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Introduzione

“Ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è


puramente casuale. Non si assume alcuna responsabilità per i
casi che dovessero, per uno strano scherzo del destino,
rispecchiarsi in quanto narrato”.
Quanto vorrei che fosse il prologo del racconto.
La mia fantasia ha partorito questa chiacchierata tra padre e
figlio, con l’intento di stirare le pieghe che si nascondono nel
rapporto genitori-figli.
Se ne avessi la competenza, avrei anche potuto
avventurarmi in un simile viaggio, ma non sono uno psicologo
e, se anche fosse, non cambierebbe lo stato di fatto delle cose.
“Ogni riferimento a persone o fatti è assolutamente reale”.
Questo libro è l’esercizio terapeutico di un padre che ha
perso il figlio adolescente in circostanze drammatiche e cerca
disperatamente di farsene una ragione.

Non puoi vivere senza fegato. Non puoi vivere senza


stomaco o intestino. Perché mai dovresti farcela quando ti
viene a mancare un figlio? Un figlio risiede nel tuo cuore. È la
sua casa e non può esserne allontanato.
Inimmaginabile pensare di farne a meno.
Quando lo perdi, ogni cosa assume un peso e un significato
diversi.
Immediatamente.
La persona che eri se ne va prima ancora che arrivi quella
che sarai. Sai perfettamente che, quando ti raggiungerà, avrà le
spalle già curve per il peso delle battaglie che dovrai affrontare.
Hai solo una possibilità: imparare a convivere con il dolore.

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Quello vero. Quello che asciuga ogni fronzolo per ridurre
tutto all’essenziale.
Quello che cambia la vita.

Ma cos’è il dolore?
È così facile rispondere?
Il dolore non è mai uguale a se stesso, ogni volta ti
sorprende e supera le tue difese con una facilità che ti fa sentire
piccolo piccolo. Anche quando la vita ti ha allenato ben bene,
devi fare i conti con un avversario che ne sa sempre una più di
te.
Ognuno lo vive a suo modo.
Ognuno ha una propria soglia di sopportazione.
Ognuno reagisce diversamente da chiunque altro.
Nicolò lo ha guardato dritto negli occhi e io mi ritrovo qui a
scrivere per non morire.
Ho sempre pensato che la penna avesse poteri ancora
inesplorati, ma non ho mai immaginato che potesse addirittura
salvare la vita.
Queste pagine raccontano di sentimenti, più che di
avvenimenti. Un percorso di vita insieme interrotto in un
normale pomeriggio di una calda giornata estiva.
Di quelle in cui il canto delle cicale dà l’illusione di un
tempo fermo ed immutabile.
Di quelle in cui non può succedere nulla di importante.
È lì che si nasconde. Pronto ad aggredirti quando meno te lo
aspetti.
Presuntuoso come sempre.
Convinto del suo ruolo di insegnante di vita.
Il dolore.

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A Nicolò.

Le giornate di pioggia erano le tue preferite.


Ti sentivi protetto.
Durante un temporale tutti si riparano, nascosti alla vista.
Rimane solo il martellare sui tetti e sulle strade.
Una musica aritmica che ti accompagnava in posti che solo tu
conoscevi.
Anch’io amo le giornate di pioggia.
Mi piace guardare l’orizzonte che cambia colore.
Ascoltare la monotonia incessante dei rumori che si
accavallano.
Sempre quelli, ma, al sentire del cuore, sempre diversi.
L’ultima goccia ci sorprendeva sospesi a guardare lontano.
Era tanto difficile farlo insieme?
...
Abbiamo perso una grande occasione.

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6 ottobre 2013

Lettera a Nicolò

Ciao Nico, ci ho messo un po’ a scriverti perché ho dovuto


attendere di essere pronto. Non è facile farlo pensando che tu
possa ricevere realmente questa lettera. Ogni volta che ci
pensavo le lacrime sgorgavano, immediatamente, quasi mi
parlavano e sembravano dirmi di attendere il momento giusto.
È buffo che mi ritrovi a pubblicare una cosa così intima su
Facebook, proprio io, ma in questo momento mi fa sentire più
vicino a te e mi dà l’illusione di poterti realmente parlare.
Accidenti, che scherzo mi hai fatto, ti sapevo capace di
sorprendermi, ma questa volta hai superato te stesso, mi hai
totalmente spiazzato.
Non so se riuscirò mai a sollevarmi da un colpo simile, ma
di una cosa posso rassicurarti, ce la sto mettendo tutta. Lo devo
soprattutto alle persone che mi vogliono bene, ma lo devo
anche a me stesso, perché di una cosa sono sicuro: il mio
impegno nel darti gli strumenti giusti per affrontare la vita è
stato totale. Ho cercato tutte le strade possibili per capirti, in
modo da aiutarti a crescere secondo i tuoi desideri. Sono
andato anche alla “scuola per genitori” ed è li che mi hanno
dato lo spunto per quei due giorni a Cortina, ricordi?
Siamo partiti solo tu ed io, all’inizio di aprile, e abbiamo
trascorso dei bellissimi momenti, in particolare quando, soli
occupanti della sala, abbiamo cenato e parlato, parlato, parlato.
Lo avevo inteso come un nuovo inizio e invece… quanto mi
sbagliavo.
È evidente che non ho visto e non ho capito tante cose, ma
lasciatelo dire: potevi ben trovare un altro modo per farmi
aprire gli occhi, qualcosa di un po’ meno definitivo. Il punto è

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proprio questo, di sciocchezze nella vita ne facciamo tutti, ma
non dobbiamo privarci della possibilità di riparare.
Questa possibilità tu non l’hai voluta, io non so il perché, ci
ho pensato tanto e non sono giunto a grandi conclusioni. Non
mancherò di chiederti tutto per benino quando ci rivedremo,
ma per il momento devo accontentarmi di quello che so: che ti
amavo profondamente e ne ero ricambiato ed è per questo che
ti immagino a guardarmi dall’alto con lo sguardo di chi sa di
averla fatta grossa e con il cuore pesante per il dolore causato.
È proprio questo che non hai pensato in quel momento: il
dolore che avresti provocato in chi ti voleva bene. Sono
convinto che, se il pensiero ti avesse solo sfiorato, ti saresti
fermato, ma non è stato così. Non è mai così. Purtroppo lo
testimoniano tanti casi come il tuo, in cui i ragazzi non trovano
vie d’uscita che potrebbero essere dietro l’angolo e che invece
appaiono così lontane, inarrivabili.
Volevo dirti che non devi essere preoccupato per me. Mi fa
male pensarti sopraffatto dai sensi di colpa, io lo so bene. È una
sensazione che non ti molla mai e che ti toglie il fiato ogni
momento e non c’è modo di farla affievolire. C’è sempre un
qualche “perché” e un qualche “se” e “ma” che si incunea nella
tua mente, arrivando all’improvviso e con la violenza di una
coltellata al cuore.
Non posso pensarti così. Sei nel posto giusto per trovare
quella serenità che qui ti è mancata ed è per questo che ti
voglio pensare tranquillo. Voglio pensarti conscio del fatto che
il mio cuore è forte, sicuramente ferito, non dico di no, ma per
ogni cicatrice che ne atrofizza una parte, sento rinvigorirsi ciò
che resta e questo mi dà la speranza di ritrovare la strada giusta
per affrontare i giorni a venire con la giusta dose di amore nel
cuore.
Lo devo a tutte le persone che mi vogliono bene e quindi lo
devo anche a te.
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Sono giunto alla conclusione che è inutile sforzarsi di capire
se ho delle colpe in quello che è successo. Certamente credo sia
normale cercare di farlo, ma alla fine di ogni ragionamento
giungo sempre alla stessa conclusione: ero io l’unica persona
ad avere la responsabilità, da ogni punto di vista la si voglia
guardare, della tua crescita come bambino, ragazzo e, di
conseguenza, come uomo, per cui:
Ti chiedo perdono per non avere trovato la porta giusta.
Quella aperta sui tuoi bisogni più intimi e profondi. Quella che
mi avrebbe permesso di farti da spalla. Che mi avrebbe reso
credibile ai tuoi occhi, come una persona che avrebbe capito i
tuoi problemi, le tue insicurezze e le tue speranze. Quella porta
l’ho cercata tanto, ma inutilmente. Era difficile da trovare?
Forse, ma sono convinto che cercando meglio sarei potuto
riuscire.
Ti chiedo perdono per non aver capito fino in fondo il
disagio che portavi nel cuore. È vero, non mi facilitavi il
compito, ma penso che tu abbia semplicemente fatto bene il tuo
mestiere di
ente, mentre io non tanto quello di padre. Non so ancora in
che cosa ho sbagliato, ma potevo certamente fare meglio.
Ora, Nicolò, mi resta da farti solamente una preghiera:
guarda con attenzione nel mio cuore e lì cerca quello che può
servirti a trovare tutta la serenità che ti meriti. Sicuramente non
troverai tutto ciò che ti serve, ma ti ricordo quello che ti ho
detto tante volte:
non fare passi troppo lunghi, falli piccoli, fai solo attenzione
di farli nella giusta direzione.
Ciao Nicolò

Il tuo papà

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Ecco, l’ho scritta. Adesso devo pubblicarla. Apro Facebook
e vado sul profilo che ho creato solo alcune settimane fa.
Non avrei mai pensato di farlo, in fondo non ho mai capito
cosa ci sia di così piacevole nel confrontarsi in questo modo.
Manca il filtro delle espressioni del viso, delle intonazioni della
voce e di quella gestualità che parla, racconta e svela mille
volte più di un “mi piace” o di un commento di tre righe.
È il linguaggio dei giovani e mai come in questo momento
mi accorgo di esserne lontano.
Forse proprio per questo mi sono iscritto.
Un futile tentativo di accorciare questa distanza.
Ma perché?
Per chi?
Con quale obiettivo?
Tutte domande a cui non riesco a dare risposte precise.
È il mio cervello che non le vede, la parte razionale che ho
sempre messo davanti a ogni mia azione. A volte reprimendo le
mie emozioni. Senza esagerare, per carità, tutto all’insegna
dell’equilibrio. Elemento fondamentale di tutta la mia
esistenza.
Ora no! Ora sento forte il cuore che batte e che reclama il
suo spazio, pompa pompa e non ammette repliche:
Devi farlo perché così dico io!

Mi sembra tutto così irreale.


Ancora credo e spero di trovarmi invischiato in un brutto
sogno dal quale, nonostante tutti i miei sforzi, non riesco a
svegliarmi. Da quel giorno è una sensazione che provo
costantemente. Apro gli occhi al mattino e subito cerco
nell’aria un suono, un’immagine, una voce che mi dimostri che
quella notte ho avuto solo un incubo.

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Quando apri gli occhi è svanita ogni possibilità di sperare.
Nei pochi istanti prima, invece, quando le percezioni sono
ancora intorpidite e il sogno si mischia con la realtà, hai
l’impressione di poter cambiare il corso della storia.
Credi di avere la possibilità di scegliere la faccia preferita di
quella medaglia che non vuol saperne di cadere e decidere così
il tuo destino.
Ecco, quello è un momento prezioso. Soffiando bene, posso
farla cadere dalla parte giusta.
È un’illusione, certo, ma mi basta.

Cosa faccio, la pubblico?


L’ho scritta di getto, senza un’attenta rilettura.
Sarò stato chiaro?
Avrò tralasciato qualcosa?
Avrò commesso degli errori?
Porca miseria, mica è un compito in classe!
PUBBLICA.

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19 settembre 2001

Oggi è iniziato il nostro percorso insieme, io e te da soli, la


mamma ci ha lasciati alle 9.30 del mattino.
La malattia ha lavorato bene e alla fine ha vinto. Non so se
ho mai pensato che potesse realmente succedere. La vita, sino a
oggi, mi ha coccolato e viziato. Non che mi abbia riservato
colpi di fortuna degni di un primo premio alla lotteria, ma mi
ha sempre dato l’impressione di tenermi nella parte fortunata
del mondo.
Alla fine hai addirittura la sensazione di meritarlo, perché in
fondo tu sei l’artefice del tuo destino. Se le cose non vanno poi
così male, è perché le hai impostate bene.
Una stupidaggine colossale.
Ecco come concludo di solito il ragionamento, quando mi
lascio andare a considerazioni del genere. In realtà ho sempre
percepito come stanno le cose.
Non ho mai faticato granché per ottenere un qualsiasi
risultato. Molto mi è stato donato e il resto l’ho ottenuto con
poco sforzo, solo perché le cose sono andate nel verso giusto.
Spesso mi ripeto:
“immaturo, immaturo, immaturo, so di essere immaturo, ma
va bene così”.
La maturità viene dalla sofferenza, il fuoco che alimenta le
più profonde riflessioni. Quelle che ti portano a far luce, poco
alla volta, anche se mai completamente, negli angoli più
nascosti del tuo intimo. Quelle che ti fanno diventare un uomo.
L’equazione è evidente: per crescere devi soffrire!
“Immaturo, immaturo, immaturo, so di essere immaturo, ma
va bene così”.

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Oggi è il nostro giorno.
Il giorno della mamma. Ci ha lasciati dopo due anni vissuti
in modo straordinario. Non ha mai lesinato un sorriso, neppure
nei momenti peggiori.
Quando il dolore le traspariva dal viso, si girava subito per
evitare che tu, soprattutto tu, lo potessi notare. Sin dal primo
momento, non ha fatto altro che pensare a te, a cosa poteva fare
per aiutarti (aiutarci) nel caso non fosse guarita.
Il tuo giorno. Diventi orfano. È vero è una brutta parola, ma
è quello che sei. Non avrai le attenzioni che solo una mamma è
in grado di dare. Una mamma ti porta in grembo nove mesi e ti
fa da angelo custode tutta la vita.
Il mio giorno, quello in cui sono stato costretto a diventare
uomo.

Eravate a casa dei nonni già da qualche mese. La malattia le


aveva corroso le ossa sino a fratturarle entrambi i femori,
costringendola a non muoversi dal letto per gran parte della
giornata. Riusciva a spostarsi solo se aiutata e quindi doveva
avere sempre qualcuno nelle vicinanze.
Anche tu l’hai seguita dai nonni, non potevo negarle di
esercitare pienamente il suo ruolo di mamma.
Nonostante la sua condizione, trasmetteva tranquillità a tutti.
Tu eri la sua forza.
L’organizzazione famigliare aveva trovato il suo equilibrio
e, giorno dopo giorno, si era concretizzata in tutti noi la
sensazione di una situazione stabilizzata. Immutabile come le
immagini di una fotografia.
Sbiadiranno solo inchinandosi al tempo.
Inesorabile, certo, ma paziente.
L’illusione di un tempo sospeso mi ha accompagnato sino al
giorno del risveglio.
Immediato. Indubitabile. Senza appello.
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Sino al sabato nessuna avvisaglia, ma già alla domenica i
segnali erano evidenti. Non era richiesta una particolare
perspicacia per interpretarli. Tendeva a dimenticare cose
appena successe e ripeteva frasi appena dette. Ricordo bene il
momento in cui è calato anche l’ultimo velo di speranza. Dopo
più volte che non riusciva a comporre un numero di telefono ha
esclamato:
“Oggi sono proprio imbranata, non riesco a fare niente!”
Poteva sembrare una valutazione di poco conto. Quante
volte capita di avere un pensiero prevalente che impedisce di
fare anche le cose più semplici. Poteva essere uno di quei
momenti, ma tutto indicava che non era così.
Non so se fossi io più sveglio del solito o se i messaggi
fossero così chiari da essere ben visibili anche ad un cieco, ma
i dubbi stavano a zero. È stato come un colpo di maglio su un
gong tibetano, ho avvertito nitidamente l’effetto delle onde
sonore nell’aria.
GONG.
È scoccata l’ora.

Ero seduto nella poltrona vicino alla finestra, a qualche


metro dal letto che la sosteneva. Già da un po’ la guardavo con
lo sguardo attento di chi cerca di cogliere ogni minima
vibrazione in grado di agitare l’aria circostante.
Quando ha cominciato ad armeggiare con il telefono, i suoi
occhi esprimevano bene i sentimenti che provava. C’era
sorpresa, ma anche irritazione per quella nuova difficoltà.
“Ci manca solo che non riesca ad usare il telefono”
Questo sembrava dire.
Era diventato il suo unico contatto con il mondo esterno.
Così indispensabile. Così vitale, da rendere inimmaginabile
non riuscire a utilizzarlo.
Non saprei dire cosa esprimessero i miei occhi.
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Non potevo permettermi di tradire i miei pensieri.
GONG.

In un attimo è cambiato tutto. Quella vita difficile, ma


sostenuta dalla speranza era finita. Era giunto il momento di
prepararci all’inevitabile.
Non potevo permetterti di essere presente ai suoi ultimi
giorni. Eri troppo piccolo per sopportare la vista di una mamma
morente. Ho preferito che la ricordassi con quel sorriso che non
ti ha mai negato.
Il giorno successivo ti ho portato dalla nonna Natalina. La
mia mamma.
Io sono tornato da lei. Ho preso qualche giorno di ferie e mi
sono trasferito nel letto a fianco al suo.
Quello era il mio posto.
Nei due giorni successivi ho cercato di confortarla in ogni
modo. Non è stato difficile. Le sue facoltà cognitive erano
sempre più rallentate. A mano mano che si riducevano,
aumentava la sua ingenuità nel leggere tra le righe.
Quando mai mi avrebbe permesso impunemente di
allontanarti dal suo centro di gravità?
La determinazione è sempre stata un suo segno distintivo.
Non avrei potuto trovare argomentazioni valide per una cosa
del genere.
Ci siamo. La sera prima era ancora presente, ma al mattino i
suoi occhi perennemente in movimento e il suo respiro
affannoso non lasciano dubbi. Chiamiamo subito il medico per
un ultimo disperato tentativo.
Passano pochi minuti e sono a casa nostra un medico e un
infermiere dell’ADO. Leggo subito nei loro occhi la
rassegnazione, ma ammiro la loro sollecitudine nell’intervenire
comunque rapidamente.

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Visita, controllo delle pulsazioni e flebo, ma, mentre
l’infermiere termina il suo lavoro, lei smette di respirare.
BUIO.

Nei due anni precedenti avevo pensato spesso a quel


momento.
Quante volte avevo immaginato come sarebbe stato.
Quante volte avevo riflettuto su cosa avrei dovuto fare dopo.
Dicono che nella vita è solo questione di abitudine: se c’è il
tempo sufficiente, tutto è sopportabile. Un po’ come
l’esperimento di quella rana che si è trovata cotta a puntino
senza rendersene conto, solo perché hanno alzato la
temperatura dell’acqua poco alla volta.
E tu Nicolò?
Sei ancora piccolo. Non so se rallegrarmi o rammaricarmi
per questo. Certamente i tuoi cinque anni non ti consentiranno
di cogliere pienamente quello che è successo, così almeno
dicono i bene informati. Io però non ne sono affatto sicuro.
Spero che la tua capacità di reazione sia superiore alla mia,
perché la sberla la prenderai anche tu, forte e in pieno volto.
BUIO.

Sono in piedi davanti a lei. L’infermiere sta rimuovendo la


flebo che aveva collegato al sondino. Lo aveva fatto per senso
del dovere e per regalarci qualche minuto di speranza. Nei suoi
occhi, prima ancora che nell’espressione del viso, era evidente
che non le dava più di qualche ora di vita (qualche minuto?).
Lo avevo notato subito, ma il collegamento tra il cuore e il
cervello era stato momentaneamente interrotto. Non riuscivo a
leggere quello che i miei sensi percepivano in modo
inequivocabile.

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Dal momento in cui sono arrivati li ho osservati bene. Credo
non mi sia sfuggita una sola inclinazione anomala del labbro o
un battito di troppo delle palpebre.
Misuravo con precisione cronometrica i tempi di pausa tra
una parola e l’altra.
Soppesavo con il bilancino l’intonazione che veniva data ad
ogni parola.
Non mi sfuggiva il leggero rossore che compariva sulle loro
guance, anche se ho poi capito che la causa poteva essere il
mio sguardo.
Così diritto nei loro occhi, che pareva volessi leggere tutta la
storia della loro vita.
Sono talmente concentrato nel tentativo di non crollare che
potrei sedermi su una siringa senza rendermene conto. È come
se volessero entrarmi in testa più pensieri di quelli che posso
contenere.
Devo combattere per trattenere quelli più sensati.
No, quello che provo non è come me lo aspettavo. Io non
sono come quella rana e mi rendo ben conto di quello che sta
succedendo.
Tutto il castello che mi ero costruito e che mi dava solidità è
completamente crollato. Avverto nitidamente la disgregazione
del mio corpo. È come se la carne, le ossa, i muscoli si fossero
fusi in un’unica entità, formatasi dall’esplosione di tutte le
molecole in singoli atomi, legatisi nuovamente in un ammasso
informe e casuale.
Mi sembra tutto così strano. Come può essere che sia così
diverso. Cosa è cambiato rispetto a pochi secondi fa. È vero, lei
non c’è più, ma io mi ero preparato bene e avevo già sotterrato
ogni illusione.
Mi aspettavo il dolore, non la disperazione.
BUIO.

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Il giorno dopo non ti ho portato alla scuola materna e siamo
andati a pescare. Ho pensato che fosse il posto ideale per
spiegarti quello che era successo. Un posto dove saresti stato a
tuo agio e che mi avrebbe dato tutto il tempo di scegliere il
momento giusto e le parole giuste.
Le parole giuste?
Da un attimo dopo che la mamma è morta ho cominciato a
pensare alle “parole giuste” e ora sono qui con la testa
completamente vuota. Non è come quando ti prepari per un
esame e stai per alzarti dal banco. In quel momento tutto quello
che hai studiato si è volatilizzato e non ricordi più nulla, ma
dalla prima domanda, se hai studiato bene, tutto riaffiora come
nelle vecchie polaroid.
Un attimo prima sono nere e poi appare la foto che hai
appena scattato.
Io le “parole giuste” non le ho proprio trovate. Sto
affrontando l’esame più difficile e non sono pronto. Continuo a
pensarci mentre preparo le canne, inserisco l’esca, lancio la
lenza e aspettiamo che il pesce abbocchi, ma proprio non trovo
le parole. La mia loquacità non mi è d’aiuto, per fortuna lo è il
tempo a disposizione. Prima o poi ci riuscirò, abbiamo tutto il
giorno.
Quando provo ad affrontare l’argomento, solo per il fatto di
pensarci, mi scendono immediatamente le lacrime. Devo
girarmi per non farmi vedere, non perché un figlio non debba
vedere un padre che piange, ma perché alla tua richiesta di
spiegazioni dovrei anticiparti tutto.
“Qualcuno può suonare il campanello del momento giusto?
Grazie”.
Come sarebbe comodo se funzionasse così, quando c’è
bisogno di aiuto basta chiederlo e… tac, ecco fatto.
Anche potendo però, non lo farei mai. Ci sono momenti in
cui devi venirne fuori con le tue forze e questo è uno di quelli.
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Passano un paio d’ore e numerosi tentativi bloccati dalle
lacrime, ma finalmente ci riesco:
“Nicolò, ho una cosa importante da dirti”.
Mi guardi distrattamente. Il galleggiante in acqua è
decisamente più interessante di me.
Cambi espressione quando ti accorgi che non ti sollecito
ulteriormente. Non sei preoccupato, ma certo incuriosito. In
genere, quando non mi consideri, mi faccio sentire bene, ma
ora no, ora il nodo che ho in gola lascia passare a malapena
l’aria per respirare.
“Sai Nicolò, ieri mattina la tua mamma è andata in cielo”.
Che originalità. Un giorno intero a pensarci e me ne esco
con la frase più scontata. La scansione delle frasi acute e
indovinate non ha portato a nulla di meglio.
Chissà. Forse è perché si tratta proprio della frase giusta.
Non gira attorno al problema e lancia un messaggio di
speranza.
Mi guardi intensamente, come quella volta che siamo andati
a trovare la mamma in ospedale. Lei era su una carrozzina e
portava un ingombrante collare. Ti sei zittito appena l’hai vista.
L’hai guardata e poi, senza dire una parola, le sei andato
incontro e sei salito sulle sue ginocchia.
Hai toccato il collare che le sosteneva la testa, con
l’espressione di chi aveva un’idea precisa della situazione.
Sei sceso e hai ripreso a giocare.

Mi chiedi spiegazioni e io non giro attorno ai fatti. Sapevi


che la mamma era malata, anche se certamente non
immaginavi un simile epilogo. Ho concluso con un:
“Ora ti guarderà sempre dall’alto, mandale un bacino”.
Il nodo che ho in gola è insopportabile, se voglio trasmettere
speranza non posso mettermi a piangere, ma lo sforzo è
enorme.
16
Ormai fatico anche a respirare.
“Cosa dici papà, è ora di tirare su la canna?”

Perdere Laura ha avuto su di me un effetto che non avevo


previsto. Il dolore ha riempito ogni angolo, ogni anfratto, ogni
pertugio dello spazio dedicato ai miei sentimenti.
È così Nicolò, non c’è più spazio neppure per te.
È un pensiero che mi sconvolge, ma devo prenderne atto. È
vero, sento tutta la responsabilità del mio ruolo, ma crescere un
figlio non è solo accudirlo ed educarlo.
È soprattutto amarlo.
Sono passati alcuni mesi.
Mesi nei quali ho cercato di fare tutto per benino, da
diligente scolaro quale mi sono imposto, ma non può esserti
sfuggito il mio distacco.
Mi dispiace Nicolò, mi dispiace tanto. Questa fase non è
durata molto, ma il tempo è un concetto relativo.
Pochi mesi possono sembrare un’eternità.
Ho pensato spesso a come potevi sentirti, ti è morta da poco
la mamma e il tuo papà è presente con il corpo, ma non con il
cuore.
Come potevi capire che il mio amore per te era stato solo
compresso, non era sparito e a breve sarebbe riaffiorato?
Non potevi, Nicolò. Certamente non potevi.
Immagino solo che ti devi essere sentito perso e
abbandonato, come un’anima condannata alla dannazione
eterna.

Come si fa a fare il papà?


Non mi ero mai posto il problema. Chissà perché poi. Non
ho mai sottovalutato il mio ruolo, ma certamente ho dato per
scontate un sacco di cose.

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PRIMO ASSUNTO:
Siamo stati tutti figli, per cui basta non ripetere gli errori dei
nostri genitori.

Bene.
Constatazione di disarmante lucidità, forse un tantino
superficiale, ma si può cominciare da lì.
Ricordo i comportamenti che mi hanno ferito e quindi è
sufficiente evitare di ripeterli a mia volta.
Non mi posso lamentare, ho poco da rimproverare ai miei.
Un paio di cose però mi sento di dirle.
Mio padre era un uomo dei suoi tempi, alla famiglia pensava
la moglie e lui doveva solo portare a casa lo stipendio. Non si è
mai intromesso negli scontri casalinghi e non ha mai nascosto
la sua neutralità.
Direi che “disinteressato” esprime bene il suo modo di
intendere la vita famigliare. Non perché non gliene importasse
nulla, ma perché aveva totalmente demandato a mia madre il
ruolo di educatrice.
Ricordo l’unica volta che sono andato con lui al luna park,
un vero avvenimento. Avrò avuto otto o nove anni ed ero
totalmente eccitato da quella novità. Ci andammo a piedi e,
nonostante fosse vicino a casa nostra, ci mettemmo un po’ a
raggiungerlo. Ad ogni passo sentivo aumentare la mia
eccitazione, al punto che, quando arrivammo, faticavo a stare
fermo per la troppa energia incamerata.
“Papà papà, andiamo sull’ottovolante?”
“Dopo Marco, facciamo prima un giro”.
Dieci minuti.
“Papà papà, andiamo sulla ruota?”
“Non è una giostra per bambini, è pericolosa”.
Altri dieci minuti.
“Papà papà, andiamo sull’autoscontro?”
18
“Accidenti, non vedi quanta coda?”
Quel giorno ho fatto un bel giro al luna park e ho visto tanti
bambini divertirsi sulle giostre.
È evidente che quel giro non era stata una sua idea.
Non gliene voglio, era fatto così.
No Nicolò, questo no. Cercherò di essere un padre presente
e accompagnare ogni tuo passo.
La cosa che mi lascia perplesso è che devo riconoscere a
mio padre un animo gentile e una grande onestà. Doti
apparentemente incompatibili con la freddezza che ha sempre
dimostrato.
Forse anche lui era partito con le mie stesse intenzioni e poi
il tempo ha cambiato le cose. Chissà. Magari era anche
convinto che il suo fosse il metodo giusto.
Non so.
Se questo era, però, spero tanto di non farmi accecare dalle
sue stesse illusioni.

Mia madre era molto presente, direi che mi ha dato una


buona educazione.
Non è stata troppo dura, solo qualche sfuriata ogni tanto. Un
segno caratteristico che ho pienamente ereditato.
A volte, ha persino cercato di capirmi.
Non ha mai compreso che i bambini sono persone come
tutte le altre. Solo un po’ più basse.
Immaginava che non fossero in grado di dare la giusta
importanza alle cose.
Pensava che dirmi, solo per farmi andare a letto (avevo sette
anni):
“Domani mattina ti sveglio che vieni con noi a Lugano”.
(mi sono svegliato al mattino che erano già partiti)
…passasse inosservato.

19
Pensava che dirmi, solo perché non facessi storie (avevo
cinque anni):
“Vieni con me in clinica che devo farmi visitare?”
“Sì mamma. Ti accompagno io”.
(sono tornato a casa con due tonsille in meno)
…passasse inosservato.
Ricordo ogni momento e ogni sensazione come se fosse
oggi.
Nulla è passato inosservato.

SECONDO ASSUNTO:
Cerca di ascoltarli e capirli. Non sarà sempre facile, ma
provaci.

Più facile a dirsi che a farsi. Anche qui però ho un aneddoto


che mi facilita il compito. Mi spiega, meglio di mille parole,
quello che non devo fare.
A 18 anni mi sono innamorato perdutamente di una ragazza
di 21. La classica ragazza desiderata da tutti, che, per qualche
strano motivo, aveva scelto me.
Lei era decisamente più matura, già lavorava e aveva una
certa indipendenza.
Io avevo i primi peli di barba.
Non sono cieco. So che non può durare e sento il bisogno di
parlarne con qualcuno fuori dalla mia cerchia di amici.
Mia madre.
“Sai mamma, …molto bella, ...ha 21 anni…”
“Ma caro, quella è una donna e tu un ragazzino. Cosa vuoi
che provi per te. Lascia perdere che è meglio”.
È stata l’ultima volta che mi sono confidato con mia madre.
Mi sento ingiusto. Sto esaltando le delusioni che ho ricevuto
dai miei, come se si trattasse di eventi quotidiani.
Non era così.
20
Hanno fatto un buon lavoro, ma come non notare che le
delusioni rimangono stampate indelebilmente nella memoria,
mentre il lavoro quotidiano, quello fatto di mille attenzioni e
preoccupazioni, non lascia la stessa impronta.
I figli non perdonano.

TERZO ASSUNTO:
Il papà educa i figli insieme alla mamma.

E quando la mamma non c’è cosa si fa?


Devi fare da mamma e da papà.
Complimenti, monsieur Lapalisse.
Ecco, questo è l’assunto che non ho mai pensato venisse
meno. Tutti sanno che certe sorprese sono sempre dietro
l’angolo, solo che non ci si pensa.
Ti ritrovi di punto in bianco ad affrontare da solo il mestiere
più difficile del mondo.
Non sono il primo e di certo non sarò l’ultimo che si è
trovato in queste condizioni. Tanti altri ce l’hanno fatta. Perché
non dovrei riuscirci anch’io? La buona volontà c’è tutta, non
ho problemi lavorativi e ho tante persone attorno che possono
aiutarmi.
Cavolo! C’è chi è messo molto peggio.
Mi sforzo di pensare positivo, ma niente da fare. I dubbi e le
insicurezze mi attanagliano.
Mi fanno sentire decisamente inadeguato.
Non abbiamo scelta Nicolò, siamo solo noi due e dobbiamo
trovare la forza di sostenerci a vicenda.

Quando si diventa genitori, si immagina che siano i figli a


dover essere educati. Col tempo si impara che le cose non
stanno esattamente così.
È uno scambio alla pari.
21
Non saprei dire quanto si dà e quanto si riceve, ma ho il
sospetto che i genitori siano sempre a debito.
Avere dei figli significa dover combattere ogni giorno con le
proprie contraddizioni. Veder sgretolare sistematicamente il
castello di carta su cui ci ostiniamo a salire con passo leggero,
facendo la massima attenzione a non pesare troppo per paura di
un crollo.
Loro arrivano e … PATATRAC.
Basta un loro sguardo.
Al tuo: “Non devi fare questo perché…!” strabuzzano gli
occhi e ti guardano con l’espressione di chi non lo capisce
proprio, quel perché.
E lì, realizzi che le tue ragioni non sono poi così solide.
Crescere è una bella fregatura.
Non perché ci avviciniamo all’inevitabile.
Non perché le nostre carni si inflaccidiscono.
Ma perché il nostro orizzonte si stringe tanto da renderci
intolleranti e incapaci di vedere i colori del mondo, per lasciare
spazio solo al grigiore dei problemi quotidiani.
Certo che i problemi esistono, ma se impariamo ad aprire lo
sguardo, ci accorgiamo che hanno una luce diversa.
Non è certo facile. Ci vengono proposte sfide continue.
A volte vere, a volte fasulle.
È un’incessante rincorsa a obiettivi che si spostano sempre
più avanti.
È un mondo capovolto.
Non più di cento anni fa gli anziani godevano di un rispetto
incondizionato, figlio delle rughe e delle cicatrici.
Quando hai una cicatrice sai come evitarla. Ti ricordi bene
come te la sei procurata e quando parli sei ascoltato, perché si
spera di carpirne il segreto senza pagarne lo scotto.
Oggi le parti si sono invertite.

22
Gli anziani restano i depositari del nostro passato e quindi
bisogna sempre tenere orecchie e cervello bene aperti quando
parlano, ma non possono stare al passo con una società che
cambia a una velocità tale da far apparire inutile l’esperienza di
una vita intera.
Inutile.
Esiste una sensazione peggiore?

Posso io capire come devo comportarmi con Nicolò?


Posso stare al passo?
Posso comprendere i delicati meccanismi di crescita di un
bambino prima e di un adolescente poi?
Capirli sarebbe già un grande successo, ma, se anche fosse,
sarò in grado di mettere a frutto queste illuminazioni?
Domande. Domande. Domande.
L’orizzonte che vedo è costellato di ostacoli. Non solo i
nonni sono esclusi dalla considerazione dei nipoti, ma anche i
genitori rischiano di girare troppo lontani dai loro interessi.
Mi sento come se i nostri sguardi non abbiano altra
possibilità che correre su due binari.
Se non trovano un muro, non si incroceranno mai.

Non mi sono di aiuto i vari consigli che, a volte richiesti a


volte no, mi sono stati dati. Ognuno ha le sue idee e non è raro
che contrastino tra di loro.
Io ho sempre avuto le mie, ma non sono così presuntuoso da
ritenerle inattaccabili.
Soppeso il tutto attentamente, ma, nella confusione, vedo
un’unica strada percorribile.
Faccio come voglio io.
Non voglio appoggiarmi ai nonni più del dovuto. Ritengo
importante che si frequentino regolarmente, ma non voglio che
Nicolò cresca con tre famiglie.
23
Ognuno di loro sente, e un po’ lo desidera, di doversi
sostituire alla mamma che non c’è più.
Ma, purtroppo o per fortuna, di mamma ce n’è una sola.
Decido di lasciarlo dormire a casa loro una volta a testa ogni
settimana.
Non lo nego, questo mi permette di dare sfogo alle tensioni
che inevitabilmente si accumulano, giorno dopo giorno. Poter
uscire con gli amici due volte a settimana mi aiuta a conservare
un certo equilibrio.
Non è una scusa.
Se pensassi che per Nicolò fosse meglio stare con me sette
giorni su sette lo farei volentieri, ma so che non è così.
I nonni gli fanno bene e io non sono un automa.
Mi sento come una caldaia alimentata da troppi ciocchi di
legna. Il fuoco è troppo forte. Non riesco a governarlo.
Uscire con gli amici non basta, almeno non sempre.
Non è sufficiente andare a cena, giocare a biliardo, fare
quattro passi in centro. Non è sufficiente neanche sfogarsi con
loro, solo per sparare fulmini al cielo.
È necessario che chi ti ascolta ti capisca.

Anna.
Anna è la moglie di Massimo, il fratello di Laura.
Quante volte mi ha ascoltato. Quante volte ha resistito al
mio pianto. Quante volte mi ha sollevato. Quante volte mi ha
bastonato.
Una persona insostituibile.
La forza devi trovarla dentro di te, ma se non hai chi ti
accompagna rischi di perderti.
Questo è stata Anna per me. Un filo teso che mi ha
permesso di ritrovare la strada.

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Non sono mai riuscito a ringraziarla per questo, ma forse
non era necessario.
A volte le cose è bello dirsele, a volte è bello solo
percepirle.

25
La scuola

Sono già passasti due anni.


Hai cominciato ad andare a scuola e ancora ricordo la
lacrima che non ho trattenuto il tuo primo giorno. È stata
un’emozione fortissima.
Non immaginavo che sarebbe stato così.
Ti ho accompagnato a quell’appuntamento con un po’ di
anticipo, volevo darti il tempo di abituarti a quella nuova casa.
Non lo sapevi, ma quei muri rappresentavano la fine della
spensieratezza più vera e pura, quella di chi non deve misurarsi
con le aspettative della società che lo circonda.
Ricordo perfettamente il momento in cui sei entrato da
quella porta. A differenza di molti altri bambini coi loro
genitori, non mi hai dedicato un’ultima occhiata.
Hai sempre voluto dimostrare il tuo coraggio e la tua
indipendenza.

Come ogni genitore, nei mesi precedenti, mi sono trastullato


con infinite divagazioni sul tema.
Che studente sarai? Ti siederai nel primo banco per
ascoltare con attenzione o starai nell’ultimo a cercare di
nasconderti?
Vorrei che d’istinto ti sedessi in un banco a metà.
Non mi sono mai piaciuti i primi della classe. Mi hanno
sempre dato l’impressione di essere persone poco dotate, che
lasciano su quei banchi tutte le loro ambizioni.
Anche i fancazzisti però non hanno mai goduto della mia
simpatia. Ho sempre trovato sciocco non impegnarsi quel
minimo che evitasse la bocciatura.

26
Che senso ha ripetere degli anni in un posto dove non vuoi
stare?
Meglio violentarsi e andare avanti. Una volta arrivati in
fondo si vedrà.
Ecco, questo ero io.
Solo il tempo di lasciare i calzoni corti, che ho congegnato il
sistema del “perfetto attendista”.
Ripetevo ogni anno lo stesso stanco rituale.
Primo quadrimestre: 5/6/7 insufficienze.
Secondo quadrimestre: tutti 6.
Il massimo risultato con il minimo sforzo. Questo era il mio
obiettivo.
Quando mi capitava di prendere un bel voto ero quasi
infastidito.
Avevo perso nello studio più tempo del dovuto.
Ecco Nicolò, mi piacerebbe che tu avessi un approccio
diverso con la scuola. Non dico di metterla in cima ai tuoi
pensieri, ma avere un po’ di consapevolezza in più, sì, questo
mi piacerebbe.
In fondo il messaggio che arrivava a me era molto chiaro:
l’importante è il pezzo di carta, dopo di che qualsiasi lavoro
va bene. L’obiettivo è portare a casa la pagnotta.
Credo fosse normale per la mia generazione. I nostri genitori
avevano superato la guerra e patito la fame, per cui è
comprensibile che la vedessero in questo modo.
Per fortuna le cose sono cambiate e oggi vorrei darti un
messaggio diverso:
la scuola non è tutto, ma è una parte fondamentale della tua
crescita.
L’obiettivo non deve essere solo la promozione, ma anche
vivere con partecipazione quello che sta nel mezzo.
Bisogna impegnarsi, perché non c’è altro modo di affinare
quegli strumenti che aiutano a far emergere attitudini e
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passioni.
I lavori non sono tutti uguali.
Fare un lavoro che piace ti fa crescere giorno dopo giorno.
Fare un lavoro che non piace, giorno dopo giorno ti uccide.
Non pretendo che tu capisca subito. Ci mancherebbe altro.
Cercherò di accompagnarti poco alla volta.

Il primo colloquio con le insegnanti è stato un calvario.


Sono stato letteralmente preso a bastonate.
Non si impegna! Non studia! Non è attento! Deve essere più
seguito!
Mi sembrava tutto così esagerato.
Eri alla materna sino a due mesi prima. Come era possibile
pretendere subito dei risultati da bambini proiettati nel mondo
dei grandi solo l’altro ieri?
Immaginavo che ci fossero quelli, o perché più maturi, o
perché più capaci, o perché… non lo so, che riuscivano a stare
al passo. Ma la scuola elementare dovrebbe essere il luogo
abitato dalle persone che conoscono il linguaggio dei bambini.
Quello che consente di scardinare le ritrosie di tutti, anche di
quelli più determinati.
Insomma. Fino al giorno prima dovevano solo giocare. Di
punto in bianco si pretende che facciano cose che non gli
piacciono.
Come cavolo si può pensare che accettino senza lottare
un’imposizione di questo tipo?
Ero totalmente inebetito.
I mesi passavano, ma la musica era sempre la stessa. Una
costante sequenza di segnacci rossi alla fine di ogni compito
che dovevo firmare sui tuoi quaderni.
Ma non sarebbe meglio un approccio un po’ meno
umiliante?

28
Non volevo ergermi con il dito accusatore. Ho pensato di
dare fiducia all’istituzione.
“È il loro mestiere, non fare il solito genitore che incolpa gli
insegnanti delle mancanze dei propri figli!”

La prima è andata e hai iniziato la seconda.


Nulla è cambiato.
Le difficoltà che hai a scuola suonano come un campanello
d’allarme, soprattutto per il fatto che dimostri un disinteresse
anomalo per la tua età.
I meccanismi di protesta e autoproclamazione possono
portare a comportamenti del genere, ma è normale aspettarseli
a partire dalla pubertà.
Alle elementari si tende ad impegnarsi almeno un po’, non
fosse altro che per il timore degli insegnanti o dei genitori.
Non tu.
I compiti a casa sono una pratica che sbrighi sempre molto
rapidamente.
Ti seguo con attenzione. Cerco di interpretare i tuoi
comportamenti. Osservo le tue reazioni.
Forse c’è bisogno di uno psicologo.
Ho sempre pensato che tutti dovremmo avere una persona
con cui essere liberi di spogliarci delle nostre contraddizioni,
ma mi frena il pensiero che, come per tutti i mestieri, ti può
capitare il professionista “de noartri”.
Uno psicologo che non sa fare il suo mestiere è come un
bambino con un mitra in mano: sicuramente farà dei danni seri.

Non ti aggreghi facilmente agli altri bambini. Il parchino


vicino a casa nostra è ricco di giochi. Ci sono giostre per i più
piccoli, un campo da calcetto, un campo da basket e tanto
spazio libero, ma tu ci vai mal volentieri.

29
È vero, durante la settimana non sei mai a casa, perché sono
i nonni che vengono a prenderti da scuola.
Io, però, passo sempre a prenderti presto e rientriamo che il
parco è ancora pieno di potenziali compagni di giochi.
Preferisci stare in casa.
Quando ti sollecito a buttarti nella mischia, scendi sempre
con un po’ di ritrosia.
Spesso ti ho osservato e raramente ti ho visto giocare con gli
altri.
Certo non è facile.
Tutti giocano a calcetto e tu lo detesti. Non sei molto dotato
e probabilmente ti mette a disagio essere la schiappa di turno.
Non mi dai però l’impressione che sia solo questo. Se fossi
interessato a entrare in quel gruppo cercheresti altre strade,
invece sembri semplicemente interessato ad altro.
Ti piace osservare le piante e gli animali. Vai spesso a
guardare dalla recinzione che impedisce l’accesso a una piccola
zona protetta, adibita al ripopolamento delle specie autoctone.
Non c’è nulla di male, ma non sono tranquillo.
I tuoi risultati a scuola continuano a essere deludenti. Sono
molto preoccupato. Per quanto ci provi, non riesco a scalfire la
tua testardaggine
Ho cercato di farti capire.
Ho provato a farti ragionare.
Non ho ottenuto granché.
Alla fine ho intrapreso quella che consideravo l’ultima
spiaggia: pretendere risultati con il piglio severo di chi riduce
la scuola al mero risultato numerico.
Ogni sera studiamo insieme e poi ti interrogo. Non pretendo
che tu sappia tutto alla perfezione, ma non mi accontento di
risposte confuse.
Sono vere e proprie battaglie all’arma bianca.

30
Tutti i tuoi giochi rimanevano sotto sequestro sino al
termine dell’interrogazione. Questo era l’accordo. Il punto è
che spesso si andava avanti fino a tarda sera e quindi restava
solo il tempo di lavarsi i denti e andare al letto.
Io con il fegato spappolato e tu… probabilmente anche
peggio.
Siamo andati avanti in questo modo per due mesi e poi sono
tornato a colloquio dalle insegnanti.
Tutto uguale a prima.
Il sospetto che ci siano strascichi legati alla mancanza della
mamma si fa ogni giorno più credibile e pressante.
Mi decido e ti porto da uno psicologo.
Dopo tre incontri mi dice che non è necessario continuare e
mi rilascia il referto.

22/09/03
“Un comportamento e una struttura di personalità del
ragazzo che rientra ampiamente nei limiti della norma, pur
evidenziando alcune caratteristiche originali, forse in parte
legate all’esperienza di dolore fatta con la perdita della madre,
delle quali il ragazzo è consapevole ed esprimono il suo volere
essere autentico”

Tiro un sospiro di sollievo, devo solo aspettare i tuoi tempi.


Maturerai.
Un altro anno è passato e la monotonia delle tue prestazioni
scolastiche ha raggiunto livelli disarmanti.
Parlo con gli altri genitori.
Anche facendo la tara su quello che mi dicono, capisco che
le loro lamentele illustrano una realtà a me sconosciuta. I loro
figli devono fare i conti con una lunga lista di compiti a casa,
che li impegnano per ore.
Tu hai mantenuto i soliti 15/20 minuti.
31
Non ottengo alcun risultato a forzare la mano. Più mi
accanisco e più cala il tuo rendimento. Mi sento sempre sulla
lama di un coltello affilatissimo. Trovare il giusto
compromesso è estremamente difficile.
A volte ho la sensazione di cogliere nel segno, ma vengo
puntualmente smentito nell’occasione successiva.
Sei in terza ormai.
Alle elementari devi mettere un petardo sulla seggiola del
preside per rischiare la bocciatura e mi sa che lo hai ben capito,
per cui non è da stimolo neppure l’obiettivo promozione.
Arriverà a prescindere.

In questi anni ho avuto modo di farmi un’idea più precisa


della situazione.
Ho subito numerosi colloqui con le tue insegnanti, ma ho
approfondito quello che emergeva con Anna. In fondo è
un’insegnante elementare e può certamente comprendere
meglio quello che a me sembra totalmente senza senso.
Ho dato fiducia all’istituzione.
Mi sembrava la cosa più sensata.
Dovevo dare più credito alle tue lamentele.
Ti chiamo.
Sei nella tua stanza e mi raggiungi subito.
Quando giochi sei più lento. Ho il sospetto che stessi
facendo i compiti.
Mi guardi e attendi. Non noto alcuna espressione sul tuo
viso. Era piuttosto evidente che intendevo farti un discorso
“serio”. Di quelli che si tirano fuori una volta all’anno.
Ti ho osservato bene, cercando di capire se la cosa ti
scocciava o ti incuriosiva.
Niente.
Più inespressivo di un Moai dell’Isola di Pasqua.

32
Speravo di prenderti alla sprovvista e carpirti un’espressione
traditrice dei tuoi pensieri, ma, come al solito, non ti lasci
sorprendere.
In questi tre anni mi sono reso conto che le tue insegnanti
non meritavano la fiducia che ho concesso loro. In molte
occasioni ho avuto modo di notare la loro incapacità.
Insegnare è un mestiere difficile.
Conoscere la materia è importante, ma non serve a nulla se
non la sai trasmettere.
Saperla trasmettere è importante, ma non serve a nulla se
non sai renderla stimolante.
Avere un buon metodo per renderla piacevole ai ragazzi non
serve a nulla se non sai conquistare il loro rispetto e la loro
stima.
Un giorno come tanti, sono venuto a prenderti da scuola e
sono entrato nel corridoio principale per parlare con una di
loro. Mi sei corso incontro con un grande sorriso e mi hai
raccontato come eri stato bravo nel compito in classe che
avevate fatto quella mattina stessa.
Mi ha riempito di gioia vederti così entusiasta.
Sono stati pochi i momenti, legati alla scuola, degni di
essere ricordati e questo era uno di quelli.
La tua insegnante ti ha guardato e, mentre trafficavi con il
tuo zaino, mi ha detto:
“Bravo? Ma pensa davvero di essere stato bravo? Ben ben”.
Il suo sorriso era inequivocabile. Non ti dava alcun credito e
le tue illusioni la divertivano non poco.
Ma come. Anche se eri stato meno bravo di quello che
pensavi, non era il caso di cogliere l’occasione per stimolarti e
gratificarti?
Non ci sono dubbi.
Dovevano fare un mestiere diverso.

33
Siamo seduti uno di fronte all’altro. È la prima volta che
sento il bisogno di parlarti da uomo a uomo. Hai solo nove
anni, ma nei tuoi occhi riconosco i miei.
Alla tua età detestavo essere trattato da bambino.
Sono molto nervoso, stai crescendo e non so se esserne
compiaciuto o intristito. Da sempre attendo gli anni giusti,
quelli che dovrebbero facilitare il nostro rapporto.
Ho sempre trovato estremamente difficile costruire
quell’immagine di padre che mi ero proposto sin dalla tua
nascita.
Non ho mai avuto l’obiettivo di esserti amico.
Ho sempre sperato di essere considerato un padre che
potesse aiutarti nelle tue scelte.
Per riuscirci dovevo rendermi credibile e conquistare la tua
fiducia.
Sino ad ora non ci sono riuscito.

Hai ragione tu.


Tante volte ti sei lamentato e io non ti ho ascoltato. Non ti
hanno stimolato nel modo giusto. Sei capitato in una di quelle
classi dove si privilegiano i più bravi a scapito di chi fa più
fatica.
Guai a rallentare il passo. Chi si ferma è perduto.
Mi sto scusando Nicolò. Troppe volte mi sono infuriato
dopo le lamentele delle tue insegnanti, cieco alle tue
giustificazioni.
Mentre mi scuso non riesco a trattenere le lacrime. Mi fa
male constatare che hai subito tre anni di ingiustizie e io,
invece di aiutarti, mi sono schierato dalla parte degli avversari.
Faccio male a non trattenerle?
Non lo so, ho sempre pensato che nei sentimenti non è
concesso bluffare.

34
Susi

Sono stati tre anni difficili.


Ho dovuto riassemblarmi dopo la violenta disgregazione che
ho subito il giorno della morte di Laura. Non è come in un
puzzle, dove tutti i pezzi hanno il loro ordine e quindi, anche se
si staccano, chiunque può rimetterli esattamente come erano
prima. Le mie particelle, i miei atomi, i miei neuroni, i miei
sentimenti, insomma tutto il mio essere, si è ricostruito in un
ordine casuale.
Molto di quello che ero si è perso ed è stato sostituito da
un’altra persona.
Riesco a vedere meglio tante cose.
Tanta nebbia si è diradata sui terreni che conoscevo.
I contorni delle cose vicine sono sempre più nitidi, ma altre
ne spuntano a ricordarmi che non è possibile raggiungere
l’orizzonte.
La nostra vista, per fortuna, è limitata. Guai a non avere
dubbi e incertezze.
E tu Nicolò? Hai dovuto crescere troppo in fretta. Questa è
l’unica certezza che ho. Anche se la tua età ti ha permesso di
rimanere ai margini di un dolore così grande, hai sicuramente
sentito la mancanza delle attenzioni che solo una mamma può
dare.
Ho cercato di fare del mio meglio e i nonni ti hanno
coccolato con la dolcezza tipica del loro ruolo.
Non è stata la stessa cosa.
Non mi hai mai fatto domande sulla mamma. Non so se sia
una cosa normale, ma certo questo silenzio si è fatto sentire
bene. Ogni tanto sono io che tiro fuori l’argomento. Devo
ammettere che mi sembri tranquillo e non ti ritrai quando ne
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parliamo. Chissà se è solo una copertura o se hai realmente
digerito un boccone così amaro. Lo psicologo mi ha
tranquillizzato, ma è meglio restare all’erta.
Non ho mai pensato di trovarti una madre. Prima di tutto
deve essere la mia donna. Una donna di cui mi sia
sinceramente innamorato.
Se non capiterà resteremo soli, ma, aiutandoci l’un l’altro,
sono convinto che ce la faremo.
Acquistare una mamma sarebbe un errore fatale.

Nei mesi successivi alla morte di Laura sono stato travolto


da un incredibile accavallarsi di sensazioni. Spesso contrastanti
fra loro. Sempre talmente coinvolgenti da lasciarmi stordito più
e più volte. Tanta difficoltà nel tenerle tutte insieme.
Sono troppe e troppo forti.
Quante volte ho desiderato l’abbraccio di una donna. Solo
questo. Un desiderio che nulla aveva a che fare con quello
sessuale, ma che lo eguagliava dignitosamente per intensità e
appagamento.
Il desiderio è un sentimento mutevole.
È legato ai nostri sogni.
Alla percezione, diversa a seconda del momento, di quello
che ci sembra indispensabile e inarrivabile.
Quando sei così confuso, hai la precisa sensazione che la
terra si apra sotto i tuoi piedi ad ogni passo. Ti senti così
vulnerabile che cerchi di difenderti anche da chi vuole solo
aiutarti.
Capisco di essere particolarmente debole e quindi è normale
che cerchi qualcuno a cui appoggiarmi, ma l’intensità del
desiderio supera abbondantemente questa ovvia necessità.
Non lo so spiegare e in fondo chi se ne frega. È quello che
provo. Il punto è che non riesco ad ottenerlo.
Un semplice abbraccio dalla persona giusta.
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Lo desidero ardentemente, ma, tanto per semplificare le
cose, rabbrividisco anche al sol pensiero.
Le donne mi attraggono, certo, ma quando mi avvicino
troppo mi intimorisco al punto da allontanarmi quanto basta
per rimanere a distanza di sicurezza.
Non posso meravigliarmi se dormo due o tre ore per notte. Il
mio rinomato equilibrio vacilla come non mai.
“Nicolò, hai dato forza alla mamma e ora spero che tu riesca
a darla anche a me”.
Mai mi sono sentito così vicino al limite.

Il tempo passa, ma nulla è cambiato.


Quando hai attraversato la mia strada non ti ho vista subito,
ero troppo concentrato su me stesso.
Era l’inizio del 2004 e tu, Susi, hai bussato alla mia porta.
“Toc toc, è in casa l’uomo della mia vita?”
Non ho mai capito come sia stato possibile che avessi fin da
subito questa convinzione. Non sei un’adolescente, sei una
donna con i piedi ben saldi a terra.
Come potevi aver compreso che eravamo fatti l’uno per
l’altra? In quel periodo faticavo a capire che calze mettermi al
mattino e la mia faccia cambiava ogni giorno.
Ti sei fidata ciecamente di una sensazione nata in un
momento e sostenuta da uno sguardo.
Hai dovuto svegliarmi.
Il bell’addormentato nel bosco.
Sì, proprio io.
Quante volte hai schioccato inutilmente le dita per farmi
aprire gli occhi. Niente. Totalmente cieco. Non riuscivo a
distinguere la luce che emanavi. Una luce così forte da coprire
ogni cosa in ogni direzione.
È stata dura Susi.
Ora lo so.
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Non ti vedevo e tu non capivi come fosse possibile.
Hai combattuto con una determinazione degna di un martire
cristiano. Hai rischiato la crocifissione, ma hai vinto.
Nel mese di maggio ci siamo messi insieme.
Abbiamo dovuto trovare il nostro equilibrio, è normale, ma
non c’è stato bisogno di lottare più di tanto. In fondo, una volta
che sono riuscito a posare gli occhi su di te, tutto si è incastrato
in modo naturale.
I tuoi occhi entravano nei miei e le mie mani riconoscevano
la tua pelle.
Non mi sono mai posto il problema di cosa ne pensasse
Nicolò. Non per egoismo, ma semplicemente perché non era
una scelta sua. Se il tempo avesse evidenziato qualche
difficoltà, allora sì, mi sarei fermato a valutare la situazione.
Ma giocare d’anticipo proprio no.
Non volevo imporgli una persona e quindi mi sono mosso
con passi leggeri.
Anche tu hai fatto la stessa cosa con i tuoi figli: Arianna e
Alessandro.
Alla fine sono stati proprio loro a toglierci ogni remora. Si
trovavano bene insieme e desideravano anche noi all’interno
del loro spazio.
Ci siamo sentiti una famiglia fin da subito. Almeno questo
era ciò che percepivamo noi e che ci pareva provassero anche i
ragazzi.
Non siamo mai andati a convivere. Troppi erano i punti
interrogativi legati allo stravolgimento delle loro abitudini.
Avevamo modi diversi di intendere il rapporto con i figli. Tu
sei la classica chioccia, sempre disposta ad accogliere le loro
richieste. Io so dire dei no, anche quando sono particolarmente
difficili.
Sono visioni diverse.

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L’obiettivo è lo stesso. Accompagnare i nostri ragazzi alla
maturità, ma cambiare metodo durante il percorso nasconde
delle insidie che temiamo di affrontare.
Il pensiero di innescare una miccia che, per quanto lunga,
potrebbe provocare un’esplosione letale, ci ha trattenuto.
Abbiamo preferito fare i fidanzati e la cosa sembrava non
dispiacere anche ai ragazzi.
Ci saremmo aggiornati strada facendo.
Circa un anno dopo abbiamo avuto una piccola flessione,
nulla di preoccupante per carità, ma abbiamo preferito non
sentirci per qualche giorno.
La domenica, verso le due di pomeriggio, mentre cercavo di
resistere all’abbiocco post pranzo, sento squillare il telefono.
“Pronto?”
“Ciao Marco, sono io (Susi)”.
Non mi aspettavo quella telefonata.
È vero che ha una capacità molto superiore alla mia nello
sbollire le incazzature, ma è troppo presto anche per lei.
“Cosa vuoi?” mi chiedi.
Come: cosa voglio? È lei che chiama e lo chiede a me?
“Non capisco. Cosa significa: cosa voglio?”
“Nicolò mi ha chiamata con il tuo cellulare. Mi ha detto che
gli avevi chiesto di chiamarmi perché non riuscivi in quel
momento. Però non mi ha spiegato il motivo”.
Nicolò? Ma pensa te questo filibustiere. Ha capito che tirava
brutta aria e ci ha voluto mettere lo zampino. Si è inventato
tutto perché sapeva che se avessimo cominciato a parlare ogni
cosa si sarebbe sistemata e lui avrebbe passato una domenica
come tutte le altre.
È stato proprio così. Abbiamo parlato e un’ora dopo tu e Ale
eravate a casa nostra.

39
Nicolò voleva Ale lì con lui e ha pensato a questo
stratagemma, ma credo che la sua iniziativa sia stata anche una
precisa scelta nei tuoi riguardi.
“Sì papà, è questa la mamma che voglio!”
Sei una donna che sa cosa significa amare
incondizionatamente. Sai dare il giusto peso alle cose e io non
posso fare a meno di essere travolto e coinvolto da te.
Sono sicuro che non te ne rendi conto, ma ti osservo sempre
con molta attenzione. Non posso fare a meno di confrontare i
miei pensieri con i tuoi.
A volte ti sembro presuntuoso, quante volte me lo hai detto,
perché hai l’impressione che voglia fare sempre di testa mia.
Non è così. Non mi capita mai di decidere una cosa senza
prima aver pensato cosa avresti fatto tu.
Rimango sempre stupito dalla semplicità con cui affronti le
situazioni, anche quelle più complicate.
Non sempre hai la soluzione in tasca, ma non hai mai la
presunzione di attaccare solo perché non sai come difenderti.
I tuoi occhi sono quelli di chi non si è fatto traviare dai
miraggi degli adulti.
Non potevamo resisterti. Io e Nicolò proprio non potevamo.
Sei entrata nella nostra vita con la leggerezza di un passero, ma
con la sicurezza di un’aquila.
Ci hai preso e portato nel tuo nido.
In quel nido abbiamo trovato Arianna e Alessandro.
Tutti insieme lo abbiamo rafforzato e consolidato.
Un mattone dopo l’altro abbiamo costruito il nostro nido
d’amore.

40
07 gennaio 2013
Sono a casa.
È stata una normale giornata di lavoro.
Visto il periodo post festività, direi una giornata più che
tranquilla. Ci vuole sempre un po’ per smaltire le fatiche dei
pranzi e delle cene tipiche del periodo.
Mi servono almeno quindici giorni per tornare alla mia
normale reattività. A onor del vero è già normalmente piuttosto
bassa, ma in questi giorni credo di capire bene cosa prova un
bradipo intento nelle pulizie quotidiane.
Giro la chiave nella toppa della serratura. La porta non si
apre subito, devo fare i tre giri necessari per aprirla quando è
stata chiusa dall’esterno.
Strano, normalmente Nicolò è già a casa a quest’ora.
Entro in casa.
Accendo la luce e chiudo la porta mentre mi chiedo dove
potrà mai essere. Non sono preoccupato. A volte tarda perché
gli piace fare lunghi giri a piedi per le vie del quartiere, quelle
secondarie. Quelle che nelle sere di foschia o nebbia sembrano
catapultarti in un mondo parallelo dove tu sei l’unico abitante.
È lì, sotto quella fioca illuminazione, con i contorni sfumati
dei palazzi vicini, che riesce a immergersi completamente nei
suoi pensieri.
Quasi ogni giorno si dedica a questa attività.
Proseguo nel corridoio sino al soggiorno. Accendo la luce e
mi accingo a togliermi il giaccone quando noto un biglietto sul
tavolo.
Che strano, in genere quando mi lascia scritto qualcosa lo fa
su biglietti piccoli, tagliando a metà quelli in formato A4,
questo invece è intero.

41
Non mi faccio particolari domande sul punto, ma noto che la
parte scritta ricopre quasi completamente il foglio.
Ecco perché.

“Ciao Papà
Negli ultimi mesi sono stato malissimo, non sono mai stato
così male in vita. È da ottobre che ogni giorno fino ad oggi ho
pianto per questo mio malessere.
Ho cercato di nasconderlo finché ho potuto perché so che
vedermi star male ti dispiace davvero.
Ho cercato di superare la cosa, ma non ci sono riuscito, non
ancora.
Più il tempo passava e più la cosa peggiorava, nell’ultimo
mese non mi sono neanche impegnato a scuola, anzi, molto
spesso sono rimasto a casa a non fare niente, proprio perché è
la scuola a farmi principalmente male.
Non c’è nessuno che fa il bullo con me o che mi prende in
giro, i motivi sono ben altri e riguardano principalmente errori
che ho fatto.
Non riesco a stare qui, non ora almeno. Ho deciso di
andarmene. È stata una decisione lunga e dolorosa.
Sono mesi che ci penso, ma mi ha sempre frenato il pensiero
di lasciare le persone che mi vogliono bene. Sarei un egoista,
per voi, però più il tempo passava e più realizzavo che era la
cosa giusta da fare per superare questa situazione.
Se tutto va bene tornerò presto, anzi ne sono convinto. So
che ti preoccuperai per me, ma me la caverò, non starò in
grandi città, ma in posti pacifici.
Ti chiedo solo di lasciarmi fare e tutto andrà bene. Non
puoi immaginare quanto sia stato difficile tutto questo… a
presto.
Nicolò”

42
Nicolò è scappato di casa.
Le ginocchia cominciano a intorpidirsi e fatico a stare
diritto. Devo fare uno sforzo per rimanere in equilibrio, come
se al posto delle gambe avessi dei trampoli. Non cadi solo se,
con movimenti appena accennati, sposti il peso del corpo dalla
parte giusta, prima su un lato e poi sull’altro.
Guardo ancora il foglio. Non vedo parole, punti, virgole,
vedo solo linee storte, che pendono verso destra, sfumate nei
vari toni di grigio.
Voglio rileggere bene, devo concentrarmi, devo capire, devo
decidere, ma soprattutto…
devo stendermi sul letto.
Mi sdraio.
Ho ancora il giaccone addosso.
Mi concentro e rileggo il messaggio.
Apro le braccia tenendo ancora in mano il foglio. Guardo il
soffitto e mi rendo conto di non riuscire a infilare due pensieri
per volta. Il cervello è immerso in una melassa che gli
impedisce di trasmettere ogni minimo segnale al corpo.
Leggo di nuovo.
Fatico enormemente ad accettare quello che sto leggendo. È
vero che, negli ultimi tempi, Nicolò era particolarmente teso.
Non mi erano sfuggiti i problemi che, dopo un inizio
incoraggiante, si evidenziavano anche nel rendimento
scolastico.
È tutto così assurdo.
Avevo indagato sui suoi silenzi cercando di non essere
troppo invadente, quindi tutto potevo pensare tranne che la casa
fosse diventata un problema.
Ero convinto di aver scalfito il suo guscio.
Ora tutto è diventato un punto interrogativo.

43
Le mie certezze si sono dissolte in un momento.
All’improvviso mi ritrovo in una situazione che va oltre i miei
incubi peggiori.
Chi avrebbe mai pensato che Nicolò potesse scappare di
casa? Scappare da questo nido d’amore?
Non si scappa dal proprio rifugio. Nei momenti di difficoltà
è proprio il luogo dove rannicchiarsi in un angolo e riscaldarsi
con il calore di chi ti vuole bene.
Nido d’amore?
Cosa ho mai visto in questi anni?
Sono completamente disorientato.
La Susi, devo chiamare subito la Susi, alzo il telefono fisso,
faccio il numero e fortunatamente mi risponde subito:
“Nicolò è scappato di casa”.
“Cosa, come?”
Spiego il tutto e le dico di venire subito, ragioneremo sul da
farsi al suo arrivo.
Quando riattacco riapro le braccia, sempre tenendo il foglio
stretto in mano, ed è così che sono rimasto sino al trillo del
campanello.
È arrivata.
Mi alzo per aprire il cancelletto e la porta di casa, ma torno
come un automa a sdraiarmi sul letto. Scommetterei di aver
ricoperto esattamente la sagoma rimasta impressa nello strato
in memory del materasso.
Pochi secondi e mi raggiunge.
È con Arianna, era in casa e quindi sono venute insieme.
Tendo la mano verso la Susi e le porgo il biglietto.
Cerco aiuto nei suoi occhi, ma trovo lo stesso smarrimento
che avvolge me da quando ho letto il messaggio di Nicolò.
Legge anche Arianna.
Restiamo in camera da letto.

44
Mi sposto leggermente e la Susi mi si siede vicino, l’Ari
invece resta in piedi appoggiata al comò.
Farfugliamo parole slegate tra loro, come se le tirassimo
fuori a casaccio nella speranza di trovare uno spunto
intelligente.
Sono molto più significativi i nostri occhi che si incrociano
continuamente.
Smarrimento totale.
Nel contempo però i nostri sguardi cercano e trovano la
forza di farci uscire da questa impasse.
Cominciamo a ragionare sul pomeriggio appena trascorso.
“A che ora sarà partito?”
“Per dove?”
Io l’avevo sentito al telefono verso le 15, era ancora in casa
e quindi non poteva essere lontano. Probabilmente era ancora
in treno.
Troviamo il suo cellulare.
Cavolo! Se non si è portato il cellulare vuol dire che ha
intenzioni serie. Ma perché? Aveva paura che potesse servire a
rintracciarlo?
Il fatto di non averlo preso indica una volontà che non lascia
spazio a ripensamenti.
Trovo il suo borsellino. Non è vuoto, come mi aspettavo. Ci
sono circa 30 euro.
“Non ha preso tutti i soldi”.
Siamo sempre più in confusione.
Provo a mettermi nei suoi panni. Se volessi scappare di casa,
la prima cosa a cui penserei è partire con più soldi possibile.
Cerchiamo qualche indizio nella cronologia di internet e
nella posta elettronica.
Negli ultimi giorni aveva fatto ricerche sul sito delle FF.SS.
e aveva cercato informazioni su Ponte nelle Alpi.

45
“Potremmo telefonare in stazione e avvisare la polizia
ferroviaria”.
È la prima cosa che mi viene in mente, ma le idee sono
ancora confuse. Meglio chiarirsele prima di fare passi
avventati.
Cerchiamo di accedere anche a Facebook. Conosciamo lo
username: NICO27, ma non ci ricordiamo la password.
Che fare?
Telefoniamo agli amici?
Telefoniamo alla polizia?
E se è stata solo una ragazzata? Magari si trova a
cinquecento metri da casa.
Il fatto che non avesse preso i soldi ci faceva sperare in una
soluzione di questo tipo.
“Se non prendi i soldi è perché non ti servono”.
Questo pensiero non smetteva di rodermi il cervello.
“Com’è possibile che non gli servano?”
“Dovrà pur mangiare, dormire, viaggiare”.
L’unica ragione per cui non gli servono è che non ha
intenzione di usarli.
Suicidio?
Ma figuriamoci.
Proprio Nicolò.
Se c’è una persona al mondo sulla quale metterei la mano
sul fuoco è proprio lui.
Troppe volte mi ha dimostrato la sua forza e la sua
determinazione.
Troppe volte l’ho visto uscire da situazioni complicate con
la tranquillità di un politico affermato.
La resa scolastica è modesta, è vero, ma le sue qualità
intellettive e morali sono fuori discussione.
Nell’ultimo periodo non stava bene, ma chi è il ragazzo che
non ha momenti di crisi?
46
E poi ci siamo noi.
Come potrebbe farci una cosa del genere?
Ci vuole bene e non potrebbe mai.
Nonostante tutti i miei sforzi, però, non riuscivo a escludere
una simile eventualità.
Suicidio.
Questa parola continuava a girarmi per la mente.
Mi sembrava di avere due angioletti sulle spalle.
Uno diceva:
“Non preoccuparti, si risolverà tutto presto. Devi solo
aspettare”.
L’altro:
“Fai presto, vai alla polizia e fai denuncia. Forse riescono a
bloccarlo quando scende dal treno”.
Decidiamo di telefonare ai suoi amici. Non ne sanno nulla, o
almeno così dicono.
Dobbiamo fare denuncia.
Esitiamo all’idea.
Se è una ragazzata, rischiamo di sputtanarlo. Non so di
preciso cosa comporterebbe, ma il pensiero di metterlo in
difficoltà mi frena. In questo momento non ne ha proprio
bisogno.
Penso anche che con la denuncia parte obbligatoriamente la
segnalazione ai servizi di assistenza sociale.
Non temo che si indaghi sulla mia famiglia. Non ho nulla da
nascondere. Temo di incappare in un funzionario incapace che
si crede Savonarola.
Se non è una ragazzata?
Suicidio?
Andiamo in caserma dai Carabinieri.

47
Ci riceve il maresciallo di turno. È un uomo sui 40 anni,
robusto e con lo sguardo vivace. Spieghiamo quanto successo e
gli mostriamo il messaggio di Nicolò.
Lui si dimostra subito tranquillizzante. Non capisco se lo fa
per noi o se è veramente convinto che tutto si risolverà per il
meglio.
“È un uomo di esperienza”, penso. “Cerchiamo di non fare i
presuntuosi e affidiamoci a chi ne sa più di noi”.
Mi accorgo però che non riesco a convincermi. Non posso
affidarmi completamente a un’altra persona. Devo fare in
modo che non si lasci nulla di intentato.
Siamo seduti di fronte a lui.
Provo una certa irritazione per il modo in cui gestisce la
cosa. Questo essere così tranquillizzante lo porta a qualche
battuta di troppo. Sarà anche il metodo che gli hanno insegnato,
ma non sta funzionando per niente.
Io sono molto preoccupato e preferirei che il mio sentimento
non fosse banalizzato.
“Posso chiedervi di lasciarmi solo col padre?”
Mi sorprendo di questa richiesta. Penso di impormi nel
rifiutare l’invito, ma lui è bravo a giustificarlo
immediatamente.
“Devo approfondire degli aspetti molto delicati, meglio non
sia presente la ragazza. Stia con lei signora, così la
tranquillizza”.
Rimaniamo soli.
Il maresciallo si sta chiedendo la ragione di un simile gesto
ed evidentemente si è dato qualche risposta.
Nella mezz’ora precedente deve aver capito che non c’erano
motivi legati a scuola o famiglia, per cui si è fatto un’idea
diversa.

48
La prende un po’ larga, ma capisco dove vuole arrivare:
“Nicolò può essere scappato per la vergogna inconfessabile
di un rapporto omosessuale?”
Mi sorprendo.
Era l’ipotesi più attendibile a cui avevo pensato anch’io.
L’unica che sembrava dare un senso a tutto questo. Non avevo
mai avuto questa impressione, Nicolò mi è sempre parso un
etero deciso, ma tutto è possibile.
È scappato di casa non perché questa fosse il problema, ma
perché si sentiva indegno di abitarla e di viverla nella
menzogna.
Non avrei mai visto le cose in questo modo, ma lui che ne
sapeva? Non abbiamo mai affrontato un simile argomento.
La cosa che non mi torna è che non ho mai giudicato gli
omosessuali. È un argomento che non è mai stato oggetto né di
discussione, né di scherno, né di semplice commento. Non
perché sia un tabù, ma semplicemente perché mi è sempre
parso naturale che ognuno segua le tracce che la natura gli ha
proposto.
Chi sono io per giudicare?
Nicolò è un buon osservatore e sono convinto che non gli
sia sfuggito il mio pensiero.
E i messaggi che gli arrivano dall’esterno?
Non lo so. Ormai metto in discussione ogni cosa.
Chiamiamo la Susi, Arianna è andata a prendere Ale, e
formalizziamo la denuncia.
Siamo ancora nell’ufficio del maresciallo quando chiama
l’Ari:
“Nicolò è tornato a casa, mi ha risposto su Facebook. Ci sta
aspettando”.
Su Facebook? Certo, ho io il suo telefono e quello fisso non
può chiamare i cellulari. Non aveva altro modo di contattarci.

49
Mi accordo con il maresciallo di tornare subito dopo con
Nicolò e partiamo verso casa.
Sono poche le parole che ci scambiamo io e la Susi. Quel
viaggio verso casa ha un sapore dolce-amaro che merita di
essere pienamente gustato e interpretato.
Non c’è bisogno di molti commenti.
Parcheggio in strada. Non entro nel parcheggio interno,
tanto devo ripartire poco dopo.
Susi mi precede sulle scale, io sento il bisogno di abbassare
la pressione e rallento il passo.
È davanti a me seduto sulla poltrona. Piange. Arianna e
Alessandro sono già lì e lo rincuorano.
Lo guardo per qualche secondo.
“Vieni qui!”
Lo abbraccio forte e piangiamo insieme.

Io e Nicolò torniamo subito in caserma per le formalità di


rito. Non ho ancora chiesto spiegazioni, ci sarà tempo e modo.
Il maresciallo fa il suo mestiere e lo catechizza. Si dice certo
di conoscere la ragione del suo gesto e comincia a giraci
intorno.
Sorrido quando mi accorgo che Nicolò ha capito tutto già
alla terza parola.
Sembra divertito.
Aspetta un po’ e chiude:
“Guardi che io sono eterosessuale!”

Con la denuncia alla Procura della Repubblica scatta


obbligatoriamente l’intervento degli assistenti sociali.
Quando sono convocato, vado tranquillo all’appuntamento.
“È stata una ragazzata”.
“Cosa potranno mai fare. Non esistono motivi per mettere
Nicolò sotto tutela”.
50
Il pensiero del Savonarola di turno, però, è costante.
Facciamo tre incontri, uno insieme e due separati.
Per fortuna troviamo un funzionario che capisce
immediatamente la situazione e archivia la pratica.

Quante volte ho pensato e ripensato a quello che è successo.


Non è stato un evento normale. D’accordo, è l’età della crisi,
ma questo è troppo.
Torno indietro con la memoria e non trovo un singolo
indizio che mi porti a dare un senso a un simile gesto.
Ricordo che, in terza superiore, avevo un compagno di
classe che era scappato con la sua fidanzata. Il loro amore non
era accettato dai genitori di lei, ma loro hanno voluto imporsi.
Non so se avessero altre strade per convincere il mondo del
loro amore. Ho sempre immaginato che sia stato il gesto
estremo di chi non vedeva alternative. Non ho mai pensato a
una ragazzata. Si erano sentiti chiusi all’angolo e hanno
reagito.
E tu Nicolò?
Ti sei sentito chiuso all’angolo?
Nel caso tu non lo abbia notato, ti segnalo che in questa casa
siamo solo in due. Non dobbiamo mettere d’accordo l’intero
parentado. Sarebbe sufficiente che ci parlassimo e, forse, le
cose si aggiusterebbero.
Come mi piacerebbe avere una benché minima idea di cosa
dovrebbe aggiustarsi. Ho sempre cercato di interpretare anche i
tuoi sospiri, ma non è facile.
Non ho il dono di vedere dentro la sfera di cristallo e, se
anche fosse, non sarebbe il modo migliore di condire un buon
rapporto.

51
Durante le due ore trascorse in caserma, all’incalzare del
maresciallo, ho notato che ti confidavi con lui più di quanto tu
abbia mai fatto con me.
Hai spiegato che la ragione del tuo gesto era legata a una
ragazza. Hai confidato che non eravate mai stati insieme e che
non avevi mai avuto rapporti completi né con lei né con
chicchessia.
Con me avresti sicuramente divagato.
Quando mai saresti stato così esplicito? Già mi sorprende
che tu abbia parlato con tanta naturalezza a un estraneo in mia
presenza.
Durante il confronto sono intervenuto ben poco.
Non tanto perché cercassi di demandare a qualcun altro il
compito che era indiscutibilmente mio - farti capire che razza
di stupidaggine avessi fatto - ma perché ho cercato di sfruttare
quella rara occasione.
Non ti eri mai trovato in una situazione simile.
Dopo una giornata vissuta pericolosamente, eri sotto il
fuoco dell’autorità riconosciuta. Speravo che abbassassi la
guardia, in modo da permettermi di dare un’occhiata dietro le
tue linee difensive.
Circa alla tua età avevo avuto un’esperienza simile.
Eravamo andati a pescare in territorio bolognese, in un canale
che ci avevano indicato come molto pescoso. In quattro amici
avevamo raggiunto il posto con i nostri motorini. Eravamo in
estate e la pesca in notturna era uno dei nostri hobby preferiti.
Appena calata la lenza, eravamo all’imbrunire, ci siamo
accorti che, dalla campagna circostante, si ergevano i classici
canneti che contornano i maceri e i laghetti tipici della zona.
Incuriositi, io e un mio amico siamo andati a verificare di cosa
si trattasse.
Poteva essere un’alternativa in caso il canale non si fosse
rivelato così pescoso.
52
Arrivati sul posto e superati i canneti, ci siamo trovati di
fronte a un laghetto che sembrava sposare perfettamente le
nostre aspettative. Quattro baldi giovani che desideravano solo
passare una bella serata in compagnia, prendendo magari
qualche bel pesce.
Mentre stavamo valutando la situazione, abbiamo sentito il
rumore di un motorino, prima da lontano e poi sempre più
vicino, sino a fermarsi proprio alla nostra altezza.
“Cosa fate qui!?”
Mi sono avvicinato.
“Stiamo pescando nel canale e…”
“Fermo lì che ho una pistola in mano!”
Il mio sguardo si è abbassato quel tanto che bastava per
verificare che non stava mentendo.
Anche se ormai era buio, il luccichio della pistola era
inconfondibile.
“Venite con me! Si va dai carabinieri”.
È stato proprio così. Pistola in pugno ci ha intimato di
seguirlo e ci ha condotto dai carabinieri.
Senza rendercene conto eravamo entrati nella proprietà
privata del procuratore della Repubblica di Bologna e il John
Wayne della situazione era la guardia giurata che doveva
difendere il forte a costo della vita.
Ora ci scherzo, ma quando mi hanno portato davanti al
maresciallo ero così nervoso che ho scordato il nome di mia
madre e il cognome di mio padre.
Alla faccia del sangue freddo.
In quelle due ore ti sei trovato nella mia medesima
situazione e quindi confidavo che, anche tu, perdessi un po’ del
tuo solito controllo.
Ti ho osservato con molta attenzione.

53
Non esprimevi l’atteso terrore per le spalline graduate.
Ricordavi perfettamente il mio cognome e il nome della
mamma.
Eri fin troppo sicuro di te, sembravi perfettamente a tuo
agio.
È stato subito chiaro che, anche in quella occasione, avresti
brillantemente depistato le indagini.

Mi sento un poveretto, ricco solo delle sue illusioni.


Ci sto provando Nicolò.
Ci sto provando con tutto me stesso, ma proprio non capisco
il legame tra quello che hai detto e la fuga da casa.
“Ma che cavolo c’entra la ragazza con un gesto del genere?”
A casa ne parliamo. Come previsto non mi aiuti gran che.
“Pronto, pronto? C’è qualcuno in casa?”
È così che fanno i bulletti quando vogliono dirti che non ci
arrivi proprio. Ti stringono il collo con un braccio e con l’altro
ti picchiano le nocche sulla testa.
Guardandoti con aria commiserevole ti dicono:
“Pronto, pronto? C’è qualcuno in casa?”
È così che mi sento.
Totalmente disarmato.
Come fai ad aiutare qualcuno se non capisci quale sia il
problema?
Parlando con i tuoi amici più intimi era evidente che non ti
aprivi completamente neanche con loro.
Com’è possibile?
Questa è l’età in cui gli amici ti sembrano depositari di ogni
verità.
Sono molto preoccupato. Ok, con me non ti confidi, ma ho
sempre dato per scontato che con qualcun altro lo facessi.
Come è possibile tenersi tutto dentro?

54
Le indecisioni di questi anni sono crollate come un muro
marcio.
Non vedo alternative.
Sei in zona pericolo.
Hai bisogno di una valvola di sicurezza.
Devi andare da uno psicologo.
Non ti posso obbligare, ormai sei grande. Come posso
convincerti?
Sono fortunato, sei tu che, qualche giorno dopo, mi dici che
a scuola c’è uno psicologo che, ogni giovedì, riceve gli studenti
e sei intenzionato ad andarci.
Bene, finalmente un raggio di sole.
La tua richiesta mi riempie il cuore di speranza. Il primo
passo nella soluzione di ogni problema è sempre quello di
riconoscerne l’esistenza.
Fuggire da casa non è stata una grande idea, ma forse ha
piantato un seme. Per fare una cosa del genere hai sicuramente
sofferto molto. Hai resistito quel che potevi e poi sei esploso
come un vulcano dormiente da migliaia di anni. Ora la
pressione si è abbassata e ti permette di pesare meglio quello
che prima pareva impossibile sostenere.
Dai Nicolò, sorprendimi. Sono stufo di sbattere
continuamente la testa contro un muro.

Mi hai raccontato che sei arrivato a Riccione e sei andato


subito in spiaggia. Ti sei seduto vicino a uno scoglio per un’ora
e mezza guardando il mare. Hai realizzato di aver fatto una
cavolata e hai preso il treno di ritorno.
Punto.
Avrei voluto portarti a una confessione più intima, ma mi
sono dovuto accontentare. Sarà pane per lo psicologo.
Per il momento va benissimo così.

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Cosa si deve fare quando un figlio scappa di casa?
Inutile cercare soluzioni miracolose. Si può solo tentare di
mettere a frutto l’unico aspetto positivo di un’esperienza del
genere: ti segnala, in modo inequivocabile, il suo disagio. Ha
l’effetto di una secchiata d’acqua ghiacciata. Ti sveglia e ti
costringe ad affrontare il problema.
Dovrò tenerlo più sotto controllo?
Mah, non mi sembra il metodo migliore. Deve imparare a
camminare da solo e portarlo ancora a spasso in passeggino
non lo aiuterebbe di certo.
Dovrò essere più permissivo?
Non saprei rispetto a cosa. Non gli consento di fare tutto
quello che vuole e vorrei ben vedere.
Non l’ho mai punito con bacchettate sulle dita, come ai bei
tempi andati (si fa per dire) e ho già chiuso un occhio in
svariate occasioni. Certo non li ho mai chiusi tutti e due,
perché, quando hai il volante in mano, si rischia solo di finire
nel fosso.
Dovrò fargli pesare quello che ha fatto?
Rischierei di fare la figura del padre bacchettone che non è
in grado di capire e accettare gli errori dei figli. Potrei perdere
ogni speranza di conquistare quella complicità a cui ambisco
da tempo.
Però non posso neppure far finta di niente. Una cosa del
genere non può passare sotto silenzio.
Dovrò essergli complice nel tenere tutto nascosto?
È un segreto di Pulcinella. I parenti lo sanno già perché il
maresciallo mi ha fatto telefonare agli zii di Padova. Avendo
un appartamento nelle vicinanze di Ponte nelle Alpi, poteva
essere che lo avessero assecondato nella fuga.
Idea bizzarra, ma tant’è. Era lui l’esperto.
I tuoi amici lo sanno già perché sono stato io a telefonargli
nel tentativo di avere informazioni. Però non è detto che la
56
voce si sia sparsa in ogni angolo del globo. Se non lo
alimentiamo, il chiacchiericcio potrebbe smorzarsi
rapidamente.
Te lo chiedo espressamente e mi sorprendo della decisione
con cui mi dici:
“Non c’è problema. Puoi raccontare tutto a chi vuoi, anche a
scuola”.
Credevo che provassi un po’ di vergogna per un gesto così
sciocco e invece leggo nei tuoi occhi una certa soddisfazione.
“Accorrete, accorrete. Voglio raccontarvi che figo sono
stato. Sareste capaci voi di scappare di casa? Beh, io sì!”
Anche questo, in fondo, è un modo di affermarsi nel gruppo.
Fare cose che dimostrano un grande coraggio. Non importa se
sono totalmente insensate.
Elevano di grado.
“Onore a te. Ti sei meritato il nostro rispetto”.
Non ti vedranno come un eroe, ma certo hai dimostrato di
saper affrontare situazioni che non sono pane per tutti i denti.

La prima settimana scordi di prenotarti dallo psicologo.


La seconda settimana scordi di prenotarti dallo psicologo.
La terza settimana lo psicologo è malato.
La quarta settimana non ricordo.
La quinta settimana mi confessi che non hai più intenzione
di andarci.

57
26 gennaio 2013

È sabato sera. Stiamo tornando a casa dopo una serata con


amici. In macchina siamo io, Susi e Ale. Tu non ci sei perché
avevi un impegno precedente con un amico.
È la prima volta che non sei con noi. Per fortuna non hai
ancora iniziato a uscire con gli amici il sabato sera.
Non sono contrario.
Hai quasi 17 anni e sarebbe più che legittima una simile
richiesta, ma mi riempie il cuore vederti scegliere la compagnia
di Alessandro. Sei già uscito di sera, ma nelle occasioni in cui
siamo tutti insieme preferisci rimanere in famiglia.
Non sono così ingenuo. Non spingi anche perché il sabato
sera si va in discoteca e tu non ami quell’ambiente, ma mi
piace pensare che non sia il motivo principale.
Hai quattro anni in più. Potresti ribellarti al ruolo di fratello
maggiore che deve pensare al più piccolo, ma non hai mai
espresso alcun desiderio di libertà.
Lo hai sempre portato con te, anche quando uscivi con i tuoi
amici, dimostrando grande cuore e personalità.

Ormai siamo a casa, stiamo imboccando il vialetto che porta


al cancello d’entrata, quando scorgo una figura stesa
sull’asfalto, parzialmente coperta alla visuale dal bauletto
erboso che divide le due strade.
“C’è una persona a terra. C’è stato un incidente”.
Mi avvicino piano con la macchina in modo da scorgere
meglio la sagoma. È un ragazzo con il cappuccio il testa che gli
copre parzialmente il viso. Gambe e braccia divaricate.
Totalmente immobile.

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Non capisco la dinamica dell’incidente. Il corpo si trova nel
controviale, dove non passano macchine, e quindi non si spiega
la violenza con cui deve essere stato sbattuto a terra quel
povero ragazzo.
Forse è stato colpito in strada e la violenza dell’impatto lo
ha fatto volare sin qui. Però, nel caso, ci sarebbe del sangue
sull’asfalto e invece niente.
Fermo la macchina e scendo.
Nel preciso momento in cui ho messo il piede a terra, mi
sono balenate in mente altre soluzioni all’enigma. Uno si sdraia
in mezzo alla strada e i compari aggrediscono chi si ferma.
Cavoli! Ma è il mio quartiere, mica siamo a New York.
E poi, che senso avrebbe studiare una simile sceneggiata in
una posizione così nascosta. Si sarebbe steso in bella vista.
Posso scendere tranquillo.
Comunque mi guardo attorno.
Mi avvicino.
“Ma, è Nicolò!”
La Susi e Ale scendono dalla macchina con la tranquillità di
chi pensa ad uno scherzo.
“Ma dai, ci ha visti arrivare e ha voluto spaventarci, aspetta
che ci avviciniamo e poi ci fa: buuuuuuu”.
Questo hanno pensato.
Strano, era evidente che non si trattava di uno scherzo.
È vero che a lui piace farmi paura, ma non in questo modo.
Si nasconde dietro una porta o sotto il letto per poi saltare fuori
all’improvviso. Gli piace guardare la mia reazione da Gatto
Silvestro che si attacca con le unghie al soffitto. Quante volte
gli ho detto:
“Occhio Nicolò, che una di queste volte mi fai stramazzare a
terra, non esagerare”.
Questa scena è troppo forte anche per lui.

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E poi l’avrebbe costruita meglio. Si sarebbe steso in modo
da rendere impossibile non vederlo. Ce ne siamo accorti per
puro caso.
È chiaro che in certi momenti sei così spaventato da quello
che vedi che cerchi di nascondere la verità in ogni modo,
confondendo i tuoi occhi con la tua mente.
Mi avvicino. Penso sempre a un incidente, ma non sono
terrorizzato come sarebbe normale aspettarsi.
Sono totalmente inerte.
Mio figlio potrebbe essere morto. È lì, davanti a me, steso
sull’asfalto in questa fredda notte d’inverno e io mi avvicino
come se stessi a un passo dal suo lettino in spiaggia, per
svegliarlo dal torpore e incitarlo a prepararsi per il ritorno a
casa.
Sto nascondendo la verità esattamente come loro.

Mi chino su di lui e comincio a schiaffeggiarlo


delicatamente. Per fortuna risponde subito e muove la testa.
“Nicolò! Nicolò! Come stai? Cos’è successo? Guardami!”
Mi risponde, ma non capisco.
È ancora intontito. È stata la botta? Non riesce a parlare? Ha
qualcosa di rotto?
Farfuglia un altro paio di parole e capisco.
È ubriaco fradicio.
Nicolò ubriaco?
Non l’ho mai visto bere.
Non gli ho mai sentito l’alito sospetto.
Non l’ho mai visto con l’occhio da pesce lesso, anche dopo
una serata in discoteca con gli amici.
Ma come è possibile?
Cazzo! Sembra che giochiamo a nascondino. Devo trovarti e
ti cerco in continuazione, ma le forze in campo sono impari.
Sei decisamente più furbo di me.
60
Più gli anni passano e più ti immergi nel buio più profondo,
dove non esiste alcun riflesso, neanche il più piccolo, che possa
permettermi di distinguerti.
Non sono più inerte, sono in preda allo sconforto più totale.
Le armi che avevo messo in campo si sono rivelate totalmente
inefficaci e il mercato non offre molto di più.
“Ok. Affrontiamo un problema alla volta”.
Ti porto in casa, ti spoglio e ti metto a letto.
Non devo aspettare più di qualche secondo. Hai cominciato
a vomitare con un fragore che pareva inondassi tutta la tua
camera.
Non sono certo sorpreso, è più che normale che, toccato il
materasso, avresti cominciato a liberarti, ma guardarti mentre
continuavi, e continuavi, e continuavi, mi ha caricato di una
rabbia nuova.
Se la fuga da casa poteva essere stato un estemporaneo
momento di debolezza, l’irrigazione della tua camera dava
corpo e alimentava le peggiori prospettive.
Provo una rabbia profonda, diversa da quella conseguente
alle normali marachelle. Una rabbia figlia della
preoccupazione, del disorientamento di chi non sa che pesci
pigliare, dell’incapacità di comprendere le ragioni di questa
deriva.
Sono passati solo venti giorni da quando sei scappato di casa
e ora sei davanti a me, talmente ubriaco da non avere la benché
minima percezione di chi sei e dove ti trovi. Sei molto più
vicino a un animale che a un uomo. Sei in condizioni
miserevoli, non riesci a stare in piedi, non riesci a tenere gli
occhi aperti e io non so più che fare.
“La doccia. Ci vuole una bella doccia”.
Ti porto a spalla, sei pesante e puzzi come un caprone.
Riesco a metterti dentro al box e apro l’acqua, è fredda,
molto fredda, ma devi pur svegliarti, no?
61
Ti tengo sotto il getto per almeno 15 minuti.
Già da un po’ l’ho intiepidita, non si sa mai.
Sei ancora totalmente inebetito, ma perlomeno sei pulito e
hai finito di vomitare.
Ti vesto e ti sdraio sul divano.
Il tempo di ripulire e sono a letto anch’io, con tutti i miei
“se” e “ma”.

Al mattino mi sveglio verso le 8.30.


Non passano che pochi minuti e compari sull’uscio della
camera con un sorriso a trentadue denti.
“Buongiorno papi. Tutto bene?”
Forse sto ancora dormendo. Non capisco quello che vedo.
Ma come, ieri sera hai vomitato l’anima e non riuscivi neppure
a stare in piedi. Questa mattina sei in forma smagliante e sfoggi
un sorriso degno delle grandi occasioni.
L’espressione del viso è serena. Non stai fingendo. Per te è
come una qualsiasi altra domenica. Ti sei alzato in perfetta
forma e sei venuto a salutarmi e a darmi il buongiorno.
Non so cosa pensare.
A volte, è difficile capire la differenza tra la veglia e il
sonno. I sogni confondono il limite e ci illudono o ci
mortificano oltre le nostre reali percezioni. Ho bisogno di
sciogliere ogni dubbio.
Mi pizzico.
Sì, sono sicuramente sveglio.
Eppure quello che vedo non può essere la realtà. Ci metto
qualche secondo a rispondere:
“Buongiorno pupo. Tu piuttosto, come stai?”
“Bene, perché?”
Ma mi sta prendendo per il culo?

62
Ormai sono pronto a tutto. Certo che ci vorrebbe una bella
faccia tosta a fingere che questa domenica mattina sia uguale a
tutte le altre.
Ripenso con un po’ di rabbia alle mie illusioni notturne:
“Caro Nicolò, starai così male domani che aspetterai un bel
pezzo prima di annusare un altro po’ di alcol”.
Ora ho bisogno di capire.
Ti chiedo cosa è successo la notte prima. I tuoi ricordi si
fermano a quando hai accompagnato a casa il tuo amico e lo
hai salutato.
Mi racconti che siete stati in casa nostra tutta la sera a
giocare con i videogiochi e a montare alcuni video che avevi
girato. L’idea della bottiglia di vodka è venuta a te, tanto per
provare una cosa nuova, solo che poi la cosa ti è scappata di
mano e hai esagerato.
Non ho motivo di dubitare delle tue parole.
A ben vedere ti sarebbero mancate anche le occasioni per
consolidare una simile abitudine. Uscivi raramente di sera, il
momento più a rischio, e durante il giorno eri spesso in giro in
bicicletta.
Quando non andavi a trovare i tuoi amici, ti piaceva vagare
per le vie nascoste della campagna ferrarese.
Certo, nulla ti impediva di portarti dietro una bottiglia e
bertela in santa pace sotto una quercia, ma mi sembra una
lettura più adatta a un vecchio ubriacone che a un giovane dalla
vita normale come la tua.
Sei un uomo ormai e non posso farti la solita predica che,
peraltro, ti aspetti.
A cosa servirebbe?
Ci sediamo sul divano e parliamo.
Ti ho raccontato del paio di sbronze che ho preso anch’io da
ragazzo. Può capitare, ma non deve diventare un’abitudine.

63
Intanto penso:
“Io però il giorno dopo mi sentivo come crocifisso a testa in
giù. Dolori di testa lancinanti per il sangue depositato nel
cranio, esofago e gola corrosi dagli acidi fuoriusciti dallo
stomaco.
Tu non ricorderai neppure la doccia gelata”.

64
19 giugno 2013

Sono le 12.30.
Mi piacerebbe chiamarti, ma è troppo presto. A quest’ora
stai mangiando o guardando un film. In genere Lost, la serie
per cui hai una gran passione.
Quando è capitato mi hai sempre risposto frettolosamente,
cercando di nascondermi di essere scocciato.
È un vano tentativo, quando chiamo a quest’ora ti rompo le
palle.
Ok, lo farò dopo. Come al solito, del resto. Preferisco
chiamarti dopo che hai mangiato. In cucina sei bravo e attento,
ma saperti ai fornelli mi mette sempre un po’ d’ansia. Mi
tranquillizzo quando so che non sei più alle prese con fiamme e
coltelli.
Vado in mensa. Come ogni giorno mi siedo con lo stesso
gruppo di colleghi. Mangio, caffè, boccata d’aria e torno al PC.
Mi immergo nel lavoro e mi sfugge l’ora. Quando me ne
accorgo sono già le 14.45. Prendo il telefono e chiamo.
Nessuna risposta.
Non mi preoccupo, è già successo altre volte. Sono
comunque travolto da un senso di insicurezza. È la
conseguenza dei telefonini. Siamo abituati ad essere
immediatamente rintracciabili.
“Ma perché non hai risposto? Fai attenzione a quel
telefono!”
Quante volte abbiamo subito o detto parole del genere. Con
chicchessia siamo disposti a qualche concessione, ma con i
nostri figli l’ansia ci fa diventare insistenti.
È troppo forte il bisogno di sentirli e di tranquillizzarci.
Sono le 15.15, richiamo.
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Nessuna risposta.
La tensione aumenta.
Cerco di tenerla sotto controllo. Mi ripeto che è successo
altre volte.
Sono le 16, richiamo.
Nessuna risposta.
Comincio a innervosirmi decisamente. Forse sei in giro in
bicicletta e quindi il rumore del vento nelle orecchie non ti
permette di sentire il telefono.
Quante volte ti avevo chiesto di prestare più attenzione. Mi
dispiaceva comportarmi come tutti i telefonino-dipendenti, ma
non potevo farne a meno.
Mi sento un po’ in colpa quando realizzo che non è stato
necessario rimproverarti più di tanto. Di cosa posso
lamentarmi. Capitava spesso che, quando ti accorgevi che ti
avevo cercato, mi richiamavi:
“Ciao papà, tutto bene?”
Tendevi a esagerare nell’enfasi che mettevi in quelle parole,
soprattutto negli ultimi tempi. Sembrava che non ci sentissimo
da tempo immemore.
Non ho mai colto pienamente la ragione di questo tuo
comportamento, ma credo che fosse conseguente al malessere
che ti trascinavi da qualche mese. Cercavi di nasconderlo, un
po’ per il tuo carattere ermetico, un po’ per tranquillizzarmi.
Trovavo molto tenero questo tuo tentativo.
“Gli faccio credere che sto benone e che avevo voglia di
sentirlo, così non si preoccupa”.
Provo sul telefono fisso.
Davo per scontato che fossi fuori in bicicletta, ma magari sei
in casa e non ti sei accorto di avere il cellulare con il volume
basso. Ti è già capitato di perderti nella realizzazione dei tuoi
video e quindi, …quindi un corno, non ne posso più.
Per quanto ci pensi non so che fare, chi contattare.
66
Avevi più giri di amici e quindi rischio di perdere tempo
prezioso cercando di contattarli tutti. Devo correre a casa e poi
deciderò il da farsi nel caso non ti trovi.
Chiudo il PC, timbro e vado. Avrei delle commissioni da
fare, ma ci penserò dopo.
Non ho mai provato una simile sensazione di inquietudine.
Nelle altre occasioni in cui non mi rispondevi mi preoccupavo,
ma ora è diverso, ho la salivazione azzerata e un bruttissimo
presentimento.
Non credo ai presagi. Semplicemente mi rendo conto che è
tutto più strano del solito. Negli ultimi tempi trovavi sempre il
modo di richiamare o di chiamare per primo se io tardavo.
È tutto molto insolito.
Cerco di tranquillizzarmi pensando che le cose insolite
capitano e quasi mai ci sono ragioni che non siano semplici
coincidenze.
Certo, quasi mai.
Arrivo a casa, parcheggio in strada e apro il portoncino di
ingresso. Per prima cosa vado sul retro ad aprire la porta del
garage, voglio verificare se c’è la bicicletta. Apro il portone e
la vedo, quindi non sei uscito in bici.
In un primo momento mi rallegro, lo scenario peggiore a cui
avevo pensato era un incidente stradale, ma poi mi rendo conto
che è ancora più strano che tu sia in casa e non risponda.
Chissà, magari sei andato a fare un giro a piedi, ma allora
come mai non hai sentito il telefono?
Salgo le scale a due gradini per volta, apro la porta e ti
chiamo e, mentre ti chiamo nuovamente, entro nel disimpegno
che dà sulle camere da letto.

Sei in piedi, sotto l’uscio della tua camera, e mi rivolgi le


spalle. Il sangue riprende a circolarmi nelle vene.
È andato tutto bene.
67
È stato solo un attimo.
La penombra non mi ha fatto notare il cavo nero che si
snoda dal tuo collo.
Sul momento mi sale la pressione immaginando che stessi
compiendo uno stupido esperimento.
Stavo per dirti:
“Ma che cavolo fai?”
Un attimo dopo ho capito.
Non credo a quello che vedo.
Negli ultimi tre mesi eri (mi eri sembrato) costantemente
migliorato. Il dolore che provavi si era quasi dissolto (così
pensavo) e quindi l’immagine che ho davanti agli occhi è
semplicemente una costruzione della mia mente.
Non può essere vero.
Nicolò è in piedi unicamente perché il cavo che gli stringe il
collo si è allentato, abbassandolo sino a fargli toccare con i
piedi per terra e assumere questa posizione irreale.
Tutte queste considerazioni le ho fatte in un battito di ciglia.
Il cervello in certe occasioni accelera le sue facoltà, dandoti
una diversa dimensione del tempo e dello spazio.
Lo sto già sorreggendo.
Lo chiamo in continuazione, ma non ricevo alcuna risposta.
È appeso a un cavo elettrico e fatico a liberarlo.
La guaina fa un attrito tremendo e io ci sto provando con
una mano sola, con l’altra devo sorreggerlo.
Riesco a sciogliere il primo nodo, ma il secondo è troppo
stretto.
Non so che fare.
L’unica cosa è chiamare aiuto.
Tolgo il cellulare dalla tasca, ma mi scivola di mano e si
apre completamente quando sbatte a terra.
E adesso?
Non posso lasciare Nicolò.
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L’unica è riuscire a sciogliere il secondo nodo. Ci provo e ci
riprovo, quando finalmente riesco a tirare la prima estremità.
A quel punto il gioco è fatto, pochi secondi ed è libero.
Lo adagio sul letto.
Sono nel panico più totale.
Non riesco a rimettere a posto i pezzi del cellulare.
Il mio telefono fisso non può fare interurbane, per cui come
posso chiamare i soccorsi?
A mente fredda è ovvio, i numeri di emergenza non sono
interurbane e quindi basta fare il 113 o il 118. È ovvio no? Ma
non in quel momento.
Chiamerò la Susi con il telefono fisso.
Che faccio se non è in casa?
Panico, panico, panico.
Nel contempo gli faccio il massaggio cardiaco.
A ogni pompata emette dei suoni simili a una respirazione e
questo mi dà speranza.
Mi vengono in mente le scene che vedi nei film dove a forza
di pompare il protagonista rinviene.
Devo solo continuare a massaggiarlo.
Devo anche telefonare alla Susi perché chiami l’ambulanza.
Faccio rapidamente il numero. Per fortuna mi risponde subito:
“Chiama subito un’ambulanza! Nicolò si è impiccato”.
Riattacco il telefono e continuo a fare il massaggio cardiaco.
Capisco che il respiro che sento a ogni pompata è provocato
dalle mie spinte.
Cerco il battito, ma non c’è, lo cerco nei polsi, nella gola,
vicino al tallone d’Achille, ma non c’è.
Non c’è, non c’è, non c’è.
Il calore corporeo c’è ancora. Noto che non è proprio della
temperatura giusta, ma mica sono un medico, no? Non posso
pretendere di capire queste cose.
Quando arriveranno ci penseranno loro.
69
Il viso è bello.
Non c’è alcun segno di sofferenza.
Sembra addirittura rilassato, sembra che stia dormendo.
Il segno sotto la gola è però molto evidente, un segno sottile,
ma profondo almeno un centimetro. Così plastico che quando
ho tolto il filo elettrico dal suo collo, il segno non si è
minimamente riavuto.
I medici stanno arrivando.
Mi accorgo di non aspettarli con quell’ansia che sarebbe
naturale. La ragione è semplice: anche se non lo voglio
ammettere, ho capito che Nicolò è morto e non desidero
conferme.
Continuo a massaggiarlo forsennatamente.
Non so bene come fare.
È vero ho fatto qualche corso, qualcosa mi hanno spiegato,
ma con che forza devo premere? Se è troppo debole non serve
a niente, se è troppo forte gli rompo lo sterno.
Finalmente sento le sirene.
Corro sul balcone per farmi notare.
Sono in casa in un attimo.
I primi a salire sono gli infermieri. Il medico segue a breve
distanza.
Appena vedono Nicolò non gli saltano addosso come si
potrebbe immaginare. Potrei sollecitarli, ma non me la sento di
intromettermi.
In fondo non sono sorpreso.
Non seguo con molta attenzione quello che fanno, romperei
solo le scatole e poi… non credo ai miracoli.
Avverto una strana calma, come se non mi rendessi conto di
quello che è successo. I medici stanno utilizzando il
defibrillatore, ma più per constatare il decesso che per tentare
la rianimazione.
Mi sposto e vado ad aspettare la Susi sul balcone.
70
Mentre mi sporgo la vedo e, con un segno inequivocabile, le
faccio capire:
“Nicolò è morto”.

Cosa prova un genitore quando gli muore un figlio?


Ancora non lo so.
Mi sento incapace di sentire qualunque cosa. Non riesco
neppure a piangere. Mentre aspetto la Susi mi sposto in
soggiorno e mi siedo in poltrona. Questa volta le gambe sono
ancora forti, non mi siedo per necessità. Lo faccio
distrattamente, per consuetudine.
Sento entrare la Susi. La sento spostarsi in camera mia, dove
si trova Nicolò. Non ho neanche pensato a che reazione potesse
avere. La immagino simile alla mia, ma è inutile fare
previsioni.
Mi raggiunge in soggiorno. Sul viso vedo l’espressione di
dolore, ma forse è più forte quella di incredulità.
Forse anch’io ho quell’espressione.
In effetti è l’unico sentimento che riconosco in questo
momento:
NON PUÒ ESSERE VERO.
Sono seduto in poltrona, la Susi si è messa sul cuscino
centrale del divano. Mentre spiego quello che è successo mi
accorgo che nella mia mente si sta concretizzando
un’immagine.
La sera prima Nicolò era uscito con gli amici ed era tornato
verso mezzanotte. Io stavo guardando la TV in soggiorno. Ero
seduto sul divano e lui si è seduto a fianco a me. Nella stessa
posizione dove è ora la Susi.
Mi ha raccontato la sua serata e poi ha smanettato con il suo
iPhone. Quando ha trovato la pagina giusta, mi ha fatto vedere
la busta protettiva per la macchina fotografica. Quella che

71
aveva intenzione di comprare per scattare foto anche sott’acqua
nella vacanza già programmata in Sardegna.
“Ma come, la sera prima faceva programmi per l’estate e il
giorno dopo si suicida?”
Mi sento sdoppiare nella mente e nel corpo. Riesco a essere
contemporaneamente lucido, razionale, forse addirittura acuto,
e totalmente rallentato nell’elaborare anche le cose più
semplici.
Le gambe e le braccia sono forti, eppure mi muovo con una
lentezza innaturale. Sembro aver perso la capacità di sollecitare
più muscoli contemporaneamente. Somiglio molto a quei robot
giocattolo che si spostano con pochi movimenti e quasi mai
contemporanei.
Nel giro di pochi minuti arriva la polizia.
Prima due agenti, che evidentemente erano di pattuglia nelle
vicinanze, poi altri in borghese, prima due e poi altri due. In un
attimo la casa è piena di gente che va avanti e indietro.
La porta d’entrata rimane sempre spalancata, alla mercé di
chiunque salga le scale. Lo noto, ma non sono interessato a
socchiuderla, non sono interessato alla privacy, non sono
interessato a nulla.
Dobbiamo avvisare. Faccio un paio di telefonate, una a mio
fratello e una ad Anna. Mi sorprendo della mia calma, sono io
che li devo rincuorare. D’altronde loro hanno appena ricevuto
un gancio micidiale e sono andati KO. Io l’ho già ricevuto e
sono in ginocchio ad attendere che contino il nove per potermi
rialzare.
Davvero voglio rialzarmi?
La Susi completa il giro di telefonate.

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Il giorno dopo

Il medico mi ha ordinato degli ansiolitici e non ho esitato a


farne un uso immediato.
Non amo i medicinali, in particolare i calmanti. Preferisco
andare a correre e poi sdraiarmi immobile sul divano con lo
sguardo fisso al soffitto. L’ozio totale e il ripensare
ossessivamente alla ragione del mio malessere, mi aiuta a
scaricare la tensione accumulata.
Questo è il metodo che ho sempre utilizzato con grande
profitto.
Ora le cose sono ben diverse.
Fin da subito mi sono sentito Davide contro Golia. Mi serve
una fionda e sperare di avere una buona mira.
L’arma più potente è lì vicino a me.
Devo farcela per lei.
Susi merita di avere al suo fianco l’uomo che ero.
Quando Anna mi ha consigliato uno psicologo di sua
conoscenza, non ho esitato a telefonargli. Mi rassicurava la
stima che riponeva in lui e poi, quando si è a terra, non si può
cadere più in basso.
Non corro alcun rischio.
Spero sia uno bravo, così potrà aiutarmi a prendere meglio
la mira.

Il dolore che provo è accompagnato da un profondo senso di


colpa e da una rabbia che fatico a quantificare. In certi
momenti è vigorosa e tangibile, in altri è più contenuta. Si
potrebbe definire una rabbia dolce. Un evidente controsenso
73
che però rispecchia bene il mio sentimento: la voglia di
imprecare per un gesto incomprensibile, attutita dalla
consapevolezza che Nicolò, con i suoi quasi 17 anni, stava solo
cercando un rifugio al suo malessere e ha scelto una strada dal
pedaggio salatissimo, pagando tutto di tasca propria.
Dovrebbe sempre esserci qualcuno che ti bisbiglia nelle
orecchie quando stai per fare una stronzata un po’ troppo
grossa.
Ero io quel qualcuno.
Mi sento colpevole, è vero, ma ho la sensazione di essere
stato condannato all’ergastolo per il furto di una mela.

Chissà se nell’attimo in cui ti sei lasciato andare da quella


seggiola hai pensato a me, a noi. Non hai lasciato scritto nulla,
neanche una riga.
Perché Nicolò, perché?
Cosa c’era di così impegnativo nel rivolgerci un pensiero?
Forse ti vergognavi e hai preferito il silenzio all’ipocrisia?
Avresti dovuto ammettere che ci stavi tirando una coltellata
alle spalle e non hai trovato ragioni per evitarla?
Chissà, forse le mie sono solo elucubrazioni senza senso. Se
ti fosse venuto in mente di scrivere una lettera, avresti
percepito l’assurdità del tuo intento già alla terza parola. Ne
sono convinto.
Noi non eravamo nei tuoi pensieri.
Semplicemente.

È inutile.
Sto immaginando la soluzione meno dolorosa, ma devo
scontrarmi con l’evidenza dei fatti.
Era tutto davanti ai miei occhi fin dal primo momento.
Ti sei impiccato utilizzando lo spacco sulla parete che avevo
fatto due mesi prima sopra la porta della tua camera. Quello
74
che serviva per la canalizzazione del condizionatore dell’aria.
Già da un anno ne parlavamo. La disposizione del vecchio
condizionatore non permetteva di rinfrescare adeguatamente la
tua camera e te ne lamentavi giustamente.
La soluzione del problema non era semplice e quindi ne ho
parlato più volte anche con te perché, a seconda della decisione
presa, potevano esserci delle modifiche da apportare alla
disposizione dei mobili della tua camera.
Come potevi non pensare a me mentre passavi il cavo
attraverso lo spacco?
Realizzo che non avrebbe dovuto esserci. I lavori non erano
stati ancora ultimati a causa di un problema nella fornitura dei
materiali.
Se lo spacco non ci fosse stato, dove ti saresti attaccato?
Scorro a memoria tutta la casa e non trovo un altro appiglio
che avresti potuto utilizzare.
Nelle case di una volta c’erano le travi a vista e quindi non
ci sarebbe stato problema. Nelle case a più piani ci sono le
ringhiere delle scale che hanno la forza e l’altezza sufficiente.
Nel mio modesto appartamento non c’è nulla di tutto ciò.
Sul momento mi sembra un dettaglio di poco conto. Chi
vuol farla finita un modo lo trova, ce ne sono un’infinità.
A ben pensarci però, immagino che, anche in un momento
così folle, si mantenga una certa lucidità.
Quella che ti fa scegliere un modo piuttosto che un altro.
Se soffri di vertigini non ti butti di sotto e se hai il terrore
dell’acqua non ti getti nel fiume.
Se non avessi trovato l’appiglio giusto, cosa avresti fatto?
Potevi andare nel parco vicino a casa nostra e girare la corda
attorno a un ramo robusto. In quell’area boschiva non mancano
angoli nascosti che ben si prestano allo scopo.
Sono però convinto che l’idea non ti avrebbe soddisfatto.

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Avrebbe avuto il sapore di una cosa fatta di nascosto e tu hai
sempre avuto il coraggio delle tue azioni.
Potevi anche cambiare metodo.
Un bel salto nel vuoto. In fondo non soffrivi di vertigini.
Però dal secondo piano non si è certi del risultato.
Tagliarsi le vene? Roba da femmine.
Insomma, non trovare il piatto pronto nel momento in cui
hai la testa che ribolle e la vista annebbiata, avrebbe potuto
darti il tempo di svegliarti dal torpore in cui eri caduto.
Se già prima mi sentivo in colpa, ora mi sento anche parte
attiva nel tuo suicidio.
Quello stramaledetto spacco nel muro, rimasto aperto troppo
tempo per colpa di un’impresa incompetente.

Quando ho cercato il tuo cellulare, proprio quel giorno, ho


faticato a trovarlo perché lo avevi lasciato in silenzioso.
Perché Nicolò?
Eri in casa da solo e quindi non c’era alcun motivo per
tenerlo in quello stato. L’unico che mi viene in mente è che hai
voluto distaccarti dal mondo per non essere distolto dal tuo
intento.
Forse lo hai addirittura spento dopo le mie chiamate e, se
così fosse, sarebbe la prova definitiva che non ti sei
dimenticato di me.
Te ne sei proprio fregato.
Non posso credere a una cosa del genere, anche se tutto
sembra farlo pensare. Come può essere che tu mi abbia
coscientemente girato le spalle?
Posso capire un’amnesia, non un’incuranza così manifesta.
Ripenso forsennatamente alla nostra vita insieme e non
trovo nulla che possa aiutarmi a capire.

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In casa nostra non esistevano quegli attriti tra genitori che
spesso minano l’equilibrio dei figli. La dolcezza della Susi
aveva conquistato me, ma anche tu ne eri stato contagiato.
Lo hai dimostrato in tante occasioni.
Sempre senza slanci eccessivi, non era nel tuo stile, ma in
modo più che evidente.
E quindi cosa ha determinato il tuo gesto?
O meglio, cosa non lo ha impedito?
Da adolescenti si vivono crisi di identità così forti che ogni
ragazzo o ragazza ha pensato almeno una volta di farla finita,
solo che poi prevale l’istinto di autoconservazione.
Per fare un gesto del genere non è sufficiente la disperazione
che ti nasconde il futuro, bisogna superare anche la paura
dell’ignoto e del semplice dolore fisico.
Tu non hai avuto paura.
Sei sempre stato molto sicuro di te. Non ti ho mai visto
intimorito di fronte a nulla, quasi fossi refrattario a questo
sentimento così naturale. Solo ora mi appare, in tutta la sua
evidenza, la stranezza di questa mancanza.
Un campanellino d’allarme che avrei dovuto sentire.
Come può un bimbo non avere paura del buio?
Come può, magari per un brutto sogno, non correre mai
sotto le coperte nel lettone sicuro del papà?
È capitato che, sbagliando percorso su un sentiero di
montagna, ci siamo trovati in pericolo. Eravamo insieme a Susi
e Ale e dovevamo scendere avendo il precipizio a un passo.
Avevi solo 14 anni, ma sei stato l’unico a non avere alcun
timore, come se fossi stato una esperta guida alpina.
Mille sono gli aneddoti che si accavallano nella mia mente.
Ognuno di questi sembra svelare una sfaccettatura della tua
personalità, ma puntualmente ne spunta un altro che mette in
dubbio le conclusioni del precedente.

77
Avverto in modo sempre più nitido che lo scopo principale
per cui ho subito acconsentito alla terapia, non è tanto il timore
di “sbarellare” e mettermi a cantare per le vie della città come
un gallo isterico, ma il tentativo di capire mio figlio.
Non ci sono riuscito da vivo.
Posso tentare ora che è morto.

Rabbia.
La rabbia che provo mi fa sentire in colpa.
Mi sembra un sentimento innaturale a fronte della morte di
un figlio, ma non posso farci nulla. Devo prenderne atto e
tentare di capirla e di placarla.
In fondo l’hai fatta bella grossa.
Hai distrutto la tua vita e, forse, anche la mia.
Passano i giorni e le sensazioni che provo seguono
l’alternanza del giorno con la notte. Quello che costruisco di
giorno si scioglie di notte e quello che costruisco di notte si
scioglie con il giorno.
Ogni pensiero che sembra consolidare la mia tenuta nervosa
si disgrega come una costruzione di sabbia fatta sul
bagnasciuga.
Non ha la minima speranza di resistere all’alzarsi della
marea.
Devo cogliere i pochi momenti positivi per rinvigorirmi. So
benissimo che, come quella costruzione, non dureranno.
Ho anche cominciato gli incontri con lo psicologo.
Mi sono sentito subito a mio agio. Perlomeno si parte con il
piede giusto. Quando sono in seduta cerco in ogni modo di
sviscerare aspetti che riguardano Nicolò, ma non riesco a
fregarlo.
Lui vuole conoscere me e non si lascia imbrigliare dai miei
giri di parole.
Meglio così.
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È uno con le idee chiare.
Spero però che, quando lo riterrà opportuno, mi permetterà
di affrontare anche gli aspetti relativi alla personalità di mio
figlio.
È vitale che riesca a capirne qualche cosa.
Mi sto impegnando per uscire da questo tunnel con una
caparbietà che non mi è congeniale. Ho sempre affrontato la
vita con una buona dose di approssimazione. Mi è sempre
piaciuto non avere in mano tutte le carte, per la soddisfazione
di risolvere il problema del giorno improvvisando al momento.
Ora non me lo posso permettere, sono totalmente
concentrato sull’obiettivo, ma, forse per la prima volta, non
sono fiducioso sul risultato.
Sono costantemente accompagnato da cattivi pensieri e devo
continuamente combattere contro le spinte del mio cuore: il
fortissimo desiderio di morire.
Quando morì Laura ero ancorato alla vita da Nicolò.
Mi è capitato di pensare che, se non ci fosse stato lui, l’avrei
fatta finita. Ho sempre avuto la sensazione però che fosse una
convinzione che si sarebbe sciolta come neve al sole nel
momento decisivo. Quello in cui ti trovi in piedi sulla balaustra
del balcone o con la scatola di barbiturici in mano e la bocca
aperta.
Oggi non è così.
Sono ancorato alla vita dalla Susi, ma se fossi libero non
esiterei un secondo.
Il giorno dopo l’impiccagione di Nicolò mi è capitata in
mano la lettera dell’USL che mi invitava a fare gli accertamenti
per il tumore al colon. A cinquant’anni ti arriva a casa l’invito
per la visita di controllo gratuita e ho sempre rinviato per colpa
della mia inguaribile pigrizia.
L’ho guardata e ho sorriso.
Per quale ragione dovrei andare a fare gli accertamenti?
79
Per prevenzione?
Ma io desidero ardentemente averlo quel tumore.
L’ho pensato come si pensa alla donna di cui sei
innamorato, con gli occhi di chi non desidera altro che
abbracciarla.
“Sì. Voglio il tumore! Lo voglio! Lo desidero!”
Ma il tumore ti fa soffrire.
Il pensiero del dolore non mi spaventa, anzi desidero
soffrire.
Una sofferenza fisica, intensa.
Meravigliosamente insopportabile.
Il dolore è un fuoco purificatore e io mi sento sporco.
Pretendo di essere messo al rogo.
Sono convinto che non farei un solo lamento.

“Sono un vigliacco”.
Perché devo desiderare di morire in questo modo? Solo
perché mi assolverebbe agli occhi della Susi?
“È capitato, cosa potevo farci?”
Certamente non mi darebbe delle colpe, ma non
cambierebbe un bel niente.
Sarei morto comunque.
Non è la sua disapprovazione che temo, in questo momento
la paura di essere giudicato è l’ultimo dei miei pensieri.
Il punto è che non me la sento di darle un simile dolore.
Semplicemente.
Noi siamo così.
Non potremmo vivere uno senza l’altra.
Come è possibile che un legame così meraviglioso mi
appaia oggi come una condanna?
Sì, mi fai rabbia anche tu.
Mi impedisci di fare la cosa che più desidero al mondo.
Mi condanni alla vita.
80
Non meriti un uomo del genere. Non meriti un involucro
vuoto e arido. Uno zombie che non sa dare gioia. Meriti di
avere al fianco l’uomo di cui ti sei innamorata.
Devo ritrovarlo con tutte le mie forze.

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Il diario

Fin dal giorno dopo il tuo suicidio ho avvertito che, se


volevo alleggerire la croce che mi segava le spalle, dovevo
capire. Dovevo capirti.
Non mi faccio illusioni, so bene che è una strada senza fine.
Troppe sono le incognite da valutare.
Non si tratta solo di ricostruire tutto il tuo vissuto, partendo
dal primo vagito sino al tuo ultimo respiro, ma di provare a
rileggerlo da ogni angolo possibile.
Un lavoro che sarebbe difficile anche per chi la croce l’ha
portata veramente.
I punti di vista sono infiniti e il dubbio di non aver mai
capito nulla mi accompagna con la tenacia di un pitbull
affamato.
Mi sarebbe molto utile il tuo cellulare.
Non mi piaceva che lo avessi sempre in mano. Avevo
l’impressione che ti succhiasse la vita con una bramosia che
cresceva di giorno in giorno.
Ho accettato il compromesso sui tempi del suo utilizzo,
quando mi hai fatto notare che lo usavi prevalentemente per
comunicare con i tuoi amici.
Era vero.
Non eri particolarmente interessato a Facebook o ai vari
giochini, che notavo essere il passatempo preferito di tanti
ragazzi.
82
Mi piaceva che, nella scala delle tue preferenze, la posizione
delle relazioni interpersonali fosse più in alto rispetto ai
succhiatempo professionali proposti da telefonini e computer.
Non ci sono dubbi.
Molte risposte le troverò lì dentro, ma è stato sequestrato
dalla polizia e devo attendere che me lo restituiscano.
Non mi ha sorpreso che lo abbiano fatto.
È normale requisire le prove ritrovate sul luogo del crimine
(così almeno appariva ai loro occhi), ma certo potevano ben
lasciarmi uno straccio di verbale con la lista delle cose portate
via e, magari, due righe sulle modalità di restituzione.
Secondo loro dovrei attendere buono buono che, dopo le
necessarie e indispensabili indagini per la risoluzione di questo
complicatissimo caso, qualcuno di buona volontà si ricordi che
potrebbe esserci chi è interessato a quell’oggetto.
Non conosco i tempi tecnici per questioni di questa natura.
Nella mia vita è la prima volta che ho a che fare con la
Magistratura e questo intoppo mi irrita profondamente.
Per loro sarà anche routine, ma dovrebbero capire che, per
chi sta dall’altra parte, le cose sono un tantino diverse.
Magari si saranno detti:
“Cosa vuoi che gli importi dei dettagli burocratici. In fondo,
si tratta di reperti di modesta importanza”.
Un corso di psicologia non guasterebbe.
Aspetterò un paio di mesi e poi li contatterò.
Nel frattempo spero che non si perda nei magazzini dove
vengono allocate e catalogate tutte le prove di reato.
Unisco le mani e prego che ci sia un bravo archivista.

I primi agenti di polizia che sono arrivati mi hanno


permesso di leggere gli ultimi messaggi registrati nella
messaggeria di WhatsApp.

83
Siamo stati aiutati da uno dei due, perché sia io che la Susi,
avendo ancora i cellulari di vecchia generazione, non
conoscevamo questa messaggeria gratuita utilizzata dai
giovani.
Per fortuna sono arrivati con qualche minuto di anticipo
rispetto ai loro colleghi ispettori, perché ho avuto la netta
sensazione che, diversamente, gli altri agenti lo avrebbero
subito catalogato e imbustato come prova da non sfiorare
neppure con lo sguardo.
Non sono riuscito a esprimere loro il mio ringraziamento per
la sensibilità che hanno dimostrato. Non so neppure se fossero
autorizzati a farlo, ma quel che è certo è che senza quella
concessione oggi sarei sull’orlo della follia.
Come è possibile digerire la morte per suicidio di un figlio
quando non intravedi la più piccola ragione?
Mi sembravi sereno, per quello che poteva permetterti la tua
adolescenza, amato e amante della tua famiglia e apprezzato
dal tuo gruppo di amici.
Abbiamo capito subito che lo avevi fatto per lei, la ragazza
di cui ti eri invaghito mesi prima.
Pensavo fosse un discorso chiuso e invece eccolo lì, risorto
in un istante. Il mio disorientamento nasce dal fatto che avevi
coperto con molta attenzione e abilità i sentimenti che provavi.
Il tuo malessere sembrava storia vecchia.
Negli ultimi tempi avevi persino ampliato il tuo giro di
amici. Avevi anche cominciato a portarti a casa, il venerdì
pomeriggio, i tuoi compagni di classe per delle ripetizioni di
informatica che tu stesso tenevi.
Era l’unica materia che ti piaceva e, non a caso, avevi ottimi
voti.
Un venerdì sono venuti in dodici.
Non so dove tu abbia potuto farli stare.

84
La casa è piccola e non è adatta a simili assemblee. I ragazzi
però sanno stringersi. Si saranno dati il cambio tra il divano, le
seggiole e il tappeto.
Non posso nascondere che ero un po’ preoccupato. Dodici
ragazzi liberi di scorazzare senza controllo qualche danno lo
avrebbero fatto di sicuro.
Non mi importava.
Ero totalmente rapito dall’entusiasmo che vedevo nei tuoi
occhi.
Preparavi tutto già dal giorno prima.
Ti accertavi che in casa ci fosse tutto l’occorrente per
preparare l’amatriciana. I ragazzi venivano subito dopo la
scuola. Appesantiti dai loro zaini, ma spinti da un formidabile
appetito.
La sapevi fare molto bene perché ti piaceva e quindi la
preparavi spesso. Fare il ristoratore però non è come prepararsi
il pranzo. Le pentole e i fuochi non sono adatti a simili quantità
e organizzare correttamente i tempi di cottura non è pane per
cuochi improvvisati.
Per quel che ne so, comunque, te la sei cavata sempre molto
bene sia in cucina che nella gestione del campo.
Non ho mai ritrovato la casa spianata come dopo una
battaglia.
Evidentemente sapevi tenerli a bada.
Tutto questo mi sembrava un regalo venuto dal cielo.
Ti stavi sciogliendo all’ardore dei tuoi sedici anni e, passo
passo, ti immaginavo buttarti nel gruppone per condividere le
gioie e i dolori tipici dell’età.
Mi piaceva pensarti nel ruolo di insegnante.
Lo facevi con illustrazioni che, collegando il PC alla TV, ti
permettevano di far vedere a tutti i documenti che avevi
preparato.

85
Ti immaginavo con la bacchetta in mano a spiegare i
passaggi del linguaggio di programmazione, riprendendo, nel
caso, gli alunni disattenti.
A scuola non mi hai mai riservato grandi soddisfazioni e
quindi ero compiaciuto da questa nuova e inaspettata passione.
Nulla di paragonabile però alla gioia che mi dava vederti
così partecipe con i tuoi coetanei, senza quei filtri che hai
sempre interposto anche con loro.
Ora mi faccio infinite domande e quei pochi messaggi,
rubati alla magistratura, non mi bastano più.
Hanno arginato un fiume in piena, ma senza un’ulteriore
opera di contenimento il traboccamento è assicurato.
Ho bisogno di fare un passo in più.
Devo capire chi eri prima di quella istantanea che rimarrà
per sempre nella mia memoria.
Un cavo nero che ti stringe il collo e ti obbliga a quella
posizione innaturale.
Mi davi la schiena, quasi a nascondere il viso per la
vergogna di un gesto così incurante dei miei sentimenti.

Ho bisogno di risposte.
Cerco nei tuoi armadi, nello zaino di scuola, nel quadernone
che utilizzavi per scrivere le sceneggiature dei film che
costruivi insieme ai tuoi amici.
Il mitico quadernone.
Lo avevi sempre in mano.
Ci scrivevi e rileggevi per ore con un impegno inusuale.
Mi piaceva vederti così impegnato, così appassionato.
Quante volte abbiamo parlato dell’importanza di capire e
coltivare le nostre passioni. Una cosa così naturale, eppure così
difficile da mettere in pratica.

86
Fin da piccolo hai dimostrato interesse per il mondo della
celluloide. Non tanto nella prospettiva dell’attore, quanto in
quella del regista.
Nel quadernone c’erano tutti i tuoi lavori. Le sceneggiature
che avevi scritto e che pensavi di fissare su pellicola con l’aiuto
di amici/attori.
Lo apro, ma rimango di stucco nel constatare che hai
strappato tutte le pagine scritte. Qualcuna in verità l’hai
lasciata, ma non quelle che riportavano la sceneggiatura di un
film che avevi scritto da poco. Sapevo che ci stavi lavorando e
che avevi già girato alcune scene.
Come mai le avevi stracciate?
Quando?
Scommetterei che lo hai fatto quel giorno stesso, nel preciso
momento in cui hai deciso di toglierti la vita.
Non conosco i particolari della sceneggiatura. Qualcosa
avevo letto e ne ero rimasto favorevolmente colpito.
Non avevi mai brillato nei temi di italiano, ma qui riuscivi a
esprimerti con una chiarezza e una pulizia che mi stupivano.
Ne ho lette solo delle piccole parti, eri geloso del tuo lavoro
in costruzione e mi avresti fatto vedere tutto una volta ultimate
le riprese e finito il montaggio.
Almeno così mi avevi detto.
Oggi capisco che la tua riservatezza non era legata solo alla
naturale ritrosia di chi desidera condividere il proprio lavoro
solo dopo che è stato ultimato, visto, rivisto e approvato.
È evidente che nella storia c’era un’eroina.
Lei.
Ti scocciava che potessi capire i tuoi sentimenti.

Come vorrei averne letto qualche pagina in più quando


potevo. Nascevano dal tuo cuore e sarebbero state intoccabili
ricordi.
87
Certamente è tutto da dimostrare che sarei riuscito a
comprendere quello che hai saputo nascondere così bene.
Leggerlo oggi, dopo quello che è successo, non ti avrebbe
dato alcuna possibilità di tenermi all’oscuro del benché minimo
dettaglio, ma prima la situazione era ben diversa.
Gli elementi che avevo a disposizione erano troppo pochi e
la mia presunzione ancora troppo forte.
Chissà dove le hai buttate. Forse semplicemente nel
sacchetto dell’immondizia, ma ormai l’ho gettato ed è
irrecuperabile.
Cerco ancora.
Trovo il tuo diario e comincio a sfogliarlo.
Non mi sento in colpa.
Non lo avevo mai fatto per rispettare la tua intimità e lo
sapevi bene. Non a caso lo lasciavi sempre in bella vista, sicuro
che non avrei curiosato.
Ora però le cose sono ben diverse.
Non nutro molte speranze. I ragazzi raramente scrivono sui
loro diari pensieri che vanno al di là della semplice battuta di
scherno verso un compagno o un professore.
Sono più le ragazze che amano scrivere i loro pensieri più
profondi e dare risalto alle loro più intime speranze.
Già dalle prime pagine devo ricredermi.

Note e appunti
Remember: quando hai dei dubbi, ricordati che hai avuto la
risposta che cercavi. Se qualcosa non l’accetti, piuttosto che
insabbiare tutto di nuovo, ingoia l’aria e attendi.

9 ottobre 2012
Perché lo hai fatto? Non ricordi questo giorno? No?

88
20 febbraio 2013
Mi manca… mi manca da morire.
Vorrei solo tornare da lei, andare d’accordo e
abbracciarla, perché nessun viaggio, anche il più bello e
appagante, riuscirà ad eguagliare quel momento.

21 febbraio 2013
Ridatemi un mondo… voglio svegliarmi.
Tutti quei terremoti, tutti quei meteoriti che sono precipitati
con una tale aggressività che hanno ucciso ogni essere vivente.
…ma davvero non è rimasto neanche un piccolo seme su cui
ricominciare? Davvero è finito tutto?
Mi manca …mi manchi.

22 febbraio 2013
L’inferno… l’inferno non è affatto come lo descrivono… è
freddo, gelido... fa male.
Nella vita abbiamo bisogno delle persone che amiamo, ma
dopo la vita questo non è più possibile.
Un uomo per morire non deve necessariamente non
rimanere in vita, anche se corpo e mente ci sono ancora, a
volte basta meno, ma a questa condizione ha la fortuna di
rinascere… ma solo se se lo merita.
Ora non me lo merito

20 marzo 2013
Quanto tempo è passato… quanto ne passerà ancora?

30 aprile 2013
Ormai è arrivato il momento di scrivere la parola fine.
Fine? Vediamo…

Sono totalmente allibito.


89
Chi è la persona che ha scritto queste parole?
Non ti riconosco Nicolò.
Come potevi portarti dietro un’anima così lacerata, così
appesantita da rendere impossibile contrastarla nella sua caduta
verso l’ignoto.
Non ho mai immaginato che potessi sentirti così.
Averlo compreso, mi avrebbe permesso di erigere degli
argini efficaci?
Forse, ma credo che una simile deriva avesse radici più
profonde di una normale infatuazione. Sono convinto che
neppure lei potesse accedere all’area riservata.
Quella in cui potevi entrare solamente tu.

Sono seduto sul tuo letto e guardo le foto appese al muro e


appoggiate sul ripiano della scrivania.
Ogni soprammobile è un ricordo.
Tutta la tua stanza è un ricordo.
Quanti souvenir.
Uno per ogni vacanza.
Ho ancora in mano il diario, ma lo sorreggo distrattamente.
Tende a cadermi per la modesta presa che riesco ad applicare.
Sono troppo preso da quello che mi circonda.
Vedo tutto sotto una luce diversa, quasi che cercassi in
quegli oggetti le risposte tanto bramate.
Sino a un momento prima erano dei ricordi che sarebbero
rimasti lì, pronti ad aprirmi mondi in cui ci saremmo ritrovati
uno di fronte all’altro.
Ora sono diventati uno strumento di indagine.
Non so cosa augurarmi, una simile visione riempie il cuore
decisamente meno di un pezzo di vita insieme, ma sento che
una non può vivere senza l’altro.
Li guardo tutti rapidamente:

90
due coppe vinte in altrettante gare di sci, varie miniature: il
Colosseo, la torre di Pisa, le navi da crociera, un delfino con
scritto il tuo nome, una piccola anfora greca, un posacenere di
ceramica raffigurante un kilt, il mostro di Lockness.
Mi accorgo che manca la miniatura della torre Eiffel che
comprasti a Parigi. È stata l’ultima vacanza che abbiamo fatto
tutti insieme.
Siamo partiti lo scorso 26 dicembre e tornati il 30. Tu eri in
piena crisi, ma non hai fatto pesare la tua condizione. Sei stato
il Nicolò di sempre. Qualche ombra negli occhi si vedeva, ma
nulla più di questo.
Ci sono anche quegli inspiegabili sassi che raccoglievi e a
cui tenevi tanto. Non ho mai capito cosa ci trovassi. Erano
belli, è vero, ma sassi erano e sassi rimanevano.
Abbiamo girato tanto Nicolò. I tuoi souvenir testimoniano
solo una parte dei viaggi che abbiamo fatto insieme. Mi
piaceva farti girare il mondo.
Sono sempre stato convinto dell’importanza di vedere cosa
c’è attorno a noi. Confrontarsi con culture diverse aiuta a
capire che non sempre “gli altri” hanno torto o sono strani,
semplicemente hanno visioni diverse dalle nostre.
Girare il mondo aiuta a non cadere nella superficialità.

A partire dalla prima superiore ho pensato di mandarti in


vacanza studio ogni estate. Quindici giorni da solo in un paese
straniero, senza il papà a farti da ombrello. Non saresti andato
allo sbaraglio, ma sempre in contesti legati al mondo della
scuola.
Sarebbero state incancellabili lezioni di vita.
Le vacanze erano legate al rendimento scolastico. Non che
fosse un premio, era tuo dovere studiare a prescindere, ma mi
pareva un buon compromesso tra la mia voglia di offrirti questa
possibilità e la tua di accettarla.
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Un simile regalo, a fronte di un impegno insufficiente, mi
pareva totalmente insensato.
Il primo anno ho fatto un’eccezione.
Non hai studiato granché e i voti lo testimoniavano, ma
dovevo pur stimolare la tua curiosità.
Non ho dovuto insistere molto per convincerti. Sei partito
per Edimburgo insieme ad altri ragazzi che provenivano da
diverse scuole del ferrarese e del bolognese.
Una vacanza indimenticabile.
Mentre guardo i souvenir che hai portato a casa, il
posacenere a forma di kilt e il mostro di Lockness, ripenso alle
nostre telefonate serali.
Sempre cortissime.
Eri troppo preso dalle iniziative della combriccola. Non ti ho
mai sentito così felice.
Sì, è il termine giusto.
Felice.
Mi hai raccontato tutto al tuo ritorno. Hai portato anche
tante foto e video.
Quanto abbiamo riso.
Tra i tanti, mi ha colpito il racconto del giro in barca sul
lago di Lockness.
Hai atteso che l’insegnante ultimasse i racconti sul mostro. I
ragazzi erano rimasti colpiti e affascinati dall’essere immersi in
quella leggenda. Ne avevano sentito parlare tante volte, ma ora
erano lì, con l’immaginazione più viva e reale che mai.
“AAAAAGGHH. Cos’è quello?”
Questo hai urlato con tutto il fiato che avevi in corpo e con
l’espressione di terrore più convinta che potevi.
In molti sono scattati con il cuore in gola.
Beh. Non è male per un ragazzo così timido. Ci vuole un bel
coraggio a fare una simile sceneggiata in un gruppo di ragazzi
e ragazze appena conosciuti.
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Si rischia una figuraccia irrecuperabile.
Per fortuna è venuta bene, ma mi hai confessato di esserti
vergognato come non mai.
Sono stato orgoglioso del tuo coraggio.
Io non lo avrei avuto.
È stata la tua unica vacanza studio, il tuo rendimento
scolastico non ne ha permesse altre.

Rileggo.
Lo faccio più lentamente, soffermandomi su ogni periodo,
nel tentativo di carpire il vero significato di ogni parola. Spero
di scoprire qualcosa che apra uno spiraglio di speranza in
quella che mi pare essere una conclusione inesorabile.
Non ho capito un cazzo di mio figlio.
Ma come è possibile?
Sei sempre stato il primo dei miei pensieri. Ho cercato di
capirti con tutto me stesso, nella speranza di saperti appoggiare
nel modo giusto quando fosse servito.
Mi rendevo conto che mi sfuggivano tante cose, ma questo è
decisamente troppo.
Non ho mai banalizzato le crisi d’amore.
Sono sempre traumi profondi che ti annientano nel cuore e
nell’anima. Ti fanno sentire inadeguato e immeritevole di ogni
cosa che ti circonda.
Ancora non conosco l’evoluzione del tuo rapporto con
questa ragazza. Ho sempre avuto l’impressione che le cose
fossero ancora quelle confessate al maresciallo.
Un ragazzo che si è preso una cotta e sta cercando di
conquistare la sua bella.
Ma ora?
Ora tutto è diverso.
Come puoi aver fatto una cosa del genere se non c’è stato
nulla di più del tuo corteggiamento?
93
Per decidere che non si può vivere senza una persona,
bisogna aver provato cosa significa starci insieme. Avvertire
che solo lei ti completa, smussando i tuoi angoli e
punzecchiandoti quando ce n’è bisogno. Una persona che ti
entra dentro così in profondità da non riuscire a distaccartene.
Solo così potrei dare un senso a tutto questo.
Non sei il primo e non sarai l’ultimo.
Viene naturale pensare che sia l’inesperienza a farti crollare
il pavimento sotto i piedi quando ti lascia la persona che ami.
Non è così.
Il pavimento crolla ad ogni età, solo che, con il passare degli
anni, la ridotta capacità di reazione limita il rischio di colpi di
testa.
Da adulti si è più fantasiosi. Si trovano altri modi per
suicidarsi.
Non lo fai con una corda, ma spegnendo dentro di te ogni
stilla di entusiasmo.
Avrei scommesso sul tuo status di single, ma ora non ne
sono più tanto sicuro. Eravate una coppia e qualcosa si è rotto.
Non le do colpe.
Se avesse persino giocato con i tuoi sentimenti, cosa
avrebbe fatto di diverso rispetto a tante e a tanti suoi coetanei?
Chissà, forse anche tu ti sei comportato così. Sono cose che
fanno parte della vita. In particolare da adolescenti, dove, più
che mai, è necessario mettersi alla prova per ricercare se stessi.
È normale soffrire e far soffrire.
“Solo il cellulare può aiutarmi!”
Sono sicuro che lì troverò le risposte che cerco.

94
La dedica

Le mie ricerche continuano.


Non sono angosciato.
Lo faccio con molta attenzione, cercando di non farmi
travolgere dall’affanno. Sono convinto che, se non mi mettessi
un freno, sarei travolto dalla frenesia. Una frenesia compulsiva
che sento aumentare di minuto in minuto.
È troppa l’esigenza di trovare qualche risposta, ma in questo
momento devo centellinare le emozioni. Non so quanto potrei
sopportare il risultato delle mie ricerche.
In effetti non so a cosa sto andando incontro.
Ho paura. Voglio risposte, ma ho paura.
Devo ricercare un difficile equilibrio.
Ohmm.
Respira.
Ohmm.
Non ho mai studiato meditazione, yoga o qualsiasi altra
tecnica di rilassamento, ma la sto applicando. Un metodo
personale e spontaneo che però qualche effetto sembra darlo.
La mia giornata è fatta di picchi emotivi, i classici alti e
bassi, ed è meglio muoversi nel momento in cui il cuore è in
grado di reggere. Lo devo aiutare però, in questo momento mi
sembra un pugile suonato da un incontro difficile.
Appena battuto l’ultimo gong, prova a percepire com’è
andata, ma non vede quello che guarda e non capisce, anche
tendendo l’orecchio, quello che ascolta.
Accendo il PC e apro la directory dove salvavi i tuoi lavori.
Trovo centinaia di foto e video, ben catalogati in cartelle per
ordine di data. Una parte di questi li hai lasciati subito visibili
senza necessità di aprire altro.
95
Capisco il perché di questa divisione. Nelle cartelle hai
scaricato quello che avevi registrato quel giorno stesso, mentre
gli altri sono video già montati e foto che avevi estratto e che ti
servivano per qualche lavoro.

Il primo film che avvio si chiama: 1°H - PARTE UNO.


È diviso in due sezioni.
La prima è la storia degli ultimi giorni di vacanza sino al
primo giorno di scuola all’ITI.
La costruisci attraverso scene di vita quotidiana, in cui tu sei
l’unico attore, che si intercalano con l’avanzare della stagione.
Si passa dal primo piano di un sole abbagliante, alla forza di un
temporale estivo e si arriva alle piogge di fine estate riprese dal
balcone di casa nostra.
Questa parte si conclude con il tuo ingresso nell’atrio della
scuola, insieme ai tuoi compagni.
Ammiro la tua capacità di racconto, le tue inquadrature e
anche la musica di accompagnamento.
Accidenti. Eri proprio bravo.
La seconda sezione è una storia di cui hai scritto la
sceneggiatura. È la prima parte di un racconto in cui interpreti
due ruoli. In entrambi sei te stesso, ma uno è il Nicolò che tutti
conosciamo, mentre l’altro è un alter ego che compare di tanto
in tanto.
È un Nicolò che viene da lontano. Non si capisce se sia uno
spirito o se provenga da un’altra dimensione. Sicuramente è
depositario di un grande segreto e sembra che voglia
rendertene partecipe. Non te lo svela esplicitamente, ma ti dà le
indicazioni per poterci arrivare da solo e lo fa attraverso dei
sassi. Ogni volta che te ne lancia uno sembra passarti un po’
del suo sapere. Un po’ della sua conoscenza delle cose future.
Gli stessi sassi che sono sulla mensola della tua camera.

96
Ma, porca miseria, quando ti chiedevo cosa te ne facevi, ci
voleva tanto a dirmi che servivano per un film che stavi
girando?
Non è facile comprenderne il filo conduttore, sarebbe
necessario vedere anche la seconda parte, ma riconosco il tuo
modo di fare.
Parola d’ordine: ERMETISMO.
La seconda parte non l’hai mai ultimata.
Negli spezzoni che ho trovato si vedono tutti i ciak che
avresti dovuto montare.
Che professionalità dimostravi.
Mi ha colpito soprattutto la caparbietà con cui riuscivi a
coinvolgere nel progetto tutti gli “attori”.
Guardando le scene che avevi girato, appare evidente che lei
era la protagonista.
Sembrava esserci una bella intesa tra di voi.
Tu la incoraggiavi con la sapienza di un consumato regista e
lei ti seguiva con la professionalità e i vezzi di una diva
affermata.
È una bella ragazza, ma sono colpito soprattutto dal suo
modo di fare. Ha un bel sorriso e non lo risparmia.
Non è quel modo tipico di chi vuole esaltare le proprie
qualità estetiche. Quel modo, per così dire: “impostato”. Lo fa
con dolcezza, lasciando intravedere una serenità che non ti
aspetti in una ragazza così giovane.
Ho visto e rivisto quelle sequenze.
Mi piaceva vedervi insieme e immaginare i sussulti del tuo
cuore a ogni suo sguardo o sorriso particolarmente
ammiccante.
I lavori si sono interrotti il 26 settembre.
Non erano ancora conclusi, per cui è chiaro che è successo
qualcosa di così grave da rendere impossibile (o inutile)
continuare.
97

9 ottobre 2012
Perché lo hai fatto? Non ricordi questo giorno? No?

Quando un incantesimo si rompe è per sempre.


È evidente la ragione che ha portato a interrompere le
riprese. Dopo il vostro litigio, non solo ti mancava la
protagonista, ma veniva meno anche il senso stesso del film.
Non mi importa conoscere il dettaglio di quello che è
successo tra di voi. Vorrei solo percepire cosa si è scatenato in
te in quel momento.
Hai sbagliato e da lì è stato l’inferno.

Il secondo film si chiama: IL PERCORSO.


È il reportage della festa di compleanno di Filippo, un
ragazzo un po’ più giovane di te che frequenti in occasione
delle cene con amici. Lui è il figlio della coppia con cui
usciamo più frequentemente.
È il 25 aprile 2011 e la festa è organizzata in un locale sulle
rive del Po. Hai filmato il divertimento del gruppo di amici
mentre correvate e giocavate sulla riva e nel boschetto di
pioppi subito dietro.
Il film è spezzato, di tanto in tanto, da immagini che hai
girato l’anno successivo. Non hanno nulla a che vedere con la
festa di compleanno, ma sono sicuro che sono io a non
coglierne il legame.
Sicuramente c’è.
Lo guardo e lo riguardo, ma non capisco cosa stiano a
significare i ritagli che hai inserito. In alcuni sei in casa e non
fai nulla di particolare, in altri cammini in un boschetto, che
riconosco essere quello vicino a casa nostra.
In molte sequenze hai utilizzato un innaturale filtro di colore
verde.
98
Ci sono due cose in particolare che mi colpiscono.
Una è il titolo: IL PERCORSO.
Ai tempi della festa di compleanno avevi 14 anni e il
contrasto con il Nicolò dell’anno successivo è evidente.
Quell’anno è stato sicuramente un percorso.
Quello che ha aperto le porte all’uomo che covava dentro di
te.
Un anno dopo l’avevi già conosciuta.
Chissà se in quelle immagini hai voluto dare risalto al
sentimento che provavi.
Un sentimento sbocciato all’improvviso e capace di
avanzare a così lunghe falcate.
Ti sarai fatto infinite domande e ti sarai messo alla ricerca
spasmodica delle risposte.
I percorsi hanno sempre un inizio e una fine e tu concludi il
tuo lavoro in un modo che mi lascia sgomento.
Questo è l’altro punto: IL FINALE.
Anche in questo video ti sdoppi in due Nicolò.
Qui, però, non siete due entità distinte. Non a caso siete
vestiti allo stesso modo. Il dettaglio non è casuale. Nell’altro
eravate abbigliati sempre in modo diverso, proprio per
evidenziare che non si trattava della stessa persona.
Qui sei sempre te stesso, ma sembri mettere il tuo corpo e la
tua anima su due piani diversi.
L’anima ha una facoltà che è negata al corpo, quella di poter
vedere dall’altra parte. Facoltà che il corpo assume solamente
nel momento del trapasso.
Nella scena finale vedi te stesso e, mentre vi guardate negli
occhi, l’anima ti dice:
“Se mi vedi è perché sei morto. Stai tranquillo, ora ti trovi in
paradiso e vedrai che ti abituerai presto”.

99
In realtà è solo il preludio, come se negli ultimi istanti della
nostra vita avessimo la possibilità di dare una sbirciatina
dall’altra parte.
Nella scena successiva muori realmente, mentre in
sottofondo suona, sempre più forte, un pezzo di musica classica
che non mi permette di trattenere le lacrime.

Il terzo e ultimo film si intitola: STILL ALIVE.


Alla prima scena capisco che è dedicato a lei.
Traspare in modo evidente il tuo amore.
La scelta delle inquadrature, la cura del dettaglio, la stessa
sequenza di immagini che hai utilizzato, tutto è studiato per
dare risalto al sentimento che provavi.
Ti era entrata nell’anima.
L’intero film è accompagnato da una bella canzone che
sembra fatta apposta per le immagini che scorrono sotto.
Come posso trattenere le lacrime?
Non è possibile e infatti le lascio scorrere liberamente.
Un po’ di resistenza in realtà ho cercato di farla. In questi
giorni sono stato sopraffatto troppe volte dal pianto e ogni
volta, anziché sollevarmi, mi sono ritrovato più a terra di
quando ho cominciato.
Ora sono confuso.
Il tuo amore per lei riempie anche il mio cuore e mi
emoziona al punto da provocarmi un pianto inedito, liberatorio.
Mi raggelo istantaneamente quando, dopo l’ultima
immagine, appare un messaggio:
“Mi hai reso felice per due anni e devo ringraziarti per
questo, anche se dimostravo tutt’altro.
Ormai è tutto rovinato, ma io conto che un giorno rideremo
di quanto è successo e tutto sarà di nuovo come in questo
video, che, magari, hai trovato inquietante perché ci sei
soprattutto tu (dopotutto io filmavo).
100
La canzone di sottofondo è strana (il testo), ma ha un senso.
Te lo dirò quando tutto tornerà a posto, perché ti voglio bene
oggi, come ieri e come domani.
Spero che tu abbia apprezzato un po’, perché non è stato
facile farlo…
Goodbye my friend…”

Metto in pausa per poterlo leggere in tutta calma.


Non è altro che una conferma di quanto già sapevo o
intuivo, ma l’effetto è devastante.
Con me non ti sei mai espresso in modo così intimo e libero.
Dopo l’angoscia che dimostravi nei pensieri che avevi
trasferito sul tuo diario, mi trovo al cospetto del tuo alter ego.
Malinconico, certo, ma anche ricco di amore e speranza.
Ho il cuore in gola, ma è stato solo un attimo.
Superato lo sconcerto iniziale, ti ho immaginato nel
momento in cui lo scrivevi e mi sono ritrovato a piangere
nuovamente al pensiero di tutte le speranze che riponevi in
quello scritto. Ti immagino attento a pesare ogni singola
parola, indeciso sull’opportunità di dire questo o omettere
quello.
Era evidente che intendevi darglielo.
Chissà se lo hai fatto veramente.
Lo guardo ancora e riesco a cogliere aspetti che mi erano
sfuggiti.
Uno in particolare.
Nell’ultima scena siete uno di fronte all’altra sul divano di
casa nostra e state recitando. Lei ti guarda e tu hai lo sguardo
abbassato, ma nell’ultimissima immagine alzi gli occhi e la
guardi come nessuna donna ha mai neppure sognato.
È stato solo un attimo, quasi un fermo immagine, ma non è
stata una inquadratura casuale.

101
Mi colpisce anche una parte della lettera:
“La canzone di sottofondo è strana (il testo), ma ha un
senso. Te lo dirò quando tutto tornerà a posto”.
Cosa intendevi dire?
Devo rintracciare subito il testo.
Mi collego a Google e digito: traduzione still alive.
Sono fortunato.
Il primo collegamento che compare è quello buono. Si tratta
di un filmato senza immagini che serve solo come supporto alla
canzone.
La riconosco. È la stessa.
In primo piano scorre la traduzione in italiano.
Sembrano i titoli di coda dei vecchi film, quando ancora si
riuscivano a leggere.

“STILL ALIVE (ancora vivo)


È stato un trionfo
Sto scrivendo una nota adesso: grande successo
È difficile descrivere la mia soddisfazione
APERTURE SCIENCE
Noi facciamo ciò che vogliamo perché possiamo
per il bene di tutti, eccetto per quelli che sono morti
Ma non ha senso piangere ogni errore, bisogna continuare
a tentare finché non raggiungi la torta.
E la scienza lavora affinché tu abbia un fucile pulito
Per le persone che sono ancora vive
Non sono per niente arrabbiata, sono sincera adesso
Adesso che hai spezzato il mio cuore e mi hai uccisa
Lo hai fatto a pezzi, e ogni pezzo lo hai buttato nel fuoco
E hanno bruciato male perché io ero felice per te
Ora con questi punti di dati formerò una bellissima linea
Siamo usciti dalla fase beta e siamo pronti a rilasciarlo in
tempo
102
Quindi sono contenta di essere bruciata, pensa a tutte le
cose che abbiamo appreso
Per le persone che sono ancora vive
Vai avanti e lasciami, preferisco stare qui dentro
Forse troverai qualcun altro disposto ad aiutarti,
forse Black Mesa
Era uno scherzo hahaha, è difficile
Comunque la torta è così grande, così deliziosa, così umida
Guardami, sto ancora parlando quando c’è così tanto da
fare
Quando guardo fuori sono felice di non essere te
Ho esperimenti da fare e ricerche da completare
Per le persone che sono ancora vive
E credimi io sono ancora viva
Porto avanti la scienza e sono ancora viva
Mi sento alla grande e sono ancora viva
Mentre stai morendo io sono ancora viva
E quando morirai io sarò ancora viva
Ancora viva
Ancora viva”

Porca miseria Nicolò, mi metti a dura prova. Sarò un po’


tardo, ma fatico a mettere in fila il senso di questa canzone.
L’unica cosa che credo di aver capito è che si tratta di un inno
alla vita.
La protagonista è stata lasciata, ma, partendo dalle ceneri
del rapporto finito, ha tutta l’intenzione di ricominciare. Ed è
proprio così che dovrebbe essere, fare tesoro delle nostre
esperienze e andare avanti.
Beh, se questo è realmente ciò che pensavi, cosa ti ha
portato poi a ritenere che non ci fosse più futuro senza di lei?
Comincio a sentirmi la testa pesante, forse dovrei evitare di
farmi troppe domande. So bene che, a volte, anche cercando
103
bene, le risposte non si trovano per il semplice motivo che non
esistono.
Che posso farci? Già di mio sono fatto così. Mi piace dare
un senso alle cose di tutti i giorni, figuriamoci al cospetto di
una cosa così enorme. Certamente non cambierebbe la
sostanza. Nicolò non tornerà in vita, ma non lo posso prendere
come un assunto. Questo è … e quello che è stato è stato.
Accidenti, abbiamo trascorso insieme 17 anni della nostra
vita. La memoria è importante. È tutto quello che mi resta.
È fondamentale puntellarla bene.
I suoi sostegni sono le mie certezze.

Verifico la data di creazione del film, 22 febbraio 2013. I


conti tornano, è proprio da quel periodo che ho cominciato a
intravedere miglioramenti nel tuo umore.
Immagino che tu glielo abbia dato e lei, intenerita dal tuo
gesto, abbia rivolto nuovamente il suo sorriso verso di te.
Chissà, forse hai frainteso il suo atteggiamento e ti sei illuso,
forse lei si è lusingata e ti aperto le braccia.
Sono tante le ipotesi che ronzano nella mia mente.
Solo il cellulare potrà aiutarmi a mettere in fila le cose.
Almeno così spero.
Continuo le ricerche nelle cartelle datate.
Le foto e i video sono centinaia, ma, aiutato dalle anteprime,
riesco a scorrerli rapidamente.
Apro solo quelli che la riguardano, per il momento è lì che
voglio concentrarmi.
Arrivo alla cartella datata 26 gennaio 2013. Nelle anteprime
dei video lei non compare, ma ricordo che è stato più o meno il
periodo in cui ti ho trovato ubriaco fradicio steso in mezzo alla
strada.
Avvio il primo filmato e trovo conferma.
Ne hai fatti numerosi proprio quella sera.
104
Non mi avevi raccontato balle.
La serata è stata proprio come me l’avevi descritta.
Siete stati in casa tutta sera sino al momento in cui hai
accompagnato a casa il tuo amico. Hai cominciato a bere ogni
tanto a piccoli sorsi, ma i brindisi si sono moltiplicati
rapidamente.
Un paio d’ore dopo eri totalmente inebetito.
In fondo mi ha fatto piacere scoprire che non eri un
consumatore abituale. Almeno una cosa l’ho determinata, ma
non posso guardarti in quelle condizioni.
Mi avrebbe fatto male in qualsiasi altro momento, ma oggi è
veramente troppo.
Domani è un altro giorno.

105
Il cellulare

All’inizio di agosto mi chiama la Questura per la


restituzione del cellulare. Sono emozionato, molto emozionato.
Mi sembra di avere tutta la mia vita racchiusa in quella
scatolina di plastica e metallo.
Quando entro negli uffici preposti, subito una sorpresa. Mi
fanno entrare nell’ufficio del graduato di turno e riconosco un
vecchio amico d’infanzia. A onor del vero è lui a riconoscere
me, il suo mestiere lo aiuta a fare più attenzione alle persone
che incontra e ai dettagli che esse raccontano
inconsapevolmente.
Due chiacchere di rito, mi fa le condoglianze e cerca di
mettermi a mio agio.
Mentre mi sta preparando il verbale per la restituzione del
cellulare squilla il telefono. È il suo dirigente che lo invita ad
accompagnarmi nel suo ufficio.
Sono un po’ disorientato, non so il perché di questa
convocazione. Poco male, a momenti lo scoprirò.
Entro e mi trovo al cospetto di una bella ragazza in divisa. È
molto giovane, non le do più di 27/28 anni e ho il sospetto che,
se non fosse per l’uniforme, gliene darei anche meno.
Non è un problema, ma certamente mi aspettavo una figura
diversa.
Mi siedo.
Mi fa le condoglianze e mi racconta sommariamente quello
che ha letto nei messaggi trovati sul cellulare. Apprezzo la
delicatezza e la misura delle parole che utilizza nel parlare del
suicidio di Nicolò.
106
Penso:
“Ecco, mi ha chiamato per dare alla restituzione una sua
solennità, in fondo non mi sta restituendo un semplice oggetto,
ma la foto stessa della vita di Nicolò e, forse, anche della mia”.
Mi sono sbagliato.
Forse l’intento era anche questo, ma non era il solo.
Dopo un po’ appare in tutta evidenza la ragione delle sue
parole, così ben calibrate, così indovinate, così sentite, così
insolite sulla bocca di una ragazza tanto giovane.
A un certo punto mi confida che anche lei ha avuto in
famiglia un evento analogo. Un suo cugino che a sedici anni, la
stessa età di Nicolò, ha deciso di farla finita.
È l’ennesima confidenza di questo tipo che mi viene fatta,
per voce diretta di chi ne è stato parte coinvolta o di chi ha
raccolto simili confidenze da altri.
Non mi ero mai accorto che fossero così tanti i ragazzi che a
questa età decidono di farla finita.
Quanti interrogativi, quanti perché rimasti senza risposte,
quante vite spezzate sul nascere.
Ho sempre pensato che fatti del genere nascondessero delle
scomode verità, a volte addirittura inconfessabili.
Ho sempre pensato che, volendo indagare, qualche cosa
sarebbe saltata fuori: un padre violento, violentatore persino,
genitori inesistenti, droga, alcol, ecc, ecc.
Anch’io, come tanti adolescenti, ho spesso pensato che
sarebbe stato meglio farla finita. È un’età dove le insicurezze
sono predominanti e quindi capita di sentirsi totalmente
inadeguati al mondo che ti circonda. Ma una cosa è pensarlo e
un’altra è farlo.
Negli occhi di tanti genitori, parenti e amici, ma anche solo
conoscenti, sin dal giorno del funerale, ho letto esattamente
questo. L’insicurezza che deriva dal comprendere che non ci
sono garanzie. Anche se hai fatto tutto per benino, anche se sei
107
sempre stato presente e attento, anche se hai la convinzione di
aver messo i tuoi figli sul treno giusto, puoi svegliarti una
mattina e scoprire che il mondo ti è crollato addosso.

Ultimate le formalità di rito, mi avvio rapidamente alla


macchina per arrivare a casa nel più breve tempo possibile. La
voglia di fermarsi e leggere subito è tanta, ma è una cosa
troppo importante e non posso permettermi nulla che non sia
una condizione più che perfetta per la lettura.
Lettura è un termine improprio, sarebbe più corretto
utilizzare “studio”.
Il tragitto verso casa è un misto di frenesia e inquietudine,
ma anche di appagamento. Sono nervoso, ma finalmente ho
nelle mie mani quell’oggetto così desiderato.
Ogni giro di ruota succede qualche cosa: un colpo di tosse,
uno scatto delle spalle, una sgassata un po’ troppo violenta, il
cambio che gratta come se volesse uscire a fare quattro passi.
Cerco di calmarmi, ma non è facile.
Piano piano riesco nel mio intento, in fondo il cellulare è lì.
Ormai non può più scappare.
Sono a casa e comincio a leggere i messaggi. Prima i
normali sms, poi provo con quelli su WhatsApp.
Non ho mai utilizzato un iPhone, per cui mi innervosisco
mentre cerco di capire come cavolo funziona.
Sono della generazione che crede ancora che il cellulare sia
solo un telefono. Gli iPhone sono un’altra cosa e lo sto
scoprendo proprio nel momento più sbagliato.
Piano piano prendo confidenza e riesco ad aprire la sezione
che mi interessa. Ci sono messaggi con alcuni amici, ma
prevalentemente ne trovo indirizzati a lei.
Riesco a leggere solamente gli ultimi, quelli che un
poliziotto cortese mi aveva già aiutato a scorrere. Capisco che

108
non sono tutti lì, ma mi sfugge come fare per esplorare tutta la
corrispondenza.
A un certo punto noto, in alto in posizione centrale:
CARICA MESSAGGI PRECEDENTI.
Indicazione evidente e messaggio chiaro.
Mi sfugge un sorriso amaro.
Mi sembra di avere centosei anni mal portati. Occhi e
cervello dovrebbero essere sempre ben collegati, ma non
sempre è così.
Apro tutte le sezioni con decisione, sento l’angoscia
stringermi la gola.
Non posso aspettare oltre.
A un certo punto, per quanto tenti, non riesco più ad
arretrare. Sono arrivato al giorno in cui iniziano i messaggi.
Siamo al 30 maggio.
In effetti avevi appena acquistato il nuovo telefono e quindi
sono certo che non si può andare più indietro.
Comincio a leggere.
Lo faccio con calma, cercando di cogliere quante più
sfumature possibile.
Non esagero nel tentativo.
Rischierei di perdere di vista il senso stesso delle vostre
conversazioni. Soffermarmi sui dettagli sarebbe solo una
perdita di tempo.
Ci sarà tempo e modo.

Non riesco a capacitarmi.


Hai un’insistenza che mi è nuova.
Le chiedi continuamente di incontrarti e non accetti le sue
obiezioni. Non tanto perché il tuo desiderio sia tale da non
permetterti di mollare la presa, ma perché sembri proprio non
capirle.
Non ti lascia spazio.
109
È di una evidenza assoluta.
Lei non ti vuole.
Quei venti giorni di messaggi sono un monologo
inquietante. Tu la sproni in continuazione, lei ti rifiuta con
decisione.
In molti passaggi, le riconosco una certa abilità nel
contenere i tuoi attacchi e nel cercare di risolverli con il minor
spargimento di sangue.
Indubbiamente avevi scelto bene.
Ma… porca miseria Nicolò… come facevi a non capire?
Te lo dice in ogni modo immaginabile. Scadendo in
parolacce che immagino non le siano abituali, ma la tua
insistenza avrebbe fatto bestemmiare un francescano.
Non capisco Nicolò.
Come potevi essere tanto cieco?
Nei giorni seguenti ho riletto molte volte le vostre
conversazioni. Ogni volta ho colto un piccolo particolare che
mi era sfuggito in quella precedente.
Il succo del contesto però non cambia.
Lei non ha giocato con te, come temevo di scoprire.
Non potevo pensare che fosse costretta a portare sulle spalle
un peso così grande.
Avrebbe potuto rimanerne schiacciata.
C’è già stato troppo dolore e non mi solleva il pensiero di
condividerlo, anzi mi sento colpevole come se ne fossi stato io
la causa.
Ha pagato un prezzo fin troppo salato per il solo fatto di non
aver colto pienamente sino a che punto l’avevi innalzata nella
scala dei tuoi valori.
Non era compito suo.
Sicuramente era il mio.

Mi trovo al cospetto di un’altra persona.


110
Sei un altro.
Penso ai tuoi video e allo sdoppiamento di personalità che
mettevi in evidenza.
Forse non era un semplice riflesso artistico.
Ho il cuore gonfio di angoscia.
Dovevo essere più attento ai segnali che mi hai sicuramente
mandato.
Tante volte ho sentito come un ronzio. Una sensazione
fastidiosa che mi faceva andare a letto con il cuore pesante.
Tante volte ho riflettuto se era il caso di indirizzarti a un
ciclo di psicanalisi. Alla fine concludevo sempre che era
meglio evitare, rimanere all’erta e agire nel momento in cui ci
fossero state avvisaglie evidenti.
Non ho mai pensato che potevo non averne il tempo.

Durante le interminabili ore davanti alla televisione,


trascorse nel tentativo di collegare l’inizio con la fine di un
qualsiasi programma, mi sono immedesimato nella
protagonista di un documentario sugli animali.
Una femmina di ghepardo si trova nella sua tana con tre
piccoli e ha finito le scorte di cibo. È magra. Non può attendere
oltre per andare a caccia, ma è titubante perché è obbligata a
lasciare i cuccioli incustoditi.
Esita, ma alla fine deve cedere. Lascia la tana e va a caccia.
Quando rientra con la preda, non trova più i suoi cuccioli. Le
tracce di sangue non lasciano dubbi, il leone li ha fiutati e poi
sbranati.
Si tratta del corso della natura. Cose del genere succedono
quotidianamente, fanno parte del disegno divino
dell’evoluzione della specie.
Io, però, mi sento proprio come quella femmina. Lei sa che
se abbandona i cuccioli può rischiare di farli sbranare dal leone

111
che ne sente l’odore, ma non ha scelta, ogni tanto li deve
abbandonare per procurarsi il cibo.
Sicuramente non si è fatta tante domande, ma verrebbe da
chiedersi se poteva resistere ancora un po’ prima di andare a
caccia, oppure se poteva partire dopo aver meglio perlustrato il
territorio.
E io?
Avrei potuto fare e dire tante cose. Cose che non ho detto e
che non ho fatto e che, chissà, potevano cambiare il corso degli
eventi.
Potevo prevedere il futuro?
Sicuramente no.
Mi sento assolto per questo?
Sicuramente no.

Colpevole.
Colpevole.
Colpevole.

112
25 novembre 2013

Sono in casa, appena tornato dal lavoro. Un giorno come


tanti. Ormai posso gestire il mio tempo come meglio credo.
Quanto l’ho desiderato in tanti e lunghi periodi della mia
vita e quanto mi sembra vuoto oggi.
Il tempo è prezioso quando lo puoi riempire di attività che
meritano di essere ricordate.
Non è il mio caso.
Apro l’armadio di Nicolò per prendere una coperta e noto un
lenzuolo verde, un po’ stropicciato, posto in un angolo.
Ho riordinato tutto già da tempo e non lo ricordo.
Lo prendo in mano e noto delle fettucce nere che sembrano
incollate al lenzuolo. Non capisco, ma percepisco subito che
sono al cospetto di qualcosa di importante.
È strano, me ne rendo conto. Forse è perché quello è il
lenzuolo che Nicolò usava per gli sfondi cinematografici e
quindi è stato sufficiente prenderlo in mano per ricevere una
scossa su tutto il corpo. Non so, quel che è certo è che mi sento
come chi si trova di fronte a un fenomeno paranormale. Non
riesce a capirlo, per quanto si sforzi, e ne rimane fortemente
intimorito.
Riconosco le fettucce nere. Sono la tracolla del suo borsello.
Quel giorno maledetto avevo notato che erano state recise e
non ero riuscito a darmene spiegazione. Il borsello gli piaceva
e quindi non capivo il perché di un simile trattamento.
Nonostante stessi vivendo la peggiore esperienza che possa
capitare, ricordo bene che, quello stesso pomeriggio, non
riuscivo a non pensarci.
Perché lo aveva fatto?
113
Forse pensava di usarlo per impiccarsi e poi ha cambiato
idea?
Perché allora non si trova?
Credevo poco allo scherzo di pessimo gusto di chicchessia,
sono sempre stato convinto che lo avesse fatto lui. Ma perché?
Ora sto per scoprirlo.
La cosa mi inquieta parecchio, tanto da fermarmi per
qualche secondo mentre lo tolgo dal ripiano su cui è
appoggiato. Mi faccio forza. Mentre lo smuovo noto che ci
sono delle scritte. In un attimo torno indietro di cinque mesi.
Comincio a capire di che cosa si tratta.
È il suo biglietto di addio, quello che ho tanto cercato senza
successo.
Sono totalmente stordito.
Rivivo ogni momento di quel giorno.
Le sensazioni provate e faticosamente controllate in questi
mesi riesplodono con rinnovato vigore.
Cosa devo fare?
Meglio chiamare e aspettare la Susi?
Me lo sono chiesto, ma so di barare con me stesso.
Figuriamoci se posso rimandare di un altro attimo.
Lo leggerò e poi chiamerò la Susi.
Prendo il lenzuolo e lo porto in sala per svolgerlo sul
tappeto. È l’unico spazio che mi permette di aprirlo
completamente. Le fettucce non sono incollate, ma annodate ad
asole tagliate appositamente. Sicuramente servivano per
poterlo agganciare da qualche parte, per cui il verso giusto per
leggere è quello che ha le fettucce nella parte alta.
Prima di posizionarlo correttamente mi chiedo cosa ci sarà
scritto.
Mi avrai lasciato un tuo pensiero?
Ti scuserai o mi darai delle colpe?

114
Non so perché, ma la sensazione prevalente è che, anche
qui, tu non mi abbia considerato. Più lo guardo e più mi
convinco che non sarò l’oggetto dei tuoi scritti.
La possibilità di scoprire risentimenti o, peggio, accuse nei
miei confronti, a ogni modo, mi fa tremare le gambe.
Lo adagio sul tappeto del salotto. Lo stendo cercando di
tirarlo in qua e in là in modo da stirare bene le pieghe. Non
sarebbe necessario, noto che è stato scritto in caratteri della
grandezza di circa venti centimetri, per cui si legge bene
comunque, ma sento il desiderio che tutto sia perfetto e poi…
le gambe devono ancora smettere di tremare.

“ORMAI NON POSSO PIÙ SPERARE CHE TORNI


COME PRIMA, MA AL DI LÀ DI TUTTO MI MANCHI”

È scritto con una attenzione particolare alla distribuzione


delle parole nello spazio consentito dal lenzuolo. La
dimensione dei caratteri non è casuale, la frase occupa tutto lo
spazio disponibile.
Ancora lei. Tutto ruota intorno a lei. Ogni tuo pensiero era
rivolto solo ed esclusivamente a lei.
Non provo né rabbia né gelosia, anzi, questo amore che
travalica tutto e tutti e non si ferma di fronte a nulla mi
commuove profondamente.
Non so se l’avermi escluso anche da questo tuo ultimo
pensiero mi intristisca o mi sollevi.
Le ragioni del tuo gesto sono ormai evidenti. Sicuramente
non lo è altrettanto il posto in cui tenevi ognuno di noi.
Non è una gara, ma comprenderlo ci aiuterebbe a capirti
meglio.
Messi insieme tutti i cocci, abbiamo ricostruito una tua
immagine convincente. Abbiamo cercato di farlo onestamente,
aprendo il nostro cuore e il nostro cervello anche alle cose che
115
ci facevano male. Ora sento che non sarei in grado di
ricostruire tutto da capo. I fantasmi contro cui ho lottato in
questi mesi mi hanno lavorato ai fianchi con estrema abilità.
Il messaggio non aggiunge nulla a quello che già sapevo, ma
le conferme non possono che colpirti alla bocca dello stomaco.
Si può essere certi di una cosa, basandosi su mille
supposizioni, ma quando ti sbattono in faccia l’evidenza
cambia tutto. Sembra quasi che tutte le prove che avevi in
mano un secondo prima servissero solo per appagare il tuo ego:
io non ho le fotografie, non ho i video o le registrazioni vocali,
ma sono così intelligente da aver capito tutto.
Quando arriva la conferma ti senti strappare l’anima.

Telefono a Susi e ad Anna.


Spiego tutto stando seduto su una seggiola che ho
posizionato davanti al lenzuolo. Le gambe ancora tremano.
Meglio mettersi in sicurezza.
Non riesco a staccare gli occhi da quella scritta e da quel
lenzuolo, ma soprattutto mi attirano le tracolla.
Tagliate, annodate e misurate con estrema precisione.
Perché hai scritto tutto su un lenzuolo e non su un normale
biglietto?
Perché hai fatto tutto con tanta cura?
Dove volevi appenderlo?
Perché non lo hai fatto?
Sento la testa scoppiare per il turbinio di sensazioni che
transitano come un treno a vapore fuori controllo.
L’unica risposta che mi sembra dare un senso a questo
strano ritrovamento è che tu l’abbia appeso all’anta
dell’armadio in bella vista, ma fissato in modo precario. Al
primo alito di vento è scivolato a terra. Quando ho riordinato,
non ci ho fatto caso e l’ho ripiegato sommariamente per poi
riporlo sullo scaffale.
116
Suonano al campanello, è la Susi.
È passata una buona mezz’ora.
Mi sono ripreso.
Mi alzo e vado ad aprire con passo sicuro. Sono nervoso.
Nel frattempo ho formulato un bel po’ di ipotesi e il pensiero di
confrontarle con lei mi provoca un nodo alla gola. Non perché
non lo voglia fare o non senta la necessità di condividerle, ma
perché sono giunto a qualche conclusione e mi rendo conto di
averle un po’, per così dire, addomesticate.
Ho il cuore stanco e barare un po’ mi è d’aiuto.
Nei pochi secondi che passano tra quando ha suonato il
campanello e il momento in cui entra in casa, riesco a scaricare
un po’ di tensione. Anche in questo momento ho bisogno di lei
e nulla mi aiuta più del sentire i suoi passi per le scale e
sull’uscio della porta che ho lasciato socchiusa.
Non posso fare a meno di chiedermi come reagirà.
Ha dovuto essere più forte di me.
Ha dovuto essere forte per entrambi.
Io ho combattuto solo con me stesso, con i miei ricordi e
con il mio senso di colpa. Lei ha dovuto sostenermi, saltando di
netto la sua sofferenza per mantenere in equilibrio la nostra
vita.
Non so quanto potrà reggere, è una bomba ad orologeria.

Siamo entrambi molto emozionati mentre guardiamo il


lenzuolo steso sul pavimento. Anche lei tradisce il suo stato
d’animo con un anomalo rossore sulle gote e un’espressione
concentrata, ma al contempo incredula.
Lo osserviamo insieme.
I nostri sguardi si incrociano, ma non trovano quello che
cercano.
Il significato del messaggio è evidente, ma non altrettanto la
ragione di questo strano biglietto.
117
La precisione grafica così rigorosa sembra incompatibile
con lo stato d’animo di una persona che si vuole suicidare a
minuti, ma non riesco a immaginare ragioni che possano
avertelo fatto scrivere in un momento diverso.
Ti ho sempre immaginato prepararti con la calma di chi non
ha dubbi sul da farsi, ma questo è troppo. È innaturale pensarti
mentre prendi le misure e calcoli la grandezza dei caratteri per
incasellarli perfettamente in righe e colonne equidistanti.
Non è stato un gesto figlio di lunghe riflessioni e visioni
deteriorate, di questo sono sicuro. È stato un colpo di testa che
ti ha falsato l’idea del futuro e ti ha fatto vedere solo dolore.
Tutto ha perso di significato.
Quel colpo di testa è durato un attimo, ma non ha mollato la
presa per tutte le ore successive.
Sei sempre stato un ragazzo che portava fino in fondo i suoi
propositi, a volte con estrema caparbietà. Una qualità che ho
sempre apprezzato e che ora assume un significato sinistro.
Eri un ragazzo con le palle.
Accessori indispensabili nella vita.
Non ho mai immaginato che avrebbero contraddistinto
anche la tua morte.

E quell’ultimo pomeriggio?
Quante volte mi sono chiesto come è stata l’ultima ora.
Come è stato l’ultimo minuto.
L’ultimo istante.
Come posso immedesimarmi in chi ha deciso di suicidarsi e
si prende il tempo di preparare tutto per benino, come se
dovesse imbandire la tavola del pranzo di Natale?
Non è possibile, ma come posso non provarci?
Non ci saranno mai risposte, questo è chiaro. Saranno solo
supposizioni che galleggeranno per sempre nel limbo dei miei
pensieri.
118
A volte mi solleveranno.
A volte mi spingeranno all’inferno.
Ok Nicolò. Hai deciso. Il futuro non ti interessa.
Hai ancora molto da fare. Di sicuro avevi immaginato tutto
già da tempo: il perché, il come, il dove.
Ti mancava solo il “quando”.
Ora hai deciso e non si torna indietro.
Come un automa cominci a mettere in pratica il disegno che
avevi già costruito nella tua mente. Prendi il lenzuolo, lo stendi
sul pavimento, prendi le misure e poi scrivi.
Forse no. Forse le misure le avevi già prese. Sì, credo che
avessi già il modello bene impresso nella tua mente.
Scrivi il messaggio, ma ora il problema è attaccarlo
saldamente alle ante dell’armadio perché rimanga in bella
evidenza. Sono convinto che non avessi pensato di attaccarlo
con la tracolla del tuo borsello. Riflettendoci in anticipo avevi
sicuramente trovato un metodo migliore, ma in quel momento
ti è mancato qualche cosa.
Quello è stato il momento decisivo.
Se ancora c’era un minimo di dubbio, è venuto meno nel
momento stesso in cui hai tagliato la prima fettuccia.
È stato il punto di non ritorno.
Ti sarai fermato qualche secondo prima di farlo, ma poi
l’unico modo per fermarti sarebbe stato un mio rientro
improvviso a casa.
Non conosco con precisione il momento in cui hai spento
definitivamente la luce, ma partendo prima dal lavoro, chissà,
sarei potuto arrivare in tempo.
Bastava solo un po’ di decisione in più.
Con i “se” e con i “ma”, però, non si fa la storia.

119
L’ho sempre pensato e applicato con convinzione in ogni
situazione che la vita mi proponeva:
“È inutile pensare a quello che poteva essere, le cose non
cambieranno”.
I “se” e i “ma” mi sono sempre scivolati addosso.
Ora mi rimangono appiccicati come la pece. Hanno persino
lo stesso colore e la stessa puzza pungente.

Il lenzuolo è pronto per essere attaccato all’anta


dell’armadio. Qualche difficoltà l’hai sicuramente avuta. Il
metodo che stai utilizzando non è molto pratico.
Dopo aver agganciato le fettucce alle asole, devi farle
passare tra le ante e la battuta dell’armadio.
Sarebbe stato meglio prendere chiodi e martello e fissarlo
direttamente sul mobile. Quando mai si sarebbe staccato?
La tua rappresentazione sarebbe stata perfetta:
Stacco di telecamera dal disimpegno verso la tua camera.
In primo piano il protagonista fissato nel momento decisivo e,
sullo sfondo, la parziale soluzione del dilemma.
Una perfetta locandina per un film drammatico.
Non hai avuto remore nel distruggere il tuo borsello, ma non
si può dire lo stesso dell’armadio. Fatico a credere che tu non
abbia pensato di percorrere la via più comoda, quella del
martello e dei chiodi.
Certo, lo avresti rovinato.
E allora?
Non mi dirai che hai pensato che non lo avrei gradito e
quindi hai scartato questa soluzione. Magari c’era altro che
avresti potuto evitare per non darmi un dispiacere.
Che dici?
È tutto pronto per la conclusione.
Hai posizionato il biglietto d’addio e non rimane altro che
farla finita.
120
Tagli il cavo elettrico, lo passi nello scasso per quel cazzo di
condizionatore e posizioni la seggiola.
Sei nel momento decisivo, i dubbi dovrebbero assalirti e
morderti nel petto, lacerandoti le carni tra atroci dolori.
Il dolore è necessario.
Ci segnala quando c’è un problema. Ci aiuta a localizzarlo e
ci dà gli strumenti per risolverlo.
Se non hai dubbi però, non senti alcun affanno. Vuoi solo
farla finita al più presto.

Sei salito sulla seggiola.


Hai fatto il primo nodo al cavo. Quello che lo ancora al
muro.
Hai fatto il secondo nodo al cavo. Quello che lo stringe al
tuo collo.
Hai spostato con i piedi la seggiola per farti spazio,
spingendoti con le mani appoggiate alla parete.
Ti sei lasciato andare.

121
Natale 2013

È Natale. Sono solo.


Non mi hanno rifiutato un pasto caldo o un caloroso
abbraccio di auguri. Semplicemente ho voluto così.
Oggi ho bisogno di stare solo con Nicolò.
Non ho dovuto insistere per ricavarmi questo momento così
intenso. Per fortuna sono attorniato da persone che
comprendono bene cos’è il dolore e la necessità di viverlo
pienamente. Ognuno lo affronta come meglio crede e ogni
modo ha la sua dignità.
Io lo vivo così. Devo affrontarlo col petto in fuori. Non
perché creda che sia il modo giusto per un uomo, quello di chi
“NON DEVE CHIEDERE MAI”, ma perché è solo così che
riesco ad assorbirlo.
È solo così che sento di renderlo fertile, capace di
rinvigorirmi e, chissà, migliorarmi.
Mi fermo sotto l’uscio del disimpegno. Sono nella posizione
ideale per vedere tutta la casa. Un passo avanti e sono in cucina
e soggiorno, uno indietro e sono nelle camere da letto e nel
bagno.
La casa non ha addobbi, non ha l’albero di Natale con le
palline, niente luci che si accendono e spengono.
Ma è così che la voglio oggi.
Non sopporterei fosse diversa da come la vedo. La sua
normalità mi fa stare bene.
Non ho mai sopportato il modo in cui viene festeggiato il
Natale. Non voglio entrare in riflessioni legate alla religione. È
una sfera troppo privata per essere toccata senza il dovuto
rispetto e la necessaria delicatezza. Ognuno di noi deve fare i
conti solo con se stesso. Però mi piacerebbe che il Natale
122
venisse festeggiato anche con il cuore e non solo con il
portafoglio.
È diventato la festa dei centri commerciali.
Gli addobbi li mettevo anch’io, con tanto di albero e palline.
È anche la festa dei bambini e non potevo negartela, Nicolò,
ma ho sempre cercato di farti comprendere quanto fossi
fortunato.
Le classiche perle di saggezza.
Oggi hanno un suono sinistro queste parole.
Le ripeto mentalmente:
“PERLE DI SAGGEZZA”.
È quello che ho sempre fatto.
Fin da piccolo, quando volevo trasmetterti un messaggio,
ecco che le snocciolavo, con una disinvoltura degna del
peggiore dei presuntuosi.
Non credo di averne abusato, ma ogni volta mi guardavi e si
capiva bene quello che pensavi.
“Sì, sì, ho capito! Ma che palle”.
Era il gioco dei ruoli. Io rompevo e tu subivi, ma non tutto
quello che dicevo ti passava da un orecchio all’altro. Qualcosa
si fermava nel mezzo, lo leggevo nei tuoi occhi, e questo mi
dava la spinta per la perla successiva.
Ora, però, le cose sono profondamente cambiate.
Quei momenti, in cui mi ergevo sul piedistallo
dell’autorevolezza, stridono come un pugnale che riga una
lavagna di ardesia.
“Cosa vuoi mai insegnare tu, che non ti sei accorto di avere
un figlio dal cuore spaccato?”
È vero, ma ce l’ho messa tutta.

Mi piace il silenzio. Non accendo nemmeno la TV, eppure è


la prima cosa che faccio quando mi alzo e l’ultima prima di
coricarmi. Ormai sono abituato a sentirla, mi fa compagnia.
123
“Accidenti, forse sto pagando qualche peccato in una vita
precedente. (Sorrido). Certo che devo averlo fatto bello
grosso”.
Quante volte, al telegiornale, capita di seguire distrattamente
vicende tragiche.
Quante volte abbiamo ascoltato col distacco di chi crede di
esserne immune.
“Ma vuoi che la spada caschi proprio sulla mia testa? Siamo
così in tanti”.
Non siamo abituati a pensare che, quando la mano entra nel
sacchetto, potrebbero estrarre proprio il tuo numero.
Sorrido nuovamente.
Questa volta però si arcuano leggermente solo le labbra.
Gli occhi non creano le solite zampe di gallina.
Il resto del viso rimane immobile.
“Certo che ne ho subite di botte al cuore”.
Mio padre è morto nel 1990. Non ha neppure conosciuto
Nicolò.
Mia madre nel 2007.
È stata fortunata. È morta prima lei. Lo amava
visceralmente e non posso immaginarla a vivere una simile
situazione.
Laura.
Mi sta sicuramente guardando con lo sguardo severo di chi
ha provato una profonda delusione. Non punterebbe il dito
accusatore, ma è come se lo facesse:
“Ho fatto tutto il possibile per metterti nelle migliori
condizioni di riuscirci e guarda come è andata a finire”.
Non posso darle torto.
Sorrido ancora, ma con più convinzione del sorriso amaro di
prima.
“Porca puttana! Anche Bin Laden se l’è presa con me”.

124
Essere oggetto di un attacco terroristico, quello del Gazala
Garden a Sharm el Sheik, è stata un’esperienza che pochi
possono vantare.
Che culo.
All’epoca ricordo di aver pensato:
“Più di così cosa può succedermi? Che dici Nicolò? Hai
voglia se è successo altro”.

Quest’anno ci facciamo una bella vacanza.


Destinazione Mar Rosso.
Davanti a noi tutte le alternative.
Dove andare?
Chiudo gli occhi e punto il dito. Gira, gira, gira.
Lo abbasso con decisione:
Sharm El Sheik.
Resort Ghazala Garden.
Dal 22 al 29 luglio 2005.
Mi diverte pensare che sia andata in questo modo.
Alla faccia del fiuto.
Alle 01,15 ora locale del 23 luglio si è verificata
l’esplosione. Un kamikaze ha superato i posti di blocco del
resort, entrando a tutta velocità con una jeep piena di tritolo.
L’esplosione ha disintegrato la hall del Ghazala, un grande
salone con pareti in cemento armato, dove si trovavano la
reception, il bar, l’accesso al ristorante, un salottino di cortesia
e grandi scale che portavano agli alloggi.
Tutto è scomparso nel buio.
Sono stato l’unico a vedere l’effetto che l’esplosione ha
avuto sulla vetrata del balcone, ero ancora sveglio.
La tenda che la copriva si è gonfiata come un air-bag, ma
non è tornata nella posizione originale.
L’intelaiatura, completamente ritorta, la sosteneva.

125
Ancora non so come Ale e Nicolò abbiano potuto non farsi
neanche un graffio. Il loro letto era a pochi centimetri dalla
vetrata.
Per qualche strana ragione avevamo trovato comodo
metterlo proprio lì.
La tenda era di quelle grosse, per non far passare il minimo
raggio di luce, e ha trattenuto le lame di vetro.
Forse qualcuno li ha protetti.
Essere rimasti illesi ha avuto dell’incredibile.
Qualche ora dopo, ripensando al giorno precedente, mi sono
ritrovato a riflettere su quanto tutto sia relativo.
La nostra stanza era nella parte posteriore del resort, lontana
dall’entrata principale. Quando ci siamo resi conto della
posizione ci siamo detti:
“Ma che stanza sfigata ci hanno dato”.
Il panorama era costituito da un campo di calcio e dalla
recinzione in muratura. Lontana dalle piscine, dal bar e dal
ristorante.
Come era diventata bella quella stanza sfigata. Il suo
peggior difetto si era trasformato nel suo maggior pregio.
Eravamo i più distanti dall’esplosione.
Solo il tempo di organizzare i soccorsi e ci hanno radunati
tutti nel campo da calcio.
Quasi sotto al nostro balcone e alla tenda miracolosa.

Ormai viviamo in contatto col mondo in tempo reale e non


ci sorprendiamo quando accadono queste cose. Ci abbiamo
fatto l’abitudine. Le guardiamo con l’occhio distratto di chi è
comodamente seduto al cinema mentre proiettano un film così
così.
Quando sei dall’altra parte del video, sei talmente sorpreso,
talmente impreparato, che cadono tutte le corazze che ti sei
faticosamente costruito giorno dopo giorno.
126
Quelle corazze sono fatte per difenderti da eventi “normali”.
L’attacco di Sharm non lo è stato.

Non abbiamo capito subito che si trattava di un attentato.


Abbiamo pensato a una bombola del gas o a qualcosa del
genere.
Come potevamo pensare a Bin Laden?
Quando ce lo hanno confermato, siamo stati tutti travolti da
un enorme senso di insicurezza.
Ci sentivamo come un’esca preparata per attirare il
predatore.
Sei bloccato.
Non puoi scappare.
Quando arriverà sarà la fine.
Da quel momento in poi avevamo l’impressione che dietro
ogni muro, nascosti nell’ombra, ci fossero i terroristi pronti ad
ultimare il lavoro.
Era una sensazione generalizzata. A ogni minimo rumore
esterno al campo da calcio, dove ci avevano radunati tutti, si
alzava un silenzio istantaneo e totale.
Insomma, è stata una notte complicata. Mi sentivo come una
mamma che rizza il pelo per difendere i suoi cuccioli.
Avvertivo la piena responsabilità di portare tutti a casa e di
proteggerli da situazioni che sarebbero state difficili da
dimenticare.
Accidenti! Eravamo in sei, io, Susi, Arianna, Elisa
(un’amica dell’Ari), Nicolò e Ale.
Non sarebbe stato semplice.
Ricordo una donna sulla cinquantina che cercava il marito,
diceva che era andato al bar e non era tornato.
Il bar non esisteva più.
Ho provato a tranquillizzala, ma non era possibile.
L’ho lasciata.
127
Non potevo permettermi di coinvolgere tutti nella sua
disperazione.
Ho ripensato spesso a quella situazione. Sono stato egoista?
Menefreghista? Tornando indietro rifarei la stessa scelta?
Potevo aiutarla comunque?
Non lo so. In certi momenti hai poco tempo per riflettere.
Non puoi permetterti distrazioni. Conta solo raggiungere
l’obiettivo.
Non importa se ti senti un uomo di merda.
Per fortuna il marito non era andato al bar della hall, ma a
quello dall’altra parte della strada.
Lo abbiamo saputo solo al mattino.
La notte è trascorsa senza grosse sorprese. Non abbiamo
assistito a scene traumatiche e siamo stati ben assistiti dal
personale rimasto del resort.
Ci hanno portato materassi e coperte, ma la notte è stata
lunga e il disagio grande.
Come poteva non essere così?
Il comportamento di tutti è stato esemplare. Dalle ragazze
potevo aspettarmelo, ma i bambini erano piccoli ed ero
convinto di doverli consolare tutta notte.
Si saranno addormentati e risvegliati almeno una decina di
volte, ma non si sono mai lamentati.
Nicolò aveva nove anni e Ale cinque, ma i bambini sanno
perfettamente quando possono fare i capricci.
Quello non era il momento.

Dopo una giornata di trasferimenti e attese, siamo arrivati


all’aeroporto di Milano alle 2.30 del mattino.
Stanchi, ma contenti di aver messo piede in territorio
italiano.
Siamo in attesa delle valigie.

128
A mano a mano che comparivano sul nastro trasportatore, si
diradava sempre più il capannello dei viaggiatori in attesa.
Il nastro è vuoto e siamo rimasti solo noi.
“Ci manca solo che abbiano perso le valigie”.
Sembrava una continua sfida alla voglia di imprecare contro
il mondo, ma in fondo eravamo quasi a casa.
Il resto non contava.
Le valigie compaiono miracolosamente.
Ci pareva di sentire una vocina pizzicare la nostra
impazienza:
“Avete visto? Basta avere fede e le cose si sistemano”.
Usciamo.

I giornalisti!
Non avevo pensato ai giornalisti.
Quante volte avevo visto in TV le interviste agli scampati da
qualche catastrofe.
A volte mi è anche capitato di provare un po’ di invidia.
Erano lì senza aver subito conseguenze e finivano sulle
maggiori reti nazionali.
Ai miei tempi era un avvenimento comparire in TV.
In quel momento non avevo voglia di affrontarli. Volevo
solo arrivare al pullman per giungere a casa nel più breve
tempo possibile.
Sono uscito a mano con Nicolò, gli altri erano pochi passi
dietro. Mi sono trovato una luce puntata negli occhi. Così forte
da non riuscire a vedere chi avevo davanti.
Il giornalista:
“Avete avuto paura?”
“NO! Perché paura? Se ci fossi stato anche tu, sono
convinto che ti saresti divertito un mondo. Dopo i primi fuochi
di artificio, avresti potuto finire la serata con un africano
superdotato”.
129
Così avrei voluto rispondergli.
Ma che razza di domanda è? Se già ero maldisposto, dopo
quell’uscita lo avrei mandato tranquillamente a quel paese. Ma
in fondo sono di animo gentile.
L’ho liquidato rapidamente.
Non siamo stati tra quelli trasmessi nei TG nazionali.
E tu Nicolò?
Tu cosa ne pensavi?
Qualche giorno dopo mi hai confessato che ti sarebbe
piaciuto comparire in TV. Avresti preferito che rispondessi in
modo ruffiano, così da essere tra i prescelti per le trasmissioni
di tutta la settimana successiva.
Mi brucia Nicolò. Tanto.
Non perché non mi sia comportato come avresti preferito o
perché tema che il trauma dell’occasione fallita ti abbia
perseguitato per tutti gli anni successivi.
Il fatto è che non ho considerato il tuo punto di vista.
Quando mai poteva capitarti un’occasione simile?
Potrei mentire e dirmi che non ci avevo pensato.
Non è così.
Sentivo quello che avresti preferito, ma hanno prevalso la
stanchezza e le stupide domande di un giornalista da
parrocchia.

Questa è la vita.
Dobbiamo prenderla come viene.
Non si può riconoscere la gioia se non si passa per la
sofferenza. Se riusciamo a capirlo, potremmo persino imparare
ad allentare quel nodo che ci stringe la gola, quando le cose
prendono una brutta piega.
Ogni tempesta disperde semi che coglieranno l’occasione
per germogliare. Se ci fosse sempre bel tempo cadrebbero tutti
nello stesso posto rubandosi la possibilità di crescere.
130
Sì, sì. Sarà anche così, ma se arriva un bell’incendio, che
fine faranno quei semi? Bruciati irrimediabilmente come tutto
il resto.
I nodi alla gola non sono tutti uguali.
Questa proprio non la mando giù.
Non so neanche definire quello che si aggira ancora tra il
cervello, il cuore e lo stomaco. Sono passati sei mesi e c’è
ancora molta confusione.
L’unica cosa di cui sono certo è che non si tratta di una cosa
naturale. I figli devono andare al funerale dei genitori e non
viceversa.
È una cosa troppo grande.
Troppo più grande di noi e della nostra capacità di
comprendere.

Non siamo mai riusciti a comunicare “veramente” con le


parole. Privilegiavi la comunicazione interpretativa. In pratica
non eccepivi mai alle mie sollecitazioni, se non per chiarire
aspetti molto superficiali.
Hai sempre preferito un cortese atteggiamento di
noncuranza.
Mi incastravi nel ruolo di interprete indovino, con il compito
di guardarti nel profondo degli occhi nel tentativo di
raggiungere la tua anima.
Forse esistono persone in grado di farlo.
Io, no di certo.
I modi per comunicare sono infiniti e quindi, partendo dal
primo, troverò pur quello giusto.
Non importa se dovrò utilizzare il tam tam o i segnali di
fumo.
Ho sempre creduto nella straordinaria efficacia del buon
esempio. Ci provano tutti, mi rendo conto, ma io intendo dire

131
che ho cercato di farne una vera ragione di vita. Prestavo
particolare attenzione a non cadere in contraddizione.
Quante volte capita di avere un comportamento adeguato
per lunghi periodi e bruciarsi tutto per un colpo di testa. Magari
ampiamente giustificato dalle circostanze, ma non conta, ti fa
perdere la faccia. È un meccanismo spietato che non consente
eccezioni.
Ho partorito anche altri sistemi intelligenti.
Come mi sentivo illuminato quando studiavo il modo, non
riuscendo a sfondare al centro, di superare l’ostacolo con una
calibrata manovra di accerchiamento.
“Eh sì Nicolò, tu sei un duro, ma il tuo papà la sa lunga”.
Ho cominciato a suonare la chitarra per coinvolgerti nel
mondo della musica. Un mondo ricco e stimolante. Una
passione che, se ti prende, non ti molla per tutta la vita.
Ho suonato per sette anni.
Mi hai sentito farlo mille volte.
Non te ne è mai fregato niente.
“Cavolo! Forse sono state proprio le mie performance a
stimolarti nel modo sbagliato”.
So che non è così, è stata solo una battuta che ha preso
corpo all’improvviso e mi ha strappato un sorriso. Però, ancora
una volta, mi sbatte in faccia la fragilità delle mie illusioni.
Come per la chitarra, mi sono mosso anche su molti altri
fronti. L’intento era sempre quello. Aprirti il ventaglio delle
opportunità. Illuminandolo bene, per aiutarti a scegliere la
strada più adatta alle tue scarpe e alla tua voglia di correre.
Non ho mai creduto nella figura del papà-amico.
Sono ruoli incompatibili.
Ciò non toglie che si possa cercare di essere un po’ uno e
po’ l’altro. Impresa non da poco, di quelle da medaglia d’oro.

132
Devi cedere su alcune cose, lasciando intendere che per altre
non esiste possibilità di compromesso. Un amico può esserti
complice al 100%, un papà no.
Un papà deve imporre dei confini.
So bene che li supererai. È normale. Anzi, non mi auguro
certo che tu mi segua a bacchetta. Scavalcare le recinzioni aiuta
a crescere, ma deve trattarsi di eccezioni.
Riuscire a camminare sul filo tagliente della complicità al
50%, senza farsi male, ha del sovrannaturale, ma il gioco vale
la candela.
In tante occasioni ti ho assecondato.
In altrettante mi sono proposto.
Non ho mai ottenuto granché.
Non dico che gli scarsi risultati siano dipesi solo da te, come
se fossi refrattario per costituzione genetica. La mia incapacità
di cogliere nel segno si è dimostrata al di là di ogni ragionevole
dubbio.
Quando avevi 15 anni ti ho regalato una scatola di
preservativi. Volevo solo che capissi che erano importanti, ma
mi pareva anche un modo per accorciare le distanze.
Mi hai guardato come se te li stesse dando un amico e con
l’espressione vanitosa di chi vuol far intendere che gli
serviranno proprio quella sera.
“Grazie”.
Li hai portati in camera e hai ripreso l’attività che avevi
interrotto.

133
Tutti a scuola

Il tempo scorre lento, ma ormai l’estate è alle porte e si


prepara a rinnovare tutto il suo bagaglio di ricordi e di
angoscia.
Siamo in aprile.
Lo scorso anno, io e la Susi chiudevamo l’esperienza della
“SCUOLA PER GENITORI” proprio in questi giorni.
Un ulteriore tentativo di trovare spunti illuminanti.
Mi ero detto:
“Cosa c’è di meglio di un corso accelerato per genitori in
crisi di nervi?”
Si è trattato di cinque incontri con psicologi di fama
consolidata, dove si sviscerava il tema dell’adolescenza e
dell’educazione dei figli.
Mi sono iscritto in tempi non sospetti. Nicolò non era ancora
scappato di casa e quindi, una volta scoperto il calderone, il
corso è sembrato incastrarsi alla perfezione.
Mi sembrò un vero colpo di fortuna:
“Cavolo! Arriva proprio al momento giusto, se non riesco a
portarlo dallo psicologo vorrà dire che ci andrò io per lui”.
Avevo mille perplessità e temevo le risposte che mi
avrebbero dato, ma l’obiettivo era troppo importante.
Dovevo capire dove stavo sbagliando.
In quegli incontri ho ammirato particolarmente due
psicoterapeuti, che già conoscevo per averli visti più volte in
alcune trasmissioni TV: Paolo Crepet e Maria Rita Parsi.

134
Ascoltarli mi ha sollevato non poco. Mi trovavo d’accordo
su tutta la linea e mi pareva di aver sempre (o quasi) messo in
pratica i criteri che stavano illustrando.
E quindi?
L’ingannevole sensazione dei primi momenti ha lasciato il
posto a un inatteso senso di smarrimento. Sarebbe stato meglio
trovarsi una pagella piena di insufficienze. Mi avrebbe aiutato a
capire su quali aspetti dovevo intervenire.
Nel primo incontro, come relatore, c’era un professore
dell’università di Padova. Non sono rimasto colpito dal suo
intervento, ma ha raccontato un aneddoto che mi ha fatto
pensare molto: un genitore, che era in terapia da lui, aveva
problemi di comunicazione con il proprio figlio e la cura che
gli ha consigliato è stata quella di partire, loro due soli, per
qualche giorno di vacanza.
Mi è parsa subito un’ottima idea.

Partiamo il 9 aprile, destinazione Cortina d’Ampezzo.


Hanno allungato la stagione per l’abbondanza di neve che
ancora ricopre le piste e cogliamo l’occasione per sfruttare
proprio l’ultimo giorno di apertura.
Ci siamo preparati con comodo, ci piaceva così, e arriviamo
in hotel per l’ora di pranzo. Le piste sono aperte anche il
pomeriggio, c’è tutto il tempo di stancare le seggiovie.
Fin dalla partenza ho avuto la netta sensazione di aver fatto
una buona scelta.
Ti vedo sereno.
Parli come non hai mai fatto. Sembra la classica ciliegina
sulla torta di un buon periodo in cui ti ho visto migliorare
costantemente. Finalmente intravedo qualche spiraglio nella
roccaforte dei tuoi sentimenti.
Troviamo una giornata stupenda, cielo leggermente coperto,
ma temperatura e piste perfette.
135
A pranzo ci fermiamo in una baita a bordo pista. Avremmo
dovuto stare leggeri e iniziare subito a sciare, ma siamo due
goderecci e quindi mangiamo abbondantemente: primo e
secondo innaffiati da un buon mezzo litro di birra.
Tu vai ad acqua di rubinetto, siamo in montagna e qui è
buona anche quella.
A tavola ce la spassiamo. Si scherza e si pregusta la vacanza
appena iniziata.
Sono convinto sempre più di aver fatto una buona scelta.
Il pomeriggio siamo in pista.
È l’ultimo giorno di apertura impianti e, anche se le
condizioni sono perfette, ci siamo solo noi e qualche capriolo.
Possiamo buttarci giù senza alcun timore.
Un pomeriggio goduto alla grande, anche se avevamo la
pancia piena (o chissà, forse proprio per quello).
La sera a cena scendiamo nella sala ristorante dell’hotel.
Siamo gli unici occupanti.
Ci siamo rifocillati ben bene, ma abbiamo soprattutto
parlato. Non ti avevo mai visto così attento, così curioso, così
desideroso di condividere.
Mi hai chiesto come erano stati i primi tempi con la
mamma, chi aveva preso l’iniziativa e da cosa avevo capito che
le piacevo. Abbiamo parlato anche di noi, della scuola e delle
tue intenzioni per il futuro.
La sofferenza dei mesi precedenti sembrava averti donato
una maggiore consapevolezza.
Non tutti i mali vengono per nuocere.

Tornati a casa hai continuato a comportarti come quella sera


a Cortina. Un piccolo passo, giorno per giorno, e sempre nella
direzione giusta.
Il mio bimbo sta diventando uomo.
Finalmente parleremo guardandoci negli occhi.
136
Non devo avere fretta.
Ogni giorno ti guardavo e questo era quello che vedevo e di
cui mi convincevo sempre più.
Il mio cuore era gonfio di gioia.
Mai illusione è stata più grande.

137
19 giugno 2014

Oggi è un anno.
Un anno vissuto senza te.
Non è esatto, continuo a sentirti al mio fianco. Continuo a
sentire la tua forza, quella che mi permette di salire su pendii
che diversamente mi sarebbero improponibili.
Non so dove tu sia in questo momento. Chi crede ha la
fortuna delle proprie convinzioni, chi non crede li invidia.
Sono arrivato a cinquantatre anni senza avere idee precise
sull’argomento, come su tante altre cose per fortuna.
Non riesco a credere solo perché mi hanno detto di fare così
sin da bambino. Non posso chiudere gli occhi davanti
all’incongruenza di mille religioni, una diversa dall’altra, che
spadroneggiano in giro per il mondo. E ogni credente di questa
o quella è convinto che la sua sia quella giusta.
Più si è in difficoltà e più si cerca un aiuto, da qualunque
parte arrivi. La religione serve ad aiutare i popoli a controllare
le proprie paure e in tanti hanno approfittato di questo enorme
potere. Gli stessi che hanno costruito i vari testi sacri.
Le religioni sono un prodotto dell’uomo.
È dunque solo questo?
Si tratta solo del risultato del disorientamento di questo
essere che non capisce la ragione della sua unicità?
Siamo figli di un’enorme botta di culo che ha fatto scoccare
una scintilla che aveva quell’unica possibilità?
Non credo.
Sono convinto che l’anima esista e che ci sia un mondo
dopo la morte, solo che nessuno è mai tornato per
raccontarcelo.
138
Sarà per questo che continuo a sentirti al mio fianco?
Ho così tanto bisogno di credere solo per dare un senso alla
mia vita?
No.
Non sei un ologramma che si specchia nei miei ricordi. In
questo anno come avrei potuto ricostruirmi, un pezzettino dopo
l’altro, con l’abilità e la pazienza di un certosino? Non ne ho il
carattere e la mia capacità di sopportazione è decisamente
limitata. Lo sai bene. Avrei già buttato il puzzle giù per il
water, tirando subito lo sciacquone per evitare ripensamenti.
No Nicolò. Qualcuno ha soffiato nella mia direzione.
Chi, se non tu?
Sono un uomo fortunato. Sì, è vero. Sono fortunato perché
ho tante persone intorno che mi sorreggono e mi spingono a
ritrovare me stesso, ma sarebbe un tentativo inutile senza un
aiuto sovrumano.
Il tuo.
Se la fortuna ha girato le spalle a qualcuno, quello sei stato
tu. Quel giorno tutto ha congiurato per portarti a fare quel gesto
irrecuperabile. Bastava poco per farti aprire gli occhi.
Quel poco che non è mai arrivato.
Quel poco che se n’è andato a braccetto con la fortuna.
Con testardaggine hai fatto la tua scelta. Però, diciamocelo
Nicolò, ora puoi ammetterlo: hai fatto una bella cazzata. Avrai
anche trovato quella tranquillità che qui ti era negata, ma hai
bruciato l’unica possibilità che avevi di riempire questo
passaggio terreno.
Oggi avrai capito che quaggiù era il caso di fare altri quattro
passi.

Per molto tempo non sono riuscito ad apprezzare quelle cose


che ti fanno sentire vivo. Non intendo dire solo cose
fondamentali come l’amore per la tua donna e per le persone
139
che ti sono più vicine. Intendo quelle sensazioni di benessere
che ti sono regalate da una bella giornata di sole, da un alito di
vento che ti rinfresca in un momento di calura, da una sana
risata dopo una battuta travolgente. Insomma, tutte quelle cose
che ti riempiono il cuore, rinforzandolo per gli scontri più
difficili.
Da qualche mese mi capita di riprovare quelle sensazioni.
Appaiono molto timidamente, quasi che si vergognino a farsi
vedere. Non riesco ancora ad assecondarle. Non appena mi
accorgo che stanno arrivando, mi giro dall’altra parte e faccio
finta di non vederle. Le stoppo sul nascere.
Vergogna?
Sì, è proprio quello che provo. La vergogna di chi non ha
ancora capito se sia giusto continuare a vivere nonostante tutto.
La mia testa dice di sì. Devo farlo per la Susi, per Arianna, per
Alessandro, per … per … ma in realtà non ho ancora accettato
l’idea di doverlo fare anche per me stesso.
Ogni piacevole sensazione è un segnale ben preciso. Il
ghiaccio di cui sono prigioniero si sta sciogliendo e devo
imparare a pensare che non è uno sfregio a te se mi ci
abbandono.
Più facile a dirsi che a farsi.
Ogni volta che ci ho provato, non ho potuto trattenere le
lacrime. Troppo forte è stato il dolore, così diretto, così
profondo, così sincero, per quel piacere così intenso che a te
sarà negato per sempre.
Come posso non essere travolto dalla malinconia.
Avevi una vita intera in cui giocare le tue carte. Ti sei alzato
da quel tavolo troppo presto. Avrai anche avuto in mano solo
una coppia, ma sarebbe stato meglio aspettare il giro
successivo.
La fortuna non ha figli e figliocci, prima o poi un bacio lo dà
a tutti, basta aspettarla.
140
Continuando a giocare, avresti anche potuto imparare a
vincere con quella misera coppia, perché l’importante non è
avere le carte migliori, ma giocarsele bene.
Da che pulpito viene la predica.
Io stesso ho rischiato di cadere mille volte.
Quante volte, nelle sere in cui tornavo a casa dopo una
serata con gli amici, mi sono ritrovato a guardare con desiderio
il platano che si ergeva al centro della curva. Un platano che
non avrebbe minimamente risentito dello schianto, tanto era
evidente la sua forza.
Le braccia sembravano bastoni vincolati al sedile. Strumenti
indifesi al canto di quelle sirene che mi invitavano ad
assecondare la naturale tendenza dell’auto a proseguire diritta.
Era un canto traditore?
Certamente.
Come sempre, quando vedi una scorciatoia, sei invogliato ad
imboccarla, ma la strada più corta è sempre la più sconnessa.
Corri il rischio di scivolare.
Fissavo il platano, illuminato dai fari, con tale intensità che
la sagoma si sfuocava sino a farlo sembrare un sole pronto ad
inghiottirmi.
Forse avevo il pilota automatico inserito.
Ho sempre seguito la linea bianca sul centro della
carreggiata.

Qualche anno fa, avrai avuto dodici o tredici anni, mi hai


confessato di quanto ci fossi rimasto male per un mio
comportamento di qualche anno prima. Avevi quattro anni, la
mamma ci accompagnava e quindi focalizzo bene il periodo.
Eravamo al carnevale, quello di Ferrara, con tutti i carri che
si snodavano per le vie del centro cittadino.
Mi ero messo in mezzo al gruppone ad aspettare che
tirassero i palloni dai carri per cercare di prenderne uno.
141
Impresa non da poco.
Sembrava di stare attorno ai convogli degli americani alla
fine della guerra. Loro tiravano alla popolazione gallette e
cioccolata e la lotta per accaparrarsele era feroce.
“Porca puttana!”
Lì buttavano caramelle e palloni da cinquecento lire. Ci sarà
pure una differenza.
Oramai ero convinto che l’unico modo di accaparrarmi il
prezioso pallone fosse quello di farmelo recapitare direttamente
a casa.
Senza rendermene conto mi sono trovato in mezzo al gruppo
dei bambini, unico adulto, ed ecco il miracolo: lo tirano
direttamente nelle mie mani. È bastato alzarle leggermente e
opplà… l’agognato trofeo era indiscutibilmente mio.
Mi sentivo l’eroe del focolare.
Appena afferrato il pallone ho abbassato lo sguardo e me ne
sono accorto. Ero attorniato solo da bambini con le braccia
alzate. Erano certi di poterci arrivare prima degli altri, ma non
hanno fatto i conti con un omone alto il doppio di loro.
Mi sembrava di averli derubati.
Mi sono sentito mangiafuoco in mezzo alle sue marionette e
l’ho lasciato andare immediatamente, senza riflettere.
È stato un gesto istintivo, ma ho avvertito immediatamente
quel senso di disagio che si presenta quando fai una gran
fesseria. Ho cercato il tuo sguardo nella speranza di essere
passato inosservato. Figuriamoci. In quel momento ero il tuo
principale obiettivo.
Ho sbagliato Nicolò?
Certamente.
Ho sbagliato a non fare attenzione, posizionandomi in
mezzo ai bambini.
Ho sbagliato a lasciargli il pallone, non tanto perché non
fosse giusto, ma perché dovevo capire che a quattro anni
142
avresti visto solo che il tuo papà stava regalando agli altri il tuo
desiderio più ambito.
Chissà in quante altre occasioni ti ho deluso. Fatico ad
accettare l’idea che non sia stato proprio io, con i miei errori, a
provocare l’effetto a catena che ti ha portato al suicidio anni
dopo. Un effetto domino che non sono riuscito a fermare
perché sono stato cieco e sordo.
Sarebbe bastato guardare più attentamente e togliere un
tassello dal percorso al momento giusto.
Quel tassello è rimasto al suo posto.

Può un automobilista distratto perdonarsi per le morti


che ha causato?
Magari guidava mentre rispondeva al telefono o cercava
un biglietto nel portaoggetti. Magari stava leggendo il
nome di una via: VIA DEL MARE… e
PADAPAMM.
La sua vita non sarà mai più quella di prima.
Stava già pregustando una bella giornata di sole da
passare con gli amici. Magari c’era anche una ragazza
che lo aspettava.
Pensieri.
Sogni.
Ha il sole in faccia. Il suo calore e la sua luce esaltano le
sue aspettative, sono come un soffio d’aria sulle braci del
camino.
Lo fanno sentire vivo.
PADAPAMM!

Potrò mai perdonarmi gli schiaffi che ti ho dato?


Non erano frequenti, ma si facevano sentire bene. Non ho
mai sopportato l’idea che passasse il messaggio del: “posso
fare ciò che voglio, tanto non temo la punizione”. Ho sempre
143
pensato che fosse un errore la sberla che accarezzava le
natiche.
O la dai o fai a meno.
Io la davo.
Non ti ho mai dato un secondo schiaffo, il primo era più che
sufficiente. Te lo dico una volta, accetto la seconda, alla terza
devi sperare che sia distratto.
Mi tornano in mente come in una catena di montaggio. A
tempi prestabiliti si ferma al mio fianco il carrello dello
schiaffo del giorno. Non mi molla la sensazione che ognuno di
quelli potrebbe aver spinto il primo tassello.
Rivedo tutto con una precisione mnemonica che mi
sorprende. Ricordo bene le ragioni e le frustrazioni che mi
hanno portato a comportarmi come oggi non vorrei.
Nella maggior parte dei casi ero onestamente convinto di
farlo per il tuo bene. Dovevo difendere le regole del Codice di
Procedura Vecchiattini. Non erano troppo rigide, ma dovevano
essere rispettate.
Oggi è tutto illuminato da una luce diversa.
Una luce che non permette di distinguere bene i contorni.
Non perché fioca e insufficiente, ma perché troppo intensa e
sparata violentemente all’altezza degli occhi. Due fari
abbaglianti che offuscano tutto quello che c’è dietro.
È lì che vorrei correre con lo sguardo, in quella zona
d’ombra irraggiungibile. Chissà, prima o dopo i fari si
abbasseranno e riuscirò a distinguere meglio cosa
nascondevano.
Chissà.
Di una cosa però sono sicuro. Non posso nascondermi dietro
a un dito e di sicuro non posso farlo con la mia coscienza.
Vorrei convincermi di non essere stato un prepotente che
imponeva la sua legge, solo perché era grande e grosso. Vorrei

144
convincermi di avere avuto sempre e solo nel mirino la tua
educazione.
Falso.
È successo tante volte che ti ho sgridato più di quello che
meritavi.
È successo tante volte che ti ho dato una sberla esagerata per
la marachella del giorno.
È successo tante volte che ho messo in dubbio le tue parole,
per poi scoprire che dicevi il vero.
Anch’io sono un uomo con tutto il suo corredo di debolezze
e non sono riuscito a limitarle.
“Avrei dovuto, cazzo! Avrei dovuto”.

Come sono stati gli ultimi istanti?


Quelli in cui eri in piedi sulla seggiola e con la corda al
collo? Provo a immedesimarmi, ma credo di capire solo quello
che ti ha portato in quella scomoda posizione.
La mossa successiva mi appare totalmente incomprensibile.
È quella più difficile.
Quella che fa la differenza.
Quando il tuo cervello darà l’impulso ai muscoli delle
gambe, ti rimarrà un solo attimo e poi il nulla.
Cavolo! Sei nella tua stanza. Sei attorniato dai tuoi ricordi.
Ora non pesano nulla quei momenti?
Sono proprio così inconsistenti da non farti venire il minimo
dubbio?
Come è possibile?
La tua camera era il bozzolo in cui sei nato e con cui hai
condiviso tutto.
La sentivi vicina. Ti proteggeva.
Si capiva dall’attenzione che mettevi nel posizionare le tue
cose.

145
Non eri certo ordinato, anche tu avevi l’angolo del disonore.
Quello in cui si butta tutto alla rinfusa, ma alle cose a cui tenevi
riservavi un posto speciale.
Mi è capitato di chiederti se potevo buttarne alcune ormai
imbruttite dal tempo e in procinto di sgretolarsi.
Sembrava quasi che fossero loro stesse a chiederlo:
“Tiratemi giù! Ho maturato la pensione".
Ma tu preferivi averle attorno a te, come quel lavoro che
avevi fatto all’asilo. Raffigura la maschera sorridente di un
pagliaccio e ti piaceva tenerla in bella vista attaccata all’anta
dell’armadio.
L’abbiamo rammendata con del nastro adesivo, ma è
rimasta al suo posto.

Sono convinto che su cento che si trovano in quella


posizione, solo uno trova il coraggio di buttarsi.
Cos’è che fa la differenza?
Il coraggio? La vigliaccheria? La perdita di ogni speranza?
Un tic nervoso che provoca uno scatto muscolare quanto
mai inopportuno?
Ebbene si, ho pensato anche a questo. Sono anche convinto
che in tanti casi sia andata proprio così. Nel momento decisivo,
ecco l’imprevisto che ti frega e non ti consente di fermarti e
asciugarti la fronte per lo scampato pericolo.
Non ti è stata data la possibilità di sfuggire al tuo destino.
Ancora oggi, dopo tutto quello che è emerso, mi trovo
totalmente disarmato al cospetto dell’inclemente stato di fatto:
l’amore che ti circondava non è stato sufficiente a proteggerti.
Non è stato in grado di arricchirti di quegli anticorpi che ci
difendono dal germe della follia. Quella che, se supera le nostre
difese anche per un brevissimo attimo, può distruggerti la vita.
È un mistero che nessuno sarà mai in grado di svelare.
L’uomo non è solo muscoli, ossa e cervello. È molto di più.
146
Passeranno gli anni, i secoli e i millenni.
Chissà dove arriveremo.
Se non ci distruggeremo prima potremmo persino sfiorare
l’eternità, ma non riusciremo mai a scoprire cosa si nasconde
dentro l’animo umano. Quello è uno spazio dove si parla
direttamente con Dio e nessun altro uomo, per quanto evoluto,
sarà mai in grado di entrarci.
Vogliamo chiamarla Anima?
L’anima è dentro di noi e ci caratterizza dal momento della
nostra nascita. Però non bisogna pensare che quella abbiamo e
quella ci teniamo. Bisogna curarla ogni giorno come si farebbe
con una di quelle piante delicatissime che necessitano di mille
attenzioni.
Giorno dopo giorno.
È lì che dovevo aiutarti.
Dovevo trovare il modo di stimolarti nelle cure quotidiane.
Saresti stato più forte. Forse avresti resistito alle onde di quel
mare che ci mette costantemente alla prova.
Non è stato così.
Non hai superato quel vuoto che ti impediva di respirare
quando lei non c’era.

Il mio senso di colpa non si è affievolito di molto in questo


anno e credo che non lo farà neppure in quelli a venire. Mi
ripeto in continuazione che l’impegno è stato totale, ma non
riesco a convincermi.
Potevo e dovevo fare di più.
Non sono riuscito a farti capire che “AMORE” non è solo
un sentimento che ci colpisce in fronte quando incrociamo gli
occhi giusti. È qualcosa che ci travolge in mille forme diverse e
che, proprio per questo, ci aiuta a resistere quando ne perdiamo
una.
Ma si può insegnare cos’è l’amore?
147
Non so.
Non sempre è facile riconoscerlo. Alcuni hanno la fortuna di
nascere predisposti, altri lo cercano inutilmente tutta la vita.
L’hai messa su un piedistallo irraggiungibile. Hai sognato di
legarti a lei per tutta la vita e, alla fine, non hai trovato altra
strada che questa.
Te lo confermo Nicolò.
Hai raggiunto il tuo obiettivo.
Ormai siete uniti da un legame indissolubile. Dubito però
che ti ringrazierà per questo.
Dovrai fare i conti con un bel po’ di persone, quando verrà il
momento. Prepara delle buone argomentazioni, perché ho il
sospetto che non te la caverai facilmente.
È troppo il dolore che hai lasciato quaggiù.

Il giorno del tuo funerale ho voluto fare il discorso di addio.


Troppo forte era l’esigenza di fare due chiacchere con te in
quel contesto. Ti immaginavo seduto a gambe incrociate sulla
tua stessa bara, pronto a prendere il volo appena finita la
funzione. Ti avrei parlato altre infinite volte, ma lì era diverso.
Il tuo corpo e la tua anima erano ancora insieme.
Non sono abituato a parlare di fronte a tanta gente, ma non
ne sentivo il peso. Il problema era piuttosto il fatto che sono
della categoria di quelli che non riescono a parlare in certi
momenti. Sono sempre sopraffatto dal pianto.
Non mi sono preparato il discorso. Non mi ha mai sfiorato
l’idea di parlarti dei sentimenti del giorno prima. Avevo la
necessità assoluta di guardarti negli occhi con il cuore in mano.
Non è stato facile, ma, dopo il groppo in gola che mi ha
soffocato alla prima parola, tutto si è sciolto come per incanto.
Sono riuscito a esprimere, come meglio non avrei potuto,
quello che mi proponevo e raggiungere (almeno lo spero) gli
obiettivi che mi ero prefissato.
148
Ci hai messo lo zampino tu?
Sì. Sono convinto che non sarei riuscito senza il tuo aiuto.
Già dal giorno successivo alla tua morte, ho avvertito che il
dolore era per tutti, ma il senso di colpa doveva essermi
riservato. Non riuscivo a sopportare il pensiero che altri
potessero provare quello che provavo io, senza averne alcuna
responsabilità.
Non sapevo bene chi potesse essere coinvolto in questo
assurdo gioco di responsabilità assunte e negate, ma ero certo
che chi ti era stato più vicino, soprattutto negli ultimi tempi,
non potesse essere esente da questo sentimento.
Non avevo la presunzione di risolvere tutto con due parole
miracolose, ma sentivo il bisogno di condividere il mio
pensiero, nella speranza di portare qualche giovamento.
Lo dovevo ai tuoi amici, alle tue amiche e ai tuoi insegnanti,
ma lo dovevo soprattutto a lei, che porterà sulle spalle un peso
che non ha meritato.
Quando mi sono girato verso i partecipanti alla funzione,
non ho visto occhi, bocche, acconciature, giacche e camicie.
Ho visto solo sagome bianche inanimate. I corpi si
mescolavano tra loro con contorni fortemente sfumati.
Risaltava solo l’ovale della testa.
Ho pensato spesso alla stranezza di quella visione.
Ho parlato soprattutto per i ragazzi presenti, per cui non è
stato un tentativo inconscio di isolarmi, come per sfruttare
quell’ultima possibilità di parlarti a quattr’occhi.
Mi piace pensare che i miei occhi non vedessero perché eri
tu a parlare attraverso il mio corpo e la mia bocca.
Ho ascoltato tutta la funzione tenendo gli occhi chiusi.
Quando li aprivo avvertivo nitidamente che perdevo dei pezzi
qua e là.

149
Con gli occhi chiusi non ho perso una sola parola, un solo
fruscio, un solo colpo di tosse o un minimo brusio nel silenzio
totale delle pause liturgiche.
Ero come un cieco dalla nascita. I suoi occhi sono le
orecchie, il naso, i peli sulla pelle che vibrano al minimo
spostamento d’aria.
Con gli occhi chiusi ci vedevo benissimo.
Eri lì, chiuso in quella bara di legno e ferro e io non riuscivo
a pensare ad altro che alla vita che non vivrai.
Non mi è facile, ma devo ammettere che riesco ancora ad
apprezzarla persino io.
Certamente dovrò fare i conti con quello che è stato. Non
vivrò mai più una vita intera. D’ora in poi sarà solo una vita a
metà. Tutto ha un sapore diverso, ma il mio palato ne distingue
ancora le differenze.
Il giorno del tuo funerale ti ho detto una cosa che vale anche
oggi e varrà sino all’ultimo dei miei giorni:
“Comincia a correre ora, perché, quando arriverò anch’io, ti
rincorrerò e ti darò tanti di quei calci nel culo che farai fatica a
sederti per un bel pezzo”.
Dopo sarà il momento più atteso di una vita intera, quello in
cui ti riabbraccerò e ti stringerò fino a farti perdere il respiro.

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Sommario

Introduzione 1
6 ottobre 2013 4
19 settembre 2001 9
La scuola 26
Susi 35
07 gennaio 2013 41
26 gennaio 2013 58
19 giugno 2013 65
Il giorno dopo 73
Il diario 82
La dedica 95
Il cellulare 106
25 novembre 2013 113
Natale 2013 122
Tutti a scuola 134
19 giugno 2014 138

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