dove
Paolo contrappone efficacemente la sapienza del discorso (sophia logou) alla
croce di Cristo (stauros tou Christou); la parola della croce (logos tou stau-
rou) assume in sé un carattere contraddittorio e ambivalente poiché è stoltezza
(moria) per coloro che vanno in perdizione e potenza di Dio (dynamis theou)
per coloro che si salvano (I 1 17). Con la croce62, Dio ha mostrato l’inconsi-

59 
Sulla stretta relazione fra Paolo, Agostino e Lutero che determina in maniera decisi-
va i caratteri della tradizione moderna e occidentale cfr. senz’altro lo studio di G. Pani,
Paolo, Agostino, Lutero: alle origini del mondo moderno, Soveria Mannelli 2005.
60 
In merito si consultino senz’altro le dense pagine di J. Moltmann, Il Dio crocifisso.
La croce di Cristo, fondamento e critica della teologia cristiana, tr. it. Brescia 2008, sp.
capp. II e VI.
61 
Per un’acuta lettura della dimensione paradossale del Cristianesimo cfr. E. Bloch,
Ateismo nel cristianesimo. Per la religione dell’Esodo e del Regno, tr. it. Milano 2005.
62 
Su questo tema, molte sono le difficoltà esegetiche che non si possono debitamente
28

stenza e l’intrinseca stoltezza della sapienza di questo mondo che, pur dicen-
dosi dotto e intelligente, non ha saputo riconoscere l’opera di Dio; mentre i
Giudei richiedono insistentemente dei “segni” (semeia) e i Greci ricercano la
sapienza (sophia), la forza dello spirito spinge Paolo a predicare Cristo croci-
fisso «scandalo per i Giudei, stoltezza per i Pagani» (I 1 23). Dio si rivela in
Cristo, che Paolo definisce potenza (dynamis) e sapienza (sophia) di Dio; questa
“sapienza crocifissa”, tuttavia, non ha nulla a che vedere con quella del mondo.
La parola della croce, “altra” rispetto alla parola del mondo, sospende, rove-
scia e sconvolge ogni logica: «ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli
uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (I 1 25). Dio
stesso, secondo Paolo, ha scelto deliberatamente non ciò che è nobile, sapiente
o potente per manifestarsi; se lo avesse fatto, non solo la parola della croce
sarebbe stata oltremodo vana ma l’uomo nobile, sapiente e potente avrebbe
potuto gloriarsi al cospetto di Dio63. Ma un uomo del genere non potrebbe che
vantarsi di se stesso e celebrare i propri meriti. Dio, invece, ha scelto ciò che
nel mondo è ultimo, debole, ignobile e disprezzato per confondere l’uomo forte,
sapiente e nobile di modo che non possa così ostentare se stesso di fronte a Dio;
Dio, in termini sempre più paradossali e costitutivamente antitetici all’ipocrita
logica del mondo, non ha scelto l’essere ma il nulla (ta me onta), «per ridurre
a nulla le cose che sono (ina ta onta katargese)» (I 1 28), dunque, per fare del
nulla il vero e autentico essere, rendendo l’essere una mera parvenza che, nella
sua apparente sapienza e falsa saldezza, non ha saputo riconoscere la rivela-
zione dell’opera di Dio: la dialettica asimmetrica continua a collegare la fini-
tezza dell’uomo con il dono carismatico di grazia da parte di Dio.
Prima di passare ad Agostino, va però tenuto conto di un nodo assoluta-
mente cruciale; leggere l’Epistola ai Romani tramite la mediazione agostiniana
(spesso difficilmente eliminabile) significa fondamentalmente correre il rischio
di “schiacciare” o “appiattire” la nozione di predestinazione di Paolo su quella
agostiniana, senza rilevarne la specificità e le differenze. Da questo punto di
vista, sembrerebbe che Paolo non abbia una nozione di “predestinazione indi-
viduale”, ossia i reietti, iniziando dal Pagano e proseguendo con l’Ebreo che
non crede, tendenzialmente vengono tutti salvati. Di conseguenza, la nozione
paolina di predestinazione si declina, per così dire, in termini “economici” e
“collettivi”; in altre parole, non si dà “questo reietto qui”, nella sua specifica

approfondire in questa sede; per un primo inquadramento cfr. M. Hengel, Crocifissione


ed espiazione, tr. it. Brescia 1988.
63 
È, dunque, a ragione che M. Weber (Economia e società. L’economia in rapporto
agli ordinamenti e alle forze sociali. Comunità religiose, a cura di H.G. Kippenberg,
in collaborazione con P. Schilm e J. Niemer, edizione italiana condotta sul nuovo testo
critico della Max Weber-Gesamtausgabe a cura di M. Palma, Roma 2006) sottolinea, in
riferimento al Cristianesimo, «l’immane tensione di questa religiosità contro l’intellet-
tualismo» (p. 258) che, tuttavia, nello stesso tempo finì per impiegare per i suoi scopi.
29

singolarità, ma i reietti – lo si ribadisce, prima il Pagano poi l’Ebreo – sono con-


siderati economicamente in termini, per l’appunto, collettivi in quanto colletti-
vamente vengono salvati. A questo punto, tuttavia, sorge un’ulteriore difficoltà,
davvero di non poco conto; sembra che vi sia una sorta di “sfasatura” fra la sal-
vezza universale (che Dio vuole tramite la sua paradossale predestinazione) e
l’esito concreto della salvezza: non essendoci apocatastasi in senso origeniano,
ossia la reintegrazione/redenzione in termini escatologici di tutte le creature
(anche di Satana, dunque), secondo un disegno salvifico universale, misteriosa-
mente alcuni pare non si salveranno, non avendo creduto o non avendo accolto
la salvezza gratuita da parte di Dio.
In Paolo, pertanto, mantenendo sempre una buona dose di prudenza, Dio
vuole che tutti si salvino, malgrado questo concretamente sembra non accada.
La specifica peculiarità concettuale che separa Paolo e Agostino in merito alla
nozione di predestinazione, risiede proprio su questo punto: secondo Paolo,
Dio non vuole la reiezione di nessuno, né del Pagano, né dell’Ebreo (di qui la
salvezza universale voluta da Dio), laddove per Agostino non è affatto vero che
Dio non voglia la reiezione di nessuno. La misteriosa nozione agostiniana di
predestinazione si fonda su un Dio che, del tutto incomprensibilmente, para-
dossalmente e insindacabilmente, vuole la salvezza di alcuni e la reiezione
di altri, il che sembra non costituire la peculiarità della nozione paolina che,
stando all’esegesi barthiana, per molti aspetti condivisibile, ammette un Dio
che ha voluto “indurire” tutti (come sempre, prima il Pagano, poi l’Ebreo) per
poi tutti salvare gratuitamente, malgrado in Paolo rimanga una “dissimmetria”
fra la salvezza universale voluta da Dio e il suo esito concreto.

Le pagine dell’Epistola ai Romani costituiscono lo strumento ideale e asso-


lutamente inevitabile per esaminare, anche se in modo sintetico, le nozioni di
grazia e predestinazione64 in Agostino di Ippona (354-430 d.C.)65. Anzitutto
64 
Per un primo ma efficace orientamento v. A. Trapè, Introduzione generale, in Id.-M.
Palmieri-F. Monteverde, Sant’Agostino. Grazia e libertà, Nuova Biblioteca Agostinia-
na, Opere di Sant’Agostino vol. XX, Roma 1987, pp. IX-CCIII; cfr. anche J.M. Rist,
Augustine on free Will and Predestination, «Journal of Theological Studies» 20 (1969),
pp. 420-447; V. Grossi, Libertà, grazia e predestinazione in Agostino, «Parola spirito
e vita» 23 (1991), pp. 307-318 e J. Wetzel, Snares of truth: Augustine on free will and
predestination, in R. Dodaro-G. Lawless, Augustine and His Critics. Essays in honour
of Gerald Bonner, London-New York 2000, pp. 124-141. Sulla ricezione delle nozioni
di grazia e predestinazione cfr. J. Lössl, Augustine on Predestination. Consequences
for the Reception, «Augustiniana» 52 (2002), pp. 241-272 e V. Grossi, La ricezione ago-
stiniana della predestinazione. Difficoltà antiche e moderne, «Augustinianum» XLIX
(2009), pp. 191-221. Più in generale v. H.-J. Sieben S. J., Augustinus-Rezeption in Kon-
zilien von seinen Lebzeiten bis zum Zweiten Vatikanum, «Theologie und Philosophie»
84 (2009), pp. 161-198.
65 
Per un inquadramento della vita e dell’opera del vescovo di Ippona, si vedano i lavori
30

va chiarito come Agostino non sia un pensatore semplice, nel senso etimolo-
gico del vocabolo, poiché la sua prismatica personalità filosofica e teologica,
ma prima ancora religiosa, carismatica e pastorale, assume dei caratteri molto
complessi, simbolo, questo, dei suoi straordinari sforzi teorici che lo portano a
essere una figura profondissima e fondamentale del pensiero occidentale66. Non
è possibile in questa sede, come è stato detto all’inizio, tentare una pur som-
maria introduzione al pensiero agostiniano; si cercherà, invece, di delineare
quelli che sono i tratti più essenziali della sua ricchissima riflessione sul libero
arbitrio e sulla grazia immeritata.
Per far questo occorre tener conto di alcuni aspetti dell’ampia biografia ago-
stiniana67; anzitutto, il 396/397 è una data fondamentale e di “svolta” perché
segna con l’Ad Simplicianum (ed è Agostino stesso a esserne consapevole) la
scoperta da parte di Agostino della grazia indebita e predestinata68: tale “svolta”
è talmente significativa e straordinaria che porta Agostino a interrompere il De
doctrina christiana, opera che aveva iniziato negli anni 395-396 (nello stesso
periodo in cui aveva letto le opere di Ticonio, in particolare il Liber regularum69
sulle modalità di interpretazione della Sacra Scrittura)70 e che completerà solo
nel 42771. L’Ad Simplicianum, in cui Agostino risponde ad alcune questioni al
di E. Gilson, Introduzione allo studio di s. Agostino, trad. it. Casale Monferrato 1983;
P. Brown, Agostino d’Ippona, trad. it. Torino 2005 e di C. Horn, Sant’Agostino, trad. it.
Bologna 2005. V. anche M. Bettetini, Introduzione a Agostino, Roma-Bari 2008. Per i
testi di Agostino è stata utilizzata l’edizione della Nuova Biblioteca Agostiniana (Roma
1965 ss.).
66 
Per una prima sintetica panoramica in questo senso cfr. E. Przywara, Agostino inFor-
ma l’Occidente, a cura di P. Cevasco, Milano 2007.
67 
Per una visione d’insieme sulla biografia di Agostino e sul contesto storico cfr. J.J.
O’Donnell, Augustine: his time and lives, in E. Stump-N. Kretzmann (eds.), The Cam-
bridge Companion to Augustine, Cambridge 2001, pp. 8-25.
68 
Sui contenuti dell’Ad Simplicianum cfr. J. Wetzel, Pelagius Anticipated: Grace and
Election in Augustine’s Ad Simplicianum, in J. McWilliam (ed.), Augustine. From Rhe-
tor to Theologian, Waterloo 1992, pp. 121-132 e M.G. Mara, Il De diversis quaestioni-
bus ad Simplicianum, in AA.VV., «De diversis quaestionibus octoginta tribus» e «De
diversis quaestionibus ad Simplicianum» di Agostino d’Ippona, Lectio Augustini XII-
Settimana Agostiniana Pavese, Roma 1996, pp. 129-149.
69 
È verosimile ritenere che la sezione De promissis et lege (su cui v. le sintetiche an-
notazioni di J.J. Ayán Calvo, Ticonio. Libro de las reglas, Fuentes Patrísticas 23, Madrid
2009, pp. 41-42) del Liber regularum abbia particolarmente influenzato Agostino; per
un’aggiornata introduzione all’opera di Ticonio si veda J.-M. Vercruysse, Tyconius. Le
Livre des Règles, Sources Chrétiennes n° 488, Paris 2004, pp. 11-104 (sull’influenza
dello scritto su Agostino cfr. sp. pp. 91-94; per alcuni rinvii bibliografici in merito si
vedano le pp. 124-127).
70 
In proposito v. in sintesi P. Grech, Il terzo libro del De doctrina christiana, in AA.
VV., «De doctrina christiana» di Agostino d’Ippona, Lectio Augustini XI-Settimana
Agostiniana Pavese, Roma 1995, pp. 81-99, pp. 97-99.
71 
In merito è d’obbligo rinviare all’ampio studio G. Lettieri, L’Altro Agostino. Erme-
31

vescovo Simpliciano, il successore di Ambrogio sulla cattedra di Milano, segna


questa svolta decisiva, confermata dalla riscoperta di Paolo72 e dalla conse-
guente interpretazione, del tutto innovativa, dell’Epistola ai Romani, in par-
ticolare dei Capitoli 7-11. Occorre, inoltre, fare ancora una duplice premessa
per comprendere meglio, da un lato, la specificità della svolta agostiniana,
dall’altro, l’originalità dell’interpretazione agostiniana dell’Epistola ai Romani
di Paolo. In primo luogo, è lecito parlare di “svolta” nel pensiero di Agostino in
quanto le opere che precedono l’Ad Simplicianum sembrano essere profonda-
mente influenzate dal “platonismo” (si intenda questa espressione soprattutto
in termini metafisico-ontologici) che Agostino aveva conosciuto e approfondito
intorno al 386 grazie alla lettura dei Libri Platonicorum73, ossia delle opere di
Plotino e Porfirio tradotte in latino da Mario Vittorino.
Il “platonismo” di Agostino sembrerebbe piuttosto manifesto nei cosid-
detti Dialoghi di Cassiciaco (Contra Academicos; De beata vita; De ordine;
Soliloquia) dove Agostino, sulla scia di Giustino e Clemente di Alessandria,
espone a chiare lettere il proprio tentativo di conciliare le verità del Cristia-
nesimo con quelle della filosofia pagana. In opere come il De libero arbi-
trio74 (dove Agostino in polemica con i Manichei75 sottolinea la centralità
neutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi del “De doctrina christia-
na”, Brescia 2001, in particolare alle conclusioni, pp. 607-622; su questo aspetto risulta
forse poco condivisibile l’impostazione prospettata da C. Harrison, Rethinking Augu-
stine’s Early Theology. An Argument for Continuity, Oxford 2006.
72 
Si vedano in merito gli studi raccolti in Agostino lettore e interprete di Paolo, Lectio
Augustini XX-Settimana Agostiniana Pavese (2004), Roma 2008, nonché P. Gorday,
Principles of patristic exegesis. Romans 9-11 in Origen, John Chrysostom, and Augu-
stine, New York-Toronto 1983, cap. V; M.G. Mara, L’influsso di Paolo in Agostino, in
J. Ries-F. Decret-W.H.C. Frend-M.G. Mara, 2000, Le epistole paoline nei manichei, i
donatisti e il primo Agostino, Sussidi patristici 5, Roma 1989, pp. 125-162; Ead., Ago-
stino interprete di Paolo, Commento di alcune questioni tratte dalla Lettera ai Romani,
Commento incompiuto della Lettera ai Romani, Torino 1993 e H. Jonas, Agostino e il
problema paolino della libertà. Studio filosofico sulla disputa pelagiana, a cura di C.
Bonaldi, Brescia 2007. Significativamente H. Arendt (Il concetto d’amore in Agostino.
Saggio di interpretazione filosofica, a cura di L. Boella, Milano 2004) scrive che «È
stato effettivamente lo studio delle lettere di Paolo a farne [scil. Agostino] un cristiano
e tanto più diventava cristiano, tanto più diventava paolino» (p. 28 n. 23).
73 
Sul “platonismo” di Agostino cfr. A.H. Armstrong, St. Augustine and Christian Pla-
tonism, Villanova 1967; W. Beierwaltes, Agostino e il neoplatonismo cristiano, Milano
1995 e in particolare G. Catapano, Introduzione generale, in Id. (a cura di), Agostino.
Tutti i dialoghi, Milano 2008, pp. vii-cxcvii.
74 
Su quest’opera cfr. S. Harrison, Augustine’s Way into the Will. The Theological and
Philosophical Significance of De Libero Arbitrio, Oxford 2006.
75 
Sulla polemica di Agostino con i Manichei si considerino almeno K.E. Lee, Augu-
stine, Manichaeism, and the Good, New York 1999 e i saggi contenuti in La polemica
con i manichei di Agostino di Ippona, Lectio Augustini XIV-Settimana Agostiniana
Pavese, Roma 2000.
32

della volontà della creatura nella possibilità della conversione)76 o il De vera


religione (in cui Agostino rileva come l’attività della ragione sia finalizzata
all’attingimento della verità), si nota chiaramente l’importanza che l’“autode-
terminazione” riconosciuta alla volontà della creatura assume nell’ordinato,
armonico e “ottimistico” percorso di conversione dal peccato alle verità della
fede77. Ma certamente il documento più significativo del “primo” Agostino78,
ossia dell’Agostino precedente alla rivoluzionaria svolta dell’Ad Simplicianum,
rimane senz’altro il De doctrina christiana (naturalmente prima della sua
interruzione, dunque, prima della composizione delle Confessiones); si tratta
di un’opera molto complessa, la cui lettura, tuttavia, fa comprendere quanto le
pagine dell’Ad Simplicianum abbiano costituito per Agostino – e non solo per
la sua riflessione filosofico-teologica ma soprattutto per la sua stessa vita spi-
rituale – un cambiamento radicalissimo ma non un completo rifiuto o un’ener-
gica “sconfessione” di ciò che la nuova prospettiva della grazia predestinata
necessariamente escludeva.
Secondo una metafisica e un’ontologia platonicamente ordinate e armoniche,
Agostino nel De doctrina christiana descrive il creato, ossia il reale, come un
sistema di “segni”79 che rinviano al Dio personale, inteso come l’unico vero
Bene che deve essere amato di per se stesso e sopra ogni cosa; la salvezza,
dunque, è possibile, solo se, grazie alla libertà, all’intelligenza e all’amore che
Dio ottimisticamente gli riconosce, l’uomo “transiti” dai segni all’unico Bene
assoluto cui gli stessi segni rinviano. In secondo luogo, per valutare adeguata-
mente l’originalità dell’esegesi agostiniana dell’Epistola ai Romani va ricordato
che prima di Agostino non esisteva per le Lettere di Paolo un’interpretazione
unitaria e standard; è innegabile che nei primi due secoli cristiani i testi paolini
delle Lettere furono accolti da alcuni ambienti e rifiutati da altri; laddove questi

76 
Sulla nozione di volontà nel De libero arbitrio cfr. R. Holte, St. Augustine on Free
Will (“De libero arbitrio” III), in, AA.VV., «De libero arbitrio» di Agostino d’Ippona,
Lectio Augustini VI-Settimana Agostiniana Pavese, Palermo 1990, pp. 67-84.
77 
Sul cosiddetto “periodo filosofico” di Agostino si veda il contributo di G. Catapano,
Il concetto di filosofia nei primi scritti di Agostino. Analisi dei passi metafilosofici dal
Contra Academicos al De uera religione, Roma 2001.
78 
Cfr. perciò G. Lettieri, L’Altro Agostino. Ermeneutica e retorica della grazia dalla
crisi alla metamorfosi del “De doctrina christiana”, cit., pp. 115-116.
79 
In proposito cfr. R.A. Markus, Signs, Communication, and Communities in Augusti-
ne’s De doctrina christiana, in D.W.H. Arnold-P. Bright (eds.), De doctrina christiana.
A Classic of Western Culture, Notre Dame-London 1995, pp. 97-108 e U. Pizzani, Il
secondo libro del De doctrina christiana, in AA. VV., «De doctrina christiana» di
Agostino d’Ippona, Lectio Augustini XI-Settimana Agostiniana Pavese, Roma 1995,
pp. 39-79. Più in generale sulla “semiotica agostiniana” cfr. G. Manetti, Le teorie del
segno nell’antichità classica, Milano 1987, pp. 226-241 e le note a p. 254 e M. Bettetini,
Agostino d’Ippona: i segni, il linguaggio, in G. Manetti (ed.), Knowledge through Signs:
Ancient Semiotic Theories and Practices, Turnhout 1996, pp. 207-272.
33

testi vennero accolti, furono sin da subito organizzati in un corpus, ossia in un


canone piuttosto stabile. Questo accadde anche all’Epistola ai Romani che vede
la sua prima massiccia utilizzazione proprio nei primi due secoli, a opera di
Gnostici e Marcioniti; data l’evidente rilevanza di un testo del genere, che per
certi versi poteva esporsi alle più diverse esegesi, spesso profondamente diver-
genti ed eterogenee se non opposte fra loro, è chiaro che l’Epistola ai Romani
divenne uno dei testi più influenti della prima tradizione cristiana soprattutto
perché costitutiva la base scritturistica per avvalorare le teologie della giustifi-
cazione e le esegesi vetero- e neotestamentarie più disparate80. Di conseguenza,
l’esegesi dell’Epistola ai Romani proposta da Agostino nell’Ad Simplicianum
è solo una fra quelle che sono state avanzate nei primi secoli del Cristiane-
simo. Nell’Ad Simplicianum la simmetrica metafisica di stampo platonizzante
che prevedeva una struttura ontologica, una gerarchia dell’essere armonica e
ordinata al cui vertice vi era Dio, Bene assoluto e primo, sembra essere scom-
parsa; la grazia non è più solamente suasiva o congrua (ovvero che si adatta
alle disposizioni dell’uomo) così come l’uomo non viene salvato per il fatto che
Dio possiede la sola prescienza81 dei suoi meriti, ma all’interno della massa
peccatorum82 Dio dona gratis (dunque, indebitamente e a-razionalmente)83 agli
80 
Sulla lunga tradizione esegetica e sul ruolo decisivo dell’Epistola ai Romani nella
storia del Cristianesimo, in particolare in Origene, in Agostino, negli esegeti medievali,
in Lutero fino a K. Barth, cfr. per un primo orientamento M. Reasoner, Romans in Full
Circle: A History of Interpretation, Louisville 2005; imprescindibile, tuttavia, rimane
il volume di E. Dassmann, Der Stachel in Fleisch. Paulus in der frühchristlichen Li-
teratur bis Irenäus, Münster 1979. Si tenga presente il ruolo particolarmente decisivo
del Commentario all’Epistola ai Romani di Origene (nella traduzione latina di Rufino)
sul primo Agostino nonché su Pelagio; in merito si consultino le sintetiche ma utili os-
servazioni di M. Fédou in C.P. Hammond Bammel (Texte critique établi par)-M. Fédou
(Introduction par)-L. Brésard (Traduction, Notes et Index par), Origène. Commentaire
sur l’Êpître aux Romains, Tome I (Livres I-II), Source Chrétiennes n° 532, Paris 2009,
pp. 91-96. Non meno importanti sembrano essere state la risonanza e la fortuna su Ago-
stino e Pelagio dei Commentarii in epistulas Pauli del cosiddetto Ambrosiaster (anonimo
autore così denominato da Erasmo), scritti verosimilmente sotto il pontificato di Damaso
(366-384). Sull’influenza dell’opera v. le brevi note di A. Pollastri, Ambrosiaster. Com-
mento alla Lettera ai Romani, Collana di testi patristici 43, Roma 1984, pp. 30-33 e di
S. Lunn-Rockliffe, Ambrosiaster’s Political Theology, Oxford 2007, pp. 17-19 e 26; più
in generale sui caratteri teologici del commentario cfr. A. Pollastri, Ambrosiaster. Com-
mento alla Lettera ai Romani. Aspetti cristologici, L’Aquila 1977.
81 
V. dunque D. Decelles, Divine Prescience and Human Freedom in Augustine, «Au-
gustinian Studies» 8 (1977), pp. 151-160.
82 
Su questa immagine si veda lo studio di M.G. Mara, Agostino d’Ippona: massa pec-
catorum, massa sanctorum, in Ead., Paolo di Tarso e il suo epistolario. Ricerche stori-
co-esegetiche, L’Aquila 1983, pp. 129-147.
83 
Per una panoramica sula nozione di “gratuità” v. i saggi raccolti in Charité-Gratuité,
«Mélanges de Science Religieuse» 66 (2009); in particolare, sulla scelta gratuita da
parte di Dio nell’esegesi agostiniana di Rm 9 v. da ultimo I. Bochet, “Qu’as-tu que tu
34

uomini predestinati la grazia, immeritata e del tutto incondizionata. In questa


prospettiva agli occhi di Dio nulla valgono la sapienza degli uomini, la loro
cultura o i loro “buoni” valori e sforzi morali: se si pensa che questi siano i
presupposti in virtù dei quali Dio dovrebbe scegliere in vista della salvezza,
«dopo aver stabilito queste condizioni, colui che ha scelto i deboli del mondo
per confondere i forti e gli stolti per confondere i sapienti mi irriderà a tal punto
che, fissandolo e corretto dalla vergogna, anch’io mi prenderò gioco di molti,
e i più casti rispetto a certi peccatori e gli oratori rispetto a certi pescatori»,
del resto, «Non vediamo molti nostri fedeli che camminano nella via di Dio e
non possono affatto paragonarsi per ingegno, non dico a certi eretici ma nep-
pure ai commedianti? Non vediamo inoltre persone di ambo i sessi che vivono
nella castità coniugale senza lamentarsi, e tuttavia sono eretici o pagani o, pur
vivendo nella vera fede e nella vera Chiesa, sono così tiepidi da essere superati,
con nostra meraviglia, non solo nella pazienza e temperanza ma anche nella
fede, speranza e carità, dalle prostitute e dai commedianti appena convertiti?»
(Ad Simpl. II 2.22).
La scelta di Dio non bada alla volontà dell’uomo, alla sua capacità di sforzarsi
per ottenere la salvezza; la grazia rimane un dono incondizionato, predesti-
nato, gratuito in forza dell’abissale – e si dica pure “pessimistica” – asimmetria
fra Dio e l’uomo. È in quest’ottica che Agostino interpreta la funzione della
legge nell’Epistola ai Romani; l’uomo non è in grado di adempiere i dettami
della legge santa e giusta ma è solo dopo l’elezione misteriosa e predestinata
della grazia che è in grado di soddisfare pienamente il comandamento: nel De
gratia et libero arbitrio (14. 27) si legge, infatti, che è la grazia «a fare sì che
la legge si adempia, la natura si liberi, il peccato non domini». Questo è il
cuore della polemica che per circa venti anni interessò Agostino e i seguaci del
monaco Pelagio84, nato in Britannia e successivamente giunto a Roma sul finire
del IV secolo. I Pelagiani (in prima linea, Giuliano di Eclano)85 non escludono
la grazia ma affermano che questa si identifichi con la legge di Dio, come si
osserva nel De gratia et libero arbitrio, una fra le ultime opere scritte da Ago-
n’aies recu”?: Le choix gratuit de Dieu. Les Commentaires Augustiniens de Rom. 9, in
L’exégèse patristique de Romains 9-11. Grâce et liberté. Israel et nations. Le mystère
du Christ, Colloque février 2007, Centre Sèvres-Facultés jésuites de Paris, Cahiers de
Patristique n° 142, Paris 2007, pp. 125-148.
84 
Sulla figura di Pelagio oltre allo studio “classico” di G. de Plinval, Pélage ses écrits,
sa vie et sa réforme, Lausanne-Genève 1943, cfr. R.F. Evans, Pelagius: Inquiries and
Reappraisals, New York 1968 e B.R. Rees, Pelagius: Life and Letters, Woodbridge
1998; si veda inoltre il commento di Pelagio all’Epistola ai Romani disponibile in T.
De Bruyn, Pelagius’s Commentary on St Paul’s Epistle to the Romans, Oxford 1993
nonché J.P. Burns, The interpretation of Romans in the Pelagian Controversy, «Augu-
stinian Studies» 10 (1979), pp. 43-54.
85 
Cfr. da ultimo M. Lamberigts, Julian of Aeclanum on Natural Virtues and Rom. 2:14,
«Augustiniana» 58 (2008), pp. 127-140
35

stino per chiarire la sua dottrina della grazia predestinata (11.23); la grazia, in
sostanza, veniva considerata da costoro la legge di Dio – che Paolo definisce
“spirituale” – e la creazione della libertà nell’uomo da parte di Dio. L’uomo,
secondo i Pelagiani, era stato messo da Dio nelle condizioni ottimali per adem-
piere il comandamento della legge poiché Dio stesso aveva creato la libertà86.
L’uomo, pertanto, in virtù dei propri sforzi – che al cospetto di Dio sono quindi
“meriti” – riusciva per buona parte autonomamente a ottemperare ai dettami
della legge87. A questa visione Agostino non può che opporre la sua “sovver-
siva” esegesi dell’Epistola ai Romani e accusare i Pelagiani di aver frainteso
e contraddetto la parola di Paolo88; la grazia, infatti, non può identificarsi con
la legge in quanto Paolo ha chiarito come il peccato prendesse occasione e
forza dalla legge. Del resto, «Se la giustificazione viene dalla natura, il Cristo è
morto invano! Ma se il Cristo non è morto invano, allora la natura umana non
potrà mai in nessun modo essere giustificata e riscattata dalla giustissima ira
di Dio, cioè dalla sua punizione, se non mediante la fede e il sacramento del
sangue del Cristo», scrive Agostino nel De natura et gratia (2.2), opera appar-
tenente al periodo della polemica antipelagiana del 412-415.
La morte di Gesù Cristo sulla croce è del tutto vana se la giustificazione
deriva dalla natura e non dalla grazia incondizionata e predestinata; questa è
l’accusa che Agostino muove ai Pelagiani, rilevando come la natura umana, cre-
ata da Dio, intrinsecamente buona ma decaduta per il peccato di Adamo, non
può che essere reintegrata e redenta dalla grazia effusa da Cristo sulla croce.
Per chiarire meglio la centralità della tensione – ancora una volta dialettica –
fra libero arbitrio e grazia incondizionata nella produzione agostiniana, è utile
prendere in esame due brevi passaggi tratti dal libro III del Contra duas epistu-
las Pelagianorum (8.24; 9.25), altra opera antipelagiana scritta nel periodo in
cui Agostino era impegnato nella polemica con il pelagiano Giuliano di Eclano
(419-423): «E il libero arbitrio, diventato schiavo, non vale che a peccare; per la
giustizia invece non vale, se non è liberato e aiutato da Dio. […] Così la nostra
86 
Sulle radici origeniane di questa posizione cfr. G. Lettieri, v. Progresso, in A. Mo-
naci Castagno (a cura di), Origene. Dizionario, Roma 2000, pp. 379-392 oltre alle brevi
note di M. Schär, Das Nachleben des Origenes im Zeitalter des Humanismus, Basel-
Stuttgart 1979, p. 40 e n. 235.
87 
A ragione A. von Harnack (Storia del dogma. Un compendio, a cura di G. Campoccia
e P. Gajewski, Torino 2006), parla del pelagianesimo come «razionalismo cristiano»
(p. 324).
88 
Per una panoramica sull’ampia controversia fra Agostino e la dottrina pelagiana e
per un’introduzione alle opere antipelagiane del vescovo di Ippona risulta ancora utile
rinviare ad A. Guzzo, Agostino contro Pelagio, Torino 1934; v. anche G. Bonner, Pe-
lagianism and Augustine e Id., Augustine and Pelagianism, «Augustinian Studies» 23
(1992), pp. 33-52 e 24 (1993), pp. 27-47 ed É. Rebillard, Exégèse et orthodoxie: Augustin
et Pélage sur la grâce, in AA.VV., L’esegesi dei Padri Latini. Dalle origini a Gregorio
Magno, Roma 2000, I pp. 219-223.
36

affermazione che l’arbitrio umano, libero nel male, dev’essere liberato dalla
grazia di Dio a fare il bene, è contro i pelagiani; ma la nostra affermazione che
dal libero arbitrio è sorto il male che prima non esisteva, è contro i manichei».
Questo passo è molto significativo perché in poche battute Agostino chiari-
sce la propria posizione nei riguardi dei suoi due “tradizionali” oppositori, i
Manichei e i Pelagiani; contro i Manichei, che ammettevano una duplicità di
principi non nettamente distinti ma, per così dire, “mescolati” reciprocamente,
l’uno buono e divino, la Luce, l’altro malvagio e diabolico, le Tenebre89, Ago-
stino oppone la sua visione per cui il libero arbitrio (e solo questo) è l’autentico
responsabile della presenza del male nel creato90. Prima del peccato di Adamo,
il libero arbitrio era stato donato da Dio all’uomo perché quest’ultimo potesse
autodeterminarsi e, dunque, perché fosse imputabile e meritevole della bontà
misericordiosa di Dio; dopo il peccato, il libero arbitrio ha assunto una sola
libertà, quella di peccare e di compiere il male, essendo schiavo del peccato. Il
libero arbitrio, dunque, è “libero” di compiere il male ma non è “liberato” dalla
grazia.
Se contro i Manichei vale l’idea che è per opera del libero arbitrio, schiavo del
peccato, che il male è entrato nel mondo, contro i Pelagiani Agostino afferma
che solo la grazia indebita, donata incondizionatamente da Dio, è in grado di
liberare davvero l’arbitrio dell’uomo, rendendolo non più schiavo del peccato
ma libero di fare il bene. Agostino non vuole estirpare il libero arbitrio ma
sottolineare con decisione che, dopo il peccato di Adamo, esso non è più libero
di compiere il bene, dunque, non è in grado di concorrere autonomamente alla
propria salvezza; il peccato di Adamo ha reso la volontà dell’uomo schiava del
peccato perché rivolta egoisticamente solo in se stessa. La volontà dell’uomo,
libera solo di compiere il male, è piena di se stessa, è, cioè, responsabile di
un radicato amor sui91 finalizzato a realizzare il male; in questa condizione,
l’uomo non è in grado di ottenere quel dono incontrollabile e indisponibile
che è la grazia di Dio. La grazia, invece, che sospende ogni logica del merito
e del contraccambio economico, è talmente irresistibile92 che la volontà della
creatura umana viene attratta e non può che esserne attratta93: «Noi dunque
89 
Per un’introduzione cfr. A. Magris, Il manicheismo. Antologia di testi, Brescia 2000.
90 
In proposito cfr. la messa a punto di I. Sciuto, La volontà del male tra libertà e arbi-
trio, in L. Alici-R. Piccolomini-A. Pieretti, Il mistero del male e la libertà possibile, Atti
del VI seminario del Centro di Studi Agostiniani di Perugia, Roma 1995, pp. 111-138.
91 
Su questo tema v. le indicazioni di G. Lettieri, Il senso della storia in Agostino d’Ip-
pona. Il «saeculum» e la gloria nel «De Civitate Dei», Roma 1988, pp. 94-100. Cfr.
anche le significative riflessioni di H. Arendt, La vita della mente, a cura di A. Dal Lago,
Bologna 2009, pp. 401-430.
92 
Sul tema della irresistibilità della grazia cfr. J. Wetzel, Augustine and the Limits of
Virtue, Cambridge 1992, pp. 197-206.
93 
Sulla nozione agostiniana di volontà cfr. almeno A. Dihle, The Theory of Will in
Classical Antiquity, Sather Classical Lectures 48, Berkeley-Los Angeles-London 1982,
37

vogliamo, ma è Dio che opera in noi il volere» (De dono pers. 13. 33). In que-
sto modo, la volontà sarà davvero libera di compiere il bene, non perché è
costretta a farlo ma perché lo desidera effettivamente: «[…] la grazia di Dio
non è concessa secondo i nostri meriti, dal momento che la vediamo attribuita
non solo senza che uno abbia meritato precedentemente in senso buono, ma
anche dopo che abbia meritato numerose volte in senso cattivo. Anzi possiamo
costatare che proprio in questo modo viene data ogni giorno. Chiaramente una
volta che è stata data, allora cominciamo ad acquisire anche meriti nel bene,
ma sempre attraverso di essa; infatti se essa ci si sottrae, l’uomo cade, non
innalzato, ma abbattuto dal libero arbitrio. Per questa ragione neppure quando
l’uomo ha cominciato ad avere meriti nel bene deve attribuirli a se stesso, bensì
a Dio […]», scrive in proposito Agostino nel De gratia et libero arbitrio (6.
13). L’opera gratuita e predestinata di Dio non elimina la volontà umana «ma
la cambia da cattiva in buona e dopo averla fatta buona la soccorre […] e dopo
averla resa buona la dirige alle azioni buone e alla vita eterna. Ma se anche ci
sono volontà che conservano la condizione di questo mondo, queste sono in
potere di Dio in maniera tale che egli le può far inclinare dove vuole, quando
vuole, sia per rendere benefici ad alcuni, sia per infliggere castighi ad altri,
come egli giudica con un giudizio assolutamente occulto, sì, ma senza dubbio
assolutamente giusto» (De grat. et lib. arb. 20. 41).
È Dio che muove la volontà dell’uomo attraendola irresistibilmente (di qui la
nota espressione agostininana victrix delectatio del De peccatorum meritis et
remissione, II 19 32), di modo che la volontà stessa, senza alcuna costrizione
e del tutto deliberatamente, voglia realizzare il bene, desiderandolo effettiva-
mente: non c’è autentica libertà senza grazia così come non c’è dono che com-
porti costrizione. Da questo punto di vista, il merito della volontà non può
precedere la misteriosa elezione della grazia; se così fosse la grazia sarebbe
un debito dovuto da Dio all’uomo e non un dono elargito dalla sua imperscru-
tabile e giustissima sapienza (In Io. ev. tr. 3. 9). Tutto ciò che l’uomo possiede,
deriva da Dio, pertanto anche i meriti sono solo successivi alla grazia. Come
Agostino non intende eliminare la volontà dell’uomo, il suo libero arbitrio, così
non vuole affatto escludere i suoi meriti e le sue opere; tuttavia, affermare che
i meriti precedono la grazia significa “pelagianamente” identificare la grazia
con la legge e, dunque, con la stessa capacità riconosciuta all’uomo di adem-
piere il comandamento, cooperando attivamente per l’ottenimento della propria
salvezza. In Agostino, il merito non può precedere ma solo seguire la grazia;
anzi, per essere più chiari, i meriti devono esserci dopo la grazia. Nella dottrina
della grazia predestinata di Agostino, il merito non viene annullato ma è posto
in dipendenza della fede, dono di Dio, e della grazia; è la grazia, insomma, a

cap. 6 ed E. Rannikko, Liberum arbitrium and Necessitas. A Philosophical Inquiry into


Augustine’s Conception of the Will, Helsinki 1997.
38

fondare il merito e non viceversa: «la grazia non è assegnata in ricompensa alle
opere, ma viene conferita gratuitamente» (De grat. et lib. arb. 8. 19). Il dono di
grazia, paradossalmente, può essere inteso come la strenua difesa da parte di
Agostino della libertà della volontà dell’uomo; senza la grazia, la volontà non
può dirsi effettivamente libera. L’autentica libertà consiste nel volere il bene e
la sua realizzazione, ma ciò è impossibile per una volontà che, per via del pec-
cato adamitico, non sia mossa da Dio, dove e come vuole Dio stesso; la grazia
né reprime, né costringe né obbliga la volontà dell’uomo ma l’attrae, la richiama
e l’attira a sé irresistibilmente perché la volontà stessa desideri liberamente il
bene e il suo compimento.
Se la grazia fosse costrizione, la volontà libera dell’uomo risulterebbe del
tutto inconsistente94; contro Giuliano di Eclano, Agostino ripete che «Si enim
cogitur, non vult» (C. Giul. op. inc. 1 101), se uno è costretto, non vuole: non la
costrizione, quindi, ma l’irresistibilità della grazia è la condizione della libertà
della volontà95. Da quest’ottica è interessante esaminare brevemente la posizione
di Agostino nei riguardi del fatalismo stoico96, già considerato in precedenza.
Nel libro II del Contra duas epistulas Pelagianorum si legge che «Coloro che
appunto affermano il fato, dalla posizione delle stelle che chiamano costella-
zioni, nel tempo in cui ciascuno è concepito o nasce, fanno dipendere non solo
i comportamenti e gli eventi, ma anche le stesse nostre volontà. Al contrario la
grazia di Dio trascende non solo tutte le stelle e tutti i cieli, ma anche tutti gli
angeli. Inoltre gli assertori del fato attribuiscono al fato e i beni e i mali degli
uomini. Al contrario Dio nei mali degli uomini insegue i loro demeriti con il
dovuto contraccambio, ma quanto ai beni li elargisce per grazia non dovuta
con misericordiosa volontà. Ambedue le cose Dio le fa non in dipendenza del
congiungimento temporaneo delle stelle, ma secondo l’eterno e profondo dise-

94 
Su questo aspetto si considerino le riflessioni di E. Stump, Augustine on free will, in
Id.-N. Kretzmann (eds.), The Cambridge Companion to Augustine, cit., pp. 124-147, ma
sp. pp. 136-142.
95 
Cfr. quindi H. Rondet, La liberté et la grâce dans la théologie augustinienne, in
AA.VV., Saint Augustin parmi nous, Paris 1954, pp. 201-222.
96 
Per un debito approfondimento si considerino le utili ed efficaci indicazioni di G. Let-
tieri, Fato e predestinazione in De. civ. Dei V, 1-11 e C. duas ep. Pelag. II, 5, 9-7, 16, in
M. Simonetti-P. Siniscalco (a cura di), Studi sul cristianesimo antico e moderno in onore
di Maria Grazia Mara («Augustinianum» XXXV), vol. II Studi agostiniani, Il Cristia-
nesimo nei secoli, Roma 1995, pp. 457-496 nonché Id., L’Altro Agostino. Ermeneutica
e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi del “De doctrina christiana”, cit.,
cap. 10. V. anche W. Rordorf, Saint Augustin et la tradition philosophique antifataliste.
Á propos de De. Civ. Dei V, 1-11, «Vigiliae Christianae» 1974 (28), pp. 190-202; G.J.P.
O’Daly, Predestination and Freedom in Augustine’s Ethics, in G. Vesey (ed.), The Phi-
losophy in Christianity, Cambridge 1989, pp. 85-97 nonché M. Djuth, Stoicism and Au-
gustine’s Doctrine of Human Freedom after 396, in J. Schnaubelt-F. Van Fleteren (eds.),
Augustine: “Second Founder of the Faith”, New York 1990, pp. 387-401.
39

gno della sua severità e bontà» (6 12); la posizione di Agostino sembra essere
chiara: la grazia di Dio oltrepassa le stelle e i cieli97 in quanto non è da questi che
dipende la volontà ma è Dio che conduce dove e come vuole la volontà dell’uomo
secondo il suo imperscrutabile disegno e la sua provvidenziale sapienza.
Sembrerebbe trattarsi di una critica molto decisa contro il fatalismo stoico
ma per comprendere correttamente i suoi aspetti bisogna procedere con ordine.
Agostino nel libro V del De Civitate Dei (dunque in uno dei primi dieci libri
scritti fra il 413 e il 417) fornisce un’interpretazione del fatalismo compati-
bile con la sua dottrina della grazia predestinata. Il rapporto fra Agostino e lo
Stoicismo è piuttosto controverso; per certi versi, Agostino è molto critico nei
riguardi della filosofia stoica (per esempio, ne contesta la dottrina delle passioni
nel libro XIV 8-9 del De Civitate Dei), per altri, invece, sembra essere alquanto
benevolo con i filosofi del Portico. Agostino (De Civ. Dei V 8) ritiene che il
fato stoico sia il nesso (connexio) ordinato di tutte le cause in virtù delle quali
si verificano tutti i fenomeni; egli è convinto che non occorra polemizzare con
coloro che ammettono il fato in questi termini in quanto il problema non risiede
tanto nei contenuti quanto nel significato che si attribuisce alle parole. Proprio
all’inizio del libro V, del resto, Agostino aveva chiarito che chi definisce “fato”
il volere o il potere di Dio può certamente mantenere questa teoria, sebbene
occorra rettificarne la terminologia. Di conseguenza, al di là del significato
delle parole, Agostino concorda con gli Stoici sull’idea che il fato sia la connes-
sione necessaria delle cause grazie a cui si verifica la totalità dei fenomeni; in
Agostino (e oltre il pensiero stoico)98 l’infinita series causarum rimanda al Dio
personale che conosce tutte le cose prima che queste avvengano e non permette
che nulla possa eludere l’ordine da lui stabilito.
Quasi come convalida di tale concordia, Agostino riporta la cosiddetta “pre-
ghiera” di Cleante, riferita come si ricorderà anche da Epitteto, nella tradu-
zione latina offerta da Seneca (Ep. 107 10 = SVF I 527). L’aspetto significativo
risiede nel fatto che Agostino sottolinea come da Dio dipenda sì ogni potere
ma non ogni volere; questa precisazione non può essere letta in polemica con
97 
G. Lettieri, Fato e predestinazione in De. civ. Dei V, 1-11 e C. duas ep. Pelag. II, 5,
9-7, 16, cit., sottolinea in proposito un aspetto assai significativo: «[…] ciò che pre-
me ad Agostino è non tanto difendere la libertà dell’uomo da un’eterna divina volontà
onni(pre)sciente e predestinante, quanto personalizzare il fato stoico, distinguendolo da
un impersonale ordine astrologico» (p. 465). Sull’influenza dello Stoicismo su Agostino
si vedano il contributo di G. Verbeke, Augustin et le Stoïcisme, «Recherches augusti-
niennes» 1 (1958), pp. 67-89 e l’ampio saggio di M.L. Colish, The Stoic Tradition from
Antiquity to the early Middle Ages, II. Stoicism in Christian Latin Thought through the
Sixth Century, Leiden 1985, cap. 4, nonché M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimen-
to spirituale, cit., pp. 944-970.
98 
Si vedano in proposito gli utili spunti di riflessione proposti da W. Pannenberg, Teo-
logia e filosofia. Il loro rapporto alla luce della storia comune, trad. it. Brescia 2004,
cap. 4.
40

gli Stoici, soprattutto perché Agostino, attento lettore del De fato di Cicerone
(un testo con cui si confronta dialetticamente con costanza), in De Civ. Dei V
10 rileva, differentemente dal passo del Contra duas epistulas Pelagianorum,
come gli Stoici, avendo paura della necessità «si affaticarono a distinguere le
cause delle cose in maniera da esimerne alcune dalla necessità e di assogget-
tarne altre. Fra quelle che considerarono libere dalla necessità hanno posto
anche le nostre volontà perché non sarebbero libere se fossero soggette alla
necessità»; senza entrare nel merito della correttezza di questa lettura, sem-
brerebbe molto plausibile che Agostino stia riferendo sinteticamente i tentativi
di Crisippo di far coesistere necessità e libertà. A ogni modo, ciò che qui inte-
ressa è il fatto che Agostino ritenga che gli Stoici abbiano “salvato” la libertà
della volontà, esimendola dalla necessità del fato. Come si è visto, Agostino, al
di là delle differenti terminologie, concorda con gli Stoici (o meglio, con l’in-
terpretazione che dà del pensiero stoico) sul fatto che da Dio derivi ogni potere
ma non ogni volere; in questo modo non solo si comprende adeguatamente il
senso del passo del Contra duas epistulas Pelagianorum riportato sopra, ma è
ancora più chiara la risolutezza di Agostino nel ribadire che da Dio non possa
derivare ogni volere, in quanto il volere che ha per oggetto il compimento e
la realizzazione del male non può dipendere da Dio (De Civ. Dei V 9 4). La
volontà che ha per oggetto il male, ovvero il libero arbitrio che dopo il peccato
di Adamo è libero solamente di compiere il male, può essere redenta solo
dalla grazia incondizionata e irresistibile che conduce la volontà a desiderare
liberamente di compiere il bene. Anche per Agostino, dunque, esiste un ordine
necessario che poi, in ultima analisi, è l’ordine ontologico della metafisica pla-
tonica a cui si richiamava il “primo” Agostino ma completamente ricompreso
e riassorbito nella dottrina della grazia predestinata e indebita, dunque, da una
prospettiva nuova e di certo rivoluzionaria.
Senza alcun dubbio dall’Inno a Zeus all’Ad Simplicianum, la nozione di libertà
ha subito non poche modifiche; malgrado ciò, tanto nello Stoicismo quanto in
Agostino rimane stabile l’idea che non si dà libertà se non in relazione a un
ordine nettamente determinato che nulla può tentare di eludere. Sembra diffi-
cile ammettere che la libertà sia condizionata dall’ordine necessario delle cause
che, per esempio, in Agostino deriva dal piano imperscrutabile di Dio; e la dif-
ficoltà deriva in buona sostanza dal fatto che la nozione moderna e contempora-
nea di libertà poco ha a che vedere con quella antica o del primo Cristianesimo.
In una ricostruzione che mira per quanto possibile all’oggettiva fedeltà storica,
occorre, quindi, fare attenzione a non attribuire al mondo antico, al Cristiane-
simo di Paolo e Agostino e soprattutto ai sistemi metafisici che ne sono alla
base, nozioni e concetti che sono loro estranei99.

99 
Seppure in estrema sintesi, credo che, per evitare rischiosi fraintendimenti, occorra
specificare un aspetto importante; il Cristianesimo antico risulta storicamente molto
41

Tanto negli Stoici presi in esame quanto in Agostino, si manifesta il duplice


tentativo di salvare la libertà dell’uomo nell’ordine necessario del tutto e di
emancipare Dio dall’essere in relazione diretta con il male. In questo tentativo,
che ha visto convergere posizioni filosofiche spesso assai eterogenee fra loro,
vanno tuttavia messe in rilievo la specificità nonché l’originalità del paradigma
agostiniano, date da una teologia della grazia indebita e predestinata, assoluta-
mente incompatibile con il concorso dei meriti e delle opere dell’uomo.
La possibilità di conciliare la grazia con il concorso dell’uomo, lo si ribadisce
ancora, è agli occhi di Agostino un modo di svilire la morte di Gesù Cristo e di
screditare il carattere assoluto e incondizionato del dono di grazia: è la grazia
che crea il merito e non viceversa. Riprendendo le citazioni poste in epigrafe e
considerando la metafora del “mantello”100, se per Crisippo la distruzione del
mantello non dipende solo dal fato ma anche dalle cure che gli si prestano e se,
da una certa prospettiva, forse non troppo distante da quella crisippea, la gra-
zia viene pensata come un mantello che non può ricoprire un individuo senza
il suo concorso, una radicale teologia della grazia imperscrutabile e incondi-
zionata, invece, rifiuta una comprensione simile, conservando un paradigma
invincibile di assolutezza che non ammette nessun tentativo di cooperazione.
Al di là e oltre la ragione che in questa dimensione non può che vacillare101, la
grazia, “declinandosi” in termini di eccedenza, crea dal nulla un nuovo ordine
di senso, l’ordine erotico102 di un dono non universale che scuote le fondamenta
di qualunque gerarchia ontologica e morale, irrigidita sul modello del debito, e
che non ammette né disponibilità né tanto meno restituzione. In quest’ottica la
grazia è simile a un mantello che Dio dona irresistibilmente. A noi non tocca
neppure decidere se indossarlo o meno.

Francesco Verde

più “antiagostiniano” di quanto si possa pensare; sono del parere, dunque, che si tratti
di una questione di centrale importanza per accostarsi in modo corretto e, per quanto
possibile, obiettivo alla storia di questo periodo.
100 
Sulla fortuna della metafora del “mantello” e della “tunica” nel mondo antico cfr. M.
Gigante, L’ultima tunica, Napoli 1988.
101 
Di diverso parere M. Vannini, La religione della ragione, Prefazione di R. De Mon-
ticelli, Milano 2007; su questo tema, sulla genesi e sullo sviluppo del rapporto fra re-
ligione e ragione dall’illuminismo in poi è utile consultare G. Filoramo, Religione e
ragione tra Ottocento e Novecento, Roma-Bari 1985.
102 
Su tale aspetto cfr. R. Bodei, Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, Bolo-
gna 2005, sp. pp. 67-150 nonché le riflessioni di M. Scheler, Ordo amoris, a cura di E.
Simonotti, Brescia 2008.
Cleante

Inno a Zeus*

(SVF** I 537)

*
Tr. it. di R. Radice in Stoici antichi. Tutti i frammenti secondo la raccolta di Hans von
Arnim, Milano 2002, pp. 236-239.
**
H. von Arnim (collegit), Stoicorum Veterum Fragmenta, III voll., Leipzig 1903-1905;
IV vol. quo Indices continentur, conscripsit M. Adler, Leipzig 1924. Il testo greco ripro-
duce quello stabilito dall’edizione di H. von Arnim.
Stobaeus Ecl. I 1, 12 p. 25, 3. Klea/nqouj
Ku/dist¡ a)qana/twn, poluw¯nume pagkrate\j ai¹ei¿,
Zeu= fu/sewj a)rxhge/, no/mou meta\ pa/nta kubernw½n,
xaiÍre! se\ ga\r kaiì pa/ntessi qe/mij qnhtoiÍsi prosauda=n.
¹Ek sou= ga\r ge/noj ei)/s )h)/xou mi¿mhma laxo/ntej
mou=noi, oÀsa zw¯ei te kaiì eÀrpei qnh/t¡ e)piì gaiÍan!
t%½ se kaqumnh/sw, kaiì so\n kra/toj ai¹e\n a)ei¿sw.
Soiì dh\ pa=j oÀde ko/smoj e(lisso/menoj periì gaiÍan,
pei¿qetai, v ken aÃgvj, kaiì e(kwÜn u(po\ seiÍo krateiÍtai!
toiÍon eÃxeij u(poergo\n a)nikh/toij e)niì xersiìn
a)mfh/kh, puro/enta, ai¹eizw¯onta kerauno/n!
tou= ga\r u(po\ plhgv=j fu/sewj pa/nt¡ eÃrga <telei=tai>!
%Ò su\ kateuqu/neij koino\n lo/gon, oÁj dia\ pa/ntwn
foit#= mignu/menoj mega/loij mikroiÍj te fa/essi!
%Ò su\ to/soj gegawÜj uÀpatoj basileu\j dia\ panto/j.
Ou)de/ ti gi¿gnetai eÃrgon e)piì xqoniì sou= di¿xa, daiÍmon,
ouÃte kat¡ ai¹qe/rion qeiÍon po/lon ouÃt¡ e)niì po/nt%,
plh\n o(po/sa r(e/zousi kakoiì sfete/raisin a)noi¿aij!
a)lla\ su\ kaiì ta\ perissa\ e)pi¿stasai aÃrtia qeiÍnai,
kaiì kosmeiÍn taÃkosma, kaiì ou) fi¿la soiì fi¿la e)sti¿n.
âWde ga\r ei¹j eÁn pa/nta sunh/rmokaj e)sqla\ kakoiÍsin,
wÐsq¡ eÀna gi¿gnesqai pa/ntwn lo/gon ai¹e\n e)o/nta,
oÁn feu/gontej e)w½sin oÀsoi qnhtw½n kakoi¿ ei¹si,
du/smoroi, oià t¡ a)gaqw½n me\n a)eiì kth=sin poqe/ontej
ouÃt¡ e)sorw½si qeou= koino\n no/mon, ouÃte klu/ousin,
%Ò ken peiqo/menoi su\n n%½ bi¿on e)sqlo\n eÃxoien!
au)toiì d¡ auÅq¡ o(rmw½sin aÃnoi kako\n aÃlloj e)p¡ aÃllo,
oiá me\n u(pe\r do/chj spoudh\n duse/riston eÃxontej,
oiá d¡ e)piì kerdosu/naj tetramme/noi ou)deniì ko/sm%,
aÃlloi d¡ ei¹j aÃnesin kaiì sw¯matoj h(de/a eÃrga.
<a)lla£ kakoi =j e)pe/kursan>, e)p¡ aÃllote d¡ aÃlla fe/rontai
speu/dontej ma/la pa/mpan e)nanti¿a tw½nde gene/sqai.
Alla\
¹ Zeu= pa/ndwre, kelainefe/j, a)rgike/raune,
a)nqrw¯pouj <me\n> r(u/ou a)peirosu/nhj a)po\ lugrh=j,
SVF I 537 O Zeus, il più nobile degli immortali, dai molti nomi,
sempre onnipotente,
signore della natura, che governi ogni essere secondo la legge, salve! È
un diritto di tutti i mortali rivolgersi a te.
Noi veniamo da te e abbiamo in sorte un’immagine del suono, noi soli
fra tutti i viventi che si muovono sulla terra.
Ti dedico il mio canto e sempre inneggerò alla tua potenza.
A te obbedisce tutto il nostro cosmo che ruota intorno alla terra;
dovunque lo conduci, volentieri ti si sottomette,
perché tu hai nelle tue mani invincibili uno strumento:
la folgore forcuta, infuocata, sempre viva.
Sotto il tuo colpo tutti gli eventi naturali si compiono.
Con esso tu regoli il Logos comune che dovunque
si aggira, mescolandosi sia ai lumi grandi che ai piccoli;
grazie a esso tu sei divenuto re supremo del tutto.
Senza di te, o dio, niente avviene sulla terra né nell’etereo cielo divino
né nel mare,
tranne i disegni che i malvagi con le loro follie mettono in atto.
Ma tu gli eccessi sai ridurli a misura,
il disordine all’ordine e le cose ostili sai renderle amiche.
Così, tutto hai reso in unità, il bene e il male,
affermando un unico Logos eterno per tutte le cose.
Però, alcuni mortali che sono malvagi lasciano fuggendo questo Logos.
Miseri! Eppure non smettono di desiderare i beni,
ma intanto non guardano alla legge universale di dio, né danno ascolto.
A chi renderebbe la loro vita serena secondo ragione, se solo gli
dessero retta.
Eccoli allora stoltamente vagare di male in male
gli uni guadagnandosi angosciosi contrasti per amore della fama;
gli altri per il guadagno, agitandosi fuor di misura, altri ancora
lasciandosi andare ai piaceri e alle piacevolezze del corpo.
Comunque, nei mali si imbattono, trascinandosi dall’uno all’altro,
votandosi a cose che sono proprio l’opposto di queste <che tu vuoi>.
Ma tu o Zeus, dispensatore di tutti i doni, addensatore di nubi, dalla
vivida folgore libera gli uomini dalla rovinosa ignoranza;
46

hÁn su/, pa/ter, ske/dason yuxh=j aÃpo, do\j de\ kurh=sai


gnw¯mhj, v pi¿sunoj su\ di¿khj me/ta pa/nta kuberna=j,
oÃfr¡ aÄn timhqe/ntej a)meibw¯mesqa/ se timv=,
u(mnou=ntej ta\ sa\ eÃrga dihneke/j, w¨j e)pe/oike
qnhto\n e)o/nt¡, e)peiì ouÃte brotoiÍj ge/raj aÃllo ti meiÍzon,
ouÃte qeoiÍj, hÄ koino\n a)eiì no/mon e)n di¿kv u(mneiÍn.
47

poi, o padre, scacciala dall’anima e fa sì che alfine si incontri la


sapienza a cui tu stesso ti affidi per governare il tutto secondo giustizia.
In tal modo, fatti oggetti d’onore, con onore ti ricambiamo, celebrando
senza posa le tue opere,
come è giusto che faccia chi è soggetto a morte, dato che non v’è
distinzione maggiore per gli uomini
e perfino per gli dei, che levar inni nella giusta disposizione d’animo
alla legge universale.
Gli Stoici antichi

Selezione di frammenti
(SVF II 945; 975; 976; 977; 981; 991; 998; 1000)*

*
Tr. it. di R. Radice in Stoici antichi. Tutti i frammenti secondo la raccolta di Hans
von Arnim, Milano 2002, pp. 821-823; 845; 849; 857; 861-863. Il testo greco riproduce
quello stabilito dall’edizione di H. von Arnim.
SVF II 945 Alexander Aphrod. de fato cp. 22 p. 191, 30 Bruns.
fasiìn dh\ to\n ko/smon to/nde, eÀna oÃnta kaiì pa/nta ta\ oÃnta e)n au(t%½
perie/xonta, kaiì u(po\ fu/sewj dioikou/menon zwtikh=j te kaiì logikh=j
kaiì noera=j, eÃxein th\n tw½n oÃntwn dioi¿khsin a)i¿+dion kata\ ei¸rmo/n
tina kaiì ta/cin proi+ou=san, tw½n prw¯twn toiÍj meta\ tau=ta ginome/noij
ai¹ti¿wn ginome/nwn kaiì tou/t% t%½ tro/p% sundeome/nwn a)llh/loij
a(pa/ntwn, kaiì mh/te ouÀtwj tino\j e)n au)t%½ ginome/nou, w¨j mh\ pa/ntwj
e)pakolouqeiÍn au)t%½ kaiì sunh=fqai w¨j ai¹ti¿% eÀtero/n ti, mh/t’ auÅ tw½n
e)piginome/nwn tino\j a)polelu/sqai duname/nou tw½n progegono/twn,
w¨j mh/ tini au)tw½n a)kolouqeiÍn wÐsper sundeo/menon, a)lla\ panti¿ te
t%½ genome/n% eÀtero/n ti e)pakolouqeiÍn, h)rthme/non <e)c> au)tou= e)c
a)na/gkhj w¨j ai¹ti¿ou, kaiì pa=n to\ gino/menon eÃxein ti pro\ au(tou=, %Ò w¨j
ai¹ti¿% sunh/rthtai. mhde\n ga\r a)naiti¿wj mh/te eiånai mh/te gi¿nesqai
tw½n e)n t%½ ko/sm% dia\ to\ mhde\n eiånai tw½n e)n au)t%½ a)polelume/non
te kaiì kexwrisme/non tw½n progegono/twn a(pa/ntwn. diaspa=sqai
ga\r kaiì diaireiÍsqai kaiì mhke/ti to\n ko/smon eÀna me/nein, ai¹eiì kata\
mi¿an ta/cin te kaiì oi¹konomi¿an dioikou/menon, ei¹ a)nai¿tio/j tij ei¹sa/-
goito ki¿nhsij! hÁn ei¹sa/gesqai, ei¹ mh\ pa/nta ta\ oÃnta te kaiì gino/-
mena eÃxoi tina aiãtia progegono/ta, oiâj e)c a)na/gkhj eÀpetai! oÀmoio/n
te eiånai¿ fasin kaiì o(moi¿wj a)du/naton to\ a)naiti¿wj t%½ gi¿nesqai¿
ti e)k mh\ oÃntoj. toiau/thn de\ ouÅsan th\n tou= panto\j dioi¿khsin e)c
a)pei¿rou ei¹j aÃpeiron e)nergw½j te kaiì a)katastro/fwj gi¿nesqai. ouÃshj
de/ tinoj diafora=j e)n toiÍj ai¹ti¿oij, hÁn e)ktiqe/ntej smh=noj [ga\r]
ai¹ti¿wn katale/gousin, ta\ me\n prokatarktika/, ta\ de\ sunai¿tia, ta\
de\ e(ktika/, ta\ de\ sunektika/, ta\ de\ aÃllo ti (ou)de\n ga\r deiÍ to\n lo/-
gon mhku/nein, pa/nta ta\ lego/mena paratiqe/men<on, a)ll>a\ to\ bou/-
lhma au)tw½n deiÍcai tou= periì th=j ei¸marme/nhj do/gmatoj)! oÃntwn
dh\ pleio/nwn ai¹ti¿wn, e)p’ iãshj e)piì pa/ntwn au)tw½n a)lhqe/j fasin
eiånai to\ a)du/naton eiånai tw½n au)tw½n a(pa/ntwn periesthko/twn
peri¿ te to\ aiãtion kaiì %Ò e)stin aiãtion, o(te\ me\n dh\ mh\ ou(twsi¿
pwj sumbai¿nein, o(te\ de\ ouÀtwj. eÃsesqai ga/r, ei¹ ouÀtwj gi¿noito,
a)nai¿tio/n tina ki¿nhsin. th\n de\ ei¸marme/nhn au)th\n kaiì th\n
fu/sin kaiì to\n lo/gon, kaq’ oÁn dioikeiÍtai to\ pa=n, qeo\n eiånai¿
fasin, ouÅsan e)n toiÍj ouÅsi¿n te kaiì ginome/noij aÀpasin kaiì ouÀtwj
SVF II 945 – [1] Per loro questo cosmo, che pur essendo unico rac-
chiude tutta la realtà ed è diretto da una natura vivente, razionale, intel-
lettuale, esercita un potere sulle cose che si sviluppa da sempre in una
serie ordinata, perché le realtà che precedono sono causa di quelle che
seguono al punto che tutte le cose risultano fra loro collegate: in tal senso
nulla avviene che sia totalmente avulso dal cosmo e che non sia causa
connessa di qualche altra cosa. Così le cose che seguono non possono
essere sciolte da quelle che precedono, ma ad ogni evento in atto seguirà
un altro necessariamente collegato secondo un nesso causale: insomma
ogni fenomeno ha un suo precedente, dal quale dipende come da una
causa. Infatti, nulla nel mondo avviene o si verifica separatamente dal
resto, perché nulla v’è in esso che sia non collegato e avulso da tutto ciò
che lo precede. Se qualcuno introducesse un movimento senza causa il
cosmo si frantumerebbe, andrebbe in pezzi e perderebbe la sua unità che
consiste nell’avere un unico ordine e un’unica direzione. Equivarrebbe
appunto ad introdurre un movimento senza causa, il negare che ogni
essere ed ogni evento hanno una causa precedente dalla quale seguono
necessariamente: per gli Stoici sostenere che una realtà può generarsi
senza causa è ugualmente assurdo che dire che qualcosa può venire dal
nulla. Pertanto, se l’organizzazione del tutto è quella descritta, esso si
evolve dall’infinito all’infinito, ininterrottamente. Introdotto questo cri-
terio di distinzione fra le cause, costoro, in sede di analisi, ne enumerano
a sciami: le cause principali, le concause, quelle ricorrenti, compren-
sive, eccetera (non è nostra intenzione appesantire il discorso, riportando
tutto quello che dicono: l’obiettivo è di esporre la loro dottrina sul fato).
Pur essendo numerose le cause, per tutte – a loro giudizio – resta vero il
seguente principio: è impossibile che a condizioni uguali sia della causa
sia del causato gli eventi si realizzino a volte in un modo a volte in un
altro, perché in tal caso si darebbe un movimento senza causa. Sosten-
gono inoltre che il fato, la natura e il Logos, secondo il quale tutto è
organizzato, sono dio, che è presente in ogni essere e in ogni realtà e che
52

xrwme/nhn a(pa/ntwn tw½n oÃntwn tv= oi¹kei¿# fu/sei pro\j th\n tou=
panto\j oi¹konomi¿an. kaiì toiau/th me\n w¨j dia\ braxe/wn ei¹peiÍn h( periì
th=j ei¸marme/nhj u(p’ au)tw½n katabeblhme/nh do/ca.
p. 193, 4. to\ gou=n prw½ton ei¹rhme/non w¨j pa/ntwn tw½n oÃntwn ai¹ti¿wn
tinw½n ginome/nwn tw½n meta\ tau=ta kaiì tou=ton to\n tro/pon e)xome/nwn
a)llh/lwn tw½n pragma/twn t%½ di¿khn a(lu/sewj toiÍj prw¯toij sunhrth=sqai
ta\ deu/tera, oÁ wÐsper ou)si¿an th=j ei¸marme/nhj u(poti¿qentai etc.

SVF II 975 Hippolytus Philos. 21 (DDG p. 571, 11). kaiì au)toiì de\ (scil.
Chrysippus et Zeno) to\ kaq’ ei¸marme/nhn eiånai pa/nta diebebaiw¯santo
paradei¿gmati xrhsa/menoi toiou/t%, oÀti wÐsper o)xh/matoj e)a\n vÅ
e)chrthme/noj ku/wn, e)a\n me\n bou/lhtai eÀpesqai, kaiì eÀlketai kaiì
eÀpetai, poiw½n kaiì to\ au)tecou/sion meta\ th=j a)na/gkhj [oiâon th=j
ei¸marme/nhj]! e)a\n de\ mh\ bou/lhtai eÀpesqai, pa/ntwj a)nagkasqh/setai!
to\ au)to\ dh/pou kaiì e)piì tw½n a)nqrw¯pwn! kaiì mh\ boulo/menoi ga\r
a)kolouqeiÍn a)nagkasqh/sontai pa/ntwj ei¹j to\ peprwme/non ei¹selqeiÍn.

SVF II 976 Aëtius Plac. I 27, 3. Pla/twn e)gkri¿nei me\n th\n ei¸marme/-
nhn e)piì tw½n a)nqrwpi¿nwn yuxw½n kaiì bi¿wn, suneisa/gei de\ kaiì th\n
par’ h(ma=j ai¹ti¿an. oi¸ Stwi+koiì Pla/twni e)mferw½j! kaiì th\n me\n
a)na/gkhn a)ni¿khto/n fasin ai¹ti¿an kaiì biastikh/n, th\n de\ ei¸marme/nhn
sumplokh\n ai¹tiw½n tetagme/nhn, e)n v sumplokv= kaiì to\ par’ h(ma=j,
wÐste ta\ me\n ei¸ma/rqai, ta\ de\ a)neima/rqai.

SVF II 977 Gellius noct. Att. VII 2, 15. Itaque M. Cicero in libro quem
de fato conscripsit, cum quaestionem istam diceret obscurissimam esse
et implicatissimam, Chrysippum quoque philosophum non expedisse se
in ea ait his verbis: Chrysippus aestuans laboransque, quonam <pacto>
explicet et fato omnia fieri et esse aliquid in nobis, intricatur hoc modo.

SVF II 981 Alexander Aphrod. de fato cp. 14 p. 183, 21 Bruns. e)piì tou/t%
de\ e)keiÍno aÃn tij au)tw½n qauma/seien, ti¿ paqo/ntej e)n tv= o(rmv= te kaiì
sugkataqe/sei to\ e)f’ h(miÍn fasin eiånai, di’ oÁ kaiì o(moi¿wj e)n pa=si toiÍj
z%¯oij throu=sin au)to/. ou) ga\r to\ e)f’ h(miÍn e)n t%½ fantasi¿aj prospesou/shj
eiåcai¿ te e)c e(autw½n tv= fantasi¿# kaiì o(rmh=sai e)piì to\ fane/n.
53

si serva della natura propria di ciascuno ai fini dell’economia del tutto.


Ecco dunque, ridotta in breve, la loro teoria del fato.
[2] – … la prima affermazione: tutti gli esseri sono in una certa misura
causa di quelli che li seguono, e le cose sono collegate in modo che le
prime si leghino alle seconde a formare una catena: è questo che loro
pongono come l’essenza del fato…

SVF II 975 – Crisippo e Zenone dimostravano la tesi che tutto avviene


secondo il fato ricorrendo a questo esempio. Se si lega un cane ad un
carro, se il cane vuole seguirlo, ad un tempo segue ed è trascinato, com-
piendo così un atto di autonoma libertà e pure conforme a necessità.
Se però si rifiuta di seguirlo, è trascinato e basta. Lo stesso vale per gli
uomini: quand’anche non lo volessero seguire andrebbero comunque là
dov’è il loro destino.

SVF II 976 – Platone ammette il fato negli eventi che riguardano le


vite e le anime degli uomini, ma con esso introduce anche una causa
che dipende da noi. Gli Stoici non si discostano da Platone. Essi ricono-
scono che la necessità è una causa cogente e ineluttabile, e che il fato è
una catena ordinata di cause, in cui però trovano posto anche cause che
dipendono da noi.

SVF II 977 – Pertanto anche Cicerone nel suo libro su Il fato definiva
questo tema come del tutto oscuro e difficile, e sosteneva che perfino il
filosofo Crisippo non se l’era cavata in tale occasione. Dice esattamente
così: Crisippo sudando sette camicie per spiegare come conciliare l’on-
nipotenza del destino col fatto che c’è qualcosa che dipende da noi, si
avviluppa in un groviglio <di contraddizioni> in questo modo.

SVF II 981 – [1] Inoltre qualcuno potrebbe restare sorpreso e chiedere:


sulla base di quali motivi dicono che la nostra libertà dipende dall’impulso
e dall’assenso, e poi estendono ciò anche a tutti gli altri viventi? La nostra
libertà non consiste nel cedere spontaneamente alla rappresentazione
che ci si presenta e nell’inclinare verso ciò che appare.
54

p. 184, 11. ei¹ de\ to\ e)f’ h(miÍn e)sti e)n tv= logikv= sugkataqe/sei, hÀtij
dia\ tou= bouleu/esqai gi¿netai (ut putat Alex.), oi¸ de\ (scil. Chrys.) e)n
tv= sugkataqe/sei te kaiì o(rmv= fasin eiånai, oÀti kaiì a)lo/gwj gi¿netai,
dh=loi di’ wÒn le/gousi r(#qumo/teron periì tou= e)f’ h(miÍn dialamba/nontej
etc.
p. 184, 20. e)oi¿kasi de/, paraleloipo/tej to\n lo/gon e)n tv= o(rmv= to\
e)f’ h(miÍn ti¿qesqai, oÀti mhke/t’ e)n t%½ bouleu/esqai le/gousin au)toiÍj to\
e)f’ h(miÍn eiånai proxwreiÍ to\ so/fisma. e)piì me\n ga\r th=j o(rmh=j eÃxousi
le/gein to\ e)piì toiÍj z%¯oij eiånai ta\ gino/mena kaq’ o(rmh/n, oÀti mh\ oiâa/
te xwriìj o(rmh=j ta\ di’ au)tw½n gino/mena poieiÍn, ei¹ d’ e)n t%½ bouleu/-
esqai to\ e)f’ h(miÍn etc.

SVF II 991 Nemesius de nat. hom. c. 35 p. 258. oi¸ de\ le/gontej


oÀti kaiì to\ e)f’ h(miÍn kaiì to\ kaq’ ei¸marme/nhn s%¯zetai (e(ka/st% ga\r
tw½n ginome/nwn dedo/sqai ti kaq’ ei¸marme/nhn, w¨j t%½ uÀdati to\ yu/-
xein kaiì e(ka/st% tw½n futw½n to\ toio/nde karpo\n fe/rein, kaiì t%½
li¿q% to\ katwfere\j kaiì t%½ puriì to\ a)nwfere/j, ouÀtw kaiì t%½ z%¯% to\
sugkatati¿qesqai kaiì o(rma=n! oÀtan de\ tau/tv tv= o(rmv= mhde\n a)ntipe/-
sv tw½n eÃcwqen kaiì kaq’ ei¸marme/nhn, to/te to\ peripateiÍn te/leon
e)f’ h(miÍn eiånai kaiì pa/ntwj peripath/somenŸ oi¸ tau=ta le/gontej ® ei¹siì
de\ tw½n Stwi+kw½n Xru/sippo/j te kaiì Filopa/twr kaiì aÃlloi polloiì
kaiì lamproi¿, ou)de\n eÀteron a)podeiknu/ousin hÄ pa/nta kaq’ ei¸marme/nhn
gi¿nesqai. ei¹ ga\r kaiì ta\j o(rma\j para\ th=j ei¸marme/nhj fasiìn h(miÍn dedo/-
sqai, kaiì tau/taj pote\ me\n u(po\ th=j ei¸marme/nhj e)mpodi¿zesqai, pote\
de\ mh/, dh=lon w¨j pa/nta kaq’ ei¸marme/nhn gi¿netai kaiì ta\ dokou=nta
e)f’ h(miÍn eiånai. ® ® ei¹ ga\r tw½n au)tw½n ai¹ti¿wn periesthko/twn,
wÐj fasin au)toi/, pa=sa a)na/gkh ta\ au)ta\ gi¿nesqai kaiì ou)x oiâo/nte
pote\ me\n ouÀtwj pote\ d’ aÃllwj gene/sqai, dia\ to\ e)c ai¹w½noj
a)pokeklhrw½sqai tau=ta, a)na/gkh kaiì th\n o(rmh\n th\n tou= z%¯ou pa/nth
te kaiì pa/ntwj tw½n au)tw½n ai¹ti¿wn periesthko/twn ouÀtwj gene/sqai.
et paullo infra: ei¹ ga\r th\n o(rmh\n e)f’ h(miÍn ta/ttousin, oÀti fu/sei
tau/thn eÃxomen, ti¿ kwlu/ei kaiì e)piì t%½ puriì le/gein eiånai to\ kai¿ein,
e)peidh\ fu/sei kai¿ei to\ pu=r; wÐj pou kaiì paremfai¿nein eÃoiken
o( Filopa/twr e)n t%½ periì ei¸marme/nhj.
55

[2] Se pure la nostra libertà risiede nell’assenso della ragione, che si


traduce in un atto di volontà [è questa l’opinione di Alessandro], alcuni
[come Crisippo] la pongono nell’assenso e nell’impulso, per il fatto che
avviene anche in forma contraria alla ragione; ciò risulta chiaramente
dal loro discorso, peraltro un po’ superficiale sul tema della libertà.
[3] Si direbbe quasi che, lasciando da parte la ragione, pongano la
nostra libertà nell’impulso, perché se la ponessero nella volontà, il loro
ragionamento, peraltro falso, non filerebbe più. Per quanto attiene all’im-
pulso, si spingono a dire che negli animali la libertà è ciò che è conforme
all’impulso, perché in assenza dell’impulso non sarebbero in grado di
compiere quelle azioni che avvengono tramite esso. Se invece la nostra
libertà consistesse nel volere, allora…

SVF II 991 – Ciascuno degli esseri ha un qualcosa che è soggetto al


fato: ad esempio, l’acqua ha il fatto d’essere fredda e ciascuna pianta
quello di dare un dato frutto, il sasso ha il moto verso il basso, e il fuoco
verso l’alto: allo stesso modo l’essere vivente ha l’assenso e l’impulso.
Ebbene, quando all’impulso non si oppone nessun evento esterno o
imposto dal destino, allora <per esempio> siamo completamente liberi
di camminare e certamente cammineremo. Ora, quelli che affermano,
alla luce di ciò, che sia il principio di libertà sia quello del fato possono
essere salvati sono gli Stoici Crisippo e Filopatore e molti altri luminari:
ma costoro non fanno altro che dimostrare che tutto avviene per fato.
Infatti, poiché sostengono che gli impulsi sono dati a noi dal fato, e che
ancora dal fato possono essere impediti oppure no, allora è evidente che
tutto è predestinato, compreso quello che sembra dipendere da noi… Se,
come loro dicono, a parità di cause esterne è assolutamente necessario
che seguano i medesimi effetti, e non una volta l’un effetto e una volta
l’altro, e se poi queste cause sono fissate dal destino da sempre, allora
necessariamente anche l’impulso del vivente dovrà essere così com’è,
stante il fatto che le cause concomitanti sono in tutto e per tutto le mede-
sime… E se poi stabilissero che l’impulso è libero, perché l’abbiamo
per natura, perché non dire che anche il fuoco è libero di bruciare, dal
momento che la facoltà di bruciare l’ha per natura? Cosa che Filopatore
è a un passo dall’ammettere nel suo libro Il fato.
56

SVF II 998 Diogenianus apud Eusebium praep. evang. VI p. 265d.


¹En me\n ouÅn t%½ prw¯t% Periì ei¸marme/nhj bibli¿% toiau/taij tisiìn
a)podei¿cesin ke/xrhtai, e)n de\ t%½ deute/r% lu/ein peira=tai ta\
a)kolouqeiÍn dokou=nta aÃtopa t%½ lo/g% t%½ pa/nta kathnagka/sqai
le/gonti, aÀper kaiì h(meiÍj kat’ a)rxa\j e)ti¿qemen! oiâon to\ a)naireiÍsqai
di’ au)tou= th\n e)c h(mw½n au)tw½n proqumi¿an periì yo/gouj te kaiì e)pai¿nouj
kaiì protropa\j kaiì pa/nq’ oÀsa para\ th\n h(mete/ran ai¹ti¿an gino/mena
fai¿netai. fhsiìn ouÅn e)n t%½ deute/r% bibli¿% “to\ me\n e)c h(mw½n polla\
gi¿nesqai dh=lon eiånai, ou)de\n de\ hÂtton sugkaqeima/rqai kaiì tau=ta
tv= tw½n oÀlwn dioikh/sei.” ke/xrhtai¿ te paradei¿gmasi toiou/toij tisi¿.
“to\ ga\r mh\ a)poleiÍsqai, fhsi¿, qoima/tion ou)x a(plw½j kaqei¿marto,
a)lla\ meta\ tou= fula/ttesqai, kaiì to\ e)k tw½n polemi¿wn swqh/sesqai
to/nde tina\ meta\ tou= feu/gein au)to\n tou\j polemi¿ouj! kaiì to\ gene/sqai
paiÍdaj meta\ tou= bou/lesqai koinwneiÍn gunaiki¿. wÐsper ga/r, fhsi¿n,
le/gonto/j tinoj ¸Hgh/sarxon to\n pu/kthn e)celeu/sesqai tou= a)gw½noj
pa/ntwj aÃplhkton, a)to/pwj aÃn tij h)ci¿ou kaqie/nta ta\j xeiÍraj to\n
¸Hgh/sarxon ma/xesqai, e)peiì aÃplhkton au)to\n kaqei¿marto a)pelqeiÍn,
tou= th\n a)po/fasin poihsame/nou dia\ th\n perittote/ran ta)nqrw¯pou
pro\j to\ mh\ plh/ttesqai fulakh\n tou=to ei¹po/ntoj, ouÀtw kaiì e)piì tw½n
aÃllwn eÃxei. polla\ ga\r mh\ du/nasqai gene/sqai xwriìj tou= kaiì h(ma=j
bou/lesqai kaiì e)ktenesta/thn ge periì au)ta\ proqumi¿an te kaiì spoudh\n
ei¹sfe/resqai, e)peidh\ meta\ tou/tou, fhsi¿n, au)ta\ gene/sqai kaqei¿marto.”

SVF II 1000 Gellius N. A. VII 2. Fatum, quod ei¸marme /nhn Graeci


vocant, ad hanc ferme sententiam Chrysippus, Stoicae princeps
philosophiae, definit: “Fatum est”, inquit, “sempiterna quaedam et
indeclinabilis series rerum et catena, volvens semetipsa sese et implicans
per aeternos consequentiae ordines, ex quibus apta nexaque est”.
Ipsa autem verba Chrysippi, quantum valui memoria, ascripsi, ut,
sicui meum istud interpretamentum videbitur esse obscurius, ad ipsius
verba animadvertat. In libro periì pronoi¿aj quarto ei¸marme/nhn esse
dicit fusikh/n tina su/ntacin tw½n oÀlwn e)c a)i+di¿ou tw½n e(te/rwn toiÍj
e(te/roij e)pakolouqou/ntwn kaiì metapoloume/nwn a)paraba/tou ouÃshj
57

SVF II 998 – Dunque, nel primo de Il fato fa uso di queste argomen-


tazioni. Nel secondo libro cerca invece di risolvere quelle conseguenze
palesemente assurde derivanti dalla tesi che tutto è necessario, conse-
guenze che abbiamo già presentato già all’inizio: ad esempio il fatto che
un tale principio esclude la nostra libera volontà e di conseguenza i rim-
proveri e le lodi, gli incitamenti e tutto ciò che ha a che fare con la nostra
capacità d’essere causa. Nel secondo libro dice così:
«È ovvio che molte cose sono in nostro potere, ma ciò non di meno
sono pure esse sottoposte, per volere del fato, all’ordinamento del tutto».
A tal proposito ricorre a questi esempi:
«Che il mio mantello non vada in brandelli non dipende solo dal fato,
ma anche dalle cure che gli si prestano; e così lo scampare alla guerra
dipende anche dall’essere sfuggito ai nemici, e l’aver figli non si darebbe
senza la volontà di giacere con una donna. Come infatti – prosegue Cri-
sippo – l’espressione “Egesarco se ne esce indenne dall’incontro di pugi-
lato” non significa che se ne sia stato a guardia abbassata per tutto l’in-
contro, perché tanto era destino che ne sarebbe uscito illeso, ma sta ad
indicare, da parte di chi la pronuncia, la straordinaria abilità a schivare
i colpi di questo atleta, così vale anche in altri campi. Molte cose infatti
non si realizzano senza che noi le vogliamo, profondendo in esse uno
straordinario impegno ed entusiasmo: d’altra parte è fissato dal destino
che tali cose avvengano proprio con questo impegno e con questo entu-
siasmo»…

SVF II 1000 – Crisippo – massimo rappresentante della filosofia


stoica – definisce il fato – in lingua greca, l’ei¸marme /nh – più o meno in
questi termini:
«Il fato è una certa serie perpetua di eventi, una catena la quale si
svolge e si annoda attraverso l’ordine della conseguenza, al quale è col-
legata e connessa».
Per quanto mi sorregge la memoria, ho trascritto anche i termini pre-
cisi di Crisippo, perché chi eventualmente avesse trovato troppo involuta
questa mia interpretazione possa far ricorso alle sue stesse parole. Nel
quarto libro de La provvidenza definisce il destino come «un ordine di
tutte le cose posto da natura fin dall’eternità, di modo che l’una segua
58

th=j toiau/thj e)piplokh=j. Aliarum autem opinionum disciplinarumque


auctores huic definitioni ita obstrepunt “Si Chrysippus”, inquiunt, “fato
putat omnia moveri et regi nec declinari transcendique posse agmina fati
et volumina, peccata quoque hominum et delicta non suscensenda neque
inducenda sunt ipsis voluntatibusque eorum, sed necessitati cuidam et
instantiae, quae oritur ex fato, omnium quae sit rerum domina et arbitra,
per quam necesse sit fieri, quicquid futurum est; et propterea nocentium
poenas legibus inique constitutas, si homines ad maleficia non sponte
veniunt, sed fato trahuntur.”
59

all’altra e insieme si perdano in una tale inviolabile connessione». Però


i rapporti di altre dottrine e discipline contestano vivacemente questa
definizione: «Se Crisippo – obiettano essi – è convinto che il fato ha
potere ed effetto su tutto e che la serie e i cicli degli eventi che determina
non possono essere elusi o evitati, allora anche i difetti e i delitti degli
uomini non sono passibili di censura, perché non si possono ascrivere
alla volontà di ciascuno, ma a una certa necessità e a una fatale coazione,
arbitra onnipotente che fa essere necessariamente tutto ciò che sarà. E
dunque sono inique le pene comminate per legge a chi fa del male, se gli
uomini non ne sono responsabili, ma esso trae origine dal fato».
Epitteto

Diatribe, IV 1

Sulla libertà*

*
Tr. it. di R. Laurenti in Epitteto, Le diatribe e i frammenti, Bari 1960, pp. 248-
269. Il testo greco riproduce quello stabilito da H. Schenkl (ad fidem codicis
Bodleiani iterum recensuit), Epicteti dissertationes ab Arriano digestae, Acce-
dunt fragmenta, Enchiridion ex recensione Schweighaeuseri, index nominum,
Editio minor, Lipsiae 1916, seguito in linea di massima dalla traduzione di R.
Laurenti.
{Periì e)leuqeri¿aj}
1 ¹Eleu/qero/j e)stin o( zw½n w¨j bou/letai, oÁn ouÃt’ a)nagka/sai eÃstin
ouÃte kwlu=sai ouÃte bia/sasqai, ou ai¸ o(rmaiì a)nempo/distoi, ai¸ o)re/ceij
e)piteuktikai¿, ai¸ e)kkli¿seij a)peri¿ptwtoi. ti¿j ouÅn qe/lei zh=n a(marta/nwn;
2 {®} Ou)dei¿j. {®} Ti¿j qe/lei zh=n e)capatw¯menoj, propi¿ptwn, aÃdikoj wÓn,
3 a)ko/lastoj, memyi¿moiroj, tapeino/j; {®} Ou)dei¿j. {®} Ou)deiìj aÃra tw½n
4 fau/lwn zv= w¨j bou/letai! ou) toi¿nun ou)d’ e)leu/qero/j e)stin. ti¿j de\
qe/lei lupou/menoj zh=n, fobou/menoj, fqonw½n, e)lew½n, o)rego/menoj kaiì
5 a)potugxa/nwn, e)kkli¿nwn kaiì peripi¿ptwn; {®} Ou)de\ eiâj. {®} ãExomen
ouÅn tina tw½n fau/lwn aÃlupon, aÃfobon, a)peri¿ptwton, a)napo/teukton;
{®} Ou)de/na. {®} Ou)k aÃra ou)de\ e)leu/qeron.
6 Tau=ta aÃn tij a)kou/sv disu/patoj, aÄn me\n prosqv=j oÀti “a)lla\ su/ ge
7 sofo\j eiå, ou)de\n pro\j se\ tau=ta”, suggnw¯setai¿ soi. aÄn d’ au)t%½ ta\j
a)lhqei¿aj eiãpvj oÀti “tw½n triìj peprame/nwn ou)de\n diafe/reij pro\j to\
mh\ kaiì au)to\j dou=loj eiånai”, ti¿ aÃllo hÄ plhga/j se deiÍ prosdoka=n;
8 “pw½j ga/r”, fhsi¿n, “e)gwÜ dou=lo/j ei¹mi; o( path\r e)leu/qeroj, h( mh/thr
e)leuqe/ra, ou w©nh\n ou)deiìj eÃxei! a)lla\ kaiì sugklhtiko/j ei¹mi kaiì
9 Kai¿saroj fi¿loj kaiì u(pa/teuka kaiì dou/louj pollou\j eÃxw.” prw½ton
me/n, wÕ be/ltiste sugklhtike/, ta/xa sou kaiì o( path\r th\n au)th\n
doulei¿an dou=loj hÅn kaiì h( mh/thr kaiì o( pa/ppoj kaiì e)fech=j pa/ntej
10 oi¸ pro/gonoi. ei¹ de\ dh\ kaiì ta\ ma/lista hÅsan e)leu/qeroi, ti¿ tou=to pro\j
se/; ti¿ ga/r, ei¹ e)keiÍnoi me\n gennaiÍoi hÅsan, su\ d’ a)gennh/j; e)keiÍnoi me\n
aÃfoboi, su\ de\ deilo/j; e)keiÍnoi me\n e)gkrateiÍj, su\ d’ a)ko/lastoj;
11 Kaiì ti¿, fhsi¿, tou=to pro\j to\ dou=lon eiånai; {®} Ou)de/n soi fai¿netai
eiånai to\ aÃkonta/ ti poieiÍn, to\ a)nagkazo/menon, to\ ste/nonta pro\j
12 to\ dou=lon eiånai; {®} Tou=to me\n eÃstw, fhsi¿n. a)lla\ ti¿j me du/natai
13 a)nagka/sai, ei¹ mh\ o( pa/ntwn ku/rioj KaiÍsar; {®} Ou)kou=n eÀna me\n
despo/thn sautou= kaiì su\ au)to\j w¨molo/ghsaj. oÀti de\ pa/ntwn, w¨j
le/geij, koino/j e)stin, mhde/n se tou=to paramuqei¿sqw, a)lla\ gi¿gnwske,
14 oÀti e)k mega/lhj oi¹ki¿aj dou=loj eiå. ouÀtwj kaiì NikopoliÍtai e)piboa=n
ei¹w¯qasi “nh\ th\n Kai¿saroj tu/xhn, e)leu/qeroi¿ e)smen”.
15 àOmwj d’, e)a/n soi dokv=, to\n me\n Kai¿sara pro\j to\ paro\n
a)fw½men, e)keiÍno de/ moi ei¹pe/! ou)de/pot’ h)ra/sqhj tino/j; ou) paidiskari¿ou,
16 ou) paidari¿ou, ou) dou/lou, ou)k e)leuqe/rou; {®} Ti¿ ouÅn tou=to pro\j
17 to\ dou=lon eiånai hÄ e)leu/qeron; {®} Ou)de/poq’ u(po\ th=j e)rwme/nhj
Libero è chi vive come vuole, chi non può essere co­stretto né osta- 1
colato né forzato, i cui impulsi sono privi di impedimenti, i cui desi-
deri raggiungono il segno e le avversioni non incorrono in ciò da cui
rifuggono. Chi vuol vivere in errore? Nessuno. Chi vuol vivere facendosi 2
ingannare, agendo temerariamente, essendo ingiusto, sfre­nato, scon-
tento della propria sorte, meschino? Nessuno. Ma nessun uomo dappoco 3
vive come vuole: dunque neppure è libero. E chi vuole vivere addolorato, 4
intimorito, invi­diando, compassionando, desiderando senza ottenere,
avver­sando qualcosa e cadendoci dentro? Nessuno. E troviamo un uomo 5
dappoco che non ha dolore o paura, che non in­corre in ciò da cui rifugge,
che ottiene ciò che vuole? Nessuno. Dunque non è neppure libero.
Qualora codeste parole le ascolti uno che è stato con­sole due volte, se 6
aggiungi: «tu, però, sei saggio e non hanno niente a vedere con te» allora
ti perdonerà: ma se gli dici la verità e cioè «in fatto di schiavitù non c’è 7
dif­ferenza alcuna tra te e quelli che sono stati venduti tre volte» che cos’al-
tro dovrai aspettarti se non le busse? «Come? Sono schiavo io? – dirà.
Mio padre è libero, mia madre libera: nessuno m’ha comprato, anzi sono 8
senatore e amico di Cesare: sono stato console e molti schiavi pos­siedo».
In primo luogo, ottimo senatore, tuo padre era probabilmente schiavo 9
della tua stessa schiavitù e anche la madre e il nonno e, per ordine, tutti
gli antenati. Se poi erano in sommo grado liberi, che ha da vedere con 10
te questo? E che? Se essi erano nobili e tu ignobile? Essi im­pavidi e tu
vigliacco? Essi temperanti e tu dissoluto?
«Ma che ha da vedere questo, dirà, con la condizione di servo?» 11
«Secondo te, non ha da vedere niente con la condizione di servo, agire
contro voglia, costretto, ge­mendo?» «Va bene, riprende: ma chi mi 12
può costringere se non Cesare, padrone di tutti?» «Dunque, d’avere un 13
­padrone, l’hai ammesso tu stesso: che sia padrone comune di tutti, come
dici, non ti sia un conforto, ma riconosci di essere schiavo in una grande
casa. Allo stesso modo, an­che i Nicopolitani sogliono gridare: ‘Per la 14
fortuna di Ce­sare siamo liberi’».
Tuttavia, se ti piace, mettiamo per il momento da parte Cesare e dimmi 15
piuttosto: Non sei mai stato innamorato di qualcuno? D’una ragazzetta,
d’un ragazzetto, d’uno schiavo, d’un libero? «Ma che ha da vedere que- 16
sto con l’essere schiavo o libero?» – E dall’innamorata non t’è stata mai 17
64

e)peta/ghj ou)de\n wÒn ou)k hÃqelej; ou)de/pote/ sou to\ doula/rion e)kola/keusaj;
ou)de/pot’ au)tou= tou\j po/daj katefi¿lhsaj; kai¿toi tou= Kai¿saroj aÃn se/
18 tij a)nagka/sv, uÀbrin au)to\ h(gv= kaiì u(perbolh\n turanni¿doj. ti¿ ouÅn aÃllo
e)stiì doulei¿a; nukto\j ou)de/pot’ a)ph=lqej, oÀpou ou)k hÃqelej; a)na/lwsaj,
oÀsa ou)k hÃqelej; eiåpa/j tina oi¹mw¯zwn kaiì ste/nwn, h)ne/sxou loidorou/-
19 menoj, a)pokleio/menoj; a)ll’ ei¹ su\ ai¹sxu/nv ta\ sautou= o(mologeiÍ<n>,
oÀra aÁ le/gei kaiì poieiÍ o( Qraswni¿dhj, oÁj tosau=ta strateusa/menoj,
oÀsa ta/xa ou)de\ su/, prw½ton me\n e)celh/luqe nukto/j, oÀte o( Ge/taj
ou) tolm#= e)celqeiÍn, a)ll’ ei¹ proshnagka/zeto u(p’ au)tou=, po/ll’ aÄn
e)pikrauga/saj kaiì th\n pikra\n doulei¿an a)polofura/menoj e)ch=lqen.
20 eiåta, ti¿ le/gei; paidiska/rio/n me, fhsi¿n,

katadedou/lwk’ eu)tele/j,
oÁn ou)d<e\> eiâj tw½n polemi¿wn <ou)>pw¯pote.

21 ta/laj, oÀj ge kaiì paidiskari¿ou dou=loj eiå kaiì paidiskari¿ou


eu)telou=j. ti¿ ouÅn eÃti sauto\n e)leu/qeron le/geij; ti¿ de\ profe/reij sou
22 ta\j strate<i¿>aj; eiåta ci¿foj ai¹teiÍ kaiì pro\j to\n u(p’ eu)noi¿aj mh\
dido/nta xalepai¿nei[n] kaiì dw½ra tv= misou/sv pe/mpei kaiì deiÍtai kaiì
23 klai¿ei, pa/lin de\ mikra\ eu)hmerh/saj e)pai¿retai! plh\n kaiì to/te pw½j;

mhd’ e)piqumeiÍn hÄ fobeiÍsqai ouÃt’ e)leuqeri¿an†.
24 Ske/yai d’ e)piì tw½n z%¯wn, pw½j xrw¯meqa tv= e)nnoi¿# th=j e)leuqeri¿aj.
25 le/ontaj tre/fousin h(me/rouj e)gklei¿santej kaiì siti¿zousi kaiì komi¿zousin
eÃnioi meq’ au(tw½n. kaiì ti¿j e)reiÍ tou=ton to\n le/onta e)leu/qeron; ou)xiì
d’ oÀs% malakw¯teron dieca/gei, tosou/t% doulikw¯teron; ti¿j d’ aÄn
le/wn aiãsqhsin kaiì logismo\n labwÜn bou/loito tou/twn tij eiånai tw½n
26 leo/ntwn; aÃge, ta\ de\ pthna\ tau=ta oÀtan lhfqv= kaiì e)gkekleime/na
tre/fhtai, oiâa pa/sxei zhtou=nta e)kfugeiÍn; kaiì eÃnia/ ge au)tw½n lim%½
27 diafqei¿retai ma=llon hÄ u(pome/nei th\n toiau/thn diecagwgh/n, oÀsa
d’ ouÅn dias%/zetai, mo/gij kaiì xalepw½j kaiì fqi¿nonta, kaÄn oÀlwj
euÀrv ti pare%gme/non, e)ceph/dhsen. ouÀtwj o)re/getai th=j fusikh=j
e)leuqeri¿aj kaiì tou= au)to/noma kaiì a)kw¯luta eiånai. kaiì ti¿
28 soi kako/n e)stin e)ntau=qa; “oiâa le/geij; pe/tesqai pe/fuka
65

imposta un’azione che non volevi? Non hai mai adulato il tuo schiavetto?
Non gli hai mai baciato i piedi? Eppure, se ti si costringesse a baciare quelli
di Cesare, lo riterresti un oltraggio e il colmo del despotismo. Che altro è la 18
schiavitù? Di notte non sei mai andato dove non volevi? Non hai mai speso
quel che non volevi? Non hai mai parlato tra gemiti e pianti, non hai mai
sopportato oltraggi, non sei mai stato messo alla porta? Ma se ti vergogni di 19
confessare le tue bravure, guarda quello che dice e fa Trasonide che pure ha
fatto più campagne militari di te, probabilmente: prima di tutto esce di notte
quando Geta non osa uscire, o se talora è costretto dall’altro, esce dopo aver
molto imprecato e maledetto la sua triste schiavitù. E che dice? Ecco: 20

M’ha fatto schiavo una ragazza vile assai


ciò che nessuno dei nemici mai poté1.

Disgraziato, che sei schiavo d’una ragazza e, per di più, d’una ragazza 21
molto vile. E perché continui a dirti libero? Perché vanti le tue campa-
gne? E poi chiede la spada e si adira con chi per prudenza non gliela dà 22
e invia regali alla ragazza che lo detesta, supplica e piange: poi, dopo un
piccolo successo, va in superbia. A meno che proprio allora non sapesse 23
più come si fa per non aver desideri e timori, costui possedeva la libertà?
Considera, a proposito degli animali, in che senso usiamo il concetto di 24
libertà. Alcuni allevano leoni addomesticati dopo averli chiusi in gabbia, 25
danno loro da bere, e c’è chi se li porta pure a spasso. Ma chi dirà che
questo leone è libero? Non è invece tanto più schiavo quanto più la sua
vita è molle? E quale leone in possesso di senti­mento e di ragione vor-
rebbe essere uno di codesti leoni? E poi, quegli uccelli che, presi e messi 26
in gabbia, vengono allevati, che cosa soffrono nel tentativo di fuggire? Ce
ne sono alcuni che si lasciano morire di fame pur di non adattarsi a siffatta
esistenza: quanti poi continuano a vivere lo fanno a stento, con difficoltà, 27
struggendosi, e se trovano un piccolo pertugio, si lanciano subito fuori.
Tanto è il loro desiderio di avere la libertà naturale, di essere in­dipendenti
e non impediti! Che male c’è per te in questo? «Come parli? Sono nato per 28

1 
Dal Misou=menoj di Menandro: Kock, fr. 338; v. F.G. Allinson, Menander. The Princi-
pal Fragments, London-Cambridge-Mass. 1959, p. 412.
66

oÀpou qe/lw, uÀpaiqron dia/gein, #Ãdein oÀtan qe/lw! su/ me pa/ntwn


29 tou/twn a)fairv= kaiì le/geij “ti¿ soi kako/n e)stin”; dia\ tou=to e)keiÍna
mo/na e)rou=men e)leu/qera, oÀsa th\n aÀlwsin ou) fe/rei, a)ll’ aÀma te e(a/lw
30 kaiì a)poqano/nta die/fugen. ouÀtwj kaiì Dioge/nhj pou le/gei mi¿an eiånai
mhxanh\n pro\j e)leuqeri¿an to\ eu)ko/lwj a)poqnv/skein, kaiì t%½ Persw½n
basileiÍ gra/fei oÀti “th\n Aqhnai¿
¹ wn po/lin katadoulw¯sasqai ou)
du/nasai! ou) ma=llon”, fhsi¿n, “hÄ tou\j i¹xqu/aj”. “pw½j; ou) ga\r lh/yomai
31 au)tou/j;” “aÄn la/bvj”, fhsi¿n, “eu)qu\j a)polipo/ntej se oi¹xh/sontai,
kaqa/per oi¸ i¹xqu/ej.” kaiì ga\r e)kei¿nwn oÁn aÄn la/bvj, a)pe/qanen! kaiì
ouÂtoi lhfqe/ntej e)a\n a)poqnv/skwsin, ti¿ soi¿ e)sti th=j paraskeuh=j
32 oÃfeloj; tou=t’ eÃstin e)leuqe/rou a)ndro\j fwnh\ spoudv= e)chtako/toj to\
pra=gma kaiì wÐsper ei¹ko\j eu(rhko/toj. aÄn d’ a)llaxou= zhtv=j hÄ oÀpou
e)sti¿n, ti¿ qaumasto/n, ei¹ ou)de/pote au)to\ eu(ri¿skeij;
33 ¸O dou=loj eu)qu\j euÃxetai a)feqh=nai e)leu/qeroj. dia\ ti¿; dokeiÍte, oÀti
toiÍj ei¹kostw¯naij e)piqumeiÍ dou=nai a)rgu/r<i>on; ouÃ! a)ll’ oÀti fanta/-
zetai me/xri nu=n dia\ to\ mh\ te tuxhke/nai tou/tou e)mpodi¿zesqai kaiì
34 dusroeiÍn. “aÄn a)feqw½”, fhsi¿n, “eu)qu\j pa=sa euÃroia, ou)deno\j e)pistre/-
fomai, pa=sin w¨j iãsoj kaiì oÀmoioj lalw½, poreu/omai oÀpou qe/lw,
35 eÃrxomai oÀqen qe/lw kaiì oÀpou qe/lw.” eiåta a)phleuqe/rwtai kaiì eu)qu\j
me\n ou)k eÃxwn, poiÍ fa/gv, zhteiÍ, ti¿na kolakeu/sv, para\ ti¿ni deipnh/sv!
eiåta hÄ e)rga/zetai t%½ sw¯mati kaiì pa/sxei ta\ deino/tata kaÄn sxv= tina
fa/tnhn, e)mpe/ptwken ei¹j doulei¿an polu\ th=j prote/raj xalepwte/-
36 ran hÄ kaiì eu)porh/saj aÃnqrwpoj a)peiro/kaloj pefi¿lhke paidiska/-
37 rion kaiì dustuxw½n a)naklai¿etai kaiì th\n doulei¿an poqeiÍ. “ti¿ ga/r
moi kako\n hÅn; aÃlloj m’ e)ne/duen, aÃlloj m’ u(pe/dei, aÃlloj eÃtrefen,
aÃlloj e)nosoko/mei, o)li¿ga au)t%½ u(phre/toun. nu=n de\ ta/laj oiâa pa/sxw
38 plei¿osi douleu/wn a)nq’ e(no/j; oÀmwj d’ e)a\n daktuli¿ouj”, fhsi¿n,
“la/bw, to/te g’ eu)rou/stata dia/cw kaiì eu)daimone/stata”. prw½ton me\n iàna
39 la/bv, pa/sxei wÒn e)stin aÃcioj! eiåta labwÜn pa/lin tau)ta/. eiåta/ fhsin
“aÄn me\n strateu/swmai, a)phlla/ghn pa/ntwn tw½n kakw½n”. strateu/etai,
pa/sxei oÀsa mastigi¿aj kaiì ou)de\n hÂtton deute/ran ai¹teiÍ stratei¿an
40 kaiì tri¿thn. eiåq’ oÀtan au)to\n to\n kolofw½na e)piqv= kaiì ge/nhtai
67

volare dove voglio, per vivere sotto la volta celeste, per cantare quando
voglio – tu mi strappi tutto e dici: «che male c’è?».
Per questo diremo liberi solo quegli animali che non si assoggettano 29
alla cattività, ma, appena catturati, la fuggono con la morte. Così anche 30
Diogene dice in un punto che c’è un mezzo solo per raggiungere la libertà
ed è di esser sempre pronti a morire contenti. E al re dei Persiani scrive:
«Lo stato degli Ateniesi, non lo puoi ridurre in schiavitù, non più che i
pesci.» «Come? Non li prenderò?» – «Se li prendi, dice, ti lasceranno 31
subito e se ne andranno via, come i pesci. Infatti, se prendi un pesce,
muore: così, se pure questi muoiono, una volta presi, quale utile ti verrà
dalla tua spedizione militare?». Ecco la voce d’un uomo libero, che ha 32
esaminato con cura la faccenda e ha trovato la soluzione come si doveva.
Ma se la cerchi dove non sta, qual meraviglia se non la trovi mai?
Lo schiavo fa voti d’esser lasciato subito libero. Perché? Secondo voi 33
desidera versare il denaro agli appaltatori delle vigesime? Nient’affatto.
Piuttosto, egli immagina che fino a questo momento, per non aver otte-
nuto la libertà, è impedito e sfortunato. «Se vengo affrancato, dice, 34
ecco immediatamente la felicità completa; non mi prendo più cura di
nessuno, rivolgo la parola a tutti da pari e uguale, viaggio dove voglio,
vengo donde voglio e dove voglio». Poi è messo in libertà, ed ecco che 35
non ha più da mangiare e cerca chi possa adulare, da chi possa pran-
zare: e allora, o fa scempio del corpo sottoponendosi a ogni vergogna
e, se anche si procura una greppia, cade in una schiavitù molto più dura
della precedente, oppure, se acquista una certa agiatezza, da quell’uomo 36
sciocco che è, si dà all’amore di una ragazzetta e, non ottenendolo, si
dispera e rimpiange la schiavitù. «Infine; che male avevo? Era un altro 37
a vestirmi, un altro a calzarmi, un altro a nutrirmi, un altro a curarmi,
quando cadevo malato, e a ben poco si riduceva il mio servizio per lui.
Ora, invece, disgraziato, quanto soffro, schiavo non di uno ma di tanti!
Eppure, continua, se riesco ad ottenere l’anello, allora vivrò in piena 38
serenità e felicità». E dapprima, per ottenerlo, subisce quel che si merita:
ottenutolo, poi, siamo daccapo. E poi dice: «Se partecipo a una campa- 39
gna militare, sarà la liberazione da tutti i mali». Va in guerra, soffre quel
che può soffrire un mariolo e nondimeno cerca una seconda campagna e
una terza. Alla fine, quando ha raggiunto proprio il culmine ed è diven- 40
68

sugklhtiko/j, to/te gi¿netai dou=loj ei¹j su/llogon e)rxo/menoj, to/te th\n


kalli¿sthn kaiì liparwta/thn doulei¿an douleu/ei.
41 àIna mh\ mwro\j vÅ, a)ll’ iàna ma/qv, aÁ eÃlegen o( Swkra/thj, ti¿ e)sti tw½n
oÃntwn eÀkaston, kaiì mh\ ei¹kv= ta\j prolh/yeij e)farmo/zv taiÍj e)piì me/-
42 rouj ou)si¿aij. tou=to ga/r e)sti to\ aiãtion toiÍj a)nqrw¯poij pa/ntwn tw½n
kakw½n, to\ ta\j prolh/yeij ta\j koina\j mh\ du/nasqai e)farmo/zein toiÍj
43 e)piì me/rouj. h(meiÍj d’ aÃlloi aÃllo oi¹o/meqa. o( me\n oÀti noseiÍ. ou)damw½j,
a)ll’ oÀti ta\j prolh/yeij ou)k e)farmo/zei. o( d’ oÀti ptwxo/j e)stin, o(
d’ oÀti pate/ra xalepo\n eÃxei hÄ mhte/ra, t%½ d’ oÀti o( KaiÍsar ou)x iàlew¯j
e)stin. tou=to d’ e)stiìn eÁn kaiì mo/non to\ ta\j prolh/yeij e)farmo/zein
44 mh\ ei¹de/nai. e)peiì ti¿j ou)k eÃxei kakou= pro/lhyin, oÀti blabero/n e)stin,
oÀti feukto/n e)stin, oÀti pantiì tro/p% a)poikono/mhto/n e)stin; pro/lhyij
45 prolh/yei ou) ma/xetai, a)ll’ oÀtan eÃlqv e)piì to\ e)farmo/zein. ti¿ ouÅn to\
kako/n e)sti tou=to kaiì blabero\n kaiì feukto/n; le/gei to\ Kai¿saroj mh\
eiånai fi¿lon! a)ph=lqen, a)pe/[s]pesen th=j e)farmogh=j, qli¿betai, zhteiÍ ta\
mhde\n pro\j to\ prokei¿menon! oÀti tuxwÜn tou= fi¿loj eiånai Kai¿saroj
46 ou)de\n hÂtton tou= zhtoume/nou ou) te/teuxen. ti¿ ga/r e)stin, oÁ zhteiÍ pa=j
aÃnqrwpoj; eu)staqh=sai, eu)daimonh=sai, pa/nta w¨j qe/lei poieiÍn, mh\
kwlu/esqai, mh\ a)nagka/zesqai. oÀtan ouÅn ge/nhtai Kai¿saroj fi¿loj, pe/-
pautai kwluo/menoj, pe/pautai a)nagkazo/menoj, eu)staqeiÍ, eu)roeiÍ; ti¿noj
puqw¯meqa; ti¿na eÃxomen a)ciopisto/teron hÄ au)to\n tou=ton to\n gegono/-
47 ta fi¿lon; e)lqe\ ei¹j to\ me/son kaiì ei¹pe\ h(miÍn, po/te a)taraxw¯teron
e)ka/qeudej, nu=n hÄ priìn gene/sqai fi¿loj tou= Kai¿saroj; eu)qu\j a)kou/eij
oÀti “pau=sai, tou\j qeou/j soi, e)mpai¿zwn mou tv= tu/xv! ou)k oiådaj, oiâa
pa/sxw ta/laj! ou)d’ uÀpnoj e)pe/rxetai¿ moi, a)ll’ aÃlloj e)lqwÜn le/gei,
48 oÀti hÃdh e)grhgoreiÍ, hÃdh pro/eisin! eiåta taraxai¿, eiåta fronti¿dej”. aÃge,
e)dei¿pneij de\ po/te eu)aresto/teron, nu=n hÄ pro/teron; aÃkouson au)tou= kaiì
periì tou/twn ti¿ le/gei! oÀti, aÄn me\n mh\ klhqv=, o)duna=tai, aÄn de\ klhqv=,
w¨j dou=loj para\ kuri¿% deipneiÍ metacu\ prose/xwn, mh/ ti mwro\n eiãpv
hÄ poih/sv. kaiì ti¿ dokeiÍj fobeiÍtai; mh\ mastigwqv= w¨j dou=loj; po/qen
au)t%½ ouÀtwj kalw½j; a)ll’ w¨j pre/pei thlikou=ton aÃndra, Kai¿saroj fi¿lon,
69

tato senatore, allora è uno schiavo che va in Senato, allora è schiavo della
schiavitù più splendida e magnifica.
Badi a non essere più sciocco, e impari piuttosto, come diceva Socrate, 41
la natura di ogni cosa2 e adatti non a sproposito le prenozioni ai casi par-
ticolari. Perché è questa la causa di tutti i mali degli uomini, non riuscire 42
ad adattare le prenozioni comuni alle cose particolari. Noi, invece, pen- 43
siamo chi a una causa, chi a un’altra. Per costui è star male. Nient’affatto:
è che non adatta le prenozioni. Per quello è andar pitoccando: per quello
aver un padre o una madre arcigna, per quell’altro non godere i favori di
Cesare. E invece la causa è sempre la stessa e unica, non saper adattare le
prenozioni. E infatti, chi non ha la prenozione del male, che il male è una 44
cosa dannosa, da fuggirsi, da rimuoversi in ogni modo? Prenozione non
contraddice a prenozione, se non si venga ad applicarle. Qual è, dunque, 45
questo male dannoso e da fuggirsi? Secondo costui non essere amico di
Cesare: è fuori strada, ha sbagliato la giusta applicazione, si angustia, va
in cerca di cose che non hanno niente a che fare con l’argomento, per-
ché, ottenuta l’amicizia di Cesare, non ha ottenuto, nondimeno, quel che
cercava. In realtà, cos’è quel che ognuno cerca? Essere tranquillo, essere 46
felice, far tutto a proprio piacere, non soffrire impedimenti né costrizioni.
Dunque, quando è diventato amico di Cesare, cessano per lui gli ostacoli,
cessano le costrizioni, è tranquillo, è sereno? A chi lo chiediamo? Chi
abbiamo più fededegno di quello stesso ch’è diventato amico di Cesare?
Vieni avanti e dicci quando dormivi più placido, adesso o prima di diven- 47
tare amico di Cesare? Ecco la sua risposta prontissima: «Basta, per gli dèi,
ti prego, di schernire la mia sorte! non sai le mie sofferenze, disgraziato!
Il sonno non mi visita più, ma arrivano, uno dopo l’altro, e mi dicono:
‘s’è già svegliato, già esce’. E allora imbarazzi, allora preoccupazioni».
Suvvia: quando pranzavi con più gioia, adesso o prima? Ascolta che dice 48
anche a questo proposito: se non è invi­tato si tortura, se è invitato, pranza
come uno schiavo presso il padrone, badando, nel mentre, a non dire né a
commettere qualche sciocchezza. E che teme, secondo te? D’essere fusti-
gato come uno schiavo? E donde a lui un timore d’una fine tanto bella?
Piuttosto, come si conviene a un uomo del suo calibro, amico di Cesare,

2 
Xenoph., mem., IV 6 1.
70

49 mh\ a)pole/sv to\n tra/xhlon. e)lou/ou de\ po/t’ a)taraxw¯teron; e)gumna/-


zou de\ po/te sxolai¿teron; to\ su/nolon poiÍon ma=llon hÃqelej bi¿on
50 biou=n, to\n nu=n hÄ to\n to/te; o)mo/sai du/namai, oÀti ou)deiìj ouÀtwj e)stiìn
a)nai¿sqhtoj hÄ a)nalh/qhj, mh\ a)podu/rasqai ta\j au(tou= sumfora/j, oÀs%
aÄn vÅ fi¿lteroj.
51 àOtan ouÅn mh/te oi¸ basileiÍj lego/menoi zw½sin w¨j qe/lousi mh/q’ oi¸
fi¿loi tw½n basile/wn, ti¿nej eÃti ei¹siìn e)leu/qeroi; {®} Zh/tei kaiì eu(rh/-
seij. eÃxeij ga\r a)forma\j para\ th=j fu/sewj pro\j euÀresin th=j a)lhqei¿aj.
ei¹ d’ au)to\j ou)x oiâo/j te eiå kata\ tau/taj yila\j poreuo/menoj eu(reiÍn to\
52 e(ch=j, aÃkouson para\ tw½n e)zhthko/twn. ti¿ le/gousin; a)gaqo/n soi dokeiÍ
h( e)leuqeri¿a; {®} To\ me/giston. {®} Du/natai ouÅn tij tou= megi¿stou
a)gaqou= tugxa/nwn kakodaimoneiÍn hÄ kakw½j pra/ssein; {®} OuÃ. {®}
àOsouj ouÅn aÄn iãdvj kakodaimonou=ntaj, dusroou=ntaj, penqou=ntaj,
a)pofai¿nou qarrw½n mh\ eiånai e)leuqe/rouj. {®} ¹Apofai¿nomai. {®}
53 Ou)kou=n a)po\ me\n w©nh=j kaiì pra/sewj kaiì th=j toiau/thj e)n kth/sei
katata/cewj hÃdh a)pokexwrh/kamen. ei¹ ga\r o)rqw½j w¨molo/ghsaj tau=ta,
aÃn te me/gaj basileu\j kakodaimonv=, ou)k aÄn e)leu/qeroj, aÃn te mikro\j
aÃn q’ u(patiko\j aÃn te disu/patoj. {®} ãEstw.
54 ÃEti ouÅn a)po/krinai¿ moi ka)keiÍno! dokeiÍ soi me/ga ti eiånai kaiì
gennaiÍon h( e)leuqeri¿a kaiì a)cio/logon; {®} Pw½j ga\r ouÃ; {®} ãEstin
ouÅn tugxa/nonta/ tinoj ouÀtwj mega/lou kaiì a)ciolo/gou kaiì gennai¿ou
55 tapeino\n eiånai; {®} Ou)k eÃstin. {®} àOtan ouÅn iãdvj tina\ u(popeptwko/-
ta e(te/r% hÄ kolakeu/onta para\ to\ faino/menon au)t%½, le/ge kaiì tou=ton
qarrw½n mh\ eiånai e)leu/qeron! kaiì mh\ mo/non, aÄn deipnari¿ou eÀneka
au)to\ poiv=, a)lla\ kaÄn e)parxi¿aj eÀneka kaÄn u(pat<e>i¿aj. a)ll’ e)kei¿nouj
me\n mikrodou/louj le/ge tou\j mikrw½n tinwn eÀneka tau=ta poiou=ntaj,
tou/touj d’, w¨j ei¹siìn aÃcioi, megalodou/louj. {®} ãEstw kaiì tau=ta. {®}
56 DokeiÍ de/ soi h( e)leuqeri¿a au)tecou/sio/n ti eiånai kaiì au)to/nomon; {®}
Pw½j ga\r ouÃ; {®} àOntina ouÅn e)p’ aÃll% kwlu=sai eÃsti kaiì a)nagka/-
57 sai, qarrw½n le/ge mh\ eiånai e)leu/qeron. kaiì mh/ moi pa/ppouj au)tou=
kaiì propa/ppouj ble/pe kaiì w©nh\n zh/tei kaiì pra=sin, a)ll’ aÄn a)kou/-
svj le/gontoj eÃswqen kaiì e)k pa/qouj “ku/rie”, kaÄn dw¯deka r(a/bdoi
proa/gwsin, le/ge dou=lon! kaÄn a)kou/svj le/gontoj “ta/laj e)gw¯, oiâa
pa/sxw”, le/ge dou=lon! aÄn a(plw½j a)poklaio/menon iãdvj, memfo/menon,
71

egli teme di lasciarci la testa. Quando prendevi il bagno più placidamente?


Quando t’esercitavi più liberamente? Insomma, quale vita preferiresti 49
vivere, quella di adesso o quella d’un tempo? Posso giurare che nessuno è 50
tanto insensato o bugiardo da non lamentarsi delle sue disgrazie, quanto
più è amico di Cesare.
Ora, dal momento che i cosiddetti re non vivono come vogliono e nep- 51
pure gli amici dei re, c’è ancora chi è libero? Cerca e troverai, ché la
natura t’ha dato i mezzi per scovare la verità. Se poi non sei in grado
da te, impiegando solo queste risorse, di giungere a una conclusione,
ascoltala da quelli che hanno già fatto la ricerca. Che dicono? «Ti sembra 52
un bene la libertà?» – «Il più grande». «E chi ottiene il bene più grande,
può essere infelice o star male?» – «No». – «Dunque quanti vedi infelici,
inquieti, gemebondi, afferma pure senza esitare che non sono liberi».
«L’affermo». «Prescindiamo, quindi, ormai, da quel che può essere ven- 53
dita o compera e altrettanti strumenti riguardanti la proprietà: infatti,
posto che quanto hai ammesso sia giusto, se il Gran Re è infelice, non
è libero, e neppure un piccolo re o chi è stato console una volta o due».
«Sia pure».
Rispondimi ancora a questa domanda: «Ti sembra una cosa grande e 54
nobile la libertà? Una cosa preziosa?» «Come no?» – «E chi ottiene una
cosa tanto grande, tanto preziosa, tanto nobile, può essere meschino?»­ –
«Non è possibile» – «Allora, quando vedi uno che si è assogget- 55
tato a un altro o lo adula contro le sue convin­zioni, di’ senza esitare
che anche costui non è libero: e non soltanto se agisce così in vista
d’un pranzetto, ma anche d’una provincia o d’un consolato. Piuttosto
chiama schiavi in stile ridotto quelli che agiscono in tal modo per pic-
cole cose, gli altri com’è giusto schiavi in grande stile». «Ammettiamo
anche ciò». «Non ti sembra che la libertà consista nella piena padro- 56
nanza, nel pieno arbitrio di se stessi?» «Come no?» «Dunque, colui
che è in potere altrui impedire e costringere, di’ pure senza esitare
che non è libero. E non guardare, per favore, gli avi suoi o i proavi, 57
né cercarne l’atto di vendita o di compera, ma se gli senti dire dal pro-
fondo del petto e con commozione, ‘padrone’, anche se lo precedono
dodici fasci, chiamalo, schiavo. E se gli senti dire ‘disgraziato me! che
soffro’ chiamalo schiavo. E, insomma, se lo vedi piangere, biasimare,
72

58 dusroou=nta, le/ge dou=lon peripo/rfuron eÃxonta. aÄn ouÅn mhde\n tou/-


twn poiv=, mh/pw eiãpvj e)leu/qeron, a)lla\ ta\ do/gmata au)tou= kata/maqe,
mh/ ti a)nagkasta/, mh/ ti kwlutika/, mh/ ti dusrohtika/! kaÄn euÀrvj
toiou=ton, le/ge dou=lon a)noxa\j eÃxonta e)n Sato[u]rnali¿oij! le/ge, oÀti
o( ku/rioj au)tou= a)podhmeiÍ! eiåq’ hÀcei kaiì gnw¯sv oiâa pa/sxei. {®} Ti¿j
59 hÀcei; {®} Pa=j oÁj aÄn e)cousi¿an eÃxv tw½n u(p’ au)tou= tinoj qelome/nwn
pro\j to\ peripoih=sai tau=ta hÄ a)fele/sqai. {®} OuÀtwj ouÅn pollou\j
kuri¿ouj eÃxomen; {®} OuÀtwj. ta\ ga\r pra/gmata prote/rouj tou/twn
kuri¿ouj eÃxomen! e)keiÍna de\ polla/ e)stin. dia\ tau=ta a)na/gkh kaiì tou\j
60 tou/twn tino\j eÃxontaj e)cousi¿an kuri¿ouj eiånai! e)pei¿ toi ou)deiìj au)to\n
to\n Kai¿sara fobeiÍtai, a)lla\ qa/naton, fugh/n, a)fai¿resin tw½n oÃntwn,
fulakh/n, a)timi¿an. ou)de\ fileiÍ tij to\n Kai¿sara, aÄn mh/ ti vÅ pollou=
aÃcioj, a)lla\ plou=ton filou=men, dhmarxi¿an, strathgi¿an, u(pat<e>i¿an.
oÀtan tau=ta filw½men kaiì misw½men kaiì fobw¯meqa, a)na/gkh tou\j
e)cousi¿an au)tw½n eÃxontaj kuri¿ouj h(mw½n eiånai. dia\ tou=to kaiì w¨j
61 qeou\j au)tou\j proskunou=men! e)nnoou=men ga/r, oÀti to\ eÃxon e)cousi¿an
th=j megi¿sthj w©felei¿aj qeiÍo/n e)stin, eiåq’ u(pota/ssomen kakw½j “ouÂtoj
d’ eÃxei [th=j megi¿sthj w©felei¿aj! qeiÍo/n e)stin. eiåq’ u(pota/ssomen
kakw½j, ouÂtoj d’ eÃxei] th=j megi¿sthj w©felei¿aj e)cousi¿an”. a)na/gkh kaiì
62 to\ geno/menon e)c au)tw½n e)penexqh=nai kakw½j. Ti¿ ouÅn e)sti to\ poiou=n
a)kw¯luton to\n aÃnqrwpon kaiì au)tecou/sion; plou=toj ga\r ou) poieiÍ
ou)d’ u(pat<e>i¿a ou)d’ e)parxi¿a ou)de\ basilei¿a, a)lla\ deiÍ ti aÃllo
63 eu(reqh=nai. ti¿ ouÅn e)sti to\ e)n t%½ gra/fein a)kw¯luton poiou=n kaiì
a)parapo/diston; {®} ¸H e)pisth/mh tou= gra/fein. {®} Ti¿ d’ e)n t%½ kiqari¿zein;
{®} ¸H e)pisth/mh tou= kiqari¿zein. {®} Ou)kou=n kaiì e)n t%½ biou=n h(
64 e)pisth/mh tou= biou=n. w¨j me\n ouÅn a(plw½j, a)kh/koaj! ske/yai d’ au)to\ kaiì
e)k tw½n <e)piì> me/rouj. to\n e)fie/meno/n tinoj tw½n e)p’ aÃlloij oÃntwn
e)nde/xetai a)kw¯luton eiånai; {®} OuÃ. {®} ¹Ende/xetai a)parapo/diston;
65 {®} OuÃ. {®} Ou)kou=n ou)d’ e)leu/qeron. oÀra ouÅn! po/teron ou)de\n eÃxomen,
oÁ e)f’ h(miÍn mo/noij e)sti¿n, hÄ pa/nta hÄ ta\ me\n e)f’ h(miÍn e)stin, ta\
66 d’ e)p’ aÃlloij; {®} Pw½j le/geij; {®} To\ sw½ma oÀtan qe/lvj o(lo/klhron
eiånai, e)piì soi¿ e)stin hÄ ouÃ; {®} Ou)k e)p’ e)moi¿. {®} àOtan d’ u(giai¿nein; {®}
Ou)de\ tou=to. {®} àOtan de\ kalo\n eiånai; {®} Ou)de\ tou=to. {®} Zh=n de\
kaiì a)poqaneiÍn; {®} Ou)de\ tou=to. {®} Ou)kou=n to\ me\n sw½ma a)llo/trion,
67 u(peu/qunon panto\j tou= i¹sxurote/rou. {®} ãEstw. {®} To\n a)gro\n d’ e)piì
73

essere inquieto, chiamalo schiavo adorno di pretesta. Se poi non fa niente 58


di tutto questo, non dirlo ancora libero, ma cerca di conoscerne i giudizi,
se in qualche modo sono soggetti a costrizioni, a impedimenti, a turba-
menti. E se lo trovi così, chiamalo schiavo in ferie per i Saturnali: di’ che
il padrone è andato via: quando tornerà, conoscerai la sua condizione».
«Chi tornerà?» «Chiunque ha il potere su qualcuna delle cose che egli 59
vuole, o di procurargliela o di strappargliela». «Così, dunque, abbiamo
tanti padroni?» «Proprio così. Perché le cose abbiamo innanzi tutto come
padroni – e son molte –: attraverso le cose, necessariamente, saranno
nostri padroni quelli che su qualcuna di esse hanno potere. Certo, nes- 60
suno teme Cesare per se stesso, ma la morte, l’esilio, la confisca dei beni,
la galera, l’ignominia. E nessuno ama Cesare, a meno che non sia degno di
grande stima, bensì la ricchezza amiamo, il tribunato, la pretura, il conso-
lato. E quando amiamo o odiamo o temiamo tali oggetti, necessariamente
saranno nostri padroni quelli che ne dispongono. Per ciò li adoriamo pure 61
come dèi: infatti, pensiamo che è divino ciò che ha la possibilità di ren-
dere il beneficio più grande. Quindi sussumiamo in modo sbagliato: ‘ma
costui ha la possibilità di rendere il beneficio più grande’. Di necessità,
però, anche la conclusione di tali premesse è tratta in modo sbagliato. Che 62
cosa, dunque, rende l’uomo privo di impedimenti e padrone di se stesso?
Non certo la ricchezza né il consolato né le province né l’impero: bisogna
scovare qual­che altra cosa. Ora, riguardo allo scrivere, che cosa ci per- 63
mette di farlo senza impedimenti e senza intralci?» – «La scienza dello
scrivere.» – «E riguardo al suonare la cetra?» – «La scienza del suonare la
cetra.» – «Dunque, anche riguardo al vivere, la scienza del vivere. Com’è 64
il principio in generale, l’hai sentito: consideralo, però, anche nelle sue
applicazioni particolari. Chi desidera cosa dipendente da altri può essere
senza impedimenti?» – «No.» – «Può essere senza intralci?» – «No.» – 65
«Dunque, neppure libero. Sta bene attento, adesso: non abbiamo proprio
niente dipendente da noi soli? O tutto? Ovvero certe cose da noi, certe da
altri?» – «Come dici?» – «Se vuoi che il corpo sia integro, dipende da te o 66
no?» – «Non dipende da me.» – «E se vuoi star bene in salute?» – «Nep-
pur questo.» – «E se vuoi esser bello?» – «Neppur questo.» – «Vivere
o morire?» – «Neppur questo.» – «Dunque il corpo è cosa altrui, sog-
getta a chiunque sia più potente di te.» – «Va bene.» – «E un campo, 67
74

soi¿ e)stin eÃxein, oÀtan qe/lvj kaiì e)f’ oÀson qe/leij kaiì oiâon qe/leij; {®}
OuÃ. {®} Ta\ de\ doula/ria; {®} OuÃ. {®} Ta\ d’ i¸ma/tia; {®} OuÃ. {®} To\ de\
oi¹ki¿dion; {®} OuÃ. {®} Tou\j d’ iàppouj; {®} Tou/twn me\n ou)de/n. {®} äAn de\
ta\ te/kna sou zh=n qe/lvj e)c aÀpantoj hÄ th\n gunaiÍka hÄ to\n a)delfo\n
hÄ tou\j fi¿louj, e)piì soi¿ e)stin; {®} Ou)de\ tau=ta.
68 Po/teron ouÅn ou)de\n eÃxeij au)tecou/sion, oÁ e)piì mo/n% e)stiì soi¿, hÄ
eÃxeij ti toiou=ton; {®} Ou)k oiåda. {®} àOra ouÅn ouÀtwj kaiì ske/yai
69 au)to/. mh/ tij du/natai¿ se poih=sai sugkataqe/sqai t%½ yeu/dei; {®}
Ou)dei¿j. {®} Ou)kou=n e)n me\n t%½ sugkataqetik%½ to/p% a)kw¯lutoj eiå
70 kaiì a)nempo/distoj. {®} ãEstw. {®} ãAge, o(rmh=sai de/ se e)f’ oÁ mh\
qe/leij tij du/natai a)nagka/sai; {®} Du/natai. oÀtan ga/r moi qa/naton
hÄ desma\ a)peilv=, a)nagka/zei m’ o(rmh=sai. {®} äAn ouÅn katafronv=j tou=
71 a)poqaneiÍn kaiì tou= dede/sqai, eÃti au)tou= e)pistre/fv; {®} OuÃ. {®} So\n ouÅn
e)stin eÃrgon to\ katafroneiÍn qana/tou hÄ ou) so/n; {®} ¹Emo/n. {®} So\n
aÃra e)stiì kaiì to\ o(rmh=sai hÄ ouÃ; {®} ãEstw e)mo/n. {®} To\ d’ a)formh=sai
72 ti¿noj; so\n kaiì tou=to. {®} Ti¿ ouÅn, aÄn e)mou= o(rmh/santoj peripath=sai
e)keiÍno/j me kwlu/sv; {®} Ti¿ sou kwlu/sei; mh/ ti th\n sugkata/qesin;
{®} OuÃ! a)lla\ to\ swma/tion. {®} Nai¿, w¨j li¿qon. {®} ãEstw! a)ll’ ou)ke/ti
73 e)gwÜ peripatw½. {®} Ti¿j de/ soi eiåpen “to\ peripath=sai so\n eÃrgon e)stiìn
a)kw¯luton”; e)gwÜ ga\r e)keiÍno eÃlegon a)kw¯luton mo/non to\ o(rmh=sai!
oÀpou de\ sw¯matoj xrei¿a kaiì th=j e)k tou/tou sunerg<e>i¿aj, pa/lai
a)kh/koaj, oÀti ou)de/n e)sti so/n. {®} ãEstw kaiì tau=ta. {®}
74 ¹Ore/gesqai de/ se ou mh\ qe/leij tij a)nagka/sai du/natai; {®} Ou)dei¿j. {®}
Proqe/sqai d’ hÄ e)pibale/sqai tij hÄ a(plw½j xrh=sqai taiÍj
75 prospiptou/saij fantasi¿aij; {®} Ou)de\ tou=to! a)lla\ o)rego/meno/n me
kwlu/sei tuxeiÍn ou o)re/gomai. {®} äAn tw½n sw½n tinoj o)re/gv kaiì tw½n
a)kwlu/twn, pw½j se kwlu/sei; {®} Ou)damw½j. {®} Ti¿j ouÅn soi le/gei, oÀti o( tw½n
76 a)llotri¿wn o)rego/menoj a)kw¯luto/j e)stin; ¸Ugei¿aj ouÅn mh\ o)re/gwmai;
77 {®} Mhdamw½j, mhd’ aÃllou a)llotri¿ou mhdeno/j. oÁ ga\r ou)k eÃstin
e)piì soiì paraskeua/sai hÄ thrh=sai oÀte qe/leij, tou=to a)llo/trio/n
e)stin. makra\n a)p’ au)tou= ou) mo/non ta\j xeiÍraj, a)lla\ polu\ pro/teron
th\n oÃrecin! ei¹ de\ mh/, pare/dwkaj sauto\n dou=lon, u(pe/qhkaj to\n
tra/xhlon,† aÄn qauma/svj tw½n [ti] mh\ sw½n %Ò tini aÄn tw½n u(peuqu/nwn
75

dipende da te possederlo quando vuoi, per quanto vuoi, e come vuoi?» –


«No.» – «Gli schiavi?» – «No.» – «Le vesti?»­– «No.» – «Una casetta?» –
«No.» – «I cavalli?» – ­«Niente di tutto questo.» – «E se vuoi a ogni costo
che i tuoi figli vivano o tua moglie o tuo fratello o gli amici, dipende da
te?» – «Neppur questo».
«Dunque, non hai proprio niente soggetto al tuo potere, dipendente da 68
te solo? O hai qualcosa di questo genere?» – «Non lo so.» – «Esamina 69
allora in tal modo e osserva. Può qualcuno farti assentire al falso?» –
«Nessuno.» – «Dunque, nel campo dell’assenso, sei privo di impedi-
menti e di intralci.» – «E sia.» – «Bene: ad avere l’impulso verso ciò che 70
non vuoi, ti può costringere qualcuno?» – «Sì, ché quando mi minaccia
morte o catene, mi costringe a questo.» – «Ma se tu disprezzi la morte e
le catene, gli baderai ancora?» – «No.» – «Ed è affar tuo disprezzare la 71
morte o no?» – «Mio.» – «Ed è affar tuo anche aver l’impulso o no?» –
«Ammettiamo che sia mio.» – «E rifiutare qualcosa di chi è? Tuo anche
questo.» – «E che succede se io ho l’impulso a camminare e quello mi 72
impedisce?» – «Quale parte di te impedirà? Forse il tuo assenso?» –
«No, ma il miserabile corpo.» – «Già, al pari di un sasso.» – «Va bene,
però io non cammino più.» – «E chi t’ha detto che camminare è affar 73
tuo, privo di ostacoli? Io dicevo privo di ostacoli solo aver l’impulso:
dove c’è bisogno del corpo e della sua cooperazione, già da un pezzo
hai sentito che non c’è niente di veramente tuo.» – «Ammettiamo anche 74
questo.» – «E a desiderare ciò che non vuoi, ti può costringere qual-
cuno?» – «Nessuno.» – «E a proporti o a intraprendere qualcosa o, sem-
plicemente, a usare delle rappresentazioni che ti si presentano, ti può
costringere qualcuno?» – «No davvero: e tuttavia mi potrà proibire di 75
raggiungere, nonostante il mio desiderio, l’oggetto del mio desiderio.» –
«Ma se tu desideri un oggetto che è proprio tuo e che è quindi privo di
impedimenti, come te lo potrà proibire?» – «In nessuna maniera.» – «E
chi ti dice che è privo di impedimenti chi desidera cose altrui?» – «Ma 76
allora la salute non devo desiderarla?» – «No, e nessun’altra cosa altrui.
Quel che non è in tuo potere procurarti o mantenere quando vuoi, è 77
cosa altrui: lungi da essa non solo le mani, ma molto prima il desiderio.
Altrimenti ti sei fatto schiavo, hai offerto il collo, se guardi con stupore
ciò che non è tuo, se ti senti tra­sportato con passione verso qualsiasi cosa
76

78 kaiì qnhtw½n† prospaqv=j. {®} ¸H xeiìr ou)k eÃstin e)mh/; {®} Me/roj
e)stiì so/n, fu/sei de\ phlo/j, kwluto/n, a)nagkasto/n, dou=lon panto\j tou=
79 i¹sxurote/rou. kaiì ti¿ soi le/gw xeiÍra; oÀlon to\ sw½ma ouÀtwj eÃxei<n>
se deiÍ w¨j o)na/rion e)pisesagme/non, e)f’ oÀson aÄn oiâo/n te vÅ, e)f’ oÀson
aÄn didw½tai! aÄn d’ a)ggar<e>i¿a vÅ kaiì stratiw¯thj e)pila/bhtai, aÃfej, mh\
a)nti¿teine mhde\ go/gguze. ei¹ de\ mh/, plhga\j labwÜn ou)de\n hÂtton a)poleiÍj
80 kaiì to\ o)na/rion. oÀtan de\ pro\j to\ sw½ma ouÀtwj eÃxein se de/v, oÀra,
ti¿ a)polei¿petai periì ta\ aÃlla, oÀsa tou= sw¯matoj eÀneka paraskeua/-
zetai. oÀtan e)keiÍno o)na/rion vÅ, taÅlla gi¿netai xalina/ria tou=
o)nari¿ou, sagma/tia, u(podhma/tia, kriqai¿, xo/rtoj. aÃfej ka)keiÍna, a)po/lue
81 qa=tton kaiì eu)kolw¯teron hÄ to\ o)na/rion. Kaiì tau/thn th\n paraskeuh\n
paraskeuasa/menoj kaiì th\n aÃskhsin a)skh/saj ta\ a)llo/tria a)po\ tw½n
i¹di¿wn diakri¿nein, ta\ kwluta\ a)po\ tw½n a)kwlu/twn, tau=ta pro\j sauto\n
h(geiÍsqai, e)keiÍna mh\ pro\j sauto/n, e)ntau=qa e)pistro/fwj eÃxe<in> th\n
oÃrecin, e)ntau=qa th\n eÃkklisin, mh/ ti eÃti fobv= tina; {®} Ou)de/na. {®}
82 Periì ti¿noj ga\r fobh/sv; periì tw½n seautou=, oÀpou soi h( ou)si¿a tou=
a)gaqou= kaiì tou= kakou=; kaiì ti¿j tou/twn e)cousi¿an eÃxei; ti¿j a)fele/sqai
au)ta\ du/natai, ti¿j e)mpodi¿sai; ou) ma=llon hÄ to\n qeo/n. a)ll’ u(pe\r tou=
83 sw¯matoj kaiì th=j kth/sewj; u(pe\r tw½n a)llotri¿wn; u(pe\r tw½n ou)de\n
pro\j se/; kaiì ti¿ aÃllo e)c a)rxh=j e)mele/taj hÄ diakri¿nein ta\ sa\ kaiì
ou) sa/, ta\ e)piì soiì kaiì ou)k e)piì soi¿, ta\ kwluta\ kaiì a)kw¯luta; ti¿noj
de\ eÀneka prosh=lqej toiÍj filoso/foij; iàna mhde\n hÂtton a)tuxv=j kaiì
84 dustuxv=j; ou)kou=n aÃfoboj me\n ouÀtwj eÃsei kaiì a)ta/raxoj. lu/ph de\ ti¿
pro\j se/; wÒn ga\r prosdokwme/nwn fo/boj gi¿netai, kaiì lu/ph paro/ntwn.
e)piqumh/seij de\ ti¿noj eÃti; tw½n me\n ga\r proairetikw½n aÀte kalw½n
oÃntwn kaiì paro/ntwn su/mmetron eÃxeij kaiì kaqistame/nhn th\n oÃrecin,
tw½n d’ a)proaire/twn ou)deno\j o)re/gv, iàna kaiì to/pon sxv= to\ aÃlogon
85 e)keiÍno kaiì w©stiko\n kaiì para\ ta\ me/tra h)peigme/non; àOtan
ouÅn pro\j ta\ pra/gmata ouÀtwj eÃxvj, ti¿j eÃti aÃnqrwpoj du/natai
fobero\j eiånai; ti¿ ga\r eÃxei aÃnqrwpoj a)nqrw¯p% fobero\n hÄ o)fqeiìj
hÄ lalh/saj hÄ oÀlwj sunanastrafei¿j; ou) ma=llon hÄ iàppoj iàpp%
77

soggetta ad altri e mortale.» – «La mano non è mia?» – «È un mem- 78


bro tuo, ma per natura è fango, soggetto a impedimenti, a costrizioni,
schiavo di chiunque sia più forte. E perché ti nomino la mano? Tutto 79
il corpo lo devi trattare come un asinello carico, per quanto tempo è
possibile, per quanto tempo è concesso: ma se si fa una requisizione e
un soldato te lo piglia, lascialo, non opporti, non brontolare: se no, sarai
picchiato e perderai nondimeno l’asinello. Ora, se questo dev’essere il 80
tuo atteggiamento rispetto al corpo, bada che ti resta da fare delle altre
cose, quante cioè si procurano in vista del corpo. Se il corpo è l’asinello,
le altre cose saranno i freni dell’asinello, i basti, i ferri, l’orzo, il fieno.
Lascia anche tutto questo, liberatene con più fretta, con più gioia che non
hai fatto dell’asinello.
Quando ti sarai procurato questa preparazione e ti sarai esercitato a 81
distinguere le cose altrui dalle tue, le cose soggette a impedimento da
quelle non soggette, e a ritenere le une dipendenti da te, le altre no, e a
dirigere accuratamente il tuo desiderio da una parte, l’avversione dall’al-
tra, c’è ancora qualcuno che temi?» – «Nessuno.» E in realtà, per che 82
cosa temerai? Per le cose tue, in cui è la sostanza del bene e del male?
E chi ne ha il potere? Chi te le può strappare? Chi metterci un ostacolo?
Non più che non lo si può mettere a Dio. Temerai forse per il tuo corpo, 83
per i tuoi averi? Per cose altrui? Per cose che non hanno niente a vedere
con te? E a che altro badavi dapprincipio se non a distinguere le cose
tue e le cose non tue, quelle dipen­denti da te e quelle non dipendenti da
te, quelle soggette a impedimento e quelle non soggette a impedimento?
Per quale motivo ti sei accostato ai filosofi? Per essere nondimeno sfor- 84
tunato e disgraziato? Ma in tal caso non sarai senza timore e turbamento.
E il dolore, che ha da vedere con te? Il timore di cose che si aspettano,
diventa dolore quando sono presenti. Ma tu che cosa bramerai ancora?
Perché delle cose dipendenti dalla tua volontà, in quanto ti sono belle e
presenti, hai un desiderio moderato e composto: di quelle indipendenti
dalla tua volontà, non senti tale desiderio per cui si provochino in te certi
ardori irrazionali, violenti e oltre ogni misura impetuosi. Sicché, quando 85
tale è il tuo atteggiamento verso le cose, quale uomo può ancora metterti
paura? Cos’ha di terrificante l’uomo per l’uomo, sia che gli appaia, o gli
parli, o, semplicemente, stia con lui? Non più che il cavallo per il cavallo,
78

hÄ ku/wn kuniì hÄ me/lissa meli¿ssv. a)lla\ ta\ pra/gmata e(ka/st% fobera/


e)stin! tau=ta d’ oÀtan peripoieiÍn tij du/nhtai¿ tini hÄ a)fele/sqai, to/te
kaiì au)to\j fobero\j gi¿netai.
86 pw½j ouÅn a)kro/polij katalu/etai; ou) sidh/r% ou)de\ puri¿, a)lla\ do/g-
masin. aÄn ga\r th\n ouÅsan e)n tv= po/lei kaqe/lwmen, mh/ ti kaiì th\n
tou= puretou=, mh/ ti kaiì th\n tw½n kalw½n gunaikari¿wn, mh/ ti a(plw½j
th\n e)n h(miÍn a)kro/polin kaiì tou\j e)n h(miÍn tura/nnouj a)pobeblh/kamen,
ouÁj e)f’ e(ka/stoij kaq’ h(me/ran eÃxomen, pote\ me\n tou\j au)tou/j, pote\
87 d’ aÃllouj; a)ll’ eÃnqen aÃrcasqai deiÍ kaiì eÃnqen kaqeleiÍn th\n a)kro/-
polin, e)kba/llein tou\j tura/nnouj! to\ swma/tion a)feiÍnai, ta\ me/rh
au)tou=, ta\j duna/meij, th\n kth=sin, th\n fh/mhn, a)rxa/j, tima/j, te/kna,
88 a)delfou/j, fi¿louj, pa/nta tau=ta h(gh/sasqai a)llo/tria. kaÄn eÃnqen
e)kblhqw½sin oi¸ tu/rannoi, ti¿ eÃti a)poteixi¿zw th\n a)kro/polin e)mou= ge
eÀneka; e(stw½sa ga\r ti¿ moi poieiÍ; ti¿ eÃti e)kba/llw tou\j dorufo/rouj;
pou= ga\r au)tw½n ai¹sqa/nomai; e)p’ aÃllouj eÃxousin ta\j r(a/bdouj kaiì tou\j
89 kontou\j kaiì ta\j maxai¿raj. e)gwÜ d’ ou)pw¯pot’ ouÃte qe/lwn e)kwlu/qhn
ouÃt’ h)nagka/sqhn mh\ qe/lwn kaiì pw½j tou=to dunato/n; proskatate/-
taxa/ mou th\n o(rmh\n t%½ qe%½. qe/lei m’ e)keiÍnoj pure/ssein! ka)gwÜ qe/lw.
qe/lei o(rma=n e)pi¿ ti! ka)gwÜ qe/lw. qe/lei o)re/gesqai! ka)gwÜ qe/lw. qe/lei
90 me tuxeiÍn tinoj! ka)gwÜ bou/lomai. ou) qe/lei! ou) bou/lomai. a)poqaneiÍn
ouÅn qe/lw! streblwqh=nai ouÅn qe/lw. ti¿j eÃti me kwlu=sai du/natai para\
to\ e)moiì faino/menon hÄ a)nagka/sai; ou) ma=llon hÄ to\n Di¿a.
91 OuÀtwj poiou=si kaiì tw½n o(doipo/rwn oi¸ a)sfale/steroi. a)kh/koen oÀti
lvsteu/etai h( o(do/j! mo/noj ou) tolm#= kaqeiÍnai, a)lla\ perie/meinen
sunodi¿an hÄ presbeutou= hÄ tami¿ou hÄ a)nqupa/tou kaiì proskatata/-
92 caj e(auto\n pare/rxetai a)sfalw½j. ouÀtwj kaiì e)n t%½ ko/sm% poieiÍ o(
fro/nimoj. “polla\ lvsth/ria, tu/rannoi, xeimw½nej, a)pori¿ai, a)pobolaiì
93 tw½n filta/twn. pou= tij katafu/gv; pw½j a)lv/steutoj pare/lqv; poi¿an
sunodi¿an perimei¿naj a)sfalw½j die/lqv; ti¿ni proskatata/caj e(auto/n;
94 t%½ deiÍni, t%½ plousi¿%, t%½ u(patik%½. kaiì ti¿ moi oÃfeloj; au)to\j e)kdu/-
etai, oi¹mw¯zei, penqeiÍ. ti¿ d’, aÄn o( sunodoipo/roj au)to\j e)p’ e)me\ strafeiìj
95 lvsth/j mou ge/nhtai; ti¿ poih/sw; fi¿loj eÃsomai Kai¿saroj! e)kei¿nou me
oÃnta e(taiÍron ou)deiìj a)dikh/sei. prw½ton me/n, iàna ge/nwmai, p[r]o/sa me
deiÍ tlh=nai kaiì paqeiÍn, posa/kij kaiì u(po\ po/swn lvsteuqh=nai! eiåta e)a\n
79

o il cane per il cane, o l’ape per l’ape. Sono le cose piuttosto che mettono
paura a ciascuno, e quando uno le può concedere o strappare, allora,
anche costui mette paura.
In che modo, quindi, si abbatte l’acropoli? Non col ferro, non col 86
fuoco, ma coi giudizi. Perché, se abbiamo distrutto l’acropoli materiale
della città, abbiamo forse distrutto anche quella che ci oppone la febbre,
quella che ci oppongono le belle ragazze, l’acropoli, insomma, che è in
noi, abbiamo cacciato i tiranni che sono in noi e che teniamo giorno per
giorno presso ciascuno di noi, talvolta gli stessi, tal’altra diversi? Ma 87
di qui bisogna cominciare, proprio di qui bisogna distruggere l’acropoli
e cacciare i tiranni: tralasciare il miserabile corpo, le sue membra, le
facoltà, gli averi, la fama, le cariche, gli onori, i figli, i fratelli, gli amici
e ritenere di altri tutte queste cose. E se i tiranni sono espulsi di qui, 88
perché assedierò ancora l’acropoli, per conto mio, almeno? Se resta, che
mi fa? Perché caccerò ancora le guardie del corpo? Dove ne avverto più
la presenza? Per altri essi portano i bastoni, le aste, le spade. Io non sono 89
stato mai impedito nella mia volontà né costretto contro la mia volontà.
Come sarebbe possibile? Ho unito i miei impulsi a Dio. Egli vuole ch’io
abbia la febbre: anch’io lo voglio. Vuole che imprenda qualcosa: anch’io
lo voglio. Vuole che desideri: anch’io lo voglio. Vuole che ottenga alcun-
ché: è anche la mia volontà. Non vuole: non è la mia volontà. Perciò 90
voglio morire: per ciò voglio esser messo alla tortura. Chi può ancora
impedirmi contro la mia opinione o costringermi? Non più che non lo
si potrebbe con Zeus. Così fanno pure i viaggiatori più prudenti. Uno 91
ha sentito che la strada è infestata da briganti: non osa mettercisi da
solo, ma attende la compagnia d’un ambasciatore o d’un questore o d’un
proconsole e, unendosi a questi, procede sicuro. Allo stesso modo agi- 92
sce il saggio nel mondo. «Molte sono le rapine, i tiranni, le tempeste, le
perplessità, le perdite delle cose più dilette. Dove rifugiarsi? Come pro- 93
cedere al riparo dai briganti? Quale compagnia attendere per marciare
sicuri? A chi unirsi? A quello, che è ricco, che è stato console? Che utilità 94
me ne viene? Ecco: lo spogliano: geme, si lamenta. E poi, se proprio il
mio compagno di viaggio mi si rivolta contro e si mette a derubarmi?
Che farò? Sarò amico di Cesare e come amico di lui nessuno mi farà 95
torto. Prima di tutto, per diventarlo, quanto devo soffrire e sopportare,
80

96 ge/nwmai, kaiì ouÂtoj qnhto/j e)stin [kaiì ouÂtoj qnhto/j]. aÄn d’ au)to\j eÃk tinoj
perista/sewj e)xqro/j mou ge/nhtai, a)naxwrh=sai¿ pou/ pote kreiÍsson; ei¹j
97 e)rhmi¿an; aÃge, e)keiÍ pureto\j ou)k eÃrxetai; ti¿ ouÅn ge/nhtai; ou)k eÃstin eu(reiÍn
98 a)sfalh= su/nodon, pisto/n, i¹sxuro/n, a)nepibou/leuton;” ouÀtwj e)fi¿sthsin
kaiì e)nnoeiÍ, oÀti, e)a\n t%½ qe%½ proskatata/cv e(auto/n, dieleu/setai
a)sfalw½j.
99 Pw½j le/geij proskatata/cai; {®} àIn’, oÁ aÄn e)keiÍnoj qe/lv, kaiì au)to\j
qe/lv kai¿, oÁ aÄn e)keiÍnoj mh\ qe/lv, tou=to mhd’ au)to\j qe/lv. {®} Pw½j ouÅn
100 tou=to ge/nhtai; {®} Pw½j ga\r aÃllwj hÄ e)piskeyame/n% ta\j o(rma\j tou=
qeou= kaiì th\n dioi¿khsin; ti¿ moi de/dwken e)mo\n kaiì au)tecou/sion, ti¿
au(t%½ kate/l[e]ipen; ta\ proairetika/ moi de/dwken, e)p’ e)moiì pepoi¿hken,
a)nempo/dista, a)kw¯luta. to\ sw½ma to\ ph/linon pw½j e)du/nato a)kw¯luton
poih=sai; u(pe/tacen ouÅn tv= tw½n oÀlwn perio/d%, th\n kth=sin, ta\ skeu/h,
101 th\n oi¹ki¿an, ta\ te/kna, th\n gunaiÍka. ti¿ ouÅn qeomaxw½; ti¿ qe/lw ta\ mh\
qelhta/, ta\ mh\ doqe/nta moi e)c aÀpantoj eÃxein; a)lla\ pw½j; w¨j de/dotai
kaiì e)f’ oÀson du/natai. a)ll’ o( dou\j a)faireiÍtai. ti¿ ouÅn a)ntitei¿nw; ou)
le/gw, oÀti h)li¿qioj eÃsomai to\n i¹sxuro/teron biazo/menoj, a)ll’ eÃti pro/-
102 teron aÃdikoj. po/qen ga\r eÃxwn au)ta\ hÅlqon; o( path/r mou au)ta\ eÃdwken.
e)kei¿n% de\ ti¿j; to\n hÀlion de\ ti¿j pepoi¿hke, tou\j karpou\j de\ ti¿j, ta\j
d’ wÐraj ti¿j, th\n de\ pro\j a)llh/louj sumplokh\n kaiì koinwni¿an ti¿j;
103 Eiåta su/mpanta ei¹lhfwÜj par’ aÃllou kaiì au)to\n seauto/n,
a)ganakteiÍj kaiì me/mfv to\n do/nta, aÃn sou/ ti a)fe/lhtai; ti¿j wÔn
104 kaiì e)piì ti¿ e)lhluqw¯j; ou)xiì e)keiÍno/j se ei¹sh/gagen; ou)xiì to\ fw½j
e)keiÍno/j soi eÃdeicen; ou) sunergou\j de/dwken; ou) kaiì ai¹sqh/seij;
ou) lo/gon; w¨j ti¿na de\ ei¹sh/gagen; ou)x w¨j qnhto/n; ou)x w¨j meta\
o)li¿gou sarkidi¿ou zh/sonta e)piì gh=j kaiì qeaso/menon th\n dioi¿khsin
au)tou= kaiì sumpompeu/sonta au)t%½ kaiì suneorta/sonta pro\j o)li¿gon;
105 ou) qe/leij ouÅn, eÀwj de/dotai¿ soi, qeasa/menoj th\n pomph\n kaiì th\n
panh/gurin eiåta, oÀtan s’ e)ca/gv, poreu/esqai proskunh/saj kaiì
eu)xaristh/saj u(pe\r wÒn hÃkousaj kaiì eiådej; “ouÃ! a)ll’ eÃti
106 e(orta/zein hÃqelon.” kaiì ga\r oi¸ mu/stai mueiÍsqai; ta/xa kaiì oi¸ e)n
81

quante volte e da quanti devo essere derubato! Se poi lo divento, egli 96


resta pur sempre un mortale. E se per una qualche circostanza mi si fa
nemico, dove mai sarà bene ch’io ripari? Nel deserto? Ma via, non ci
giunge la febbre, là? Che succede allora? Non si può trovare un compa- 97
gno di strada sicuro, leale, forte e non insidiatore?». Così riflette e pensa 98
che se si unisce a Dio, marcerà sicuro.
In che senso dici «unirsi»? Così: quel che Dio vuole anch’egli vuole, 99
e quel che Dio non vuole, neppur egli vuole. E come ottener questo?
Altrimenti, forse, che osservando i disegni di Dio e il suo governo? Che 100
cosa mi ha dato di veramente mio, di mio proprio arbitrio e che cosa si è
lasciato per sé? Le cose dipendenti dalla mia volontà le ha date a me, le
ha fatte soggette a me, prive di ostacoli e di impedimenti. Ma il corpo,
ch’è di fango, come poteva farlo privo d’impedimenti? Quindi l’ha sot-
toposto al moto periodico dell’universo, come i beni, le masserizie, la
casa, i figli, la moglie. E perché scendo in lotta con Dio? Perché voglio 101
cose che non rientrano nell’ambito della volontà, cose che non m’è stato
assolutamente concesso di avere? Ma come devo volerle? Com’è stato
concesso e per quanto si può. Ma chi le ha date se le riprende. E perché
mi oppongo? Dico che non solo sarò sciocco ricorrendo alla violenza
contro chi è più forte, ma anche, e soprattutto, ingiusto. Da chi le ho 102
avute queste cose venendo quaggiù? Me le ha date mio padre. E a lui
chi? E il sole chi l’ha fatto, e i frutti chi, e le stagioni chi, e l’unione e la
comunanza reciproca degli uomini, chi?
E allora, avendo ricevuto tutte le cose da un altro e lo stesso tuo essere, 103
ti adiri e biasimi chi te le ha date, se te ne strappa una? Chi sei e per
che scopo sei venuto? Non ti ci ha introdotto Lui? Non ti ha mostrato 104
Lui la luce? Non ti ha dato cooperatori? Non t’ha dato anche i sensi?
Non la ragione? E in che qualità t’ha introdotto? Non come un mor-
tale? Non come chi doveva vivere insieme a un po’ di carne sulla terra,
per ammirare l’amministrazione di Dio, glorificarlo insieme agli altri
e celebrarlo cogli altri, per breve tempo? Non vuoi, dunque, finché t’è 105
concesso, ammirare la processione e la festa, poi, quando Dio te ne trae
fuori, andartene, dopo averlo adorato e ringraziato per quanto hai udito
e veduto? «No, volevo rimanere ancora alla festa». Già: anche gli iniziati 106
vogliono essere istruiti di più nei misteri e, probabilmente, anche gli
82

¹Olumpi¿# aÃllouj a)qlhta\j ble/pein! a)lla\ h( panh/gurij pe/raj eÃxei!


eÃcelqe, a)palla/ghqi w¨j eu)xa/ristoj, w¨j ai¹dh/mwn! do\j aÃlloij
to/pon! deiÍ gene/sqai kaiì aÃllouj, kaqa/per kaiì su\ e)ge/nou, kaiì
genome/nouj eÃxein xw¯ran kaiì oi¹kh/seij, ta\ e)pith/deia. aÄn d’ oi¸ prw½toi
mh\ u(peca/gwsin, ti¿ u(pol<e>i¿petai; ti¿ aÃplhstoj eiå; ti¿ a)ni¿kanoj; ti¿
stenoxwreiÍj to\n ko/smon;
107 {®} Nai¿! a)lla\ ta\ tekni¿a met’ e)mautou= eiånai qe/lw kaiì th\n gunaiÍka.
{®} Sa\ ga/r e)stin; ou)xiì tou= do/ntoj; ou)xiì kaiì tou= se\ pepoihko/toj;
eiåta ou)k e)ksth/sv tw½n a)llotri¿wn; ou) paraxwrh/seij t%½ krei¿ssoni;
108 {®} Ti¿ ouÅn m’ ei¹sh=gen e)piì tou/toij; {®} Kaiì ei¹ mh\ poieiÍ soi, eÃcelqe!
ou)k eÃxei xrei¿an qeatou= memyimoi¿rou. tw½n suneortazo/ntwn deiÍtai,
tw½n sugxoreuo/ntwn, iàn’ e)pikrotw½si ma=llon, e)piq<e>ia/zwsin, u(mnw½si
109 de\ th\n panh/gurin. tou\j <a)>talaipw¯rouj de\ kaiì deilou\j ou)k a)hdw½j
oÃyetai a)poleleimme/nouj th=j panhgu/rewj! ou)de\ ga\r paro/ntej w¨j
e)n e(ortv= dih=gon ou)d’ e)ceplh/roun th\n xw¯ran th\n pre/pousan,
a)ll’ w©dunw½nto, e)me/mfonto to\n dai¿mona, th\n tu/xhn, tou\j suno/ntaj!
a)nai¿sqhtoi kaiì wÒn eÃtuxon kaiì tw½n e(autw½n duna/mewn, aÁj ei¹lh/fasi
pro\j ta\ e)nanti¿a, megaloyuxi¿aj, gennaio/thtoj, a)ndrei¿aj, au)th=j th=j
110 nu=n zhtoume/nhj e)leuqeri¿aj. {®} ¹Epiì ti¿ ouÅn eiãlhfa tau=ta; {®} Xrhso/-
menoj. {®} Me/xri ti¿noj; {®} Me/xrij aÄn o( xrh/saj qe/lv. {®} äAn ouÅn
a)nagkaiÍa/ moi vÅ; {®} Mh\ pro/spasxe au)toiÍj kaiì ou)k eÃstai. su\ au)ta\
au(t%½ mh\ eiãpvj a)nagkaiÍa kaiì ou)k eÃstin.
111 Tau/thn th\n mele/thn eÀwqen ei¹j e(spe/ran meleta=n eÃdei. a)po\ tw½n
mikrota/twn, a)po\ tw½n eu)ephreasto<ta/>twn a)rca/menoj, a)po\ xu/traj,
a)po\ pothri¿ou, eiåq’ ouÀtwj e)piì xitwna/rion pro/selqe, e)piì kuna/rion,
e)piì i¸ppa/rion, e)piì a)gri¿dion! eÃnqen e)piì sauto/n, to\ sw½ma, ta\ me/rh
112 tou= sw¯matoj, ta\ te/kna, th\n gunaiÍka, tou\j a)delfou/j. pantaxou=
perible/yaj a)po/rriyon a)po\ seautou=! ka/qhron ta\ do/gmata, mh/ ti
prosh/rthtai¿ soi tw½n ou) sw½n, mh/ ti sumpe/fuken, mh/ ti o)dunh/sei
113 s’ a)pospw¯menon. kaiì le/ge gumnazo/menoj kaq’ h(me/ran, w¨j e)keiÍ, mh\ oÀti
filosofeiÍj (eÃstw fortiko\n to\ oÃnoma), a)ll’ oÀti karpisth\n di¿dwj. tou=to
114 ga/r e)stin h( taiÍj a)lhqei¿aij e)leuqeri¿a. tau/thn h)leuqerw¯qh Dioge/nhj
83

spettatori a Olimpia vogliono vedere altri atleti: ma la festa ha dei limiti.


Va’, staccatene, da persona riconoscente e rispettosa: fa’ spazio ad altri.
Devono nascere altri pure, come sei nato tu, e, nati, avere un posto, una
casa, il necessario. E se i primi non si ritirano, che resta ad essi? Perché
sei insaziabile? Perché riluttante? Perché opprimi il mondo?
«Sì: ma io voglio con me i miei figlioli e mia moglie.» – «Perché, sono 107
tuoi? E non di chi te li ha dati? Non di chi ha fatto anche te? E, dunque,
non ti staccherai dalle cose altrui? Non ti ritirerai davanti a chi vale
di più?» «E perché mi ha introdotto a queste condizioni?» – Se non ti 108
garbano, vattene via. Non se ne fa niente di uno spettatore che biasima
la sua sorte: ha bisogno di uomini che partecipino insieme al tripudio e
alle danze, onde più forte sia l’applauso, l’invocazione agli dei, l’esalta-
zione della festa. Gli indifferenti, i timidi, non senza gioia li ve­drà riti- 109
rarsi dalla riunione, perché, quando erano presenti, non si comportavano
come esigeva la festa, non adempi­vano i doveri che loro convenivano, ma
si rattristavano, accusavano il demone, la sorte, gli altri, incoscienti di
quanto avevano ottenuto e delle possibilità che avevano contro le avver-
sità e cioè la grandezza d’animo, la nobiltà, l’ardire, la libertà stessa,
che adesso è oggetto della nostra ricerca. «Ma perché ho avuto queste
cose?» – «Per usarne.» – «Fino a quando?» – «Fin quando vuole chi te le 110
ha prestate.» – «Ma se mi sono necessarie?» – Non ti ci attaccare, e non
lo saranno. Non dire che ti sono ne­cessarie e non lo saranno.
Ecco i pensieri in cui bisognerebbe esercitarsi da mat­tina a sera. Inco- 111
mincia dalle cose più piccole, dalle più fragili, un bacile, un bicchiere,
e così poi spingiti alla veste, al cagnolino, al cavallino, al campicello:
di qui a te stesso, al corpo, alle membra del corpo, ai figli, alla mo­glie,
ai fratelli. E dopo un minuzioso esame da ogni parte, gettale lontano 112
da te; purifica i tuoi giudizi, che non ti si attacchi qualcosa non tua,
che non ti si incarni, che non ti addolori, staccandosi da te. E mentre ti 113
eserciti, giorno per giorno, come fai nel ginnasio, non dire che filosofi
(è un’espressione pretenziosa, questa) ma che mostri il tuo emancipa-
tore3. Ecco veramente la libertà. In questo modo fu affrancato Diogene 114

3 
Dall’esempio che segue di Diogene e Antistene si può supporre che Epitteto voglia ve-
dere nel maestro a cui il giovane s’è dato il vero liberatore. Cfr. Epict., diss., II I 24 sgg.
84

par’ ¹Antisqe/nouj kaiì ou)ke/ti eÃfh katadoulwqh=nai du/nasqai


115 u(p’ ou)deno/j. dia\ tou=to pw½j e(a/lw, pw½j toiÍj peirataiÍj e)xrh=to! mh/
ti ku/rion eiåpe/n tina au)tw½n; kaiì ou) le/gw to\ oÃnoma! ou) ga\r th\n
116 fwnh\n fobou=mai, a)lla\ to\ pa/qoj, a)f’ ou h( fwnh\ e)kpe/mpetai. pw½j
e)pitim#= au)toiÍj, oÀti kakw½j eÃtrefon tou\j e(alwko/taj! pw½j e)pra/-
qh! mh/ ti ku/rion e)zh/tei; a)lla\ dou=lon. pw½j de\ praqeiìj a)nestre/-
feto pro\j to\n despo/thn! eu)qu\j diele/geto pro\j au)to/n, oÀti ou)x
ouÀtwj e)stoli¿sqai deiÍ au)to/n, ou)x ouÀtwj keka/rqai, periì tw½n ui¸w½n,
117 pw½j deiÍ au)tou\j dia/gein. kaiì ti¿ qaumasto/n; ei¹ ga\r paidotri¿bhn
e)w¯nhto, e)n toiÍj palaistrikoiÍj u(phre/tv aÄn au)t%½ e)xrh=to hÄ kuri¿%; ei¹
d’ i¹atro/n, w¨sau/twj, ei¹ d’ a)rxite/ktona. kaiì ouÀtwj e)f’ e(ka/sthj uÀlhj
118 to\n eÃmpeiron tou= a)pei¿rou krateiÍn pa=sa a)na/gkh. oÀstij ouÅn kaqo/-
lou th\n periì bi¿on e)pisth/mhn ke/kthtai, ti¿ aÃllo hÄ tou=ton eiånai
deiÍ to\n despo/thn; ti¿j ga/r e)stin e)n nhiì ku/rioj; {®} ¸O kubernh/thj.
{®} Dia\ ti¿; oÀti o( a)peiqw½n au)t%½ zhmiou=tai. {®} ¹Alla\ deiÍrai¿ me du/-
119 natai. {®} Mh/ ti ouÅn a)zhmi¿wj; {®} OuÀtwj me\n ka)gwÜ eÃkrinon. {®}
¹All’ oÀti ou)k a)zhmi¿wj, dia\ tou=to ou)k eÃcestin! ou)deniì d’ a)zh/mio/n
120 e)sti to\ poieiÍn ta\ aÃdika. {®} Kaiì ti¿j h( zhmi¿a t%½ dh/santi to\n au(tou=
dou=lon, hÁn dokeiÍj; {®} To\ dh=sai! tou=to oÁ kaiì su\ o(mologh/seij, aÄn
qe/lvj s%¯zein, oÀti aÃnqrwpoj ou)k eÃsti qhri¿on, a)ll’ hÀmeron z%½on.
121 e)peiì po/t’ aÃmpeloj pra/ssei kakw½j; oÀtan para\ th\n e(auth=j fu/sin
122 pra/ssv. po/t’ a)lektruw¯n; w¨sau/twj. ou)kou=n kaiì aÃnqrwpoj. ti¿j ouÅn
au)tou= h( fu/sij; da/knein kaiì lakti¿zein kaiì ei¹j fulakh\n ba/llein
kaiì a)pokefali¿zein; ouÃ! a)ll’ euÅ poieiÍn, sunergeiÍn, e)peu/xesqai.
to/t’ ouÅn kakw½j pra/ssei, aÃn te qe/lvj aÃn te mh/, oÀtan a)gnwmonv=.
123 àWste Swkra/thj ou)k eÃprace kakw½j; {®} OuÃ, a)ll’ oi¸ dikastaiì kaiì oi¸
kath/goroi. {®} Ou)d’ e)n ¸Rw¯mv ¸Eloui¿dioj; {®} OuÃ, a)ll’ o( a)poktei¿naj
124 au)to/n. {®} Pw½j le/geij; {®} ¸Wj kaiì su\ a)lektruo/na ou) le/geij kakw½j
pra=cai to\n nikh/santa kaiì katakope/nta, a)lla\ to\n a)plh=ga h(tthqe/nta!
85

da Antistene e disse che non poteva essere più ridotto in schiavitù da


nessuno. E, in conseguenza, come fu fatto prigioniero? Come trattò i 115
pirati? Chiamò forse padrone qualcuno di loro? Non mi riferisco certo
alla parola, perché non ho paura del vocabolo, ma all’atteggiamento di
cui il vocabolo è espressione. Come li riprendeva perché nutrivano male 116
i prigionieri? E come fu venduto? Cercava forse un padrone? Piuttosto
un servo. E una volta venduto, come si rivolse al suo signore? Gli disse
subito che non doveva vestire come vestiva e nep­pure portare i capelli
come li portava: quanto ai figli ag­giunse in che modo dovevano vivere4.
Che c’è di strano? Se quell’uomo avesse comprato un maestro di pale- 117
stra, l’avrebbe trattato da servo o da padrone negli esercizi della pale-
stra? Lo stesso se avesse comprato un medico o un architetto: e così, in
ogni campo, è assoluta necessità che l’esperto guidi l’inesperto. Dunque, 118
in generale, se uno possiede la scienza della vita, chi altro se non lui deve
essere il padrone? Chi è il signore sulla nave? – Il timoniere.­ Perché?
Perché chi gli disobbedisce è punito5. – Ma quello mi può frustare. – E 119
lo può impunemente? – Io pensavo di sì. – E, invece, poiché non lo può
impunemente, non ne ha la possibilità: infatti, nessuno resta impunito
quando agisce male. – E qual è la punizione per chi ha messo in catene 120
il suo schiavo? Che ne pensi? – Proprio l’averlo messo in catene: e ne
converrai anche tu, se vuoi salvare la definizione che l’uomo non è una
bestia, ma un animale mansueto. Quand’è che l’uva sta male? Quando si 121
trova in una condizione innaturale. E il gallo? Lo stesso. Dunque, anche 122
l’uomo. E qual è la natura dell’uomo? Mor­dere, tirar calci, gettare in pri-
gione, mozzare la testa? No, ma fare del bene, aiutare gli altri, invocare
gli dèi. Quindi, che tu lo voglia o no, sta male quando agisce senza riflet-
tere. Di conseguenza Socrate non stette male? – No; bensì i giudici e gli 123
accusatori. – E neppure Elvidio6 a Roma? – No; bensì chi l’uccise. – Ma
come dici questo? – Proprio come tu non dici che sta male il gallo uscito 124
vittorioso dal combattimento anche se ferito, bensì quello che senza
4 
Cfr. Diog. Laert., VI 30, 36, 71: A. Gell., II 18 9-10; Mus., fr. 9 (v. O. Hense (edidit),
C. Musonius Rufus Reliquiae, Leipzig 1905).
5 
Giustamente lo Schenkl suppone a questo punto, la caduta di una frase come questa:
«No. Piuttosto perché possiede la scienza del timoniere».
6 
Cfr. Epict., diss., I 2 19 sgg.
86

ou)de\ ku/na eu)daimoni¿zeij to\n mh/te diw¯konta mh/te ponou=nta,


a)ll’ oÀtan i¸drw½nta iãdvj, oÀtan o)dunw¯menon, oÀtan r(hgnu/menon
125 u(po\ tou= dro/mou. ti¿ paradocologou=men, ei¹ le/gomen panto\j kako\n
eiånai to\ para\ th\n e)kei¿nou fu/sin; tou=to para/doco/n e)stin; su\ ga\r
au)to\ e)piì pa/ntwn tw½n aÃllwn ou) le/geij; dia\ ti¿ e)piì mo/nou ouÅn
126 tou= a)nqrw¯pou aÃllwj fe/rv; a)ll’ oÀti le/gomen hÀmeron eiånai tou=
a)nqrw¯pou th\n fu/sin kaiì fila/llhlon kaiì pisth/n, tou=to para/-
127 docon ou)k eÃstin; {®} Ou)de\ tou=to. {®} Pw½j ouÅn eÃti ou) dero/menoj
bla/ptetai hÄ desmeuo/menoj hÄ a)pokefalizo/menoj; ou)xiì ouÀtwj me/n!
<ei¹> gennai¿wj pa/sxei, kaiì proskerdai¿nwn kaiì proswfelou/menoj
a)pe/rxetai, e)keiÍnoj de\ blapto/meno/j e)stin o( ta\ oi¹ktro/tata pa/sxwn
kaiì aiãsxista, o( a)ntiì a)nqrw¯pou lu/koj gino/menoj hÄ eÃxij hÄ sfh/c;
128 ãAge ouÅn e)pe/lqwmen ta\ w¨mologhme/na. o( a)kw¯lutoj aÃnqrwpoj
e)leu/qeroj, %Ò pro/xeira ta\ pra/gmata w¨j bou/letai. oÁn d’ eÃstin hÄ
kwlu=sai hÄ a)nagka/sai hÄ e)mpodi¿sai hÄ aÃkonta eiãj ti e)mbaleiÍn, dou=lo/j
129 e)stin. ti¿j d’ a)kw¯lutoj; o( mhdeno\j tw½n a)llotri¿wn e)fie/menoj. ti¿na
d’ a)llo/tria; aÁ ou)k eÃstin e)f’ h(miÍn ouÃt’ eÃxein ouÃte mh\ eÃxein ouÃte
130 poia\ eÃxein hÄ pw½j eÃxonta. ou)kou=n to\ sw½ma a)llo/trion, ta\ me/rh au)tou=
a)llo/tria, h( kth=sij a)llotri¿a. aÄn ouÅn tini tou/twn w¨j i¹di¿% prospaqv=j,
131 dw¯seij di¿kaj aÁj aÃcion to\n tw½n a)llotri¿wn e)fie/menon. auÀth <h(> o(do\j
e)p’ e)leuqeri¿an aÃgei, auÀth mo/nh a)pallagh\ doulei¿aj, [mo/nv] to\
dunhqh=nai¿ pot’ ei¹peiÍn e)c oÀlhj yuxh=j to\

aÃgou de/ m’, wÕ Zeu=, kaiì su/ g’ h( Peprwme/nh,


oÀpoi poq’ u(miÍn ei¹mi diatetagme/noj.

132 ¹Alla\ ti¿ le/geij, filo/sofe; kaleiÍ se o( tu/rannoj e)rou=nta/ ti wÒn


ou) pre/pei soi. le/geij hÄ ou) le/geij; ei¹pe/ moi. {®} ãAfej ske/ywmai.
{®} Nu=n ske/yv; oÀte d’ e)n tv= sxolv= hÅj, ti¿ e)ske/ptou; ou)k
e)mele/taj, ti¿na e)stiì ta\ a)gaqa\ kaiì ta\ kaka\ kaiì ti¿na ou)de/tera;
87

ri­cevere un colpo è stato sconfitto, e non chiami felice il cane che non
insegue niente e non s’affatica, ma quando lo vedi grondante di sudore,
quando lo vedi affaticato, e spezzato dalla corsa. Che c’è di paradossale 125
se affermiamo che il male d’ogni cosa è ciò che ripugna alla sua natura?
È un paradosso, questo? Perché? Non lo dici tu di tutte le altre cose? E
per qual motivo solo rispetto all’uomo la pensi diversamente? Ma il dire, 126
come facciamo noi, che la natura dell’uomo è mansueta, socievole, leale,
non è forse un paradosso? – No davvero. – E allora, come non subisce 127
danno chi è frustato, o gettato in galera o decapitato? Non è affatto così:
se costui si comporta nobilmente, non ne esce invece con un guadagno
e con un attivo, mentre il danneggiato è chi soggiace alle tentazioni più
durevoli e vergognose, chi da uomo diventa lupo, vipera, o vespa?
Orsù, dunque, rivediamo i punti sui quali s’è raggiunto l’accordo. 128
Libero è l’uomo che non soggiace a impedimenti, che ha a portata di
mano le cose come vuole, mentre quello che si può impedire, o costrin-
gere o ostacolare o spingere ad agire contro voglia, è schiavo. E chi non 129
soggiace a impedimenti? Chi non desidera nessuna delle cose altrui. E
quali sono le cose altrui? Quelle che non dipende da noi avere o non
avere, o avere d’una certa qualità o in certe condizioni. Perciò il corpo 130
è una cosa altrui, le membra del corpo sono cose altrui, gli averi sono
cosa altrui. Quindi se ti affezioni a una di queste cose, come se fosse
tua, pagherai il fio che si merita chi desidera cose altrui. La strada che 131
conduce alla libertà, la sola che è liberazione dalla schiavitù è poter dire
una buona volta con tutto il cuore:

Conducimi, o Zeus, e tu anche, o Destino,


là dov’è il fine a me da voi assegnato7.

Ma che dici filosofo? Ti chiama il tiranno per farti dire qualcosa indegna 132
di te. Gliela dici o no? Rispondimi. «Lasciami esaminare.» – «Esaminerai
adesso? E quand’eri a scuola, che cosa esaminavi? Non ti interessavi di quel
che è bene, di quel che è male, e di quel che non è né l’uno né l’altro?» – «Sì

7 
Cfr. Epict., diss., II 23 42. [Cfr. anche SVF I 527 e 537 (supra p. 43) nonché supra pp.
14-20 (n.d.c.)].
88

133 {®} ¹Eskepto/mhn. {®} Ti¿na ouÅn hÃresken u(miÍn; {®} Ta\ di¿kaia kaiì
kala\ a)gaqa\ eiånai, ta\ aÃdika kaiì ai¹sxra\ kaka/. {®} Mh/ ti to\ zh=n
a)gaqo/n; {®} OuÃ. {®} Mh/ ti to\ a)poqaneiÍn kako/n; {®} OuÃ. {®} Mh/
ti fulakh/; {®} OuÃ. {®} Lo/goj d’ a)gennh\j kaiì aÃpistoj kaiì fi¿lou
prodosi¿a kaiì kolakei¿a tura/nnou ti¿ u(miÍn e)fai¿neto; {®} Kaka/.
134 {®} Ti¿ ouÅn; ou)xiì ske/ptv, ou)xiì d’ eÃskeyai kaiì bebou/leusai. poi¿a
ga\r ske/yij, ei¹ kaqh/kei moiì duname/n% ta\ me/gista a)gaqa\ e)maut%½
peripoih=sai, ta\ me/gista kaka\ mh\ peripoih=sai; kalh\ ske/yij kaiì
a)nagkai¿a, pollh=j boulh=j deome/nh. ti¿ h(miÍn e)mpai¿zeij, aÃnqrwpe; ou)-
135 de/pote toiau/th ske/yij gi¿netai. ou)d’ ei¹ taiÍj a)lhqei¿aij kaka\ me\n
e)fanta/zou ta\ ai¹sxra/, ta\ d’ aÃlla ou)de/tera, hÅlqej aÄn e)piì tau/thn th\n
e)pi¿stasin, ou)d’ e)ggu/j! a)ll’ au)to/qen diakri¿nein eiåxej, wÐsper oÃyei
136 tv= dianoi¿#. po/te ga\r ske/ptv, ei¹ ta\ me/lana leuka/ e)stin, ei¹ ta\ bare/a
kou=fa; ou)xiì de\ toiÍj e)nargw½j fainome/noij e)pakolouqeiÍj; pw½j ouÅn
nu=n ske/ptesqai le/geij, <ei¹> ta\ ou)de/tera tw½n kakw½n feukto/tera;
137 a)ll’ ou)k eÃxeij ta\ do/gmata tau=ta, a)lla\ fai¿netai¿ soi ouÃte tau=ta ou)-
de/tera, a)lla\ ta\ me/gista kaka/, ouÃt’ e)keiÍna <kaka/>, a)ll’ ou)-
138 de\n pro\j h(ma=j. ouÀtwj ga\r e)c a)rxh=j eiãqisaj seauto/n! “pou= ei¹mi;
e)n sxolv=. kaiì a)kou/ousi¿ mou ti¿nej; le/gw meta\ tw½n filoso/fwn.
a)ll’ e)celh/luqa th=j sxolh=j! aÅron e)keiÍna ta\ tw½n sxolastikw½n
kaiì tw½n mwrw½n.” ouÀtwj katamartureiÍtai fi¿loj u(po\ filoso/fou,
139 ouÀtwj parasiteiÍ filo/sofoj, ouÀtwj e)p’ a)rguri¿% e)kmisqoiÍ e(auto/n,
ouÀtwj e)n sugklh/t% tij ou) le/gei ta\ faino/mena! eÃndoqen to\ do/gma
140 au)tou= bo#=, ou) yuxro\n kaiì talai¿pwron u(polhyei¿dion e)k lo/gwn
ei¹kai¿wn w¨j e)k trixo\j h)rthme/non, a)lla\ i¹sxuro\n kaiì xrhstiko\n
141 kaiì u(po\ tou= dia\ tw½n eÃrgwn gegumna/sqai memuhme/non. parafu/lacon
sauto/n, pw½j a)kou/eij {®} ou) le/gw, oÀti to\ paidi¿on sou a)pe/qanen!
po/qen soi; a)ll’ oÀti sou to\ eÃlaion e)cexe/qh, o( oiånoj e)cepo/qh,
142 iàna tij e)pista\j diateinome/n% soi tou=t’ au)to\ mo/non eiãpv “filo/sofe,
aÃlla le/geij e)n tv= sxolv=! ti¿ h(ma=j e)capat#=j; ti¿ skw¯lhc
143 wÔn le/geij, oÀti aÃnqrwpoj eiå;” hÃqelon e)pisth=nai¿ tini au)tw½n
sunousia/zonti, iàna iãdw, pw½j tei¿netai kaiì poi¿aj fwna\j a)fi¿hsin, ei¹
me/mnhtai tou= o)no/matoj au)tou=, tw½n lo/gwn ouÁj a)kou/ei hÄ le/gei hÄ
a)nagignw¯skei.
89

che l’esaminavo.» – «E quali erano le vostre conclusioni?» – «Che le cose 133


giuste e belle sono buone, le cose ingiuste e brutte, cattive.» – «E il vivere è
forse un bene?» – «No.» – «E il morire, forse, un male?» – «No.» – «Forse
la galera?» – «No.» – «Ma un discorso ignobile e sleale, il tradire l’amico,
l’adulare il tiranno, che vi apparivano?» – «Mali.» – E allora? Tu non esa- 134
mini la questione adesso né l’hai mai esaminata né ti sei mai consigliato in
proposito. E poi che razza di esame è vedere se mi si addice, quando sono
in grado di procurarmi i beni più grandi e di non procurarmi i mali più
grandi? Bell’esame e necessario, che richiede un lungo consiglio! Ma per-
ché ti burli di noi, uomo? Tale esame non si fa mai. Se davvero immaginavi 135
che le cose brutte sono male, <le cose belle sono bene>, le altre né male
né bene, non ti saresti fermato su questo punto, nemmeno per sogno! Ché
potevi risolvere subito il problema con la tua mente; come se lo scorgessi
cogli occhi. E, infatti, quando esamini se il nero è bianco? Se il grave è leg- 136
gero? Non segui, forse, quel che si presenta distintamente ai sensi? E come
va che adesso dici di esaminare se cose indifferenti siano da fuggirsi più dei
mali? Ma tu non hai codesti giudizi e la morte e la galera non ti appaiono 137
cose indifferenti, bensì i mali peggiori mentre le parole e le azioni diso-
norevoli non sono mali, ma piuttosto cose senza alcuna relazione con noi.
Perché così ti sei abituato da principio: «Dove sto? A scuola. E mi ascolta 138
qualcuno? Parlo in compagnia di filosofi. Ma adesso sono uscito di scuola.
Togli di mezzo tutta questa roba da studenti e da pazzi». Così il filosofo
testimonia il falso contro l’amico, così il filosofo fa la parte del parassita,
così si vende a prezzo, così in Senato uno non dice quel che pensa: e intanto, 139
dal di dentro il suo giudizio grida e non è un freddo e misero concettuzzo 140
sospeso ad argomentazioni sconsiderate, come a un capello, ma un giudizio
gagliardo e abile e addestrato a contatto con la realtà.
Controlla come ascolti le mie parole: Non dico: «T’è morto il figliolo»: 141
come potresti sopportarle? Ma: «Ti si è rovesciato l’olio, t’hanno bevuto
il vino». Oh ti si avvicinasse qualcuno mentre sei tutto eccitato per dirti 142
soltanto: «Filosofo, a scuola t’esprimi diversamente: perché ci inganni?
Perché pretendi di essere uomo quando sei verme?». Mi piacerebbe avvi- 143
cinarmi a uno di questi filosofi, in preda alla foia, per vedere come si
gonfia, che razza di parole proferisce, se ricorda il suo nome e i ragiona-
menti che ascolta o dice o legge.
90

144 Kaiì ti¿ tau=ta pro\j e)leuqeri¿an; {®} Ou)k aÃlla me\n ouÅn hÄ tau=t’, aÃn
te qe/lhte u(meiÍj oi¸ plou/sioi aÃn te mh/. {®} Kaiì ti¿[j] soi martureiÍ tau=ta;
145 {®} Ti¿ ga\r aÃllo hÄ au)toiì u(meiÍj oi¸ to\n ku/rion to\n me/gan eÃxontej kaiì
pro\j to\ e)kei¿nou neu=ma kaiì ki¿nhma zw½ntej, kaÃn tina u(mw½n iãdv mo/non
sunestramme/n% ble/mmati, a)poyuxo/menoi, ta\j grai¿aj qerapeu/ontej
kaiì tou\j ge/rontaj kaiì le/gontej oÀti “ou) du/namai tou=to poih=sai! ou)k
146 e)cesti¿ moi”; dia\ ti¿ ou)k eÃcesti¿n soi; ou)k aÃrti e)ma/xou moi le/gwn e)leu/-
qeroj eiånai; “a)lla\ ãAprulla/ me kekw¯luken.” le/ge ouÅn ta\j a)lhqei¿aj,
dou=le, kaiì mh\ drape/teue/ sou tou\j kuri¿ouj mhd’ a)parnou= mhde\
to/lma karpisth\n dido/nai tosou/touj eÃxwn th=j doulei¿aj e)le/gxouj.
147 kai¿toi to\n me\n u(p’ eÃrwtoj a)nagkazo/meno/n ti poieiÍn para\ to\ faino/-
menon kaiì aÀma me\n o(rw½nta to\ aÃmeinon, aÀma d’ ou)k e)ceutonou=nta
a)kolouqh=sai au)t%½ eÃti ma=llon aÃn tij suggnw¯mhj aÃcion u(pola/boi,
148 aÀq’ u(po/ tinoj biai¿ou kaiì tro/pon tina\ qei¿ou katesxhme/non. sou= de\
ti¿j a)na/sxoito tw½n graw½n e)rw½ntoj kaiì tw½n gero/ntwn kaiì e)kei¿naj
a)pomu/ssontoj kaiì a)poplu/nontoj kaiì dwrodokou=ntoj kaiì aÀma me\n
nosou/saj qerapeu/ontoj w¨j dou/lou, aÀma d’ a)poqaneiÍn eu)xome/nou kaiì
tou\j i¹atrou\j diakri¿nontoj, ei¹ hÃdh qanasi¿mwj eÃxousin; hÄ pa/lin oÀtan
u(pe\r tw½n mega/lwn tou/twn kaiì semnw½n a)rxw½n kaiì timw½n ta\j xeiÍraj
tw½n a)llotri¿wn dou/lwn katafilv=j, iàna mhd’ e)leuqe/rwn dou=loj vÅj;
149 eiåta/ moi semno\j peripateiÍj strathgw½n, u(pateu/wn, ou)k oiåda, pw½j
e)strath/ghsaj, po/qen th\n u(pat<e>i¿an eÃlabej, ti¿j soi au)th\n eÃdwken;
150 e)gwÜ me\n ou)de\ zh=n hÃqelon, ei¹ dia\ Fhliki¿wna eÃdei zh=sai th=j o)fru/oj
au)tou= kaiì tou= doulikou= frua/gmatoj a)nasxo/menon. oiåda ga/r, ti¿ e)sti
dou=loj eu)tuxw½n w¨j dokeiÍ kaiì tetuf[l]wme/noj.
151 Su\ ouÅn, fhsi¿n, e)leu/qeroj eiå; {®} Qe/lw nh\ tou\j qeou\j kaiì euÃxomai,
a)ll’ ouÃpw du/namai a)ntible/yai toiÍj kuri¿oij, eÃti timw½ to\ swma/tion,
o(lo/klhron au)to\ eÃxein a)ntiì pollou= poiou=mai kai¿toi mhd’ o(lo/klhron
152 eÃxwn. a)lla\ du/namai¿ soi deiÍcai e)leu/qeron, iàna mhke/ti zhtv=j to\
para/deigma. Dioge/nhj hÅn e)leu/qeroj. po/qen tou=to; ou)x oÀti e)c e)leuqe/rwn
hÅn (ou) ga\r hÅn), a)ll’ oÀti au)to\j hÅn, oÀti a)pobeblh/kei pa/saj ta\j
th=j doulei¿aj [b]laba\j ou)d’ hÅn, oÀpwj tij prose/lqv pro\j au)to\n
153 ou)d’ oÀqen la/bhtai pro\j to\ katadoulw¯sasqai. pa/nta euÃluta eiåxen,
91

E che hanno da vedere tutte queste cose con la libertà? «Oltre queste, 144
non ce ne sono altre che han da fare con lei, lo vogliate voi, ricchi, o no.» –
«E che cosa te lo prova?» – Che altro se non voi stessi? Voi che avete 145
un signore così potente e vivete ai suoi cenni e alle sue mosse, che vi
perdete d’animo s’egli guarda uno solo di voi col corruccio negli occhi,
voi che corteggiate le vecchie e i vecchi e dite: «Non sono in grado di far
questo: non mi è lecito». Perché non ti è lecito? Non mi ti opponevi poco 146
fa, affermando di essere libero? «Me l’ha proibito Aprilla». Di’ la verità,
schiavo: non fuggire i tuoi padroni, non negare, non ardire di mostrare
il tuo emancipatore, con tante prove della tua schiavitù. Eppure chi è 147
costretto da amore a compiere azioni contrarie alle sue opinioni, che
vede il meglio e nello stesso tempo non ha forza di seguirlo, qualcuno
potrebbe ancora ritenerlo degno di perdono, in quanto è posseduto da
una passione violenta, e, in certo modo, divina. Ma te, chi ti potrebbe 148
sopportare che ti dai all’amore di vecchie e di vecchi, e le smocci, le lavi,
le corrompi con doni e, malate, le curi come uno schiavo e intanto fai
voti che muoiano e interroghi i medici se stanno finalmente in punto di
morte? O, ancora, quando in vista di quelle grandi e venerande cariche
e dignità, baci le mani dei servi altrui, sì che non sei schiavo neppure di
liberi? E poi mi passeggi intorno pieno di sussiego, pretore, console. Non 149
so come hai ottenuto la pretura, donde hai preso il consolato, chi te l’ha
dato? Quanto a me, non vorrei neppure vivere se dovessi la mia vita a 150
Felicione8 sostenendo il suo sopracciglio e la sua servile arroganza, per-
ché so che cosa è un servo fortunato in apparenza ma tumido di superbia.
Tu dunque, dice qualcuno, sei libero? – Lo voglio, per gli dèi, e fo voti 151
per esserlo, ma non riesco ancora a fissare gli occhi in faccia ai padroni;
ancora pregio il povero corpo e faccio gran conto di conservarlo integro,
anche se integro non l’abbia. Però posso mostrarti un uomo libero, per 152
non farti più cercare un esempio. Diogene era libero. Donde gli venne?
Non certo dall’essere nato da liberi, (e in verità non lo era) ma da ciò
che lo era lui stesso, perché aveva reciso tutti gli appigli della schiavitù,
e non c’era né modo che qualcuno lo assalisse, né motivo di prenderlo
per ridurlo in schiavitù. Quanto aveva si poteva sciogliere agevolmente, 153

8 
Cfr. Epict., diss., I 19 17-21.
92

pa/nta mo/non proshrthme/na. ei¹ th=j kth/sewj e)pela/bou, au)th\n


a)fh=ken aÃn soi ma=llon hÄ h)kolou/qhsen di’ au)th/n! ei¹ tou= ske/louj,
<to\ ske/loj>! ei¹ oÀlou tou= swmati¿ou, oÀlon to\ swma/tion! oi¹kei¿ouj,
fi¿louj, patri¿da w¨sau/twj. vÃdei, po/qen eÃxei kaiì para\ ti¿noj kaiì e)piì
154 ti¿sin labw¯n. tou\j me/n g’ a)lhq[e]inou\j progo/nouj, tou\j qeou/j, kaiì th\n
t%½ oÃnti patri¿da ou)depw¯pot’ aÄn e)gkate/l[e]ipen ou)de\ parexw¯rhsen
aÃll% ma=llon pei¿qesqai au)toiÍj kaiì u(pakou/ein ou)d’ u(perape/qanen
155 aÄn eu)kolw¯teron th=j patri¿doj aÃlloj. ou) ga\r e)zh/tei pote\ do/cai
ti poieiÍn u(pe\r tw½n oÀlwn, a)ll’ e)me/mnhto, oÀti pa=n to\ geno/menon
e)keiÍqe/n e)stin kaiì u(p<e\r> e)kei¿nhj pra/ttetai kaiì u(po\ tou= dioikou=ntoj
156 au)th\n pareggua=tai. toigarou=n oÀra, ti¿ le/gei au)to\j kaiì gra/fei! “dia\
tou=to/ soi”, fhsi¿n, “eÃcestin, wÕ Dio/genej, kaiì t%½ Persw½n basileiÍ kaiì
¹Arxida/m% t%½ Lakedaimoni¿wn w¨j bou/lei diale/gesqai”. aÅra/ g’ oÀti
157 e)c e)leuqe/rwn hÅn; pa/ntej ga\r ¹AqhnaiÍoi kaiì pa/ntej Lakedaimo/nioi
kaiì Kori¿nqioi dia\ to\ e)k dou/lwn eiånai ou)k h)du/nanto au)toiÍj w¨j
158 h)bou/lonto diale/gesqai, a)ll’ e)dedoi¿kesan kaiì e)qera/peuon; dia\ ti¿
ouÅn, fhsi¿n, eÃcestin; “oÀti to\ swma/tion e)mo\n ou)x h(gou=mai, oÀti ou)deno\j
de/omai, oÀti o( no/moj moi pa/nta e)stiì kaiì aÃllo ou)de/n.” tau=ta hÅn ta\
e)leu/qeron e)keiÍnon e)a/santa.
159 Kaiì iàna mh\ do/cvj, oÀti para/deigma dei¿knumi a)ndro\j a)perista/-
tou mh/te gunaiÍka eÃxontoj mh/te te/kna mh/te patri¿da hÄ fi¿louj
hÄ suggeneiÍj, u(f’ wÒn ka/mptesqai kaiì perispa=sqai h)du/nato,
la/be Swkra/th kaiì qe/asai gunaiÍka kaiì paidi¿a eÃxonta, a)lla\ w¨j
a)llo/tria[n], patri¿da, e)f’ oÀson eÃdei kaiì w¨j eÃdei, fi¿louj, suggeneiÍj,
pa/nta tau=ta u(potetaxo/ta t%½ no/m% kaiì tv= pro\j e)keiÍnon eu)peiq<e>i¿#.
160 dia\ tou=to, strateu/esqai me\n o(po/t’ eÃdei, prw½toj a)pv/ei ka)keiÍ e)kindu/-
neuen a)feide/stata! e)piì Le/onta d’ u(po\ tw½n tura/nnwn pemfqei¿j,
oÀti ai¹sxro\n h(geiÍto, ou)d’ e)pebouleu/sato ei¹dw¯j, oÀti a)poqaneiÍn
161 deh/sei, aÄn ouÀtwj tu/xv. kaiì ti¿ au)t%½ die/feren; aÃllo ga/r ti s%¯zein
hÃqelen! ou) to\ sarki¿dion, a)lla\ to\n pisto/n, to\n ai¹dh/mona. tau=ta
162 a)paregxei¿rhta, a)nupo/takta. eiåq’ oÀt’ a)pologeiÍsqai eÃdei u(pe\r tou= zh=n,
93

quanto aveva era semplicemente accostato a lui. Se ti fossi spinto contro


i suoi beni, te li avrebbe lasciati piuttosto che venirti dietro per essi: se
contro la gamba, la gamba, se contro tutto il miserabile corpo, tutto il
suo miserabile corpo: lo stesso per i familiari, per gli amici, per la patria.
Perché sapeva donde li aveva e da chi e a quali condizioni li aveva presi.
Ma i veri genitori, gli dèi, e la patria vera non li avrebbe mai abbandonati 154
né avrebbe lasciato a un altro di prestare loro più obbedienza e più sot-
tomissione, né alcun altro sarebbe morto più volentieri per la patria. Non 155
cercava mai di far vedere che la sua azione era in prò dell’universo, ma
ricordava che ogni avvenimento di lì deriva e per quella patria si com-
pie ed è ordinato da chi l’amministra. Quindi osserva come si esprima 156
e scriva: «Per questa ragione, Diogene, egli dice, ti è lecito incontrarti
a tuo piacere anche col re dei Persiani e con Archidamo, re dei Lace-
demoni». Forse perché era nato da genitori liberi? Ma allora, tutti gli 157
Ateniesi, tutti i Lacedemoni e i Corinti erano nati da schiavi che non
potevano incontrarsi con quelli a loro piacere, anzi li temevano e li blan-
divano! Perché, dunque, egli dice che gli è lecito? «Perché questo mise- 158
rabile corpo io non ritengo mio, perché non ho bisogno di niente, perché
per me la legge – e nient’altro – è tutto». Ecco ciò che gli permetteva di
essere libero.
E perché tu non creda ch’io ti porti l’esempio di un uomo solitario, 159
senza moglie né figli né patria né amici né congiunti capaci di piegarlo e
di rimuoverlo dal suo proposito, prendi Socrate e bada che ebbe moglie e
figliuoli, ma li considerava cose altrui, ebbe una patria, per tutto il tempo
che fu necessario e nel modo che fu necessario, e amici e congiunti, ma
tutti subordinati alla legge e alla spontanea accettazione della legge. Per- 160
ciò, quando doveva andare in guerra, era il primo a partire e sul campo
di battaglia si esponeva ai pericoli sprezzando la vita: ma, inviato per
ordine dei tiranni da Leonte9, siccome considerava l’atto turpe, neppure
si consigliò sul da farsi, pur sapendo che, all’occorrenza, sarebbe dovuto
morire. Che conto ne fece? Qualcos’altro voleva salvare, non la misera- 161
bile carne, ma la lealtà e il rispetto. Sono questi i valori intangibili, non
subordinati a nessuno. Poi, dovendo parlare in difesa della sua vita, si 162

9 
Cfr. Plat., apol., 32c.
94

mh/ ti w¨j te/kna eÃxwn a)nastre/fetai, mh/ ti w¨j gunaiÍka; a)ll’ w¨j
163 mo/noj. ti¿ d’, oÀte pieiÍn eÃdei to\ fa/rmakon, pw½j a)nastre/fetai; duna/-
menoj diaswqh=nai kaiì tou= Kri¿twnoj au)t%½ le/gontoj oÀti “eÃcelqe
dia\ ta\ paidi¿a” ti¿ le/gei; eÀrmaion h(geiÍto au)to/; po/qen; a)lla\ to\
euÃsxhmon skopeiÍ, taÅlla d’ ou)d’ o(r#=, ou)d’ e)pilogi¿zetai. ou) ga\r
hÃqelen, fhsi¿n, sw½sai to\ swma/tion, a)ll’ e)keiÍno, oÁ t%½ dikai¿% me\n
164 auÃcetai kaiì s%¯zetai, t%½ d’ a)di¿k% meiou=tai kaiì a)po/llutai. Swkra/thj
d’ ai¹sxrw½j ou) s%¯zetai, o( mh\ e)piyhfi¿saj ¹Aqhnai¿wn keleuo/ntwn, o( tou\j
tura/nnouj u(peridw¯n, o( toiau=ta periì a)reth=j kaiì kaloka)gaqi¿aj
165 dialego/menoj! tou=ton ou)k eÃsti sw½sai ai¹sxrw½j, a)ll’ a)poqnv/skwn
s%¯zetai, ou) feu/gwn. kaiì ga\r o( a)gaqo\j u(pokrith\j pauo/menoj oÀte
deiÍ s%¯zetai ma=llon hÄ u(pokrino/menoj para\ kairo/n. ti¿ ouÅn poih/sei
166 ta\ paidi¿a; “ei¹ me\n ei¹j Qettali¿an a)pv/ei<n>, e)pemelh/qhte au)tw½n! ei¹j
àAidou de/ mou a)podhmh/santoj ou)deiìj eÃstai o( e)pimelhso/menoj;” oÀra,
167 pw½j u(pokori¿zetai kaiì skw¯ptei to\n qa/naton. ei¹ d’ e)gwÜ kaiì su\ hÅmen,
eu)qu\j aÄn katafilosofh/santej oÀti “tou\j a)dikou=ntaj deiÍ toiÍj iãsoij
a)mu/nesqai” kaiì prosqe/<n>tej oÀti “oÃfeloj eÃsomai polloiÍj a)nqrw¯poij
swqei¿j, a)poqanwÜn d’ ou)deni¿”, ei¹ [g]aÃr’ eÃdei dia\ trw¯glhj e)kdu/ntaj,
168 e)ch/lqomen aÃn. kaiì pw½j aÄn w©felh/same/n tina; pou= ga\r aÄn eÃti eÃmenon
e)keiÍnoi; hÄ oiá oÃntej hÅmen w©fe/limoi, ou)xiì polu\ ma=llon a)poqano/ntej
169 aÄn oÀte eÃdei kaiì w¨j eÃdei w©felh/samen a)nqrw¯pouj; kaiì nu=n Swkra/touj
a)poqano/ntoj ou)qe\n hÂtton hÄ kaiì pleiÍon w©fe/limo/j e)stin a)nqrw¯poij
h( mnh/m<h> wÒn eÃti zw½n eÃpracen hÄ eiåpen.
170 Tau=ta mele/ta, tau=ta ta\ do/gmata, tou/touj tou\j lo/gouj, ei¹j tau=ta
a)fo/ra ta\ paradei¿gmata, ei¹ qe/leij e)leu/qeroj eiånai, ei¹ e)piqumeiÍj
171 kat’ a)ci¿an tou= pra/gmatoj. kaiì ti¿ qaumasto/n, ei¹ thlikou=to pra=gma
tosou/twn kaiì thlikou/twn w©nv=; u(pe\r th=j nomizome/nhj e)leuqeri¿aj
tau/thj oi¸ me\n a)pa/gxontai, oi¸ de\ katakrhmni¿zousin au(tou/j, eÃsti
172 d’ oÀte kaiì po/leij oÀlai a)pw¯lonto! u(pe\r th=j a)lhq[e]inh=j kaiì
a)nepibouleu/tou kaiì a)sfalou=j e)leuqeri¿aj a)paitou=nti t%½ qe%½
95

comporta forse come chi ha figli, come chi ha moglie? No, ma come chi
è solo. E dovendo bere il veleno, come si comporta? Poteva mettersi in 163
salvo e Critone stesso l’esortava: «Fuggi per i tuoi figli»10. Che risponde?
Lo considerava un guadagno? E per quale causa? Egli piuttosto ha di
mira la dignità e tutto il resto non guarda, neppure ci pensa. Perché
non voleva, egli dice, salvare il miserabile corpo, ma ciò che la giusti-
zia accresce e mantiene, mentre l’ingiustizia impicciolisce e distrugge.
Socrate non si salva a prezzo d’un’azione turpe, egli che non volle pro- 164
cedere alla votazione nonostante l’ordine degli Ateniesi, egli che non
calcolò i tiranni, egli che tenne così nobili discussioni sulla virtù e sulla
eccellenza morale: non è possibile ch’egli si salvi a prezzo di un’azione 165
turpe, ma morendo si salva, non fuggendo. E anche il bravo attore si
salva, se si arresta al momento giusto più che se recita fuori tempo. Che
faranno allora i figlioli? «Se mi recavo in Tessalia, vi sareste presi cura 166
di loro: e quando sarò partito per l’Ade, non ci sarà nessuno a prender-
sene cura?»11. Vedi con quale grazia chiama la morte e come ci scherza
sopra! Se eravamo io e tu al posto suo, dopo aver subito stabilito con un 167
ragionamento filosofico che «chi riceve ingiustizia ha da difendersi con
le stesse armi» e aggiunto che «sarò utile a molti se resto in vita, ma se
muoio a nessuno», ce ne saremmo fuggiti, anche se bisognava scappare
da un buco. E in che modo saremmo stati d’utilità a qualcuno? E dove 168
lo saremmo stati se quelli rimanevano in Atene? Ovvero, se eravamo
utili vivendo, non avremmo recato agli uomini molto maggiore utilità
morendo nel tempo e nel modo debito? E adesso che Socrate è morto, 169
non certo di meno, anzi di più, giova agli uomini il ricordo di quanto,
ancora in vita, egli ha fatto o detto.
Attendi a questo, a questi giudizi, a questi discorsi; a questi esempi poni 170
attenzione se vuoi essere libero, se desideri la cosa nel suo vero valore.
Che meraviglia se alcunché di così grande lo compri a un prezzo tanto 171
alto e caro? Per quella che volgarmente si ritiene libertà alcuni si stran-
golano, altri si precipitano dall’alto, talvolta intere città vanno addirittura
distrutte: per la libertà vera, non esposta a insidie e sicura, quando Dio 172

10 
Libera parafrasi di Plat., Crito, 45d.
11 
Parafrasi di Plat., Crito, 54a.
96

aÁ de/dwken ou)k e)ksth/sv; ou)x, w¨j Pla/twn le/gei, meleth/seij


ou)xiì a)poqnv/skein mo/non, a)lla\ kaiì streblou=sqai kaiì feu/gein kaiì
173 de/resqai kaiì pa/nq’ a(plw½j a)podido/nai ta)llo/tria; eÃsei toi¿nun dou=loj e)n
dou/loij, kaÄn muria/kij u(pateu/svj, kaÄn ei¹j to\ pala/tion a)nabv=j,
ou)de\n hÂtton! kaiì ai¹sqh/sei, oÀti para/tion a)nabv=j, ou)de\n hÂtton! kaiì
ai¹sqh/sei, oÀti para/doca me\n iãswj fasiìn oi¸ filo/sofoi, kaqa/per kaiì
174 o( Klea/nqhj eÃlegen, ou) mh\n para/loga. eÃrg% ga\r eiãsv, oÀti a)lhqh=
e)sti kaiì tou/twn tw½n qaumazome/nwn kaiì spoudazome/nwn oÃfeloj ou)-
de/n e)sti toiÍj tuxou=si! toiÍj de\ mhde/pw teteuxo/si fantasi¿a gi¿netai,
oÀti paragenome/nwn au)tw½n aÀpanta pare/stai au)toiÍj ta\ a)gaqa/!
eiåq’ oÀtan parage/nhtai, to\ kau=ma iãson, o( r(iptasmo\j o( au)to/j, h( aÃsh, <h(>
175 tw½n ou) paro/ntwn e)piqumi¿a. ou) ga\r e)kplhrw¯sei tw½n e)piqumoume/nwn
176 e)leuqeri¿a paraskeua/zetai, a)lla\ a)naskeuv= th=j e)piqumi¿aj. kaiì
iàn’ <e>i¹dv=j, oÀti a)lhqh= tau=ta/ e)stin, w¨j e)kei¿nwn eÀneka pepo/nhkaj,
177 ouÀtwj kaiì e)piì tau=ta meta/qej to\n po/non! a)gru/pnhson eÀneka tou= do/gma
peripoih/sasqai e)leuqeropoio/n, qera/peuson a)ntiì ge/rontoj plousi¿ou
filo/sofon, periì qu/raj oÃfqht[a]i ta\j tou/tou! ou)k a)sxhmonh/seij
o)fqei¿j, ou)k a)peleu/sv keno\j ou)d’ a)kerdh/j, aÄn w¨j deiÍ prose/lqvj. ei¹
de\ mh/, pei¿raso/n g’! ou)k eÃstin ai¹sxra\ h( peiÍra.
97

ti richiede quel che t’ha dato, non vi rinuncerai? Non cercherai invece,
secondo l’espressione di Platone12, non solo di morire, ma anche di essere
torturato, cacciato in esilio, frustato, in una parola, di restituire tutto
quel che è di altri? Sarai, dunque, schiavo tra schiavi, anche se diecimila 173
volte console, anche se sali al Palazzo – schiavo, nondimeno. E t’accor-
gerai che i filosofi dicono forse cose contrarie alle apparenze, come pure
Cleante ammetteva, ma non contrarie alla ragione. Conoscerai, per espe- 174
rienza, che sono vere e che oggetti tanto ammirati e ambiti non sono di
nessuna utilità per chi li ottiene, mentre quelli che non li hanno ottenuti
immaginano che, avendoli presso di sé, possiederanno tutti i beni: poi,
quando li hanno, l’ardore è lo stesso, l’irrequietezza la stessa, e così la
nausea, la brama di ciò che non possiedono. In realtà, non saziandovi di 175
quel che desiderate si conquista la libertà, bensì sopprimendo il deside-
rio. E affinché ti renda conto che dico il vero, come ti sei affaticato per 176
quelle cose, così sposta i tuoi sforzi a queste: veglia per ottenere un giu- 177
dizio che ti faccia libero, onora, invece d’un ricco decrepito, un filosofo,
fatti vedere alle sue porte: non ci rimetterai di dignità, se ti vedranno, e
non te ne tornerai vuoto né senza guadagno se ti ci rechi come si deve.
In ogni caso, prova, per lo meno: provare non è vergogna.

12 
Phaedo, 64a; resp., II 361c.
Agostino

Le diverse questioni a Simpliciano*


(I 2.2; 3; 4; 5; 6; 7; 9; 12; 16; 17; 21; 22)

*
La traduzione italiana e il testo latino riproducono quelli dell’edizione di G.
Ceriotti-L. Alici-A. Pieretti-F. Monteverde (a cura di), Opere di sant’Agostino,
La vera religione, Nuova Biblioteca Agostiniana VI/2, Roma 1995, pp. 263-389.
http://www.augustinus.it/italiano/questioni_simpliciano/index.htm
LIBER PRIMUS

QUAESTIO SECUNDA: Argumentum Epistolae ad Romanos.


2. 2. Et primo intentionem Apostoli quae per totam epistulam viget
tenebo quam consulam. Haec est autem, ut de operum meritis nemo
glorietur. De quibus audebant Israelitae gloriari, quod datae sibi legi
servissent et ex hoc Evangelicam gratiam tamquam debitam meritis suis
percepissent, quia legi serviebant. Unde nolebant eamdem gratiam dari
Gentibus tamquam indignis, nisi Iudaica sacramenta susciperent, quae
orta quaestio in Apostolorum Actibus solvitur. Non enim intellegebant
quia eo ipso quo gratia est Evangelica operibus non debetur, alioquin
gratia iam non est gratia. Et multis locis hoc saepe testatur fidei gratiam
praeponens operibus, non ut opera extinguat, sed ut ostendat non esse
opera praecedentia gratiam sed consequentia, ut scilicet non se quisque
arbitretur ideo percepisse gratiam, quia bene operatus est, sed bene
operari non posse, nisi per fidem perceperit gratiam. Incipit autem homo
percipere gratiam, ex quo incipit Deo credere vel interna vel externa
admonitione motus ad fidem. Sed interest, quibus articulis temporum
vel celebratione sacramentorum gratia plenior et evidentior infundatur.
Non enim cathecumeni non credunt, aut vero Cornelius non credebat
Deo, cum eleemosinis et orationibus dignum se praeberet, cui angelus
mitteretur. Sed nullo modo ista operaretur, nisi ante credidisset; nullo
modo autem credidisset nisi vel secretis per visa mentis aut spiritus
vel manifestioribus per sensus corporis admonitionibus vocaretur. Sed
in quibusdam tanta est gratia fidei, quanta non sufficit ad obtinendum
regnum caelorum, sicut in cathecumenis, sicut in ipso Cornelio antequam
sacramentorum participatione incorporaretur Ecclesiae; in quibusdam
vero tanta est, ut iam corpori Christi et sancto Dei templo deputentur.
Templum enim Dei sanctum est, inquit, quod estis vos, et ipse Dominus:
Nisi quis natus fuerit ex aqua et Spiritu Sancto, non intrabit in regnum
caelorun. Fiunt ergo inchoationes fidei quaedam conceptionibus similes.
LIBRO PRIMO

QUESTIONE SECONDA: Argomento dell’Epistola ai Romani.


2. 2. Mi atterrò anzitutto all’intenzione dell’Apostolo, che anima tutta
l’epistola, e la terrò presente. Ora questa è la sua intenzione: nessuno
si glori dei meriti delle opere, come osano gloriarsi gli Israeliti perché
avevano osservato la legge data loro e avevano ottenuto la grazia del
Vangelo come ricompensa ai loro meriti, perché obbedivano alla legge.
Per questo non volevano che la grazia fosse data ai Gentili, come inde-
gni, a meno che non si attenessero alle osservanze giudaiche. Questa
questione, allora sollevata, è risolta negli Atti degli Apostoli [cfr. At 15].
Non riuscivano a capire che, per il fatto stesso che la grazia è evangelica,
non dipende dalle opere: altrimenti la grazia non è più grazia [Rm 11,
6]. In molti passi conferma questa idea, anteponendo la grazia della fede
alle opere, non per annullare le opere ma per mostrare che le opere non
precedono ma conseguono la grazia, perché nessuno ritenga di aver rice-
vuto la grazia per aver agito bene ma di non potere agire bene senza aver
ricevuto la grazia mediante la fede. L’uomo infatti comincia a ricevere la
grazia quando inizia a credere in Dio, spinto alla fede da un’esortazione
interna od esterna. Ma importa distinguere in quali momenti o celebra-
zioni di misteri la grazia è infusa con maggiore pienezza ed evidenza.
Anche i catecumeni infatti credono e certamente credeva in Dio Corne-
lio, quando con elemosine e preghiere si rendeva degno dell’invio di un
angelo; egli però non si sarebbe in alcun modo comportato così, se prima
non avesse creduto; e neppure avrebbe creduto, se non fosse stato chia-
mato sia da segrete esortazioni, per mezzo di visioni della mente o dello
spirito, che da più sensibili esortazioni per mezzo dei sensi del corpo.
In alcuni però la grazia della fede è insufficiente a ottenere il regno dei
cieli, come nei catecumeni, e nello stesso Cornelio prima di essere incor-
porato alla Chiesa mediante la partecipazione dei Sacramenti. In altri
invece è così grande da appartenere già al corpo di Cristo e al santo
tempio di Dio. Perché – dice [l’Apostolo] – santo è il tempio di Dio che
siete voi [1Cor 3, 17]. E lo stesso Signore: Se uno non nasce da acqua e
da Spirito Santo non entrerà nel Regno dei cieli [Gv 3, 5]. C’è dunque
un inizio della fede simile al concepimento: per arrivare alla vita eterna
102

Non tamen solum concipi sed etiam nasci opus est, ut ad vitam
perveniatur aeternam. Nihil tamen horum sine gratia misericordiae Dei,
quia et opera si qua sunt bona consequuntur, ut dictum est, illam gratiam
non praecedunt.
2. 3. Quam rem persuadere Apostolus volens, quia sicut alio loco
dicit: Non ex nobis, sed Dei donum est; non ex operibus, ne forte quis
extollatur, de his qui nondum nati erant documentum dedit. Nemo enim
posset dicere quod operibus promeruerat Deum Iacob nondum natus, ut
divinitus diceretur: Et maior serviet minori. Ergo: Non solum, inquit, Isaac
promissus est, cum dictum est: Ad hoc tempus veniam et erit Sarae filius,
qui utique nullis operibus promeruerat Deum ut nasciturus promitteretur,
ut in Isaac vocaretur semen Abrahae, id est illi pertinerent ad sortem
sanctorum quae in Christo est, qui se intellegerent filios promissionis
non superbientes de meritis suis, sed gratiae vocationis deputantes quod
coheredes essent Christi cum enim promissum est ut essent, nihil utique
meruerant qui nondum erant, sed et Rebecca ex uno concubitu habens Isaac
patris nostri. Vigilantissime ait: Ex uno concubitu. Gemini enim concepti
erant, ne vel paternis meritis tribueretur, si quisquam forte diceret: Ideo
talis natus est filius, quia pater ita erat affectus illo in tempore quo eum
sevit in utero matris, aut ita erat mater adfecta cum eum concepit. Simul
enim ambo uno tempore ille sevit, eodem tempore illa concepit. Ad hoc
commendandum ait: Ex uno concubitu, ut nec astrologis daret locum vel
eis potius quos genethliacos appellaverunt, qui de natalibus nascentium
mores et eventa coniectant. Quid enim dicant, cur una conceptione sub
uno utique temporis puncto ea dispositione caeli et siderum, ut diversae
singulis annotari omnino non possent tanta in illis geminis diversitas
fuerit, prorsus non inveniunt; et facile animadvertunt si volunt, responsa
illa quae miseris venditant nullius artis expositione sed fortuita suspicione
proferri. Sed ut de re quae agitur potius loquamur, ad frangendam atque
103

non basta essere concepito ma bisogna anche nascere. Nessuna di queste


cose si ottiene senza la grazia della misericordia di Dio: perché, come si
è detto, anche le opere, se sono buone, seguono e non precedono questa
grazia.
2. 3. L’Apostolo, volendo confermare questa verità, come dice in un altro
luogo: Non viene da noi ma è dono di Dio, né viene dalle opere, perché
nessuno si esalti [Ef 2, 8-9], ha pertanto proposto l’insegnamento riguar-
dante i due che non erano ancora nati. Nessuno potrebbe infatti sostenere
che Giacobbe, non ancora nato, aveva meritato per le sue opere di sentirsi
divinamente dire dal Signore: E il maggiore servirà il minore [Gen 25,
23]. Dunque l’Apostolo prosegue: Non solo fu promesso Isacco quando
fu detto: “Tornerò in questo periodo e Sara avrà un figlio” [Rm 9, 10;
Gen 18, 10]; invero neppure costui aveva meritato per qualche opera che
Dio promettesse la sua nascita e in Isacco fosse tratta una discendenza ad
Abramo, che sarebbero cioè appartenuti alla sorte dei santi, che è in Cri-
sto, coloro che fossero riconosciuti figli della promessa, senza gloriarsi dei
propri meriti ma attribuendo alla grazia della chiamata l’essere eredi di
Cristo. Quando infatti fu promessa la loro esistenza, essi, che non erano
ancora, non avevano alcun merito: Ma Rebecca li ebbe da un solo rapporto
con Isacco nostro padre [Rm 9, 10]. Sottolinea molto accuratamente da
un solo rapporto – erano stati infatti concepiti gemelli –, perché non si
attribuisse ai meriti del padre, come se uno per caso dicesse: Il figlio è
nato così perché il padre era in una tale disposizione quando ingravidò il
grembo della madre, oppure la madre era così disposta quando lo concepì.
Il padre infatti generò simultaneamente i due che la madre concepì simul-
taneamente. A richiamare questa affermazione dice: da un solo rapporto,
per togliere ogni pretesto agli astrologi, o meglio a quelli chiamati esperti
di oroscopi, i quali congetturano caratteri ed eventi dalle circostanze della
nascita. Dicano dunque perché da un unico concepimento, nel medesimo
istante, sotto quella disposizione del cielo e delle stelle, sì da non poter
assolutamente attribuire a nessuno dei due qualche differenza, vi sia stata
tanta diversità tra i due gemelli. Non trovano affatto la spiegazione: sanno
invece facilmente, se vogliono, che le predizioni, che vendono ai poveracci,
non provengono da alcuna scienza ma da fortuite congetture. Ma, tornando
piuttosto all’argomento che trattiamo, vengono richiamate queste cose al
104

deiciendam superbiam hominum ingratorum gratiae Dei et audentium


gloriari de meritis suis ista commemorantur. Cum enim nondum nati
fuissent neque aliquid egissent bonum vel malum, non ex operibus sed ex
vocante dictum est ei quia maior serviet minori. Vocantis est ergo gratia,
percipientis vero gratiam consequenter sunt opera bona, non quae gratiam
pariant, sed quae gratia pariantur. Non enim ut ferveat calefacit ignis, sed
quia fervet; nec ideo bene currit rota ut rotunda sit, sed quia rotunda est.
Sic nemo propterea bene operatur ut accipiat gratiam, sed quia accepit.
Quomodo enim potest iuste vivere qui non fuerit iustificatus? Quomodo
nec sancte vivere qui non fuerit sanctificatus, nec omnino vivere qui non
fuerit vivificatus. Iustificat autem gratia, ut iustificatus possit iuste vivere.
Prima est igitur gratia, secunda opera bona, sicut alio loco dicit: Ei autem
qui operatur merces non imputatur secundum gratiam sed secundum
debitum, sicut illa immortalitas post opera bona, si tamen vel ipsa ex debito
poscitur, sicut idem ait: Bonum certamen certavi, cursum consummavi,
fidem servavi, de cetero superest unihi corona iustitiae, quam reddet mihi
Dominus in illa die iustus iudex. Forte enim quia dixit reddet, iam sit ex
debito. Cum vero ascendit in altum captivavit captivitatem, non reddidit
sed dedit dona hominibus. Unde enim ipse Apostolus tamquam debitum
reddi sibi praesumeret, nisi prius indebitam gratiam percepisset qua
iustificatus bonum agonem certaret? Fuit enim blasphemus et persecutor
et iniuriosus, sed misericordiam consecutus est, ut ipse testatur, credens
utique in eum qui iustificat non pium sed impium, ut iustificando pium
faciat.
2. 4. Non ex operibus, inquit, sed ex vocante dictum est ei quia
maior serviet minori. Ad hoc pertinet quod ait: Cum enim nondum
nati fuissent neque aliquid egissent bonum aut malum, ut posset dici:
Non ex operibus sed ex vocante. Unde occurrit animo quaerere, cur
dixerit: Ut secundum electionem propositum Dei maneret. Quomodo est
enim iusta aut qualiscumque omnino electio, ubi nulla distantia est?
105

fine di reprimere e abbattere l’orgoglio degli uomini ingrati alla grazia di


Dio, i quali osano vantarsi dei propri meriti. Quando essi ancora non erano
nati e nulla avevano fatto di bene e di male, non in virtù delle opere ma
per volontà di colui che chiama, le fu detto: “Il maggiore sarà sottomesso
al minore” [Rm 9, 11-12]. È grazia dunque di colui che chiama, le buone
opere sono pertanto conseguenza di chi riceve la grazia: non suscitano la
grazia ma sono prodotte dalla grazia. Il fuoco infatti non scalda per ardere,
ma perché arde; ugualmente la ruota non gira bene per essere rotonda, ma
perché è rotonda; così nessuno, di conseguenza, agisce bene per ricevere
la grazia, ma perché l’ha ricevuta. Come infatti può vivere giustamente chi
non è stato giustificato? E vivere santamente chi non è stato santificato? O
semplicemente vivere chi non è stato vivificato? Ora la grazia giustifica
perché il giustificato possa vivere giustamente. Prima è quindi la grazia,
poi le opere buone, come dice altrove: Ora a chi lavora il salario non viene
calcolato come un dono, ma come debito [Rm 4, 4]. Tale è l’immortalità
che segue le opere buone, che può essere reclamata come dovuta, secondo
le parole dello stesso Apostolo: Ho combattuto la buona battaglia, ho ter-
minato la corsa, ho conservato la fede; ora mi resta solo la corona di giu-
stizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno [2Tm 4,
7-8]. Avendo detto: consegnerà, sembra trattarsi di debito. Invece quando,
ascendendo in cielo ha portato con sé la schiavitù, non ha consegnato,
ma ha distribuito doni agli uomini [Ef 4, 8]. Come potrebbe infatti l’Apo-
stolo osare di richiedere il dovuto, senza aver prima ricevuto la grazia non
dovuta al fine di essere giustificato e combattere la buona battaglia? Era
stato infatti un bestemmiatore e un violento, ma gli è stata usata misericor-
dia, come confessa egli stesso [cfr. 1Tim 1, 13], credendo in colui che non
giustifica il pio ma l’empio [cfr. Rm 4, 5], per renderlo pio con la giustizia.
2. 4. Afferma: Non in base alle opere ma alla volontà di colui che
chiama, fu dichiarato a Rebecca: “Il maggiore sarà sottomesso al
minore”. A questo si riferiscono le parole: Quando essi ancora non erano
nati e nulla avevano fatto di bene o di male, al fine di poter dire: Non
in base alle opere, ma alla volontà di colui che chiama. Qui viene in
mente di chiedere: perché ha detto: Perché rimanesse fermo il disegno
divino fondato sull’elezione? [Rm 9, 11-12] Come infatti può essere giu-
sta o semplicemente esserci elezione, dove non c’è alcuna differenza?
106

Si enim nullo merito electus est Iacob nondum natus et nihil operatus,
nec omnino eligi potuit nulla existente differentia qua eligeretur. Item
si nullo merito improbatus est Esau, quia et ipse nondum natus et nihil
operatus erat, cum diceretur: Et maior serviet minori, quomodo eius
improbatio iusta dici potest? Qua ergo discretione, quo aequitatis examine
quod sequitur intellegimus: Iacob dilexi, Esau autem odio habui? Quod
quidem scriptum est in Propheta, qui longe posterior prophetavit quam
illi nati et mortui sunt. Sed tamen illa sententia videtur commemorata,
qua dictum est: Et maior serviet minori, et antequam nati et aliquid
operati essent. Unde igitur ista electio vel qualis electio, si nondum
natis nondumque aliquid operatis nulla sunt momenta meritorum? An
forte sunt aliqua naturarum? Quis hoc intellegat: ex uno patre, ex una
matre, ex uno concubitu, ex uno Creatore? An quemadmodum ex eadem
terra idem Creator produxit diversa animantium atque gignentium,
ita ex eodem hominum coniugio atque complexu produxit in geminis
diversam prolem, unam quam diligeret, alteram quam odisset? Nulla
ergo electio, antequam esset quod eligeretur. Si enim bonus factus est
Iacob ut placeret, unde placuit, antequam fieret, ut bonus fieret? Non
itaque electus est ut fieret bonus, sed bonus factus eligi potuit.
2. 5. An ideo secundum electionem, quia omnium Deus praescius
etiam futuram fidem vidit in Iacob nondum nato, ut quamvis non
ex operibus suis iustificari quisque mereatur, quando quidem
bene operari nisi iustificatus non potest, tamen quia ex fide
iustificat Gentes Deus nec credit aliquis nisi libera voluntate, hanc
ipsam fidei voluntatem futuram praevidens Deus etiam nondum
natum praescientia quem iustificaret elegit? Si igitur electio per
praescientiam, praescivit autem Deus fidem Iacob, unde probas
quia non etiam ex operibus elegit eum? Si propterea quia nondum
nati erant et nondum aliquid egerant bonum seu malum, ita etiam
nondum crediderat aliquis eorum. Sed praescientia vidit crediturum.
107

Perché se Giacobbe è stato scelto senza alcun merito, prima ancora di


nascere e senza aver fatto niente, non poteva affatto essere scelto senza
che ci fosse qualche diversità per sceglierlo. Allo stesso modo se Esaù
è stato rigettato senza alcun demerito, perché anche lui non era nato e
non aveva fatto nulla, quando si diceva: Il maggiore sarà sottomesso al
minore, come può dirsi giusta la sua riprovazione? Con quale distinzione
dunque o con quale regola d’equità intenderemo ciò che segue: Ho amato
Giacobbe e ho odiato Esaù? [Rm 9, 13] Queste parole invero sono scritte
in un Profeta che le annunziò molto più tardi, dopo la nascita e la morte
di quei due, ma esse sembrano ricordare la sentenza pronunziata prima
che essi nascessero e operassero qualcosa: E il maggiore sarà sottomesso
al minore. Da dove viene dunque questa elezione o che scelta è, se non
c’è alcuna occasione di meriti in coloro che non sono ancora nati e non
hanno fatto nulla? C’è forse una differenza di natura? Chi lo ammetterà
a proposito di uno stesso padre, di una stessa madre, di un unico rap-
porto coniugale, dello stesso Creatore? O si dirà forse che come lo stesso
Creatore ha tratto dalla medesima terra una diversità di esseri animati
che si riproducono, così dallo stesso matrimonio umano e dallo stesso
rapporto coniugale ha fatto nascere nei gemelli figli differenti, uno da
amare e l’altro da odiare? Non c’è dunque alcuna elezione, prima che vi
sia qualcosa da scegliere. Se infatti Giacobbe è stato creato buono al fine
di piacere, per quale motivo piacque prima di esistere per essere creato
buono? Allora non è stato scelto per diventare buono, ma, creato buono,
ha potuto essere scelto.
2. 5. Oppure secondo l’elezione significa che Dio, poiché sa tutto in
anticipo, ha visto in Giacobbe, non ancora nato, anche la fede futura; di
modo che, sebbene nessuno possa essere giustificato dalle sue opere, dato
che nessuno se non è giustificato può agire bene, tuttavia, poiché Dio giu-
stifica i pagani per la fede [cfr. Gal 3, 8] e nessuno crede senza libera ade-
sione, Dio, prevedendo la futura volontà di credere, nella sua prescienza
ha scelto anche chi non era ancora nato per giustificarlo? Se dunque la
scelta avviene per prescienza, allora Dio ha previsto la fede di Giacobbe;
come provi che Dio non l’abbia scelto anche per le opere? Se pertanto non
erano ancora nati e non avevano fatto nulla di bene o di male, allo stesso
modo nessuno di loro aveva ancora la fede. Egli ha allora previsto chi
108

Ita praescientia videre poterat operaturum, ut quomodo dicitur electus


propter fidem futuram, quam praesciebat Deus, sic alius possit dicere
propter opera futura potius electum, quae nihilo minus praesciebat
Deus. Quapropter unde ostendit Apostolus non ex operibus dictum esse:
Maior serviet minori? Si quoniam nondum nati erant, non solum non ex
operibus, sed nec ex fide dictum est, quia utrumque deerat nondum natis.
Non igitur ex praescientia voluit intellegi factam electionem minoris,
ut maior ei serviret; volens enim ostendere non ex operibus factam,
propterea intulit dicens: Cum enim nondum nati fuissent neque aliquid
egissent bonum seu malum alioquin poterat ei dici: Sed iam sciebat
Deus, quis quid esset acturus. Quam ob rem, unde illa electio facta sit,
quaeritur. Quia si non ex operibus, quae non erant in nondum natis, nec
ex fide, quia nec ipsa erat, unde igitur?
2. 6. An dicendum est quod nulla electio fuerit non existente aliqua
diversitate in utero matris vel fidei vel operum vel quorumlibet omnino
meritorum? Sed dictum est: Ut secundum electionem propositum Dei
maneret; et ideo quaerimus, quia dictum est. Nisi forte sic est distinguenda
sententia, non ut intellegamus tamquam ideo non ex operibus sed ex
vocante dictum esse: Maior serviet minori, ut secundum electionem
propositum Dei maneret, sed ita potius, ut ad hoc de nondum natis et
nondum aliquid operatis exemplum datum accipiatur, ne aliqua electio
hic possit intellegi. Cum enim nondum nati fuissent neque aliquid egissent
bonum sive malum, ut secundum electionem propositum Dei maneret id
est neque aliquid egissent bonum aut malum, ut propter ipsam actionem
electio aliqua fieret eius qui bene egerat, cum ergo nulla esset electio
bene agentis secundum quam maneret propositum Dei, non ex operibus
sed ex vocante, id est ex eo qui vocando ad fidem gratia iustificat impium,
dictum est ei: Quia maior serviet minori. Non ergo secundum electionem
propositum Dei manet, sed ex proposito electio, id est non quia invenit
109

avrebbe creduto? Ugualmente poteva prevedere cosa avrebbe compiuto,


se qualcuno dice che è stato scelto in vista della fede futura, che Dio pre-
vedeva, un altro potrebbe allo stesso modo affermare che è stato scelto
piuttosto per le azioni future che Dio prevedeva senz’altro. Pertanto come
l’Apostolo dimostra che le parole: Il maggiore sarà sottomesso al minore,
si riferiscono alle opere? Poiché se non erano ancora nati, le parole non
solo non riguardano le opere ma neppure la fede, perché né l’una né le
altre esistevano nei gemelli non ancora nati. L’Apostolo pertanto non ha
voluto intendere che l’elezione del minore, di modo che il maggiore gli
fosse sottomesso, avvenisse in vista della previsione. Per questo, volendo
infatti mostrare che non dipendeva dalle opere, ha aggiunto le parole:
quando essi ancora non erano nati e nulla avevano fatto di bene o di
male [Rm 9, 11]. Diversamente si poteva dirgli: Ma Dio già sapeva che
cosa ognuno avrebbe fatto. Si cerca pertanto quale sia il motivo di quella
scelta: poiché se non proviene dalle opere, che non esistevano nei gemelli
non ancora nati, né dalla fede, che neppure c’era, allora da dove viene?
2. 6. Si dirà forse che non c’è stata nessuna scelta poiché nel grembo non
c’era alcuna differenza di fede, di opere, di meriti? Però è detto: perché
rimanesse fermo il disegno divino fondato sull’elezione [Rm 9, 11]. Sono
proprio queste parole a stimolare la ricerca. Salvo che non si debba forse
dividere diversamente l’affermazione: Non in base alle opere, ma alla
volontà di colui che chiama, fu dichiarato: “Il maggiore sarà sottomesso
al minore”, perché rimanesse fermo il disegno divino, così da riferire il
passo in questione piuttosto ai fanciulli non ancora nati, senza che qui si
possa intendere qualche elezione. Quando essi ancora non erano nati e
nulla avevano fatto di bene o di male, perché rimanesse fermo il disegno
divino fondato sull’elezione [Rm 9, 11-12]. Questo significa che essi non
avevano fatto nulla di bene o di male per determinare, a motivo di questa
azione, la scelta di chi aveva agito bene; non essendoci dunque alcuna
elezione di chi aveva agito bene, perché rimanesse fermo il disegno di
Dio non in base alle opere ma alla volontà di colui che chiama, cioè di
colui che, chiamando alla fede, giustifica l’empio per grazia, le fu dichia-
rato: “Il maggiore sarà sottomesso al minore”. Il disegno divino quindi
non rimane fermo a causa dell’elezione, ma l’elezione dipende dal disegno:
in altre parole il suo disegno di giustificazione rimane fermo non perché
110

Deus opera bona in hominibus quae eligat, ideo manet propositum


iustificationis ipsius, sed quia illud manet ut iustificet credentes, ideo
invenit opera quae iam eligat ad regnum caelorum. Nam nisi esset
electio, non essent electi, nec recte diceretur: Quis accusabit adversus
electos Dei? Non tamen electio praecedit iustificationem sed electionem
iustificatio. Nemo enim eligitur nisi iam distans ab illo qui reicitur. Unde
quod dictum est quia elegit nos Deus ante mundi constitutionem non
video quomodo sit dictum nisi praescientia. Hic autem quod ait: Non
ex operibus sed ex vocante dictum est ei quia maior serviet minori, non
electione meritorum, quae post iustificationem gratiae proveniunt, sed
liberalitate donorum Dei voluit intellegi, ne quis de operibus extollatur.
Gratia enim Dei salvi facti sumus; et hoc non ex nobis, sed Dei donum
est; non ex operibus, ne forte quis extollatur.
2. 7. Quaeritur autem, utrum vel fides mereatur hominis iustificationem,
an vero nec fidei merita praecedant misericordiam Dei, sed et fides ipsa
inter dona gratiae numeretur, quia et hoc loco, cum dixisset: Non ex
operibus, non ait: sed ex fide dictum est ei quia maior serviet minori, ait
autem: Sed ex vocante. Nemo enim credit qui non vocatur. Misericors
autem Deus vocat nullis hoc vel fidei meritis largiens, quia merita fidei
sequuntur vocationem potius quam praecedunt. Quomodo enim credunt
quem non audierunt? Et quomodo audient sine praedicante? Nisi ergo
vocando praecedat misericordia Dei, nec credere quisquam potest, ut ex
hoc incipiat iustificari et accipere facultatem bene operandi. Ergo ante
omne meritum est gratia; etenim Christus pro impiis mortuus est. Ex
vocante igitur minor accepit, non ex ullis mentis operum suorum, ut
maior ei serviret, ut etiam quod scriptum est: Iacob dilexi, ex vocante sit
Deo, non ex operante Iacob.
2. 9. Vidit itaque Apostolus, quid ex his verbis posset animo
audientis vel legentis occurrere, statimque subiecit: Quid ergo dicemus?
Numquid iniquitas est apud Deum? Absit! et quasi docens quomodo absit:
111

Dio trova negli uomini che sceglie opere buone, ma perché il disegno di
giustificare i credenti rimane fermo, perché trova opere che egli sceglie
per il Regno dei cieli. Se non ci fosse infatti l’elezione, non vi sarebbero
eletti e non si potrebbe ragionevolmente dire: Chi accuserà gli eletti di
Dio? [Rm 8, 33] Pertanto non l’elezione precede la giustificazione, ma
la giustificazione l’elezione. Nessuno infatti viene scelto se prima non è
separato da colui che è rifiutato. Non vedo quindi come si possa dire, senza
la prescienza, quanto sta scritto: Dio ci ha scelti prima della creazione del
mondo [Ef 1, 4]. Inoltre ha voluto che quello che dice qui: Non in base
alle opere ma alla volontà di colui che chiama, le fu dichiarato: “Il mag-
giore sarà sottomesso al minore”, s’intendesse non dell’elezione in base ai
meriti, che sorgono dopo la giustificazione della grazia, ma della liberalità
dei doni di Dio, perché nessuno si vanti delle opere: Per grazia di Dio
infatti siamo salvi, e ciò non viene da noi ma è dono di Dio; né viene dalle
opere, perché nessuno possa vantarsene [Ef 2, 8-9].
2. 7. Si può anche domandare se è la fede a meritare la giustificazione
dell’uomo oppure se sono i meriti della fede a precedere la misericordia
di Dio o anche la stessa fede è invece da annoverarsi tra i doni della gra-
zia. Perché anche in questo passo, dopo aver detto: non dalle opere, non
aggiunge: Ma dalla fede le fu dichiarato: “Il maggiore sarà sottomesso
al minore”; ma dice: per volere di colui che chiama. Nessuno infatti
crede se non è chiamato. Ora è Dio nella sua misericordia a chiamare, e
lo fa indipendentemente dai meriti della fede, perché i meriti della fede
seguono e non precedono la chiamata. Infatti come credono in colui che
non hanno sentito? E come sentiranno se nessuno predica? [Rm 10, 14]
Se la misericordia di Dio non precede chiamando, nessuno può credere
per iniziare da qui ad essere giustificato e ottenere la facoltà di ben ope-
rare. Infatti: Cristo è morto per gli empi [Rm 5, 6]. Per volere di colui che
chiama il minore, senza alcun merito delle sue opere, ottenne dunque
che il maggiore gli fosse sottomesso e anche ciò che è scritto: Ho amato
Giacobbe, deriva dalla chiamata di Dio, non dalle opere di Giacobbe.
2. 9. Ora l’Apostolo ha previsto cosa potevano suscitare que-
ste parole nell’animo dell’ascoltatore o del lettore, e subito ha
aggiunto: Che diremo dunque? C’è forse ingiustizia da parte di Dio?
No certamente! E quasi ad insegnare come non vi sia, prosegue:
112

Moysi enim dicit, inquit, Miserebor cui misertus ero, et misericordiam


praestabo cui misericors fuero, quibus verbis solvit quaestionem an potius
artius colligavit. Id ipsum enim est quod maxime movet, si miseretur
cui misertus erit, et misericordiam praestabit cui misericors fuerit,
cur haec misericordia defuit Esau, ut etiam ipse per illam bonus esset,
quemadmodum per illam bonus factus est Iacob? An ideo dictum est:
Miserebor cui misertus ero, et misericordiam praestabo cui misericors
fuero, quia cui misertus erit Deus ut eum vocet, miserebitur eius ut
credat, et cui misericors fuerit ut credat, misericordiam praestabit, hoc
est faciet eum misericordem, ut etiam bene operetur? Unde ammonemur
nec ipsis operibus misericordiae quemquam oportere gloriari et extolli,
quod eis quasi suis Deum promeruerit, quando quidem ut haberet ipsam
misericordiam ille prestitit qui misericordiam praestabit cui misericors
fuerit. Quod si eam credendo se meruisse quis iactat, noverit eum sibi
praestitisse ut crederet, qui miseretur inspirando fidem cuius misertus
est, ut adhuc infideli vocationem impertiret. Iam enim discernitur fidelis
ab impio. Quid enim habes, inquit, quod non accepisti? Si autem et
accepisti, quid gloriaris quasi non acceperis?
2. 12. Illa etiam verba si diligenter attendas: Igitur non volentis neque
currentis sed miserentis est Dei, non hoc Apostolus propterea tantum
dixisse videbitur, quod adiutorio Dei ad id quod volumus pervenimus,
sed etiam ex illa intentione qua et alio loco dicit: Cum timore et tremore
vestram ipsorum salutem operamini. Deus enim est qui operatur in vobis
et velle et operari pro bona voluntate, ubi satis ostendit etiam ipsam
bonam voluntatem in nobis operante Deo fieri. Nam si propterea solum
dictum est: Non volentis sed miserentis est Dei, quia voluntas hominis
sola non sufficit, ut recte iusteque vivamus, nisi adiuvemur misericordia
Dei, potest et hoc modo dici: Igitur non miserentis Dei sed volentis
est hominis, quia misericordia Dei sola non sufficit, nisi consensus
nostrae voluntatis addatur. At illud manifestum est frustra nos velle, nisi
Deus misereatur. Illud autem nescio, quomodo dicatur frustra Deum
misereri, nisi nos velimus. Si enim Deus miseretur, etiam volumus.
Ad eamdem quippe misericordiam pertinet ut velimus; Deus enim est
113

Egli infatti dice a Mosè: “Userò misericordia con chi vorrò e avrò pietà
di chi vorrò averla” [Rm 9, 14-15]. Con queste parole egli ha sciolto la
questione o non l’ha piuttosto complicata ulteriormente? È proprio questo
infatti ad agitarci enormemente: se userà misericordia con chi vorrà e avrà
pietà di chi vorrà averla, perché Esaù fu privato di questa misericordia,
grazie alla quale anch’egli sarebbe stato buono come per la stessa fu reso
buono Giacobbe? O forse per questo le parole: Userò misericordia con chi
vorrò e avrò pietà di chi vorrò averla, significano che Dio userà la stessa
misericordia per chiamarlo e per portarlo alla fede: e a chi avrà usato
misericordia, per portarlo alla fede, garantirà la misericordia, ossia lo ren-
derà misericordioso anche per operare il bene? Per questo siamo ammo-
niti che non conviene ad alcuno gloriarsi e vantarsi delle stesse opere di
misericordia, quasi che da esse, come da cose proprie, abbia meritato il
favore di Dio, dal momento che egli, che userà misericordia con chi vorrà,
gli ha concesso di ottenere questa misericordia. Che se qualcuno si vanta
di averla meritata per la fede, sappia che gli è stata donata per credere e
che Dio ha usato misericordia ispirando la fede e ha avuto pietà di uno
ancora infedele chiamandolo. Allora infatti si distingue il fedele dall’em-
pio. Che cosa mai possiedi – egli dice – che tu non abbia ricevuto? E se
l’hai ricevuto perché te ne vanti come non lo avessi ricevuto? [1Cor 4, 7]
2. 12. Se poi esamini attentamente le parole: Quindi non dipende da chi
vuole né da chi corre, ma da Dio che usa misericordia [Rm 9, 16], non
sembra che l’Apostolo le abbia dette semplicemente perché con l’aiuto di
Dio noi otteniamo ciò che vogliamo ma anche con l’intenzione espressa
in un altro passo: Attendete alla vostra salvezza con timore e tremore; è
Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare, secondo i suoi benevoli
disegni [Fil 2, 12-13]. Qui mostra chiaramente che anche la stessa buona
volontà è suscitata in noi da Dio. Infatti se le parole: Non dipende da chi
vuole, ma da Dio che usa misericordia, sono state dette solamente perché
la volontà umana da sola è insufficiente a vivere con giustizia e rettitu-
dine, senza l’aiuto della misericordia di Dio, si potrebbe dire anche così:
Non dipende quindi da Dio che usa misericordia ma dall’uomo che vuole,
perché la misericordia di Dio da sola è insufficiente, senza il consenso
della nostra volontà. Se Dio infatti usa misericordia anche noi vogliamo:
il nostro volere è senz’altro opera della stessa misericordia. È Dio infatti
114

qui operatur in nobis et velle et operari pro bona voluntate. Nam si


quaeramus, utrum Dei donum sit voluntas bona, mirum si negare
quisquam audeat. At enim quia non praecedit voluntas bona vocationem
sed vocatio bonam voluntatem, propterea vocanti Deo recte tribuitur
quod bene volumus, nobis vero tribui non potest quod vocamur. Non
igitur ideo dictum putandum est: Non volentis neque currentis sed
miserentis est Dei, quia nisi eius adiutorio non possumus adipisci quod
volumus, sed ideo potius quia nisi eius vocatione non volumus.
2. 16. Ait enim paulo ante: Quid ergo dicemus? Numquid iniquitas
est apud Deum? Absit! Sit igitur hoc fixum atque immobile in mente
sobria pietate atque stabili in fide, quod nulla est iniquitas apud Deum.
Atque ita tenacissime firmissimeque credatur id ipsum, quod Deus
cuius vult miseretur et quem vult obdurat, hoc est cuius vult miseretur
et cuius non vult non miseretur, esse alicuius occultae atque ab humano
modulo investigabilis aequitatis, quae in ipsis rebus humanis terrenisque
contractibus animadvertenda est, in quibus nisi supernae iustitiae
quaedam impressa vestigia teneremus, numquam in ipsum cubile ac
penetrale sanctissimum atque castissimum spiritalium praeceptorum
nostrae infirmitatis suspiceret atque inhiaret intentio. Beati qui esuriunt
et sitiunt iustitiam, quoniam ipsi saturabuntur. In ista igitur siccitate
vitae condicionisque mortalis nisi aspergeretur desuper velut tenuissima
quaedam aura iustitiae, citius aresceremus quam sitiremus. Quapropter
cum dando et accipiendo inter se hominum societas connectatur, dentur
autem et accipiantur vel debita vel non debita, quis non videat iniquitatis
argui neminem posse qui quod sibi debetur exegerit, nec eum certe qui
quod ei debetur donare voluerit, hoc autem non esse in eorum qui debitores
sunt, sed in eius cui debetur arbitrio? Haec imago vel, ut supra dixi,
vestigium negotiis hominum de fastigio summo aequitatis impressum
est. Sunt igitur omnes homines quando quidem, ut Apostolus ait, in Adam
omnes moriuntur, a quo in universum genus humanum origo ducitur
offensionis Dei una quaedam massa peccati supplicium debens divinae
summaeque iustitiae, quod sive exigatur sive donetur, nulla est iniquitas.
115

che suscita in noi il volere e l’operare, secondo il suo beneplacito. Se noi


infatti domandiamo se la buona volontà è dono di Dio, sarebbe una stra-
nezza se qualcuno osi negarlo. Orbene, poiché la buona volontà non pre-
cede la chiamata ma la chiamata la buona volontà, si attribuisce pertanto
giustamente a Dio il nostro buon volere, ma non si può attribuire a noi
l’essere chiamati. Per questo le parole: Non dipende da chi vuole né da chi
corre, ma da Dio che usa misericordia, non si devono intendere nel senso
che noi, senza il suo aiuto, non possiamo conseguire ciò che vogliamo, ma
piuttosto che noi, senza la sua chiamata, non possiamo neppure volere.
2. 16. L’Apostolo ha detto infatti precedentemente: Che diremo dun-
que? C’è forse ingiustizia da parte di Dio? No certamente! [Rm 9, 14]
Questo principio rimanga dunque fermo e inalterabile nell’anima di retta
pietà e stabile nella fede: in Dio non c’è affatto ingiustizia; si creda inoltre
con assoluta energia e fermezza che Dio usa misericordia con chi vuole
e indurisce chi vuole, cioè avere pietà di chi vuole e non averla di chi non
vuole è parte di una misteriosa giustizia inaccessibile al metro umano, da
riconoscere anche negli affari umani e nei contratti terreni; se in essi noi
non serbiamo impressa qualche vestigio della suprema giustizia, giammai
l’aspirazione della nostra debolezza oserebbe levare lo sguardo e l’ardente
desiderio verso la dimora e il santuario santissimo e purissimo dei pre-
cetti spirituali. Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché
saranno saziati [Mt 5, 6]. Noi in questo arido deserto della vita e della
condizione mortale inaridiremmo quindi molto prima di sentire la sete,
se non ci irrorasse dall’alto una qualche soavissima brezza di giustizia.
Per questo, come la società umana si relaziona dando e ricevendo scam-
bievolmente le cose, dovute o no, che si danno e ricevono, chi non vede
che non si può accusare di ingiustizia uno che esige ciò che gli è dovuto?
E tantomeno colui che vuole condonare ciò che gli è dovuto? E questo è
forse in potere di coloro che sono debitori o non piuttosto nella volontà
del creditore? Questa immagine o, come ho detto sopra, questo vestigio,
proveniente dalla maestà suprema della giustizia, è stato impresso nei rap-
porti umani. Tutti gli uomini dunque – poiché come afferma l’Apostolo:
Tutti muoiono in Adamo [1Cor 15, 22], a partire dal quale il peccato ori-
ginale è passato in tutto il genere umano – sono una massa di peccato
soggetta al castigo della divina e suprema giustizia; non c’è nessuna ini-
116

A quibus autem exigendum et quibus donandum sit, superbe iudicant


debitores, quemadmodum conducti ad illam vineam iniuste indignati
sunt, cum tantumdem aliis donaretur, quantum illis redderetur. Itaque
huius impudentiam quaestionis ita retundit Apostolus: O homo, tu quis
es, qui respondeas Deo? Sic enim respondet Deo, cum ei displicet quod
de peccatoribus conqueritur Deus, quasi quemquam Deus peccare
cogat, cum ipse neminem peccare cogat, sed tantummodo quibusdam
peccantibus misericordiam iustificationis suae non largiatur, et ob hoc
dicatur obdurare peccantes quosdam, quia non eorum miseretur, non quia
impellit ut peccent. Eorum autem non miseretur, quibus misericordiam
non esse praebendam aequitate occultissima et ab humanis sensibus
remotissima iudicat; inscrutabilia enim sunt iudicia eius et investigabiles
viae ipsius. Conqueritur autem iuste de peccatoribus, tamquam de his
quos peccare ipse non cogit. Simul etiam ut hi quorum miseretur hanc
quoque habeant vocationem, ut dum conqueritur Deus de peccatoribus,
compungantur corde atque ad eius gratiam convertantur. Iuste ergo
conqueritur et misericorditer.
2. 17. Sed si hoc movet quod voluntati eius nullus resistit quia cui
vult subvenit et quem vult deserit, cum et ille cui subvenit et ille quem
deserit ex eadem massa sint peccatorum et, quamvis debeat uterque
supplicium, ab uno tamen exigatur alteri donetur: si hoc ergo movet:
O homo, tu quis es, qui respondeas Deo? Arbitror enim sub eadem
significatione positum quod dictum est homo, sub qua et illud dicitur:
Nonne homines estis et secundum hominem ambulatis? Ibi enim
carnales et animales notantur hoc nomine, quibus dicitur: Non potui
vobis loqui quasi spiritalibus sed quasi carnalibus, et illud: Nondum
enim poteratis, sed neque adhuc potestis; adhuc enim estis carnales,
et illud: Animalis autem homo non percipit quae sunt Spiritus Dei.
His ergo dicitur: O homo, tu quis es, qui respondeas Deo? Numquid
dicit figmentum ei qui se finxit: Quare sic me fecisti? Aut non habet
potestatem figulus luti ex eadem consparsione facere aliud quidem
vas in honorem aliud in contumeliam? Eo ipso fortasse satis ostendit
117

quità se il castigo viene inferto o viene condonato. Ma i debitori giudicano


orgogliosamente a chi si deve dare il castigo e a chi il condono, come gli
operai condotti alla vigna si sono ingiustamente indignati perché veniva
dato agli altri lo stesso salario che essi avevano ricevuto. Anche l’Apostolo
reprime in questi termini l’impudenza della domanda: O uomo, tu chi sei
per disputare con Dio? [Rm 9, 20] Infatti l’uomo così disputa con Dio,
quando gli dispiace che Dio rimprovera i peccatori, come se Dio costrin-
gesse qualcuno a peccare, quando nega ad alcuni peccatori la misericordia
della sua giustificazione: questo è il motivo per cui si dice che indurisce
alcuni peccatori, perché non usa loro misericordia non perché li costringe
a peccare. Egli poi non usa misericordia a coloro che non giudica degni di
misericordia, secondo una giustizia assai misteriosa e molto lontana dai
sentimenti umani. Infatti i suoi giudizi sono imperscrutabili e inaccessibili
le sue vie [cfr. Rm 11, 33]. A ragione dunque rimprovera i peccatori, per-
ché egli non li costringe a peccare. Rimprovera ugualmente coloro ai quali
usa misericordia, perché anch’essi avvertano questa chiamata e, mentre
Dio deplora i peccatori, siano contriti di cuore e ricorrano alla sua grazia.
Egli rimprovera dunque con giustizia e con misericordia.
2. 17. Ma se questo ci turba, che nessuno resiste alla sua volontà, poi-
ché aiuta chi vuole e abbandona chi vuole, quando l’uno e l’altro, l’aiutato
e l’abbandonato, appartengono alla stessa massa di peccatori, e sebbene
entrambi meritino il castigo, a uno tuttavia è inferto e all’altro condonato; se
dunque questo ci turba: O uomo, tu chi sei per disputare con Dio? [Rm 9,
20] Ritengo infatti che il termine uomo sia qui impiegato secondo lo stesso
significato che ha in questo altro testo: Non siete forse uomini e non cam-
minate alla maniera umana? [1Cor 3, 3] Con questo termine infatti sono
qui designati gli uomini carnali e naturali, ai quali è detto: Io non ho potuto
parlare a voi come a uomini spirituali, ma come ad esseri carnali [1Cor 3,
1-3]; e ancora: Perché non eravate ancora capaci. E neanche ora lo siete
perché siete ancora carnali; e ancora: L’uomo naturale però non comprende
le cose dello Spirito di Dio [1Cor 2, 14]. A costoro dunque viene detto:
O uomo, tu chi sei per disputare con Dio? Forse il vaso dice a colui che
l’ha plasmato: “Perché mi hai fatto così?”. Forse il vasaio non è padrone
dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per
uso volgare? [Rm 9, 20-21] Dal che si deduce chiaramente che l’Apostolo
118

se homini carnali loqui, quoniam hoc limus ipse significat, unde primus
homo formatus est. Et quia omnes, ut iam commemoravi, secundum
eumdem Apostolum in Adam moriuntur, unam dicit esse consparsionem
omnium. Et quamvis aliud vas fiat in honorem aliud in contumeliam,
tamen et illud quod fit in honorem necesse est ut carnale esse incipiat
atque inde in spiritalem consurgat aetatem, quando quidem iam in
honorem facti erant et in Christo iam nati erant. Sed tamen, quoniam
parvulos adhuc alloquitur, etiam ipsos carnales appellat dicens: Non
potui vobis loqui quasi spiritalibus sed quasi carnalibus. Quasi parvulis
in Christo lac vobis potum dedi non escam. Neque enim poteratis, sed
nec adhuc quidem potestis, adhuc enim estis carnales. Quamvis ergo
carnales eos esse dicat, tamen iam in Christo natos et in illo parvulos et
lacte potandos. Et quod adiungit: Nec adhuc quidem potestis, ostendit
proficientes futurum esse ut possint, quia iam in eis spiritaliter renatis
gratia fuerat inchoata. Ergo iam vasa erant in honorem facta, quibus
adhuc tamen recte diceretur: O homo, tu quis es, qui respondeas Deo?
Et si talibus recte dicitur, multo rectius eis qui vel nondum ita regenerati
sunt vel etiam in contumeliam facti. Illud tantummodo inconcussa fide
teneatur, quod non sit iniquitas apud Deum, qui sive donet sive exigat
debitum, nec ille a quo exigit recte potest de iniquitate eius conqueri, nec
ille cui donat debet de suis meritis gloriari. Et ille enim nisi quod debetur
non reddit, et ille non habet nisi quod accepit.
2. 21. Nulla igitur intentio tenetur Apostoli et omnium iustificatorum,
per quos nobis intellectus gratiae demonstratus est, nisi ut qui
gloriatur in Domino glorietur. Quis enim discutiet opera Domini, ex
eadem consparsione unum damnantis alium iustificantis? Liberum
voluntatis arbitrium plurimum valet, immo vero est quidem, sed
in venundatis sub peccato quid valet? Caro, inquit, concupiscit
adversus spiritum et spiritus adversus carnem, ut non ea quae vultis
faciatis. Praecipitur ut recte vivamus, hac utique mercede proposita,
ut in aeternum beate vivere mereamur. Sed quis potest recte vivere
et bene operari nisi iustificatus ex fide? Praecipitur ut credamus, ut
dono accepto Spiritus Sancti per dilectionem bene operari possimus.
119

si rivolge all’uomo carnale, perché questo significa il fango stesso da cui è


stato formato il primo uomo; e perché tutti, come ho già ricordato a detta del
medesimo Apostolo, muoiono in Adamo, egli dice che è una sola la pasta di
tutti. E sebbene un vaso sia adibito ad uso nobile e l’altro ad uso volgare, tut-
tavia anche quello di uso nobile ha necessariamente un inizio carnale prima
di giungere in seguito all’età spirituale. Certamente [i Corinzi] erano già
diventati vasi di onore e già erano nati in Cristo, ma, poiché si dirige loro
come a fanciulli, li chiama ancora carnali, dicendo: Non ho potuto parlare
a voi come a uomini spirituali, ma come ad esseri carnali. Come a neonati
in Cristo vi ho dato da bere latte, non un nutrimento solido, perché non ne
eravate capaci. E neanche ora lo siete, perché siete ancora carnali [1Cor
3, 1-2]. Quindi anche se li chiama carnali erano però già rinati in Cristo e
in lui erano fanciulli da nutrire con latte. E quello che aggiunge: E neanche
ora siete capaci, indica che stanno crescendo per poterlo essere in futuro,
perché, ormai rinati spiritualmente, la grazia cominciava ad operare in essi.
Erano dunque già vasi di uso nobile coloro ai quali tuttavia si diceva con
ragione: O uomo, tu chi sei per disputare con Dio? E se è giusto dirlo a
costoro, a maggior ragione si dice di coloro che o non sono ancora rigenerati
o sono plasmati per uso volgare. Solo si deve ritenere con solida fede che non
c’è iniquità in Dio, sia che condoni sia che esiga il debito; né colui, dal quale
lo esige, può ragionevolmente lamentarsi della sua ingiustizia, né colui, al
quale lo condona, deve gloriarsi dei propri meriti. Quegli paga infatti ciò che
deve, questi ha solamente ciò che ha ricevuto.
2. 21. Dunque solo questa è l’intenzione dell’Apostolo e di tutti i giusti-
ficati, attraverso i quali ci è stato spiegato il significato della grazia: chi si
vanta, si vanti nel Signore [2Cor 10, 17]. Chi discuterà infatti le opere del
Signore, perché da una medesima pasta condanna uno e giustifica l’altro?
Conta moltissimo il libero arbitrio della volontà; esiste senz’altro, ma che
valore ha per coloro che sono venduti come schiavi del peccato? [cfr. Rm
7, 14] La carne – egli dice – ha desideri contrari allo spirito e lo spirito ha
desideri contrari alla carne. Sicché voi non fate quello che volete [Gal 5,
17]. Ci viene ordinato di vivere rettamente, con la promessa della ricom-
pensa, di vivere eternamente felici, ma chi può vivere rettamente e fare il
bene senza essere giustificato dalla fede? Ci è ordinato di credere affin-
ché, ricevuto il dono dello Spirito Santo, possiamo fare il bene mediante
120

Sed quis potest credere, nisi aliqua vocatione, hoc est aliqua rerum
testificatione, tangatur? Quis habet in potestate tali viso attingi mentem
suam, quo eius voluntas moveatur ad fidem? Quis autem animo
amplectitur aliquid quod eum non delectat? Aut quis habet in potestate,
ut vel occurrat quod eum delectare possit, vel delectet cum occurrerit?
Cum ergo nos ea delectant quibus proficiamus ad Deum, inspiratur
hoc et praebetur gratia Dei, non nutu nostro et industria aut operum
meritis comparatur, quia ut sit nutus voluntatis, ut sit industria studii,
ut sint opera caritate ferventia, ille tribuit, ille largitur. Petere iubemur
ut accipiamus, et quaerere ut inveniamus, et pulsare ut aperiatur nobis.
Nonne aliquando ipsa oratio nostra sic tepida est vel potius frigida et
pene nulla, immo omnino interdum ita nulla, ut neque hoc in nobis
cum dolore advertamus? Quia si vel hoc dolemus, iam oramus. Quid
ergo aliud ostenditur nobis, nisi quia et petere et quaerere et pulsare ille
concedit qui haec ut faciamus iubet. Igitur non volentis neque currentis
sed miserentis est Dei, quando quidem nec velle nec currere nisi eo
movente atque excitante poterimus.
2. 22. Quod si electio hic fit aliqua, ut sic intellegamus quod dictum
est: Reliquiae per electionem gratiae factae sunt, non ut iustificatorum
electio fiat ad vitam aeternam, sed ut eligantur qui iustificentur,
certe ita occulta est haec electio, ut in eadem consparsione nobis
prorsus apparere non possit. Aut si apparet quibusdam, ego in hac re
infirmitatem meam fateor. Non enim habeo quod intuear in eligendis
hominibus ad gratiam salutarem, si ad examen huius electionis aliqua
cogitatione permittor, nisi vel maius ingenium vel minora peccata vel
utrumque. Addamus etiam, si placet, honestas utilesque doctrinas.
Quisquis ergo fuerit quam minimis peccatis irretitus atque maculatus
nam nullis quis potest? et acer ingenio et liberalibus artibus expolitus
eligendus videtur ad gratiam. Sed cum hoc statuero, ita me ridebit
ille qui infirma mundi elegit ut confundat fortia, et stulta mundi ut
confundat sapientes, ut eum intuens et pudore correctus ego irrideam
multos, et prae quibusdam peccatoribus castiores et prae quibusdam
121

l’amore, ma chi può credere senza ricevere una chiamata, cioè senza qual-
che segno tangibile delle cose? Chi può disporre che il suo animo venga
colpito da una così forte impressione da muovere la sua volontà alla fede?
Chi poi si attacca col cuore a una cosa che non lo attira? E chi ha il potere
d’imbattersi in qualcosa che possa attirarlo o di essere attirato se l’incon-
tra? Quando dunque ci attrae qualcosa che ci porta a Dio, questo è ispirato
e donato dalla grazia di Dio e non dipende dalla nostra volontà e attività
né dai meriti delle nostre azioni. Perché vi sia atto di volontà, intensità di
interesse o azioni ferventi di carità, è Dio ad accordarlo e a donarlo. Ci
viene comandato di chiedere per ottenere, di cercare per trovare, di bus-
sare perché ci sia aperto [cfr. Mt 7, 7]. Talvolta la nostra stessa preghiera
non è forse così tiepida o addirittura fredda e quasi nulla, anzi a volte
totalmente nulla, che neppure ce ne dispiace? Se invece ne siamo amareg-
giati, già preghiamo! Che altro dunque ci viene rivelato se non che colui
che ci comanda di chiedere, cercare e bussare è lo stesso che ci dona di
farlo? Quindi non dipende da chi vuole né da chi corre, ma da Dio che usa
misericordia [Rm 9, 16], giacché noi non possiamo né volere né correre se
egli non ci muove e non ci stimola.
2. 22. Se qui si fa una scelta, come comprendiamo dal testo: Un resto
è stato salvato per un’elezione di grazia [Rm 11, 5], non si tratta della
scelta dei giustificati per la vita eterna ma della scelta di quelli che
saranno giustificati. Certamente questa scelta è così misteriosa che ci è
assolutamente impossibile scorgerla nella medesima pasta o, se è perce-
pita da qualcuno, io confesso la mia incapacità su questo punto. Se mi è
permessa una qualche opinione sull’indagine di questa scelta, non trovo
infatti altri motivi nella scelta degli uomini in vista della grazia salvi-
fica all’infuori o del maggiore ingegno o della minore colpevolezza o di
entrambe le cose. Aggiungiamo pure, se piace, una formazione dottrinale
fruttuosa e onesta. Sembra quindi che la scelta per la grazia debba cadere
su chi è irretito e macchiato solo da colpe veniali (chi mai ne è esente?), è
di notevole ingegno ed è versato nelle arti liberali. Ma dopo aver stabilito
queste condizioni, colui che ha scelto i deboli del mondo per confondere
i forti e gli stolti per confondere i sapienti [cfr. 1Cor 1, 27] mi irriderà a
tal punto che, fissandolo e corretto dalla vergogna, anch’io mi prenderò
gioco di molti, e i più casti rispetto a certi peccatori e gli oratori rispetto
122

piscatoribus oratores. Nonne advertimus multos fideles nostros


ambulantes viam Dei ex nulla parte ingenio comparari non dicam
quorumdam haereticorum sed etiam mimorum? Item non videmus
quosdam homines utriusque sexus in coniugali castitate viventes sine
querela, et tamen vel haereticos vel paganos vel etiam in vera fide et vera
Ecclesia sic tepidos, ut eos miremur meretricum et histrionum subito
conversorum non solum patientia et temperantia, sed etiam fide, spe,
caritate superari? Restat ergo ut voluntates eligantur. Sed voluntas ipsa,
nisi aliquid occurrerit quod delectet atque invitet animum, moveri nullo
modo potest. Hoc autem ut occurrat, non est in hominis potestate. Quid
volebat Saulus nisi invadere, trahere, vincire, necare Christianos? Quam
rabida voluntas, quam furiosa, quam caeca! Qui tamen una desuper voce
prostratus occurrente utique tali viso, quo mens illa et voluntas refracta
saevitia retorqueretur et corrigeretur ad fidem, repente ex Evangelii
mirabili persecutore mirabilior praedicator effectus est. Et tamen: Quid
dicemus? Numquid iniquitas est apud Deum, exigentem a quo placet,
donantem cui placet, qui nequaquam exigit indebitum, nequaquam
donat alienum? Numquid iniquitas est apud Deum? Absit! Quare tamen
huic ita et huic non ita? O homo, tu quis es? Debitum si non reddis, habes
quod gratuleris; si reddis, non habes quod queraris. Credamus tantum, et
si capere non valemus, quoniam qui universam creaturam et spiritalem
et corporalem fecit et condidit, omnia in numero et pondere et mensura
disponit. Sed inscrutabilia sunt iudicia eius et investigabiles viae eius.
Dicamus: Alleluia et collaudemus canticum et non dicamus: Quid hoc
aut quid hoc? Omnia enim in tempore suo creata sunt.
123

a certi pescatori. Non vediamo molti nostri fedeli che camminano nella
via di Dio e non possono affatto paragonarsi per ingegno, non dico a
certi eretici ma neppure ai commedianti? Non vediamo inoltre persone
di ambo i sessi che vivono nella castità coniugale senza lamentarsi, e
tuttavia sono eretici o pagani o, pur vivendo nella vera fede e nella vera
Chiesa, sono così tiepidi da essere superati, con nostra meraviglia, non
solo nella pazienza e temperanza ma anche nella fede, speranza e carità,
dalle prostitute e dai commedianti appena convertiti? La scelta dunque è
ristretta alla volontà. Ma anche la volontà non può assolutamente muo-
versi, se non sopraggiunge qualcosa che attrae e invita l’animo; che que-
sto poi avvenga non è in potere dell’uomo. Saulo che cosa voleva, se non
aggredire, trascinare via, imprigionare, uccidere? Quanta rabbia, quanta
furia, quanta cecità nella sua volontà! Eppure, sbattuto a terra da una sola
parola dall’alto e colpito da tale apparizione, la sua mente e la sua volontà,
infranta ogni violenza, si è cambiata e rivolta alla fede. In un attimo da
furioso persecutore diventò un più insigne predicatore del Vangelo [cfr.
At 8, 3; 9, 1]. E tuttavia: Che diremo? C’è forse ingiustizia da parte di
Dio, il quale esige il debito da chi vuole e lo condona a chi vuole? Egli non
esige mai l’indebito e neppure dona l’alieno. C’è forse ingiustizia da parte
di Dio? No certamente! [Rm 9, 14] E perché mai con uno agisce così e
non con un altro? O uomo, tu chi sei? [Rm 9, 20] Se tu non paghi il debito,
hai di che ringraziare; se paghi, non hai da lamentarti. Crediamo soltanto,
anche se siamo incapaci di comprendere, che chi ha creato e fatto tutte le
cose, sia le spirituali che le materiali, tutto dispone con misura, calcolo e
peso [cfr. Sap 11, 21]. Ma imperscrutabili sono i suoi giudizi e inaccessi-
bili le sue vie [Rm 11, 33]. Diciamo: Alleluia e intoniamo il canto di lode
senza dire: Che è questo? Perché quello? Perché tutte le cose sono state
create a suo tempo. [cfr. Eccli (Sir) 39, 14-33]
Agostino

Contro le due lettere dei Pelagiani*


(I 2.4; 5; 3.6; 8.14; II 5.9; 10; 6.11; 12; 8.17; III 8.24; 9.25)

*
La traduzione italiana e il testo latino riproducono quelli dell’edizione di N.
Cipriani-E. Cristini- I. Volpi (a cura di), Opere di sant’Agostino, Polemica con
Giuliano I, Nuova Biblioteca Agostiniana XVIII, Roma 1985, pp. 173-397.
http://www.augustinus.it/italiano/contro_lettere_pelagiani/index.htm
LIBER PRIMUS
2. 4. Iam itaque Iuliani respondeamus epistulae. Dicunt, inquit, illi
Manichaei, quibus modo non communicamus, id est toti isti, cum quibus
dissentimus, quia primi hominis peccato, id est Adae, liberum arbitrium
perierit et nemo iam potestatem habeat bene vivendi, sed omnes in
peccatum carnis suae necessitate cogantur. Manichaeos appellat
catholicos more illius Ioviniani, qui paucos ante annos hereticus novus
virginitatem sanctae Mariae destruebat et virginitati sacrae nuptias
fidelium coaequabat. Nec ob aliud hoc obiciebat catholicis, nisi quia eos
videri volebat accusatores vel damnatores esse nuptiarum.
2. 5. Liberum autem arbitrium defendendo praecipitant, ut de illo
potius ad faciendam iustitiam quam de Domini adiutorio confidatur
atque ut in se quisque, non in Domino glorietur. Quis autem nostrum
dicat, quod primi hominis peccato perierit liberum arbitrium de genere
humano? Libertas quidem periit per peccatum, sed illa, quae in paradiso
fuit, habendi plenam cumimmortalitate iustitiam. Propter quod natura
humana divina indiget gratia, dicente Domino: Si vos Filius liberaverit,
tunc vere liberi eritis; utique liberi ad bene iusteque vivendum. Nam
liberum arbitrium usque adeo in peccatore non periit, ut per illud peccent
maxime omnes, qui cum delectatione peccant et amore peccati et hoc
eis placet quod eos libet. Unde et Apostolus: Cum essetis, inquit, servi
peccati, liberi fuistis iustitiae. Ecce ostenduntur etiam peccato minime
potuisse nisi alia libertate servire. Liberi ergo a iustitia non sunt nisi
arbitrio voluntatis; liberi autem a peccato non fiunt nisi gratia Salvatoris.
Propter quod ammirabilis Doctor etiam verba ipsa discrevit: Cum enim
servi essetis, inquit, peccati, liberi fuistis iustitiae. Quem ergo tunc
fructum habuistis in his, in quibus nunc erubescitis? Nam finis illorum
mors est. Nunc autem liberati a peccato, servi autem facti Deo, habetis
fructum vestrum in sanctificationem, finem vero vitam aeternam. Liberos
LIBRO PRIMO
2. 4. Rispondiamo ordunque alla lettera di Giuliano. Egli scrive: Quei
manichei con i quali non siamo attualmente in comunione, ossia tutti
costoro dai quali dissentiamo, affermano che per il peccato del primo
uomo, cioè di Adamo, andò perduto il nostro libero arbitrio e che nessuno
possiede più il potere di vivere bene, ma tutti sono costretti al peccato
dal potere vincolante della loro carne. Manichei chiama i cattolici, alla
maniera di quel Gioviniano che, novello eretico di qualche anno fa, negava
la verginità di Maria santa e metteva alla pari della sacra verginità le nozze
dei fedeli. Né per altra ragione moveva ai cattolici questo addebito se non
perché voleva farli apparire accusatori o condannatori delle nozze.
2. 5. Nel difendere però il libero arbitrio precipitano fino a confidare in
esso piuttosto che nell’aiuto del Signore per poter osservare la giustizia e
fino a spingere ciascuno a vantarsi di sé e non nel Signore [cfr. 1Cor 1, 31].
Chi di noi poi direbbe che per il peccato del primo uomo sia sparito dal
genere umano il libero arbitrio? Certo per il peccato sparì la libertà, ma
la libertà che esisteva nel paradiso di possedere la piena giustizia insieme
all’immortalità. Per tale perdita la natura umana ha bisogno della grazia
divina, secondo le parole del Signore: Se il Figlio vi farà liberi, sarete
liberi davvero [Gv 8, 36]; liberi, s’intende, per poter vivere in modo buono
e giusto. Infatti è tanto vero che non è sparito nel peccatore il libero arbi-
trio che proprio per mezzo di esso peccano gli uomini, specialmente tutti
coloro che peccano con piacere e amore del peccato, acconsentendo a ciò
che fa loro piacere. Per cui anche l’Apostolo scrive: Quando eravate sotto
la schiavitù del peccato, eravate liberi nei riguardi della giustizia [Rm 6,
20]. Ecco, si dichiara che non avrebbero potuto sottostare in nessun modo
nemmeno alla schiavitù del peccato se non in forza di un’altra libertà.
Liberi nei riguardi della giustizia non lo sono dunque se non in forza
dell’arbitrio della volontà, ma liberi dal peccato non lo diventano se non
in forza della grazia del Salvatore. Per questo appunto l’ammirabile Dot-
tore ha differenziato anche gli stessi vocaboli, scrivendo: Quando infatti
eravate sotto la schiavitù del peccato, eravate liberi nei riguardi della
giustizia. Ma quale frutto raccoglieste allora da cose di cui ora vi vergo-
gnate? Infatti il loro destino è la morte. Ora invece, liberati dal peccato e
fatti servi di Dio, voi raccogliete il frutto che vi porta alla santificazione e
128

dixit iustitiae, non “liberatos”, a peccato autem non liberos, ne sibi hoc
tribuerent, sed vigilantissime maluit dicere “liberatos” referens hoc ad
illam Domini sententiam: Si vos Filius liberaverit, tunc vere liberi eritis.
Cum itaque non vivant bene filii hominum nisi effecti filii Dei, quid
est quod iste libero arbitrio vult bene vivendi tribuere potestatem, cum
haec potestas non detur nisi gratia Dei per Iesum Christum Dominum
nostrum, dicente Evangelio: Quotquot autem receperunt eum, dedit eis
potestatem filios Dei fieri?
3. 6. Sed ne forte dicant ad hoc esse adiutos, ut haberent potestatem
fieri filii Dei – ut autem hanc accipere mererentur, prius eum libero
arbitrio nulla adiuti gratia receperunt; haec est quippe intentio,qua
gratiam destruere moliuntur, ut eam dari secundum merita nostra
contendant –; ne forte ergo hanc evangelicam sententiam sic dividant,
ut meritum ponant in eo quod dictum est: Quotquot autem receperunt
eum, ac deinde non gratis datam, sed huic merito redditam gratiam
in eo quod sequitur: Dedit eis potestatem filios Dei fieri, numquid,
si quaeratur ab eis quid sit receperunt eum, dicturi sunt aliud nisi:
“Crediderunt in eum”? Ut igitur et hoc sciant ad gratiam pertinere,
legant quod ait Apostolus: In nullo expavescatis ab adversariis, quae
quidem est illis causa perditionis, vestrae autem salutis, et hoc a Deo;
quia vobis donatum est pro Christo, non tantum ut credatis in eum, sed
ut etiam patiamini pro eo – nempe utrumque dixit esse donatum –, item
quod ait: Pax fratribus et caritas cum fide a Deo Patre et Domino Iesu
Christo. Legant etiam illud, quod ipse Dominus ait: Nemo potest venire
ad me, nisi Pater, qui misit me, traxerit eum. Ubi ne quisquam putet
aliud dictum esse venire ad me, quam: “Credere in me”. Paulo post, cum
de suo corpore et sanguine loqueretur et scandalizati essent plurimi in
sermone eius, ait: Verba, quae ego locutus sum vobis, spiritus et vita sunt;
129

come destino avete la vita eterna [Rm 6, 20-22]. Dice liberi nei riguardi
della giustizia, non liberati; dal peccato invece non dice liberi, perché non
l’attribuissero a sé, ma con grande accorgimento preferisce dire: liberati,
riferendosi così alla famosa sentenza del Signore: Se il Figlio vi avrà libe-
rati, allora sarete liberi davvero. Poiché dunque i figli degli uomini non
vivono bene se non dopo esser diventati figli di Dio, che pretesa è quella
di costui (Giuliano) d’attribuire al libero arbitrio il potere di vivere bene,
quando tale potere non è dato se non dalla grazia di Dio per mezzo di
Gesù Cristo nostro Signore, come dice il Vangelo: A quanti però l’hanno
accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio? [Gv 1, 12]
3. 6. Ma forse diranno d’essere stati aiutati proprio per avere il potere
di diventare figli di Dio e che invece per meritare d’avere tale potere
hanno precedentemente accolto Gesù con il libero arbitrio senza l’aiuto
di nessuna grazia. Questa è appunto la loro tattica per cercar di distrug-
gere la grazia: sostenere che essa vien data secondo i nostri meriti. Ma
perché non dividano questa sentenza evangelica riconoscendo affer-
mato il merito nelle parole: A quanti però l’hanno accolto, e poi non
riconoscendo affermata nelle altre: Ha dato il potere di diventare figli
di Dio la grazia data gratuitamente ma corrisposta in forza di cotesto
merito, se domandassimo cosa significhino le parole: L’hanno accolto,
avranno forse pronta un’altra risposta che non sia: “Hanno creduto in
lui”? Orbene, perché sappiano che anche il credere dipende dalla grazia,
leggano quello che dice l’Apostolo: Senza lasciarvi intimidire in nulla
dagli avversari. Questo è per loro un presagio di perdizione, per voi
invece di salvezza, e ciò da parte di Dio, perché a voi è stata concessa a
motivo di Cristo la grazia non solo di credere in lui ma anche di soffrire
per lui [Fil 1, 28-29]. Riconosce evidentemente che ambedue, il credere
e il soffrire, sono stati doni concessi. Così pure quando augura: Pace ai
fratelli, e carità e fede da parte di Dio Padre e del Signore Gesù Cristo
[Ef 6, 23]. Leggano inoltre quello che dice il Signore stesso: Nessuno
può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato [Gv 6, 44].
Nel qual testo, perché nessuno pensi che le parole: Venire a me abbiano
un senso diverso dal: “Credere in me”, poco dopo parlando del suo corpo
e del suo sangue ed essendosi scandalizzati moltissimi del suo modo
d’esprimersi, dichiarò: Le parole che vi ho dette sono spirito e vita. Ma vi
130

sed sunt quidam ex vobis, qui non credunt. Deinde subiunxit Evangelista:
Sciebat enim ab initio Iesus, qui essent credentes, et quis traditurus esset
eum et dicebat: Propterea dixi vobis, quia nemo potest venire ad me,
nisi fuerit ei datum a Patre meo. Sententiam scilicet iteravit qua dixerat:
Nemo potest venire ad me, nisi Pater, qui misit me, traxerit eum. Et
hoc propter credentes et non credentes se dixisse manifestavit exponens
quod dixerat: Nisi Pater, qui misit me, traxerit eum; id ipsum aliis
verbis repetendo in eo, quod ait: nisi fuerit ei datum a Patre meo. Ille
quippe trahitur ad Christum, cui datur ut credat in Christum. Datur ergo
potestas, ut filii Dei fiant qui credunt in eum, cum hoc ipsum datur, ut
credant in eum. Quae potestas nisi detur a Deo, nulla esse potest ex libero
arbitrio; quia nec liberum in bono erit, quod liberator non liberaverit, sed
in malo liberum habet arbitrium, cui delectationem malitiae vel occultus
vel manifestus deceptor insevit, vel sibi ipse persuasit.
8. 14. Hinc autem iam incipit, propter quod ista consideranda
suscepimus, introducere personam suam et tamquam de se ipso
loqui. Ubi nolunt Pelagiani ipsum Apostolum intellegi, sed quod in
se alium transfiguraverit, id est hominem sub lege adhuc positum,
nondum per gratiam liberatum. Ubi quidem iam debent concedere,
quod in lege nemo iustificatur, sicut alibi idem Apostolus dicit, sed ad
cognitionem peccati et ad ipsius legis praevaricationem valere legem,
ut cognito auctoque peccato, per fidem gratia requiratur. Non autem
timent ista de Apostolo intellegi, quae posset et de praeteritis suis
dicere, sed ea quae sequuntur timent. Hic enim: Concupiscentiam,
inquit, nesciebam, nisi lex diceret: Non concupisces. Occasione
autem accepta, peccatum per mandatum operatum est in me omnem
concupiscentiam. Sine lege enim peccatum mortuum est. Ego autem
vivebam aliquando sine lege; adveniente autem mandato peccatum
revixit, ego autem mortuus sum. Et inventum est mihi mandatum, quod
131

sono alcuni tra voi che non credono. Poi l’Evangelista soggiunge: Gesù
infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che credevano e chi era
colui che lo avrebbe tradito. E continuò Gesù: Per questo vi ho detto
che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio [Gv
6, 64-66]. Ha ripetuto dunque la sentenza con la quale aveva affermato:
Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato.
E mostrò d’averlo detto per i credenti e per i non credenti, spiegando il
senso delle sue precedenti parole: Se non lo attira il Padre che mi ha
mandato e ripetendo con parole diverse lo stesso pensiero espresso nella
frase: Se non gli è concesso dal Padre mio. Viene appunto attirato al Cri-
sto chi riceve il dono di credere nel Cristo. Il potere dunque di diventare
figli di Dio è dato a coloro che credono in Gesù nel momento stesso in
cui è fatto ad essi il dono di credere in lui. Il qual potere se non è dato
da Dio, non si può avere in nessun modo dal libero arbitrio, perché nel
bene non sarà nemmeno libero l’arbitrio che non sia stato liberato dal
Liberatore, nel male invece ha libero l’arbitrio l’uomo che porta dentro
di sé il piacere della malizia, seminata in lui da un impostore occulto o
manifesto, oppure assorbita per autosuggestione.
8. 14. Ma da qui comincia già quello che ci ha spinti a fare queste nostre
considerazioni: introduce la sua persona e sembra parlare di se stesso.
Nella qual persona i pelagiani non vogliono che s’intenda l’Apostolo
stesso, ma che egli abbia trasferito in sé un altro, cioè l’uomo sottopo-
sto ancora alla legge e non ancora liberato per mezzo della grazia. Qui
però costoro devono ormai ammettere che nessuno può giustificarsi per la
legge [Gal 3, 11], come dice altrove il medesimo Apostolo; ma che la legge
vale per conoscere il peccato e per la trasgressione della legge stessa, per-
ché, conosciuto e cresciuto il peccato, si cerchi la grazia per mezzo della
fede. Ma le parole che temono di riferire all’Apostolo non sono queste, che
egli potrebbe dire anche parlando delle sue vicende passate, bensì quelle
che seguono. Infatti a questo punto dice: Io non avrei conosciuto la con-
cupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare. Prendendo per-
tanto occasione da questo comandamento, il peccato scatenò in me ogni
sorta di desideri. Senza la legge infatti il peccato è morto e io un tempo
vivevo senza la legge. Ma, sopraggiunto quel comandamento, il peccato
ha ripreso vita e io sono morto. La legge, che doveva servire per la vita, è
132

erat in vitam, hoc esse in mortem. Peccatum enim, occasione accepta


per mandatum, fefellit me et per illud occidit. Itaque lex quidem sancta et
mandatum sanctum et iustum et bonum. Quod ergo bonum est, mihi
factum est mors? Absit! Sed peccatum, ut appareat peccatum, per bonum
mihi operatum est mortem ut fiat super modum peccator aut peccatum
per mandatum. Haec omnia, sicut dixi, potest videri Apostolus de sua
vita commemorasse praeterita, ut illud, quod ait: Ego autem vivebam
aliquando sine lege, aetatem suam primam ab infantia ante rationales
annos voluerit intellegi; quod autem adiunxit: Adveniente autem mandato
peccatum revixit, ego autem mortuus sum, iam se praecepti capacem,
sed non efficacem et ideo praevaricatorem legis ostenderet.

LIBER SECUNDUS
5. 9. Iam nunc illa videnda sunt, quae in epistula sua nobis obicientes
breviter posuerunt, quibus haec est nostra responsio: peccato Adae
arbitrium liberum de hominum natura perisse non dicimus, sed ad
peccandum valere in hominibus subditis diabolo; ad bene autem pieque
vivendum non valere, nisi ipsa voluntas hominis Dei gratia fuerit liberata
et ad omne bonum actionis, sermonis, cogitationis adiuta. Neminem
nisi Dominum Deum dicimus nascentium conditorem nec a diabolo,
sed ab ipso nuptias institutas, omnes tamen sub peccato nasci propter
propaginis vitium et ideo esse sub diabolo, donec renascantur in Christo.
Nec sub nomine gratiae fatum asserimus, quia nullis hominum meritis
Dei gratiam dicimus antecedi. Si autem quibusdam omnipotentis Dei
voluntatem placet fati nomine nuncupare, profanas quidem verborum
novitates evitamus, sed de verbis contendere non amamus.
5. 10. Unde autem hoc eis visum fuerit nobis obicere, quod fatum
asseramus sub nomine gratiae, cum aliquanto attentius cogitarem prius
eorum verba quae consequuntur inspexi. Sic enim hoc nobis obiciendum
putarunt: Sub nomine, inquiunt, gratiae ita fatum asserunt, ut dicant,
133

diventata per me motivo di morte. Il peccato infatti, prendendo occasione


dal comandamento, mi ha sedotto e per mezzo di esso mi ha dato la morte.
Così la legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento. Ciò che
è bene è allora diventato morte per me? No davvero! È invece il peccato:
esso per rivelarsi peccato mi ha dato la morte, servendosi di ciò che è
bene, perché il peccato apparisse oltre misura peccaminoso per mezzo
del comandamento [Rm 7, 7-13]. Tutte queste possono, come ho detto,
sembrare reminiscenze dell’Apostolo sulla sua vita passata, cosicché con
la sua affermazione: E io un tempo vivevo senza la legge abbia voluto far
intendere la sua prima età dall’infanzia fino agli anni della ragione, e con
l’affermazione che segue: Ma, sopraggiunto quel comandamento, il pec-
cato ha ripreso vita e io sono morto descriva se stesso come già capace
di ricevere la legge, ma incapace d’osservarla e quindi come trasgressore
della legge.

LIBRO SECONDO
5. 9. È già ora il momento di vedere le accuse che ci hanno fatto breve-
mente nella loro lettera e alle quali la nostra risposta è la seguente. Che
per il peccato di Adamo sia sparito dalla natura umana il libero arbitrio
non lo diciamo, ma esso negli uomini soggetti al diavolo vale a peccare,
non vale invece a vivere bene e piamente, se la stessa volontà dell’uomo
non è stata liberata per grazia di Dio e aiutata a fare ogni bene nell’agire,
nel parlare, nel pensare. Nessun altro che il Signore Dio riteniamo crea-
tore degli uomini che nascono, né dal diavolo ma da Dio stesso istituite
le nozze: tutti però nascono sotto il peccato a causa del vizio della pro-
paggine e sono per esso sotto il diavolo, finché non rinascano nel Cristo.
Né asseriamo il fato sotto il nome di grazia dicendo che la grazia di Dio
non è preceduta in nessun modo dai meriti degli uomini. Se poi a certuni
piace chiamare fato la volontà dell’onnipotente Dio, noi certo evitiamo le
chiacchiere profane, ma non amiamo bisticciare sulle parole.
5. 10. Quale poi sia la ragione per cui è parso a costoro d’accusarci di
asserire il fato sotto il nome di grazia, essendomi dato io a riflettere con un
po’ più d’attenzione, ho notato per prime le loro parole che vengono subito
appresso. Così infatti hanno creduto di muovere a noi quest’accusa: Sotto
il nome di grazia dicono costoro asseriscono il fato tanto da dire che, se
134

quia nisi Deus invito et reluctanti homini inspiraverit boni et ipsius


imperfecti cupiditatem, nec a malo declinare nec bonum possit arripere.
Deinde aliquanto post, ubi ipsi quae defendant commemorant, quid de
hac re ab eis diceretur adtendi: baptisma, inquiunt, omnibus necessarium
esse aetatibus confitemur, gratiam quoque adiuvare uniuscuiusque
bonum propositum, non tamen reluctanti studium virtutis immittere, quia
personarum acceptio non est apud Deum. Ex his eorum verbis intellexi
ob hoc illos vel putare vel putari velle fatum nos asserere sub nomine
gratiae, quia gratiam Dei non secundum merita nostra dicimus dari, sed
secundum ipsius misericordissimam voluntatem, qui dixit: Miserebor,
cui misertus ero, et misericordiam praestabo, cui misericors fuero.
Ubi consequenter adiunctum est: Igitur non volentis neque currentis,
sed miserentis est Dei. Posset etiam hinc quispiam similiter stultus fati
assertorem Apostolum putare vel dicere. Verum hic se isti satis aperiunt.
Cum enim propterea nobis calumniantur dicentes nos fatum gratiae
nomine asserere, quia non secundum merita nostra dari dicimus Dei
gratiam, procul dubio confitentur, quod ipsi eam secundum nostra merita
dari dicunt; ita caecitas eorum occultare ac dissimulare non potuit hoc
se sapere atque sentire, quod sibi obiectum Pelagius in episcopali iudicio
Palaestino subdolo timore damnavit. Obiectum quippe illi est ex verbis
quidem discipuli sui Caelestii, quod etiam ipse diceret «gratiam Dei
secundum merita nostradari». Quod ille detestans vel quasi detestans,
ore dumtaxat, anathematizare non distulit; sed sicut eius libri posteriores
indicant et istorum sectatorum eius nudat assertio, ficto corde servavit,
donec postea, quod tunc metu texerat negantis astutia, etiam in litteras
proferret audacia. Et adhuc non formidant, non saltem verecundantur
episcopi Pelagiani litteras suas catholicis Orientalibus episcopis mittere,
quibus nos assertores fati esse criminantur, quia non dicimus gratiam
Dei secundum merita nostra dari, quod Pelagius episcopos Orientales
metuens et dicere non ausus et damnare compulsus est.
6. 11. Itane vero, filii superbiae, inimici gratiae Dei, o novi haeretici
Pelagiani, quisquis dicit gratia Dei omnia hominis bona merita praeveniri
135

Dio non ispira all’uomo svogliato e riluttante il desiderio del bene, anche
dello stesso bene imperfetto, egli non può né stare lontano dal male né arri-
vare a fare il bene. Poi alquanto dopo, dove ricordano le tesi difese da loro
stessi, ho rivolto la mia attenzione a quello che dicono su questo argomento.
Scrivono: Noi confessiamo che il battesimo è necessario a tutte le età e
altresì che la grazia aiuta il buon proposito di ognuno, ma essa tuttavia
non infonde la sollecitudine della virtù in chi è riluttante, perché non c’è
parzialità per nessuno presso Dio [cfr. Col 3, 25]. Da queste loro parole ho
capito che ritengono o vogliono far ritenere che noi asseriamo il fato sotto
il nome di grazia, perché diciamo che la grazia di Dio non è data secondo
i nostri meriti, ma secondo la volontà misericordiosissima di colui che
ha dichiarato: Userò misericordia con chi vorrò e avrò pietà di chi vorrò
averla [Rm 9, 15]. Dove logicamente si aggiunge: Quindi non dipende
dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che usa misericordia
[Rm 9, 16]. Anche da qui potrebbe qualcuno altrettanto stolto ritenere o
dire l’Apostolo assertore del fato. Ma in questo caso costoro si tradiscono
a sufficienza. Poiché infatti ci calunniano d’asserire il fato perché diciamo
che la grazia di Dio non è data secondo i nostri meriti, senza dubbio costoro
confessano di dire che la grazia è data secondo i nostri meriti: così la loro
cecità non ha potuto occultare o dissimulare che essi intendono e sentono
esattamente ciò che, contestato a Pelagio nel giudizio episcopale palesti-
nese, egli condannò con subdolo timore. Fu appunto obiettato a lui, dalle
parole del suo discepolo Celestio per la verità, di dire anche lui: “La grazia
di Dio è data secondo i nostri meriti”. Il che egli detestandolo o facendo
finta di detestarlo non indugiò ad anatematizzare con la bocca soltanto; ma,
come indicano i suoi libri posteriori e come lo mette a nudo l’asserzione di
cotesti suoi seguaci, serbò nella finzione del cuore l’errore fino a quando in
seguito la sua sfrontatezza pubblicò anche per scritto ciò che allora l’astuzia
nel negare aveva coperto per paura. E non temono ancora né si vergognano
almeno i vescovi pelagiani di mandare ai vescovi cattolici orientali una loro
lettera, dove ci accusano d’essere assertori del fato perché non diciamo che
la grazia di Dio è data secondo i nostri meriti; ciò che Pelagio per timore dei
vescovi orientali e non osò affermare e fu indotto a condannare.
6. 11. Non sta dunque proprio così, o novelli eretici pelagiani, figli della
superbia, nemici della grazia di Dio: chiunque dica che la grazia di Dio pre-
136

nec gratiam Dei meritis dari ne non sit gratia, si non gratis datur, sed debita
merentibus redditur, fatum vobis videtur asserere? Nonne etiam vos ipsi
qualibet intentione necessarium baptismum omnibus aetatibus dicitis?
Nonne in hac ipsa epistula vestra istam de baptismo sententiam et de
gratia iuxta posuistis? Cur non vos baptismus, qui datur infantibus, ipsa
vicinitate commonuit, quid sentire de gratia debeatis? Haec enim verba
sunt vestra: Baptisma omnibus necessarium esse aetatibus confitemur,
gratiam quoqueadiuvare uniuscuiusque bonum propositum, non tamen
reluctanti studium virtutis immittere, quia personarum acceptio non est
apud Deum. In his omnibus verbis vestris de gratia quod dixistis, interim
taceo. De baptismate reddite rationem, cur illud dicatis omnibus esse
aetatibus necessarium, quare sit necessarium parvulis dicite; profecto
quia eis boni aliquid confert et idem aliquid nec parvum nec mediocre, sed
magnum est. Nam etsi eos negatis attrahere quod in baptismo remittatur
originale peccatum, tamen illo regenerationis lavacro adoptari ex filiis
hominum in Dei filios non negatis, immo etiam praedicatis. Dicite ergo
nobis, quicumque baptizati in Christo parvuli de corpore exierunt,
hoc tam sublime donum quibus praecedentibus meritis acceperunt? Si
dixeritis hoc eos parentum pietate meruisse, respondebitur vobis: Cur
aliquando piorum filiis hoc negatur bonum et filiis tribuitur impiorum?
Nonnumquam enim de religiosis orta proles in tenera aetate atque ab
utero recentissima praevenitur morte, antequam lavacro regenerationis
abluatur, et infans natus ex inimicis Christi misericordia Christianorum
baptizatur in Christo; plangit baptizata mater non baptizatum proprium
et ab impudica expositum baptizandum casta fetum colligit alienum.
Hic certe merita parentum vacant, vacant vobis fatentibus ipsorum
etiam parvulorum. Scimus enim vos non hoc de anima humana credere,
quodante corpus terrenum alicubi vixerit et aliquid operata sit vel boni
vel mali, unde istam in carne differentiam mereretur. Quae igitur causa
huic parvulo baptismum procuravit, illi negavit? An ipsi fatum habent,
137

cede tutti i buoni meriti dell’uomo e che la grazia di Dio non è data ai meriti,
perché non sia grazia [Rm 11, 6] se non è data gratuitamente ma è pagata
per debito a coloro che la meritano, a voi sembra che asserisca il fato? Non
è vero che anche voi, quale che sia la vostra intenzione, dite necessario il
battesimo per tutte le età? Non è vero che in questa stessa vostra lettera avete
posto cotesta sentenza sul battesimo e subito accanto ad essa la sentenza
sulla grazia? Perché il battesimo che si dà ai piccoli non vi ha suggerito
con la stessa sua vicinanza che cosa dovete pensare della grazia? Queste
sono infatti le vostre parole: Noi confessiamo che il battesimo è necessario
a tutte le età e altresì che la grazia aiuta il buon proposito di ognuno, ma
essa tuttavia non infonde il desiderio della virtù in chi è riluttante, perché
non c’è parzialità per nessuno presso Dio [cfr. Col 3, 25]. Di quello che
avete detto della grazia in tutte queste vostre parole taccio per il momento.
Del battesimo rendete conto. Dite, perché lo diciate necessario a tutte le età,
per quale ragione sia necessario ai bambini. Certamente perché procura a
loro qualcosa di buono, e ciò non è qualcosa né di piccolo né di mediocre,
ma qualcosa di grande. Sebbene infatti neghiate che contraggano il peccato
originale da rimettersi nel battesimo, tuttavia che in forza di quel lavacro di
rigenerazione essi da figli degli uomini siano adottati in figli di Dio non lo
negate e anzi lo predicate pure. Diteci dunque: tutti i battezzati nel Cristo che
sono usciti dal corpo quand’erano bambini, questo dono tanto sublime per
quali meriti precedenti l’hanno ricevuto? Se direte che l’hanno meritato per
la pietà dei loro genitori, vi si chiederà: Perché talvolta si nega questo benefi-
cio a figli di genitori pii ed è concesso a figli di genitori empi? A volte infatti
prole nata da persone religiose è prevenuta dalla morte in tenera età e appena
uscita dall’utero, prima d’essere lavata con il lavacro della rigenerazione, e
un bambino nato da nemici del Cristo è battezzato nel Cristo per pietà di cri-
stiani: piange una mamma battezzata per il proprio bambino non battezzato
e una donna casta raccoglie per farlo battezzare un feto altrui, esposto da
una mamma disonesta. Qui mancano certamente i meriti dei genitori, man-
cano per vostra confessione i meriti anche degli stessi bambini. Sappiamo
infatti che dell’anima umana voi non credete che prima di prendere il corpo
terreno sia vissuta in qualche altro luogo e abbia fatto qualcosa o di bene o
di male per cui meritare questa differenza nella carne. Quale causa dunque
a questo bambino ha procurato il battesimo e a quello l’ha negato? Hanno
138

quia meritum non habent? aut in his est a Domino acceptio personarum?
Nam utrumque dixistis, prius fatum, acceptionem postea personarum,
ut, quoniam utrumque refutandum est, remaneat quod vultis adversus
gratiam introducere meritum. Respondete igitur de meritis parvulorum,
cur alii baptizati, alii non baptizati de corporibus exeant nec parentum
meritis vel polleant vel careant tam excellenti bono, ut fiant filii Dei ex
hominum filiis nullis parentum, nullis meritis suis. Nempe reticetis et
vos ipsos potius in eo, quod nobis obicitis, invenitis. Nam si, ubi non
est meritum, consequenter esse dicitis fatum et ob hoc in gratia Dei
meritum hominis vultis intellegi, ne fatum cogamini confiteri; ecce vos
potius asseritis fatum in baptismate parvulorum, quorum nullum esse
fatemini meritum. Si autem in baptizandis parvulis et nullum meritum
omnino praecedere, et tamen fatum non esse conceditis, cur nos, quando
dicimus gratiam Dei propterea gratis dari, ne gratia non sit, non tamquam
debitam meritis praecedentibus reddi, fati assertores esse iactatis non
intellegentes in iustificandis impiis, sicut propterea merita non sunt,
quia Dei gratia est, ita propterea non esse fatum, quia Dei gratia est; ita
propterea non esse acceptionem personarum, quia Dei gratia est?
6. 12. Fatum quippe qui affirmant, de siderum positione ad tempus,
quo concipitur quisque vel nascitur, quas constellationes vocant, non
solum actus et eventa, verum etiam ipsas nostras voluntates pendere
contendunt; Dei vero gratia non solum omnia sidera et omnes caelos,
verum etiam omnes angelos supergreditur. Deinde fati assertores et
bona et mala hominum fato tribuunt; Deus autem in malis hominum
merita eorum debita retributione persequitur, bona vero per indebitam
gratiam misericordi voluntate largitur, utrumque faciens non per
stellarum temporale consortium, sed per suae severitatis et bonitatis
aeternum altumque consilium. Neutrum ergo pertinere videmus
ad fatum. Hic si respondetis hanc ipsam Dei benevolentiam, qua
non merita sequitur, sed bona indebita gratuita bonitate largitur,
139

forse essi il fato perché non hanno il merito? O c’è forse in essi parzialità
personale da parte di Dio? Voi infatti avete detto l’una e l’altra cosa: prima
il fato e poi la parzialità personale, perché, essendo ambedue da scartare,
rimanga il merito che volete introdurre contro la grazia. Sui meriti dunque
dei bambini rispondete perché gli uni escano dai corpi con il battesimo e gli
altri senza il battesimo, perché indipendentemente dai meriti dei genitori
siano o gratificati o privati di un bene tanto eccellente da diventare figli
di Dio da figli degli uomini, escluso ogni merito dei genitori, escluso ogni
merito proprio dei figli. Naturalmente voi tacete e vi trovate piuttosto rove-
sciati da voi stessi nell’errore che rovesciate su di noi. Se infatti dove non c’è
il merito dite che c’è logicamente il fato, e proprio per non essere costretti ad
ammettere il fato volete che nella grazia di Dio si ravvisi il merito dell’uomo,
ecco siete piuttosto voi ad asserire il fato nel battesimo dei piccoli dai quali
escludete qualsiasi merito. Se poi nel battezzare i bambini concedete che
non interviene assolutamente nessun merito precedente e che tuttavia non
interviene il fato, per quale ragione quando noi diciamo che la grazia di
Dio è data gratuitamente, proprio perché non cessi d’essere grazia e non sia
pagata come un debito a meriti precedenti, voi andate dicendo che noi siamo
assertori del fato? Voi non capite che nella giustificazione degli empi come
proprio per questo che è grazia di Dio non intervengono i meriti, così pro-
prio per questo che è grazia di Dio non interviene il fato, e proprio per questo
che è grazia di Dio non interviene nessuna parzialità di persone.
6. 12. Coloro che appunto affermano il fato, dalla posizione delle stelle
che chiamano costellazioni, nel tempo in cui ciascuno è concepito o nasce,
fanno dipendere non solo i comportamenti e gli eventi, ma anche le stesse
nostre volontà. Al contrario la grazia di Dio trascende non solo tutte le
stelle e tutti i cieli, ma anche tutti gli angeli. Inoltre gli assertori del fato
attribuiscono al fato e i beni e i mali degli uomini. Al contrario Dio nei
mali degli uomini insegue i loro demeriti con il dovuto contraccambio,
ma quanto ai beni li elargisce per grazia non dovuta con misericordiosa
volontà. Ambedue le cose Dio le fa non in dipendenza del congiungimento
temporaneo delle stelle, ma secondo l’eterno e profondo disegno della sua
severità e bontà. Nessuna delle due cose dunque la vediamo appartenere
al fato. Se qui rispondete che fato è da dirsi piuttosto questa stessa bene-
volenza di Dio con la quale non segue i meriti, ma per gratuita bontà elar-
140

fatum potius esse dicendum, cum hanc Apostolus gratiam vocet, dicens:
Gratia salvi facti estis per fidem et hoc non ex vobis, sed Dei donum
est, non ex operibus, ne forte quis extollatur; nonne adtenditis, nonne
perspicitis non a nobis divinae gratiae nomine fatum asseri, sed a vobis
potius divinam gratiam fati nomine nuncupari?
8. 17. Iam nunc videamus, ut possumus, hoc ipsum, quod volunt pra-
ecedere in homine, ut adiutorio gratiae dignus habeatur etcui merito
eius non tamquam indebita tribuatur, sed debita gratia retribuatur ac sic
gratia iam non sit gratia, videamus tamen quid illud sit. Sub nomine,
inquiunt, gratiae ita fatum asserunt, ut dicant, quia nisi invito et reluc-
tanti homini inspiraverit boni et ipsius imperfecti cupiditatem, nec a
malo declinare, nec bonum possit arripere. Iam de fato et gratia quam
inania loquantur ostendimus. Nunc illud est, quod debemus advertere,
utrum invito et reluctanti homini Deus inspiret boni cupiditatem ut iam
non sit reluctans, non sit invitus, sed consentiens bono et volens bonum.
Isti enim volunt in homine ab ipso nomine incipere cupiditatem boni,
ut huius coepti meritum etiam perficiendi gratia consequatur. Si tamen
hoc saltem volunt; Pelagius enim “facilius” dicit impleri quod bonum
est, si adiuvet gratia. Quo additamento, id est addendo “facilius”, utique
significat hoc se sapere, quod, etiamsi gratiae defuerit adiutorium, potest
quamvis difficilius impleribonum per liberum arbitrium. Sed isti quid in
hac re sentiant, non de illo auctore huius haeresis praescribamus – per-
mittamus eos cum suo libero arbitrio esse liberos et ab ipso Pelagio –
atque ista verba eorum, quae in hac cui respondemus epistula posuerunt,
potius attendamus.

LIBER TERTIUS
8. 24. Et liberum arbitrium captivatum nonnisi ad peccatum valet, ad
iustitiam vero, nisi divinitus liberatum adiutumque, non valet.
9. 25 Item quod arbitrium in malo liberum dicimus ad agendum bonum
gratia Dei esse liberandum, contra Pelagianos est, quod autem dicimus
ab illo exortum, quod antea non erat malum, contra Manichaeos est.
141

gisce beni non dovuti, mentre l’Apostolo la chiama grazia dicendo: Per
questa grazia siete salvi mediante la fede, e ciò non viene da voi, ma è
dono di Dio, né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene [Ef
2, 8-9], non avvertite, non capite che non siamo noi a dare al fato il nome
di grazia divina, ma voi piuttosto a dare alla grazia divina il nome di fato?
8. 17. Vediamo ora, come possiamo, il merito stesso che costoro vogliono
far precedere nell’uomo, perché egli sia ritenuto degno dell’aiuto della gra-
zia e perché al suo merito la grazia non sia data come non dovuta, ma sia
pagata come dovuta, e così la grazia non sia più grazia: vediamo comunque
che cosa sia questo merito. Scrivono: Sotto il nome di grazia asseriscono il
fato, tanto da dire che se Dio non ispira all’uomo svogliato e riluttante il
desiderio del bene, anche dello stesso bene imperfetto, egli non può né star
lontano dal male, né arrivare a fare il bene. Del fato e della grazia abbiamo
già mostrato come parlino a vanvera: il problema al quale dobbiamo volgere
ora l’attenzione è se sia Dio ad ispirare all’uomo svogliato e riluttante il desi-
derio del bene, così da farlo cessare d’essere riluttante e d’essere svogliato,
ma farlo volgere al bene e fargli volere il bene. Costoro infatti vogliono che
il desiderio del bene nell’uomo cominci dall’uomo stesso e che al merito
di questo inizio segua la grazia di fare il bene perfettamente: se tuttavia
vogliono almeno questo. Infatti Pelagio dice che con l’aiuto della grazia il
bene si compie più facilmente. Con la quale aggiunta, cioè aggiungendo
“più facilmente”, fa capire che la sua convinzione è questa: anche se manca
l’aiuto della grazia, si può, sebbene con più difficoltà, fare il bene per mezzo
del libero arbitrio. Ma quale sia la loro dottrina su questo argomento non lo
prescriviamo dal fondatore di tale eresia: concediamo che essi sono con il
loro libero arbitrio liberi anche dallo stesso Pelagio e attendiamo piuttosto
a coteste loro parole poste in questa lettera, alla quale stiamo rispondendo.

LIBRO TERZO
8. 24 E il libero arbitrio, diventato schiavo, non vale che a peccare; per
la giustizia invece non vale, se non è liberato e aiutato da Dio.
9. 25 Così la nostra affermazione che l’arbitrio umano, libero nel male,
dev’essere liberato dalla grazia di Dio a fare il bene, è contro i pelagiani;
ma la nostra affermazione che dal libero arbitrio è sorto il male che
prima non esisteva, è contro i manichei.
Agostino

La grazia e il libero arbitrio*


(2.2; 4; 4.6; 5.10; 11; 6.13; 10.22; 11.23; 12.24; 13.25; 26;
14.27; 28)

*
La traduzione italiana e il testo latino riproducono quelli dell’edizione di A.
Trapè-M. Palmieri-F. Monteverde (a cura di), Opere di sant’Agostino, Grazia e
libertà, Nuova Biblioteca Agostiniana XX, Roma 1987, pp. 1-95.
http://www.augustinus.it/italiano/grazia_libero_arbitrio/index.htm
2. 2. Revelavit autem nobis per Scripturas suas sanctas, esse in homine
liberum voluntatis arbitrium. Quomodo autem revelaverit, commemoro
vos, non humano eloquio, sed divino. Primum, quia ipsa divina praecepta
homini non prodessent, nisi haberet liberum voluntatis arbitrium, quo
ea faciens ad promissa praemia perveniret. Ideo enim data sunt, ut
homo excusationem de ignorantia non haberet, sicut Dominus dicit in
Evangelio de Iudaeis: Si non venissem et locutus eis fuissem, peccatum
non haberent: nunc autem excusationem non habent de peccato suo. De
quo peccato dicit, nisi de illo magno, quod praesciebat eorum futurum
quando ista dicebat, id est, quo eum fuerant occisuri? Neque enim
nullum habebant peccatum, antequam Christus venisset in carne ad eos.
Item dicit Apostolus: Revelatur ira Dei de caelo in omnem impietatem
et iniustitiam hominum eorum, qui veritatem in iniquitate detinent: quia
quod notum est Dei, manifestum est in illis: Deus enim illis manifestavit.
Invisibilia enim eius, a creatura mundi, per ea quae facta sunt, intellecta
conspiciuntur; sempiterna quoque virtus eius ac divinitas, ut sint
inexcusabiles. Quomodo dicit inexcusabiles, nisi de illa excusatione
qua solet dicere humana superbia: Si scissem, fecissem; ideo non feci
quia nescivi”? aut: “Si scirem, facerem; ideo non facio, quia nescio”?
Haec eis excusatio tollitur, quando praeceptum datur, vel scientia non
peccandi manifestatur.
2. 4. Quid illud, quod tam multis locis omnia mandata sua custodiri
et fieri iubet Deus? quomodo iubet, si non est liberum arbitrium? Quid
beatus ille, de quo Psalmus dicit, quod in lege Domini fuit voluntas
eius? nonne satis indicat voluntate sua hominem in lege Dei consistere?
Deinde tam multa mandata, quae ipsam quodammodo nominatim
conveniunt voluntatem, sicut est: Noli vinci a malo; et alia similia,
sicut sunt: Nolite fieri sicut equus et mulus, quibus non est intellectus;
2. 2. D’altra parte per mezzo delle Scritture sue sante ci ha rivelato che
c’è nell’uomo il libero arbitrio della volontà. In qual maniera poi lo abbia
rivelato, ve lo ricordo non con le mie parole umane, ma con quelle divine.
In primo luogo gli stessi precetti divini non gioverebbero all’uomo, se
egli non avesse il libero arbitrio della propria volontà per mezzo del
quale adempie questi precetti e giunge quindi ai premi promessi. Infatti
essi sono stati dati per questo, perché l’uomo non potesse addurre la giu-
stificazione dell’ignoranza, come il Signore dice nel Vangelo riguardo ai
Giudei: Se io non fossi venuto e non avessi parlato a loro, non avrebbero
alcun peccato; ma ora non hanno giustificazioni per il peccato [Gv 15,
22]. Di quale peccato parla, se non di quello grande che Egli, pronun-
ciando queste parole, già prevedeva in loro, cioè quello della sua ucci-
sione? E infatti non erano certo privi di ogni peccato prima che Cristo
venisse presso di essi fatto carne. È così che dice l’Apostolo: Si discopre
l’ira di Dio dal cielo contro ogni empietà e ingiustizia di quegli uomini
che imprigionano la verità nella scelleratezza, perché ciò che di Dio è
noto, è loro svelato; infatti Dio lo manifestò ad essi. Le sue perfezioni
invisibili, a partire dalla creazione del mondo, per mezzo delle opere
che sono state compiute, si scorgono attraverso l’intelletto; ed anche
la sua sempiterna potenza e divinità, così che sono inescusabili [Rm 1,
18-20]. In quale senso può dire inescusabili, se non riferendosi a quella
scusa che l’umana superbia ha l’abitudine di addurre: “Se avessi saputo,
lo avrei fatto; non l’ho fatto appunto perché non lo sapevo”? Oppure: “Se
sapessi, lo farei; non lo faccio appunto perché non so”? Ma questa scusa
viene loro sottratta, quando si formula un precetto o quando s’imparti-
scono le cognizioni per non peccare.
2. 4. E che significa il fatto che Dio ordina in tanti passi di osservare
e di compiere tutti i suoi precetti? Come lo può ordinare, se non c’è
il libero arbitrio? E quel beato di cui il Salmo dice che la sua volontà
fu nella legge del Signore [Sal 1, 2], non chiarisce forse abbastanza
che l’uomo perdura di propria volontà nella legge di Dio? E poi sono
tanto numerosi i precetti che in un modo o nell’altro fanno riferimento
nominale proprio alla volontà, come per esempio: Non voler essere
vinto dal male [Rm 12, 21]; e altri simili, come: Non vogliate diventare
come il cavallo e il mulo, che non possiedono l’intelletto [Sal 31, 9];
146

et: Noli repellere consilia matris tuae; et: Noli esse sapiens apud te
ipsum; et: Noli deficere a disciplina Domini; et: Noli negligere legem; et:
Noli abstinere bene facere egenti; et: Noli fabricare in amicum tuum mala;
et: Noli intendere fallaci mulieri; et: Noluit intellegere ut bene ageret; et:
Noluerunt accipere disciplinam: et innumerabilia talia in veteribus Libris
divinorum eloquiorum quid ostendunt, nisi liberum arbitrium voluntatis
humanae? In Libris etiam novis evangelicis et apostolicis, quid aliud
ostenditur, ubi dicitur: Nolite vobis condere thesauros in terra; et: Nolite
timere eos qui occidunt corpus; et: Qui vult venire post me, abneget
semetipsum; et: Pax in terra hominibus bonae voluntatis; et quod dicit
apostolus Paulus: Quod vult faciat, non peccat si nubat: qui autem statuit
in corde suo, non habens necessitatem, potestatem autem habens suae
voluntatis, et hoc statuit in corde suo, servare virginem suam, bene
facit. Item dicit: Si autem volens, hoc facio, mercedem habeo; et alio
loco: Sobrii estote iuste, et nolite peccare; et iterum: Ut quemadmodum
promptus est animus voluntatis, ita sit et perficiendi. Et ad Timotheum
dicit: Cum enim in deliciis egerint in Christo, nubere volunt; et alibi:
Sed et omnes qui pie volunt vivere in Christo Iesu, persecutionem
patientur; et ipsi Timotheo: Noli negligere gratiam quae in te est. Et ad
Philemonem: Ne bonum tuum velut ex necessitate esset, sed ex voluntate.
Servos etiam ipsos monet, ut dominis suis ex animo serviant cum bona
voluntate. Item Iacobus: Nolite itaque errare, fratres mei, et nolite in
personarum acceptione habere fidem Domini nostri Iesu Christi; et:
Nolite detrahere de alterutro. Item Ioannes in Epistola sua: Nolite diligere
mundum; et cetera huiusmodi. Nempe ubi dicitur: Noli hoc, et noli
illud, et ubi ad aliquid faciendum vel non faciendum in divinis monitis
147

poi: Non voler respingere i consigli della madre tua [Pr 1, 8]; e: Non
voler essere saggio di fronte a te stesso [Pr 3, 7]; Non voler trascurare la
disciplina del Signore [Pr 3, 11]; Non voler dimenticare la legge [Pr. 3, 1;
4, 2]; Non voler fare a meno di beneficare chi ha bisogno [Pr 3, 27 ]; Non
voler macchinare cattiverie contro il tuo amico [Pr 3, 29]; Non voler
dar retta alla donna maliziosa [Pr 5, 2]; Non ha voluto apprendere ad
agire bene [Sal 34, 4]; Non vollero accettare la disciplina [Pr 1, 29]. Gli
innumerevoli passi di questo genere nei Testi antichi della parola divina
che cosa dimostrano, se non il libero arbitrio della volontà umana? E
anche i nuovi Libri dei Vangeli e degli Apostoli è proprio questo che
rendono chiaro, quando dicono: Non vogliate ammucchiarvi tesori sulla
terra [Mt 6, 19]; e: Non vogliate temere coloro che uccidono il corpo
[Mt 10, 28]; Chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso [Mt 16, 24;
Lc 9, 23]; Pace in terra agli uomini di buona volontà [Lc 2, 14]. E anche
l’apostolo Paolo dice: Faccia quello che vuole, non pecca se sposa; ma
chi ha preso una risoluzione nel suo cuore, non avendo necessità, ma
anzi piena padronanza del proprio volere, e questo ha stabilito, di con-
servare la sua vergine, fa bene [1Cor 7, 36-37]. Alla stessa maniera dice
ancora: Se faccio ciò volontariamente, ne ricevo ricompensa [1Cor 9,
17]; e in un altro passo: Siate sobri giustamente, e non vogliate peccare
[1Cor 15, 34]; poi: Come l’animo è pronto a volere, così lo sia anche
nell’adempiere [2Cor 8, 11]. E a Timoteo dice: Infatti dopo che hanno
vissuto in Cristo fra le delicatezze, vogliono sposarsi [1Tm 5, 11]; e
altrove: Ma anche tutti coloro che vogliono vivere pienamente in Cri-
sto Gesù, soffriranno persecuzione [2Tm 3, 12]; e a Timoteo personal-
mente: Non voler trascurare la grazia che è in te [1Tm 4, 14]; e a File-
mone: Affinché il tuo beneficio non provenisse come da una necessità ma
dalla tua volontà [Fm 14]. Ammonisce anche gli stessi schiavi a servire
i propri padroni di cuore e con buona volontà [Ef 6, 6-7]. Parimenti Gia-
como esorta: Non vogliate dunque errare, fratelli miei, e mettere la fede
del nostro Signore Gesù Cristo in relazione a riguardi personali [Gc 2,
1]; e: Non vogliate dir male l’uno dell’altro [Gc 4, 11]. Allo stesso modo
dice Giovanni nella sua epistola: Non vogliate amare il mondo [1Gv 2,
15]; e così tutti gli altri passi di tal genere. Quindi certamente quando
si dice: Non volere questo o non volere quello, e quando negli ammoni-
148

opus voluntatis exigitur, satis liberum demonstratur arbitrium. Nemo


ergo Deum causetur in corde suo, sed sibi imputet quisque, cum peccat.
Neque cum aliquid secundum Deum operatur, alienet hoc a propria
voluntate. Quando enim volens facit, tunc dicendum est opus bonum,
tunc speranda est boni operis merces ab eo, de quo dictum est: Qui
reddet unicuique secundum opera sua.
4. 6. Sed metuendum est ne ista omnia divina testimonia, et quaecumque
alia sunt, quae sine dubitatione sunt plurima, in defensione liberi arbitrii,
sic intellegantur, ut ad vitam piam et bonam conversationem, cui merces
aeterna debetur, adiutorio et gratiae Dei locus non relinquatur; et audeat
miser homo, quando bene vivit et bene operatur, vel potius bene vivere
et bene operari sibi videtur, in se ipso, non in Domino gloriari, et spem
recte vivendi in se ipso ponere, ut sequatur eum maledictum Ieremiae
prophetae dicentis: Maledictus homo qui spem habet in homine, et firmat
carnem brachii sui, et a Domino discedit cor eius. Intellegite, fratres, hoc
propheticum testimonium. Quia enim non dixit Propheta: Maledictus
homo qui spem habet in se ipso, posset alicui videri ideo dictum esse:
Maledictus homo qui spem habet in homine, ut nemo habeat spem in
altero homine, sed in se. Ut ergo ostenderet sic se admonuisse hominem,
ut nec in se ipso haberet spem, propterea cum dixisset: Maledictus
homo qui spem habet in homine, mox addidit: et firmat carnem brachii
sui. Brachium pro potentia posuit operandi. In nomine autem carnis
intellegenda est humana fragilitas. Ac per hoc firmat carnem brachii
sui, qui potentiam fragilem atque invalidam, id est humanam, sibi
sufficere ad bene operandum putat, nec adiutorium sperat a Domino.
Propterea subiecit: et a Domino discedit cor eius. Talis est haeresis
pelagiana, non antiqua, sed ante non multum tempus exorta: contra quam
haeresim cum fuisset diutius disputatum, etiam ad concilia episcopalia
149

menti divini a fare o a non fare qualcosa si richiede l’opera della volontà,
il libero arbitrio risulta sufficientemente dimostrato. Nessuno dunque,
quando pecca, accusi Dio nel suo cuore, ma ciascuno incolpi se stesso; e
quando compie un atto secondo Dio, non ne escluda la propria volontà.
Quando infatti uno agisce di proprio volere, è allora che bisogna parlare
di opera buona ed è allora che per quest’opera buona bisogna sperare la
ricompensa da Colui del quale è detto: Renderà a ciascuno secondo le
sue opere [Mt 16, 27; Rm 2, 6; Ap 22, 12].
4. 6. C’è però un pericolo: tutte queste testimonianze divine in difesa
del libero arbitrio, e quante altre ve ne sono, senza alcun dubbio nume-
rosissime, potrebbero essere intese in maniera tale da non lasciare spa-
zio all’aiuto e alla grazia di Dio, necessari per la vita pia e le buone
pratiche alle quali è dovuta la mercede eterna. Inoltre l’uomo nella sua
miseria, quando vive bene e opera bene, o piuttosto si crede di vivere
bene ed operare bene, potrebbe gloriarsi in se stesso e non nel Signore
e riporre nella sua persona la speranza di vivere rettamente; allora lo
coglierebbe la maledizione del profeta Geremia, che dice: Maledetto
l’uomo che ha sperato nell’uomo e fa forza nella carne del braccio suo,
mentre il suo cuore si allontana dal Signore [Ger 17, 5]. Comprendete,
o fratelli, questa testimonianza del Profeta. Dato infatti che egli non
ha detto: Maledetto l’uomo che ha speranza in se stesso, a qualcuno
potrebbe sembrare che l’espressione: Maledetto l’uomo che ha speranza
nell’uomo, vada presa nel senso che nessuno deve avere speranza in un
altro uomo, ma in se stesso sì. Dunque, per mostrare che l’avvertimento
per l’uomo è di non avere speranza neppure in se stesso, se prima ha
detto: Maledetto l’uomo che ha speranza nell’uomo, poi aggiunge: e fa
forza nella carne del braccio suo. Ha messo braccio per «potenza di
operare». Ma nel termine carne bisogna intendere la fragilità umana; e
per questo fa forza sulla carne del braccio suo chi pensa che una potenza
fragile e debole, come quella umana, gli sia sufficiente per bene operare
e non spera aiuto nel Signore. Proprio perciò aggiunge: e il suo cuore
si allontana dal Signore. Di questo genere è l’eresia pelagiana, che non
è di quelle antiche, ma è sorta non molto tempo fa; contro questa ere-
sia, dopo che si è disputato tanto a lungo, c’è stato bisogno di ricor-
rere ultimamente anche a concili episcopali, per cui ho voluto inviarvi
150

novissima necessitate perventum est; unde vobis, non quidem omnia,


sed tamen aliqua legenda direxi. Nos ergo ad bene operandum spem non
habeamus in homine, firmantes carnem brachii nostri: nec a Domino
discedat cor nostrum; sed ei dicat: Adiutor meus esto, ne derelinquas me,
neque despicias me, Deus salutaris meus.
5. 10. Cum dicit Deus: Convertimini ad me, et convertar ad vos, unum
horum videtur esse nostrae voluntatis, id est, ut convertamur ad eum;
alterum vero ipsius gratiae, id est, ut etiam ipse convertatur ad nos. Ubi
possunt putare pelagiani suam obtinere sententiam, qua dicunt gratiam
Dei secundum merita nostra dari. Quod quidem in Oriente, hoc est, in
provincia Palaestina, in qua est civitas Ierusalem, cum ipse Pelagius ab
episcopis audiretur, affirmare non ausus est. Nam inter caetera quae illi
obiecta sunt, et hoc obiectum est quod diceret gratiam Dei secundum
merita nostra dari: quod sic alienum est a catholica doctrina et inimicum
gratiae Christi, ut nisi hoc obiectum sibi anathemasset, ipse inde
anathematus exisset. Sed fallaciter eum anathemasse, posteriores eius
indicant libri, in quibus omnino nihil aliud defendit, quam gratiam Dei
secundum merita nostra dari. Talia ergo de Scripturis colligunt, quale est
hoc unum quod paulo ante dixi: Convertimini ad me, et convertar ad vos,
ut secundum meritum conversionis nostrae ad Deum, detur gratia eius,
in qua ad nos et ipse convertitur. Nec attendunt qui hoc sentiunt, quia nisi
donum Dei esset etiam ipsa ad Deum nostra conversio, non ei diceretur:
Deus virtutum, converte nos; et: Deus, tu convertens vivificabis nos;
et: Converte nos, Deus sanitatum nostrarum; et huiusmodi alia, quae
commemorare longum est. Nam et venire ad Christum, quid est aliud
nisi ad eum credendo converti? Et tamen ait: Nemo potest venire ad me,
nisi datum fuerit ei a Patre meo.
5. 11. Item quod scriptum est in libro secundo Paralipomenon: Dominus
vobiscum, cum vos estis cum eo, et si quaesieritis eum, invenietis;
151

una relazione non certo di tutti gli argomenti, ma almeno di qualche


parte. Dunque noi per il bene operare non dobbiamo riporre la speranza
nell’uomo, facendo forza sulla carne del braccio nostro, e il nostro cuore
non si deve allontanare dal Signore, anzi gli dica: Sii il mio sostegno,
non abbandonarmi e non spregiarmi, Dio, salvatore mio [Sal 26, 9].
5. 10. Quando Dio dice: Rivolgetevi verso di me e io mi rivolgerò verso
di voi [Zc 1, 3], uno dei due elementi sembra essere quello della nostra
volontà, per cui siamo noi che dobbiamo rivolgerci verso di lui; l’altro
invece sembra essere la grazia, per cui anch’egli da parte sua si rivolge
verso di noi. E proprio qui i pelagiani possono pensare di veder compro-
vata la loro opinione, in base alla quale sostengono che la grazia di Dio è
concessa secondo i nostri meriti. Ma in realtà questo non osò affermarlo
neppure Pelagio, quando in Oriente, cioè nella provincia della Pale-
stina dove si trova la città di Gerusalemme, fu ascoltato in persona dai
vescovi. Infatti tra le altre obiezioni che gli furono avanzate gli fu messa
di fronte la sua affermazione che la grazia di Dio è assegnata secondo i
nostri meriti; ma ciò è così alieno dalla dottrina cattolica e così contra-
rio alla grazia di Cristo, che se egli non avesse rivolto da solo l’anatema
contro questa tesi, sarebbe uscito di lì colpito da anatema lui stesso. Ma
che egli avesse emesso una condanna bugiarda lo rivelano i suoi libri
successivi, nei quali non sostiene assolutamente nient’altro se non che
la grazia di Dio è assegnata secondo i nostri meriti. Infatti i pelagiani
raccolgono dalle Scritture i passi del genere di questo che ho già ricor-
dato in particolare: Rivolgetevi verso di me e io mi rivolgerò verso di voi,
interpretandoli nel senso che secondo il merito della nostra conversione
a lui ci è data la grazia nella quale anch’egli si rivolge a noi. Ma quelli
che pensano ciò non riflettono che se anche la nostra stessa conversione a
Dio non fosse un dono, non si direbbe a lui: Dio delle virtù, convertici a
te [Sal 79, 8]; e: Dio, tu convertendoci a te ci vivificherai; e: Convertici a
te, Dio della nostra salvezza [Sal 84, 7. 5]; e altri passi di questo genere,
che sarebbe lungo ricordare. Infatti anche venire a Cristo che altro è se
non rivolgersi a lui per credere? Eppure egli dice: Nessuno può venire a
me, se non gli è stato concesso dal Padre mio [Gv 6, 66].
5. 11. Allo stesso modo quello che è scritto nel libro secondo dei Para-
lipomeni: Il Signore è con voi quando siete con lui, e se lo cercherete lo
152

si autem reliqueritis eum, derelinquet vos, manifestat quidem voluntatis


arbitrium. Sed illi qui dicunt gratiam Dei secundum merita nostra dari,
ista testimonia sic accipiunt, ut dicant meritum nostrum in eo esse, quod
sumus cum Deo; eius autem gratiam secundum hoc meritum dari, ut sit
et ipse nobiscum. Item meritum nostrum in eo esse, quod quaerimus
eum; et secundum hoc meritum dari eius gratiam, ut inveniamus eum. Et
in libro primo quod dictum est: Et tu, Salomon fili mi, cognosce Deum, et
servi ei in corde perfecto et anima volente; quia omnia corda scrutatur
Dominus, et omnem cogitationem mentium novit; si quaesieris eum,
invenietur tibi; et si dimiseris eum, repellet te in perpetuum, declarat
voluntatis arbitrium. Sed illi in eo ponunt meritum hominis, quod
dictum est: si quaesieris eum; et secundum hoc meritum dari gratiam,
in eo quod dictum est: invenietur tibi; et omnino laborant, quantum
possunt, ostendere gratiam Dei secundum merita nostra dari: hoc est,
gratiam non esse gratiam. Quibus enim secundum meritum redditur,
non imputatur merces secundum gratiam, sed secundum debitum, sicut
apertissime dicit Apostolus.
6. 13. His et talibus testimoniis divinis probatur, gratiam Dei non
secundum merita nostra dari: quandoquidem non solum nullis bonis,
verum etiam multis meritis malis praecedentibus videmus datam, et
quotidie dari videmus. Sed plane cum data fuerint, incipiunt esse etiam
merita nostra bona, per illam tamen: nam si se illa subtraxerit, cadit homo,
non erectus, sed praecipitatus libero arbitrio. Quapropter nec quando
coeperit homo habere merita bona, debet sibi tribuere illa, sed Deo, cui
dicitur in Psalmo: Adiutor meus esto, ne derelinquas me. Dicendo: ne
derelinquas me, ostendit quia si derelictus fuerit, nihil boni valet ipse
per se: unde et ille ait: Ego dixi in abundantia mea: Non movebor in
aeternum. Putaverat enim suum fuisse bonum, quod ei sic abundabat,
ut non moveretur; sed ut ostenderetur illi, cuius esset illud, de quo
153

troverete; ma se lo lascerete vi abbandonerà [2Cr 15, 2], indica certo


chiaramente l’arbitrio della volontà. Ma quelli che sostengono che la gra-
zia di Dio è data secondo i nostri meriti, prendono queste testimonianze
in altro senso e dicono che il nostro merito consiste in questo, che siamo
con Dio; e secondo questo merito ci è concessa la sua grazia affinché
anch’egli sia con noi. Allo stesso modo il nostro merito è nel fatto che
lo cerchiamo; e secondo questo merito ci è concessa la sua grazia, affin-
ché lo troviamo. Anche le espressioni del libro primo: E tu, Salomone,
figlio mio, riconosci Iddio, e servilo in perfezione di cuore e con anima
volenterosa, perché il Signore scruta tutti i cuori e conosce ogni pen-
siero della mente; se lo cercherai, ti si rivelerà, e se lo abbandonerai, ti
respingerà in perpetuo [1Cr 28, 9], dimostrano con evidenza l’arbitrio
della volontà. Ma essi scorgono il merito dell’uomo nelle parole: se lo
cercherai, e vedono la grazia concessa secondo questo merito, in quanto
è detto: ti si rivelerà. E si danno da fare in tutte le maniere possibili a
dimostrare che la grazia di Dio è concessa secondo i nostri meriti: in
definitiva che la grazia non è grazia. Infatti per quelli ai quali si rende
secondo il merito, la mercede non è computata secondo la grazia, ma
secondo il debito [Rm 4, 4], come chiarissimamente dice l’Apostolo.
6. 13. Da queste testimonianze divine è provato che la grazia di Dio non
è concessa secondo i nostri meriti, dal momento che la vediamo attribuita
non solo senza che uno abbia meritato precedentemente in senso buono,
ma anche dopo che abbia meritato numerose volte in senso cattivo. Anzi
possiamo costatare che proprio in questo modo viene data ogni giorno.
Chiaramente una volta che è stata data, allora cominciamo ad acquisire
anche meriti nel bene, ma sempre attraverso di essa; infatti se essa ci si
sottrae, l’uomo cade, non innalzato, ma abbattuto dal libero arbitrio. Per
questa ragione neppure quando l’uomo ha cominciato ad avere meriti nel
bene deve attribuirli a se stesso, bensì a Dio, a cui si dice nel Salmo: Sii
il mio sostegno, non abbandonarmi [Sal 26, 9]. Se dice: Non abbando-
narmi, dimostra che se sarà abbandonato, egli di per se stesso non sarà più
capace di alcun bene; per cui dice ancora: Io dissi nella mia prosperità:
Non vacillerò in eterno [Sal 29, 7]. Egli aveva pensato che a lui appar-
tenesse il bene di cui abbondava a tal punto da non vacillare; ma perché
gli fosse rivelato a chi apparteneva ciò di cui aveva cominciato a gloriarsi
154

tamquam suo coeperat gloriari, paululum gratia deserente admonitus


dicit: Domine, in voluntate tua praestitisti decori meo virtutem; avertisti
autem faciem tuam a me, et factus sum conturbatus. Ideo necessarium
est homini, ut gratia Dei non solum iustificetur impius, id est, ex impio
fiat iustus, cum redduntur ei bona pro malis, sed etiam cum fuerit iam
iustificatus ex fide, ambulet cum illo gratia, et incumbat super ipsam ne
cadat. Propter hoc scriptum est in Cantico Canticorum de ipsa Ecclesia:
Quae est ista quae ascendit dealbata, incumbens super fratruelem
suum? Dealbata est enim quae per se ipsam alba esse non posset. Et a
quo dealbata est, nisi ab illo, qui per Prophetam dicit: Si fuerint peccata
vestra ut phoenicium, sicut nivem dealbabo? Quando ergo dealbata est,
nihil boni merebatur; iam vero alba facta, bene ambulat; sed si super
eum a quo dealbata est, perseveranter incumbat. Propter quod et ipse
Iesus, super quem incumbit dealbata, dixit discipulis suis: Sine me nihil
potestis facere.
10. 22. Itaque, fratres, debetis quidem per liberum arbitrium non
facere mala, et facere bona: hoc enim nobis lex Dei praecipit in Libris
sanctis, sive Veteribus, sive Novis; sed legamus et adiuvante Domino
intellegamus Apostolum dicentem: Quia non iustificabitur ex lege omnis
caro coram illo: per legem enim cognitio peccati. Cognitio dixit, non:
Consumptio. Quando autem cognoscit homo peccatum, si non adiuvat
gratia ut cognitum caveatur, sine dubio lex iram operatur. Quod alio loco
ipse Apostolus dicit, ipsius enim verba sunt: Lex iram operatur. Hoc autem
dixit, quia ira Dei maior est in praevaricatore, qui per legem cognoscit
peccatum, et tamen facit: talis quippe homo praevaricator est legis, sicut et
in alio loco dicit: Ubi enim lex non est, nec praevaricatio est. Propter hoc
et alibi ait: Ut serviamus in novitate spiritus, et non in vetustate litterae:
155

come fosse suo, la grazia l’abbandonò appena un poco ed egli, rac-


colto l’ammonimento, disse: Signore, nella tua volontà prestasti al mio
onore la potenza, ma distogliesti da me il tuo volto e io sono stato
confuso [Sal 29, 8]. Perciò all’uomo, se è empio, non solo è necessario
essere giustificato dalla grazia di Dio, cioè passare dall’empietà alla
giustizia, quando gli viene reso bene per male, ma anche quando sia
già stato giustificato in seguito alla fede, è necessario che la grazia
cammini con lui, ed egli si appoggi su di essa per non cadere. Per que-
sto è scritto nel Cantico dei Cantici proprio riguardo alla Chiesa: Chi
è questa che viene, resa candida, appoggiandosi al suo diletto? [Ct 8,
5] È stata resa candida quella che non potrebbe esserlo per se stessa. E
da chi è stata resa candida, se non da Colui che per bocca del Profeta
dice: Se i vostri peccati saranno come scarlatto, io li renderò candidi
come neve? [Is 1, 18] Quando ella è stata resa candida, non meritava
alcun bene, ma ormai resa candida procede rettamente, purché tuttavia
si appoggi con perseveranza sopra Colui dal quale è stata resa candida.
È per questo che anche Gesù stesso, sul quale si appoggia quella che
è stata resa candida, disse ai suoi discepoli: Senza di me nulla potete
fare [Gv 15, 5].
10. 22. Allora, fratelli, voi attraverso il libero arbitrio dovete appunto
non fare il male e compiere il bene: è questo che ci prescrive la legge di
Dio nei Libri santi, sia dell’Antico, sia del Nuovo Testamento. Ma leg-
giamoli e con l’aiuto del Signore cerchiamo di capire l’Apostolo quando
dice: Perché nessun essere umano sarà giustificato per mezzo della legge
davanti a lui; anzi per mezzo della legge si ha la cognizione del peccato
[Rm 3, 20]. Ha detto la cognizione, non l’abolizione. Ma quando l’uomo
conosce il peccato, se non interviene l’aiuto della grazia a fargli evitare
ciò che ormai conosce, senza dubbio la legge provoca lo sdegno. Proprio
questo dice l’Apostolo in persona in un altro passo; e queste sono parole
sue: La legge provoca lo sdegno. Così si è espresso perché l’ira di Dio
è più forte nei confronti del trasgressore, che conosce per mezzo della
legge il peccato e tuttavia lo commette; è appunto in questo caso che
l’uomo è un trasgressore della legge, come spiega in un altro passo: Dove
non c’è legge, non c’è neppure trasgressione [Rm 4, 15]. Per questo
è detto anche altrove: Affinché serviamo nella novità dello spirito, non
156

legem volens intellegi litterae vetustatem, novitatem vero spiritus quid,


nisi gratiam? Et ne putaretur accusasse legem vel reprehendisse, continuo
sibi opposuit quaestionem, et ait: Quid ergo dicemus? Lex peccatum est?
Absit. Deinde subiunxit: Sed peccatum non cognovi, nisi per legem; hoc
est quod dixerat: Per legem cognitio peccati. Nam concupiscentiam,
inquit, nesciebam, nisi lex diceret: Non concupisces. Occasione
autem accepta, peccatum per mandatum operatum est in me omnem
concupiscentiam: sine lege enim peccatum mortuum est. Ego autem
aliquando vivebam sine lege; adveniente autem mandato, peccatum
revixit, ego autem mortuus sum, et inventum est mihi mandatum quod
erat in vitam, hoc esse in mortem; peccatum enim occasione accepta
per mandatum fefellit me, et per illud occidit. Itaque lex quidem sancta,
et mandatum sanctum, et iustum, et bonum. Quod ergo bonum est,
mihi factum est mors? Absit. Sed peccatum ut appareat peccatum, per
bonum mihi operatum est mortem, ut fiat supra modum peccator aut
peccatum per mandatum. Et ad Galatas dicit: Scientes autem quoniam
non iustificatur homo ex operibus legis nisi per fidem Iesu Christi, et
nos in Christo Iesu credidimus, ut iustificemur ex fide Christi, et non ex
operibus legis, quoniam ex operibus legis non iustificabitur omnis caro.
11. 23. Quid est ergo quod vanissimi homines et perversissimi pelagiani
legem dicunt esse Dei gratiam, qua iuvamur ad non peccandum?
Quid est miseri quod dicunt, qui sine ulla dubitatione tanto Apostolo
contradicunt? Ille dicit peccatum vires adversus hominem accepisse per
legem, et eum per mandatum, quamvis sanctum et iustum et bonum,
tamen occidere, et per bonum operari ei mortem, de qua non liberaretur,
nisi vivificaret spiritus eum, quem littera occiderat, sicut alio loco dicit:
Littera occidit, spiritus autem vivificat: et isti indociles contra lucem
Dei caeci, et contra vocem Dei surdi, occidentem litteram vivificare
157

nell’antichità della lettera [Rm 7, 6]; con l’espressione: l’antichità della


lettera vuol fare intendere la legge, ma la novità dello spirito che cos’è se
non la grazia? E per non far pensare che egli voglia accusare o riprendere
la legge, subito si pone la domanda: Dunque che diremo? Che la legge è
peccato? Nemmeno lontanamente. E continua: Ma non ho conosciuto il
peccato se non per mezzo della legge; è la stessa frase che aveva già detto:
Per mezzo della legge si ha la cognizione del peccato. Infatti – dice – io
non avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non dicesse: Non
desiderare. Ma colta l’occasione, il peccato attraverso questo precetto
ha operato in me ogni concupiscenza; effettivamente senza la legge il
peccato è morto. Io un tempo senza la legge vivevo; ma, sopraggiunto il
precetto, il peccato è risorto, e io perdetti la vita; il precetto che aveva
per scopo la vita si trovò per me a risolversi nella morte; il peccato
infatti, colta l’occasione, attraverso il precetto mi ha tratto in fallo e per
mezzo di quello mi ha ucciso. Pertanto la legge è certo santa, e il pre-
cetto è santo, giusto e buono. Dunque ciò che è buono, per me è divenuto
morte? Nemmeno lontanamente. Ma il peccato per manifestarsi come
peccato, attraverso ciò che è buono mi ha prodotto la morte, affinché
attraverso il precetto il peccatore o il peccato oltrepassasse ogni misura
[Rm 7, 7-13]. E ai Galati dice: Sapendo che l’uomo non è giustificato
grazie alle opere della legge, ma solo attraverso la fede in Gesù Cristo,
anche noi abbiamo creduto in Gesù Cristo affinché siamo giustificati
grazie alla fede di Cristo e non grazie alle opere della legge, perché
grazie alle opere della legge nessuno sarà giustificato [Gal 2, 16].
11. 23. Come possono dunque sostenere quegli esseri totalmente vuoti
e del tutto fuorviati che sono i pelagiani, che la legge è la grazia di Dio,
dalla quale riceviamo aiuto per non peccare? Che vanno dicendo quei
miseri, che senza alcuna esitazione osano contraddire la grandezza
dell’Apostolo? Egli dice che il peccato ha ricevuto forza contro l’uomo
proprio dalla legge e che attraverso il precetto, benché santo e giusto
e buono, tuttavia esso lo uccide e per mezzo di ciò che è buono gli pro-
duce la morte; ma dalla morte non si potrebbe liberare, se lo spirito non
vivificasse colui che la lettera ha ucciso. Così altrove dice: La lettera
uccide, lo spirito invece vivifica [2Cor 3, 6]. Ma questi ribelli, ciechi di
fronte alla luce di Dio e sordi di fronte alla sua voce, dicono che la lettera
158

dicunt, et vivificanti spiritui contradicunt. Ergo, fratres, ut ipsius potius


Apostoli verbis vos moneam, debitores sumus non carni, ut secundum
carnem vivamus. Si enim secundum carnem vixeritis, moriemini; si
autem spiritu actiones carnis mortificaveritis, vivetis. Haec dixi, ut
apostolicis verbis liberum arbitrium vestrum a malo deterrerem, et
exhortarer ad bonum; nec tamen ideo debetis in homine, hoc est, in vobis
ipsis, non in Domino gloriari, quando non secundum carnem vivitis, sed
spiritu actiones carnis mortificatis. Ut enim non se extollerent quibus
ista dicebat, existimantes se suo spiritu tanta haec bona opera facere
posse, non Dei, propterea cum dixisset: Si autem spiritu actiones carnis
mortificaveritis, vivetis, continuo subiecit: Quotquot enim Spiritu Dei
aguntur, hi filii sunt Dei. Quando ergo spiritu actiones carnis mortificatis
ut vivatis, illum glorificate, illum laudate, illi gratias agite, cuius Spiritu
agimini ut ista valeatis, ut vos filios Dei esse monstretis. Quotquot enim
Spiritu Dei aguntur, hi filii sunt Dei.
12. 24. Quotquot ergo adiuncto solo adiutorio legis, sine adiutorio
gratiae, confidentes in virtute sua, suo spiritu aguntur, non sunt filii
Dei. Tales sunt de quibus idem dicit Apostolus, quod ignorantes Dei
iustitiam, et suam volentes constituere, iustitiae Dei non sunt subiecti.
De Iudaeis hoc dixit, qui de se praesumentes gratiam repellebant, et in
Christum propterea non credebant. Suam vero iustitiam dicit eos volentes
constituere, quae iustitia est ex lege; non quia lex ab ipsis est constituta,
sed in lege quae ex Deo est, suam iustitiam constituerant, quando
eamdem legem suis viribus se implere posse credebant: ignorantes Dei
iustitiam, non qua iustitia Deus iustus est, sed quae iustitia est homini ex
Deo. Et ut sciatis hanc illum eorum dixisse iustitiam, quae est ex lege,
hanc autem Dei, quae homini est ex Deo, audite quid alio loco dicat,
cum de Christo loqueretur: Propter quem omnia, inquit, non solum
159

invece di uccidere vivifica, e si trovano a contraddire la verità che a vivi-


ficare è lo spirito. Dunque, fratelli, per ammonirvi piuttosto con le parole
stesse dell’Apostolo, noi siamo debitori non alla carne, così da dover vivere
secondo la carne. Se infatti vivrete secondo la carne, morrete; se invece
farete morire le azioni della carne con lo spirito, vivrete [Rm 8, 12-13]. Ho
detto ciò per distogliere dal male il vostro libero arbitrio ed esortarlo al bene
attraverso le parole dell’Apostolo; non per questo tuttavia dovete gloriarvi
nell’uomo, cioè in voi stessi, invece che nel Signore, se non vivete secondo
la carne, ma fate morire le azioni di essa con lo spirito. Infatti non voleva
che quelli ai quali si rivolgeva così si inorgoglissero, pensando di poter fare
opere tanto eccellenti con il loro proprio spirito, invece che con quello di
Dio; e per questo prima dice: Se invece mortificherete le azioni della carne
con lo spirito, vivrete; poi subito aggiunge: Quanti infatti sono guidati dallo
spirito di Dio, questi sono figli di Dio [Rm 8, 14]. Quando dunque mortifi-
cate le azioni della carne con lo spirito affinché abbiate la vita, quello che
glorificate, quello che lodate, quello che ringraziate, è Colui il cui Spirito vi
guida ad essere capaci di tutto questo e a dimostrare di essere figli di Dio.
Quanti infatti sono guidati dallo spirito di Dio, questi sono figli di Dio.
12. 24. Dunque tutti quelli che, aggiungendosi il solo aiuto della legge,
senza quello della grazia, e confidando nelle proprie facoltà sono guidati
dal loro spirito, non sono figli di Dio. A questa categoria appartengono
quelli di cui l’Apostolo dice ancora: Non riconoscendo la giustizia di
Dio, e volendo stabilire la propria, non si sono assoggettati alla giusti-
zia di Dio [Rm 10, 3]. Parla così dei Giudei, i quali per la presunzione
in se stessi rifiutavano la grazia e quindi non credevano in Cristo. Egli
dice che essi volevano stabilire la loro giustizia, che è la giustizia che
proviene dalla legge. Certo la legge non era stata stabilita da essi stessi;
anzi, essi avevano stabilito la propria giustizia nella legge che proviene
da Dio, perché credevano che le loro forze fossero in grado di adempiere
questa medesima legge; con ciò essi non riconoscevano la giustizia di
Dio, cioè non la giustizia di cui è giusto Dio, ma quella che proviene agli
uomini da Dio. E per persuadervi che la loro giustizia è intesa dall’Apo-
stolo come quella che proviene dalla legge e quella di Dio come quella
che da Dio proviene all’uomo, ascoltate ciò che egli dice altrove, par-
lando di Cristo: Per lui ho ritenuto che tutte le cose fossero non solo per-
160

detrimenta esse credidi, verum et stercora existimavi esse, ut Christum


lucrifaciam, et inveniar in illo non habens meam iustitiam quae ex lege
est, sed eam quae est per fidem Christi, quae est ex Deo. Quid est autem:
non habens meam iustitiam quae ex lege est, cum sua non esset lex ipsa,
sed Dei: nisi quia suam dixit iustitiam, quamvis ex lege esset, quia sua
voluntate legem se posse putabat implere sine adiutorio gratiae quae est
per fidem Christi? Ideo cum dixisset: non habens meam iustitiam quae
ex lege est, secutus adiunxit: sed eam quae est per fidem Christi, quae
est ex Deo. Hanc ignorabant, de quibus ait: ignorantes Dei iustitiam, id
est, quae est ex Deo (hanc enim dat non littera occidens, sed vivificans
spiritus), et suam volentes constituere (quam dixit ipse ex lege iustitiam,
cum diceret: non habens meam iustitiam quae ex lege est), iustitiae Dei
non sunt subiecti, hoc est, gratiae Dei non sunt subiecti. Sub lege enim
erant, non sub gratia; et ideo eis dominabatur peccatum, a quo non fit
homo liber lege, sed gratia. Propter quod alibi dicit: Peccatum enim vobis
non dominabitur; non enim estis sub lege, sed sub gratia: non quia lex
mala est, sed quia sub illa sunt quos reos facit iubendo, non adiuvando.
Gratia quippe adiuvat ut legis quisque sit factor, sine qua gratia sub lege
positus tantummodo erit legis auditor. Talibus itaque dicit: Qui in lege
iustificamini, a gratia excidistis.
13. 25. Quis ita sit surdus adversus apostolicas voces, quis ita desipiat,
immo insaniat nesciens quid loquatur, ut audeat dicere, legem esse
gratiam, cum clamet qui sciebat quid loqueretur: Qui in lege iustificamini,
a gratia excidistis? Si autem lex non est gratia, quia ut ipsa lex fiat,
non potest lex adiuvare, sed gratia, numquid natura erit gratia? Nam et
hoc pelagiani ausi sunt dicere, gratiam esse naturam, in qua sic creati
sumus, ut habeamus mentem rationalem, qua intellegere valeamus, facti
161

dite, ma anche immondizie, per guadagnare Cristo e per ritrovarmi in


lui non con la mia giustizia, che proviene dalla legge, ma con quella che
si ha per mezzo della fede in Cristo, che proviene da Dio. Che significa
infatti: Non con la mia giustizia, che proviene dalla legge? [Fil 3, 8-9] La
legge in sé non era sua, ma di Dio, però chiamava sua la giustizia, ben-
ché provenisse dalla legge, perché pensava di poter adempiere quest’ul-
tima con la propria volontà, senza l’aiuto della grazia che si ha per mezzo
della fede in Cristo. Perciò, dopo aver detto: Non con la mia giustizia
che proviene dalla legge, prosegue: ma con quella che si ha per mezzo
della fede in Cristo, che proviene da Dio. Era questa che ignoravano i
Giudei, dei quali dice: non riconoscendo la giustizia di Dio, cioè quella
che proviene da Dio (e questa infatti la dà non la lettera che uccide, ma
lo spirito che vivifica), e volendo stabilire la propria (e questa egli l’ha
chiamata giustizia che proviene dalla legge, quando ha detto: non con
la mia giustizia, che proviene dalla legge), non si sono assoggettati alla
giustizia di Dio, cioè non si sono assoggettati alla grazia di Dio. Infatti
essi erano sotto la legge, non sotto la grazia; e quindi su di essi dominava
il peccato, dal quale non è la legge, ma la grazia che libera l’uomo. Per
questo altrove dice: Allora il peccato non dominerà più su di voi; infatti
non siete più sotto la legge, ma sotto la grazia [Rm 6, 14]; ciò significa
non che la legge sia cattiva, ma che vi sottostanno quelli che essa rende
rei fornendo precetti, ma non soccorsi. La grazia appunto è quella che
presta aiuto perché ciascuno sia esecutore della legge, mentre senza la
grazia chi è sottoposto alla legge sarà soltanto un suo ascoltatore. A chi
è in tale condizione pertanto dice: Voi che cercate di giustificarvi nella
legge siete decaduti dalla grazia [Gal 5, 4].
13. 25. Chi sarà così sordo verso le parole apostoliche, chi sarà così
stolto, anzi così folle e incosciente nei propri discorsi da avere il corag-
gio di sostenere che la legge è la grazia? Chi sapeva pienamente ciò che
diceva, non grida forse: Voi che cercate di giustificarvi nella legge siete
decaduti dalla grazia? Se dunque la legge non è la grazia, poiché al fine
di applicare la legge stessa non è la legge che può aiutare, ma la grazia, la
grazia sarà forse la natura? In effetti i pelagiani hanno osato dire anche
questo: che la grazia sarebbe la natura, nella quale siamo stati creati in
possesso di una mente razionale, che ci mette in grado di capire, fatti ad
162

ad imaginem Dei, ut dominemur piscibus maris, et volucribus caeli, et


omnibus pecoribus quae repunt super terram. Sed non haec est gratia,
quam commendat Apostolus per fidem Iesu Christi. Hanc enim naturam
etiam cum impiis et infidelibus certum est nobis esse communem; gratia
vero per fidem Iesu Christi eorum tantummodo est, quorum est ipsa
fides. Non enim omnium est fides. Denique sicut eis qui volentes in lege
iustificari, a gratia exciderunt, verissime dicit: Si ex lege iustitia, ergo
Christus gratis mortuus est: sic et his qui gratiam quam commendat
et percipit fides Christi, putant esse naturam, verissime dicitur: Si ex
natura iustitia, ergo Christus gratis mortuus est. Iam hic enim erat lex, et
non iustificabat; iam hic erat et natura, et non iustificabat: ideo Christus
non gratis mortuus est, ut et lex per illum impleretur, qui dixit: Non
veni solvere legem, sed implere, et natura per Adam perdita, per illum
repararetur, qui dixit venisse se quaerere et salvare quod perierat: in
quem venturum antiqui etiam Patres crediderant, qui diligebant Deum.
13. 26. Dicunt etiam gratiam Dei, quae data est per fidem Iesu
Christi, quae neque lex est neque natura, ad hoc tantum valere, ut
peccata praeterita dimittantur, non ut futura vitentur, vel repugnantia
superentur. Sed si hoc verum esset, utique in oratione dominica,
cum dixissemus: Dimitte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus
debitoribus nostris, non adderemus: et ne nos inferas in tentationem.
Illud enim dicimus ut peccata dimittantur; hoc autem ut caveantur,
sive vincantur: quod a Patre qui in caelis est, nulla ratione peteremus,
si virtute voluntatis humanae hoc possemus efficere. Commoneo autem
Caritatem vestram, et multum exhortor, ut beati Cypriani librum
quem scripsit de oratione dominica, diligenter legatis; et quantum
vos Dominus adiuverit, intellegatis, memoriaeque mandetis. Ibi
163

immagine di Dio, per dominare sui pesci del mare, gli uccelli del cielo
e tutte le bestie che strisciano sulla terra. Ma non è questa la grazia che
l’Apostolo raccomanda attraverso la fede in Cristo. Infatti è certo che
questa natura noi l’abbiamo in comune anche con gli empi e i non cre-
denti; la grazia invece, che è data attraverso la fede in Cristo, appartiene
solo a quelli che possiedono appunto la fede; infatti la fede non è di tutti
[2Ts 3, 2]. Come a coloro che sono decaduti dalla grazia perché vogliono
trovare la loro giustificazione nella legge, con tutta verità l’Apostolo
dice: Se la giustizia proviene dalla legge, dunque Cristo è morto per
niente [Gal 2, 21]; così, se alcuni sono convinti che la grazia raccoman-
data e ricevuta dalla fede in Cristo sia la natura, anche a loro con tutta
verità si può dire: Se la giustizia proviene dalla natura, dunque Cristo è
morto per nulla. Infatti nel nostro mondo la legge c’era già, e non giusti-
ficava; c’era già anche la natura, e non giustificava; perciò Cristo non è
morto per nulla, ma perché per mezzo suo la legge si adempisse. È così
che egli dice: Non sono venuto ad abolire la legge, ma a completarla
[Mt 5, 17]. E contemporaneamente è morto perché la natura guastata
per colpa di Adamo per mezzo suo fosse restaurata. Infatti dice anche di
essere venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto [Lc 19, 10; Mt
18, 11]; e credettero in questa sua futura venuta anche gli antichi Padri,
che amavano Dio.
13. 26. Dicono anche: La grazia di Dio, che è stata data per mezzo
della fede in Gesù Cristo e che non è né la legge né la natura, è valida
a questo scopo soltanto, a rimettere i peccati trascorsi, non ad evitare
quelli futuri o a superare le difficoltà che ci si oppongono. Ma se que-
sto fosse vero, certamente nella preghiera domenicale, dopo aver detto:
Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori,
non aggiungeremmo: e non spingerci in tentazione [Mt 6, 12-13]. Infatti
la prima frase la diciamo perché ci siano rimessi i peccati, la seconda
perché possiamo evitarli o vincerli. E questo certo non lo chiederemmo
per nessun motivo al Padre che è nei cieli, se potessimo realizzarlo con il
solo potere della volontà umana. A questo punto mi richiamo alla Carità
vostra e molto vi raccomando di leggere diligentemente il libro che il
beato Cipriano scrisse su L’orazione domenicale; per quanto vi soccor-
rerà l’aiuto del Signore, cercate di capirlo ed apprendetelo a memoria. Lì
164

videbitis quemamdmodum sic alloquatur liberum arbitrium eorum, quos


conscriptione sui sermonis aedificat, ut ostendat tamen ea quae implenda
iubentur in lege, in oratione esse poscenda. Quod utique vanissime fieret,
si ad illa agenda sine divino adiutorio voluntas humana sufficeret.
14. 27. Sed cum fuerint convicti, non defensores, sed inflatores et
praecipitatores liberi arbitrii, quia neque scientia divinae legis, neque
natura, neque sola remissio peccatorum est illa gratia, quae per Iesum
Christum Dominum nostrum datur, sed ipsa facit ut lex impleatur,
ut natura liberetur, ne peccatum dominetur: cum ergo in his convicti
fuerint, ad hoc se convertunt, ut quocumque modo conentur ostendere
gratiam Dei secundum merita nostra dari. Dicunt enim: “Etsi non datur
secundum merita bonorum operum, quia per ipsam bene operamur,
tamen secundum merita bonae voluntatis datur: quia bona voluntas”,
inquiunt, “praecedit orantis, quam praecessit voluntas credentis, ut
secundum haec merita gratia sequatur exaudientis Dei”.
14. 28. Iam quidem de fide, hoc est, de voluntate credentis superius
disputavi, usque adeo eam demonstrans ad gratiam pertinere, ut
Apostolus non diceret: Misericordiam consecutus sum, quia fidelis
eram, sed diceret: Misericordiam consecutus sum, ut fidelis essem.
Sunt et alia testimonia, in quibus est quod ait: Sapite ad temperantiam,
sicut unicuique Deus partitus est mensuram fidei. Et quod iam
commemoravi: Gratia salvi facti estis per fidem, et hoc non ex vobis,
sed Dei donum est. Et illud quod scripsit ad Ephesios: Pax fratribus
et caritas cum fide a Deo Patre et Domino Iesu Christo. Et illud, ubi
ait: Quia vobis donatum est pro Christo, non solum ut credatis in
eum, verum etiam ut patiamini pro eo. Utrumque ergo ad Dei gratiam
pertinet, et fides credentium, et tolerantia patientium, quia utrumque
dixit esse donatum. Et illud maxime, ubi dicit: Habentes autem eumdem
165

potrete vedere in qual maniera egli si rivolga al libero arbitrio di quelli


che con la stesura del suo lavoro vuole confermare nella fede; intende
evidentemente dimostrare che bisogna invocare nella preghiera quelle
cose che nella legge ci si ordina di compiere. Ma quello si farebbe pro-
prio del tutto inutilmente, se a compiere quelle cose fosse sufficiente la
volontà umana senza l’aiuto divino.
14. 27. Quelli che pensano così non difendono il libero arbitrio, ma esa-
gerandolo lo distruggono, e si può comprovare contro di essi che quella
grazia che ci viene concessa per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore
non è né la conoscenza della legge divina, né la natura, né la semplice
remissione dei peccati. Al contrario è proprio essa a fare sì che la legge
si adempia, la natura si liberi, il peccato non domini. Ma quando si è
dimostrato che sono pienamente in fallo su tutto ciò, essi si rivolgono a
quest’altra tesi: si sforzano di dimostrare con ogni mezzo che la grazia di
Dio è concessa secondo i nostri meriti. Essi dicono: “Anche se essa non è
concessa secondo il merito delle opere buone, perché è per mezzo di essa
che operiamo bene, tuttavia è concessa secondo il merito della volontà
buona; infatti la volontà buona di colui che prega, precede la grazia e
prima ancora c’è stata la volontà di colui che crede: la grazia di Dio che
esaudisce segue secondo questi meriti”.
14. 28. Della fede, cioè della volontà del credente, ho già discusso più
sopra, e ho dimostrato che essa è congiunta alla grazia a tal punto che
l’Apostolo non dice: Ho ottenuto la misericordia perché ero fedele, ma
invece: Ho ottenuto la misericordia di essere fedele [1Cor 7, 25]. Ci sono
anche altre testimonianze, fra le quali questa: Ragionate con modestia,
secondo la misura della fede che Iddio ha distribuito a ciascuno [Rm 12,
3]; ed anche il passo che ho già ricordato: Per la grazia voi siete stati sal-
vati mediante la fede, e ciò non proviene da voi, ma è dono di Dio [Ef 2,
8]. Viene poi quello che scrive agli Efesini: Pace ai fratelli e carità con
fede da Dio Padre e dal Signore Gesù Cristo [Ef 6, 23]; e ancora l’altro
passo in cui dice: Perché a voi è stato donato per favore di Cristo non solo
di credere in lui, ma anche di patire per lui [Fil 1, 29]. Dunque entrambe
le cose appartengono alla grazia di Dio, sia la fede di coloro che credono,
sia la sopportazione di coloro che soffrono, perché dice sia dell’una che
dell’altra che sono state donate. Ma il passo principale è: Avendo il mede-
166

spiritum fidei. Non enim ait: Scientiam fidei, sed: spiritum fidei: quod
propterea dixit, ut intellegeremus, quia fides et non petita conceditur, ut
ei petenti alia concedantur. Quomodo enim invocabunt, inquit, in quem
non crediderunt? Ergo spiritus gratiae facit ut habeamus fidem, ut per
fidem impetremus orando, ut possimus facere quae iubemur. Ideo ipse
Apostolus assidue legi praeponit fidem: quoniam quod lex iubet, facere
non valemus, nisi per fidem rogando impetremus, ut facere valeamus.
167

simo spirito di fede [2Cor 4, 13]. Infatti non dice: scienza della fede, ma:
spirito di fede; e lo dice appunto per farci capire che la fede viene concessa
anche se non richiesta, allo scopo di concedere altri doni a chi li richiede.
Come infatti invocheranno – dice – Colui nel quale non hanno creduto?
[Rm 10, 14] Dunque lo spirito della grazia fa sì che abbiamo la fede, e per
mezzo della fede otteniamo con la preghiera di avere la forza di fare ciò
che ci viene comandato. Perciò lo stesso Apostolo continuamente ante-
pone la fede alla legge, perché non siamo in grado di fare ciò che la legge
comanda se non otteniamo la capacità di farlo pregando attraverso la fede.
Appendice

Paolo

Epistola ai Romani*

*
Il testo greco è liberamente tratto da http://www.greekbible.com/, che
riproduce l’edizione di Nestle-Aland, Novum Testamentum Graece et Latine,
Textum Graecum post Eberhard Nestle et Erwin Nestle communiter ediderunt
Kurt Aland - Matthew Black - Carlo M. Martini - Bruce M. Metzger - Allen
Wikgren, Textus Latinus Novae Vulgatae Bibliorum Sacrorum Editioni debetur
utriusque textus apparatum criticum recensuerunt et editionem novis curis
elaboraverunt Kurt Aland et Barbara Aland una cum Instituto studiorum textus
Novi Testamenti Monasteriensi (Westphalia), Deutsche Bibelgesellschaft,
Stuttgart 197926, mentre la traduzione è quella de La Bibbia di Gerusalemme,
Bologna 200017, pp. 2414-2450:
http://www.maranatha.it/Bibbia/6-LettereSanPaolo/52-RomaniPage.htm.
1
1
Παῦλος δοῦλος Χριστοῦ Ἰησοῦ, κλητὸς ἀπόστολος, ἀφωρισμένος εἰς εὐαγγέλιον
θεοῦ, 2ὃ προεπηγγείλατο διὰ τῶν προφητῶν αὐτοῦ ἐν γραφαῖς ἁγίαις, 3περὶ τοῦ υἱοῦ
αὐτοῦ τοῦ γενομένου ἐκ σπέρματος Δαυὶδ κατὰ σάρκα, 4τοῦ ὁρισθέντος υἱοῦ θεοῦ ἐν
δυνάμει κατὰ πνεῦμα ἁγιωσύνης ἐξ ἀναστάσεως νεκρῶν, Ἰησοῦ Χριστοῦ τοῦ κυρίου
ἡμῶν, 5δι’ οὗ ἐλάβομεν χάριν καὶ ἀποστολὴν εἰς ὑπακοὴν πίστεως ἐν πᾶσιν τοῖς ἔθνεσιν
ὑπὲρ τοῦ ὀνόματος αὐτοῦ, 6ἐν οἷς ἐστε καὶ ὑμεῖς κλητοὶ Ἰησοῦ Χριστοῦ, 7πᾶσιν τοῖς
οὖσιν ἐν Ῥώμῃ ἀγαπητοῖς θεοῦ, κλητοῖς ἁγίοις· χάρις ὑμῖν καὶ εἰρήνη ἀπὸ θεοῦ πατρὸς
ἡμῶν καὶ κυρίου Ἰησοῦ Χριστοῦ. 8Πρῶτον μὲν εὐχαριστῶ τῷ θεῷ μου διὰ Ἰησοῦ Χριστοῦ
περὶ πάντων ὑμῶν, ὅτι ἡ πίστις ὑμῶν καταγγέλλεται ἐν ὅλῳ τῷ κόσμῳ. 9μάρτυς γάρ
μού ἐστιν ὁ θεός, ᾧ λατρεύω ἐν τῷ πνεύματί μου ἐν τῷ εὐαγγελίῳ τοῦ υἱοῦ αὐτοῦ, ὡς
ἀδιαλείπτως μνείαν ὑμῶν ποιοῦμαι 10πάντοτε ἐπὶ τῶν προσευχῶν μου, δεόμενος εἴ πως
ἤδη ποτὲ εὐοδωθήσομαι ἐν τῷ θελήματι τοῦ θεοῦ ἐλθεῖν πρὸς ὑμᾶς. 11ἐπιποθῶ γὰρ
ἰδεῖν ὑμᾶς, ἵνα τι μεταδῶ χάρισμα ὑμῖν πνευματικὸν εἰς τὸ στηριχθῆναι ὑμᾶς, 12τοῦτο
δέ ἐστιν συμπαρακληθῆναι ἐν ὑμῖν διὰ τῆς ἐν ἀλλήλοις πίστεως ὑμῶν τε καὶ ἐμοῦ.
13
οὐ θέλω δὲ ὑμᾶς ἀγνοεῖν, ἀδελφοί, ὅτι πολλάκις προεθέμην ἐλθεῖν πρὸς ὑμᾶς, καὶ
ἐκωλύθην ἄχρι τοῦ δεῦρο, ἵνα τινὰ καρπὸν σχῶ καὶ ἐν ὑμῖν καθὼς καὶ ἐν τοῖς λοιποῖς
ἔθνεσιν. 14Ἕλλησίν τε καὶ βαρβάροις, σοφοῖς τε καὶ ἀνοήτοις ὀφειλέτης εἰμί· 15οὕτως
τὸ κατ’ ἐμὲ πρόθυμον καὶ ὑμῖν τοῖς ἐν Ῥώμῃ εὐαγγελίσασθαι. 16Οὐ γὰρ ἐπαισχύνομαι
τὸ εὐαγγέλιον, δύναμις γὰρ θεοῦ ἐστιν εἰς σωτηρίαν παντὶ τῷ πιστεύοντι, Ἰουδαίῳ
τε πρῶτον καὶ Ἕλληνι· 17δικαιοσύνη γὰρ θεοῦ ἐν αὐτῷ ἀποκαλύπτεται ἐκ πίστεως
εἰς πίστιν, καθὼς γέγραπται, Ὁ δὲ δίκαιος ἐκ πίστεως ζήσεται. 18Ἀποκαλύπτεται γὰρ
ὀργὴ θεοῦ ἀπ’ οὐρανοῦ ἐπὶ πᾶσαν ἀσέβειαν καὶ ἀδικίαν ἀνθρώπων τῶν τὴν ἀλήθειαν
ἐν ἀδικίᾳ κατεχόντων, 19διότι τὸ γνωστὸν τοῦ θεοῦ φανερόν ἐστιν ἐν αὐτοῖς· ὁ θεὸς
γὰρ αὐτοῖς ἐφανέρωσεν. 20τὰ γὰρ ἀόρατα αὐτοῦ ἀπὸ κτίσεως κόσμου τοῖς ποιήμασιν
νοούμενα καθορᾶται, ἥ τε ἀΐδιος αὐτοῦ δύναμις καὶ θειότης, εἰς τὸ εἶναι αὐτοὺς
ἀναπολογήτους· 21διότι γνόντες τὸν θεὸν οὐχ ὡς θεὸν ἐδόξασαν ἢ ηὐχαρίστησαν,
ἀλλ’ ἐματαιώθησαν ἐν τοῖς διαλογισμοῖς αὐτῶν καὶ ἐσκοτίσθη ἡ ἀσύνετος
αὐτῶν καρδία. 22φάσκοντες εἶναι σοφοὶ ἐμωράνθησαν, 23καὶ ἤλλαξαν τὴν δόξαν
τοῦ ἀφθάρτου θεοῦ ἐν ὁμοιώματι εἰκόνος φθαρτοῦ ἀνθρώπου καὶ πετεινῶν καὶ
τετραπόδων καὶ ἑρπετῶν. 24Διὸ παρέδωκεν αὐτοὺς ὁ θεὸς ἐν ταῖς ἐπιθυμίαις τῶν
καρδιῶν αὐτῶν εἰς ἀκαθαρσίαν τοῦ ἀτιμάζεσθαι τὰ σώματα αὐτῶν ἐν αὐτοῖς, 25οἵτινες
μετήλλαξαν τὴν ἀλήθειαν τοῦ θεοῦ ἐν τῷ ψεύδει, καὶ ἐσεβάσθησαν καὶ ἐλάτρευσαν
τῇ κτίσει παρὰ τὸν κτίσαντα, ὅς ἐστιν εὐλογητὸς εἰς τοὺς αἰῶνας· ἀμήν. 26διὰ τοῦτο
παρέδωκεν αὐτοὺς ὁ θεὸς εἰς πάθη ἀτιμίας· αἵ τε γὰρ θήλειαι αὐτῶν μετήλλαξαν
τὴν φυσικὴν χρῆσιν εἰς τὴν παρὰ φύσιν, 27ὁμοίως τε καὶ οἱ ἄρσενες ἀφέντες τὴν
φυσικὴν χρῆσιν τῆς θηλείας ἐξεκαύθησαν ἐν τῇ ὀρέξει αὐτῶν εἰς ἀλλήλους,
Capitolo 1
Indirizzo
[1]Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione, prescelto per annunziare il vangelo
di Dio, [2]che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture, [3]
riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, [4]costituito Figlio di
Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti,
Gesù Cristo, nostro Signore. [5]Per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia dell’apostolato
per ottenere l’obbedienza alla fede da parte di tutte le genti, a gloria del suo nome; [6]e tra
queste siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo. [7]A quanti sono in Roma diletti da Dio
e santi per vocazione, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo.
Ringraziamento e preghiera
[8]Anzitutto rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché
la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo. [9]Quel Dio, al quale rendo culto nel
mio spirito annunziando il vangelo del Figlio suo, mi è testimone che io mi ricordo sempre
di voi, [10]chiedendo sempre nelle mie preghiere che per volontà di Dio mi si apra una
strada per venire fino a voi. [11]Ho infatti un vivo desiderio di vedervi per comunicarvi
qualche dono spirituale perché ne siate fortificati, [12]o meglio, per rinfrancarmi con voi e
tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io. [13]Non voglio pertanto che igno-
riate, fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi – ma finora ne sono stato
impedito – per raccogliere qualche frutto anche tra voi, come tra gli altri Gentili. [14]Poi-
ché sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i dotti come verso gli ignoranti:
[15]sono quindi pronto, per quanto sta in me, a predicare il vangelo anche a voi di Roma.
LA SALVEZZA MEDIANTE LA FEDE
1. LA GIUSTIFICAZIONE
Enunciazione della tesi
[16]Io infatti non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di
chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco. [17] È in esso che si rivela la giusti-
zia di Dio di fede in fede, come sta scritto: Il giusto vivrà mediante la fede [Ab 2, 4].
A. I pagani e i giudei sotto l’ira di Dio
I pagani oggetto dell’ira di Dio
[18]In realtà l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di
uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, [19]poiché ciò che di Dio si può cono-
scere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. [20]Infatti, dalla creazione del
mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto
nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; [21]essi sono dunque
inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso
grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la
loro mente ottusa. [22]Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti [23]e hanno
cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corrutti-
bile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili.
[24]Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da
disonorare fra di loro i propri corpi, [25]poiché essi hanno cambiato la verità di Dio
con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore, che è
benedetto nei secoli. Amen.
[26]Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cam-
biato i rapporti naturali in rapporti contro natura. [27]Egualmente anche gli uomini,
lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli
172

ἄρσενες ἐν ἄρσεσιν τὴν ἀσχημοσύνην κατεργαζόμενοι καὶ τὴν ἀντιμισθίαν ἣν ἔδει


τῆς πλάνης αὐτῶν ἐν ἑαυτοῖς ἀπολαμβάνοντες. 28καὶ καθὼς οὐκ ἐδοκίμασαν τὸν
θεὸν ἔχειν ἐν ἐπιγνώσει, παρέδωκεν αὐτοὺς ὁ θεὸς εἰς ἀδόκιμον νοῦν, ποιεῖν τὰ μὴ
καθήκοντα, 29πεπληρωμένους πάσῃ ἀδικίᾳ πονηρίᾳ πλεονεξίᾳ κακίᾳ, μεστοὺς
φθόνου φόνου ἔριδος δόλου κακοηθείας, ψιθυριστάς, 30καταλάλους, θεοστυγεῖς,
ὑβριστάς, ὑπερηφάνους, ἀλαζόνας, ἐφευρετὰς κακῶν, γονεῦσιν ἀπειθεῖς, 31ἀσυνέτους,
ἀσυνθέτους, ἀστόργους, ἀνελεήμονας· 32οἵτινες τὸ δικαίωμα τοῦ θεοῦ ἐπιγνόντες,
ὅτι οἱ τὰ τοιαῦτα πράσσοντες ἄξιοι θανάτου εἰσίν, οὐ μόνον αὐτὰ ποιοῦσιν ἀλλὰ καὶ
συνευδοκοῦσιν τοῖς πράσσουσιν.
2
1
Διὸ ἀναπολόγητος εἶ, ὦ ἄνθρωπε πᾶς ὁ κρίνων· ἐν ᾧ γὰρ κρίνεις τὸν ἕτερον, σεαυτὸν
κατακρίνεις, τὰ γὰρ αὐτὰ πράσσεις ὁ κρίνων. 2οἴδαμεν δὲ ὅτι τὸ κρίμα τοῦ θεοῦ ἐστιν
κατὰ ἀλήθειαν ἐπὶ τοὺς τὰ τοιαῦτα πράσσοντας. 3λογίζῃ δὲ τοῦτο, ὦ ἄνθρωπε ὁ κρίνων
τοὺς τὰ τοιαῦτα πράσσοντας καὶ ποιῶν αὐτά, ὅτι σὺ ἐκφεύξῃ τὸ κρίμα τοῦ θεοῦ; 4ἢ τοῦ
πλούτου τῆς χρηστότητος αὐτοῦ καὶ τῆς ἀνοχῆς καὶ τῆς μακροθυμίας καταφρονεῖς,
ἀγνοῶν ὅτι τὸ χρηστὸν τοῦ θεοῦ εἰς μετάνοιάν σε ἄγει; 5κατὰ δὲ τὴν σκληρότητά σου καὶ
ἀμετανόητον καρδίαν θησαυρίζεις σεαυτῷ ὀργὴν ἐν ἡμέρᾳ ὀργῆς καὶ ἀποκαλύψεως
δικαιοκρισίας τοῦ θεοῦ, 6ὃς ἀποδώσει ἑκάστῳ κατὰ τὰ ἔργα αὐτοῦ, 7τοῖς μὲν
καθ’ ὑπομονὴν ἔργου ἀγαθοῦ δόξαν καὶ τιμὴν καὶ ἀφθαρσίαν ζητοῦσιν, ζωὴν αἰώνιον·
8
τοῖς δὲ ἐξ ἐριθείας καὶ ἀπειθοῦσι τῇ ἀληθείᾳ πειθομένοις δὲ τῇ ἀδικίᾳ, ὀργὴ καὶ
θυμός 9θλῖψις καὶ στενοχωρία ἐπὶ πᾶσαν ψυχὴν ἀνθρώπου τοῦ κατεργαζομένου
τὸ κακόν, Ἰουδαίου τε πρῶτον καὶ Ἕλληνος· 10δόξα δὲ καὶ τιμὴ καὶ εἰρήνη παντὶ τῷ
ἐργαζομένῳ τὸ ἀγαθόν, Ἰουδαίῳ τε πρῶτον καὶ Ἕλληνι· 11οὐ γάρ ἐστιν προσωπολημψία
παρὰ τῷ θεῷ. 12ὅσοι γὰρ ἀνόμως ἥμαρτον, ἀνόμως καὶ ἀπολοῦνται· καὶ ὅσοι ἐν νόμῳ
ἥμαρτον, διὰ νόμου κριθήσονται· 13οὐ γὰρ οἱ ἀκροαταὶ νόμου δίκαιοι παρὰ [τῷ]
θεῷ, ἀλλ’ οἱ ποιηταὶ νόμου δικαιωθήσονται. 14ὅταν γὰρ ἔθνη τὰ μὴ νόμον ἔχοντα
φύσει τὰ τοῦ νόμου ποιῶσιν, οὗτοι νόμον μὴ ἔχοντες ἑαυτοῖς εἰσιν νόμος· 15οἵτινες
ἐνδείκνυνται τὸ ἔργον τοῦ νόμου γραπτὸν ἐν ταῖς καρδίαις αὐτῶν, συμμαρτυρούσης
αὐτῶν τῆς συνειδήσεως καὶ μεταξὺ ἀλλήλων τῶν λογισμῶν κατηγορούντων ἢ καὶ
ἀπολογουμένων, 16ἐν ἡμέρᾳ ὅτε κρίνει ὁ θεὸς τὰ κρυπτὰ τῶν ἀνθρώπων κατὰ τὸ
εὐαγγέλιόν μου διὰ Χριστοῦ Ἰησοῦ. 17Εἰ δὲ σὺ Ἰουδαῖος ἐπονομάζῃ καὶ ἐπαναπαύῃ
νόμῳ καὶ καυχᾶσαι ἐν θεῷ 18καὶ γινώσκεις τὸ θέλημα καὶ δοκιμάζεις τὰ διαφέροντα
κατηχούμενος ἐκ τοῦ νόμου, 19πέποιθάς τε σεαυτὸν ὁδηγὸν εἶναι τυφλῶν, φῶς
τῶν ἐν σκότει, 20παιδευτὴν ἀφρόνων, διδάσκαλον νηπίων, ἔχοντα τὴν μόρφωσιν
τῆς γνώσεως καὶ τῆς ἀληθείας ἐν τῷ νόμῳ 21ὁ οὖν διδάσκων ἕτερον σεαυτὸν οὐ
διδάσκεις; ὁ κηρύσσων μὴ κλέπτειν κλέπτεις; 22ὁ λέγων μὴ μοιχεύειν μοιχεύεις; ὁ
βδελυσσόμενος τὰ εἴδωλα ἱεροσυλεῖς; 23ὃς ἐν νόμῳ καυχᾶσαι, διὰ τῆς παραβάσεως
τοῦ νόμου τὸν θεὸν ἀτιμάζεις; 24τὸ γὰρ ὄνομα τοῦ θεοῦ δι’ ὑμᾶς βλασφημεῖται ἐν τοῖς
ἔθνεσιν, καθὼς γέγραπται. 25περιτομὴ μὲν γὰρ ὠφελεῖ ἐὰν νόμον πράσσῃς· ἐὰν δὲ
παραβάτης νόμου ᾖς, ἡ περιτομή σου ἀκροβυστία γέγονεν. 26ἐὰν οὖν ἡ ἀκροβυστία
173

altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi
la punizione che s’addiceva al loro traviamento. [28]E poiché hanno disprezzato la
conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d’una intelligenza depravata, sicché
commettono ciò che è indegno, [29]colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di
malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d’invidia, di omicidio, di rivalità, di frodi, di
malignità; diffamatori, [30]maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni,
ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, [31]insensati, sleali, senza cuore, senza miseri-
cordia. [32]E pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano
la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa.
Capitolo 2
I Giudei a loro volta oggetto dell’ira divina
[1]Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudi-
chi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose. [2]Eppure
noi sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli che commettono tali
cose. [3]Pensi forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le
fai tu stesso, di sfuggire al giudizio di Dio? [4]O ti prendi gioco della ricchezza della
sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di
Dio ti spinge alla conversione? [5]Tu, però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente
accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di
Dio, [6]il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere: [7]la vita eterna a coloro che
perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità; [8]sdegno ed
ira contro coloro che per ribellione resistono alla verità e obbediscono all’ingiustizia.
[9]Tribolazione e angoscia per ogni uomo che opera il male, per il Giudeo prima e poi
per il Greco; [10]gloria invece, onore e pace per chi opera il bene, per il Giudeo prima
e poi per il Greco, [11]perché presso Dio non c’è parzialità.
Malgrado la legge
[12]Tutti quelli che hanno peccato senza la legge, periranno anche senza la legge;
quanti invece hanno peccato sotto la legge, saranno giudicati con la legge. [13]Perché
non coloro che ascoltano la legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che mettono in
pratica la legge saranno giustificati. [14]Quando i pagani, che non hanno la legge, per
natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi; [15]
essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testi-
monianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li
difendono. [16]Così avverrà nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini per
mezzo di Gesù Cristo, secondo il mio vangelo.
[17]Ora, se tu ti vanti di portare il nome di Giudeo e ti riposi sicuro sulla legge, e ti glori di
Dio, [18]del quale conosci la volontà e, istruito come sei dalla legge, sai discernere ciò che
è meglio, [19]e sei convinto di esser guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre,
[20]educatore degli ignoranti, maestro dei semplici, perché possiedi nella legge l’espres-
sione della sapienza e della verità... [21]ebbene, come mai tu, che insegni agli altri, non
insegni a te stesso? Tu che predichi di non rubare, rubi? [22]Tu che proibisci l’adulterio,
sei adultero? Tu che detesti gli idoli, ne derubi i templi? [23]Tu che ti glori della legge,
offendi Dio trasgredendo la legge? [24]Infatti il nome di Dio è bestemmiato per causa
vostra tra i pagani [Is 52, 5], come sta scritto.
Malgrado la circoncisione
[25]La circoncisione è utile, sì, se osservi la legge; ma se trasgredisci la legge, con la tua
circoncisione sei come uno non circonciso. [26]Se dunque chi non è circonciso osserva
174

τὰ δικαιώματα τοῦ νόμου φυλάσσῃ, οὐχ ἡ ἀκροβυστία αὐτοῦ εἰς περιτομὴν


λογισθήσεται; 27καὶ κρινεῖ ἡ ἐκ φύσεως ἀκροβυστία τὸν νόμον τελοῦσα σὲ τὸν διὰ
γράμματος καὶ περιτομῆς παραβάτην νόμου. 28οὐ γὰρ ὁ ἐν τῷ φανερῷ Ἰουδαῖός ἐστιν,
οὐδὲ ἡ ἐν τῷ φανερῷ ἐν σαρκὶ περιτομή· 29ἀλλ’ ὁ ἐν τῷ κρυπτῷ Ἰουδαῖος, καὶ περιτομὴ
καρδίας ἐν πνεύματι οὐ γράμματι, οὗ ὁ ἔπαινος οὐκ ἐξ ἀνθρώπων ἀλλ’ ἐκ τοῦ θεοῦ.
3
1
Τί οὖν τὸ περισσὸν τοῦ Ἰουδαίου, ἢ τίς ἡ ὠφέλεια τῆς περιτομῆς; 2πολὺ κατὰ
πάντα τρόπον. πρῶτον μὲν [γὰρ] ὅτι ἐπιστεύθησαν τὰ λόγια τοῦ θεοῦ. 3τί γὰρ εἰ
ἠπίστησάν τινες; μὴ ἡ ἀπιστία αὐτῶν τὴν πίστιν τοῦ θεοῦ καταργήσει; 4μὴ γένοιτο·
γινέσθω δὲ ὁ θεὸς ἀληθής, πᾶς δὲ ἄνθρωπος ψεύστης, καθὼς γέγραπται, ὅπως
ἂν δικαιωθῇς ἐν τοῖς λόγοις σου καὶ νικήσεις ἐν τῷ κρίνεσθαί σε. 5εἰ δὲ ἡ ἀδικία
ἡμῶν θεοῦ δικαιοσύνην συνίστησιν, τί ἐροῦμεν; μὴ ἄδικος ὁ θεὸς ὁ ἐπιφέρων τὴν
ὀργήν; κατὰ ἄνθρωπον λέγω. 6μὴ γένοιτο· ἐπεὶ πῶς κρινεῖ ὁ θεὸς τὸν κόσμον; 7εἰ δὲ
ἡ ἀλήθεια τοῦ θεοῦ ἐν τῷ ἐμῷ ψεύσματι ἐπερίσσευσεν εἰς τὴν δόξαν αὐτοῦ, τί ἔτι
κἀγὼ ὡς ἁμαρτωλὸς κρίνομαι; 8καὶ μὴ καθὼς βλασφημούμεθα καὶ καθώς φασίν
τινες ἡμᾶς λέγειν ὅτι Ποιήσωμεν τὰ κακὰ ἵνα ἔλθῃ τὰ ἀγαθά; ὧν τὸ κρίμα ἔνδικόν
ἐστιν. 9Τί οὖν; προεχόμεθα; οὐ πάντως, προῃτιασάμεθα γὰρ Ἰουδαίους τε καὶ Ἕλληνας
πάντας ὑφ’ ἁμαρτίαν εἶναι, 10καθὼς γέγραπται ὅτι Οὐκ ἔστιν δίκαιος οὐδὲ εἷς, 11οὐκ
ἔστιν ὁ συνίων, οὐκ ἔστιν ὁ ἐκζητῶν τὸν θεόν. 12πάντες ἐξέκλιναν, ἅμα ἠχρεώθησαν·
οὐκ ἔστιν ὁ ποιῶν χρηστότητα, [οὐκ ἔστιν] ἕως ἑνός. 13τάφος ἀνεῳγμένος ὁ λάρυγξ
αὐτῶν, ταῖς γλώσσαις αὐτῶν ἐδολιοῦσαν, ἰὸς ἀσπίδων ὑπὸ τὰ χείλη αὐτῶν, 14ὧν τὸ
στόμα ἀρᾶς καὶ πικρίας γέμει· 15ὀξεῖς οἱ πόδες αὐτῶν ἐκχέαι αἷμα, 16σύντριμμα καὶ
ταλαιπωρία ἐν ταῖς ὁδοῖς αὐτῶν, 17καὶ ὁδὸν εἰρήνης οὐκ ἔγνωσαν. 18οὐκ ἔστιν φόβος
θεοῦ ἀπέναντι τῶν ὀφθαλμῶν αὐτῶν. 19Οἴδαμεν δὲ ὅτι ὅσα ὁ νόμος λέγει τοῖς ἐν τῷ
νόμῳ λαλεῖ, ἵνα πᾶν στόμα φραγῇ καὶ ὑπόδικος γένηται πᾶς ὁ κόσμος τῷ θεῷ· 20διότι
ἐξ ἔργων νόμου οὐ δικαιωθήσεται πᾶσα σὰρξ ἐνώπιον αὐτοῦ, διὰ γὰρ νόμου ἐπίγνωσις
ἁμαρτίας. 21Νυνὶ δὲ χωρὶς νόμου δικαιοσύνη θεοῦ πεφανέρωται, μαρτυρουμένη
ὑπὸ τοῦ νόμου καὶ τῶν προφητῶν, 22δικαιοσύνη δὲ θεοῦ διὰ πίστεως Ἰησοῦ Χριστοῦ,
175

le prescrizioni della legge, la sua non circoncisione non gli verrà forse contata come cir-
concisione? [27]E così, chi non è circonciso fisicamente, ma osserva la legge, giudicherà
te che, nonostante la lettera della legge e la circoncisione, sei un trasgressore della legge.
[28]Infatti, Giudeo non è chi appare tale all’esterno, e la circoncisione non è quella visi-
bile nella carne; [29]ma Giudeo è colui che lo è interiormente e la circoncisione è quella
del cuore, nello spirito e non nella lettera; la sua gloria non viene dagli uomini ma da Dio.
Capitolo 3
Malgrado le promesse di Dio
[1]Qual è dunque la superiorità del Giudeo? O quale l’utilità della circoncisione?
[2]Grande, sotto ogni aspetto. Anzitutto perché a loro sono state affidate le rivelazioni
di Dio.
[3]Che dunque? Se alcuni non hanno creduto, la loro incredulità può forse annullare la
fedeltà di Dio?
[4]Impossibile! Resti invece fermo che Dio è verace e ogni uomo mentitore [Sal 116,
11], come sta scritto:
Perché tu sia riconosciuto giusto nelle tue parole
e trionfi quando sei giudicato [Sal 51, 6].
[5]Se però la nostra ingiustizia mette in risalto la giustizia di Dio, che diremo? Forse è
ingiusto Dio quando riversa su di noi la sua ira? Parlo alla maniera umana.
[6]Impossibile! Altrimenti, come potrà Dio giudicare il mondo?
[7]Ma se per la mia menzogna la verità di Dio risplende per sua gloria, perché dunque
sono ancora giudicato come peccatore? [8]Perché non dovremmo fare il male affinchè
venga il bene, come alcuni – la cui condanna è ben giusta – ci calunniano, dicendo che
noi lo affermiamo?
[9]Che dunque? Dobbiamo noi ritenerci superiori? Niente affatto! Abbiamo infatti
dimostrato precedentemente che Giudei e Greci, tutti, sono sotto il dominio del pec-
cato, [10]come sta scritto:
Non c’è nessun giusto, nemmeno uno,
[11]non c’è sapiente, non c’è chi cerchi Dio!
[12]Tutti hanno traviato e si son pervertiti;
non c’è chi compia il bene, non ce n’è neppure uno [Sal 14 1-3].
[13]La loro gola è un sepolcro spalancato [Sal 5, 11],
tramano inganni con la loro lingua,
veleno di serpenti è sotto le loro labbra [Sal 140, 4],
[14]la loro bocca è piena di maledizione e di amarezza [Sal 10, 7].
[15]I loro piedi corrono a versare il sangue;
[16]strage e rovina è sul loro cammino
[17]e la via della pace non conoscono [Is 59, 7-8].
[18]Non c’è timore di Dio davanti ai loro occhi [Sal 36, 2].
[19]Ora, noi sappiamo che tutto ciò che dice la legge lo dice per quelli che sono sotto la
legge, perché sia chiusa ogni bocca e tutto il mondo sia riconosciuto colpevole di fronte
a Dio. [20]Infatti in virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti
a lui [Sal 143, 2], perché per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato.
B. La giustizia di Dio e la fede
Rivelazione della giustizia di Dio
[21]Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio,
testimoniata dalla legge e dai profeti; [22]giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù
176

εἰς πάντας τοὺς πιστεύοντας· οὐ γάρ ἐστιν διαστολή· 23πάντες γὰρ ἥμαρτον καὶ
ὑστεροῦνται τῆς δόξης τοῦ θεοῦ, 24δικαιούμενοι δωρεὰν τῇ αὐτοῦ χάριτι διὰ τῆς
ἀπολυτρώσεως τῆς ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ· 25ὃν προέθετο ὁ θεὸς ἱλαστήριον διὰ [τῆς]
πίστεως ἐν τῷ αὐτοῦ αἵματι εἰς ἔνδειξιν τῆς δικαιοσύνης αὐτοῦ διὰ τὴν πάρεσιν
τῶν προγεγονότων ἁμαρτημάτων 26ἐν τῇ ἀνοχῇ τοῦ θεοῦ, πρὸς τὴν ἔνδειξιν τῆς
δικαιοσύνης αὐτοῦ ἐν τῷ νῦν καιρῷ, εἰς τὸ εἶναι αὐτὸν δίκαιον καὶ δικαιοῦντα τὸν ἐκ
πίστεως Ἰησοῦ. 27Ποῦ οὖν ἡ καύχησις; ἐξεκλείσθη. διὰ ποίου νόμου; τῶν ἔργων; οὐχί,
ἀλλὰ διὰ νόμου πίστεως. 28λογιζόμεθα γὰρ δικαιοῦσθαι πίστει ἄνθρωπον χωρὶς ἔργων
νόμου. 29ἢ Ἰουδαίων ὁ θεὸς μόνον; οὐχὶ καὶ ἐθνῶν; ναὶ καὶ ἐθνῶν, 30εἴπερ εἷς ὁ θεός,
ὃς δικαιώσει περιτομὴν ἐκ πίστεως καὶ ἀκροβυστίαν διὰ τῆς πίστεως. 31νόμον οὖν
καταργοῦμεν διὰ τῆς πίστεως; μὴ γένοιτο, ἀλλὰ νόμον ἱστάνομεν.
4
1
Τί οὖν ἐροῦμεν εὑρηκέναι Ἀβραὰμ τὸν προπάτορα ἡμῶν κατὰ σάρκα; 2εἰ γὰρ Ἀβραὰμ
ἐξ ἔργων ἐδικαιώθη, ἔχει καύχημα· ἀλλ’ οὐ πρὸς θεόν. 3τί γὰρ ἡ γραφὴ λέγει; Ἐπίστευσεν
δὲ Ἀβραὰμ τῷ θεῷ, καὶ ἐλογίσθη αὐτῷ εἰς δικαιοσύνην. 4τῷ δὲ ἐργαζομένῳ ὁ μισθὸς
οὐ λογίζεται κατὰ χάριν ἀλλὰ κατὰ ὀφείλημα· 5τῷ δὲ μὴ ἐργαζομένῳ, πιστεύοντι δὲ
ἐπὶ τὸν δικαιοῦντα τὸν ἀσεβῆ, λογίζεται ἡ πίστις αὐτοῦ εἰς δικαιοσύνην, 6καθάπερ καὶ
Δαυὶδ λέγει τὸν μακαρισμὸν τοῦ ἀνθρώπου ᾧ ὁ θεὸς λογίζεται δικαιοσύνην χωρὶς
ἔργων, 7Μακάριοι ὧν ἀφέθησαν αἱ ἀνομίαι καὶ ὧν ἐπεκαλύφθησαν αἱ ἁμαρτίαι·
8
μακάριος ἀνὴρ οὗ οὐ μὴ λογίσηται κύριος ἁμαρτίαν. 9ὁ μακαρισμὸς οὖν οὗτος ἐπὶ τὴν
περιτομὴν ἢ καὶ ἐπὶ τὴν ἀκροβυστίαν; λέγομεν γάρ, Ἐλογίσθη τῷ Ἀβραὰμ ἡ πίστις εἰς
δικαιοσύνην. 10πῶς οὖν ἐλογίσθη; ἐν περιτομῇ ὄντι ἢ ἐν ἀκροβυστίᾳ; οὐκ ἐν περιτομῇ
ἀλλ’ ἐν ἀκροβυστίᾳ· 11καὶ σημεῖον ἔλαβεν περιτομῆς, σφραγῖδα τῆς δικαιοσύνης τῆς
πίστεως τῆς ἐν τῇ ἀκροβυστίᾳ, εἰς τὸ εἶναι αὐτὸν πατέρα πάντων τῶν πιστευόντων
δι’ ἀκροβυστίας, εἰς τὸ λογισθῆναι [καὶ] αὐτοῖς [τὴν] δικαιοσύνην, 12καὶ πατέρα
περιτομῆς τοῖς οὐκ ἐκ περιτομῆς μόνον ἀλλὰ καὶ τοῖς στοιχοῦσιν τοῖς ἴχνεσιν τῆς
ἐν ἀκροβυστίᾳ πίστεως τοῦ πατρὸς ἡμῶν Ἀβραάμ. 13Οὐ γὰρ διὰ νόμου ἡ ἐπαγγελία
τῷ Ἀβραὰμ ἢ τῷ σπέρματι αὐτοῦ, τὸ κληρονόμον αὐτὸν εἶναι κόσμου, ἀλλὰ διὰ
δικαιοσύνης πίστεως· 14εἰ γὰρ οἱ ἐκ νόμου κληρονόμοι, κεκένωται ἡ πίστις καὶ
κατήργηται ἡ ἐπαγγελία· 15ὁ γὰρ νόμος ὀργὴν κατεργάζεται· οὗ δὲ οὐκ ἔστιν νόμος, οὐδὲ
παράβασις. 16διὰ τοῦτο ἐκ πίστεως, ἵνα κατὰ χάριν, εἰς τὸ εἶναι βεβαίαν τὴν ἐπαγγελίαν
παντὶ τῷ σπέρματι, οὐ τῷ ἐκ τοῦ νόμου μόνον ἀλλὰ καὶ τῷ ἐκ πίστεως Ἀβραάμ, ὅς
ἐστιν πατὴρ πάντων ἡμῶν, 17καθὼς γέγραπται ὅτι Πατέρα πολλῶν ἐθνῶν τέθεικά σε,
177

Cristo, per tutti quelli che credono. E non c’è distinzione: [23]tutti hanno peccato e
sono privi della gloria di Dio, [24]ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia,
in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. [25]Dio lo ha prestabilito a servire
come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di mani-
festare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, [26]nel tempo
della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere
giusto e giustificare chi ha fede in Gesù.
La funzione della fede
[27]Dove sta dunque il vanto? Esso è stato escluso! Da quale legge? Da quella delle
opere? No, ma dalla legge della fede. [28]Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato
per la fede indipendentemente dalle opere della legge. [29]Forse Dio è Dio soltanto dei
Giudei? Non lo è anche dei pagani? Certo, anche dei pagani! [30]Poiché non c’è che un
solo Dio, il quale giustificherà per la fede i circoncisi, e per mezzo della fede anche i non
circoncisi. [31]Togliamo dunque ogni valore alla legge mediante la fede? Nient’affatto,
anzi confermiamo la legge.
Capitolo 4
C. L’esempio di Abramo
Abramo giustificato dalla fede
[1]Che diremo dunque di Abramo, nostro antenato secondo la carne? [2]Se infatti
Abramo è stato giustificato per le opere, certo ha di che gloriarsi, ma non davanti a Dio.
[3]Ora, che cosa dice la Scrittura? Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come
giustizia [Gen 15, 6]. [4]A chi lavora, il salario non viene calcolato come un dono, ma
come debito; [5]a chi invece non lavora, ma crede in colui che giustifica l’empio, la sua
fede gli viene accreditata come giustizia. [6]Così anche Davide proclama beato l’uomo a
cui Dio accredita la giustizia indipendentemente dalle opere:
[7]Beati quelli le cui iniquità sono state perdonate
e i peccati sono stati ricoperti;
[8]beato l’uomo al quale il Signore non mette in conto il peccato! [Sal 32, 1-2]
Indipendentemente dalla circoncisione
[9]Orbene, questa beatitudine riguarda chi è circonciso o anche chi non è circonciso?
Noi diciamo infatti che la fede fu accreditata ad Abramo come giustizia. [10]Come
dunque gli fu accreditata? Quando era circonciso o quando non lo era? Non certo dopo
la circoncisione, ma prima. [11]Infatti egli ricevette il segno della circoncisione [Gen
17, 11] quale sigillo della giustizia derivante dalla fede che aveva gia ottenuta quando
non era ancora circonciso; questo perché fosse padre di tutti i non circoncisi che cre-
dono e perché anche a loro venisse accreditata la giustizia [12]e fosse padre anche dei
circoncisi, di quelli che non solo hanno la circoncisione, ma camminano anche sulle
orme della fede del nostro padre Abramo prima della sua circoncisione.
Indipendentemente dalla legge
[13]Non infatti in virtù della legge fu data ad Abramo o alla sua discendenza la pro-
messa di diventare erede del mondo, ma in virtù della giustizia che viene dalla fede; [14]
poiché se diventassero eredi coloro che provengono dalla legge, sarebbe resa vana la fede
e nulla la promessa. [15]La legge infatti provoca l’ira; al contrario, dove non c’è legge,
non c’è nemmeno trasgressione. [16]Eredi quindi si diventa per la fede, perché ciò sia
per grazia e così la promessa sia sicura per tutta la discendenza, non soltanto per quella
che deriva dalla legge, ma anche per quella che deriva dalla fede di Abramo, il quale è
padre di tutti noi. [17]Infatti sta scritto: Ti ho costituito padre di molti popoli [Gen 17, 5];
178

κατέναντι οὗ ἐπίστευσεν θεοῦ τοῦ ζῳοποιοῦντος τοὺς νεκροὺς καὶ καλοῦντος τὰ μὴ


ὄντα ὡς ὄντα· 18ὃς παρ’ ἐλπίδα ἐπ’ ἐλπίδι ἐπίστευσεν εἰς τὸ γενέσθαι αὐτὸν πατέρα
πολλῶν ἐθνῶν κατὰ τὸ εἰρημένον, Οὕτως ἔσται τὸ σπέρμα σου· 19καὶ μὴ ἀσθενήσας τῇ
πίστει κατενόησεν τὸ ἑαυτοῦ σῶμα [ἤδη] νενεκρωμένον, ἑκατονταετής που ὑπάρχων,
καὶ τὴν νέκρωσιν τῆς μήτρας Σάρρας, 20εἰς δὲ τὴν ἐπαγγελίαν τοῦ θεοῦ οὐ διεκρίθη
τῇ ἀπιστίᾳ ἀλλ’ ἐνεδυναμώθη τῇ πίστει, δοὺς δόξαν τῷ θεῷ 21καὶ πληροφορηθεὶς ὅτι
ὃ ἐπήγγελται δυνατός ἐστιν καὶ ποιῆσαι. 22διὸ [καὶ] ἐλογίσθη αὐτῷ εἰς δικαιοσύνην.
23
Οὐκ ἐγράφη δὲ δι’ αὐτὸν μόνον ὅτι ἐλογίσθη αὐτῷ, 24ἀλλὰ καὶ δι’ ἡμᾶς οἷς μέλλει
λογίζεσθαι, τοῖς πιστεύουσιν ἐπὶ τὸν ἐγείραντα Ἰησοῦν τὸν κύριον ἡμῶν ἐκ νεκρῶν,
25
ὃς παρεδόθη διὰ τὰ παραπτώματα ἡμῶν καὶ ἠγέρθη διὰ τὴν δικαίωσιν ἡμῶν.
5
1
Δικαιωθέντες οὖν ἐκ πίστεως εἰρήνην ἔχομεν πρὸς τὸν θεὸν διὰ τοῦ κυρίου ἡμῶν
Ἰησοῦ Χριστοῦ, 2δι’ οὗ καὶ τὴν προσαγωγὴν ἐσχήκαμεν [τῇ πίστει] εἰς τὴν χάριν ταύτην
ἐν ἧ ἑστήκαμεν, καὶ καυχώμεθα ἐπ’ ἐλπίδι τῆς δόξης τοῦ θεοῦ. 3οὐ μόνον δέ, ἀλλὰ
καὶ καυχώμεθα ἐν ταῖς θλίψεσιν, εἰδότες ὅτι ἡ θλῖψις ὑπομονὴν κατεργάζεται, 4ἡ δὲ
ὑπομονὴ δοκιμήν, ἡ δὲ δοκιμὴ ἐλπίδα· 5ἡ δὲ ἐλπὶς οὐ καταισχύνει, ὅτι ἡ ἀγάπη τοῦ
θεοῦ ἐκκέχυται ἐν ταῖς καρδίαις ἡμῶν διὰ πνεύματος ἁγίου τοῦ δοθέντος ἡμῖν, 6ἔτι
γὰρ Χριστὸς ὄντων ἡμῶν ἀσθενῶν ἔτι κατὰ καιρὸν ὑπὲρ ἀσεβῶν ἀπέθανεν. 7μόλις γὰρ
ὑπὲρ δικαίου τις ἀποθανεῖται· ὑπὲρ γὰρ τοῦ ἀγαθοῦ τάχα τις καὶ τολμᾷ ἀποθανεῖν·
8
συνίστησιν δὲ τὴν ἑαυτοῦ ἀγάπην εἰς ἡμᾶς ὁ θεὸς ὅτι ἔτι ἁμαρτωλῶν ὄντων ἡμῶν
Χριστὸς ὑπὲρ ἡμῶν ἀπέθανεν. 9πολλῷ οὖν μᾶλλον δικαιωθέντες νῦν ἐν τῷ αἵματι
αὐτοῦ σωθησόμεθα δι’ αὐτοῦ ἀπὸ τῆς ὀργῆς. 10εἰ γὰρ ἐχθροὶ ὄντες κατηλλάγημεν τῷ
θεῷ διὰ τοῦ θανάτου τοῦ υἱοῦ αὐτοῦ, πολλῷ μᾶλλον καταλλαγέντες σωθησόμεθα ἐν
τῇ ζωῇ αὐτοῦ· 11οὐ μόνον δέ, ἀλλὰ καὶ καυχώμενοι ἐν τῷ θεῷ διὰ τοῦ κυρίου ἡμῶν
Ἰησοῦ Χριστοῦ, δι’ οὗ νῦν τὴν καταλλαγὴν ἐλάβομεν. 12Διὰ τοῦτο ὥσπερ δι’ ἑνὸς
ἀνθρώπου ἡ ἁμαρτία εἰς τὸν κόσμον εἰσῆλθεν καὶ διὰ τῆς ἁμαρτίας ὁ θάνατος, καὶ
οὕτως εἰς πάντας ἀνθρώπους ὁ θάνατος διῆλθεν, ἐφ’ ᾧ πάντες ἥμαρτον 13ἄχρι γὰρ
νόμου ἁμαρτία ἦν ἐν κόσμῳ, ἁμαρτία δὲ οὐκ ἐλλογεῖται μὴ ὄντος νόμου· 14ἀλλὰ
ἐβασίλευσεν ὁ θάνατος ἀπὸ Ἀδὰμ μέχρι Μωϋσέως καὶ ἐπὶ τοὺς μὴ ἁμαρτήσαντας
ἐπὶ τῷ ὁμοιώματι τῆς παραβάσεως Ἀδάμ, ὅς ἐστιν τύπος τοῦ μέλλοντος.
15
Ἀλλ’ οὐχ ὡς τὸ παράπτωμα, οὕτως καὶ τὸ χάρισμα· εἰ γὰρ τῷ τοῦ ἑνὸς παραπτώματι
οἱ πολλοὶ ἀπέθανον, πολλῷ μᾶλλον ἡ χάρις τοῦ θεοῦ καὶ ἡ δωρεὰ ἐν χάριτι τῇ τοῦ
ἑνὸς ἀνθρώπου Ἰησοῦ Χριστοῦ εἰς τοὺς πολλοὺς ἐπερίσσευσεν. 16καὶ οὐχ ὡς δι’ ἑνὸς
ἁμαρτήσαντος τὸ δώρημα· τὸ μὲν γὰρ κρίμα ἐξ ἑνὸς εἰς κατάκριμα, τὸ δὲ χάρισμα ἐκ
πολλῶν παραπτωμάτων εἰς δικαίωμα. 17εἰ γὰρ τῷ τοῦ ἑνὸς παραπτώματι ὁ θάνατος
ἐβασίλευσεν διὰ τοῦ ἑνός, πολλῷ μᾶλλον οἱ τὴν περισσείαν τῆς χάριτος καὶ τῆς δωρεᾶς
τῆς δικαιοσύνης λαμβάνοντες ἐν ζωῇ βασιλεύσουσιν διὰ τοῦ ἑνὸς Ἰησοῦ Χριστοῦ.
179

(è nostro padre) davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai morti e chiama all’esi-
stenza le cose che ancora non esistono.
La fede di Abramo e la fede del cristiano
[18]Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli,
come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza [Gen 15, 5]. [19]Egli non vacillò nella
fede, pur vedendo gia come morto il proprio corpo – aveva circa cento anni – e morto il
seno di Sara. [20]Per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede
e diede gloria a Dio, [21]pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche
capace di portarlo a compimento. [22]Ecco perché gli fu accreditato come giustizia.
[23]E non soltanto per lui è stato scritto che gli fu accreditato come giustizia, [24]ma
anche per noi, ai quali sarà egualmente accreditato: a noi che crediamo in colui che ha
risuscitato dai morti Gesù nostro Signore, [25]il quale è stato messo a morte per i nostri
peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione.
Capitolo 5
2. LA SALVEZZA
La giustificazione pegno della salvezza
[1]Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore
nostro Gesù Cristo; [2]per suo mezzo abbiamo anche ottenuto, mediante la fede, di
accedere a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo nella speranza della
gloria di Dio. [3]E non soltanto questo: noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben
sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata [4]e la
virtù provata la speranza. [5]La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato
riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
[6]Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo
stabilito. [7]Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può
essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. [8]Ma Dio dimostra il suo
amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. [9]
A maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo
di lui. [10]Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo
della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante
la sua vita. [11]Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù
Cristo, dal quale ora abbiamo ottenuto la riconciliazione.
A. Liberazione dal peccato, dalla morte e dalla legge
Adamo e Gesù Cristo
[12]Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato
la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato.
[13]Fino alla legge infatti c’era peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere
imputato quando manca la legge, [14]la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su
quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo, il quale
è figura di colui che doveva venire.
[15]Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo morirono
tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo,
si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini. [16]E non è accaduto per il dono di grazia
come per il peccato di uno solo: il giudizio partì da un solo atto per la condanna, il dono di
grazia invece da molte cadute per la giustificazione. [17]Infatti se per la caduta di uno solo
la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza
della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo.
180

18
Ἄρα οὖν ὡς δι’ ἑνὸς παραπτώματος εἰς πάντας ἀνθρώπους εἰς κατάκριμα, οὕτως καὶ
δι’ ἑνὸς δικαιώματος εἰς πάντας ἀνθρώπους εἰς δικαίωσιν ζωῆς· 19ὥσπερ γὰρ διὰ τῆς
παρακοῆς τοῦ ἑνὸς ἀνθρώπου ἁμαρτωλοὶ κατεστάθησαν οἱ πολλοί, οὕτως καὶ διὰ τῆς
ὑπακοῆς τοῦ ἑνὸς δίκαιοι κατασταθήσονται οἱ πολλοί. 20νόμος δὲ παρεισῆλθεν ἵνα
πλεονάσῃ τὸ παράπτωμα· οὗ δὲ ἐπλεόνασεν ἡ ἁμαρτία, ὑπερεπερίσσευσεν ἡ χάρις,
21
ἵνα ὥσπερ ἐβασίλευσεν ἡ ἁμαρτία ἐν τῷ θανάτῳ, οὕτως καὶ ἡ χάρις βασιλεύσῃ διὰ
δικαιοσύνης εἰς ζωὴν αἰώνιον διὰ Ἰησοῦ Χριστοῦ τοῦ κυρίου ἡμῶν.
6
1
Τί οὖν ἐροῦμεν; ἐπιμένωμεν τῇ ἁμαρτίᾳ, ἵνα ἡ χάρις πλεονάσῃ; 2μὴ γένοιτο· οἵτινες
ἀπεθάνομεν τῇ ἁμαρτίᾳ, πῶς ἔτι ζήσομεν ἐν αὐτῇ; 3ἢ ἀγνοεῖτε ὅτι ὅσοι ἐβαπτίσθημεν
εἰς Χριστὸν Ἰησοῦν εἰς τὸν θάνατον αὐτοῦ ἐβαπτίσθημεν; 4συνετάφημεν οὖν αὐτῷ
διὰ τοῦ βαπτίσματος εἰς τὸν θάνατον, ἵνα ὥσπερ ἠγέρθη Χριστὸς ἐκ νεκρῶν διὰ τῆς
δόξης τοῦ πατρός, οὕτως καὶ ἡμεῖς ἐν καινότητι ζωῆς περιπατήσωμεν. 5εἰ γὰρ σύμφυτοι
γεγόναμεν τῷ ὁμοιώματι τοῦ θανάτου αὐτοῦ, ἀλλὰ καὶ τῆς ἀναστάσεως ἐσόμεθα·
6
τοῦτο γινώσκοντες, ὅτι ὁ παλαιὸς ἡμῶν ἄνθρωπος συνεσταυρώθη, ἵνα καταργηθῇ
τὸ σῶμα τῆς ἁμαρτίας, τοῦ μηκέτι δουλεύειν ἡμᾶς τῇ ἁμαρτίᾳ· 7ὁ γὰρ ἀποθανὼν
δεδικαίωται ἀπὸ τῆς ἁμαρτίας. 8εἰ δὲ ἀπεθάνομεν σὺν Χριστῷ, πιστεύομεν ὅτι καὶ
συζήσομεν αὐτῷ· 9εἰδότες ὅτι Χριστὸς ἐγερθεὶς ἐκ νεκρῶν οὐκέτι ἀποθνῄσκει, θάνατος
αὐτοῦ οὐκέτι κυριεύει. 10ὃ γὰρ ἀπέθανεν, τῇ ἁμαρτίᾳ ἀπέθανεν ἐφάπαξ· ὃ δὲ ζῇ, ζῇ τῷ
θεῷ. 11οὕτως καὶ ὑμεῖς λογίζεσθε ἑαυτοὺς [εἶναι] νεκροὺς μὲν τῇ ἁμαρτίᾳ ζῶντας δὲ τῷ
θεῷ ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ. 12Μὴ οὖν βασιλευέτω ἡ ἁμαρτία ἐν τῷ θνητῷ ὑμῶν σώματι εἰς τὸ
ὑπακούειν ταῖς ἐπιθυμίαις αὐτοῦ, 13μηδὲ παριστάνετε τὰ μέλη ὑμῶν ὅπλα ἀδικίας τῇ
ἁμαρτίᾳ, ἀλλὰ παραστήσατε ἑαυτοὺς τῷ θεῷ ὡσεὶ ἐκ νεκρῶν ζῶντας καὶ τὰ μέλη ὑμῶν
ὅπλα δικαιοσύνης τῷ θεῷ· 14ἁμαρτία γὰρ ὑμῶν οὐ κυριεύσει, οὐ γάρ ἐστε ὑπὸ νόμον
ἀλλὰ ὑπὸ χάριν. 15Τί οὖν; ἁμαρτήσωμεν ὅτι οὐκ ἐσμὲν ὑπὸ νόμον ἀλλὰ ὑπὸ χάριν; μὴ
γένοιτο. 16οὐκ οἴδατε ὅτι ᾧ παριστάνετε ἑαυτοὺς δούλους εἰς ὑπακοήν, δοῦλοί ἐστε ᾧ
ὑπακούετε, ἤτοι ἁμαρτίας εἰς θάνατον ἢ ὑπακοῆς εἰς δικαιοσύνην; 17χάρις δὲ τῷ θεῷ ὅτι
ἦτε δοῦλοι τῆς ἁμαρτίας ὑπηκούσατε δὲ ἐκ καρδίας εἰς ὃν παρεδόθητε τύπον διδαχῆς,
18
ἐλευθερωθέντες δὲ ἀπὸ τῆς ἁμαρτίας ἐδουλώθητε τῇ δικαιοσύνῃ· 19ἀνθρώπινον λέγω
διὰ τὴν ἀσθένειαν τῆς σαρκὸς ὑμῶν. ὥσπερ γὰρ παρεστήσατε τὰ μέλη ὑμῶν δοῦλα
τῇ ἀκαθαρσίᾳ καὶ τῇ ἀνομίᾳ εἰς τὴν ἀνομίαν, οὕτως νῦν παραστήσατε τὰ μέλη ὑμῶν
δοῦλα τῇ δικαιοσύνῃ εἰς ἁγιασμόν. 20ὅτε γὰρ δοῦλοι ἦτε τῆς ἁμαρτίας, ἐλεύθεροι ἦτε
τῇ δικαιοσύνῃ. 21τίνα οὖν καρπὸν εἴχετε τότε ἐφ’ οἷς νῦν ἐπαισχύνεσθε; τὸ γὰρ τέλος
ἐκείνων θάνατος. 22νυνὶ δέ, ἐλευθερωθέντες ἀπὸ τῆς ἁμαρτίας δουλωθέντες δὲ τῷ θεῷ,
ἔχετε τὸν καρπὸν ὑμῶν εἰς ἁγιασμόν, τὸ δὲ τέλος ζωὴν αἰώνιον. 23τὰ γὰρ ὀψώνια τῆς
ἁμαρτίας θάνατος, τὸ δὲ χάρισμα τοῦ θεοῦ ζωὴ αἰώνιος ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ τῷ κυρίῳ
ἡμῶν.
7
1
Ἢ ἀγνοεῖτε, ἀδελφοί, γινώσκουσιν γὰρ νόμον λαλῶ, ὅτι ὁ νόμος
κυριεύει τοῦ ἀνθρώπου ἐφ’ ὅσον χρόνον ζῇ; 2ἡ γὰρ ὕπανδρος γυνὴ τῷ ζῶντι
181

[18]Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna,
così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustifi-
cazione che dà vita. [19]Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono
stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti
giusti.
[20]La legge poi sopraggiunse a dare piena coscienza della caduta, ma laddove è abbon-
dato il peccato, ha sovrabbondato la grazia, [21]perché come il peccato aveva regnato
con la morte, così regni anche la grazia con la giustizia per la vita eterna, per mezzo di
Gesù Cristo nostro Signore.
Capitolo 6
Il battesimo
[1]Che diremo dunque? Continuiamo a restare nel peccato perché abbondi la grazia?
[2]È assurdo! Noi che gia siamo morti al peccato, come potremo ancora vivere nel pec-
cato? [3]O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati bat-
tezzati nella sua morte? [4]Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme
a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del
Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. [5]Se infatti siamo stati
completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua
risurrezione. [6]Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui,
perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. [7]
Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato.
[8]Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, [9]sapendo che Cri-
sto risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui. [10]Per quanto
riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli
vive, vive per Dio. [11]Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio,
in Cristo Gesù.
A servizio del peccato e a servizio della giustizia
[12]Non regni più dunque il peccato nel vostro corpo mortale, sì da sottomettervi ai suoi
desideri; [13]non offrite le vostre membra come strumenti di ingiustizia al peccato, ma
offrite voi stessi a Dio come vivi tornati dai morti e le vostre membra come strumenti
di giustizia per Dio. [14]Il peccato infatti non dominerà più su di voi poiché non siete
più sotto la legge, ma sotto la grazia.
Il cristiano è liberato dal peccato
[15]Che dunque? Dobbiamo commettere peccati perché non siamo più sotto la legge,
ma sotto la grazia? È assurdo! [16]Non sapete voi che, se vi mettete a servizio di qual-
cuno come schiavi per obbedirgli, siete schiavi di colui al quale servite: sia del peccato
che porta alla morte, sia dell’obbedienza che conduce alla giustizia? [17]Rendiamo gra-
zie a Dio, perché voi eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a quell’in-
segnamento che vi è stato trasmesso [18]e così, liberati dal peccato, siete diventati servi
della giustizia.
[19]Parlo con esempi umani, a causa della debolezza della vostra carne. Come avete
messo le vostre membra a servizio dell’impurità e dell’iniquità a pro dell’iniquità, così
ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia per la vostra santificazione.
Capitolo 7
Il cristiano è liberato dalla legge
[1]O forse ignorate, fratelli – parlo a gente esperta di legge – che la legge ha potere
sull’uomo solo per il tempo in cui egli vive? [2]La donna sposata, infatti, è legata dalla
182

ἀνδρὶ δέδεται νόμῳ· ἐὰν δὲ ἀποθάνῃ ὁ ἀνήρ, κατήργηται ἀπὸ τοῦ νόμου τοῦ ἀνδρός. 3ἄρα
οὖν ζῶντος τοῦ ἀνδρὸς μοιχαλὶς χρηματίσει ἐὰν γένηται ἀνδρὶ ἑτέρῳ· ἐὰν δὲ ἀποθάνῃ
ὁ ἀνήρ, ἐλευθέρα ἐστὶν ἀπὸ τοῦ νόμου, τοῦ μὴ εἶναι αὐτὴν μοιχαλίδα γενομένην ἀνδρὶ
ἑτέρῳ. 4ὥστε, ἀδελφοί μου, καὶ ὑμεῖς ἐθανατώθητε τῷ νόμῳ διὰ τοῦ σώματος τοῦ
Χριστοῦ, εἰς τὸ γενέσθαι ὑμᾶς ἑτέρῳ, τῷ ἐκ νεκρῶν ἐγερθέντι, ἵνα καρποφορήσωμεν τῷ
θεῷ. 5ὅτε γὰρ ἦμεν ἐν τῇ σαρκί, τὰ παθήματα τῶν ἁμαρτιῶν τὰ διὰ τοῦ νόμου ἐνηργεῖτο
ἐν τοῖς μέλεσιν ἡμῶν εἰς τὸ καρποφορῆσαι τῷ θανάτῳ· 6νυνὶ δὲ κατηργήθημεν ἀπὸ τοῦ
νόμου, ἀποθανόντες ἐν ᾧ κατειχόμεθα, ὥστε δουλεύειν ἡμᾶς ἐν καινότητι πνεύματος
καὶ οὐ παλαιότητι γράμματος. 7Τί οὖν ἐροῦμεν; ὁ νόμος ἁμαρτία; μὴ γένοιτο· ἀλλὰ
τὴν ἁμαρτίαν οὐκ ἔγνων εἰ μὴ διὰ νόμου, τήν τε γὰρ ἐπιθυμίαν οὐκ ᾔδειν εἰ μὴ ὁ
νόμος ἔλεγεν, Οὐκ ἐπιθυμήσεις. 8ἀφορμὴν δὲ λαβοῦσα ἡ ἁμαρτία διὰ τῆς ἐντολῆς
κατειργάσατο ἐν ἐμοὶ πᾶσαν ἐπιθυμίαν· χωρὶς γὰρ νόμου ἁμαρτία νεκρά. 9ἐγὼ δὲ ἔζων
χωρὶς νόμου ποτέ· ἐλθούσης δὲ τῆς ἐντολῆς ἡ ἁμαρτία ἀνέζησεν, 10ἐγὼ δὲ ἀπέθανον, καὶ
εὑρέθη μοι ἡ ἐντολὴ ἡ εἰς ζωὴν αὕτη εἰς θάνατον· 11ἡ γὰρ ἁμαρτία ἀφορμὴν λαβοῦσα
διὰ τῆς ἐντολῆς ἐξηπάτησέν με καὶ δι’ αὐτῆς ἀπέκτεινεν. 12ὥστε ὁ μὲν νόμος ἅγιος, καὶ
ἡ ἐντολὴ ἁγία καὶ δικαία καὶ ἀγαθή. 13Τὸ οὖν ἀγαθὸν ἐμοὶ ἐγένετο θάνατος; μὴ γένοιτο·
ἀλλὰ ἡ ἁμαρτία, ἵνα φανῇ ἁμαρτία, διὰ τοῦ ἀγαθοῦ μοι κατεργαζομένη θάνατον· ἵνα
γένηται καθ’ ὑπερβολὴν ἁμαρτωλὸς ἡ ἁμαρτία διὰ τῆς ἐντολῆς. 14οἴδαμεν γὰρ ὅτι ὁ
νόμος πνευματικός ἐστιν· ἐγὼ δὲ σάρκινός εἰμι, πεπραμένος ὑπὸ τὴν ἁμαρτίαν. 15ὃ γὰρ
κατεργάζομαι οὐ γινώσκω· οὐ γὰρ ὃ θέλω τοῦτο πράσσω, ἀλλ’ ὃ μισῶ τοῦτο ποιῶ. 16εἰ δὲ
ὃ οὐ θέλω τοῦτο ποιῶ, σύμφημι τῷ νόμῳ ὅτι καλός. 17νυνὶ δὲ οὐκέτι ἐγὼ κατεργάζομαι
αὐτὸ ἀλλὰ ἡ οἰκοῦσα ἐν ἐμοὶ ἁμαρτία. 18οἶδα γὰρ ὅτι οὐκ οἰκεῖ ἐν ἐμοί, τοῦτ’ ἔστιν ἐν
τῇ σαρκί μου, ἀγαθόν· τὸ γὰρ θέλειν παράκειταί μοι, τὸ δὲ κατεργάζεσθαι τὸ καλὸν οὔ·
19
οὐ γὰρ ὃ θέλω ποιῶ ἀγαθόν, ἀλλὰ ὃ οὐ θέλω κακὸν τοῦτο πράσσω. 20εἰ δὲ ὃ οὐ θέλω
[ἐγὼ] τοῦτο ποιῶ, οὐκέτι ἐγὼ κατεργάζομαι αὐτὸ ἀλλὰ ἡ οἰκοῦσα ἐν ἐμοὶ ἁμαρτία.
21
Εὑρίσκω ἄρα τὸν νόμον τῷ θέλοντι ἐμοὶ ποιεῖν τὸ καλὸν ὅτι ἐμοὶ τὸ κακὸν παράκειται·
22
συνήδομαι γὰρ τῷ νόμῳ τοῦ θεοῦ κατὰ τὸν ἔσω ἄνθρωπον, 23βλέπω δὲ ἕτερον νόμον
ἐν τοῖς μέλεσίν μου ἀντιστρατευόμενον τῷ νόμῳ τοῦ νοός μου καὶ αἰχμαλωτίζοντά με
ἐν τῷ νόμῳ τῆς ἁμαρτίας τῷ ὄντι ἐν τοῖς μέλεσίν μου. 24ταλαίπωρος ἐγὼ ἄνθρωπος· τίς
με ῥύσεται ἐκ τοῦ σώματος τοῦ θανάτου τούτου; 25χάρις δὲ τῷ θεῷ διὰ Ἰησοῦ Χριστοῦ
τοῦ κυρίου ἡμῶν. ἄρα οὖν αὐτὸς ἐγὼ τῷ μὲν νοῒ δουλεύω νόμῳ θεοῦ, τῇ δὲ σαρκὶ νόμῳ
ἁμαρτίας.
8
1
Οὐδὲν ἄρα νῦν κατάκριμα τοῖς ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ· 2ὁ γὰρ νόμος τοῦ πνεύματος τῆς
ζωῆς ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ ἠλευθέρωσέν σε ἀπὸ τοῦ νόμου τῆς ἁμαρτίας καὶ τοῦ θανάτου. 3τὸ
γὰρ ἀδύνατον τοῦ νόμου, ἐν ᾧ ἠσθένει διὰ τῆς σαρκός, ὁ θεὸς τὸν ἑαυτοῦ υἱὸν πέμψας ἐν
ὁμοιώματι σαρκὸς ἁμαρτίας καὶ περὶ ἁμαρτίας κατέκρινεν τὴν ἁμαρτίαν ἐν τῇ σαρκί,
183

legge al marito finché egli vive; ma se il marito muore, è libera dalla legge che la lega al
marito. [3]Essa sarà dunque chiamata adultera se, mentre vive il marito, passa a un altro
uomo, ma se il marito muore, essa è libera dalla legge e non è più adultera se passa a un
altro uomo. [4]Alla stessa maniera, fratelli miei, anche voi, mediante il corpo di Cristo,
siete stati messi a morte quanto alla legge, per appartenere ad un altro, cioè a colui che
fu risuscitato dai morti, affinchè noi portiamo frutti per Dio. [5]Quando infatti eravamo
nella carne, le passioni peccaminose, stimolate dalla legge, si scatenavano nelle nostre
membra al fine di portare frutti per la morte. [6]Ora però siamo stati liberati dalla legge,
essendo morti a ciò che ci teneva prigionieri, per servire nel regime nuovo dello Spirito e
non nel regime vecchio della lettera.
La funzione della legge
[7]Che diremo dunque? Che la legge è peccato? No certamente! Però io non ho cono-
sciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge
non avesse detto: Non desiderare [Es 20, 17]. [8]Prendendo pertanto occasione da
questo comandamento, il peccato scatenò in me ogni sorta di desideri. Senza la legge
infatti il peccato è morto [9]e io un tempo vivevo senza la legge. Ma, sopraggiunto
quel comandamento, il peccato ha preso vita [10]e io sono morto; la legge, che doveva
servire per la vita, è divenuta per me motivo di morte. [11]Il peccato infatti, pren-
dendo occasione dal comandamento, mi ha sedotto e per mezzo di esso mi ha dato la
morte. [12]Così la legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento. [13]Ciò
che è bene è allora diventato morte per me? No davvero! È invece il peccato: esso per
rivelarsi peccato mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene, perché il peccato
apparisse oltre misura peccaminoso per mezzo del comandamento.
La lotta interiore
[14]Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, ven-
duto come schiavo del peccato. [15]Io non riesco a capire neppure ciò che faccio:
infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. [16]Ora, se fac-
cio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; [17]quindi non sono
più io a farlo, ma il peccato che abita in me. [18]Io so infatti che in me, cioè nella
mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di
attuarlo; [19]infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio.
[20]Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che
abita in me. [21]Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il
male è accanto a me. [22]Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, [23]ma
nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente
e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. [24]Sono uno
sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? [25]Siano rese grazie a
Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Io dunque, con la mente, servo la legge
di Dio, con la carne invece la legge del peccato.
Capitolo 8
B. La vita del cristiano nello Spirito
La vita nello Spirito
[1]Non c’è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. [2]Poiché
la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato
e della morte. [3]Infatti ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva
impotente, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile
a quella del peccato e in vista del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne,
184

4
ἵνα τὸ δικαίωμα τοῦ νόμου πληρωθῇ ἐν ἡμῖν τοῖς μὴ κατὰ σάρκα περιπατοῦσιν
ἀλλὰ κατὰ πνεῦμα. 5οἱ γὰρ κατὰ σάρκα ὄντες τὰ τῆς σαρκὸς φρονοῦσιν, οἱ δὲ κατὰ
πνεῦμα τὰ τοῦ πνεύματος. 6τὸ γὰρ φρόνημα τῆς σαρκὸς θάνατος, τὸ δὲ φρόνημα
τοῦ πνεύματος ζωὴ καὶ εἰρήνη· 7διότι τὸ φρόνημα τῆς σαρκὸς ἔχθρα εἰς θεόν, τῷ γὰρ
νόμῳ τοῦ θεοῦ οὐχ ὑποτάσσεται, οὐδὲ γὰρ δύναται· 8οἱ δὲ ἐν σαρκὶ ὄντες θεῷ ἀρέσαι
οὐ δύνανται. 9ὑμεῖς δὲ οὐκ ἐστὲ ἐν σαρκὶ ἀλλὰ ἐν πνεύματι, εἴπερ πνεῦμα θεοῦ οἰκεῖ
ἐν ὑμῖν. εἰ δέ τις πνεῦμα Χριστοῦ οὐκ ἔχει, οὗτος οὐκ ἔστιν αὐτοῦ. 10εἰ δὲ Χριστὸς ἐν
ὑμῖν, τὸ μὲν σῶμα νεκρὸν διὰ ἁμαρτίαν, τὸ δὲ πνεῦμα ζωὴ διὰ δικαιοσύνην. 11εἰ δὲ
τὸ πνεῦμα τοῦ ἐγείραντος τὸν Ἰησοῦν ἐκ νεκρῶν οἰκεῖ ἐν ὑμῖν, ὁ ἐγείρας Χριστὸν ἐκ
νεκρῶν ζῳοποιήσει καὶ τὰ θνητὰ σώματα ὑμῶν διὰ τοῦ ἐνοικοῦντος αὐτοῦ πνεύματος
ἐν ὑμῖν. 12Ἄρα οὖν, ἀδελφοί, ὀφειλέται ἐσμέν, οὐ τῇ σαρκὶ τοῦ κατὰ σάρκα ζῆν· 13εἰ
γὰρ κατὰ σάρκα ζῆτε μέλλετε ἀποθνῄσκειν, εἰ δὲ πνεύματι τὰς πράξεις τοῦ σώματος
θανατοῦτε ζήσεσθε. 14ὅσοι γὰρ πνεύματι θεοῦ ἄγονται, οὗτοι υἱοὶ θεοῦ εἰσιν. 15οὐ γὰρ
ἐλάβετε πνεῦμα δουλείας πάλιν εἰς φόβον, ἀλλὰ ἐλάβετε πνεῦμα υἱοθεσίας, ἐν ᾧ
κράζομεν, Αββα ὁ πατήρ· 16αὐτὸ τὸ πνεῦμα συμμαρτυρεῖ τῷ πνεύματι ἡμῶν ὅτι ἐσμὲν
τέκνα θεοῦ. 17εἰ δὲ τέκνα, καὶ κληρονόμοι· κληρονόμοι μὲν θεοῦ, συγκληρονόμοι δὲ
Χριστοῦ, εἴπερ συμπάσχομεν ἵνα καὶ συνδοξασθῶμεν. 18Λογίζομαι γὰρ ὅτι οὐκ ἄξια
τὰ παθήματα τοῦ νῦν καιροῦ πρὸς τὴν μέλλουσαν δόξαν ἀποκαλυφθῆναι εἰς ἡμᾶς.
19
ἡ γὰρ ἀποκαραδοκία τῆς κτίσεως τὴν ἀποκάλυψιν τῶν υἱῶν τοῦ θεοῦ ἀπεκδέχεται·
20
τῇ γὰρ ματαιότητι ἡ κτίσις ὑπετάγη, οὐχ ἑκοῦσα ἀλλὰ διὰ τὸν ὑποτάξαντα,
ἐφ’ ἑλπίδι 21ὅτι καὶ αὐτὴ ἡ κτίσις ἐλευθερωθήσεται ἀπὸ τῆς δουλείας τῆς φθορᾶς
εἰς τὴν ἐλευθερίαν τῆς δόξης τῶν τέκνων τοῦ θεοῦ. 22οἴδαμεν γὰρ ὅτι πᾶσα ἡ κτίσις
συστενάζει καὶ συνωδίνει ἄχρι τοῦ νῦν· 23οὐ μόνον δέ, ἀλλὰ καὶ αὐτοὶ τὴν ἀπαρχὴν τοῦ
πνεύματος ἔχοντες ἡμεῖς καὶ αὐτοὶ ἐν ἑαυτοῖς στενάζομεν υἱοθεσίαν ἀπεκδεχόμενοι,
τὴν ἀπολύτρωσιν τοῦ σώματος ἡμῶν. 24τῇ γὰρ ἐλπίδι ἐσώθημεν· ἐλπὶς δὲ βλεπομένη
οὐκ ἔστιν ἐλπίς· ὃ γὰρ βλέπει τίς ἐλπίζει; 25εἰ δὲ ὃ οὐ βλέπομεν ἐλπίζομεν, δι’ ὑπομονῆς
ἀπεκδεχόμεθα. 26Ὡσαύτως δὲ καὶ τὸ πνεῦμα συναντιλαμβάνεται τῇ ἀσθενείᾳ ἡμῶν·
τὸ γὰρ τί προσευξώμεθα καθὸ δεῖ οὐκ οἴδαμεν, ἀλλὰ αὐτὸ τὸ πνεῦμα ὑπερεντυγχάνει
στεναγμοῖς ἀλαλήτοις· 27ὁ δὲ ἐραυνῶν τὰς καρδίας οἶδεν τί τὸ φρόνημα τοῦ
πνεύματος, ὅτι κατὰ θεὸν ἐντυγχάνει ὑπὲρ ἁγίων. 28οἴδαμεν δὲ ὅτι τοῖς ἀγαπῶσιν
τὸν θεὸν πάντα συνεργεῖ εἰς ἀγαθόν, τοῖς κατὰ πρόθεσιν κλητοῖς οὖσιν. 29ὅτι οὓς
προέγνω, καὶ προώρισεν συμμόρφους τῆς εἰκόνος τοῦ υἱοῦ αὐτοῦ, εἰς τὸ εἶναι αὐτὸν
πρωτότοκον ἐν πολλοῖς ἀδελφοῖς· 30οὓς δὲ προώρισεν, τούτους καὶ ἐκάλεσεν· καὶ
οὓς ἐκάλεσεν, τούτους καὶ ἐδικαίωσεν· οὓς δὲ ἐδικαίωσεν, τούτους καὶ ἐδόξασεν.
185

[4]perché la giustizia della legge si adempisse in noi, che non camminiamo secondo la
carne ma secondo lo Spirito.
[5]Quelli infatti che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli
invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito. [6]Ma i desideri della
carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace.
[7]Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perché non si sottomettono
alla sua legge e neanche lo potrebbero. [8]Quelli che vivono secondo la carne non pos-
sono piacere a Dio.
[9]Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo
Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene.
[10]E se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a
causa della giustificazione. [11]E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti
abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi
mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.
[12]Così dunque fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la carne per vivere secondo
la carne; [13]poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello
Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete.
Figli di Dio grazie allo Spirito
[14]Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio.
[15]E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete
ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: «Abbà, Padre!».
[16]Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. [17]E se siamo figli,
siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue
sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.
Destinati alla gloria
[18]Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili
alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi.
[19]La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; [20]essa
infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che
l’ha sottomessa – e nutre la speranza [21]di essere lei pure liberata dalla schiavitù della
corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. [22]Sappiamo bene
infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; [23]
essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo
interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. [24]Poiché
nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza;
infatti, ciò che uno gia vede, come potrebbe ancora sperarlo? [25]Ma se speriamo quello
che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza.
[26]Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nem-
meno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con
insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; [27]e colui che scruta i cuori sa quali sono
i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio.
Il piano della salvezza
[28]Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono
stati chiamati secondo il suo disegno. [29]Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto
li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il
primogenito tra molti fratelli; [30]quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli
che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati.
186

31
Τί οὖν ἐροῦμεν πρὸς ταῦτα; εἰ ὁ θεὸς ὑπὲρ ἡμῶν, τίς καθ’ ἡμῶν; 32ὅς γε τοῦ ἰδίου υἱοῦ
οὐκ ἐφείσατο, ἀλλὰ ὑπὲρ ἡμῶν πάντων παρέδωκεν αὐτόν, πῶς οὐχὶ καὶ σὺν αὐτῷ
τὰ πάντα ἡμῖν χαρίσεται; 33τίς ἐγκαλέσει κατὰ ἐκλεκτῶν θεοῦ; θεὸς ὁ δικαιῶν· 34τίς ὁ
κατακρινῶν; Χριστὸς [Ἰησοῦς] ὁ ἀποθανών, μᾶλλον δὲ ἐγερθείς, ὃς καί ἐστιν ἐν δεξιᾷ
τοῦ θεοῦ, ὃς καὶ ἐντυγχάνει ὑπὲρ ἡμῶν. 35τίς ἡμᾶς χωρίσει ἀπὸ τῆς ἀγάπης τοῦ Χριστοῦ;
θλῖψις ἢ στενοχωρία ἢ διωγμὸς ἢ λιμὸς ἢ γυμνότης ἢ κίνδυνος ἢ μάχαιρα; 36καθὼς
γέγραπται ὅτι Ενεκεν σοῦ θανατούμεθα ὅλην τὴν ἡμέραν, ἐλογίσθημεν ὡς πρόβατα
σφαγῆς. 37ἀλλ’ ἐν τούτοις πᾶσιν ὑπερνικῶμεν διὰ τοῦ ἀγαπήσαντος ἡμᾶς. 38πέπεισμαι
γὰρ ὅτι οὔτε θάνατος οὔτε ζωὴ οὔτε ἄγγελοι οὔτε ἀρχαὶ οὔτε ἐνεστῶτα οὔτε μέλλοντα
οὔτε δυνάμεις 39οὔτε ὕψωμα οὔτε βάθος οὔτε τις κτίσις ἑτέρα δυνήσεται ἡμᾶς χωρίσαι
ἀπὸ τῆς ἀγάπης τοῦ θεοῦ τῆς ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ τῷ κυρίῳ ἡμῶν.
9
1
Ἀλήθειαν λέγω ἐν Χριστῷ, οὐ ψεύδομαι, συμμαρτυρούσης μοι τῆς συνειδήσεώς
μου ἐν πνεύματι ἁγίῳ, 2ὅτι λύπη μοί ἐστιν μεγάλη καὶ ἀδιάλειπτος ὀδύνη τῇ καρδίᾳ
μου. 3ηὐχόμην γὰρ ἀνάθεμα εἶναι αὐτὸς ἐγὼ ἀπὸ τοῦ Χριστοῦ ὑπὲρ τῶν ἀδελφῶν μου
τῶν συγγενῶν μου κατὰ σάρκα, 4οἵτινές εἰσιν Ἰσραηλῖται, ὧν ἡ υἱοθεσία καὶ ἡ δόξα
καὶ αἱ διαθῆκαι καὶ ἡ νομοθεσία καὶ ἡ λατρεία καὶ αἱ ἐπαγγελίαι, 5ὧν οἱ πατέρες, καὶ
ἐξ ὧν ὁ Χριστὸς τὸ κατὰ σάρκα· ὁ ὢν ἐπὶ πάντων θεὸς εὐλογητὸς εἰς τοὺς αἰῶνας,
ἀμήν. 6Οὐχ οἷον δὲ ὅτι ἐκπέπτωκεν ὁ λόγος τοῦ θεοῦ. οὐ γὰρ πάντες οἱ ἐξ Ἰσραήλ, οὗτοι
Ἰσραήλ· 7οὐδ’ ὅτι εἰσὶν σπέρμα Ἀβραάμ, πάντες τέκνα, ἀλλ’, Ἐν Ἰσαὰκ κληθήσεταί σοι
σπέρμα. 8τοῦτ’ ἔστιν, οὐ τὰ τέκνα τῆς σαρκὸς ταῦτα τέκνα τοῦ θεοῦ, ἀλλὰ τὰ τέκνα τῆς
ἐπαγγελίας λογίζεται εἰς σπέρμα· 9ἐπαγγελίας γὰρ ὁ λόγος οὗτος, Κατὰ τὸν καιρὸν
τοῦτον ἐλεύσομαι καὶ ἔσται τῇ Σάρρᾳ υἱός. 10οὐ μόνον δέ, ἀλλὰ καὶ Ῥεβέκκα ἐξ ἑνὸς
κοίτην ἔχουσα, Ἰσαὰκ τοῦ πατρὸς ἡμῶν· 11μήπω γὰρ γεννηθέντων μηδὲ πραξάντων τι
ἀγαθὸν ἢ φαῦλον, ἵνα ἡ κατ’ ἐκλογὴν πρόθεσις τοῦ θεοῦ μένῃ, 12οὐκ ἐξ ἔργων ἀλλ’ ἐκ
τοῦ καλοῦντος, ἐρρέθη αὐτῇ ὅτι Ὁ μείζων δουλεύσει τῷ ἐλάσσονι· 13καθὼς γέγραπται,
Τὸν Ἰακὼβ ἠγάπησα, τὸν δὲ Ἠσαῦ ἐμίσησα. 14Τί οὖν ἐροῦμεν; μὴ ἀδικία παρὰ τῷ θεῷ;
μὴ γένοιτο· 15τῷ Μωϋσεῖ γὰρ λέγει, Ἐλεήσω ὃν ἂν ἐλεῶ, καὶ οἰκτιρήσω ὃν ἂν οἰκτίρω.
16
ἄρα οὖν οὐ τοῦ θέλοντος οὐδὲ τοῦ τρέχοντος, ἀλλὰ τοῦ ἐλεῶντος θεοῦ. 17λέγει γὰρ ἡ
γραφὴ τῷ Φαραὼ ὅτι Εἰς αὐτὸ τοῦτο ἐξήγειρά σε ὅπως ἐνδείξωμαι ἐν σοὶ τὴν δύναμίν
μου, καὶ ὅπως διαγγελῇ τὸ ὄνομά μου ἐν πάσῃ τῇ γῇ. 18ἄρα οὖν ὃν θέλει ἐλεεῖ, ὃν δὲ
θέλει σκληρύνει. 19Ἐρεῖς μοι οὖν, Τί [οὖν] ἔτι μέμφεται; τῷ γὰρ βουλήματι αὐτοῦ τίς
ἀνθέστηκεν; 20ὦ ἄνθρωπε, μενοῦνγε σὺ τίς εἶ ὁ ἀνταποκρινόμενος τῷ θεῷ; μὴ ἐρεῖ
τὸ πλάσμα τῷ πλάσαντι, Τί με ἐποίησας οὕτως; 21ἢ οὐκ ἔχει ἐξουσίαν ὁ κεραμεὺς τοῦ
187

Inno all’amore di Dio


[31]Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? [32]Egli che
non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni
cosa insieme con lui? [33]Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. [34]Chi condan-
nerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede
per noi? [35]Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’ango-
scia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? [36]Proprio come sta scritto:
Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno,
siamo trattati come pecore da macello [Sal 44, 23].
[37]Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati.
[38]Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente
né avvenire, [39]né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai
separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.
Capitolo 9
C. Situazione di Israele
I privilegi di Israele
[1]Dico la verità in Cristo, non mentisco, e la mia coscienza me ne dà testimonianza
nello Spirito Santo: [2]ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. [3]Vor-
rei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei
consanguinei secondo la carne. [4]Essi sono Israeliti e possiedono l’adozione a figli, la
gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, [5]i patriarchi; da essi proviene
Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen.
Dio non è infedele
[6]Tuttavia la parola di Dio non è venuta meno. Infatti non tutti i discendenti di Israele
sono Israele, [7]né per il fatto di essere discendenza di Abramo sono tutti suoi figli. No,
ma: in Isacco ti sarà data una discendenza [Gen 21, 12], [8]cioè: non sono considerati
figli di Dio i figli della carne, ma come discendenza sono considerati solo i figli della
promessa. [9]Queste infatti sono le parole della promessa: Io verrò in questo tempo e
Sara avrà un figlio [Gen 18, 10]. [10]E non è tutto; c’è anche Rebecca che ebbe figli da
un solo uomo, Isacco nostro padre: [11]quando essi ancora non eran nati e nulla avevano
fatto di bene o di male – perché rimanesse fermo il disegno divino fondato sull’elezione
non in base alle opere, ma alla volontà di colui che chiama – [12]le fu dichiarato: Il
maggiore sarà sottomesso al minore [Gen 25, 23], [13]come sta scritto:
Ho amato Giacobbe
e ho odiato Esaù [Ml 1, 2-3].
Dio non è ingiusto
[14]Che diremo dunque? C’è forse ingiustizia da parte di Dio? No certamente! [15]Egli
infatti dice a Mosè:
Userò misericordia con chi vorrò,
e avrò pietà di chi vorrò averla [Es 33, 19].
[16]Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che usa
misericordia. [17]Dice infatti la Scrittura al faraone: Ti ho fatto sorgere per manifestare
in te la mia potenza e perché il mio nome sia proclamato in tutta la terra [Es 9, 16]. [18]
Dio quindi usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuole
[19]Mi potrai però dire: «Ma allora perché ancora rimprovera? Chi può infatti resistere
al suo volere?». [20]O uomo, tu chi sei per disputare con Dio? Oserà forse dire il vaso
plasmato a colui che lo plasmò [Is 29, 16]: «Perché mi hai fatto così?». [21]Forse il
188

πηλοῦ ἐκ τοῦ αὐτοῦ φυράματος ποιῆσαι ὃ μὲν εἰς τιμὴν σκεῦος, ὃ δὲ εἰς ἀτιμίαν; 22εἰ δὲ
θέλων ὁ θεὸς ἐνδείξασθαι τὴν ὀργὴν καὶ γνωρίσαι τὸ δυνατὸν αὐτοῦ ἤνεγκεν ἐν πολλῇ
μακροθυμίᾳ σκεύη ὀργῆς κατηρτισμένα εἰς ἀπώλειαν, 23καὶ ἵνα γνωρίσῃ τὸν πλοῦτον
τῆς δόξης αὐτοῦ ἐπὶ σκεύη ἐλέους, ἃ προητοίμασεν εἰς δόξαν, 24οὓς καὶ ἐκάλεσεν ἡμᾶς
οὐ μόνον ἐξ Ἰουδαίων ἀλλὰ καὶ ἐξ ἐθνῶν; 25ὡς καὶ ἐν τῷ Ὡσηὲ λέγει, Καλέσω τὸν οὐ
λαόν μου λαόν μου καὶ τὴν οὐκ ἠγαπημένην ἠγαπημένην· 26καὶ ἔσται ἐν τῷ τόπῳ οὗ
ἐρρέθη αὐτοῖς, Οὐ λαός μου ὑμεῖς, ἐκεῖ κληθήσονται υἱοὶ θεοῦ ζῶντος. 27Ἠσαΐας δὲ
κράζει ὑπὲρ τοῦ Ἰσραήλ, Ἐὰν ᾖ ὁ ἀριθμὸς τῶν υἱῶν Ἰσραὴλ ὡς ἡ ἄμμος τῆς θαλάσσης,
τὸ ὑπόλειμμα σωθήσεται· 28λόγον γὰρ συντελῶν καὶ συντέμνων ποιήσει κύριος ἐπὶ
τῆς γῆς. 29καὶ καθὼς προείρηκεν Ἠσαΐας, Εἰ μὴ κύριος Σαβαὼθ ἐγκατέλιπεν ἡμῖν
σπέρμα, ὡς Σόδομα ἂν ἐγενήθημεν καὶ ὡς Γόμορρα ἂν ὡμοιώθημεν. 30Τί οὖν ἐροῦμεν;
ὅτι ἔθνη τὰ μὴ διώκοντα δικαιοσύνην κατέλαβεν δικαιοσύνην, δικαιοσύνην δὲ τὴν ἐκ
πίστεως· 31Ἰσραὴλ δὲ διώκων νόμον δικαιοσύνης εἰς νόμον οὐκ ἔφθασεν. 32διὰ τί; ὅτι
οὐκ ἐκ πίστεως ἀλλ’ ὡς ἐξ ἔργων· προσέκοψαν τῷ λίθῳ τοῦ προσκόμματος, 33καθὼς
γέγραπται, Ἰδοὺ τίθημι ἐν Σιὼν λίθον προσκόμματος καὶ πέτραν σκανδάλου, καὶ ὁ
πιστεύων ἐπ’ αὐτῷ οὐ καταισχυνθήσεται.
10
1
Ἀδελφοί, ἡ μὲν εὐδοκία τῆς ἐμῆς καρδίας καὶ ἡ δέησις πρὸς τὸν θεὸν ὑπὲρ αὐτῶν
εἰς σωτηρίαν. 2μαρτυρῶ γὰρ αὐτοῖς ὅτι ζῆλον θεοῦ ἔχουσιν, ἀλλ’ οὐ κατ’ ἐπίγνωσιν·
3
ἀγνοοῦντες γὰρ τὴν τοῦ θεοῦ δικαιοσύνην, καὶ τὴν ἰδίαν [δικαιοσύνην] ζητοῦντες
στῆσαι, τῇ δικαιοσύνῃ τοῦ θεοῦ οὐχ ὑπετάγησαν· 4τέλος γὰρ νόμου Χριστὸς εἰς
δικαιοσύνην παντὶ τῷ πιστεύοντι. 5Μωϋσῆς γὰρ γράφει τὴν δικαιοσύνην τὴν ἐκ [τοῦ]
νόμου ὅτι ὁ ποιήσας αὐτὰ ἄνθρωπος ζήσεται ἐν αὐτοῖς. 6ἡ δὲ ἐκ πίστεως δικαιοσύνη
οὕτως λέγει, Μὴ εἴπῃς ἐν τῇ καρδίᾳ σου, Τίς ἀναβήσεται εἰς τὸν οὐρανόν; τοῦτ’ ἔστιν
Χριστὸν καταγαγεῖν· 7ἤ, Τίς καταβήσεται εἰς τὴν ἄβυσσον; τοῦτ’ ἔστιν Χριστὸν ἐκ
νεκρῶν ἀναγαγεῖν. 8ἀλλὰ τί λέγει; Ἐγγύς σου τὸ ῥῆμά ἐστιν, ἐν τῷ στόματί σου καὶ ἐν
τῇ καρδίᾳ σου· τοῦτ’ ἔστιν τὸ ῥῆμα τῆς πίστεως ὃ κηρύσσομεν. 9ὅτι ἐὰν ὁμολογήσῃς ἐν
189

vasaio non è padrone dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile
e uno per uso volgare? [22]Se pertanto Dio, volendo manifestare la sua ira e far cono-
scere la sua potenza, ha sopportato con grande pazienza vasi di collera, gia pronti per
la perdizione, [23]e questo per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso vasi di
misericordia, da lui predisposti alla gloria, [24]cioè verso di noi, che egli ha chiamati
non solo tra i Giudei ma anche tra i pagani, che potremmo dire?
Infedeltà e chiamata previste dall’AT
[25]Esattamente come dice Osea:
Chiamerò mio popolo quello che non era mio popolo
e mia diletta quella che non era la diletta [Os 2, 25].
[26]E avverrà che nel luogo stesso dove fu detto
loro:
«Voi non siete mio popolo»,
là saranno chiamati figli del Dio vivente [Os 2, 1].
[27]E quanto a Israele, Isaia esclama:
Se anche il numero dei figli d’Israele
fosse come la sabbia del mare,
sarà salvato solo il resto;
[28]perché con pienezza e rapidità
il Signore compirà la sua parola sopra la terra [Is 10, 22-23].
[29]E ancora secondo ciò che predisse Isaia:
Se il Signore degli eserciti
non ci avesse lasciato una discendenza,
saremmo divenuti come Sòdoma
e resi simili a Gomorra [Is 1, 9].
[30]Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno rag-
giunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; [31]mentre Israele, che ricer-
cava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge. [32]E per-
ché mai? Perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere. Hanno
urtato così contro la pietra d’inciampo [Is 8, 14], [33]come sta scritto:
Ecco che io pongo in Sion una pietra di scandalo
e un sasso d’inciampo;
ma chi crede in lui non sarà deluso [Is 28, 16].
Capitolo 10
I Giudei hanno misconosciuto la giustizia di Dio
[1]Fratelli, il desiderio del mio cuore e la mia preghiera sale a Dio per la loro salvezza.
[2]Rendo infatti loro testimonianza che hanno zelo per Dio, ma non secondo una retta
conoscenza; [3]poiché, ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria,
non si sono sottomessi alla giustizia di Dio. [4]Ora, il termine della legge è Cristo, per-
ché sia data la giustizia a chiunque crede.
Annunziata da Mosè
[5]Mosè infatti descrive la giustizia che viene dalla legge così: L’uomo che la pratica
vivrà per essa [Lv 18, 5]. [6]Invece la giustizia che viene dalla fede parla così: Non dire
nel tuo cuore: Chi salirà al cielo? [Dt 30, 12ss] Questo significa farne discendere Cristo;
[7]oppure: Chi discenderà nell’abisso? Questo significa far risalire Cristo dai morti. [8]
Che dice dunque? Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore: cioè la parola
della fede che noi predichiamo. [9]Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il
190

τῷ στόματί σου κύριον Ἰησοῦν, καὶ πιστεύσῃς ἐν τῇ καρδίᾳ σου ὅτι ὁ θεὸς αὐτὸν ἤγειρεν
ἐκ νεκρῶν, σωθήσῃ· 10καρδίᾳ γὰρ πιστεύεται εἰς δικαιοσύνην, στόματι δὲ ὁμολογεῖται
εἰς σωτηρίαν. 11λέγει γὰρ ἡ γραφή, Πᾶς ὁ πιστεύων ἐπ’ αὐτῷ οὐ καταισχυνθήσεται. 12οὐ
γάρ ἐστιν διαστολὴ Ἰουδαίου τε καὶ Ἕλληνος, ὁ γὰρ αὐτὸς κύριος πάντων, πλουτῶν εἰς
πάντας τοὺς ἐπικαλουμένους αὐτόν· 13Πᾶς γὰρ ὃς ἂν ἐπικαλέσηται τὸ ὄνομα κυρίου
σωθήσεται. 14Πῶς οὖν ἐπικαλέσωνται εἰς ὃν οὐκ ἐπίστευσαν; πῶς δὲ πιστεύσωσιν
οὗ οὐκ ἤκουσαν; πῶς δὲ ἀκούσωσιν χωρὶς κηρύσσοντος; 15πῶς δὲ κηρύξωσιν ἐὰν μὴ
ἀποσταλῶσιν; καθὼς γέγραπται, Ὡς ὡραῖοι οἱ πόδες τῶν εὐαγγελιζομένων [τὰ] ἀγαθά.
16
Ἀλλ’ οὐ πάντες ὑπήκουσαν τῷ εὐαγγελίῳ· Ἠσαΐας γὰρ λέγει, Κύριε, τίς ἐπίστευσεν
τῇ ἀκοῇ ἡμῶν; 17ἄρα ἡ πίστις ἐξ ἀκοῆς, ἡ δὲ ἀκοὴ διὰ ῥήματος Χριστοῦ. 18ἀλλὰ λέγω,
μὴ οὐκ ἤκουσαν; μενοῦνγε, Εἰς πᾶσαν τὴν γῆν ἐξῆλθεν ὁ φθόγγος αὐτῶν, καὶ εἰς τὰ
πέρατα τῆς οἰκουμένης τὰ ῥήματα αὐτῶν. 19ἀλλὰ λέγω, μὴ Ἰσραὴλ οὐκ ἔγνω; πρῶτος
Μωϋσῆς λέγει, Ἐγὼ παραζηλώσω ὑμᾶς ἐπ’ οὐκ ἔθνει, ἐπ’ ἔθνει ἀσυνέτῳ παροργιῶ
ὑμᾶς. 20Ἠσαΐας δὲ ἀποτολμᾷ καὶ λέγει, Εὑρέθην [ἐν] τοῖς ἐμὲ μὴ ζητοῦσιν, ἐμφανὴς
ἐγενόμην τοῖς ἐμὲ μὴ ἐπερωτῶσιν. 21πρὸς δὲ τὸν Ἰσραὴλ λέγει, Ολην τὴν ἡμέραν
ἐξεπέτασα τὰς χεῖράς μου πρὸς λαὸν ἀπειθοῦντα καὶ ἀντιλέγοντα.
11
1
Λέγω οὖν, μὴ ἀπώσατο ὁ θεὸς τὸν λαὸν αὐτοῦ; μὴ γένοιτο· καὶ γὰρ ἐγὼ Ἰσραηλίτης
εἰμί, ἐκ σπέρματος Ἀβραάμ, φυλῆς Βενιαμίν. 2οὐκ ἀπώσατο ὁ θεὸς τὸν λαὸν αὐτοῦ
ὃν προέγνω. ἢ οὐκ οἴδατε ἐν Ἠλίᾳ τί λέγει ἡ γραφή; ὡς ἐντυγχάνει τῷ θεῷ κατὰ τοῦ
Ἰσραήλ, 3Κύριε, τοὺς προφήτας σου ἀπέκτειναν, τὰ θυσιαστήριά σου κατέσκαψαν, κἀγὼ
ὑπελείφθην μόνος, καὶ ζητοῦσιν τὴν ψυχήν μου. 4ἀλλὰ τί λέγει αὐτῷ ὁ χρηματισμός;
Κατέλιπον ἐμαυτῷ ἑπτακισχιλίους ἄνδρας, οἵτινες οὐκ ἔκαμψαν γόνυ τῇ Βάαλ. 5οὕτως
οὖν καὶ ἐν τῷ νῦν καιρῷ λεῖμμα κατ’ ἐκλογὴν χάριτος γέγονεν· 6εἰ δὲ χάριτι, οὐκέτι ἐξ
ἔργων, ἐπεὶ ἡ χάρις οὐκέτι γίνεται χάρις. 7τί οὖν; ὃ ἐπιζητεῖ Ἰσραήλ, τοῦτο οὐκ ἐπέτυχεν,
ἡ δὲ ἐκλογὴ ἐπέτυχεν· οἱ δὲ λοιποὶ ἐπωρώθησαν, 8καθὼς γέγραπται, Ἔδωκεν αὐτοῖς
ὁ θεὸς πνεῦμα κατανύξεως, ὀφθαλμοὺς τοῦ μὴ βλέπειν καὶ ὦτα τοῦ μὴ ἀκούειν, ἕως
τῆς σήμερον ἡμέρας. 9καὶ Δαυὶδ λέγει, Γενηθήτω ἡ τράπεζα αὐτῶν εἰς παγίδα καὶ εἰς
191

Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. [10]
Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di
fede per avere la salvezza. [11]Dice infatti la Scrittura: Chiunque crede in lui non sarà
deluso [Is 28, 16]. [12]Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è
il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che l’invocano. [13]Infatti: Chiunque invocherà
il nome del Signore sarà salvato [Gl 3, 5].
Sono senza scusa
[14]Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno
credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che
lo annunzi? [15]E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati? Come sta scritto:
Quanto son belli i piedi di coloro che recano un lieto annunzio di bene!
[16]Ma non tutti hanno obbedito al vangelo. Lo dice Isaia: Signore [Is 52, 7], chi ha cre-
duto alla nostra predicazione? [Is 53, 1] [17]La fede dipende dunque dalla predicazione
e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo. [18]Ora io dico: Non hanno
forse udito? Tutt’altro:
per tutta la terra è corsa la loro voce,
e fino ai confini del mondo le loro parole [Sal 19, 5].
[19]E dico ancora: Forse Israele non ha compreso? Gia per primo Mosè dice:
Io vi renderò gelosi di un popolo che non è popolo;
contro una nazione senza intelligenza
susciterò il vostro sdegno [Dt 32, 21].
[20]Isaia poi arriva fino ad affermare:
Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano,
mi sono manifestato a quelli che non si rivolgevano a me [Is 65, 1],
[21]mentre di Israele dice: Tutto il giorno ho steso le mani verso un popolo disobbe-
diente e ribelle! [Is 65, 2]
Capitolo 11
Il resto di Israele
[1]Io domando dunque: Dio avrebbe forse ripudiato il suo popolo? [Sal 94, 14] Impos-
sibile! Anch’io infatti sono Israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Benia-
mino. [2]Dio non ha ripudiato il suo popolo, che egli ha scelto fin da principio. O non
sapete forse ciò che dice la Scrittura, nel passo in cui Elia ricorre a Dio contro Israele?
[3]Signore, hanno ucciso i tuoi profeti,
hanno rovesciato i tuoi altari
e io sono rimasto solo e ora vogliono la mia vita [1Re 19, 10, 14].
[4]Cosa gli risponde però la voce divina?
Mi sono riservato settemila uomini, quelli che non hanno piegato il ginocchio davanti
a Baal. [1Re 19, 19]
[5]Così anche al presente c’è un resto, conforme a un’elezione per grazia. [6]E se lo è
per grazia, non lo è per le opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia.
[7]Che dire dunque? Israele non ha ottenuto quello che cercava; lo hanno ottenuto invece
gli eletti; gli altri sono stati induriti, [8]come sta scritto:
Dio ha dato loro uno spirito di torpore,
occhi per non vedere e orecchi per non sentire,
fino al giorno d’oggi. [Is 29, 10; Dt 29, 3]
[9]E Davide dice:
Diventi la lor mensa un laccio, un tranello
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θήραν καὶ εἰς σκάνδαλον καὶ εἰς ἀνταπόδομα αὐτοῖς, 10σκοτισθήτωσαν οἱ ὀφθαλμοὶ
αὐτῶν τοῦ μὴ βλέπειν, καὶ τὸν νῶτον αὐτῶν διὰ παντὸς σύγκαμψον. 11Λέγω οὖν, μὴ
ἔπταισαν ἵνα πέσωσιν; μὴ γένοιτο· ἀλλὰ τῷ αὐτῶν παραπτώματι ἡ σωτηρία τοῖς
ἔθνεσιν, εἰς τὸ παραζηλῶσαι αὐτούς. 12εἰ δὲ τὸ παράπτωμα αὐτῶν πλοῦτος κόσμου
καὶ τὸ ἥττημα αὐτῶν πλοῦτος ἐθνῶν, πόσῳ μᾶλλον τὸ πλήρωμα αὐτῶν. 13Ὑμῖν δὲ
λέγω τοῖς ἔθνεσιν. ἐφ’ ὅσον μὲν οὖν εἰμι ἐγὼ ἐθνῶν ἀπόστολος, τὴν διακονίαν μου
δοξάζω, 14εἴ πως παραζηλώσω μου τὴν σάρκα καὶ σώσω τινὰς ἐξ αὐτῶν. 15εἰ γὰρ ἡ
ἀποβολὴ αὐτῶν καταλλαγὴ κόσμου, τίς ἡ πρόσλημψις εἰ μὴ ζωὴ ἐκ νεκρῶν; 16εἰ δὲ ἡ
ἀπαρχὴ ἁγία, καὶ τὸ φύραμα· καὶ εἰ ἡ ῥίζα ἁγία, καὶ οἱ κλάδοι. 17Εἰ δέ τινες τῶν κλάδων
ἐξεκλάσθησαν, σὺ δὲ ἀγριέλαιος ὢν ἐνεκεντρίσθης ἐν αὐτοῖς καὶ συγκοινωνὸς τῆς
ῥίζης τῆς πιότητος τῆς ἐλαίας ἐγένου, 18μὴ κατακαυχῶ τῶν κλάδων· εἰ δὲ κατακαυχᾶσαι,
οὐ σὺ τὴν ῥίζαν βαστάζεις ἀλλὰ ἡ ῥίζα σέ. 19ἐρεῖς οὖν, Ἐξεκλάσθησαν κλάδοι ἵνα
ἐγὼ ἐγκεντρισθῶ. 20καλῶς· τῇ ἀπιστίᾳ ἐξεκλάσθησαν, σὺ δὲ τῇ πίστει ἕστηκας. μὴ
ὑψηλὰ φρόνει, ἀλλὰ φοβοῦ· 21εἰ γὰρ ὁ θεὸς τῶν κατὰ φύσιν κλάδων οὐκ ἐφείσατο,
[μή πως] οὐδὲ σοῦ φείσεται. 22ἴδε οὖν χρηστότητα καὶ ἀποτομίαν θεοῦ· ἐπὶ μὲν τοὺς
πεσόντας ἀποτομία, ἐπὶ δὲ σὲ χρηστότης θεοῦ, ἐὰν ἐπιμένῃς τῇ χρηστότητι, ἐπεὶ καὶ σὺ
ἐκκοπήσῃ. 23κἀκεῖνοι δέ, ἐὰν μὴ ἐπιμένωσιν τῇ ἀπιστίᾳ, ἐγκεντρισθήσονται· δυνατὸς
γάρ ἐστιν ὁ θεὸς πάλιν ἐγκεντρίσαι αὐτούς. 24εἰ γὰρ σὺ ἐκ τῆς κατὰ φύσιν ἐξεκόπης
ἀγριελαίου καὶ παρὰ φύσιν ἐνεκεντρίσθης εἰς καλλιέλαιον, πόσῳ μᾶλλον οὗτοι οἱ
κατὰ φύσιν ἐγκεντρισθήσονται τῇ ἰδίᾳ ἐλαίᾳ. 25Οὐ γὰρ θέλω ὑμᾶς ἀγνοεῖν, ἀδελφοί,
τὸ μυστήριον τοῦτο, ἵνα μὴ ἦτε [παρ’] ἑαυτοῖς φρόνιμοι, ὅτι πώρωσις ἀπὸ μέρους τῷ
Ἰσραὴλ γέγονεν ἄχρις οὗ τὸ πλήρωμα τῶν ἐθνῶν εἰσέλθῃ, 26καὶ οὕτως πᾶς Ἰσραὴλ
σωθήσεται· καθὼς γέγραπται, Ἥξει ἐκ Σιὼν ὁ ῥυόμενος, ἀποστρέψει ἀσεβείας ἀπὸ
Ἰακώβ· 27καὶ αὕτη αὐτοῖς ἡ παρ’ ἐμοῦ διαθήκη, ὅταν ἀφέλωμαι τὰς ἁμαρτίας αὐτῶν.
28
κατὰ μὲν τὸ εὐαγγέλιον ἐχθροὶ δι’ ὑμᾶς, κατὰ δὲ τὴν ἐκλογὴν ἀγαπητοὶ διὰ τοὺς
πατέρας· 29ἀμεταμέλητα γὰρ τὰ χαρίσματα καὶ ἡ κλῆσις τοῦ θεοῦ. 30ὥσπερ γὰρ ὑμεῖς
ποτε ἠπειθήσατε τῷ θεῷ, νῦν δὲ ἠλεήθητε τῇ τούτων ἀπειθείᾳ, 31οὕτως καὶ οὗτοι νῦν
ἠπείθησαν τῷ ὑμετέρῳ ἐλέει ἵνα καὶ αὐτοὶ [νῦν] ἐλεηθῶσιν· 32συνέκλεισεν γὰρ ὁ θεὸς
τοὺς πάντας εἰς ἀπείθειαν ἵνα τοὺς πάντας ἐλεήσῃ. 33Ὦ βάθος πλούτου καὶ σοφίας καὶ
γνώσεως θεοῦ· ὡς ἀνεξεραύνητα τὰ κρίματα αὐτοῦ καὶ ἀνεξιχνίαστοι αἱ ὁδοὶ αὐτοῦ.
193

e un inciampo e serva loro di giusto castigo!


[10]Siano oscurati i loro occhi sì da non vedere,
e fà loro curvare la schiena per sempre! [Sal 69, 23ss]
La restaurazione futura
[11]Ora io domando: Forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. Ma a
causa della loro caduta la salvezza è giunta ai pagani, per suscitare la loro gelosia. [12]
Se pertanto la loro caduta è stata ricchezza del mondo e il loro fallimento ricchezza dei
pagani, che cosa non sarà la loro partecipazione totale!
[13]Pertanto, ecco che cosa dico a voi, Gentili: come apostolo dei Gentili, io faccio
onore al mio ministero, [14]nella speranza di suscitare la gelosia di quelli del mio
sangue e di salvarne alcuni. [15]Se infatti il loro rifiuto ha segnato la riconciliazione
del mondo, quale potrà mai essere la loro riammissione, se non una risurrezione dai
morti?
L’oleastro e l’olivo buono
[16]Se le primizie sono sante, lo sarà anche tutta la pasta; se è santa la radice, lo saranno
anche i rami. [17]Se però alcuni rami sono stati tagliati e tu, essendo oleastro, sei stato
innestato al loro posto, diventando così partecipe della radice e della linfa dell’olivo,
[18]non menar tanto vanto contro i rami! Se ti vuoi proprio vantare, sappi che non sei tu
che porti la radice, ma è la radice che porta te.
[19]Dirai certamente: Ma i rami sono stati tagliati perché vi fossi innestato io! [20]
Bene; essi però sono stati tagliati a causa dell’infedeltà, mentre tu resti lì in ragione
della fede. Non montare dunque in superbia, ma temi! [21]Se infatti Dio non ha rispar-
miato quelli che erano rami naturali, tanto meno risparmierà te!
[22]Considera dunque la bontà e la severità di Dio: severità verso quelli che sono caduti;
bontà di Dio invece verso di te, a condizione però che tu sia fedele a questa bontà. Altri-
menti anche tu verrai reciso. [23]Quanto a loro, se non persevereranno nell’infedeltà,
saranno anch’essi innestati; Dio infatti ha la potenza di innestarli di nuovo! [24]Se tu
infatti sei stato reciso dall’oleastro che eri secondo la tua natura e contro natura sei stato
innestato su un olivo buono, quanto più essi, che sono della medesima natura, potranno
venire di nuovo innestati sul proprio olivo!
La conversione di Israele
[25]Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presun-
tuosi: l’indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le
genti. [26]Allora tutto Israele sarà salvato come sta scritto:
Da Sion uscirà il liberatore,
egli toglierà le empietà da Giacobbe [Is 59, 20-21].
[27]Sarà questa la mia alleanza con loro
quando distruggerò i loro peccati. [Is 27, 9]
[28]Quanto al vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla elezione,
sono amati, a causa dei padri, [29]perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!
[30]Come voi un tempo siete stati disobbedienti a Dio e ora avete ottenuto misericordia
per la loro disobbedienza, [31]così anch’essi ora sono diventati disobbedienti in vista
della misericordia usata verso di voi, perché anch’essi ottengano misericordia.
[32]Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia!
Inno alla sapienza misericordiosa
[33]O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono
imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!
194

34
Τίς γὰρ ἔγνω νοῦν κυρίου; ἢ τίς σύμβουλος αὐτοῦ ἐγένετο; 35ἢ τίς προέδωκεν αὐτῷ,
καὶ ἀνταποδοθήσεται αὐτῷ; 36ὅτι ἐξ αὐτοῦ καὶ δι’ αὐτοῦ καὶ εἰς αὐτὸν τὰ πάντα· αὐτῷ
ἡ δόξα εἰς τοὺς αἰῶνας· ἀμήν.
12
1
Παρακαλῶ οὖν ὑμᾶς, ἀδελφοί, διὰ τῶν οἰκτιρμῶν τοῦ θεοῦ, παραστῆσαι τὰ σώματα
ὑμῶν θυσίαν ζῶσαν ἁγίαν εὐάρεστον τῷ θεῷ, τὴν λογικὴν λατρείαν ὑμῶν· 2καὶ μὴ
συσχηματίζεσθε τῷ αἰῶνι τούτῳ, ἀλλὰ μεταμορφοῦσθε τῇ ἀνακαινώσει τοῦ νοός,
εἰς τὸ δοκιμάζειν ὑμᾶς τί τὸ θέλημα τοῦ θεοῦ, τὸ ἀγαθὸν καὶ εὐάρεστον καὶ τέλειον.
3
Λέγω γὰρ διὰ τῆς χάριτος τῆς δοθείσης μοι παντὶ τῷ ὄντι ἐν ὑμῖν μὴ ὑπερφρονεῖν
παρ’ ὃ δεῖ φρονεῖν, ἀλλὰ φρονεῖν εἰς τὸ σωφρονεῖν, ἑκάστῳ ὡς ὁ θεὸς ἐμέρισεν
μέτρον πίστεως. 4καθάπερ γὰρ ἐν ἑνὶ σώματι πολλὰ μέλη ἔχομεν, τὰ δὲ μέλη πάντα
οὐ τὴν αὐτὴν ἔχει πρᾶξιν, 5οὕτως οἱ πολλοὶ ἓν σῶμά ἐσμεν ἐν Χριστῷ, τὸ δὲ καθ’ εἷς
ἀλλήλων μέλη. 6ἔχοντες δὲ χαρίσματα κατὰ τὴν χάριν τὴν δοθεῖσαν ἡμῖν διάφορα,
εἴτε προφητείαν κατὰ τὴν ἀναλογίαν τῆς πίστεως, 7εἴτε διακονίαν ἐν τῇ διακονίᾳ, εἴτε
ὁ διδάσκων ἐν τῇ διδασκαλίᾳ, 8εἴτε ὁ παρακαλῶν ἐν τῇ παρακλήσει, ὁ μεταδιδοὺς ἐν
ἁπλότητι, ὁ προϊστάμενος ἐν σπουδῇ, ὁ ἐλεῶν ἐν ἱλαρότητι. 9Ἡ ἀγάπη ἀνυπόκριτος.
ἀποστυγοῦντες τὸ πονηρόν, κολλώμενοι τῷ ἀγαθῷ· 10τῇ φιλαδελφίᾳ εἰς ἀλλήλους
φιλόστοργοι, τῇ τιμῇ ἀλλήλους προηγούμενοι, 11τῇ σπουδῇ μὴ ὀκνηροί, τῷ πνεύματι
ζέοντες, τῷ κυρίῳ δουλεύοντες, 12τῇ ἐλπίδι χαίροντες, τῇ θλίψει ὑπομένοντες, τῇ
προσευχῇ προσκαρτεροῦντες, 13ταῖς χρείαις τῶν ἁγίων κοινωνοῦντες, τὴν φιλοξενίαν
διώκοντες. 14εὐλογεῖτε τοὺς διώκοντας [ὑμᾶς], εὐλογεῖτε καὶ μὴ καταρᾶσθε. 15χαίρειν
μετὰ χαιρόντων, κλαίειν μετὰ κλαιόντων. 16τὸ αὐτὸ εἰς ἀλλήλους φρονοῦντες, μὴ
τὰ ὑψηλὰ φρονοῦντες ἀλλὰ τοῖς ταπεινοῖς συναπαγόμενοι. μὴ γίνεσθε φρόνιμοι
παρ’ ἑαυτοῖς. 17μηδενὶ κακὸν ἀντὶ κακοῦ ἀποδιδόντες· προνοούμενοι καλὰ ἐνώπιον
πάντων ἀνθρώπων· 18εἰ δυνατόν, τὸ ἐξ ὑμῶν μετὰ πάντων ἀνθρώπων εἰρηνεύοντες·
19
μὴ ἑαυτοὺς ἐκδικοῦντες, ἀγαπητοί, ἀλλὰ δότε τόπον τῇ ὀργῇ, γέγραπται γάρ, Ἐμοὶ
ἐκδίκησις, ἐγὼ ἀνταποδώσω, λέγει κύριος. 20ἀλλὰ ἐὰν πεινᾷ ὁ ἐχθρός σου, ψώμιζε
αὐτόν· ἐὰν διψᾷ, πότιζε αὐτόν· τοῦτο γὰρ ποιῶν ἄνθρακας πυρὸς σωρεύσεις ἐπὶ τὴν
κεφαλὴν αὐτοῦ. 21μὴ νικῶ ὑπὸ τοῦ κακοῦ, ἀλλὰ νίκα ἐν τῷ ἀγαθῷ τὸ κακόν.
13
1
Πᾶσα ψυχὴ ἐξουσίαις ὑπερεχούσαις ὑποτασσέσθω. οὐ γὰρ ἔστιν ἐξουσία εἰ μὴ ὑπὸ
θεοῦ, αἱ δὲ οὖσαι ὑπὸ θεοῦ τεταγμέναι εἰσίν· 2ὥστε ὁ ἀντιτασσόμενος τῇ ἐξουσίᾳ τῇ
195

[34]Infatti, chi mai ha potuto conoscere il pensiero


del Signore?
O chi mai è stato suo consigliere? [Is 40, 13]
[35]O chi gli ha dato qualcosa per primo,
sì che abbia a riceverne il contraccambio? [Gb 41, 3]
[36]Poiché da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli.
Amen.
Capitolo 12
PARENESI
Il culto spirituale
[1]Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come
sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. [2]Non con-
formatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente,
per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.
Umiltà e carità nella comunità
[3]Per la grazia che mi è stata concessa, io dico a ciascuno di voi: non valutatevi più
di quanto è conveniente valutarsi, ma valutatevi in maniera da avere di voi una giu-
sta valutazione, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato. [4]Poiché,
come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte
la medesima funzione, [5]così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo
in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri. [6]Abbiamo
pertanto doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi. Chi ha il dono della
profezia la eserciti secondo la misura della fede; [7]chi ha un ministero attenda
al ministero; chi l’insegnamento, all’insegnamento; [8]chi l’esortazione, all’esor-
tazione. Chi dà, lo faccia con semplicità; chi presiede, lo faccia con diligenza; chi
fa opere di misericordia, le compia con gioia. [9]La carità non abbia finzioni: fug-
gite il male con orrore, attaccatevi al bene; [10]amatevi gli uni gli altri con affetto
fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. [11]Non siate pigri nello zelo; siate
invece ferventi nello spirito, servite il Signore. [12]Siate lieti nella speranza, forti
nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, [13]solleciti per le necessità dei
fratelli, premurosi nell’ospitalità.
Carità verso tutti, anche verso i nemici
[14]Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. [15]Rallegratevi con
quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. [16]Abbiate i mede-
simi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a
quelle umili. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi.
[17]Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti
gli uomini [Pr 3, 4]. [18]Se possibile, per quanto questo dipende da voi, vivete in pace
con tutti. [19]Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina.
Sta scritto infatti: A me la vendetta, sono io che ricambierò [Dt 32, 35], dice il Signore.
[20]Al contrario, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere:
facendo questo, infatti, ammasserai carboni ardenti sopra il suo capo [Pr 25, 21-22].
[21]Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male.
Capitolo 13
Sottomissione ai poteri civili
[1]Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da
Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. [2]Quindi chi si oppone all’autorità, si
196

τοῦ θεοῦ διαταγῇ ἀνθέστηκεν, οἱ δὲ ἀνθεστηκότες ἑαυτοῖς κρίμα λήμψονται. 3οἱ γὰρ
ἄρχοντες οὐκ εἰσὶν φόβος τῷ ἀγαθῷ ἔργῳ ἀλλὰ τῷ κακῷ. θέλεις δὲ μὴ φοβεῖσθαι τὴν
ἐξουσίαν; τὸ ἀγαθὸν ποίει, καὶ ἕξεις ἔπαινον ἐξ αὐτῆς· 4θεοῦ γὰρ διάκονός ἐστιν σοὶ εἰς
τὸ ἀγαθόν. ἐὰν δὲ τὸ κακὸν ποιῇς, φοβοῦ· οὐ γὰρ εἰκῇ τὴν μάχαιραν φορεῖ· θεοῦ γὰρ
διάκονός ἐστιν, ἔκδικος εἰς ὀργὴν τῷ τὸ κακὸν πράσσοντι. 5διὸ ἀνάγκη ὑποτάσσεσθαι,
οὐ μόνον διὰ τὴν ὀργὴν ἀλλὰ καὶ διὰ τὴν συνείδησιν. 6διὰ τοῦτο γὰρ καὶ φόρους
τελεῖτε, λειτουργοὶ γὰρ θεοῦ εἰσιν εἰς αὐτὸ τοῦτο προσκαρτεροῦντες. 7ἀπόδοτε πᾶσιν
τὰς ὀφειλάς, τῷ τὸν φόρον τὸν φόρον, τῷ τὸ τέλος τὸ τέλος, τῷ τὸν φόβον τὸν φόβον, τῷ
τὴν τιμὴν τὴν τιμήν. 8Μηδενὶ μηδὲν ὀφείλετε, εἰ μὴ τὸ ἀλλήλους ἀγαπᾶν· ὁ γὰρ ἀγαπῶν
τὸν ἕτερον νόμον πεπλήρωκεν. 9τὸ γὰρ Οὐ μοιχεύσεις, Οὐ φονεύσεις, Οὐ κλέψεις, Οὐκ
ἐπιθυμήσεις, καὶ εἴ τις ἑτέρα ἐντολή, ἐν τῷ λόγῳ τούτῳ ἀνακεφαλαιοῦται, [ἐν τῷ]
Ἀγαπήσεις τὸν πλησίον σου ὡς σεαυτόν. 10ἡ ἀγάπη τῷ πλησίον κακὸν οὐκ ἐργάζεται·
πλήρωμα οὖν νόμου ἡ ἀγάπη. 11Καὶ τοῦτο εἰδότες τὸν καιρόν, ὅτι ὥρα ἤδη ὑμᾶς ἐξ
ὕπνου ἐγερθῆναι, νῦν γὰρ ἐγγύτερον ἡμῶν ἡ σωτηρία ἢ ὅτε ἐπιστεύσαμεν. 12ἡ νὺξ
προέκοψεν, ἡ δὲ ἡμέρα ἤγγικεν. ἀποθώμεθα οὖν τὰ ἔργα τοῦ σκότους, ἐνδυσώμεθα
[δὲ] τὰ ὅπλα τοῦ φωτός. 13ὡς ἐν ἡμέρᾳ εὐσχημόνως περιπατήσωμεν, μὴ κώμοις καὶ
μέθαις, μὴ κοίταις καὶ ἀσελγείαις, μὴ ἔριδι καὶ ζήλῳ· 14ἀλλὰ ἐνδύσασθε τὸν κύριον
Ἰησοῦν Χριστόν, καὶ τῆς σαρκὸς πρόνοιαν μὴ ποιεῖσθε εἰς ἐπιθυμίας.
14
1
Τὸν δὲ ἀσθενοῦντα τῇ πίστει προσλαμβάνεσθε, μὴ εἰς διακρίσεις διαλογισμῶν.
2
ὃς μὲν πιστεύει φαγεῖν πάντα, ὁ δὲ ἀσθενῶν λάχανα ἐσθίει. 3ὁ ἐσθίων τὸν μὴ
ἐσθίοντα μὴ ἐξουθενείτω, ὁ δὲ μὴ ἐσθίων τὸν ἐσθίοντα μὴ κρινέτω, ὁ θεὸς γὰρ αὐτὸν
προσελάβετο. 4σὺ τίς εἶ ὁ κρίνων ἀλλότριον οἰκέτην; τῷ ἰδίῳ κυρίῳ στήκει ἢ πίπτει·
σταθήσεται δέ, δυνατεῖ γὰρ ὁ κύριος στῆσαι αὐτόν. 5ὃς μὲν [γὰρ] κρίνει ἡμέραν
παρ’ ἡμέραν, ὃς δὲ κρίνει πᾶσαν ἡμέραν· ἕκαστος ἐν τῷ ἰδίῳ νοῒ πληροφορείσθω.
6
ὁ φρονῶν τὴν ἡμέραν κυρίῳ φρονεῖ· καὶ ὁ ἐσθίων κυρίῳ ἐσθίει, εὐχαριστεῖ γὰρ τῷ
θεῷ· καὶ ὁ μὴ ἐσθίων κυρίῳ οὐκ ἐσθίει, καὶ εὐχαριστεῖ τῷ θεῷ. 7οὐδεὶς γὰρ ἡμῶν
ἑαυτῷ ζῇ, καὶ οὐδεὶς ἑαυτῷ ἀποθνῄσκει· 8ἐάν τε γὰρ ζῶμεν, τῷ κυρίῳ ζῶμεν, ἐάν τε
ἀποθνῄσκωμεν, τῷ κυρίῳ ἀποθνῄσκομεν. ἐάν τε οὖν ζῶμεν ἐάν τε ἀποθνῄσκωμεν, τοῦ
κυρίου ἐσμέν. 9εἰς τοῦτο γὰρ Χριστὸς ἀπέθανεν καὶ ἔζησεν ἵνα καὶ νεκρῶν καὶ ζώντων
κυριεύσῃ. 10σὺ δὲ τί κρίνεις τὸν ἀδελφόν σου; ἢ καὶ σὺ τί ἐξουθενεῖς τὸν ἀδελφόν σου;
πάντες γὰρ παραστησόμεθα τῷ βήματι τοῦ θεοῦ· 11γέγραπται γάρ, Ζῶ ἐγώ, λέγει
κύριος, ὅτι ἐμοὶ κάμψει πᾶν γόνυ, καὶ πᾶσα γλῶσσα ἐξομολογήσεται τῷ θεῷ. 12ἄρα [οὖν]
ἕκαστος ἡμῶν περὶ ἑαυτοῦ λόγον δώσει [τῷ θεῷ]. 13Μηκέτι οὖν ἀλλήλους κρίνωμεν·
ἀλλὰ τοῦτο κρίνατε μᾶλλον, τὸ μὴ τιθέναι πρόσκομμα τῷ ἀδελφῷ ἢ σκάνδαλον.
197

oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la


condanna. [3]I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si
fa il male. Vuoi non aver da temere l’autorità? Fà il bene e ne avrai lode, [4]poiché essa è
al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa
porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male.
[5]Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche
per ragioni di coscienza. [6]Per questo dunque dovete pagare i tributi, perché quelli che
sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio. [7]Rendete a ciascuno ciò che gli
è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi
il rispetto il rispetto.
La carità, riassunto della legge
[8]Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; per-
ché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. [9]Infatti il precetto: Non commettere
adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare [Es 20, 13-17; Dt 5, 17-21] e qual-
siasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come
te stesso [Lv 19, 18]. [10]L’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento
della legge è l’amore.
Il cristiano è il figlio della luce
[11]Questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno,
perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. [12]La notte
è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le
armi della luce. [13]Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo
a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. [14]
Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri.
Capitolo 14
Carità verso i deboli
[1]Accogliete tra voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni. [2]Uno crede
di poter mangiare di tutto, l’altro invece, che è debole, mangia solo legumi. [3]Colui che
mangia non disprezzi chi non mangia; chi non mangia, non giudichi male chi mangia,
perché Dio lo ha accolto. [4]Chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo? Stia in piedi
o cada, ciò riguarda il suo padrone; ma starà in piedi, perché il Signore ha il potere di
farcelo stare.
[5]C’è chi distingue giorno da giorno, chi invece li giudica tutti uguali; ciascuno però
cerchi di approfondire le sue convinzioni personali. [6]Chi si preoccupa del giorno, se
ne preoccupa per il Signore; chi mangia, mangia per il Signore, dal momento che rende
grazie a Dio; anche chi non mangia, se ne astiene per il Signore e rende grazie a Dio.
[7]Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, [8]perché
se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia
che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore. [9]Per questo infatti Cristo è
morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi.
[10]Ma tu, perché giudichi il tuo fratello? E anche tu, perché disprezzi il tuo fratello?
Tutti infatti ci presenteremo al tribunale di Dio, [11]poiché sta scritto:
Come è vero che io vivo, dice il Signore,
ogni ginocchio si piegherà davanti a me
e ogni lingua renderà gloria a Dio [Is 45, 23].
[12]Quindi ciascuno di noi renderà conto a Dio di se stesso. [13]Cessiamo dunque di giudi-
carci gli uni gli altri; pensate invece a non esser causa di inciampo o di scandalo al fratello.
198

14
οἶδα καὶ πέπεισμαι ἐν κυρίῳ Ἰησοῦ ὅτι οὐδὲν κοινὸν δι’ ἑαυτοῦ· εἰ μὴ τῷ λογιζομένῳ
τι κοινὸν εἶναι, ἐκείνῳ κοινόν. 15εἰ γὰρ διὰ βρῶμα ὁ ἀδελφός σου λυπεῖται, οὐκέτι
κατὰ ἀγάπην περιπατεῖς. μὴ τῷ βρώματί σου ἐκεῖνον ἀπόλλυε ὑπὲρ οὗ Χριστὸς
ἀπέθανεν. 16μὴ βλασφημείσθω οὖν ὑμῶν τὸ ἀγαθόν. 17οὐ γάρ ἐστιν ἡ βασιλεία τοῦ θεοῦ
βρῶσις καὶ πόσις, ἀλλὰ δικαιοσύνη καὶ εἰρήνη καὶ χαρὰ ἐν πνεύματι ἁγίῳ· 18ὁ γὰρ
ἐν τούτῳ δουλεύων τῷ Χριστῷ εὐάρεστος τῷ θεῷ καὶ δόκιμος τοῖς ἀνθρώποις. 19ἄρα
οὖν τὰ τῆς εἰρήνης διώκωμεν καὶ τὰ τῆς οἰκοδομῆς τῆς εἰς ἀλλήλους· 20μὴ ἕνεκεν
βρώματος κατάλυε τὸ ἔργον τοῦ θεοῦ. πάντα μὲν καθαρά, ἀλλὰ κακὸν τῷ ἀνθρώπῳ
τῷ διὰ προσκόμματος ἐσθίοντι. 21καλὸν τὸ μὴ φαγεῖν κρέα μηδὲ πιεῖν οἶνον μηδὲ ἐν
ᾧ ὁ ἀδελφός σου προσκόπτει. 22σὺ πίστιν [ἣν] ἔχεις κατὰ σεαυτὸν ἔχε ἐνώπιον τοῦ
θεοῦ. μακάριος ὁ μὴ κρίνων ἑαυτὸν ἐν ᾧ δοκιμάζει· 23ὁ δὲ διακρινόμενος ἐὰν φάγῃ
κατακέκριται, ὅτι οὐκ ἐκ πίστεως· πᾶν δὲ ὃ οὐκ ἐκ πίστεως ἁμαρτία ἐστίν.
15
1
Ὀφείλομεν δὲ ἡμεῖς οἱ δυνατοὶ τὰ ἀσθενήματα τῶν ἀδυνάτων βαστάζειν, καὶ μὴ
ἑαυτοῖς ἀρέσκειν. 2ἕκαστος ἡμῶν τῷ πλησίον ἀρεσκέτω εἰς τὸ ἀγαθὸν πρὸς οἰκοδομήν·
3
καὶ γὰρ ὁ Χριστὸς οὐχ ἑαυτῷ ἤρεσεν· ἀλλὰ καθὼς γέγραπται, Οἱ ὀνειδισμοὶ τῶν
ὀνειδιζόντων σε ἐπέπεσαν ἐπ’ ἐμέ. 4ὅσα γὰρ προεγράφη, εἰς τὴν ἡμετέραν διδασκαλίαν
ἐγράφη, ἵνα διὰ τῆς ὑπομονῆς καὶ διὰ τῆς παρακλήσεως τῶν γραφῶν τὴν ἐλπίδα
ἔχωμεν. 5ὁ δὲ θεὸς τῆς ὑπομονῆς καὶ τῆς παρακλήσεως δῴη ὑμῖν τὸ αὐτὸ φρονεῖν ἐν
ἀλλήλοις κατὰ Χριστὸν Ἰησοῦν, 6ἵνα ὁμοθυμαδὸν ἐν ἑνὶ στόματι δοξάζητε τὸν θεὸν καὶ
πατέρα τοῦ κυρίου ἡμῶν Ἰησοῦ Χριστοῦ. 7Διὸ προσλαμβάνεσθε ἀλλήλους, καθὼς καὶ ὁ
Χριστὸς προσελάβετο ὑμᾶς, εἰς δόξαν τοῦ θεοῦ. 8λέγω γὰρ Χριστὸν διάκονον γεγενῆσθαι
περιτομῆς ὑπὲρ ἀληθείας θεοῦ, εἰς τὸ βεβαιῶσαι τὰς ἐπαγγελίας τῶν πατέρων, 9τὰ δὲ
ἔθνη ὑπὲρ ἐλέους δοξάσαι τὸν θεόν· καθὼς γέγραπται, Διὰ τοῦτο ἐξομολογήσομαί σοι
ἐν ἔθνεσιν, καὶ τῷ ὀνοματί σου ψαλῶ. 10καὶ πάλιν λέγει, Εὐφράνθητε, ἔθνη, μετὰ τοῦ
λαοῦ αὐτοῦ. 11καὶ πάλιν, Αἰνεῖτε, πάντα τὰ ἔθνη, τὸν κύριον, καὶ ἐπαινεσάτωσαν αὐτὸν
πάντες οἱ λαοί. 12καὶ πάλιν Ἠσαΐας λέγει, Ἔσται ἡ ῥίζα τοῦ Ἰεσσαί, καὶ ὁ ἀνιστάμενος
ἄρχειν ἐθνῶν· ἐπ’ αὐτῷ ἔθνη ἐλπιοῦσιν. 13ὁ δὲ θεὸς τῆς ἐλπίδος πληρώσαι ὑμᾶς πάσης
χαρᾶς καὶ εἰρήνης ἐν τῷ πιστεύειν, εἰς τὸ περισσεύειν ὑμᾶς ἐν τῇ ἐλπίδι ἐν δυνάμει
πνεύματος ἁγίου. 14Πέπεισμαι δέ, ἀδελφοί μου, καὶ αὐτὸς ἐγὼ περὶ ὑμῶν, ὅτι καὶ αὐτοὶ
μεστοί ἐστε ἀγαθωσύνης, πεπληρωμένοι πάσης [τῆς] γνώσεως, δυνάμενοι καὶ ἀλλήλους
νουθετεῖν. 15τολμηρότερον δὲ ἔγραψα ὑμῖν ἀπὸ μέρους, ὡς ἐπαναμιμνῄσκων ὑμᾶς διὰ
τὴν χάριν τὴν δοθεῖσάν μοι ὑπὸ τοῦ θεοῦ 16εἰς τὸ εἶναί με λειτουργὸν Χριστοῦ Ἰησοῦ
199

[14]Io so, e ne sono persuaso nel Signore Gesù, che nulla è immondo in se stesso; ma se
uno ritiene qualcosa come immondo, per lui è immondo. [15]Ora se per il tuo cibo il tuo
fratello resta turbato, tu non ti comporti più secondo carità. Guardati perciò dal rovi-
nare con il tuo cibo uno per il quale Cristo è morto! [16]Non divenga motivo di biasimo
il bene di cui godete! [17]Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda,
ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: [18]chi serve il Cristo in queste cose, è
bene accetto a Dio e stimato dagli uomini. [19]Diamoci dunque alle opere della pace e
alla edificazione vicendevole. [20]Non distruggere l’opera di Dio per una questione di
cibo! Tutto è mondo, d’accordo; ma è male per un uomo mangiare dando scandalo. [21]
Perciò è bene non mangiare carne, né bere vino, né altra cosa per la quale il tuo fratello
possa scandalizzarsi.
[22]La fede che possiedi, conservala per te stesso davanti a Dio. Beato chi non si con-
danna per ciò che egli approva. [23]Ma chi è nel dubbio, mangiando si condanna, perché
non agisce per fede; tutto quello, infatti, che non viene dalla fede è peccato.
Capitolo 15
[1]Noi che siamo i forti abbiamo il dovere di sopportare l’infermità dei deboli, senza
compiacere noi stessi. [2]Ciascuno di noi cerchi di compiacere il prossimo nel bene,
per edificarlo. [3]Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso, ma come sta scritto:
gli insulti di coloro che ti insultano sono caduti sopra di me [Sal 69, 10]. [4]Ora, tutto
ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché in virtù
della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture teniamo viva la
nostra speranza. [5]E il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda di avere
gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti ad esempio di Cristo Gesù, [6]perché con un
solo animo e una voce sola rendiate gloria a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo.
[7]Accoglietevi perciò gli uni gli altri come Cristo accolse voi, per la gloria di Dio. [8]
Dico infatti che Cristo si è fatto servitore dei circoncisi in favore della veracità di Dio,
per compiere le promesse dei padri; [9]le nazioni pagane invece glorificano Dio per la
sua misericordia, come sta scritto:
Per questo ti celebrerò tra le nazioni pagane,
e canterò inni al tuo nome [Sal 18, 50].
[10]E ancora:
Rallegratevi, o nazioni, insieme al suo popolo [Dt 32, 43].
[11]E di nuovo:
Lodate, nazioni tutte, il Signore;
i popoli tutti lo esaltino [Sal 117, 1].
[12]E a sua volta Isaia dice:
Spunterà il rampollo di Iesse,
colui che sorgerà a giudicare le nazioni:
in lui le nazioni spereranno [Is 11, 10].
[13]Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate
nella speranza per la virtù dello Spirito Santo.
EPILOGO
Il ministero di Paolo
[14]Fratelli miei, sono anch’io convinto, per quel che vi riguarda, che voi pure siete pieni
di bontà, colmi di ogni conoscenza e capaci di correggervi l’un l’altro. [15]Tuttavia vi ho
scritto con un pò di audacia, in qualche parte, come per ricordarvi quello che gia sapete, a
causa della grazia che mi è stata concessa da parte di Dio [16]di essere un ministro di Gesù
200

εἰς τὰ ἔθνη, ἱερουργοῦντα τὸ εὐαγγέλιον τοῦ θεοῦ, ἵνα γένηται ἡ προσφορὰ τῶν ἐθνῶν
εὐπρόσδεκτος, ἡγιασμένη ἐν πνεύματι ἁγίῳ. 17ἔχω οὖν [τὴν] καύχησιν ἐν Χριστῷ
Ἰησοῦ τὰ πρὸς τὸν θεόν· 18οὐ γὰρ τολμήσω τι λαλεῖν ὧν οὐ κατειργάσατο Χριστὸς
δι’ ἐμοῦ εἰς ὑπακοὴν ἐθνῶν, λόγῳ καὶ ἔργῳ, 19ἐν δυνάμει σημείων καὶ τεράτων, ἐν
δυνάμει πνεύματος [θεοῦ]· ὥστε με ἀπὸ Ἰερουσαλὴμ καὶ κύκλῳ μέχρι τοῦ Ἰλλυρικοῦ
πεπληρωκέναι τὸ εὐαγγέλιον τοῦ Χριστοῦ, 20οὕτως δὲ φιλοτιμούμενον εὐαγγελίζεσθαι
οὐχ ὅπου ὠνομάσθη Χριστός, ἵνα μὴ ἐπ’ ἀλλότριον θεμέλιον οἰκοδομῶ, 21ἀλλὰ καθὼς
γέγραπται, Οἷς οὐκ ἀνηγγέλη περὶ αὐτοῦ ὄψονται, καὶ οἳ οὐκ ἀκηκόασιν συνήσουσιν.
22
Διὸ καὶ ἐνεκοπτόμην τὰ πολλὰ τοῦ ἐλθεῖν πρὸς ὑμᾶς· 23νυνὶ δὲ μηκέτι τόπον ἔχων
ἐν τοῖς κλίμασι τούτοις, ἐπιποθίαν δὲ ἔχων τοῦ ἐλθεῖν πρὸς ὑμᾶς ἀπὸ πολλῶν
ἐτῶν, 24ὡς ἂν πορεύωμαι εἰς τὴν Σπανίαν· ἐλπίζω γὰρ διαπορευόμενος θεάσασθαι
ὑμᾶς καὶ ὑφ’ ὑμῶν προπεμφθῆναι ἐκεῖ ἐὰν ὑμῶν πρῶτον ἀπὸ μέρους ἐμπλησθῶ
25
νυνὶ δὲ πορεύομαι εἰς Ἰερουσαλὴμ διακονῶν τοῖς ἁγίοις. 26εὐδόκησαν γὰρ
Μακεδονία καὶ Ἀχαΐα κοινωνίαν τινὰ ποιήσασθαι εἰς τοὺς πτωχοὺς τῶν ἁγίων τῶν
ἐν Ἰερουσαλήμ. 27εὐδόκησαν γάρ, καὶ ὀφειλέται εἰσὶν αὐτῶν· εἰ γὰρ τοῖς πνευματικοῖς
αὐτῶν ἐκοινώνησαν τὰ ἔθνη, ὀφείλουσιν καὶ ἐν τοῖς σαρκικοῖς λειτουργῆσαι αὐτοῖς.
28
τοῦτο οὖν ἐπιτελέσας, καὶ σφραγισάμενος αὐτοῖς τὸν καρπὸν τοῦτον, ἀπελεύσομαι
δι’ ὑμῶν εἰς Σπανίαν· 29οἶδα δὲ ὅτι ἐρχόμενος πρὸς ὑμᾶς ἐν πληρώματι εὐλογίας Χριστοῦ
ἐλεύσομαι. 30Παρακαλῶ δὲ ὑμᾶς [,ἀδελφοί,] διὰ τοῦ κυρίου ἡμῶν Ἰησοῦ Χριστοῦ καὶ
διὰ τῆς ἀγάπης τοῦ πνεύματος, συναγωνίσασθαί μοι ἐν ταῖς προσευχαῖς ὑπὲρ ἐμοῦ
πρὸς τὸν θεόν, 31ἵνα ῥυσθῶ ἀπὸ τῶν ἀπειθούντων ἐν τῇ Ἰουδαίᾳ καὶ ἡ διακονία μου ἡ
εἰς Ἰερουσαλὴμ εὐπρόσδεκτος τοῖς ἁγίοις γένηται, 32ἵνα ἐν χαρᾷ ἐλθὼν πρὸς ὑμᾶς διὰ
θελήματος θεοῦ συναναπαύσωμαι ὑμῖν. 33ὁ δὲ θεὸς τῆς εἰρήνης μετὰ πάντων ὑμῶν·
ἀμήν.
16
1
Συνίστημι δὲ ὑμῖν Φοίβην τὴν ἀδελφὴν ἡμῶν, οὖσαν [καὶ] διάκονον τῆς ἐκκλησίας
τῆς ἐν Κεγχρεαῖς, 2ἵνα αὐτὴν προσδέξησθε ἐν κυρίῳ ἀξίως τῶν ἁγίων, καὶ παραστῆτε
αὐτῇ ἐν ᾧ ἂν ὑμῶν χρῄζῃ πράγματι, καὶ γὰρ αὐτὴ προστάτις πολλῶν ἐγενήθη καὶ
ἐμοῦ αὐτοῦ. 3Ἀσπάσασθε Πρίσκαν καὶ Ἀκύλαν τοὺς συνεργούς μου ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ,
4
οἵτινες ὑπὲρ τῆς ψυχῆς μου τὸν ἑαυτῶν τράχηλον ὑπέθηκαν, οἷς οὐκ ἐγὼ μόνος
εὐχαριστῶ ἀλλὰ καὶ πᾶσαι αἱ ἐκκλησίαι τῶν ἐθνῶν, 5καὶ τὴν κατ’ οἶκον αὐτῶν
ἐκκλησίαν. ἀσπάσασθε Ἐπαίνετον τὸν ἀγαπητόν μου, ὅς ἐστιν ἀπαρχὴ τῆς Ἀσίας
εἰς Χριστόν. 6ἀσπάσασθε Μαρίαν, ἥτις πολλὰ ἐκοπίασεν εἰς ὑμᾶς. 7ἀσπάσασθε
Ἀνδρόνικον καὶ Ἰουνιᾶν τοὺς συγγενεῖς μου καὶ συναιχμαλώτους μου, οἵτινές
εἰσιν ἐπίσημοι ἐν τοῖς ἀποστόλοις, οἳ καὶ πρὸ ἐμοῦ γέγοναν ἐν Χριστῷ. 8ἀσπάσασθε
Ἀμπλιᾶτον τὸν ἀγαπητόν μου ἐν κυρίῳ. 9ἀσπάσασθε Οὐρβανὸν τὸν συνεργὸν ἡμῶν ἐν
Χριστῷ καὶ Στάχυν τὸν ἀγαπητόν μου. 10ἀσπάσασθε Ἀπελλῆν τὸν δόκιμον ἐν Χριστῷ.
ἀσπάσασθε τοὺς ἐκ τῶν Ἀριστοβούλου. 11ἀσπάσασθε Ἡρῳδίωνα τὸν συγγενῆ μου.
ἀσπάσασθε τοὺς ἐκ τῶν Ναρκίσσου τοὺς ὄντας ἐν κυρίῳ. 12ἀσπάσασθε Τρύφαιναν καὶ
Τρυφῶσαν τὰς κοπιώσας ἐν κυρίῳ. ἀσπάσασθε Περσίδα τὴν ἀγαπητήν, ἥτις πολλὰ
ἐκοπίασεν ἐν κυρίῳ. 13ἀσπάσασθε Ῥοῦφον τὸν ἐκλεκτὸν ἐν κυρίῳ καὶ τὴν μητέρα
αὐτοῦ καὶ ἐμοῦ. 14ἀσπάσασθε Ἀσύγκριτον, Φλέγοντα, Ἑρμῆν, Πατροβᾶν, Ἑρμᾶν,
καὶ τοὺς σὺν αὐτοῖς ἀδελφούς. 15ἀσπάσασθε Φιλόλογον καὶ Ἰουλίαν, Νηρέα καὶ τὴν
ἀδελφὴν αὐτοῦ, καὶ Ὀλυμπᾶν, καὶ τοὺς σὺν αὐτοῖς πάντας ἁγίους. 16Ἀσπάσασθε
ἀλλήλους ἐν φιλήματι ἁγίῳ. Ἀσπάζονται ὑμᾶς αἱ ἐκκλησίαι πᾶσαι τοῦ Χριστοῦ.
201

Cristo tra i pagani, esercitando l’ufficio sacro del vangelo di Dio perché i pagani divengano
una oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo. [17]Questo è in realtà il mio vanto
in Gesù Cristo di fronte a Dio; [18]non oserei infatti parlare di ciò che Cristo non avesse
operato per mezzo mio per condurre i pagani all’obbedienza, con parole e opere, [19]con la
potenza di segni e di prodigi, con la potenza dello Spirito. Così da Gerusalemme e dintorni
fino all’Illiria, ho portato a termine la predicazione del vangelo di Cristo. [20]Ma mi sono
fatto un punto di onore di non annunziare il vangelo se non dove ancora non era giunto il
nome di Cristo, per non costruire su un fondamento altrui, [21]ma come sta scritto:
Lo vedranno coloro ai quali non era stato annunziato
e coloro che non ne avevano udito parlare, comprenderanno [Is 52, 15].
Progetti di viaggio
[22]Per questo appunto fui impedito più volte di venire da voi. [23]Ora però, non tro-
vando più un campo d’azione in queste regioni e avendo gia da parecchi anni un vivo
desiderio di venire da voi, [24]quando andrò in Spagna spero, passando, di vedervi, e
di esser da voi aiutato per recarmi in quella regione, dopo avere goduto un poco della
vostra presenza.
[25]Per il momento vado a Gerusalemme, a rendere un servizio a quella comunità; [26]la
Macedonia e l’Acaia infatti hanno voluto fare una colletta a favore dei poveri che sono nella
comunità di Gerusalemme. [27]L’hanno voluto perché sono ad essi debitori: infatti, avendo
i pagani partecipato ai loro beni spirituali, sono in debito di rendere un servizio sacro nelle
loro necessità materiali. [28]Fatto questo e presentato ufficialmente ad essi questo frutto,
andrò in Spagna passando da voi. [29]E so che, giungendo presso di voi, verrò con la pie-
nezza della benedizione di Cristo. [30]Vi esorto perciò, fratelli, per il Signore nostro Gesù
Cristo e l’amore dello Spirito, a lottare con me nelle preghiere che rivolgete per me a Dio,
[31]perché io sia liberato dagli infedeli della Giudea e il mio servizio a Gerusalemme torni
gradito a quella comunità, [32]sicché io possa venire da voi nella gioia, se così vuole Dio,
e riposarmi in mezzo a voi. Il Dio della pace sia con tutti voi. Amen.
Capitolo 16
Raccomandazioni e saluti
[1]Vi raccomando Febe, nostra sorella, diaconessa della Chiesa di Cencre: [2]ricevetela
nel Signore, come si conviene ai credenti, e assistetela in qualunque cosa abbia bisogno;
anch’essa infatti ha protetto molti, e anche me stesso.
[3]Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù; per salvarmi la vita essi
hanno rischiato la loro testa, [4]e ad essi non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese
dei Gentili; [5]salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa.
Salutate il mio caro Epèneto, primizia dell’Asia per Cristo. [6]Salutate Maria, che ha
faticato molto per voi. [7]Salutate Andronìco e Giunia, miei parenti e compagni di
prigionia; sono degli apostoli insigni che erano in Cristo gia prima di me. [8]Salutate
Ampliato, mio diletto nel Signore. [9]Salutate Urbano, nostro collaboratore in Cristo,
e il mio caro Stachi. [10]Salutate Apelle che ha dato buona prova in Cristo. Salutate
i familiari di Aristòbulo. [11]Salutate Erodione, mio parente. Salutate quelli della
casa di Narcìso che sono nel Signore. [12]Salutate Trifèna e Trifòsa che hanno lavo-
rato per il Signore. Salutate la carissima Pèrside che ha lavorato per il Signore. [13]
Salutate Rufo, questo eletto nel Signore, e la madre sua che è anche mia. [14]Salutate
Asìncrito, Flegónte, Erme, Pàtroba, Erma e i fratelli che sono con loro. [15]Salutate
Filòlogo e Giulia, Nèreo e sua sorella e Olimpas e tutti i credenti che sono con loro.
[16]Salutatevi gli uni gli altri con il bacio santo. Vi salutano tutte le chiese di Cristo.
202

17
Παρακαλῶ δὲ ὑμᾶς, ἀδελφοί, σκοπεῖν τοὺς τὰς διχοστασίας καὶ τὰ
σκάνδαλα παρὰ τὴν διδαχὴν ἣν ὑμεῖς ἐμάθετε ποιοῦντας, καὶ ἐκκλίνετε
ἀπ’ αὐτῶν· 18οἱ γὰρ τοιοῦτοι τῷ κυρίῳ ἡμῶν Χριστῷ οὐ δουλεύουσιν ἀλλὰ τῇ ἑαυτῶν
κοιλίᾳ, καὶ διὰ τῆς χρηστολογίας καὶ εὐλογίας ἐξαπατῶσιν τὰς καρδίας τῶν ἀκάκων.
19
ἡ γὰρ ὑμῶν ὑπακοὴ εἰς πάντας ἀφίκετο· ἐφ’ ὑμῖν οὖν χαίρω, θέλω δὲ ὑμᾶς σοφοὺς
εἶναι εἰς τὸ ἀγαθόν, ἀκεραίους δὲ εἰς τὸ κακόν. 20ὁ δὲ θεὸς τῆς εἰρήνης συντρίψει τὸν
Σατανᾶν ὑπὸ τοὺς πόδας ὑμῶν ἐν τάχει. ἡ χάρις τοῦ κυρίου ἡμῶν Ἰησοῦ μεθ’ ὑμῶν.
21
Ἀσπάζεται ὑμᾶς Τιμόθεος ὁ συνεργός μου, καὶ Λούκιος καὶ Ἰάσων καὶ Σωσίπατρος
οἱ συγγενεῖς μου. 22ἀσπάζομαι ὑμᾶς ἐγὼ Τέρτιος ὁ γράψας τὴν ἐπιστολὴν ἐν κυρίῳ.
23
ἀσπάζεται ὑμᾶς Γάϊος ὁ ξένος μου καὶ ὅλης τῆς ἐκκλησίας. ἀσπάζεται ὑμᾶς Ἔραστος
ὁ οἰκονόμος τῆς πόλεως καὶ Κούαρτος ὁ ἀδελφός. 24[Τῷ 25δὲ δυναμένῳ ὑμᾶς στηρίξαι
κατὰ τὸ εὐαγγέλιόν μου καὶ τὸ κήρυγμα Ἰησοῦ Χριστοῦ, κατὰ ἀποκάλυψιν μυστηρίου
χρόνοις αἰωνίοις σεσιγημένου 26φανερωθέντος δὲ νῦν διά τε γραφῶν προφητικῶν
κατ’ ἐπιταγὴν τοῦ αἰωνίου θεοῦ εἰς ὑπακοὴν πίστεως εἰς πάντα τὰ ἔθνη γνωρισθέντος,
27
μόνῳ σοφῷ θεῷ διὰ Ἰησοῦ Χριστοῦ ᾧ ἡ δόξα εἰς τοὺς αἰῶνας· ἀμήν.]
203

Avvertimento. Primo post-scriptum


[17]Mi raccomando poi, fratelli, di ben guardarvi da coloro che provocano divisioni
e ostacoli contro la dottrina che avete appreso: tenetevi lontani da loro. [18]Costoro,
infatti, non servono Cristo nostro Signore, ma il proprio ventre e con un parlare solenne
e lusinghiero ingannano il cuore dei semplici.
[19]La fama della vostra obbedienza è giunta dovunque; mentre quindi mi rallegro di
voi, voglio che siate saggi nel bene e immuni dal male. [20]Il Dio della pace stritolerà
ben presto Satana sotto i vostri piedi. La grazia del Signor nostro Gesù Cristo sia con voi.
Ultimi saluti. Secondo post-scriptum
[21]Vi saluta Timòteo mio collaboratore, e con lui Lucio, Giasone, Sosìpatro, miei
parenti. [22]Vi saluto nel Signore anch’io, Terzo, che ho scritto la lettera. [23]Vi saluta
Gaio, che ospita me e tutta la comunità. Vi salutano Erasto, tesoriere della città, e il
fratello Quarto.
Dossologia
[25]A colui che ha il potere di confermarvi
secondo il vangelo che io annunzio e il messaggio di Gesù Cristo,
secondo la rivelazione del mistero
taciuto per secoli eterni,
[26]ma rivelato ora
e annunziato mediante le scritture profetiche,
per ordine dell’eterno Dio, a tutte le genti
perché obbediscano alla fede,
[27]a Dio che solo è sapiente,
per mezzo di Gesù Cristo,
la gloria nei secoli dei secoli. Amen.
Abbreviazioni bibliche

Ab: Abacuc Is: Isaia

Ap: Apocalisse Lc: Luca

At: Atti degli Apostoli Lv: Levitico

Col: Epistola ai Colossesi Ml: Malachia

1 2 Cor: Epistole ai Corinzi Mt: Matteo

1 2 Cr: Cronache Os: Osea

Ct: Cantico dei Cantici Pr: Proverbi

Dt: Deuteronomio 1 2 Re: Libri dei Re

Eccli: Eccelsiastico o Siracide Rm: Epistola ai Romani

Ef: Epistola agli Efesini Sal: Salmi

Es: Esodo Sap: Sapienza

Fil: Epistola ai Filippesi Sir: Siracide

Fm: Epistola a Filemone 1 2 Tm: Epistole a Timoteo

Gal: Epistola ai Galati 1 2 Ts: Epistole ai Tessalonicesi

Gb: Giobbe Zc: Zaccaria

Gc: Epistola di Giacomo

Ger: Geremia

Gl: Gioele

Gv: Giovanni

1 2 3 Gv: Epistole di Giovanni


Finito di stampare
nel mese di marzo 2010
presso Laser Copy Center S.r.l.
via G. Di Vittorio, 41
20068 Peschiera Borromeo (MI)

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