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Sono convinto che la Benevento “colta” sia costituita da nicchie che andrebbero

valorizzate (con un supporto logistico prima che economico) da parte dei decisori
politici, ma anche lasciate completamente autonome. Questa città troppe volte sembra
oscillare come un pendolo tra la cultura “organica” a qualche potentato o la fruizione
privata.
Sabato 14 ottobre ho partecipato ad un evento messo in piedi da un giovane laureato
in filosofia, Luigi Santamaria, che è stato capace di attivare risorse “private” e riportare
in città uno dei maggiori filosofi italiani viventi, Vincenzo Vitiello, per la presentazione
del libro di un giovane ricercatore, allievo di Cacciari e Severino, oltre che di Vitiello
stesso, Edoardo Dallari, dedicato al problema del Politico in Hegel e Schmitt.
Ho ricordato l’esperienza de «la rosa necessaria» (che un’associazione e una rivista
per altro legata a questa storica testata). Sarei ben felice se si creassero sodalizi culturali
capaci di una proposta “sensata”, che nasca da un autentico bisogno ed eludano il
rischio dell’evento spettacolare o autopromozionale.
In una sala gremita (e senza l’irresistibile fascinazione sul mondo studentesco di
crediti e ore di alternanza scuola-lavoro...), abbiamo assistito ad un vero dialogo
filosofico tra un maestro (Vitiello) ed un allievo (Dallari) che sta simbolicamente
“uccidendo il padre”, emancipandosi e avviando un percorso autonomo di ricerca.
Il libro si presenta come una riflessione su due pensatori molto diversi tra loro e
distanti nel tempo ma che entrambi hanno dedicato una parte essenziale della loro opera
al Politico. Ma l’interesse del testo risiede soprattutto nel voler pensare il nostro tempo
a partire dalle categorie hegeliane e schmittiane che vengono fatte interagire tra loro.
Vitiello nel suo intervento ha sottolineato il suo disaccordo rispetto alla prima fase
del pensiero del nazista Schmitt, tutto fondato sul tema della decisione nello “stato
d’eccezione”. In realtà, ha detto il filosofo napoletano, a Schmitt interessa “chi” decide.
L’intervento è stato una meticolosa decostruzione della (presunta) grandezza del
pensatore cattolico tedesco (o almeno della prima parte della sua produzione), pur nel
riconoscimento della sua biografia sofferta. È ridicolo, ad esempio, pensarlo come padre
della “teologia politica” (merito che spetta evidentemente a Platone). Diverso, invece,
il secondo Schmitt, quello che scrive, dopo la “cattività”, Il Nomos della Terra (uscito
nel 1950, tradotto nel 1991 da Adelphi), in cui – nel tempo del disordine globalizzato –
tenta di radicare il Politico non in chi esercita il comando ma nella Terra (γῆ μήτηρ),
come peraltro facevano anche il filosofo-letterato Jünger ed Heidegger. Ma anche
questo oggi si è rivelata un’illusione. E noi siamo nel pieno di una crisi che pare senza
sbocchi positivi. Unica soluzione – e qui ha parlato il grande e innovativo studioso del
cristianesimo – potrebbe essere modificare non ciò che facciamo ma il modo in cui lo
facciamo, attingendo a San Paolo (temi questi per altro affrontati anche da un altro
allievo di Vitiello, il nostro Guido Bianchini nel suo suo L’inquietudine dell’Altro).
Edoardo Dallari ha svolto un ampio intervento, apparentemente più politico che
filosofico, partendo dall’assunto che lo Stato nazionale oramai sia tramontato e sia
impensabile riportarlo in vita. Viviamo il tempo della globalizzazione e di compagini
neo-imperiali che pongono nuovi problemi di sovranità. L’Europa, in particolare, che
pure ha vinto imponendo i suoi valori al globo intero, vive una crisi apparentemente
senza rimedio. La sfida, ha detto il giovane filosofo, allora è creare una sovranità
europea, come ribadito recentemente dal Presidente francese Macron. Insomma, nel
tempo del trionfo dell’Economico, si pone una nuova sfida al Politico e alla sua capacità
di guidare gli eventi che va accettata. È necessario creare un nuovo ordine per l’Europa
intesa come “grande spazio” che sappia superare l’impasse del germanocentrismo e dei

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diktat del FMI. L’Europa può e deve esistere solo come Stati Uniti d’Europa... Tutto
questo, ha detto Dallari, non ha a che fare (qui emerge una vera e propria filosofia della
storia purtroppo solo accennata) con l’uomo e le sue scelte. Da allievo di Severino,
Dallari ha parlato di «fatto destinale». L’Europa figlia della crisi (crisi dell’imperialismo
nel 1918, crisi della seconda guerra mondiale, crisi del 1989) ha il compito storico di
rispondere perennemente alla crisi, che è in qualche modo il motore stesso della sua
storia. In «Caoslandia» (Caracciolo), il nostro tempo che contraddice le profezie di
Fukuyama sul mondo pacificato, una nuova Europa ha il compiti di essere baluardo di
pace rivitalizzando i suoi valori fondativi. E a farlo dovranno essere politici-artisti che
operano nel vuoto, senza certezze sul futuro, nella consapevolezza che non esistono
“forme” definitive, ordinamenti capaci di resistere all’usura del tempo. Qui, mi pare,
che venga rivendicata l’eredità di Schmitt, nella concezione dell’uomo politico come
colui che decide non sulla base di ordinamenti dati o di accadimenti prevedibili, ma
nell’incertezza, nella precarietà, assumendosene la responsabilità. Dunque, non solo una
visione “artistica” della politica ma anche “eroica”. Il politico, dunque, è colui che
allontana la crisi ma agisce solo in virtù di essa, in essa.
L’intervento di Dallari si è chiuso con una serie di questione irrisolte: il rischio della
Rete (dove si smarrisce il soggetto dell’agire), il rapporto fra dimensione politica
(fondata sul consenso) e apparati burocratici, anonimi e opachi. Il problema più grande
(e qui torniamo al tema centrale del libro, ossia il rapporto tra società civile e Stato) è
quello di coniugare un individualismo (in cui tutti rivendicano la propria personale
realizzazione) sempre più spinto con uno potere capace di decidere.
L’ultima parte dell’incontro è stata una raffinato duello dialettico in cui il maestro
ha cercato di smontare l’utopia dell’allievo, ritenendo da una parte che l’Europa è già
morta (come per altro argomentato in Europa. Topologia di un naufragio, Mimesis,
2017), dall’altra che Nietzsche dovrebbe averci insegnato l’impotenza della volontà di
potenza. Con una battuta, dopo aver ascoltato anche le domande dei presenti, ha detto
Vitiello di sentirsi nel 1835, poco dopo la morte di Hegel, come se poi non ci fosse stato
appunto Nietzsche e il XX secolo a smontare alcune illusioni (in particolare quella
dell’esistenza del Soggetto, su cui si fonda invece la visione “artistica” ed “eroica” della
Politico proposta da Dallari).
Con una mossa intelligente il discepolo è uscito dall’angolo rivendicando la parola
con cui il maestro chiude la “Premessa”: speranza. Speriamo, ha detto, che tutto questo
sia possibile. Spes contra spem, potremmo dire, paolinamente...
Dallari sta costruendo con solide basi il profilo dell’anti-Fusaro. Entrambi frutto del
vivaio della San Raffaele, con un lessico filosofico e auctores in comune, spesso maestri
identici, declinano due possibilità della filosofia politica: l’uno teso a ripensare la grande
tradizione marxista in chiave “nazionale”, l’altro, invece, sulla scia in particolare di
Cacciari, convinto della necessità storico-destinale di un’altra Europa capace di
rigenerarsi per crisi, ereditando tutti valori che ha prodotto nel corso dei millenni.
Io, dal mio canto, mi sono permesso di suggerire – condividendo con Vitiello l’idea di
una crisi ineluttabile dell’Europa come costruita fino ad oggi, e provando profondo
orrore per le conseguenze della globalizzazione – di lavorare sul concetto di limite, come
suggerito da Serge Latouche. A differenza di Dallari non penso la storia in termini
“destinali”. Ritengo, da umile docente di storia quale sono, che la globalizzazione,
esattamente come la rivoluzione industriale, sia evento accaduto in un certo modo anche
per precise volontà politiche. E che, dunque, sperimentatane la potenza dissolutrice (del
bisogno primario dell’uomo, il radicamento, oltre che di una vita “sensata” e sicura) sia

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necessario il limite come sola possibile cura per la ὕβϱις ma anche come antidoto alla
forza sradicante che, dissolvendo i confini, ci rende sì “abitanti del mondo” ma anche
“apolidi”. Insomma, ed è domanda impegnativa per me che leggevo fino a pochi anni fa
con entusiasmo e partecipazione la trilogia di Toni Negri, è possibile pensare in maniera
nuova parole come “nazione” o, addirittura, “madrepatria” senza diventare nazionalisti
(senza regressioni identitarie) ma vedendo in esse l’unico, storico organismo politico “a
misura d’uomo” in grado di garantire ai cittadini una vita dignitosa? Come scrive
Latouche in Limite (Bollati-Boringhieri, 2012), contro l’ideologia del “senza frontiere”,
«la frontiera non isola, filtra. Le frontiere, per quanto arbitrarie possano essere (e c’è da
sperare che lo siano il meno possibile), sono indispensabili per ritrovare l’identità
necessaria allo scambio con l’altro. Al contrario di quello che sostiene la tesi mondialista,
non c’è democrazia senza capacità del corpo dei cittadini, a tutti i livelli, di darsi dei
limiti».

Se vuoi mettere link del libro:


http://narrativa.ilprato.com/libro/saggio-su-hegel-e-schmitt/

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